Gli amici di Sasà, “l’attore” morto durante le rivolte in carcere, vogliono sapere cos’è successo di Manuela D’Alessandro agi.it, 21 giugno 2020 “Noi amici teatranti di Sasà siamo tanti e siamo indignati e chiederemo a gran voce che si faccia un po’ di luce nel buio di quelle notti della democrazia, del diritto, della dignità, della Costituzione”. Ha interpretato Pinocchio, il “vecchietto” del “Rovescio e diritto” di Camus, veniva anche pagato per recitare nella compagnia del teatro del carcere di Bollate che si è esibita sui palcoscenici italiani più importanti. Salvatore Cuono Piscitelli aveva 40 anni, era una delle 13 persone detenute, lui per furto e utilizzo di una carta di credito rubata, che, tra l’8 e il 10 marzo, hanno perso la vita durante le rivolte scoppiate in tutta Italia, provocate anche dalla compressione del diritto di colloquio durante la fase più acuta della pandemia. I suoi amici teatranti dell’istituto di Bollate hanno saputo solo da pochi giorni che tra quei morti, per molte settimane rimasti senza nome, i loro corpi cremati subito dopo le autopsie, c’era l’uomo che per loro era solo “Sasà”. E ora, assieme alla nipote Rosa di 22 anni, hanno delle richieste da fare, affidate all’avvocato Antonella Calcaterra: “Vogliamo sapere cos’è successo - spiega all’Agi Michelina Cappato che del progetto “Teatrodentro”, poi terminato per mancanza di fondi, di era tra gli animatori - le poche notizie trapelate dicono che, dopo le proteste e come centinaia di altri, è stato trasferito da Modena, dove era recluso, ad Ascoli, ma ad Ascoli non è arrivato vivo. Noi amici teatranti di Sasà siamo tanti e siamo indignati e chiederemo a gran voce che si faccia un po’ di luce nel buio di quelle notti della democrazia, del diritto, della dignità, della Costituzione”. “Così fragile - scrivono nelle lettere a Sasà, raccolte da Michelina - ti sei mosso nella tempesta di una rivolta galeotta e hai cercato il tuo salvagente illusorio nell’infermeria bianca e fredda di una galera. Forse ti sei inebriato di quella momentanea pace per te così necessaria”. La Procura di Modena indaga per omicidio colposo plurimo, senza indagati per quello che si sa. Dai primi rilievi, era emerso che i ribelli sarebbero morti per avere ingerito metadone e altri medicinali saccheggiati dalle infermerie. Ignoto, al momento, l’esito dei test tossicologici e sierologici, così come non sono emersi i dettagli del contesto dei tumulti. Salvatore, origini campane, è andato via da Bollate tre anni fa dopo avere scontato la pena. “Aveva grandi problemi psicologici, per lui forse la normalità era stare in gabbia - riflette Michelina Cappato - Ma era una bomba di energia, la persona più simpatica del mondo”. “Sappiamo troppo poco dell’arco del tuo destino e ci manchi - è un altro dei pensieri degli amici - Chissà come ti hanno toccato? Forse per niente, neanche da accorgersi che stavi andando via, o forse per menarti e tu niente o forse come si tocca la carne prostata e inerme, ma in ogni caso senza preoccuparsi del tuo stato. Eppure dovevano custodirti e salvarti anche solo da te stesso, fino ad agosto, tuo fine pena, dovevano custodirti comunque (…). Tu, attore meraviglioso, potente, amico fragile e affettuoso”. “Non avremo forse mai le risposte - promette Cappato - ma continueremo, assieme ad altre associazioni che si occupano del mondo carcerario e a chi vuole unirsi, a chiederle fino allo sfinimento”. Palamara espulso dall’Anm: “Gravi e reiterate violazioni del codice etico” Il Messaggero, 21 giugno 2020 Luca Palamara espulso dall’Anm per aver commesso gravi e reiterate violazioni del codice etico. Il pm romano indagato a Perugia per corruzione non è stato ascoltato dall’Associazione nazionale magistrati per decisione del Comitato direttivo centrale dell’Anm che all’unanimità respinto la richiesta. ?Palamara aveva chiesto giovedì di essere sentito dal Cdc per poter chiarire. L’audizione può avvenire solo davanti al collegio dei probiviri, dinanzi al quale Palamara non si è mai presentato. “Mi è stato negato il diritto di parola. Nemmeno nell’Inquisizione”, ha commentato Luca Palamara attaccando: “Ognuno aveva qualcosa da chiedere, anche chi oggi si strappa le vesti. Penso ad alcuni componenti del collegio dei probiviri che oggi chiedono la mia espulsione, oppure a quelli che ricoprono ruoli di vertice all’interno del gruppo di Unicost, o addirittura ad alcuni di quelli che siedono nell’attuale Comitato direttivo centrale e che hanno rimosso il ricordo delle loro cene e dei loro incontri con i responsabili Giustizia dei partiti di riferimento”. Per i probiviri, Palamara, avrebbe violato il codice etico dei magistrati. La contestazione è legata alla famosa riunione all’hotel Champagne tra Palamara, cinque consiglieri del Csm (che si sono poi dimessi) e i deputati del Pd Cosimo Ferri e Luca Lotti, sulla nomina del procuratore di Roma, intercettata nell’ambito dell’inchiesta di Perugia, dove il magistrato è indagato per corruzione. Una riunione in cui si parlò - secondo l’accusa - di una strategia per danneggiare uno dei candidati ed enfatizzare invece il profilo professionale di un altro dei concorrenti. Sarebbe la prima volta che viene adottata una sanzione così severa per un ex numero uno dell’associazione. “Chiedo scusa ai tanti colleghi che sono fuori dal sistema delle correnti, che inevitabilmente saranno rimasti scioccati dall’ondata di piena che rischia ingiustamente di travolgere quella magistratura operosa e aliena dalle ribalte mediatiche. Per loro sono disposto a dimettermi ma solo se ci sarà una presa di coscienza collettiva e se insieme a me si dimetteranno tutti coloro che fanno parte di questo sistema. Non farò il capro espiatorio di un sistema”, sottolinea Luca Palamara nella memoria che avrebbe voluto presentare al Comitato direttivo centrale dell’Anm. “Non mi sottrarrò alle responsabilità politiche del mio operato per aver accettato ‘regole del giocò sempre più discutibili. Ma dev’essere chiaro che non ho mai agito da solo. Sarebbe troppo facile pensare questo”. I legali del pm (Roberto Rampioni e Benedetto Marzocchi Buratti) puntano su alcuni file audio per cercare di depotenziare, in parte, le accuse contro Palamara. Audio però che la procura di Perugia non ha ancora consegnato ai difensori del magistrato e che gli avvocati hanno potuto solo ascoltare senza acquisirli. Per i legali ci sarebbero due telefonate rilevanti. La prima, l’otto maggio del 2019, tra il deputato Pd Cosimo Ferri e Palamara. Conversazione in cui i due si danno appuntamento per un incontro allo Champagne. E aver intercettato questa chiacchierata avrebbe dovuto impedire la successiva intercettazione da parte degli inquirenti, che possono ascoltare conversazioni di parlamentari solo se casuali. In secondo luogo, sempre per Buratti e Rampioni, ci sarebbe stato un errore di trascrizione di una intercettazione: “si vira su Viola” come procuratore capo a Roma, avrebbe detto il deputato Luca Lotti per gli investigatori. “Vedo che si arriva a Viola” sostengono abbia detto Lotti, i due avvocati dopo aver ascoltato l’intercettazione. Sulla vicenda pesa anche il monito durissimo di Sergio Mattarella, che presiede il Csm. Il presidente della Repubblica ha parlato, giovedì, di “un’ampia diffusione della grave distorsione sviluppatasi intorno ai criteri e alle decisioni di vari adempimenti nel governo autonomo della magistratura”. “La magistratura deve impegnarsi a recuperare la credibilità e la fiducia dei cittadini - ha aggiunto -, così gravemente messe in dubbio da recenti fatti di cronaca”. Un messaggio chiaro anche all’Anm: “È il momento di dimostrare, con coraggio, di voler superare ogni degenerazione del sistema delle correnti per perseguire autenticamente l’interesse generale ad avere una giustizia efficiente e credibile”. “Un discorso molto bello e appassionato, anche se molto duro - ha spiegato il numero uno dell’Anm Luca Poniz. Anche il presidente ha però ricordato che le indagini sono state fatte da magistrati su altri magistrati”. Anche per gli ex consiglieri del Csm coinvolti nella vicenda dell’hotel Champagne si prospettava il rischio dell’espulsione. La maggior parte di loro ha presentato le dimissioni dall’Anm mentre Paolo Criscuoli ha depositato istanza di ricusazione. Per Ferri, in aspettativa, è stato chiesto il non luogo a provvedere perché non più socio dell’Anm, non avendo più versato le quote associative da quando è stato eletto alla Camera. Sospensione comunque per 5 anni per l’ex consigliere del Csm Paolo Criscuoli. Lo ha deciso il Comitato direttivo centrale dell’Anm. Per gli altri ex togati che,con Luca Palamara e i politici Luca Lotti e Cosimo Ferri parteciparono all’incontro all’hotel Champagne in cui si parlò delle nomine dei procuratori di Roma e di Perugia, è stato invece deciso il non luogo a provvedere perché, intanto, si sono dimessi dall’Anm. Diversa la posizione di Ferri, che è magistrato in aspettativa. Secondo il Comitato direttivo centrale, Ferri è ancora socio dell’Anm a differenza di quanto sostenuto dal diretto interessato e almeno da una parte dei probiviri: per questo sono stati rinviati gli atti al collegio dei probiviri, che ora dovranno procedere con una proposta. Palamara contrattacca per non essere l’unico a cadere: “Altri ora raccontino cosa facevano” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 21 giugno 2020 Allusioni e accuse velate ai colleghi che l’hanno “processato”. Nelle chat con i colleghi le manovre per far approvare una norma a favore gli ex componenti del Csm. Veste i panni del picconatore, Luca Palamara, per denunciare il sistema di cui ha fatto parte “e che ora mi condanna, spesso mi insulta, perché a torto o a ragione individua in me l’unico responsabile di tutto”. Ammette di “aver accettato “regole del gioco” sempre più discutibili, ma non ho mai agito da solo”. Poi si fa accusatore obliquo: “Ognuno aveva qualcosa da chiedere, ognuno riteneva di vantare più diritti degli altri, anche quelli che oggi si strappano le vesti”. Non fa nomi, ma fa in modo che qualche additato possa riconoscersi: “Penso ad alcuni componenti del collegio dei probiviri che oggi chiedono la mia espulsione; a quelli che ancora oggi ricoprono ruoli di vertice all’interno del gruppo Unità per la Costituzione; addirittura ad alcuni di quelli che siedono nell’attuale Comitato direttivo Centrale e che forse troppo frettolosamente hanno rimosso il ricordo delle loro cene o dei loro incontri con i responsabili giustizia dei partiti politici di riferimento”. Il modo scelto da Luca Palamara per chiudere la sua parabola nella magistratura associata, di cui è stato leader e che ora l’ha cacciato per violazione del codice etico, non è un ritiro né una fuga. Nella lettera che avrebbe voluto leggere davanti al “tribunale” dell’Anm tenta la chiamata di correità collettiva, tirando in ballo altri magistrati: “Sarebbe bello che loro raccontassero queste storie. Non devo essere io a farlo”. È una strategia difensiva - sul piano deontologico e professionale, diversi da quello penale che dovrà affrontare nell’eventuale processo per corruzione a Perugia - che mescola un po’ di mea culpae un po’ di attacco. Un arrocco e un rilancio probabilmente studiato da tempo. Da quando, avendo percepito che il clima intorno a lui stava cambiando, da un lato tesseva nuove alleanze politico-giudiziarie e dall’altro pensava di avere parecchie frecce nel suo arco per reagire agli attacchi. “È una guerra, voglio combattere”, scriveva in quasi tutte le risposte ai messaggi di solidarietà che gli arrivarono la mattina del 29 maggio 2019, quando uscirono le prime notizie sull’indagine a suo carico, e sulle intercettazioni che potevano svelarne le trame. In realtà Palamara aveva cominciato a sentirsi accerchiato già prima di scoprire che gli avevano messo nel telefono una microspia ambulante, quando venne a sapere che dalla Procura di Roma erano state mandate a Perugia carte su presunti favori ricevuti da un amico imprenditore. Anticipate da un altro giornale già a settembre 2018. E la tentazione di reagire raccontando segreti che potevano mettere in difficoltà i colleghi (accusatori compresi, come torna a dire oggi) sorse allora. Forse la considerava un’assicurazione. E per provare a giustificare alcune affermazioni registrate dal trojan, e certe manovre altri magistrati, oggi dice: “Ho sottovalutato le mie frequentazioni, perché in me prevaleva l’idea di schivare qualsiasi pericolo e di essere un incorruttibile. L’idea che si potesse pensare il contrario su di me mi ha fatto diventare un animale ferito, e questo mi ha portato spesso a utilizzare espressioni sbagliate”. Racconta che all’inizio voleva cambiare il “meccanismo infernale” della spartizione dei posti tra le correnti. Senza riuscirci: “Mi sono lasciato inghiottire. Ma non per sete di potere, bensì in una logica secondo cui il rafforzamento della posizione, mia e del mio gruppo di appartenenza, avrebbe potuto assicurare opportunità di avanzamento di colleghi meritevoli”. Poi però è venuto il momento di riscuotere per sé. Degli incontri notturni con i componenti del Csm e un paio di deputati (cioè le strategie costruite a tavolino per la nomina del procuratore di Roma, fuori dalla sede istituzionale e persino fuori dai meccanismi correntizi tradizionali: il vero motivo per cui è stato espulso dall’Anm) non parla perché deve difendersi in sede disciplinare, dice. Ma dietro le alleanze costruite all’esterno dell’organo di autogoverno dei giudici c’era la sua aspirazione di diventare procuratore aggiunto di Roma (che contava di ottenere grazie allo stesso schieramento). E dietro quell’aspirazione c’era l’emendamento con cui, a fine 2017, lui e altri ex componenti del Csm riuscirono a far cancellare dal Parlamento la “moratoria” di un anno per eventuali nomine degli ex consiglieri. Nelle chat di Palamara ci sono le tracce dell’azione congiunta con altri consiglieri di allora, anch’essi interessati, per farlo passare. Ancora contatti oscuri con la politica, finalizzati al via libera alla corsa al posto più gradito. Poi sarebbe entrato in azione il “meccanismo infernale” che, da espulso, vuole picconare per non vedere demolita solo la propria immagine. Ermini (Csm): “Toghe, la crisi morale mette a rischio l’indipendenza” di Alberto Gentili Il Messaggero, 21 giugno 2020 “Ora la riforma che contrasti la distorsione delle correnti, tocca a governo e Parlamento” Presidente Ermini, è oltre un anno che è esploso lo scandalo Palamara e il fango che ha investito la magistratura è ancora lì, intatto. Perché? “Precisiamo subito una cosa, ciò che è emerso in queste ultime settimane attraverso chat e intercettazioni pubblicate dai quotidiani fotografa una situazione risalente nel tempo, non una situazione attuale. Parliamo di messaggi e conversazioni alcuni dei quali addirittura di tre anni fa. In ogni caso la stragrande maggioranza dei magistrati è del tutto estranea alle pratiche spartitorie disvelate dalle intercettazioni. Aggiungo che, nel frattempo, il Csm si è rinnovato sostituendo con nuovi consiglieri i cinque togati dimissionari e nominando il nuovo procuratore generale della Cassazione. Ciò non vuol dire che lo scandalo non abbia inferto un durissimo colpo alla credibilità e autorevolezza dell’ordine giudiziario portando alla luce comportamenti esecrabili e gravissimi, legati a una degenerazione correntizia che va assolutamente contrastata. È tutt’altro che una spiacevole parentesi da archiviare in fretta” Anche con l’espulsione di Palamara da parte dell’Anm? Cosa pensa di questa decisione? “Le questioni disciplinari dell’Anm sono questioni interne all’Anm. A me interessano i segnali di cambiamento che devono essere decisi e netti” Mattarella è stato durissimo con le correnti, ha denunciato gravi e vaste distorsioni e prassi inaccettabili e ha detto che la riforma del Csm deve rescindere ogni legame aggregativo. Come? “Fin dal primo giorno, dal giorno del mio insediamento alla vicepresidenza, ho sempre sostenuto che chi siede al Csm, che sia un togato o un laico, ha l’obbligo costituzionale di abbandonare ogni logica di appartenenza. Chi è al Csm non deve avere casacche, non esistono rapporti fiduciari. Una volta eletti, si risponde solo alla legge, alla Costituzione e al presidente della Repubblica. Come azzerare il peso delle correnti all’interno del Csm è però decisione che spetta al governo e al Parlamento”. La politica balbetta, la maggioranza rossogialla non trova da mesi una strada da intraprendere. Giudica colpevole questo ritardo? “Penso che una riforma, una riforma energica e incisiva, sia assolutamente necessaria. Ma penso anche che una riforma che voglia davvero risolvere una volta per tutte degenerazioni e distorsioni correntizie vada studiata e ponderata con i giusti tempi. In queste materie fatico a ragionare con il cronometro in mano: una riforma va fatta, ma importante è che sia fatta bene. Non è un problema se serve un giorno in più, il problema si porrebbe se dopo l’annuncio non si facesse più nulla”. Viste le gravi distorsioni nel mondo giudiziario è dovuto intervenire Mattarella, pensa che l’appello a superare gli scandali e a recuperare credibilità questa volta verrà ascoltato? “Ne sono convinto, perché il presidente Mattarella ha chiesto alla magistratura un segnale molto forte. Rendiamoci conto che si è toccato il fondo e dal fondo non si può che risalire. Bisogna che l’associazionismo giudiziario prosegua nell’azione di rinnovamento, un rinnovamento etico e valoriale, e per quello che riguarda il Csm bisogna che i consiglieri proseguano nel dare sempre più credibilità e trasparenza a tutte le decisioni consiliari, si tratti di nomine o valutazioni di professionalità, si tratti di trasferimenti o provvedimenti disciplinari. Le posso assicurare che l’impegno dei consiglieri in questo senso non manca. Quando l’anno scorso sono uscite le prime intercettazioni abbiamo vissuto momenti anche drammatici in Csm, ma abbiamo dimostrato di saper reagire, abbiamo dimostrato che il Consiglio, questo Consiglio, è in grado di funzionare e di funzionare nel solco tracciato dalla Costituzione”. Il quadro fatto dal Presidente è però sconfortante, ha detto che le inchieste della Procura di Perugia hanno trasmesso l’immagine di una magistratura china su sé stessa, preoccupata di costruire consensi a uso interno, finalizzati all’attribuzione di incarichi... “Certo, la percezione è quella. Ma il Presidente ha anche detto che la stragrande maggioranza dei magistrati è estranea a logiche di questa natura. Ed è questa realtà che mi fa ben sperare, il fatto cioè che la maggioranza assoluta dei magistrati non solo non ha nulla a che fare con i traffici correntizi, ma è giustamente indignata. Ha ben chiaro che ora da parte dell’intero corpo della magistratura è necessaria una presa di posizione forte e netta”. Concorda con il capo dello Stato sulla modestia etica di alcuni magistrati? “Come non concordare? Basta leggere alcune chat sui giornali di questi giorni... In questo senso è giusto che tutti noi, non solo i magistrati, ci si ponga il tema della questione morale perché non è accettabile alcuno scadimento etico in chi è chiamato ad amministrare la giustizia e tutelare la legalità”. Crede anche lei che questa caduta verticale di credibilità metta a rischio l’autonomia e l’indipendenza della magistratura? “Ne sono profondamente convinto, ed è proprio il rischio che va evitato. Il presidente Mattarella, e gliene sono grato, ha molto insistito su questo punto ribadendo, anche in vista della riforma del Csm, che autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario sono principi irrinunciabili. L’autonomia e l’indipendenza della magistratura non è un privilegio di casta, ma è il baluardo a tutela della giurisdizione. E la giurisdizione è un architrave della democrazia”. Il Quirinale chiede di rimuovere “prassi inaccettabili, frutto di una trama di schieramenti cementati dal desiderio di occupare” posti di rilievo. Come è possibile ottenere questo sussulto da una categoria che appare refrattaria a superare le logiche della spartizione correntizia? “Se dovessi giudicare dai commenti di tanti magistrati, non parlerei proprio di categoria refrattaria a superare certe logiche. I magistrati, in realtà, chiedono e si aspettano uno scatto di orgoglio, bisogna che qualcuno prenda l’iniziativa per dare un concreto segnale di rinnovamento”. Come restituire la fiducia ai cittadini verso la magistratura? “Esercitando, con competenza, equilibrio, autorevolezza, imparzialità e indipendenza, il proprio lavoro. Lo fa già lo ripeto la gran parte dei magistrati italiani. Ma aggiungo, facendo mie le parole di Rosario Livatino, che abbiamo commemorato al Quirinale insieme ad altri magistrati uccisi dal terrorismo e dalla mafia, che si deve anche dimostrare moralità, trasparenza di condotta al di fuori dell’ufficio, indisponibilità ai compromessi e spirito di sacrificio. La fiducia dei cittadini è l’unica fonte di legittimazione dell’agire del magistrato e va guadagnata sul campo, giorno per giorno. Il giudice non deve cercare il consenso, ma la fiducia. Ottenere il consenso può anche essere facile, molto più difficile è avere e mantenere la fiducia”. Silvia Albano (Md): “L’Anm può essere spazzata via, era meglio votare subito” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 21 giugno 2020 La giudice di Magistratura democratica-Area si è dimessa dalla giunta esecutiva. “Tutti i gruppi, anche se a diversi livelli, sono stati coinvolti nel sistema. E non ci sono risposte all’altezza del problema”. Silvia Albano, giudice civile a Roma iscritta a Magistratura democratica e ad AreaDG, perché ieri si è dimessa dall’esecutivo dell’Associazione magistrati? L’ho fatto perché non condivido il rinvio a ottobre delle elezioni per il Comitato direttivo centrale. Penso che in un momento così grave la guida dell’Anm dovrebbe essere legittimata dal voto, tornare rappresentativa di tutta la magistratura ed essere in grado di interloquire autorevolmente con la politica sulle riforme in cantiere. Il voto telematico che era stato deciso a marzo durante il lockdown paradossalmente si è rivelato una complicazione. Avremmo potuto e secondo me dovuto andare a votare a luglio, con la consueta modalità ai seggi. Si poteva fare osservando le distanze di sicurezza, del resto anche l’attività dei tribunali è ripresa. Nella giunta esecutiva dell’Anm restano però altri tre rappresentanti di Area, compreso il presidente Poniz. C’è una spaccatura nella sua componente? Le mie posizioni le rappresento da tempo nelle riunioni del gruppo, le dimissioni non sono state un fulmine a ciel sereno. Sono in minoranza e ne prendo atto, meglio che mi sostituisca qualcuno che possa più convintamente rappresentare le posizioni maggioritarie. A mio avviso non c’è una riflessione adeguata alla gravità del momento e ai rischi che corre la magistratura associata. Quali sono? L’Anm può essere spazzata via dalla valanga di fango delle chat. Avremmo dovuto chiamare tutte le componenti a un’assunzione di responsabilità per rifondare l’associazione. Vanno messi da parte i calcoli elettorali e gli interessi di parte. Bisogna pensare a salvare la storia importante dell’associazione che è stata un presidio per la democrazia, capace tra le altre cose di opporsi alle riforme costituzionali che avrebbero messo a rischio l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Questa autorevolezza l’Anm ce l’aveva anche perché era rappresentativa di tutta la magistratura. Ora non lo è più neanche formalmente visto che una componente - tra l’altro quella culturalmente a me più lontana, Magistratura indipendente - ha abbandonato l’organo rappresentativo dell’associazione. Nel frattempo Palamara sulle scale della Cassazione ha fatto una chiamata di correo: “Non ho mai agito da solo”, ha detto… Il suo è un gioco molto pericoloso, simile a quello che regge la pubblicazione a rate di spezzoni scelti di intercettazioni. L’obiettivo è evidente: tutti colpevoli nessun colpevole. Invece è chiaro che non tutte le responsabilità che emergono sono uguali. Ci sono comportamenti gravi, gravissimi e anche semplicemente inopportuni. Detto questo non si può negare che nelle chat ci sia la traccia di un sistema. Lo spaccato è agghiacciante, la spartizione del potere non rispondeva neanche più alle logiche di gruppo ma alla vicinanza al capo di turno. Tant’è vero che molte guerre erano condotte all’interno dei gruppi. Il trojan nel telefono di Palamara ha catturate anche chat con esponenti di Area e di Md… Non credo che Md e nemmeno AreaDG intendano tirarsi indietro dalle loro responsabilità o auto assolversi. Il sistema era tale perché - a diversi livelli - tutte le componenti erano coinvolte. Dunque adesso tutte devono profondamente mettersi in discussione, ragionare sulla democrazia, sui processi decisionali e sulla trasparenza all’interno dei gruppi. Per salvare il senso dell’associazionismo e riportarlo agli scopi e ai valori iniziali. Quello che emerge è che c’era un sistema di potere che agiva secondo una logica puramente spartitoria, senza valori; sistema nel quale erano coinvolti alcuni, forse tanti, ma non il corpo degli appartenenti ai gruppi associativi. Come si fa a difendere le correnti di fronte a questo panorama? L’ha detto il presidente Mattarella, la dialettica e il pluralismo sono una ricchezza per le nostre istituzioni. I gruppi sono stati l’aggregazione dei magistrati attorno a una certa concezione della giurisdizione, a valori e idee che hanno fatto crescere la magistratura dandole maggiore consapevolezza del suo ruolo. Sono stati lo strumento di una partecipazione democratica e critica dei magistrati alle scelte dell’Anm e dell’autogoverno. Il senso dell’associazionismo era questo: il confronto e l’aggregazione intorno all’idea di magistratura e giurisdizione che si voleva affermare, la critica alla giurisprudenza e ai provvedimenti giudiziari. Su questo confronto di idee, che avveniva anche all’interno dell’Anm, si è evoluta la giurisprudenza e si è costruita la democratizzazione degli uffici. Ma si sono perse le idee ed è rimasto solo il potere. La giustizia si migliora vietando ai magistrati incarichi extragiudiziari? di Carmelo Barbieri* Il Foglio, 21 giugno 2020 Andrebbero separate le esperienze che portano buon contagio da quelle che, pur rispondendo a esigenze dell’interessato, risulterebbero sterili per l’amministrazione della giustizia. La politica sembra non avere idee troppo chiare e i buoni consigli per la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura e delle carriere dei magistrati si sprecano. Non c’è da stupirsi, è costume italico. Bisognerebbe, invece, che il progetto di riforma di uno dei poteri fondamentali dello Stato costituisse la sintesi politica di un serrato dibattito tecnico tra studiosi di lungo corso della materia. Il momento è talmente disorientante che servirebbe una vera e propria “fase costituente”: la riforma dovrebbe essere in grado di ritrovare e formalizzare i “significati” che abbiamo perso. Per farlo, dovrebbe generare dalla riflessione di giuristi dotati di grande autorevolezza e prestigio personale presso la comunità di riferimento e risultare il più possibile condivisa dalle categorie interessate, in primo luogo la magistratura e l’avvocatura. Ci si asterrà pertanto dall’aggiungersi alle fila dei buoni consiglieri. Soltanto una chiosa, l’argomento è dei più spinosi: il collocamento fuori ruolo dei magistrati per andare ad assumere compiti di alta amministrazione e, più in generale, gli incarichi extragiudiziari. Il tema è trattato dai più con una certa avversione, la soluzione è tranchant: vietarli. La scelta pecca di semplicismo. L’esercizio della giurisdizione e, più in generale, il diritto e la sua applicazione altro non sono che una forma di ingegneria sociale. Porre una regola e interpretarla comporta la comprensione dell’impatto che ne deriverà, degli effetti che si produrranno. L’individuazione dei bulloni da stringere e di quelli da allentare presuppone la conoscenza del fenomeno da regolare. È per questo che l’autoreferenzialità della magistratura va avversata con forza. Ne è consapevole la Commissione europea per l’efficienza della giustizia presso il Consiglio d’Europa che a dicembre 2019 ha approvato le proprie linee guida per “Breaking up judges’ isolation”. Gli incarichi extragiudiziari, se messi al riparo, con regole legislative predeterminate, da logiche corporative e clientelari, costituiscono un’importante valvola di comunicazione tra la magistratura e “i luoghi altri”. Non vanno pertanto vietati ma regolati. Dovrebbe essere compito della fonte legislativa tracciare un’organica e analitica “mappatura” degli incarichi ritenuti attinenti alla funzione giudiziaria perché in grado di contaminarla positivamente. Le esperienze che portano buon contagio vanno separate da quelle che, pur rispondendo a egoistiche esigenze dell’interessato, risulterebbero sterili per l’amministrazione della giustizia. Le prime sono da promuovere, le seconde da impedire. Alla legge dovrebbe essere poi rimesso il compito di fissare i criteri da seguire ai fini dell’apprezzamento dell’attività extragiudiziaria nell’ambito della valutazione di professionalità del magistrato. Ciò fatto, l’esperienza andrà valutata per le competenze che ha effettivamente permesso di acquisire e non svalutata o discriminata per il solo fatto di essere stata svolta al di fuori della giurisdizione domestica. Si potrà così evitare di leggere in delibere consiliari che, ad esempio, lo svolgimento di funzioni giurisdizionali presso Corti sovranazionali non costituisce un’esperienza professionale da valorizzare rispetto a quella ordinaria. C’è bisogno di ritrovare la solitudine dei magistrati, di recuperare la loro capacità di “parlare con sé stessi e con gli altri”, ma non di perseguire il loro isolamento. *Magistrato del tribunale di Milano La pecora nera non basta, ecco chi c’è nel mirino di Mattarella di Antonio Pagliano ilsussidiario.net, 21 giugno 2020 Il sistema giustizia è in crisi nera. L’ultimo, duro intervento del Capo dello Stato ha stigmatizzato la “modestia etica” di certi personaggi. Il sistema giustizia vive davvero una crisi profonda che, fatte le debite proporzioni e con il rispetto massimo che si deve a chi non c’è più, sembra avere una carica virale niente affatto secondaria al Covid-19. Il nostro sistema giudiziario è in stallo pressoché totale. La macchina è praticamente paralizzata. Insieme forse solo con la scuola, l’unico settore del paese a non dare concreti segni di superamento della crisi. Grazie unicamente a un emendamento di Fratelli d’Italia al Dl intercettazioni, è stata cancellata la norma che aveva prolungato la paralisi dei tribunali fino al 31 luglio (emendamento varato, per dovere di cronaca, con il parere favorevole sia del governo che dei due relatori di maggioranza), sancendo l’eliminazione della facoltà in capo ai magistrati di chiudere i tribunali, facoltà che si è rivelata un grave errore del governo. In questo scenario, in cui tra l’altro continua lo scontro fra il ministro Bonafede e il pm Di Matteo, è nuovamente intervenuto sullo scandalo del Csm il Presidente della Repubblica con un richiamo dai toni aspri come non mai. Durante la cerimonia per gli anniversari dell’uccisione di Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli, Mario Amato, Gaetano Costa e Rosario Livatino, il presidente Mattarella ha duramente affermato come la fedeltà alla Costituzione “è l’unica fedeltà richiesta ai servitori dello Stato. L’unica fedeltà alla quale attenersi e sentirsi vincolati”. Un discorso durissimo, incentrato esplicitamente in larga parte sul caso Palamara, le cui vicende “sono in amaro contrasto con l’alto livello morale delle figure che oggi ricordiamo. In quest’anno così difficile per la magistratura italiana cadono gli anniversari di magistrati che hanno perso la vita a causa del loro impegno”. Mattarella ha poi subito ricordato come siano emerse “gravi e vaste distorsioni” nelle decisioni del Csm oggetto dell’inchiesta di Perugia, aggiungendo che “la documentazione raccolta dalla Procura della Repubblica di Perugia - la cui rilevanza va valutata nelle sedi proprie previste dalla legge - sembra presentare l’immagine di una magistratura china su stessa, preoccupata di costruire consensi a uso interno, finalizzati all’attribuzione di incarichi. Questo fenomeno si era disvelato nel momento in cui il Csm è stato chiamato, un anno addietro, ad affrontare quanto già allora emerso. Quel che è apparso ulteriormente fornisce la percezione della vastità del fenomeno allora denunziato; e fa intravedere un’ampia diffusione della grave distorsione sviluppatasi intorno ai criteri e alle decisioni di vari adempimenti nel governo autonomo della magistratura. Sono certo che queste logiche non appartengono alla magistratura nel suo insieme, che rappresenta un ordine impegnato nella quotidiana elaborazione della risposta di giustizia rispetto a una domanda che diventa sempre più pressante e complessa”. Come non bastasse ha poi pronunciato una stoccata che suona come una vera umiliazione per i magistrati coinvolti. Il Presidente della Repubblica ha infatti formalmente denunciato “la modestia etica” emersa dalle carte dell’inchiesta. “Questo - ha proseguito - è il momento di dimostrare, con coraggio, di voler superare ogni degenerazione del sistema delle correnti per perseguire autenticamente l’interesse generale ad avere una giustizia efficiente e credibile. È indispensabile porre attenzione critica sul ruolo e sull’utilità stessa delle correnti interne alla vita associativa dei magistrati”. Correttamente, egli ha poi tracciato la strada, evidenziando come la scuola superiore della magistratura debba assumere un ruolo decisivo per la formazioni etica e professionale dei magistrati, dedicando sessioni di studio apposite ai doveri di correttezza e trasparenza nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, chiosando poi sulla necessità di garantire nel nostro Paese il rispetto della legalità, legando a tale esigenza l’indifferibile impegno a recuperare la credibilità e la fiducia dei cittadini, così gravemente messe in dubbio da recenti fatti di cronaca. È la prima volta che il Presidente della Repubblica, che la Costituzione designa come il presidente del Csm, si esprime con questi toni a fronte di ciò che la vicenda Palamara sta facendo emergere. La solennità del suo intervento non deve essere minimamente offuscata, anzi. Certo c’è da chiedersi il perché solo adesso, ma la scelta di legare la denuncia sulla “modestia etica” alla commemorazione di cinque magistrati caduti nella lotta al terrorismo e alle mafie appare di una straordinaria potenza evocativa. La nostra magistratura, tutt’ora, è composta anche da persone eccellenti e di elevato spessore etico, ma quel sistema correntizio è così diffuso e ramificato che non ci si può non interrogare sul come e sul perché esso sia così tanto dilagato. La compiacenza, se non il supporto indiretto, di cui quel sistema si è giovato rende - ahimè - tutti in quota parte colpevoli. Negli anni le vere denunce di dissenso sono state assai scarse e d’altronde l’anno scorso quasi tutti si precipitarono ad additare la pecora nera Palamara, fingendo di non vedere né la guerra fra bande che era in atto né gli altri capo branco compromessi; giochino che solo l’evidenza delle carte processuali ha in parte ridimensionato. L’aspetto su cui riflettere è che si sono registrate pochissime vere ammissioni di responsabilità in questi mesi. L’auspicio è pertanto che il grave monito del Presidente della Repubblica finisca di scuotere le coscienze di tutti i protagonisti e comprimari, spingendoli a farsi avanti, a denunciare il degrado, altrimenti non ci sarà riforma in grado di assicurare trasparenza e merito. Quello che si è palesato all’opinione pubblica è un vero e proprio sistema culturale di gestione del potere. Non lo si spacci per circoscritta degenerazione di pochi capi bastone. Non basterà fare tabula rasa di questi ultimi per garantire che le nomine dei titolari degli uffici giudiziari siano improntate unicamente al merito; dando ovviamente per scontato che il Presidente assicurerà in tutti i casi ai cittadini il costante controllo sull’operato dell’organo di autogoverno della magistratura. Il giudice penale nella zona rossa di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 21 giugno 2020 “È stata una scelta politica, quindi si va verso l’archiviazione”. In questi giorni abbiamo letto spesso sui giornali questa affermazione, o altre di analogo contenuto, a proposito dell’indagine preliminare condotta dalla Procura di Bergamo sull’eventuale ritardo nel dichiarare zona rossa i Comuni di Alzano e Nembro e nel cui ambito hanno deposto, come persone informate sui fatti, il Presidente del Consiglio e i ministri dell’Interno e della Salute. Altri osservatori hanno invece segnalato il rischio di “immaginare responsabilità penali” per scelte politiche che implicano per definizione l’esercizio di un potere discrezionale. Prendendo spunto dal caso specifico trattato a Bergamo (dove si procede, com’è noto, per il reato di epidemia colposa) possono essere utili alcune precisazioni soprattutto sul tema, sempre tormentato, dei rapporti tra potere giudiziario e potere esecutivo, e per spiegare l’arbitrarietà di ogni meccanico accostamento tra i termini “scelta politica” e “archiviazione in sede giudiziaria”. Innanzitutto, non si può dubitare che la Procura della Repubblica abbia l’obbligo di ricostruire con la massima precisione possibile i fatti, specie dopo gli esposti e le denunce presentate da decine di familiari delle vittime della pandemia. Tale ricostruzione avviene secondo gli schemi usuali dell’indagine penale e quindi mira ad accertare in primo luogo se vi sia un nesso di causalità tra le condotte di chi abbia avuto un ruolo nella decisione di dichiarare la zona rossa non prima dell’8 marzo e la diffusione dell’epidemia. Una ricognizione di notevole difficoltà, come hanno già sottolineato numerosi osservatori, soprattutto perché gli stessi scienziati sanno ancora troppo poco sulle caratteristiche del virus. Ma quello che qui più interessa è l’altro oggetto dell’inchiesta: se, cioè, si possa muovere a qualcuno un rimprovero di imprudenza, negligenza o imperizia. Se, all’esito delle indagini, si dovesse dare una risposta positiva ai due quesiti nei confronti di un soggetto che abbia il ruolo di ministro, e per fatti commessi nell’esercizio delle sue funzioni, prima la stessa Procura e poi il Tribunale dei Ministri, non potrebbero certamente archiviare il caso. Come si può notare, di fronte all’autorità giudiziaria non è in gioco in alcun modo la natura “politica” della scelta. Cosa ben diversa, invece - e a questo probabilmente alludono l’espressione “scelta politica” e il richiamo alla discrezionalità che le è propria - è il fatto che il Pm e il Tribunale debbano tenere conto delle molte particolarità del caso: non solo, come si diceva, la scarsissima conoscenza del virus e delle sue caratteristiche, ma anche le differenti opinioni espresse dagli scienziati, le indicazioni contraddittorie giunte dalle autorità internazionali, la mancanza di esperienze analoghe nei Paesi occidentali (molti dei quali hanno peraltro adottato decisioni simili a quelle italiane) e, secondo alcuni, anche i costi economici e sociali delle diverse opzioni. Ma ripeto: il nostro ordinamento non sottrae la “scelta politica” su cui si incardina una decisione di questo tipo (o il procrastinarsi della stessa) al sindacato del giudice penale. Né, per una volta, si tratta di un’anomalia nazionale dato che indagini simili sono iniziate anche in Francia, Spagna e altri Stati europei. Un autorevole penalista intervenuto nel dibattito pubblico, ha parlato invece criticamente di un “esempio ulteriore dell’improprio utilizzo del diritto penale”. Ha poi aggiunto che una responsabilità in capo al decisore politico si potrebbe delineare solo in alcuni casi limite (sviamento di potere, sovvertimento macroscopico dei criteri di ponderazione degli interessi in gioco, superficialità e trascuratezza evidenti), concludendo tuttavia che “non mi sembra questo sia avvenuto”. Ma proprio qui sta il punto: pur consapevoli delle particolarità del caso, nel nostro ordinamento questa valutazione - è avvenuto? non è avvenuto? - è affidata alla magistratura, secondo le regole del codice penale. Dunque, nessuno sconfinamento del potere giudiziario nel campo del potere politico. Rimane però evidente la delicatezza della questione e la necessità di evitare i rischi di prevaricazione di uno dei due poteri sull’altro. A tal fine il sistema normativo attuale prevede, in ben determinati casi, una sorta di filtro a tutela dell’attività del Governo e dei suoi componenti (non più, invece, dei singoli deputati). Se, infatti, il Tribunale dei Ministri dovesse ritenere, anche su difforme parere della Procura, che il procedimento non sia da archiviare, ma debba invece portare a una richiesta di rinvio a giudizio, dovrebbe preventivamente richiedere l’autorizzazione a procedere alla Camera di cui il ministro fa parte, o al Senato se si tratta di un ministro non parlamentare. La legge costituzionale nr. 1 del 1989 specifica che il Parlamento nega l’autorizzazione a procedere se ritiene, con valutazione insindacabile, che il ministro “abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo”. È dunque questo il momento in cui il Parlamento, massima espressione della sovranità popolare, può bloccare l’azione dell’Autorità giudiziaria. Ma non perché quella sotto esame sia classificabile come “scelta politica” - caratteristica quasi sempre ravvisabile nell’attività ministeriale - bensì e solo se ritenga, con una autonoma valutazione (questa sì, squisitamente politica e non meramente giuridica) che ricorrano le condizioni in cui il legislatore costituzionale ha ravvisato il punto di equilibrio del sistema. Come è noto, in questi primi due anni di legislatura abbiamo già avuto due votazioni di questo tipo, con esiti peraltro opposti. Aldilà e indipendentemente dall’esito dell’indagine penale, rimane poi ampio spazio per giudizi di carattere diverso, politico, amministrativo e anche etico, che saranno certamente a lungo al centro del dibattito pubblico dopo una catastrofe come quella provocata dalla pandemia. Requisiti richiesti per ottenere il premio previsto dall’art. 30 ord. pen. di Antonio Di Tullio D’Elisiis diritto.it, 21 giugno 2020 Corte di Cassazione - I sez. pen. - sentenza n. 15551 del 20.05.2020. Il Tribunale di Sorveglianza di Perugia rigettava un reclamo proposto avverso il provvedimento del Magistrato di Sorveglianza di Spoleto che, a sua volta, aveva respinto l’istanza di permesso-premio. Rilevava in particolare il Tribunale come fosse stato necessario approfondire il tema della revisione critica del delitto commesso poiché il detenuto aveva dimostrato una indisponibilità ad esaminare le ragioni delle condotte criminose comprendenti anche maltrattamenti contro familiari e ciò imponeva la prosecuzione dell’osservazione penitenziaria e sconsigliava la immissione in ambiente libero. Il motivo addotto nel ricorso per Cassazione - Avverso questa decisione proponeva ricorso per Cassazione il difensore del detenuto deducendo, come unico motivo, erronea applicazione di legge e manifesta illogicità della motivazione sostenendosi come la richiesta fosse stata avanzata dopo dodici anni di ininterrotta detenzione e il giudizio di attuale pericolosità sociale fosse fondato esclusivamente sulla sua professione di innocenza nonostante la buona condotta intramuraria e l’adesione all’offerta trattamentale. In sostanza, si pretendeva la sua ammissione di colpevolezza a costo di rendere impossibile l’accesso al permesso-premio e insuperabile l’ergastolo in espiazione mentre la confessione non era richiesta dalla normativa in materia di benefici penitenziari e pertanto, proprio per tale ragione, questa pretesa si risolveva nella arbitraria costrizione del condannato ad una sorta di collaborazione con la giustizia. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione - Il ricorso veniva rigettato poiché infondato. Si osservava prima di tutto che il permesso-premio, previsto dall’art. 30 ter Ord. Pen., ha una specifica funzione pedagogico-propulsiva essendo il medesimo parte integrante del trattamento e rivestendo addirittura un ruolo di strumento cruciale e tale da consentire la progressione nella premialità in modo funzionale all’ulteriore avanzamento (Corte Costituzionale, sentenza n. 504 del 1995). Ciò posto, la lettura complessiva dell’art. 30 ter Ord. Pen., ad avviso degli Ermellini, rende evidente il carattere plurifunzionale del permesso premio posto che è innegabile la funzione premiale e ciò, non tanto per il nome che contraddistingue il beneficio, quanto per la stretta subordinazione di quest’ultimo alla osservanza di una regolare condotta da parte del detenuto ed all’assenza nel beneficiario di pericolosità sociale. Nella fattispecie, gli Ermellini facevano presente come il Tribunale di Sorveglianza avesse rigettato il reclamo proposto dal ricorrente fondando la propria valutazione sul tenore non positivo delle relazioni di osservazione intramuraria dalle quali risultavano ombre ancora presenti sull’adesione del ricorrente al trattamento rieducativo: questi elementi - sintetizzati nel mancato avvio di un reale processo di revisione critica della devianza, manifestato con la costante indisponibilità ad esaminare le ragioni della condotta criminosa (nemmeno con riferimento ai maltrattamenti verso la moglie, nonostante le parziali ammissioni rese da Spaccino nel corso del giudizio) - erano stati ragionevolmente ritenuti indici di pericolosità sociale ancora presente. A fronte di ciò, il ricorrente sosteneva, a confutazione di questa valutazione, come la decisione reiettiva si sarebbe fondata sulla sua mancata confessione del più grave delitto di uxoricidio e ciò sarebbe equivalso a pretendere una sorta di collaborazione con la giustizia non più considerata quale presupposto necessario per accedere al beneficio. Orbene, tale argomentazione veniva stimata priva di pregio in quanto, ad avviso del Supremo Consesso, il tema evocato dal ricorrente della sua mancata collaborazione con la giustizia fosse del tutto estraneo alla ratio decidendi del provvedimento impugnato. Il Tribunale di sorveglianza, difatti, si era limitato a rilevare l’assenza di comportamenti denotanti l’effettiva presa di distanza dalla manifestata devianza e ciò in linea con i requisiti richiesti dall’art. 30 Ord. Pen. per l’ammissione al beneficio del permesso prevedendo tale norma, oltre al requisito della regolare condotta, anche quello dell’assenza di pericolosità sociale da valutare con particolare attenzione nel caso di soggetti condannati per reati di particolare gravità e con fine pena lontano nel tempo, attribuendosi legittimamente rilevanza, in senso negativo, alla mancanza di elementi indicativi di una rivisitazione critica, da parte del condannato, del pregresso comportamento deviante (in termini: Sez. 1, 23/11/2007 n. 9796, Rv. 239173; Sez. 1, n. 5505 del 11/10/2016, Rv. 269195). Da ciò se ne faceva conseguire come fosse infondata la contestazione del ricorrente il quale sosteneva che il requisito della rivisitazione critica, erroneamente confuso con l’assenza di confessione del delitto, non sarebbe richiesto dalla norma (Sez. 1, ord. n. 5430 del 25/01/2005,). In altri termini, per i giudici di piazza Cavour, risponde alla corretta applicazione della norma in esame l’affermazione del Tribunale di sorveglianza circa la non necessità della confessione del reato per ottenere il permesso-premio e, tuttavia, la rilevanza, da attribuire al comportamento del condannato indisponibile ad ogni tentativo degli educatori di promuoverne la riflessione sul vissuto connesso alle sue vicende penali, fa sì che la mera protesta di innocenza non esonera il giudice da una valutazione approfondita circa l’adesione del condannato alle iniziative trattamentali e l’osservanza della disciplina intramuraria. Invece, a fronte del giudicato di condanna, la professione di innocenza può assumere rilievo solo a seguito dell’apposita procedura di revisione (Sez. 1, n. 27149 del 22/03/2016) ma senza diretta interferenza in senso negativo o positivo sull’ammissione al beneficio del permesso premio rispetto al quale è imprescindibile considerare - nella peculiare valutazione richiesta - la documentazione penitenziaria attestante l’attività di osservazione e gli esiti di essa, il programma di trattamento compiutamente elaborato e la sintesi esauriente circa la condotta del detenuto con la sua partecipazione all’opera di rieducazione, tali da escludere la sua pericolosità sociale. Conclusioni - La decisione in questione è assai interessante nella parte in cui evidenzia quali sono i requisiti richiesti per potere usufruire del premio previsto dall’art. 30 ord. pen. il quale, come è noto, prevede quanto segue: “Nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, ai condannati e agli internati può essere concesso dal magistrato di sorveglianza il permesso di recarsi a visitare, con le cautele previste dal regolamento, l’infermo. Agli imputati il permesso è concesso dall’autorità giudiziaria competente a disporre il trasferimento in luoghi esterni di cura ai sensi dell’articolo 11. Analoghi permessi possono essere concessi eccezionalmente per eventi familiari di particolare gravità. Il detenuto che non rientra in istituto allo scadere del permesso senza giustificato motivo, se l’assenza si protrae per oltre tre ore e per non più di dodici, è punito in via disciplinare; se l’assenza si protrae per un tempo maggiore, è punibile a norma del primo comma dell’art. 385 del codice penale ed è applicabile la disposizione dell’ultimo capoverso dello stesso articolo. L’internato che rientra in istituto dopo tre ore dalla scadenza del permesso senza giustificato motivo è punito in via disciplinare”. Difatti, in tale pronuncia, come visto anche prima, è affermato che i requisiti richiesti dall’art. 30 Ord. Pen. per l’ammissione al beneficio del permesso prevedendo tale norma, sono, oltre al requisito della regolare condotta, anche quello dell’assenza di pericolosità sociale da valutare con particolare attenzione nel caso di soggetti condannati per reati di particolare gravità e con fine pena lontano nel tempo, dovendosi al contempo attribuire legittimamente rilevanza, in senso negativo, alla mancanza di elementi indicativi di una rivisitazione critica, da parte del condannato, del pregresso comportamento deviante. Tal che ne consegue che, per potere beneficiare di questo permesso, è necessario che siano accertati questi requisiti il che può avvenire, come precisato sempre in questa sentenza, attraverso documentazione penitenziaria attestante l’attività di osservazione e gli esiti di essa, il programma di trattamento compiutamente elaborato e la sintesi esauriente circa la condotta del detenuto con la sua partecipazione all’opera di rieducazione. Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché fa chiarezza su tale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo. Napoli. “A Poggioreale solo 36 posti per i detenuti malati”, la denuncia del Garante di Alessio Liberini anteprima24.it, 21 giugno 2020 Nel carcere di Poggioreale a Napoli mancano i posti letto per i carcerati sotto osservazione sanitaria. Lo denuncia il Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, ieri in visita a Poggioreale. A fronte delle oltre 7800 richieste di cure sanitarie la struttura di detenzione napoletana offre solo 36 posti letto. “Oggi a Poggioreale c’erano 1900 persone” - racconta Ciambriello dopo la visita ai reparti San Paolo, dove ci sono i detenuti ammalati e Firenze, che ospita i detenuti entrati per la prima volta in carcere. Cartella clinica informatizzata e più posti letto destinati ai detenuti delle carceri campane. Queste le richieste del garante che oggi anticipa anche una buona notizia. A breve, infatti, il reparto San Paolo avrà una stanza solo per detenuti dializzati. Torino. La popolazione carceraria ancora all’attenzione del Consiglio comunale di Claudio Raffaelli comune.torino.it, 21 giugno 2020 Dopo l’incontro della scorsa settimana con la Conferenza dei capigruppo, la commissione Legalità e la Garante per i diritti delle persone private della libertà personale, Monica Cristina Gallo, si sono ritrovati in videoconferenza per alcuni approfondimenti sulla situazione dell’universo carcerario torinese. Un pezzo di città messo a dura prova dall’emergenza sanitaria, anche se nelle carceri sotto la Mole non si sono manifestate le tensioni che hanno contraddistinto i penitenziari di altre città italiane. In un momento nel quale la parola d’ordine, il mantra quasi, è “ripartire”, questo deve riguardare anche le attività nei luoghi di detenzione, dopo la brusca seppure inevitabile sospensione. A cominciare dallo studio e dal lavoro, elementi indispensabili per la funzione del carcere, istituzione che non deve limitarsi all’aspetto repressivo ma deve svolgere una funzione di recupero della persona alla normale vita sociale, una volta scontata la pena. Alla presidente Carlotta Tevere ed agli altri componenti della commissione Legalità, la Garante ha offerto alcuni dati che fotografano la situazione attuale. Si conferma che il principale problema resta il sovraffollamento, che l’anno scorso ha toccato una punta di 1480 detenuti (poi diminuiti per via delle misure di sfollamento legate al Covid-19) contro i 1062 di quattro anni prima. Alla fine dell’anno scorso, i detenuti in custodia cautelare erano 379. Negli ultimi anni è inoltre cresciuto il numero delle detenute, che sono raddoppiate rispetto alle 70 registrate a fine 2015. Un altro dato interessante, sempre fornito dall’ufficio della Garante, è quello che mostra la diminuzione della percentuale di persone incarcerate non di nazionalità italiana, dal 54 al 44%. Numerosi i detenuti e detenute che seguono i corsi scolastici per l’ottenimento del diploma, circa 170, vi sono anche alcune decine di iscritti all’università e una decina di corsi di formazione professionale (giardinaggio, muratura, cucina). Facile immaginare come la didattica a distanza (Dad) imposta dall’emergenza sanitaria abbia visto moltiplicate al cubo le difficoltà riscontrate in ambiti scolastici più ordinari. Ancora più complicata la situazione che riguarda l’attività lavorativa in esterno. La Garante ha spiegato come l’esperimento dei lavori socialmente utili avviato nell’ambito dei progetti AxTo fosse stato positivo ma vanificato dal successivo “assorbimento” nel protocollo di intesa “Mi Riscatto per To”, con una retribuzione prevista di soli 150 euro mensili (meno di un terzo di quella prevista da AxTo). Nei giorni scorsi, dall’ufficio della Garante è partita una lettera indirizzata al Ministero della Giustizia, al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e all’Assessorato comunale all’Ambiente per il rilancio di progetti di lavoro. Uno dei quali, come ricordato, era stato ipotizzato presso il comprensorio agricolo e di floricultura dell’ex Istituto Bonafous, tra le colline del Chierese ma di proprietà della Città di Torino. Per il resto, la Garante ha ricordato i problemi strutturali nel carcere Lorusso e Cutugno, a partire dalle infiltrazioni d’acqua, e lo spinoso tema del reinserimento delle persone tornate in libertà. Con gli interventi dei consiglieri e consigliere Tresso, Ferrero, Tisi, Montalbano, oltre ce della presidente Tevere, sono stati toccati temi come il CPR di corso Brunelleschi - del quale il Consiglio comunale ha in passato reclamato la chiusura, i problemi delle persone scarcerate improvvisamente per emergenza Covid-19 e talvolta senza punti di appoggio, le politiche abitative e di inserimento lavorativo per gli ex detenuti e il rilancio della formazione professionale e del lavoro per le persone ancora in carcere. La Garante, da parte sua, ha ancora sottolineato come il suo ufficio abbia in primo luogo la missione di tutelare le persone da eventuali trattamenti degradanti e inumani, non potendo da solo farsi carico del complesso dei problemi e necessitando di ogni collaborazione, a partire da quella del Consiglio comunale. Sala Consilina (Sa). Carcere chiuso da 5 anni, ma i costi aumentano di Erminio Cioffi La Città di Salerno, 21 giugno 2020 Anche la Corte di Appello di Potenza chiede la riapertura della Casa circondariale di Sala Consilina, chiusa ormai da quasi 5 anni con un decreto ministeriale dell’allora Guardasigilli Andrea Orlando perché ritenuta non economicamente conveniente per le dimensioni potendo accogliere meno di 50 detenuti. Il Tribunale di Lagonegro, che ha competenza territoriale anche sull’ex circondario del Tribunale di Sala Consilina, chiuso nel 2013 ed accorpato al tribunale lucano, si ritrova da 5 anni con un bacino di utenza di decine di migliaia di persone e senza un carcere. A mettere nero su bianco la situazione critica è Rosa Patrizia Sinisi, Presidente della Corte di Appello di Potenza, che nella sua relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020 ha messo in evidenza tra le criticità del suo distretto quella relativa alla mancanza di istituti di pena nelle vicinanze del Tribunale di Lagonegro. “Ciò - si legge nella relazione - è motivo di criticità per la gestione dei processi soprattutto in fase di convalida dell’arresto e la scarsa disponibilità di carburante per l’autovettura di servizio necessaria per raggiungere i luoghi di detenzione”. La Sinisi ripercorre anche quelle che sono stati le azioni messe in campo negli ultimi anni tese ad ottenere la riapertura del carcere di via Gioberti: “L’amministrazione comunale di Sala Consilina ha impugnato avanti al giudice amministrativo il provvedimento ministeriale, per cui vi è stata una conferenza di servizi sul tema tenutasi a Roma nell’ottobre 2018 presso il Dap e a tutt’oggi non constano determinazioni ministeriali”. Il silenzio del Dap. Il silenzio da parte del Dap per la Corte di Appello “è eloquente - scrive il Presidente Sinisi - nel senso del rigetto della proposta, pur essendo una esigenza concreta non solo per avvocati, magistrati e personale amministrativo, ma soprattutto per i detenuti e i loro familiari che hanno diritto ad essere ristretti vicino ai luoghi di residenza. Invece nel circondario di Lagonegro si è costretti a ricorrere alla detenzione nel carcere di Castrovillari, in regione Calabria, in quello di Salerno, in regione Campania, o in quello di Potenza, con notevoli disagi per magistrati, cancellieri, con rilevante dispendio economico per tutti e disagi in caso di convalida di arresto o fermo”. In parole povere la chiusura del carcere, necessaria secondo il Ministero della Giustizia per ragioni di economicità, ha comportato un taglio dei costi ma allo stesso tempo il costo del risparmio si è paradossalmente trasformato in un aumento delle spese per poter consentire ai magistrati di poter svolgere la loro attività con tutti i disagi che conseguono al fatto di essere costretti a spostarsi tra le carceri di 3 regioni: Basilicata, Campania e Calabria. La vicenda giudiziaria. Formalmente il carcere di Sala Consilina non è chiuso perché la giustizia amministrativa ha ritenuto illegittimo il provvedimento del Ministero della Giustizia per non aver coinvolto il Comune di Sala Consilina e l’Ordine degli Avvocati di Lagonegro nel procedimento che poi ha portato al decreto di chiusura. Ad ottobre del 2016 il Tar aveva accolto il ricorso dell’Amministrazione Comunale ed annullato il Decreto del Ministero della Giustizia ritenendo che lo stesso avesse violato il principio fondamentale della territorialità dell’esecuzione penale previsto da una serie di leggi che regolano l’ordinamento penitenziario ed inoltre non era stata tenuta in considerazione la circostanza della unicità del carcere di Sala Consilina, anche nel circondario del Tribunale di Lagonegro. Il Ministero della Giustizia si era appellato al Consiglio di Stato che nel 2017 aveva ritenuto illegittima la procedura adottata ed imposto al Dicastero di via Arenula di convocare una conferenza dei servizi coinvolgendo anche il Comune di Sala Consilina e l’Ordine degli Avvocati e poi decidere se chiudere o meno la struttura penitenziaria. In sede di conferenza di servizi il Comune aveva presentato un progetto con cui sarebbe stato possibile con una spesa di 220mila euro portare a 51 posti la capienza della casa circondariale, La conferenza si è conclusa un anno e mezzo fa, nel settembre del 2018, ma da allora non è stata ancora presa alcuna decisione in merito alle sorti del carcere che nel frattempo, abbandonato a se stesso, sta iniziando a cadere a pezzi. Napoli. Giustizia lumaca, 18 anni per la prima udienza di Viviana Lanza Il Riformista, 21 giugno 2020 Diciotto anni di attesa per la prima udienza istruttoria davanti al giudice di pace. Un record? Forse. Di certo un esempio di giustizia non efficiente e di tempi ragionevoli del processo, garanzie e diritti tutt’altro che tempestivamente tutelati. Il caso è quello di un Giampiero S., napoletano, che da ben diciotto anni attende di veder celebrata l’udienza del giudizio intentato contro Poste Italiane per un pacco mai recapito e distrutto. In quel pacco c’erano giocattoli per i suoi bambini, lettere e fotografie per la sua amata, ricordi e oggetti che avevano un valore soprattutto affettivo. Giampiero li aveva spediti dal carcere di Secondigliano dove all’epoca, parliamo di vent’anni fa, era recluso. Erano il suo messaggio di amore nei confronti dei propri cari ma quegli oggetti non arrivarono mai alla destinataria e nessuno seppe, se non anni dopo, che se quel pacco con i regali per i figli e le lettere per la moglie non arrivò non fu per disinteresse o dimenticanza. Sta di fatto che la situazione ebbe delle ripercussioni sui rapporti del detenuto con la sua famiglia, “provocando seri danni e disagi nonché indiscutibili complicazioni al rapporto familiare del mio cliente” come scrisse l’avvocato Angelo Pisani a Poste Italiane per avere il rimborso delle spese sostenute per la spedizione e il risarcimento dei danni per il mancato recapito del plico. Emerse solo dopo che il pacco era stato mandato in un apposito reparto delle Poste dove finiscono tutti i pacchi destinati alla distruzione perché non ci sono gli estremi o le condizioni per farli recapitare ai destinatari. Di qui la causa civile e un’attesa di ben 18 anni per veder celebrata un’udienza utile del processo. Si è arrivati così a ieri. “Sono emozionato, non ci posso credere. Dopo oltre 18 anni, nonostante i blocchi Covid, oggi finalmente dinanzi a un nuovo giudice di pace si è tenuta la prima udienza istruttoria della causa intentata da un utente contro Poste Italiane per il risarcimento dei danni subiti dalla mancata consegna e distruzione di un pacco spedito nel lontano 2002”, è la gioia di Giampiero. “E il colmo - afferma l’avvocato Pisani - è che, visti i tempi, ora saranno maggiori i danni dovuti dallo Stato, in base alla legge Pinto, per il ritardo della giustizia”. Sì, perché è evidente che i tempi ragionevoli del processo non sono stati rispettati. Diciotto anni per un’udienza che incardini l’istruttoria sono davvero tanti, troppi. Come è potuto accadere? La risposta è in una serie di singolari eventi, la fatalità c’entra solo in minima parte, poi ci sono gli effetti di una giustizia che generalmente affannando annaspa e annaspando perde efficacia e credibilità. Al danno si è aggiunta la beffa in questo caso. Perché Giampiero, che si era rivolto alla giustizia per un pacco andato disperso e poi distrutto, ha dovuto assistere alle lungaggini di un procedimento che non prendeva il via, una volta per la lentezza di un primo giudice di pace, un’altra volta perché il fascicolo processuale è andato smarrito. Le varie istanze inoltrate alla cancelleria dall’avvocato Pisani solo nel 2017 hanno avuto un riscontro concreto con la fissazione di un’udienza, poi rinviata al 2018 e, dopo che il nuovo giudice a cui il processo era stato assegnato è andato in pensione, al 19 giugno 2020. Da ieri ha preso il via la prima udienza istruttoria e si spera che questa sia la volta buona per celebrare e definire il processo. Si torna in aula a settembre. Porto Azzurro (Li). Detenuto investito dalla fiamma del fornello di Valentina Caffieri quinewselba.it, 21 giugno 2020 L’uomo è stato trasferito all’ospedale di Pisa con l’elisoccorso. Nel pomeriggio di ieri, verso le 15,30, nella Casa di reclusione di Porto Azzurro un detenuto, mentre stava preparandosi da mangiare in cella con il fornelletto a gas, è stato investito al volto da una fiamma che si è sprigionata. L’uomo è stato soccorso dal personale medico del 118, Pubblica Assistenza di Porto Azzurro e Pubblica Assistenza di Capoliveri. Per precauzione l’uomo è stato trasferito con l’elisoccorso all’ospedale di Pisa, come ci ha riferito Carlo Mazzerbo, attualmente in servizio per sostituire temporaneamente il direttore D’Anselmo. Mazzerbo ci ha inoltre spiegato che l’uomo è stato trasferito fuori Elba con l’elisoccorso per una visita specialistica immediata, dato che si temevano danni peggiori, in particolare agli occhi. L’uomo è in buone condizioni, è stato già dimesso dall’Ospedale di Pisa e lunedì tornerà sull’isola. In merito a quanto accaduto una nota del Sappe-Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria sottolinea che l’uomo è stato prontamente soccorso prima dagli agenti della Polizia penitenziaria di Porto Azzurro. Il Sappe inoltre mette in evidenza i rischi derivanti dall’utilizzo, comunque consentito dalla legge, “dei fornelli da campeggio utilizzati per la preparazione dei pasti e che di sovente vengono impiegati impropriamente, ma anche per questa situazione rimaniamo inascoltati nonostante continuano a verificarsi incidenti e suicidi con tali strumenti”, sottolineando di aver più volte fatto presente all’amministrazione penitenziaria i potenziali rischi di tali strumenti all’interno delle carceri. Napoli. Concluso il progetto “Donne nelle carceri” sciscianonotizie.it, 21 giugno 2020 Uno sguardo al benessere psicofisico, un percorso di formazione in vista del reinserimento post-detentivo. Si è concluso con l’unanime apprezzamento il progetto “Donne nelle carceri: alimentazione corretta e attività motoria per il benessere fisico in regime di detenzione”, promosso dalla Consulta femminile sulla condizione delle donne della Regione Campania, affidato alla cooperativa Orsa Maggiore. L’iniziativa, proposta da Antonella Cotumaccio, Consigliera dell’Ordine dei Periti Industriali di Napoli e componente della Consulta Femminile della Regione Campania, era stato approvato e avviato nel novembre dello scorso anno col via libera della sottocommissione regionale dell’organismo di parità composta, oltre che dalla Cotumaccio e dalla presidente pro tempore Simona Ricciardelli, da Giusi Acampora (Ordine dei Consulenti del Lavoro) e Laura Capobianco (Sel) e Sara Perrotta (Onda Rosa). L’occasione per mantenere accesi i riflettori sulla condizione delle donne nei penitenziari, ma anche per realizzare momenti formativi finalizzati al reinserimento delle future ex detenute nel contesto familiare, sociale e lavorativo. In più, l’opportunità per aprire le porte della casa circondariale allo svolgimento di attività psicofisiche, curate da Giovanna Rosco, docente di Zumba, e alla sana e corretta alimentazione, sotto l’occhio esperto della nutrizionista Giuliana Gnocchi. Venti, complessivamente, gli incontri con le detenute, ciascuno della durata di un’ora e mezzo per complessive di 30 ore di attività. Venticinque le donne coinvolte seppure con una quota parte di rotazione tra le partecipanti dovuta al regime detentivo delle stesse o a occasioni l’inserimento in percorsi lavorativi, la scarcerazione definitiva, il trasferimento in altro penitenziario, udienze o colloqui. L’intero progetto è stato curato e realizzato con la costante presenza dell’educatrice della cooperativa, Antonella Bizzarro, per garantire ascolto, continuità e rilevazione dei bisogni delle partecipanti. Gela (Cl). Il volontariato all’interno del carcere al centro di un master da 110 e lode La Sicilia, 21 giugno 2020 Il racconto in prima linea di Carlo Varchi che ha dedicato l’elaborato al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un’esperienza di volontariato condotta all’interno del carcere di Balate diventa oggetto della tesi conclusiva di un master dell’Università di Catania e riscuote un notevole successo tanto che il suo autore, il dott. Carlo Varchi, che è anche il protagonista dell’iniziativa di volontariato, ottiene il massimo dei voti cioè 110 e la lode. Un risultato prestigioso che Varchi, commerciante e psicologo, impegnato da sempre nell’associazionismo, ha centrato ieri, giorno in cui si è concluso il master di II livello in Psichiatria e psicologia forense presso l’Università degli studi di Catania per 24 futuri Ctu cioè i delegati del giudice. Tra i partecipanti al master, svoltosi per un anno al Policlinico di Catania, c’erano funzionari di polizia, dirigenti delle R.e.m.s., psicologi, medici legali, avvocati ed educatori. I corsisti, selezionati attraverso un bando a numero chiuso, hanno tutti superato l’anno accademico con successo. Il corso, altamente professionalizzante, ha visto toccare discipline che vanno dal campo clinico a quello investigativo-criminologico. I corsisti si sono cimentati su questioni delicate come l’ambito forense, la capacità di relazionare in equipe multidisciplinare toccando argomenti legati alla pericolosità sociale, incapacità di intendere e volere, incompatibilità carceraria, capacità genitoriale nonché interfacciarsi con i Tribunale di riferimento in varie indagini di cui sono delegati. La parte sperimentale della tesi dal titolo “La funzione rieducativa della pena e l’importanza del volontariato in carcere” è stata l’esperienza che il dott Varchi ha condotto all’interno del carcere di Balate l’estate scorsa. Agli ospiti del penitenziario è stato proposto un programma per la creazione di un orto e di un’area attrezzata per i colloqui in presenza di bambini. Dalla semina, alla decorazione dei vasi all’abbellimento dello spazio interno al carcere: tanti momenti descritti nella loro valenza educativa ma anche ai fini rieducativi. E dulcis in fundo il raccolto dei prodotti seminati nell’orto da usare nella cucina del penitenziario. Tutti passaggi che Varchi descrive con naturalezza per averli vissuti dal momento della progettazione a quello della realizzazione. Peraltro sono circa 10 anni che opera nell’ambito del volontariato in carcere a cominciare dalla collaborazione con il Garante dei diritti dei detenuti. L’attività di volontariato descritta nella tesi si sostanzia come un progetto pilota nel campo della rieducazione dei detenuti e del loro reinserimento sociale, tema quanto mai attuale in questo particolare momento del dibattito politico nazionale. Mattarella: “Rafforzare la protezione e l’assistenza dei migranti” di Adriana Pollice Il Manifesto, 21 giugno 2020 Il presidente Mattarella è intervenuto nella Giornata del Rifugiato. L’Fmi: “Sono una risorsa, aumentano la produzione e la produttività sia a breve che a medio termine”. “La nostra azione di protezione e assistenza non può indebolirsi ma deve, anzi, rafforzarsi con l’elaborazione di un nuovo corso dell’Unione europea in materia di migrazioni e asilo, nel segno di un più incisivo e condiviso impegno comune”: ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è intervenuto in occasione della Giornata mondiale del rifugiato. Le sue parole suonano come una sveglia nei confronti di un governo molto timido nell’invertire la rotta rispetto al Conte Uno, quando la Lega era al Viminale. I monumenti simbolo di 5 città italiane (la Fontana monumentale di Piazza Moro a Bari, Palazzo Re Enzo a Bologna, Porta San Niccolò a Firenze, Palazzo Marino a Milano e il Maschio Angioino a Napoli) sono stati illuminati di blu ieri notte per invitare la cittadinanza a non voltare lo sguardo davanti a chi ha bisogno di aiuto. “L’impatto della pandemia - ha proseguito Mattarella - aggrava la già critica condizione di quanti, a causa di conflitti o per la violazione di diritti fondamentali, sono costretti a fuggire dal proprio paese”. Ribadendo il sostegno dell’Italia all’Alto commissariato delle Nazioni unite per i Rifugiati, ha poi concluso: “Il fenomeno delle migrazioni conta su un approccio italiano basato su strumenti importanti quali il programma nazionale di reinsediamento e i corridoi umanitari per rifugiati particolarmente vulnerabili, colpiti in misura considerevole dalle restrizioni determinate dall’attuale emergenza sanitaria”. I numeri, però, mostrano che l’impegno su questo fronte è ancora troppo basso rispetto alla grandezza del fenomeno. L’Unhcr ha diffuso i dati del rapporto annuale Global trends: gli esodi forzati nel 2019 hanno coinvolto più dell’uno per cento della popolazione mondiale (una persona su 97) mentre continua a diminuire il numero di coloro che riescono a fare ritorno a casa. Alla fine dello scorso anno “risultava essere in fuga la cifra senza precedenti di 79,5 milioni di persone”, un dato record. Dal Viminale sono arrivati ieri i numeri che riguardano l’Italia: sono quasi 11mila (10.972) le richieste di asilo presentate nel nostro paese dal primo gennaio al 12 giugno 2020. Le principali aree geografiche di provenienza dei richiedenti sono l’Asia (40%), l’Africa (37%), l’America (17%). Da cittadini del Pakistan il numero più altro di pratiche (18%), seguito dalla Nigeria (10%). Il 76% dei richiedenti sono uomini. La maggior parte di loro (62%) ha un’età compresa tra i 18 e i 34 anni, il 13% sono bambini da 0 a 13 anni, il 3% ragazzi dai 14 ai 17. Dal primo gennaio 2020 la Commissione nazionale per il diritto di asilo ha adottato 21.144 decisioni. Dal 2015 a oggi, sono stati reinsediati in Italia, attraverso i programmi di ricollocamento internazionali, solo 2.510 rifugiati. Per le annualità 2020-2021 è previsto un contributo aggiuntivo di 700 persone. Il divario tra chi ha necessità di accedere a questa misura e i posti messi a disposizione dai governi resta enorme. La retorica di destra descrive i migranti come un costo per la collettività. Addirittura il Fondo monetario internazionale smonta questa narrazione tossica nel report World Economic Outlook: “Si tratta di un’idea sbagliata. Nelle economie avanzate i migranti aumentano la produzione e la produttività sia a breve che a medio termine. Un aumento di 1 punto percentuale nell’afflusso di immigrati, rispetto all’occupazione totale, aumenta il Pil di quasi l’1% entro 5 anni dal loro ingresso”. Questo perché i lavoratori autoctoni e immigrati apportano al mercato del lavoro una serie diversificata di competenze, che “si completano a vicenda aumentando la produttività”. I migranti erano 120 milioni nel 1990, nel 2019 sono saliti a 270 milioni ma la loro quota è rimasta stabile, intorno al 3% degli abitanti totali. A crescere è stata la loro presenza nelle economie avanzate: dal 7% al 12%. Le pressioni migratorie verso l’Europa nei prossimi anni saranno più forti a causa del boom demografico nell’Africa sub-sahariana, dove la popolazione dovrebbe aumentare di 1 miliardo di persone tra il 2020 e il 2050, generando una pressione migratoria extra-regionale di 31 milioni di individui. A questo si somma l’effetto dei cambiamenti climatici. L’Fmi ammette che il fenomeno provoca tensioni: “I lavoratori autoctoni in specifici segmenti potrebbero essere danneggiati” ma si possono utilizzare politiche di sostegno al reddito e di riqualificazione delle competenze per superare il problema. Mentre, sul fronte degli immigrati, politiche orientate all’integrazione “come la formazione linguistica e un più facile riconoscimento dei titoli professionali possono aiutare a ottenere risultati ancora migliori”. Prima i profughi: basta leggi per respingerli, bisogna organizzarsi per accoglierli di Piero Sansonetti Il Dubbio, 21 giugno 2020 Ottanta milioni di profughi. Più di tutti gli abitanti della Francia, o dell’Italia, o dell’Inghilterra. Di questi, almeno una quindicina di milioni sono bambini e altrettanti sono ragazzi sotto i diciotto anni. Cinque milioni di bambini non vanno a scuola e resteranno forse senza nessun tipo di istruzione per tutta la vita. Molti sono orfani, o separati dai loro genitori. Impauriti, tremanti. Queste sono le cifre ufficiali. Bisogna commentarle? Quando mi capita di parlare o di scrivere dei problemi di migranti o dei profughi, di solito vengo aggredito e accusato di essere un comunista o un veterocomunista. Cosa c’entra il comunismo con la richiesta di considerare gli esseri umani esseri umani? Credo niente. I primi profughi che ho conosciuto nella mia vita - allora ho imparato questa parola: ero bambino, parlo del 1956 - fuggivano dal comunismo. Erano gli ungheresi che scappavano dalla repressione di Krusciov contro il tentativo di comunismo un po’ liberale di Imre Nagy. Scappavano dai carrarmati. Il comunismo ha creato molti profughi, nella sua breve storia. Come tutti i regimi totalitari. Come i fascismi. Non è una specialità della sinistra chiedere umanità per le persone disperate. Non dovrebbe esserlo. Dovrebbe essere uno dei pochi valori unificanti di una società moderna. Ci si può e ci si deve dividere su molte cose: l’economia, l’idea di diritto, il modo nel quale si spartisce la ricchezza, i metodi di produzione, i compiti e i diritti e i doveri dei lavoratori. Ma sul principio generale dell’umanità, e del diritto alla dignità, non dovrebbero esserci divisioni. Non vedo che differenza debba esserci tra sinistra e destra. A me sembra uno dei principi di base della convivenza: insieme al rifiuto della violenza, della truffa, della rapina, dello stupro, della schiavizzazione. Non c’è nessuna scelta ideologica o di campo nel pensare che 80 milioni di profughi devono essere aiutati: sono un problema di tutti, perché costituiscono un macigno sulla possibilità di sviluppo della modernità e della storia. E invece assistiamo, anche in queste ore, al tripudio dell’indifferenza. Oggi è la giornata internazionale del rifugiato ma la cosa lascia tutti assopiti: la sinistra esattamente come la destra. le Istituzioni, i giornali, i partiti, gli intellettuali. Vince il silenzio. Queste ottanta milioni di persone disperate, che hanno dovuto lasciare le proprie case, la propria terra, i propri averi, per cercare di salvare la pelle, o i figli, sono in grandissima parte ammassate in paesi poveri. Appena un pochino meno disperati dei paesi di origine. Solo il 15 per cento dei profughi ha raggiunto l’Occidente. Cosa racconterà l’Occidente agli storici quando dovrà rendere conto dell’indifferenza con la quale ha accolto - e maltrattato - neanche il 15 percento dell’esercito dei profughi? Come spiegherà la sua cecità e il suo egoismo, che hanno provocato nuovi squilibri, nuove ingiustizie, nuove violenze, nuove guerre? Le cifre che ci hanno fornito le autorità internazionali non lasciano scampo: il problema dei rifugiati è il principale problema sul tappeto per la politica internazionale. L’Occidente non si può sottrarre. Neanche l’Italia può sottrarsi. Deve smetterla di fare leggi per respingere i profughi: deve organizzarsi per accoglierli. C’è una parola d’ordine, mutuata da Trump, che è l’unica parola d’ordine ragionevole per chi vuole entrare nella modernità: “Prima i Profughi”. Non può restare una esclusiva dei gesuiti e dei volontari. Deve diventare bandiera di tutti gli Stati: “Prima i profughi”. Svizzera. Foto, cinema, storia: così si studia nelle carceri di Andrea Bertagni caffe.ch, 21 giugno 2020 Le iniziative negli istituti di pena da Ginevra a Bienne. Laboratori creativi, concerti, spettacoli teatrali, raccolte fotografiche e anche film. Con i quali i detenuti possono essere liberi di esprimersi. Anche fuori dal carcere. In Svizzera romanda è il collettivo Prélude di Losanna a farsi portavoce, da anni, delle libertà artistiche dei carcerati. “L’arte in prigione nasce da una tensione - spiega il collettivo - tra libertà di creare e l’impossibilità di muoversi, facendo nascere dei collegamenti tra ‘dentro’ e ‘fuori’ e permettendo a chi è recluso di dialogare e di mettere alla prova la capacità di pensare”. Sono nate così anche serie di cortometraggi come “La vie d’une patate” o “La liberté c’est...”, prodotti nel giro di un anno da un gruppo di nove carcerati romandi. Attori, ma anche registi e produttori della settima arte, dunque. Anche alla prigione regionale di Bienne i detenuti hanno potuto esprimere la loro vena artistica. Nel corso di un’edizione delle Giornate fotografiche di Bienne, manifestazione che si tiene ogni anno nella città bernese, i detenuti hanno potuto esporre una collezione di fotografie al di fuori del carcere. Le immagini scattate dentro la struttura penitenziaria sono nate e sono state sviluppate nel corso di diversi atelier. L’obiettivo, anche in questa occasione, era quello di gettare uno sguardo dentro le mura del penitenziario, sempre poco conosciute, anche in una società “dove le immagini sono onnipresenti”, si è spiegato. Hanno invece indossato i panni degli attori di teatro gli ospiti del penitenziario di Brenaz, nel canton Ginevra. Sul palcoscenico hanno portato una commedia western, dove cow-boy e indiani lottano per la conquista del territorio e si confrontano con la colonizzazione e la corruzione. Tematiche che per il collettivo Prélude, promotore del progetto, sono sempre attuali e interrogano il funzionamento della società attuale. Si sono invece confrontati con la musica, creando un vero e proprio disco, i carcerati della struttura penitenziaria di Orbe nel canton Vaud. Con l’accompagnamento di musicisti ed esperti musicali, l’opera è stata anche suonata dal vivo, in due concerti, di cui uno trasmesso in streaming direttamente da dietro le sbarre. L’approccio alla musica è avvenuto in un contesto in cui la conoscenza degli strumenti o delle note non era necessario. Importante era scatenare una creatività il più possibile libera da condizionamenti e limiti. Egitto. Agli inquirenti italiani i documenti di Regeni (e oggetti del depistaggio) di Ester Nemo Il Manifesto, 21 giugno 2020 Sono in possesso degli inquirenti italiani i documenti di Giulio Regeni, passaporto e due tessere universitarie, consegnati dalle autorità egiziane con una serie di oggetti che, per gli investigatori egiziani - che dovrebbero collaborare - appartenevano al ricercatore sequestrato e ucciso al Cairo nel 2016. Gli altri “effetti personali” furono sequestrati alla banda di presunti killer, cinque malviventi comuni uccisi in Egitto il 24 marzo 2016 e fatti passare come gli autori del sequestro e dell’assassinio. Fu la prova, servita su un piatto d’argento, d’un sanguinoso tentativo di depistaggio - così risultò agli investigatori italiani - che dimostrava in realtà come il golpista Al Sisi fosse pronto alla strage pur di non far risalire le responsabilità di sequestro, torture e uccisione di Giulio Regeni direttamente al suo regime. Gli oggetti sarebbero quelli mostrati in foto dopo il blitz contro i cinque malviventi: oltre al passaporto di Giulio e le tessere dell’università di Cambridge e dell’università americana del Cairo anche alcuni presunti effetti personali: occhiali da sole (due modelli da donna), un pezzo di hashish, due borselli neri. Ora probabilmente i genitori di Giulio verranno convocati dagli investigatori per un nuovo riconoscimento degli “effetti” giunti dal Cairo. Claudio e Paola Regeni, assistiti dall’avvocato Alessandra Ballerini, hanno già in passato compiuto una perizia sulle foto dei presunti effetti personali: emerse che solo i documenti di riconoscimento sono di Giulio mentre l’altro materiale, gli occhiali, la droga e altro, non gli appartenevano. Siamo dunque di fronte ad un ambiguo “gesto” simbolico di Al Sisi - che a parole assicura “massima collaborazione” a Conte - perché continua a nascondere la verità e a confondere, facendo arrivare “effetti” che facevano parte del depistaggio che aveva costruito. Ora il primo luglio si terrà il vertice tra procure italiane ed egiziane. Stati Uniti. Cosa insegnano le rivendicazioni del movimento antirazzista di Salvatore Palidda contropiano.org, 21 giugno 2020 Da sempre gli Stati-Uniti riproducono fatti economici, sociali, culturali e politici estremi: dopo l’esasperazione della criminalizzazione razzista e dell’incarcerazione di massa ecco ora che il movimento antirazzista arriva a rivendicare forti riduzioni dei finanziamenti della polizia e a immaginare persino la sua abolizione come quella delle carceri; delle rivendicazioni inimmaginabili in Europa eppure praticabili. Dall’inizio degli anni 90 negli Stati Uniti e poi anche in Europa e in tutto il mondo si è verificata un’impressionante escalation nell’incarcerazione di massa e nella violenza della polizia. In particolare dopo Reagan, poi Clinton e altri con l’ultimo Bush dopo l’11 settembre 2001 (vedi il famoso lavoro di Jonathan Simon Il governo della paura. Come la guerra al crimine trasforma la democrazia americana e crea la cultura della paura e vedi anche Razzismo democratico). La guerra securitaria interna s’è configurata come il continuum della guerra permanente su scala globale. Come hanno dimostrato alcune ricerche, tutto ciò è la conseguenza del trionfo neoliberista, in particolare di quello che Loïc Wacquant chiama il passaggio dal welfare state al workfare e quindi la cancerizzazione dei poveri. Il governo della sicurezza e dell’incarcerazione di massa è diventato così uno degli aspetti del business della fine del XX e dell’inizio del XXI secolo. Alcuni ricercatori hanno quindi osservato che un po’ ovunque in Europa si è imposta la deriva reazionaria in corso negli Stati Uniti (tra gli altri si veda Razzismo democratico e diversi numeri della rivista Cultures & Conflits). Anche se in Europa il numero di persone arrestate, detenute e vittime di violenza e omicidi per opera delle polizie non ha raggiunto i livelli degli USA, è stato tuttavia calcolato che il rapporto tra il tasso di detenzione degli immigrati e quello dei nazionali è diventato quasi uguale a quello che c’è negli Stati Uniti tra il tasso di neri e ispanici e quello dei bianchi (in particolare in Italia, mentre in Francia ciò si nasconde per mancanza di dati sull’origine immigrata della maggioranza dei detenuti, notoriamente magrebini e soprattutto algerini - cfr. Razzismo democratico). Per quanto riguarda gli episodi di razzismo in tutta Europa, s’è vista la loro diffusione, compresi episodi di razzismo poliziesco, anche se in numero molto inferiore rispetto agli Stati Uniti. È soprattutto in Francia che sono emersi più casi di razzismo da parte di agenti delle polizie, nonché una lunga serie di violenze poliziesche, in particolare contro i gilets gialli e anche contro i giovani delle banlieues (vedi diversi articoli su Médiapart.fr). Ed è negli Stati Uniti che è emerso il fenomeno delle bande fasciste “suprematiste”, armate, il cui equivalente in Europa è stato visto un po’ in Grecia ma anche in altri paesi. Sino all’esplosione del movimento antirazzista in risposta all’assassinio di George Floyd come ennesimo omicidio da parte della polizia, si aveva l’impressione che, nonostante tutto, in Europa la polizia e la violenza dei suprematisti, nonché atti razzisti, islamofobi, fascisti e sessisti siano stati limitati dalla mobilitazione delle associazioni e in generale dei democratici. Ma questa mobilitazione in Europa è sempre stata piuttosto limitata rispetto alla carcerazione esagerata, alla brutalità della polizia e l’eccesso di penalità. In Europa nessuno ha mai immaginato la possibilità di una mobilitazione di massa per ridurre il finanziamento della polizia, i suoi poteri fino al punto di chiedere persino la sua abolizione e quella delle carceri (vedi anche una riduzione radicale della pena e di pene alternative ecc.). Questo sta accadendo ovunque nelle città degli Stati Uniti. Numerosi articoli pubblicati la scorsa settimana raccontano le riflessioni e i percorsi della mobilitazione in corso. Tra questi segnalo l’intervista da parte di Meagan Day al prof. di sociologia del Brooklyn College, Alex S. Vitale, autore del famoso libro The End of Policing, l’articolo della sociologa Tamara K. Nopper, “La strada percorsa dal movimento a Los Angeles contro la polizia dopo la rivolta del 1992” e l’articolo del filosofo e militante Olúf?mi O. Táíwò “Power Over the Police” sulla rivista Dissent. L’aspetto più importante che segnalano questi autori e noti militanti come pure altri è che il movimento antirazzista negli Stati Uniti non è solo un’esplosione di rabbia come reazione all’ennesimo assassinio, cioè quello di George Floyd. Come dice Vitale: “stiamo attraversando un periodo di crisi profonda che va ben al di là dell’operato della polizia; la crisi della pandemia e la depressione economica che arriva (vedi forte aumento dei disoccupati) fanno parte di ciò che è all’origine della rivolta di oggi. C’è convergenza di un insieme di fattori diversi. Una polizia brutale completamente non riformata non è che il catalizzatore che ha scatenato una sorta d’attivismo intergenerazionale che risponde a una crisi più profonda, di cui la polizia è parte emblematica. Ciò che vediamo oggi è il residuo di Occupy Wall Street, del Black Lives Matter e della campagna di Sanders, movimenti uniti dal sentimento che il nostro sistema economico non funziona. Nessuno pensa che Biden riparerà questa situation. La polizia è il volto pubblico dell’incapacità dello Stato di provvedere ai bisogni fondamentali della gente e mostra questo fallimento con soluzioni che non fanno che nuocere ancora di più alla gente. Il secondo aspetto importante è che il movimento di oggi nasce anche dalla rivolta contro le false riforme, contro tutte le false promesse che le autorità hanno offerto dopo i movimenti del passato sin dai tempi delle lotte per i diritti civili degli anni Sessanta, la rivolta del 1992 a Los Angeles e ancora quelle di cinque anni fa. Da Clinton a Obama solo riforme-bidone mentre la situazione è rimasta la stessa anzi è peggiorata. La polizia ha avuto sempre più finanziamenti pubblici e da privati, s’è militarizzata, è diventata ancora più arrogante, brutale e persino assassina, dispone di mezzi e dispositivi impressionanti e gode sempre più di un’impunità totale grazie anche al peso aumentato dei suoi sindacati. Ecco allora che oggi c’è un fermento straordinario nell’elaborazione di obiettivi e pratiche da parte di militanti, ricercatori universitari, giornalisti e anche qualche politico che si stacca dall’ambiente malsano dei partiti e delle amministrazioni. C’è soprattutto il percorso concreto che dal basso sta costruendo il nuovo modo di governare i quartieri e persino l’intera città. La forza e anche la concretezza di tale mobilitazione impressionante e senza precedenti si rivela nel fatto che l’amministrazione pubblica locale ha dovuto subito “cambiare registro”. Il sindaco di Washington che neanche un mese prima aveva previsto un aumento del budget della polizia locale di circa 45 milioni di dollari s’è premurato di chiedere a degli artisti di dipingere a caratteri ultra cubitali la scritta “Black Lives Matter” sulla strada vicino alla Casa Bianca dove c’erano stati violente cariche della polizia contro i manifestanti. A Los Angeles, dove il dipartimento di polizia (Lapd) assorbe circa il 53% dei fondi discrezionali della città, si prospetta ora quanto i militanti del Peoplès Budget (una coalizione promossa dal Black Lives Matter della città) hanno proposto ossia la riduzione a un magro 5,7%. La rivendicazione del definanziamento e ridimensionamento della polizia è ormai fortemente presente in tutte le città. A questa rivendicazione si accompagnano tante altre dettagliate misure che riguardano anche la questione del “potere delle comunità sulla polizia”. A questo fine corrisponde il progetto di instaurare una vera e propria democrazia diretta a partire dal quartiere, circoscrizione sino all’intera città. A New York i candidati alle prossime elezioni sono sollecitati a dichiarare il loro impegno rispetto all’obiettivo di definanziare la polizia e ridimensionarla. E già oltre 40 candidati si sono impegnati a votare la riduzione di un miliardo peraltro condivisa dallo stesso sindaco De Blasio che s’è sempre mostrato più a sinistra del governatore Cuomo (sebbene anche questi mostri più aperture verso il movimento un po’ come tutto il partito democratico che però propone solo aggiustamenti marginali). Le rivendicazioni riguardanti la polizia vanno in parallelo con quelle riguardanti il sistema penale e quindi le carceri. La lotta per la depenalizzazione e l’abolizione di leggi fra le quali la famigerata legge voluta da Clinton detta dei “three strikes you’re out law”, cioè dei tre “colpi” contro i recidivi (compresi per piccole infrazioni espellendone anche la famiglia anche dagli aiuti sociali ecc.). Nell’economia attuale degli Stati Uniti polizie e carceri costituiscono un settore di straordinario interesse per i gruppi finanziari privati. Ma questo settore s’è gonfiato a dismisura e ha una sua base di massa: centinaia di migliaia sono i poliziotti e i militari e gli impiegati del Pentagono e del ministero della Difesa, oggi il più grosso datore di lavoro degli Stati-Uniti. È anche questo che ha distrutto il welfare state statunitense a favore appunto di uno stato poliziesco-militare e del workfare (lavoro obbligatorio in carcere). Ne consegue che la lotta del movimento punta a spostare risorse dalle polizie e dal sistema penale verso le opere sociali. Le rivendicazioni del movimento USA sembrano inimmaginabili in Italia e in Europa e invece dovrebbero insegnarci a riflettere meglio e osare immaginare un futuro più decente. In Italia le spese per le polizie e per tutto l’universo del militare sono scandalose mentre il paese avrebbe bisogno di bonifiche sanitarie e ambientali che creerebbero centinaia di migliaia di posti di lavoro. Non solo si viola l’art.11 della costituzione ma anche il principio di tutela della vita della popolazione troppo spesso vittima di malattie dovute a contaminazioni tossiche e condizioni di lavoro e di vita insostenibili. E che ne dire dello scandalo degli sprechi nelle polizie nazionali e locali e ora anche in un’esasperazione di sistemi di videosorveglianza che non servono certo a proteggere la vita umana. Definanziare le polizie e l’universo militare, abolire le missioni militari all’estero, eliminare le basi militari e i siti che peraltro inquinano. Il futuro sta in un governo del territorio che sia sostenibile e pacifico. Stati Uniti. Gli effetti perversi della “guerra al crimine” di Ferdinando Fasce Corriere della Sera, 21 giugno 2020 Abusi e carcerazione di massa hanno portato alle proteste. La storia di cui fanno parte i circa 800 mila agenti di polizia statunitensi (oltre sei volte quelli federali) sparsi oggi a livello locale nell’Unione è una storia al plurale, frutto dei legami che queste strutture, create dalla metà dell’Ottocento, hanno intrattenuto e intrattengono con i sistemi politici locali, e soprattutto con i sindaci. Purtroppo in questo caso il proverbiale dinamismo della vita pubblica municipale nordamericana ha svolto un ruolo negativo. Perché, in nome del federalismo e dell’autonomia, ha impedito il coordinamento sistemico, su scala nazionale, necessario al successo dei numerosi tentativi di riforma di tali apparati a livello decentrato. Già a fine Ottocento essi erano nel mirino di riformatori progressisti come il newyorkese Theodore Roosevelt, preoccupati della corruzione che li piagava, e impegnati a combatterla sostituendo alle clientele e ai favoritismi, ampiamente diffusi, tecniche e criteri funzionariali. Con esiti che nell’immediato parvero decisamente positivi, tanto da spianare la strada alla carriera dello stesso Roosevelt, che fu presidente dal 1901 al 1909. Ma gli stessi risultati, visti in una prospettiva più lunga, come ha fatto la storica Marilynn Johnson nel libro “Street Justice. A History of Police Violence in New York City” (Beacon Press, 2003), mostrano una situazione spesso fuori controllo: per i persistenti fenomeni di corruzione e soprattutto per la violenza adottata come pratica sistematica dai poliziotti e divenuta oggetto di crescente attenzione a partire dalle rivolte dei ghetti negli anni Sessanta del Novecento. Parliamo, si badi, di quella polizia newyorkese il cui capo, William Bratton, negli anni Novanta veniva citato a esempio per aver contribuito, con la professionalizzazione del suo ente nella lotta senza quartiere alla piccola “devianza”, parte della “guerra al crimine” in corso da anni, a rendere la città più sicura. Non a caso Bratton è stato evocato dal “Financial Times” in un commento sui disordini attuali, nel quale però si richiamavano anche i problemi che le politiche di “carcerazione di massa” (un quarto dei detenuti al mondo), con al centro poveri e afroamericani, hanno creato nell’ultimo trentennio. Qui sale in cattedra un’altra storica (alle donne si devono le migliori ricerche su corpi polizieschi che, divenuti più inclusivi sul piano razziale, con una percentuale di neri pari al peso demografico, vedono le donne ferme al 12 per cento), Elizabeth Hinton. Il suo “From the War on Poverty to the War on Crime” (Harvard University Press, 2016) mostra che, con l’affermarsi delle strategie neoliberiste di taglio della spesa sociale, le politiche di ordine pubblico hanno drenato risorse verso una soluzione prevalentemente repressiva delle questioni sociali e razziali, rafforzando il circolo vizioso violento fra strade e strutture poliziesche. Mentre, con l’acuirsi delle disuguaglianze, oggi ingigantite dalla pandemia, tali questioni avrebbero richiesto più che mai interventi strutturali. Il clima divisivo e di legittimazione del “diritto a portare armi” seguito all’avvento di Donald Trump ha fatto il resto. Rilanciando la militarizzazione delle forze di polizia temporaneamente interrotta da Barack Obama, Trump ha gettato benzina sul fuoco. E ha chiuso al dialogo con i tanti che denunciavano le storture della “carcerazione di massa” e l’immunità che dagli anni Ottanta il sistema giudiziario ha fornito ai poliziotti. Eccoci così al brutale omicidio di Floyd. Alle gravi tensioni e all’indignazione nazionale e internazionale che ha suscitato. All’inaudita e incoraggiante autocritica della polizia. Che non ha impedito però il nuovo omicidio di un afroamericano, Rayshard Brooks, da parte di un agente bianco. Segno che, nonostante l’ammirevole corsa in atto ad approvare norme a tutti i livelli che riconducano finalmente la gestione dell’ordine pubblico entro un moderno Stato di diritto, la strada del vero cambiamento è ancora molto lunga. Libia, la Turchia avverte Parigi. Il Cairo: “Pronti a intervenire” di Marco Ventura Il Messaggero, 21 giugno 2020 Da ieri c’è una “linea rossa”, disegnata idealmente dal presidente egiziano Al-Sisi nel deserto libico, superata la quale l’esercito del Cairo potrebbe sconfinare e combattere per difendere il feldmaresciallo Khalifa Haftar, il signore di Bengasi, dalla vittoriosa controffensiva dell’antagonista Fayyez al-Serraj, premier libico riconosciuto da Onu e Ue. La guerra di Libia, che procede da anni con cambiamenti di scenario a seconda del peso che forze straniere mettono nel conflitto, è a una svolta. Se l’esercito del governo di concordia nazionale di Tripoli, forte di circa 2mila combattenti inviati da Ankara, attaccherà Sirte, storica roccaforte delle tribù gheddafiane oggi in mano a Haftar, e cercherà di espugnare la base aerea di Al Jufra dove sono pronti a decollare 14 Mig-29 e Sukhoi-24 russi (probabilmente con piloti egiziani alla cloche), la risposta del Cairo non si farà attendere. E potrebbe concretizzarsi uno scontro diretto, sul terreno, tra turchi ed egiziani per la delimitazione delle aree di influenza nel Paese. Il ministro degli Esteri libico Mohammed Sayla ha rifiutato ieri di partecipare alla riunione della Lega Araba chiesta dall’Egitto per sostenere Haftar. Governo di accordo nazionale libico (Gna) ha annunciato che non parteciperà alla riunione d’urgenza della Lega Araba convocata su richiesta dell’Egitto, che dovrebbe tenersi la prossima settimana. La Turchia rivendica, a sua volta, un patto con gli Stati Uniti in chiave anti-russa, e lancia avvertimenti alla Francia perché si tenga fuori dalla mischia, altrimenti un appoggio più consistente dei francesi a Haftar diventerebbe “un problema per la Nato”, di cui Parigi e Ankara sono pilastri. E l’Italia, che persegue la “soluzione politica” con un ospedale militare da campo e una missione aero-navale europea, Irini, comandata da un italiano per impedire il traffico di armi, fa sapere che sta per inviare unità del Genio specializzate nello sminamento, per bonificare le aree attorno alla capitale tornate sotto la sovranità del governo di Tripoli. La novità di ieri è la risposta che l’egiziano Al-Sisi ha voluto dare all’offensiva diplomatica turca, il giorno dopo l’incontro ad Ankara tra i ministri degli Esteri turco e italiano, Cavusoglu e Di Maio. Lo ha fatto visitando una base aerea nel distretto militare occidentale a ridosso della lunga frontiera con la Libia, a Sidi Barrani (95 km a est del confine). “Siate pronti - ha detto - a condurre qualsiasi missione, qui, all’interno dei nostri confini, o se necessario all’esterno”. L’esercito egiziano “è uno dei più forti della regione, protegge e non minaccia”. Un intervento diretto in Libia sarebbe “legittimo” secondo Al-Sisi, “in linea con le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu e sulla base della sola autorità legittima in Libia, eletta dal popolo libico”. Che per l’Egitto è il Parlamento di Tobruk, mentre per Onu e Ue è il governo di Tripoli. Ma più di tutto conta, per l’Egitto, l’interesse strategico alla protezione dei confini occidentali e, quindi, alla stabilità della confinante Cirenaica, con una “profondità strategica contro le minacce dei mercenari e di milizie terroristiche”. Ecco perché il sostegno della Francia a Haftar, per Al-Sisi, mette “in pericolo la sicurezza della Nato”. Da Ankara la risposta è che la condizione per il cessate il fuoco è proprio il ritiro delle forze di Haftar da Sirte. Venezuela (e non solo), calcoli errati a Ovest di Paolo Mieli Corriere della Sera, 21 giugno 2020 Dalla Seconda guerra mondiale non se n’è azzeccata una. Per quel che riguarda la contesa sudamericana, l’Italia si è tenuta in disparte, e si è rivelata una scelta saggia. È assai probabile che il caso dei tre milioni e mezzo in contanti “donati” nel 2010 da Hugo Chávez a Gianroberto Casaleggio finisca presto nel nulla. Il documento che è all’origine della denuncia, pubblicato una settimana fa dal quotidiano spagnolo Abc, è ad ogni evidenza artefatto. La testimonianza a indiretto sostegno dell’accusa dell’ex Cinque Stelle Giovanni Favia è poco convincente. L’evocazione di un misterioso colombiano, Alex Saab, che con la modella Camilla Fabri, avrebbe complottato a favore del regime venezuelano non mostra alcun nesso con la vicenda in questione. Resta il fatto che il movimento di Beppe Grillo ha mostrato fin dalle origini grande simpatia per i governanti di Caracas. E da quando è al governo, cioè da due anni, tale inclinazione ha notevolmente inciso sulla politica estera italiana. Ma questo non può indurci in alcun modo a dedurne, per un qualche automatismo, che tale simpatia sia stata compensata con del denaro in una valigetta. Si può tranquillamente continuare a ritenere che il modo con il quale Nicolás Maduro e altri leader sudamericani postcastristi governano i loro Paesi sia fortemente illiberale senza sentirsi poi vincolati a trarne la conseguenza che chi li sostiene, in patria o nel resto del mondo, sia necessariamente al soldo del regime di Caracas. La comunità italiana in Venezuela è assai ostile a Maduro e con essa buona parte della popolazione. Ma dobbiamo constatare che c’è un’altra parte di popolo venezuelano, probabilmente maggioritaria, che invece è schierata con il governo. Il che dovrebbe indurci non tanto a cambiare opinione su Maduro, quanto piuttosto a riflettere meglio su cosa augurarci per sperare in un virtuoso cambio di regime. E qui ci vediamo costretti ad ammettere che le politiche antichaviste messe in campo dagli Stati Uniti, dall’Europa (quasi per intero), vale a dire di quello che ai tempi della guerra fredda definivamo Occidente, sono state improvvide. Sempre. Il colonnello Hugo Chávez, dopo aver fallito un colpo di Stato nel 1992 (e aver trascorso due anni in prigione), alla fine del secolo scorso era andato al potere in seguito a elezioni abbastanza regolari. Si era poi applicato alla costruzione di un suo modello bolivariano finché nell’aprile 2002 era stato deposto da un golpe ordito da Pedro Carmona Estanga, con l’appoggio degli Stati Uniti. In quei giorni Chávez fu deportato nell’isola di La Orchila dove lo raggiunse il vescovo di Caracas Antonio Ignacio Velasco García per convincerlo a rinunciare “spontaneamente” al potere. Ma, proprio mentre l’alto prelato si trovava a colloquio con Chávez, imponenti manifestazioni in sostegno del leader spodestato avevano convinto Estanga a gettare la spugna. Talché l’uomo che si proclamava erede di Simón Bolívar tornò alla guida del Paese con un prestigio molto accresciuto che ne avrebbe fatto un leader indiscusso. Fino a quando morì (di cancro, nel 2013). Gli successe Maduro che, non avendo potuto ricevere in eredità l’autorevolezza del predecessore, navigava tra le difficoltà riconducibili al suo modello politico e all’ostilità dei Paesi Occidentali. Nel frattempo era cresciuta un’opposizione che, pur tra molti impedimenti, aveva saputo imporsi anche sotto il profilo elettorale. Maduro aveva reagito varando un modello eccessivamente innovativo sotto il profilo della democrazia rappresentativa. Uno stallo. Poi le contestate elezioni presidenziali del 2018. Il 23 gennaio del 2019 il presidente dell’Assemblea nazionale Juan Guaidò, leader dell’opposizione, si proclamò presidente pro tempore con l’intenzione di deporre Maduro e indire nuove elezioni. Guaidó ricevette immediatamente il riconoscimento degli Stati Uniti e di quasi tutta l’Europa. Ma non del nostro Paese che (su iniziativa grillina) si tenne neutrale. Né della Chiesa che, stavolta, lasciò ad esporsi il cardinale americano Sean Patrick O’Malley il quale in un’intervista a questo giornale disse che solo Guaidò avrebbe potuto scongiurare la guerra civile. Ma la guerra civile non ci fu. E Maduro forte di un evidente sostegno di parte della popolazione restò al suo posto. Malgrado le sanzioni imposte al Venezuela. Nelle settimane successive al pronunciamento di gennaio Guaidò annunciò di essere appoggiato dai militari, riuscì a liberare dagli arresti domiciliari Leopoldo Lopez, leader dell’opposizione prima di lui, viaggiò in Europa e, di ritorno dall’estero, poté tranquillamente rientrare nel suo Paese. Recentemente il procuratore generale del Venezuela lo ha accusato di aver reclutato mercenari (ne sono stati arrestati quarantacinque, tra i quali due cittadini statunitensi). Poi il ministro degli Esteri, Jorge Arreaza, ha raccontato che Guaidò e i suoi avevano trovato rifugio nell’ambasciata di Francia provocando sdegnati dinieghi da parte dell’ambasciatore. Che dire? Pur mantenendo intatte le perplessità sul regime di Maduro, dobbiamo ammettere che sarebbe improprio definirlo una “dittatura”. Quanto a Guaidò, va aggiunto che la sua autoproclamazione a presidente di un anno e mezzo fa era quantomeno basata su un calcolo errato della disposizione delle forze in campo. Resterebbe da fare qualche considerazione sulle scelte di politica internazionale degli Stati Uniti, dell’Europa, dell’Occidente. Il bilancio di “noi occidentali” (e da qui usiamo di proposito le virgolette) non è esaltante. In pratica è dalla Seconda guerra mondiale - quando “riuscimmo” a dar vita a sistemi democratici nei tre Paesi sconfitti (Germania Ovest, Italia, Giappone) - che non se n’è più azzeccata una. Le intenzioni delle “nostre” scelte talvolta erano ottime. Ma i risultati non sono stati mai all’altezza delle attese. Anzi. Ai tempi della guerra fredda “aiutammo” a nascere regimi dispotici fino all’imbarazzante caso del Cile (1973). Nei migliori dei casi, come per la guerra di Corea (1950-53) alla fine si tornò al punto di partenza. Nei peggiori, Vietnam (1961-75), ci siamo lasciati alle spalle dittature di coloro contro i quali “avevamo combattuto”. Caduto il muro di Berlino, abbiamo elaborato la dottrina dell’”esportazione della democrazia” e “ci siamo applicati” ai Paesi arabi con risultati sconfortanti. In generale caos (Somalia, Iraq, Siria, Libia). Oppure consolidamento di satrapie preesistenti. Nel caso di guerre civili, come quella libica, “abbiamo parteggiato” ora per il legittimo Serraj ora per il suo rivale Haftar con imbarazzante disinvoltura. Potremmo rincuorarci sostenendo che la categoria di “noi occidentali” non esiste e che sarebbe più corretto procedere a un esame caso per caso. Con i dovuti distinguo. Vero: per quel che riguarda la contesa venezuelana, ad esempio, l’Italia si è tenuta in disparte. E si è rivelata, la nostra, una scelta saggia. Ma, a ben riflettere, non è una grande consolazione. La legge di Pechino per la City: un’agenzia cinese a Hong Kong: “Si occuperà dei sovversivi” di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 21 giugno 2020 Pubblicata la bozza della Legge sulla sicurezza nazionale cinese per l’ex colonia britannica. 66 articoli e uno scopo: normalizzare la City e giudicare chi contesta il potere centrale della Madrepatria. Sono 66 articoli divisi in 6 capitoli. Lo scopo appare uno solo: normalizzare Hong Kong, sottoporla alla stessa (dura) Legge sulla sicurezza nazionale cinese che impedisce ai cittadini della Repubblica popolare di manifestare dissenso dall’operato del Partito-Stato. Il testo è pronto, rivisto dal Comitato permanente del Congresso del popolo di Pechino e diffuso dall’agenzia Xinhua. Due i punti chiave: l’installazione a Hong Kong di una Agenzia di sicurezza nazionale con funzionari inviati da Pechino che raccoglieranno intelligence e potranno decidere quali reati ricadranno direttamente sotto la giurisdizione cinese. Significa che cittadini hongkonghesi (o anche residenti stranieri della City) potranno essere processati secondo la legge vigente nel resto della Cina per fatti commessi nell’ex colonia britannica, che dovrebbe invece avere un sistema giudiziario autonomo e indipendente dal potere politico fino al 2047. La legge prevede i crimini di “separatismo, sovversione, terrorismo e collusione con forze straniere”. Secondo Pechino si tratta di stabilizzare il territorio dopo un anno di proteste anche violente, innescate nel giugno del 2019 dal tentativo della governatrice Carrie Lam di introdurre l’estradizione per reati minori. Quel provvedimento fu bloccato dalla rivolta popolare. La protesta si è poi rinsaldata con i sentimenti anti-comunisti e anche anti-cinesi. Ma ora, secondo le anticipazioni, chi si macchiasse di reati contro la sicurezza nazionale della Cina, potrebbe finire davanti ai giudici di Pechino che in materia hanno un record del 99 per cento di condanne. E la governatrice Carrie Lam avrà anche il potere di nominare giudici di scelta governativa per istruire casi di sicurezza nazionale (cinese). Significa che i magistrati internazionali che fanno parte del sistema giudiziario hongkonghese potranno essere estromessi dai processi sensibili. La Xinhua sostiene che Pechino manterrà la giurisdizione per reati contro la sicurezza in “certe circostanze”, in “casi estremamente rari”. I termini sono vaghi, ma è certo che sarà la nuova Agenzia di sicurezza, dotata di una sua intelligence nel territorio ad autonomia speciale, a selezionare questi casi e a decidere come giudicarli e punirli. Secondo la Xinhua, la bozza afferma che le nuove norme avranno il sopravvento su quelle in vigore attualmente a Hong Kong, se si dovessero verificare contraddizioni. La giustizia della Cina potrà anche emettere interpretazioni giudiziarie della legge: significa che Pechino avrà l’ultima parola. Il varo della legge è previsto entro due mesi, quando sarà riconvocato il comitato permanente del Congresso. Ma forse anche prima, visto che Pechino ha fretta e sta sfruttando lo stordimento mondiale per la pandemia per accelerare le sue azioni strategiche: da Hong Kong al confine con l’India, da Taiwan al Mar cinese meridionale. Sembra ormai una tardiva battaglia di retroguardia quella ingaggiata dagli Stati Uniti, troppo ondivaga la politica cinese di Donald Trump; dalla Gran Bretagna che pure ha promesso il passaporto a tre milioni di hongkonghesi che volessero lasciare la loro città. Timida anche l’Unione europea che guarda al grande rapporto commerciale con Pechino, anche se venerdì l’Europarlamento ha votato una risoluzione che chiede alla Commissione di Bruxelles di portare la Cina davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia e chiede all’Unione di usare la leva economica per cercare di fermare la legge che annullerà la semi-autonomia e quasi-democrazia dell’ex colonia britannica. La Legge sulla sicurezza nazionale, secondo l’opposizione democratica di Hong Kong, assesta un colpo mortale al principio “Un Paese due sistemi” che era stato negoziato tra Margaret Thatcher e Deng Xiaoping prima della restituzione della colonia alla Madrepatria cinese, con la previsione di farlo durare dal 1997 al 2047. Pechino afferma che al contrario, sono le manifestazioni continue, il clima insurrezionale che ha sconvolto la City nel 2019 e in qualche occasione anche nei mesi del coronavirus, ad aver minato il principio che la Cina è una sola. Un’unica certezza: anche se applicata con “moderazione”, la Legge sulla sicurezza nazionale cinese estende a Hong Kong il potere del Partito-Stato.