Il Covid è finito, tutti in carcere di David Allegranti Il Foglio, 20 giugno 2020 Il Dap sospende la circolare del 21 marzo. Il filosofo del diritto Santoro: “Un pessimo segnale. Le direzioni hanno sempre il dovere di tutelare la salute dei detenuti”. La nuova direzione del Dap ha sospeso la circolare del 21 marzo che chiedeva ai direttori dei penitenziari italiani di indicare, per contrastare il contagio nelle carceri, i nomi dei detenuti con più di 70 anni affetti da patologie. Motivo? “Il numero dei ristretti positivi al Covid-19, pari oggi a 66 persone su poco più di 53mila detenuti, è in costante diminuzione”, dicono i nuovi vertici del Dap, il capo Bernardo Petralia e il vice Roberto Tartaglia, e “negli istituti penitenziari risultano in atto protocolli di prevenzione del rischio di diffusione del contagio”. Per Emilio Santoro, filosofo del diritto, si tratta di un “pessimo segnale” della nuova direzione. “La circolare - dice Santoro al Foglio - non faceva che ricordare, in un momento particolare per la tutela della salute, un dovere che le direzioni hanno sempre: quello della tutela della salute dei detenuti. Che le direzioni debbano sottoporre ai magistrati di sorveglianza i rischi per la salute delle persone affidate alla loro cura (oltre che controllo) è un dato certo nell’ordinamento. Se non lo facessero ne deriverebbe una violazione dell’articolo 3 della convenzione europea dei diritti dell’uomo (che proibisce la tortura e i trattamenti inumani e degradanti) e una responsabilità da contatto sociale secondo la normativa nazionale”. Entrambe le cose, aggiunge Santoro, “se fatte valere giudizialmente costerebbero parecchie migliaia di euro allo Stato e sarebbe legittimo che questo chiamasse i direttori che non hanno fatto le segnalazioni a rispondere del danno erariale. La revoca della circolare è un pessimo segnale della nuova direzione del Dap. Sembra dire ai direttori non vi dovete preoccupare del diritto, che la costituzione considera fondamentalissimo, alla salute delle persone che vi sono state affidate, lasciate che siano loro a fare le istanze, cosa che con i tempi non brevissimi che queste prevedono può recare un danno irreparabile alla salute dei detenuti e compromettere anche la loro vita”. Fase 2 dietro le sbarre: via alle attività trattamentali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 giugno 2020 “Riaprire le attività trattamentali”. Parliamo della disposizione che il provveditore reggente dell’Amministrazione penitenziaria per il Veneto - Friuli Venezia Giulia - Trentino Alto Adige, Gloria Manzelli, ha emanato il 16 giugno per i direttori delle carceri. Non è roba di poco conto, ma di vitale importanza sperando che anche altri provveditori seguano questo esempio. Mentre noi, società libera, abbiamo riaperto gradualmente le attività e siamo entrati nel vivo della fase 2 per poter convivere con il Covid 19 rispettando le misure di sicurezza, nelle patrie galere i detenuti ancora vivono senza i corsi, laboratori e altre attività trattamentali che non rendono la misura punitiva esclusivamente afflittiva e, quindi, rieducativa. Senza nemmeno dimenticare che le attività trattamentali servono anche per compensare le inevitabili tensioni se i detenuti non vengono impegnati. Tale disposizione è una risposta alla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia la quale ha posto la questione della ripresa delle attività in carcere, con la forte convinzione - spiega la presidente Ornella Favero - “che in assenza del volontariato le carceri non sono in grado in alcun modo di rispettare il mandato costituzionale di garantire la rieducazione delle persone detenute”. Finalmente, spiega sempre la Favero, “dopo mesi di ulteriore desertificazione, dopo la paura, l’ansia, la sensazione di solitudine che hanno caratterizzato la vita detentiva durante la pandemia, il provveditore del Veneto, Gloria Manzelli, con l’Ufficio dei detenuti e del trattamento del Prap e in sintonia con i Garanti territoriali, che si sono fatti interpreti della volontà del Volontariato di tornare a essere presente nei luoghi di pena, ha dato indicazioni chiare per questo rientro e hanno scelto di farlo non nel linguaggio burocratico tipico di tanti atti amministrativi, ma usando parole semplici, chiare ed efficaci”. La dottoressa Manzelli, nelle disposizioni per l’apertura delle attività, sottolinea che “la particolare situazione creatasi a causa dell’emergenza da contagio covid 19 ha comportato la sospensione di gran parte delle iniziative non solo all’interno degli lstituti di pena ma anche all’esterno e solo da qualche settimana vi è un graduale ritorno alla cosiddetta “normalità” nel rispetto delle disposizioni che, pedissequamente, devono essere applicate per la tutela della salute di tutti”. Il provveditore del triveneto, sempre nella nota, osserva che le fasi di post confinamento che hanno riguardato la comunità libera “non escludono la comunità ristretta, la ripresa graduale delle attività rappresenta un elemento cardine per la prevenzione di possibili situazioni di criticità che potrebbero riverberarsi anche sul personale”. Come detto, la presidente della Conferenza Nazionale Volontariato ha accolto con entusiasmo queste disposizioni. “Ci saranno parecchie cose da ricostruire - osserva Ornella Favero - prima di tutto perché il mondo fuori, tutto preso dalla tragedia del Covid, rischia di diventare ancora più indifferente ai problemi delle carceri, e poi perché in questi mesi la pessima informazione sulle ‘ scarcerazioni dei mafiosi’ ha creato il vuoto su questi temi e riportato le carceri al clima ostile degli anni prima della riforma dell’Ordinamento penitenziario del 1975”. Covid-19: nell’Europa post virus potrebbero esserci meno detenuti nelle carceri di Marta Rodriguez Martinez euronews.com, 20 giugno 2020 Lavorare da casa, smettere di viaggiare, andare in bicicletta su strade sgombre. La pandemia di coronavirus ha cambiato da un giorno all’altro le abitudini di più della metà delle persone sul pianeta e anche se sotto molti aspetti si sta gradualmente tornando alla realtà pre-virus, alcuni di questi cambiamenti forzati e inaspettati potrebbero rimanere in modo permanente. Tra questi c’è la riduzione del numero di detenuti per prevenire la diffusione del nuovo virus nelle carceri europee. “Venti amministrazioni carcerarie europee hanno rilasciato 118.000 detenuti come misura per prevenire la pandemia Covid-19 nel primo mese di reclusione”, si legge in uno studio del Consiglio d’Europa che analizza l’evoluzione della popolazione carceraria europea nel periodo dal 1 gennaio al 15 aprile di quest’anno. Il rapporto sottolinea che, sebbene fosse già stata registrata una diminuzione del numero di condanne a pene detentive, “il confinamento delle popolazioni europee sembra aver contribuito a questa tendenza al ribasso”. L’eccezione è stata la Svezia, che è stato il paese europeo che ha adottato le misure di confinamento meno stringenti di fronte alla pandemia. Fin dall’inizio della nuova pandemia di coronavirus era chiaro agli esperti che le prigioni di tutto il mondo sarebbero potute diventare potenziali focolai, rendendo il sovraffollamento potenzialmente letale. Nelle carceri è praticamente possibile rispettare le norme di distanziamento sociale l’allontanamento, i servizi medici possono essere carenti e persino il disinfettante per le mani può diventare un oggetto di contrabbando a causa del suo contenuto di alcol. Il professor Marcelo Aebi, uno degli autori dello studio del Consiglio d’Europa, sottolinea come questa tendenza a ridurre le pene detentive sia positiva per la società: “Sappiamo che la detenzione ha effetti dannosi di per sé - dice Aebi - rende anche difficile il reinserimento nel mondo del lavoro in un secondo momento (è difficile trovare lavoro con precedenti penali), e i rapporti familiari (deterioramento del rapporto con genitori, partner e figli) e sociali in generale (altera lo status di una persona nella società e all’interno del suo gruppo di amici e coetanei)”. “Dagli anni 70 queste argomentazioni sono state ripetute fino alla nausea senza aver avuto un grande impatto sulla riduzione della popolazione carceraria”, dice Aeibi aggiungendo che, oltre al fattore umano, c’è da considerare la questione economica: “La reclusione costa molto di più delle sanzioni alternative”. “Ovviamente, le sanzioni alternative non possono sostituire completamente il carcere - sottolinea Aebi - ma sappiamo che sono efficaci quanto il carcere per la maggior parte dei crimini non violenti o minori. Per questi crimini il carcere potrebbe essere evitato, riducendo così la spesa pubblica”. “Un esperimento naturale” - Il rilascio dei detenuti negli ultimi mesi a causa del Covid-19 è “quello che noi scienziati sociali chiamiamo un esperimento naturale, il metodo scientifico per esperienza”, dice Aebi, e come in ogni esperimento scientifico ci vogliono due gruppi - uno con trattamento placebo - per confrontare i risultati. “In questo caso il coronavirus e il conseguente rilascio dei detenuti in alcuni paesi hanno svolto il ruolo del trattamento - dice il professore - ora dobbiamo confrontare i risultati dei paesi che hanno rilasciato i detenuti e con quelli dei paesi che non l’hanno fatto”. Aebi sottolinea che tra i limiti di questo esperimento c’è la necessità di considerare il confinamento, “perché, come mostra lo studio, ha un effetto sulla criminalità”. “Ci sono meno opportunità di commettere reati “offline” (o “tradizionali” o “faccia a faccia”), e meno reati corrispondono a meno condanne. In questo senso il confronto tra Svezia (che non ha imposto il lockdown) e resto d’Europa (che lo ha imposto) è un altro modo per approfittare di questo esperimento naturale. In Svezia non c’è stata né stabilità né un calo della popolazione carceraria, il che suggerisce che la criminalità ha continuato il suo corso normale”. Il M5S “indaga” su Bonafede di Pietro Salvatori huffingtonpost.it, 20 giugno 2020 Un clima pesantissimo attorno ai lavori della commissione Antimafia su nomina al Dap e scarcerazioni dei boss, con le accuse alimentate da Nino Di Matteo. In vista dell’audizione dello stesso ministro. “Sono nervosi, queste audizioni non le volevano fare...”. È dal cuore del Movimento 5 stelle che arrivano segnali di disagio legati al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Raccontano di telefonate su telefonate di preoccupazione e pressioni sulla sfilza di audizioni che nella commissione Antimafia si stanno susseguendo per fare luce sulle eventuali zone d’ombra intorno alla rivolta nelle carceri e sul successivo ok ai domiciliari per centinaia di detenuti in regime di massima sicurezza. Tra le molte verità di questa storia, è stato Nino Di Matteo a mettere le carte in tavola. “C’erano state delle rivolte che, dall’esterno, ho pensato che potessero essere organizzate a un livello più alto di quelli che salgono sui tetti. Poi sono conseguite le scarcerazioni”, ha detto in audizione. Il passaggio logico è abbastanza chiaro, ma non serve andare per deduzioni perché il magistrato di Palermo ha serenamente proseguito: “Mi preoccupava sostanzialmente il dato di una sostanziale analogia tra quanto avvenne nel 1993, quando ci furono stragi in contemporanea a Roma e Milano tanto da far ritenere al presidente del Consiglio che era in corso un colpo di Stato. Sappiamo che vennero fatte in funzione di un ricatto allo Stato per alleggerire il 41bis e far piegare le ginocchia alle istituzioni”. Le domande che alcuni fra i 5 stelle hanno iniziato a porsi dopo le parole di Di Matteo sono le seguenti: c’è stata una trattativa da parte dello Stato con pezzi di criminalità organizzata per ottenere le scarcerazioni in epoca di Covid-19? Chi è stato l’interlocutore alla cui porta è stato bussato? Le reazioni dei boss sulla sua nomina hanno portato a quello stop? È la stessa dinamica intercorsa per le scarcerazioni? Dallo scranno della presidenza dell’Antimafia, Nicola Morra va avanti imperterrito nel cercare di appurare quanto successo. Sul senatore filosofo si sono addensate critiche e nervosismi. Un suo collega la mette giù così: “Nicola è tanto bravo quanto ostinato, e adesso lo hanno totalmente isolato, perché rischia di venire giù tutto”. Un clima pesantissimo aleggia sul Palazzo e sui lavori della commissione Antimafia, mentre si stanno preparando altre due convocazioni di peso: quella di Francesco Basentini e quella del Guardasigilli, un ritorno a chiudere il cerchio. Occorre fare un passo indietro e ricostruire i fatti che interessano Bonafede, e su cui si fonda una teoria tanto indimostrata quanto sulfurea. E infatti, vale la pena dirlo, carsicamente riscuote un certo seguito nel Movimento 5 stelle, che pubblicamente invece ha lavorato per far scemare il clamore nel più breve tempo possibile. Ecco, questa teoria vuole che ci sia un collegamento tra un papello redatto dai rivoltosi del “carcere zero”, quello di Salerno, e la circolare che ha dato il via libera alle pene alternative anche per i reati di mafia. Un papello nel quale si ponevano alcune condizioni per lo stop alle sommosse, tra cui proprio quello della sospensione della pena e della detenzione domiciliare per motivi di salute. Era il 7 marzo, l’Italia viveva con il fiato sospeso per il crollo della Borsa e l’imminente lockdown. Il collegamento si sarebbe concretizzato solamente due settimane dopo, il 21 marzo, con la famosa circolare che ha dato il via alle scarcerazioni. Bonafede ha sempre parlato di strumentalizzazioni: “Ricordo che le scarcerazioni sono state determinate da decisioni prese in piena autonomia e indipendenza dai magistrati competenti (nella maggior parte dei casi per motivi di salute), sui quali, ovviamente, non c’è stato alcun condizionamento da parte del ministero o del governo”, ha detto alla Camera il 12 maggio scorso. Il tassello che ha fatto balzare sulla sedia coloro che, nei 5 stelle e più in generale in maggioranza temono (o si augurano) che la vicenda abbia ulteriori sviluppi, è stata l’audizione di Giulio Romano, ex direttore generale della direzione detenuti e trattamento del Dap, dimessosi insieme a Basentini senza che, per sua ammissione, il passo indietro fosse mai stato sollecitato dal ministro. Romano anzitutto ammette che “si può ipotizzare che le rivolte nelle carceri siano state in qualche modo pilotate”, ma soprattutto dice che “il ministro espresse apprezzamento” per la circolare. Spiegando anche che la scarcerazione del boss Pasquale Zagaria sia stata “un grave errore, una svista”, senza che questo abbia prodotto alcuna conseguenza sul suo ufficio. Apriti cielo. La fronda M5s interna a Bonafede ha iniziato a ribollire. Morra, esterrefatto per le dichiarazioni di Romano, ha richiesto un secondo round di audizione, andato in corso mercoledì, nella quale l’ex dirigente del Dap ha tenuto a sottolineare che dal ministro non ha “avuto nessun parere positivo prima dell’emanazione della circolare”, ma solo successivamente, in una videoconferenza del 24 marzo. Giovedì l’audizione di Di Matteo, oggi un senatore pentastellato attacca: “Abbiamo voluto buttare la polvere sotto il tappeto, ma questo non è il Movimento. Le pressioni perché ci si fermi sono tante, ma fa bene Nicola (Morra, n.d.r.) ad andare avanti”. Cibo per alimentare la teoria complottista ce n’è a sufficienza, con tanto di strascico sgangherato che coinvolge lo stesso Di Matteo, Napolitano, Palamara e Ingroia. Per provare che sotto il tappeto sia nascosta polvere tossica serviranno prove ben più corpose, ma tanto basta ad alimentare l’assedio a Bonafede che, da par suo, si tiene prudentemente alla larga dall’intervenire nella faccenda. Fase 3 in salita per i tribunali: luglio con poche udienze, l’Ocf vuole andare in piazza di Simona Musco Il Dubbio, 20 giugno 2020 La proposta di Bonafede: stabilizzare le misure emergenziali. Il segnale c’è, la data per la riapertura dei tribunali pure. Ma le certezze, per l’avvocatura, al momento sono poche. In particolare, il timore - esternato ieri dall’Organismo congressuale forense, riunito in assemblea - è che la maggior parte delle cause venga rinviata. E che, dunque, si finisca per recuperare solo una piccolissima parte dei processi congelati dal lockdown, periodo durante il quale sono state celebrate solo il 25% delle udienze penali e il 15% di quelle civili. Ma non solo: la paura è che tale fase sia anche un’occasione - paventata dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede - “ragionare sulla stabilizzazione di alcune delle misure processuali sperimentate in questo periodo emergenziale”. Tra queste, ovviamente, le modalità alternative di svolgimento dell’udienza e, quindi, il processo da remoto. Un’idea che, se limitata a luglio, ha spiegato Malinconico, potrebbe risolvere il problema dei rinvii, ma la proposta del ministro è quella di “una sperimentazione pura, non legata all’emergenza” e, quindi, “inaccettabile”. Per Malinconico occorre, invece, una riflessione profonda, con un tavolo congiunto che porti a modifiche “che non possono non avere natura di norma processuale”. Che la “Fase 2” della Giustizia di fatto non sia mai iniziata è stato ribadito in un’intervista a Tv 2000 anche dalla presidente facente funzioni del Cnf Maria Masi. “Ecco perché l’avvocatura sono settimane che insiste perché la ripresa dell’attività giudiziaria sia effettiva - ha sottolineato -, con una maggiore presenza del personale amministrativo, che renda possibile e quindi anche fruibile l’accesso dell’avvocatura nello svolgimento delle funzioni, la ripresa delle udienze, dove è possibile, preferibilmente in presenza e ovviamente compatibilmente con le esigenze sanitarie dal momento, dato che non possiamo considerare superato il problema, ma il bilanciamento degli interessi - da un lato il diritto alla salute e dall’altro il diritto alla giustizia, diritti costituzionalmente tutelati - può trovare una linea di condivisione”. Recuperare tutto, ha aggiunto Masi, sarà impossibile. Si potrà, al massimo, “recuperare qualche settimana per procedimenti calendarizzati per i quali non è stato già emesso un provvedimento di rinvio”. E il problema della del recupero andrà affrontato, ha spiegato, “perché saremo costretti a fare i conti con dei carichi di ruolo molto pesanti”. Ciò dipende dal “rinvio di molti procedimenti, molti dei quali potevano essere trattati anche con modalità diverse. L’avvocatura si era dimostrata disponibile ma questo non si è verificato. Siamo ottimisti perché qualche spiraglio ci conforta nel senso di una ripresa, anche se graduale”. Il tema della ripresa, ha sottolineato Malinconico, è stato liquidato in poche battute dal ministro, che ha ritenuto adeguati e sufficienti gli interventi normativi e amministrativi che sono stati stati posti in essere. Si tratta, in primis, dell’emendamento che anticipa la fine della “Fase due” al 30 giugno e la circolare del capo dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, Barbara Fabbrini, che interviene sull’organizzazione degli uffici, richiamando un articolo contenuto nel dl Rilancio che già consente di rimodulare il ricorso al lavoro agile negli uffici pubblici. Il problema, secondo Malinconico, è che “moltissimi capi degli uffici giudiziari, probabilmente anche con l’esigenza di risolvere il problema dei sindacati del personale di cancelleria che sta creando problemi rispetto alla possibilità di tenere le udienze, hanno interpretato quell’emendamento nel senso che a luglio non si potrebbero tenere udienze in modalità alternative cartolari o da remoto. Questo implicherebbe che tutte le udienze fissate a luglio con la modalità alternativa si dovrebbero invece tenere in compresenza fisica, cosa impossibile, attualmente, con le misure di contenimento sanitario e tutto ciò porterebbe ad un massivo rinvio delle cause fissate a luglio”. Un problema che, in realtà, sarebbe “risolto” dalla postilla aggiunta all’emendamento, che riapre i tribunali “fatti salvi i provvedimenti già assunti”. Le udienze già fissate da remoto, dunque, dovrebbero rimanere tali. Il rischio, per Malinconico, però c’è: “sostanzialmente, un emendamento acceleratorio avrebbe l’effetto esattamente opposto, dilatorio”. In merito alla sospensione della sospensione feriale, invece, “per noi è una presa in giro - ha chiarito Malinconico - perché implica il decorso dei termini processuali e non darebbe certezza sullo svolgimento effettivo delle udienze. Rischiamo di trovare la tabella con i rinvii d’ufficio, anche perché i piani ferie sono stati già approvati”. L’Ocf, intanto, rimane in stato d’agitazione. E pur rinviando a luglio la manifestazione di protesta, in attesa del monitoraggio sulla ripartenza, ha aderito alla manifestazione organizzata dall’ordine degli avvocati di Roma, che il 23 giugno, in piazza Cavour, celebrerà “il funerale della Giustizia Italiana”. Fra le richieste “puntualmente ignorate dell’avvocatura”, ha sottolineato il presidente del Coa Roma Antonino Galletti, ci sono la fissazione di modalità di svolgimento delle attività giudiziarie disposte in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, l’immediata copertura delle piante organiche dei magistrati e del personale di cancelleria, la dotazione di adeguati strumenti informatici, di linee a banda larga e di personale tecnico di supporto per gli uffici giudiziari, per lo svolgimento in sicurezza delle attività da remoto e l’aumento del fondo di dotazione del patrocinio a spese dello Stato per la difesa degli strati deboli della società. Dopo la sferzata di Mattarella oggi l’Anm prova a cacciare Palamara e altre sei toghe di Liana Milella La Repubblica, 20 giugno 2020 Fuori dall’Anm, subito, Palamara e le altre sei toghe coinvolte nello scandalo di Perugia. Oggi il sindacato dei giudici tenta di farlo, ma la crisi profonda che lo scuote mette a rischio non solo quest’operazione di pulizia, che giunge solo dopo un anno, ma la sua stessa sopravvivenza. C’è chi vuole andare subito alle elezioni tradizionali, senza arrivare ad ottobre con una giunta dimissionaria, che sta perdendo i pezzi. Dal governo dell’Anm già due dimissioni dalla corrente di Unicost (Angelo Renna e Bianca Ferramosca) per via delle carte di Perugia. E oggi arriverà la terza, quella di Silvia Albano di Area che con il suo gesto contesta la rappresentatività dell’Anm oggi, e guarda all’accelerazione del voto per un sindacato forte, senza ombre, e pienamente legittimato. Magistratura indipendente si è dimessa in blocco dal “parlamentino” di 36 membri, ridotti adesso a 29. Una crisi senza precedenti che lascia la magistratura con una rappresentanza debole, mentre sono alle viste riforme come quella del Csm che il Guardasigilli Alfonso Bonafede potrebbe portare questa settimana in consiglio dei ministri. Ma guardiamo dentro l’operazione di pulizia dell’Anm. Mattarella ha chiesto ai magistrati “di dimostrare, con coraggio, di voler superare ogni degenerazione delle correnti”. Il primo passo è stracciare la tessera del sindacato di colui che, proprio da presidente dell’Anm quale toga di Unicost, nel 2009 celebrò i cento dell’associazione. Era il presidente anti-Berlusconi, tutti lo stimavano. Ora tutti negano di essere stati suoi amici. Ma tant’è, le carte di Perugia sono lì a provare quanti colleghi lo chiamavano per un “aiutino” con la carriera. È la “modestia” etica di cui parla il Quirinale. Palamara è già stato sospeso da funzioni e stipendio dal Csm e rischia di essere destituito dall’ordine giudiziario. Oggi sarà a piazza Cavour. Non accetta l’espulsione, vuole essere ascoltato e dare la sua versione dei fatti, anche se i probiviri dell’Anm hanno già decretato la sua cancellazione e avrebbero dovuto essere loro, e non il governo dell’Anm a sentirlo. I probiviri - il presidente Bruno Di Marco, l’ex Csm Claudio Viazzi, il procuratore di Bologna Gimmi Amato, Antonino Porracciolo, e l’ex Pg di Perugia Fausto Cardella - erano pronti il 7 marzo, ma il lockdown li ha bloccati. Hanno analizzato, oltre a Palamara, la situazione di tre toghe di Mi, Antonio Lepre, Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, due di Unicost, Luigi Spina e Gianluigi Morlini, dell’ex leader di Mi e ora deputato renziano Cosimo Maria Ferri. Erano all’hotel Champagne 1’8 maggio 2019 per pilotare la scelta del procuratore di Roma. Espulsione per tutti, anche se a maggioranza, e anche se tutti, tranne Palamara e Criscuoli, hanno cercato di evitarla dimettendosi. Ferri sostiene che da tempo è fuori dall’Anm. Basta per salvare la faccia della magistratura? Mentre le chat rivelano mille contatti per fare carriera? I probiviri dovranno lavorare ancora, anche se Perugia ha detto niet all’invio di carte. Ma i nomi coinvolti squassano le correnti e l’Anm. Per questo il giudice civile Albano oggi presenta le dimissioni. Mentre dentro la sinistra di Area è aperto il processo a chi, nel Csm, flirtava con Palamara. A questo punto l’interrogativo è sul tavolo: non è meglio andare subito al voto per l’Anm, nell’urna anziché attendere quello online ad ottobre? Tutto, ma non il sorteggio. Magistratura, la riforma che il Colle invoca di Errico Novi Il Dubbio, 20 giugno 2020 Così Bonafede vuole impedire il carrierismo tra le toghe. Ci sono molti day after, ormai, nella lunga crisi della magistratura. Ieri a emettere ancora invisibili ma violentissime radiazioni sono state le parole di Sergio Mattarella: l’ordine giudiziario deve “ritrovare credibilità”. Il presidente della Repubblica è convinto che l’obiettivo non sia irraggiungibile: visto che la gran parte dei magistrati è sana, basta che al Csm possano essere elette anche le toghe estranee alle degenerazioni del correntisno. La riforma del Consiglio superiore deve dunque prevedere una rigenerazione “dal basso”: è la convinzione radicata al Quirinale, che ha ormai conquistato anche il guardasigilli Alfonso Bonafede. Il quale nell’ultimo incontro con gli sherpa della maggioranza, martedì scorso, si è impegnato ad approfondire l’efficacia di un paio di sistemi per eleggere i togati, entrambi orientati a favorire l’emersione di giudici e pm apprezzati per dedizione e autorevolezza anziché per appartenenza. Uno è il modello cosiddetto australiano, basato su una molteplicità di preferenze, due o addirittura tre, che il singolo magistrato elettore è tenuto a indicare. “È un meccanismo molto interessante”, spiega al Dubbio Alfredo Bazoli, capogruppo dem nella commissione Giustizia della Camera e protagonista della “task force” riunita ormai con cadenza bisettimanale dal ministro. “Sterilizza in modo significativo il condizionamento delle correnti perché rende ancora più importante la specifica, personale riconoscibilità del singolo candidato. L’uninominale”, dice Bazoli, “a me sembra in ogni caso il miglior sistema, da noi previsto nella proposta di legge a prima firma di Ceccanti e mia nella declinazione secca. Ma il correttivo della preferenza multipla crea una sorta di implicito doppio turno ancora più favorevole ai candidati espressi direttamente dalla base dei magistrati”. L’altro è il sistema proposto dall’ex presidente del Senato Pietro Grasso, che punta a decentrare il meccanismo elettorale ancor più di quanto non prevedano i 19 collegi con cui Bonafede immaginava di sostituire l’attuale collegio unico nazionale. Una cosa è evidente: all’idea del sorteggio, rilanciata ancora ieri dal centrodestra con Pierantonio Zanettin, proprio non si vuole arrivare. Ma la verità è che la “guerra al correntismo” - in sé espressione velleitaria, visto il suo connotato culturale - comincia a cedere il passo alla sfida contro il “carrierismo”. Sul punto si è sbilanciato, almeno, un po’, lo stesso presidente dell’Anm Luca Poniz, intervenuto ieri a “La riforma Radicale della giustizia”, il grande convegno “da remoto” organizzato dai pannelliani e trasmesso da Radio Radicale, che proseguirà oggi con i rappresentati di avvocatura e accademia e si chiuderà domenica con la sessione (inizio sempre alle 15) riservata a esponenti dei partiti e dell’informazione. Poniz sa che uno dei problemi è la corsa al carrierismo indotta dalla gerarchizzazione delle Procure. Ne ha scritto anche sul Dubbio. Sotto la sua presidenza, l’Anm ha già vietato la candidatura al Csm per chi, al momento di formare le liste, faccia parte del comitato direttivo (ed eventualmente anche della giunta) dell’Associazione. Tra le ipotesi valutate martedì scorso a via Arenula è affiorato un limite che impedisca, a chi è eletto nel “parlamentino” dell’Anm, di candidarsi non solo mentre è in carica ma anche alle elezioni per il Csm successive alla fine del proprio mandato associativo. Non è semplice trasferire in modo giuridicamente efficace una simile previsione, visto che il “sindacato” dei magistrati è pur sempre un’associazione privata. E per questo non si esclude che a farsi carico del divieto sia proprio l’Anm, in una sorta di accordo fra gentiluomini politica- magistratura. L’idea di un simile “coinvolgimento responsabile” dell’associazionismo giudiziario si fa rapidamente strada anche all’interno della maggioranza. “I meccanismi elettorali, le regole in sé, non saranno sufficienti a superare la crisi in cui si trova la magistratura”, osserva per esempio Federico Conte, deputato che rappresenta Leu nei vertici a via Arenula. “Serve uno scatto d’orgoglio culturale, un sussulto dei magistrati, in cui evidentemente il Capo dello Stato nutre ancora fiducia. Non può essere la politica”, secondo Conte, “a normalizzare un ordine, come quello giudiziario, che costituisce tuttora un riferimento essenziale nella società. Lo si deve preservare, anche rispetto al pluralismo delle correnti, che va considerato una risorsa, non una iattura”. Conte è avvocato e parlamentare noto, certo, per il lodo sulla prescrizione da lui architettato, ma è anche formato a quella scuola politica del socialismo che a inizio anni Novanta avrebbe preferito l’autoriforma al terremoto di Mani pulite. Ed è interessante che proprio da chi perse, culturalmente, quella sfida, venga ora l’invito a lasciare che la magistratura rigeneri se stessa senza subire purghe dall’esterno. Sebastiano Ardita lancia il manifesto del populismo giudiziario di Davide Varì Il Dubbio, 20 giugno 2020 Il magistrato critica la scarcerazione di Carminati: “I cittadini non capiscono”. Ma derogare ai diritti di uno significa mettere a rischio l’intero Stato di Diritto. Del “populismo giudiziario” mancava il manifesto, la struttura ideologica che fosse in grado di giustificarlo e sostenerlo nei salotti buoni della giustizia italiana. Ha rimediato a questa mancanza il magistrato Sebastiano Ardita il quale, parlando della scarcerazione di Massimo Carminati, ha dichiarato quanto segue: “I cittadini non capiranno la circostanza che un personaggio ritenuto pericoloso venga scarcerato per motivi di forma: questo è incomprensibile per i cittadini”. Poi Ardita ha spiegato che sulle norme dell’esecuzione penale “oggi c’è un testo in cui non si capisce più nulla: occorre una riforma per rendere più semplice il sistema penale”. In effetti in questi giorni una parte della politica e della magistratura hanno espresso il proprio sconcerto per la scarcerazione di Massimo Carminati, uscito di carcere dopo 5 anni di carcere duro perché sono scaduti i termini di custodia cautelare (scattati il 30 novembre del 2014) e per aver scontato i due terzi del reato più grave (la corruzione, essendo caduta l’aggravante mafiosa). Insomma, chi si indigna per la sua scarcerazione chiede una deroga dei diritti. Ma ogni volta che si deroga a un diritto, fossero anche quelli dell’uomo nero, si indebolisce lo stato di diritto e si minano i principi della nostra civiltà giuridica. Fatto sta che ora il populismo giudiziario, quello che segue gli umori della “gente” piuttosto che la Costituzione e il codice penale, ha ufficialmente il suo manifesto. D’altra parte sono anni che un pezzo di magistratura - un pezzo minoritario ma assai forte mediaticamente - teorizza la necessità di una giustizia più vicina alla pancia dei cittadini piuttosto che alla nostra Carta. Basti pensare al Davigo pensiero: “Non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti”, ama ripetere l’ex pm del pool nelle sue numerose e solitarie comparsate televisive. Oggi ci ha pensato il dottor Ardita (già noto per il suo indispensabile libro scritto a quattro mani con Davigo: “Giustizialisti. Così la politica lega le mani alla magistratura”) - a rilanciare il messaggio. Peraltro poche ore dopo il drammatico appello del capo dello Stato, Sergio Mattarella il quale ha giustamente ricordato alle toghe che la fedeltà alla Costituzione “è l’unica fedeltà richiesta ai servitori dello Stato. L’unica fedeltà alla quale attenersi e sentirsi vincolati”. Tutto il resto, gentile dottor Ardita, è semplicemente anticostituzionale. Parla Riccardo De Vito: “Pericoloso il sentiero sul quale si è incamminato Di Matteo” di Angela Stella Il Riformista, 20 giugno 2020 Dallo scandalo del Csm allo scontro Di Matteo-Bonafede, passando per l’abuso delle intercettazioni e una pessima narrazione del problema carcere. Una lunga intervista a Riccardo De Vito, Presidente di Magistratura Democratica. Il Presidente Mattarella in un duro intervento ha parlato ieri di “grave distorsione sviluppatasi intorno ai criteri e alle decisioni di vari adempimenti nel governo autonomo della Magistratura”... Occorre prestare la massima attenzione alle parole del Presidente. L’immagine della magistratura che affiora dalle indagini perugine è desolante. Emergono fenomeni di clientelismo e collateralismo con la politica che, per numero e varietà dei soggetti coinvolti, assumono dimensioni inquietanti. È chiaro che l’episodio più grave di questo scandalo - l’incontro all’Hotel Champagne, dove magistrati e politici indagati decidevano insieme le nomine dei dirigenti preposti ai loro processi - non è frutto del caso, ma di un humus profondo o, quanto meno, dell’incapacità dell’associazionismo giudiziario di produrre antidoti sufficienti alle prassi consociative e spartitorie. È una constatazione amara, che impone risposte ineludibili. Esiste a suo giudizio un rimedio alle degenerazioni correntizie della magistratura? Il velo squarciato, per così dire, mette in evidenze che l’associazionismo giudiziario, da fattore di emancipazione della magistratura dalla sua condizione di subalternità alla politica, come era negli anni Settanta, corre sempre più il rischio di trasformarsi in fattore oppressivo, rivolto a domesticare l’indipendenza interna ed esterna. Non è ancora tutto perduto? Utilizzo l’espressione corre il rischio perché credo che siamo ancora in tempo per cambiare il corso delle cose ed evitare regolamenti di conti che mettano la mordacchia all’indipendenza dei giudici e disallineino l’assetto della magistratura dal disegno costituzionale. Ci sono tanti colleghi che sono impegnati nella politica giudiziaria dentro i gruppi, e fuori di essi, in nome di valori e non di convenienze. Come ha detto il Presidente Mattarella la gran parte della magistratura non rispetta la ‘modestia etica’ uscita dalle chat. Le risposte sono ora obbligate: nessuna copertura corporativa ai fenomeni degenerativi; impegno e partecipazione nei luoghi dell’elaborazione comune, a partire dall’associazione nazionale; coerenza tra predicato e praticato. Secondo lei come andrebbe riformato il Csm? Non credo che sia la modifica del sistema elettorale a poter modificare le cose. Certo la magistratura è ben disposta a rivedere l’attuale legge elettorale che, costruita per spazzare via le correnti, le ha invece rese, allo stesso tempo, più forti e peggiori. Il sistema elettorale, comunque, di per sé non è in grado di impedire o di promuovere il cambiamento. Per capire come è cambiato il governo autonomo, infatti, dobbiamo guardare a cosa succede dentro la magistratura, sedotta di nuovo dal sogno verticale della carriera, della dirigenza e delle funzioni superiori. Un sogno burocratico e funzionariale, ma che incide sul corpo collettivo e fornisce le basi materiali alle derive clientelari, oltre che alle prassi di conformismo giudiziario e di soggezione interna e esterna. E quindi cosa si fa? L’azione di riforma, pertanto, deve andare alla radice del problema. La magistratura deve farsi carico di una decomposizione, per usare un concetto caro a Franco Cordero, del potere dei capi, per riportare la democrazia negli uffici, ricostruire l’indipendenza interna ed esterna, sdrammatizzare il problema delle nomine. A quel punto, in luogo della politica del potere, potrà ripartire la politica delle idee. Su questo Magistratura democratica si sta impegnando, non senza la dovuta autocritica, che dovrà continuare accanto al progetto. Una questione fortemente dibattuta è quella delle intercettazioni. Si tratta di un problema che la magistratura ha cuore, come dimostrato dalla delibera del Csm del luglio 2016, dedicata alla Ricognizione di buone prassi in materia di intercettazioni di conversazioni. Si tratta di una circolare che, nel recepire quanto scritto nelle circolari di alcune procure, aveva elaborato linee guida generali per tutelare la riservatezza delle persone (soprattutto quelle non coinvolte nella vicenda penale), proteggere i dati sensibili e contemperare tali esigenze con le garanzie difensive e con il diritto all’informazione. Alcuni passi avanti sono stati fatti, dunque, e ora occorre mettere in atto e implementare quanto previsto dalla legge delega del 2017 e dai due successivi decreti delegati, del 2017 e del 2019, a partire dalla conservazione delle registrazioni dei verbali e degli altri atti in un archivio gestito e sorvegliato dal Procuratore della Repubblica. In queste ultime settimane abbiamo assistito, soprattutto nella trasmissione condotta da Massimo Giletti, ad una resa dei conti all’interno della magistratura. Qual è il suo parere su questo? Credo che il magistrato sia libero di intervenire nel dibattito pubblico. Ma deve farlo a una condizione: spogliarsi del tentativo di coprire argomenti squisitamente politici con l’autorevolezza o l’autorità che deriva dalla toga ed evitare di parlare di vicende processuali in corso da lui gestite. Altrimenti il cortocircuito istituzionale è dietro l’angolo: a cosa dare credibilità? Agli atti giudiziari e istituzionali o alle suggestioni televisive? Questo discorso vale tanto più per magistrati che, oltre alla toga, ricoprono ruoli istituzionali in autogoverno. Per questo trovo pericoloso il sentiero sul quale si è incamminato il collega Di Matteo. Ieri Di Matteo è stato audito in Commissione Antimafia. Cosa lo ha colpito del suo discorso? Ancora una volta l’insistenza su suggestioni non verificabili e che verrebbero imposte al dibattito pubblico solo attraverso la credibilità della toga e non in forza di un articolato ragionamento sui fatti. Le detenzioni domiciliari ad esempio non sono un segnale di cedimento alla criminalità organizzata ma esprimono la forza dello Stato di Diritto. E quale il suo giudizio su come la stampa tratta il tema giustizia? Ho profondo rispetto per la stampa, che comunque costituisce il sale della democrazia. Nel trattare di giustizia credo cha a volte sia forte una tentazione inquisitoria: si parte da una tesi, e si cercano argomenti per confermarla. Un certo giornalismo per tesi, nemico del giornalismo d’inchiesta, ha preso piede su più argomenti. L’informazione sul carcere, in questo senso, è spesso significativa. A partire dall’uso delle parole: il ritardato rientro dal permesso viene definito evasione; la detenzione domiciliare umanitaria viene definita scarcerazione. Mi rendo conto, però, che spesso la stampa racconta un linguaggio parlato da altri, in primo luogo da autorevoli esponenti della magistratura, le cui dichiarazioni lasciano a volte esterrefatti. Con l’aria che tira è difficile pensare ad una seria riforma del carcere. Ma lei sarebbe d’accordo ad un provvedimento strutturale di amnistia e indulto? Sono d’accordo con le conclusioni di un convegno promosso dalla Società della Ragione, nel 2018 e che ora trovano spazio nel disegno di legge costituzionale n. 2456, a prima firma dell’on. Magi. In sintesi, direi che ora l’obiettivo principale è quello di ridare agibilità costituzionale e praticabilità politica agli istituti clemenziali, agendo su più fronti: stretta correlazione di tali istituti con i principi costituzionali di finalismo rieducativo e umanità della pena, con scomparsa dall’atlante delle clemenze di tutti quei provvedimenti che non siano collegati a situazioni straordinarie (vedi Covid) o a ragioni eccezionali (vedi riforme di sistema del processo o del diritto penale); massima pubblicità della discussione parlamentare e garanzia del controllo di costituzionalità sui presupposti. A queste condizioni, ben venga la riduzione del quorum di approvazione dai due terzi alla maggioranza assoluta delle assemblee parlamentari. Occorre portare alla luce le discussioni su questo tema. Se la politica si assumesse le proprie responsabilità non avrebbe bisogno di costruire la categoria del tutto fasulla dei giudici scarceratori. Il Procuratore Gratteri in una in aperte e la promiscuità praticata negli istituti”. Vorrei prima di tutto evidenziare cosa c’è stato e cosa c’è dopo e davanti le rivolte in carcere: quattordici morti tra le persone detenute, le cui identità e storie personali sono state oscurate, ridotte a mera contabilità. Su questi fatti, i più gravi della storia del carcere nel nostro Paese, è calato il silenzio delle istituzioni, della politica e dei giornali. Nessuno ne ha chiesto conto alle istituzioni, fatta eccezione per la stampa militante e per pochi altri soggetti, tra cui credo sia importante ricordare i garanti, nazionali e territoriali. La critica pubblica, al contrario, è stata convogliata sulle detenzioni per ragioni di salute (vero nome di quelle che, con inaccettabile semplificazione, vengono chiamate scarcerazioni) e sulla circolare relativa alla segnalazione di detenuti con patologie tali da renderli più vulnerabili in caso di contagio da Sars-Cov-2. Quali le conseguenze? Il risultato di questa operazione, da un punto di vista simbolico, è chiaro e grave: il disumano, la morte in carcere, viene ridotto a normalità, a un rischio collaterale accettabile, di cui nessuno è tenuto a rispondere; l’umano - inteso anche come principio giuridico stringente, visto che di senso di umanità parla l’art. 27 della Costituzione -, viceversa, assume i contorni dell’illegittimità. Un mondo capovolto, dunque, rispetto a quello disegnato dalla Costituzione e dall’ordinamento penitenziario. Tornando alle rivolte? Tra le varie cause delle rivolte - difetto di comunicazione sui colloqui telematici con i familiari, impreparazione del penitenziario a difendersi dal virus - non mi sento di annoverare il regime di celle aperte. L’esperienza quotidiana mi porta anzi a constatare che laddove ci sono sorveglianza dinamica, celle aperte e presa in carico trattamentale gli episodi disciplinari e violenti diminuiscono in maniera sostanziosa. Questo vale soprattutto per i circuiti di Alta Sicurezza, dove il problema della pericolosità sociale è soprattutto rivolto all’esterno, ma non all’interno del carcere. Dunque mettere in correlazione le rivolte e il tasso di provvedimenti disciplinari con i regimi aperti mi sembra un’operazione non sorretta da basi empiriche sufficienti. Sicuramente è un’operazione che ha un obiettivo: rendere il carcere meno trattamentale e responsabilizzante e più custodiale e duro. Una scommessa pericolosa per tutti, in primo luogo per la sicurezza collettiva Csm, con la nomina di Cantone la politica si riprende il suo ruolo di Alberto Cisterna Il Riformista, 20 giugno 2020 La nomina del procuratore di Perugia ha reciso in due il Csm, spaccatosi sui nomi dei due principali pretendenti. Nulla di nuovo, per carità. Anzi un segnale di vitalità e di trasparenza in una stagione consiliare non proprio felice che ha visto la sostituzione di ben sei componenti dell’Organo di autogoverno (cinque togati più Fuzio, procuratore generale della Cassazione anche lui impanato nell’affaire Palamara). Dalle cronache immediate dei lavori del Csm si colgono i segni di un dibattito vivace, alla luce del sole, in cui sono apparse evidenti le ragioni a sostegno dell’una e dell’altra candidatura. Una nomina che avrà una certa influenza all’interno della corporazione in cui da anni si dibatte della rilevanza da assegnare, in positivo o in negativo, alle esperienze “fuori ruolo” ossia ai periodi di attività svolti all’esterno delle aule di giustizia da quanti si candidano agli incarichi direttivi. Non è facile prendere posizione su un tema particolarmente delicato come questo. Falcone era direttore generale del ministero della Giustizia quando venne ucciso, Borsellino non aveva mai dismesso la toga sino all’eccidio. Ci sono ex toghe che hanno trascorso svariati anni tra incarichi ministeriali e incarichi all’estero di nomina governativa e che pure godono di grande audience dentro e fuori dalla corporazione. Il Procuratore della Repubblica di Palermo, di Napoli, di Firenze, di Lucca - per indicare le sedi più rilevanti - hanno occupato nel corso della propria carriera ruoli di prestigio fuori dalla magistratura. Due toghe di rilievo assoluto erano pronte ad assumere, rispettivamente nel 2014 e nel 2018, l’incarico di ministro della Giustizia e di Capo della polizia penitenziaria, destinazioni poi evaporate per ragioni solo in parte chiarite e non senza polemiche. Difficile, quindi, pronunciare parole definitive sull’argomento, soprattutto quando la maggioranza di governo afferma di voler costruire un “muro” per separare politica e magistratura, ma poi annuncia di voler agire con riferimento al Csm - e alla possibilità che vi confluiscano componenti o ex componenti delle Camere - o alle toghe scese in politica cui andrebbe vietato di continuare a svolgere funzioni giurisdizionali. L’idea che la politica contamini l’imparzialità e l’indipendenza dei magistrati e che, invece, gli incarichi di apparato o di governo le lascino immacolate è, come dire, singolare. Il voto popolare è una fonte di legittimazione senz’altro più trasparente e costituzionalmente nobile di uno strapuntino ministeriale conquistato con aderenze e suppliche di vario genere. Soprattutto in una Costituzione che conosce il divieto di mandato imperativo e assicura al personale politico in generale guarentigie locutorie particolarmente significative (si pensi a quelle in favore dei consiglieri regionali). Anche su questo versante, per giunta, le propalazioni recenti di chat e conversazioni rendono una cornice tristemente evocativa di prassi molto più risalenti e molto poco edificanti, costate le dimissioni di un uomo di primo piano del ministero di via Arenula. A questo si aggiunga che lo stesso Csm - con riferimento alla posizione del presidente della Regione Puglia (magistrato di grande prestigio) iscritto al Pd - aveva chiesto l’intervento della Corte costituzionale dubitando che fosse conforme alla Carta fondamentale la previsione quale illecito disciplinare dell’iscrizione dei magistrati a partiti politici nonché la loro partecipazione sistematica e continuativa all’attività di un partito (sentenza n. 170 del 2018). Una questione spinosa e complessa, quindi. Nel voto per la Procura di Perugia che, come noto, ha la titolarità di tutte le indagini sui magistrati del Lazio e dovrà sbrogliare anche la matassa Palamara, un dato merita di essere preso in considerazione. Ieri tutti i componenti laici del Csm hanno votato in favore dell’ex presidente dell’Anac ossia si sono espressi a sostegno del candidato verso cui più consistenti erano i dubbi sollevati da parte di alcune correnti della magistratura (e non solo) le quali stigmatizzavano la sua precedente esperienza extra moenia. Indipendentemente e a prescindere, quindi, dalla matrice di quella designazione al vertice dell’Anticorruzione, l’intera compagine “politica” del Csm ha individuato nel dottor Cantone il candidato più meritevole di dirigere una Procura nevralgica come quella di Perugia. Il voto compatto e unanime dei laici del Csm potrebbe consentire due diverse interpretazioni. Può darsi che la politica abbia inteso puntualizzare e riaffermare che esperienze diverse da quelle delle aule di giustizia non sono un turpe incesto e che non per questo profilo un magistrato può ritenersi meno meritevole di un altro. Può darsi, ancora, che il rassemblement dei laici del Csm abbia voluto rendere evidente a tutti che la nomina del Procuratore di Perugia ha connotati anche politici, connotati che sono percepiti come tali anche nel sentire comune della stessa corporazione. In fondo l’affermazione autorevole - che si sarebbe fatta nel corso del dibattimento consiliare - che il dott. Cantone sarebbe andato bene per qualunque altro incarico purché diverso da Perugia, contiene in sé il riconoscimento delle stimmate “politiche” di quell’incarico e della necessità di calibrare la scelta del procuratore secondo un asse di valutazione a geometria variabile rispetto ai canoni fissati dalla legge e dalle circolari in materia. Quale prospettiva si scelga tra le due il risultato cambia poco: se l’opposizione al dottor Cantone derivava dal suo trascorso “politico” è evidente che nessun incarico poteva essergli assegnato in qualunque sede giudiziaria; se, invece, l’obiezione deriva dalla caratura “politica” dell’ufficio di Perugia la questione muta di poco, posto che al centro vi sono circostanze che nulla hanno a che vedere con i parametri diffusamente enunciati nel poderoso Testo unico sulla dirigenza approvato dal Csm. Con una importante differenza, tuttavia. Il rilievo che quella di Perugia sia una sede “sensibile” e l’esplicitazione anche formale di questo punto all’interno del Csm porta argomenti non trascurabili a sostegno della tesi di un progressivo riassorbimento dell’ufficio del pubblico ministero nell’alveo delle responsabilità politiche, se non ministeriali. Il solo aver posto al centro della discussione la caratura “politica” del candidato e/o della sede flette la scelta dei capi degli uffici inquirenti verso un terreno scosceso e irto di pericoli per l’indipendenza del pubblico ministero. Un domani, legittimamente, la politica potrebbe pretendere di scegliere essa (come accade in quasi tutte le democrazie occidentali) i responsabili dell’azione penale sottraendoli alla discrezionalità all’autogoverno. Il vaso di Pandora del recente scandalo, una volta scoperchiato, spira venti imprevisti e imprevedibili e annuncia sequenze istituzionali non del tutto controllabili. Perché serve un altro Csm di Luciano Violante La Repubblica, 20 giugno 2020 Il Csm deve recuperare la credibilità ferita. Una rigorosa riforma è l’unica soluzione adeguata alle difficoltà; non intervenire mette a rischio la credibilità dell’intera magistratura. L’attuale assetto è anacronistico perché rispecchia la collocazione istituzionale e sociale della magistratura degli anni Cinquanta, quando fu approvata la legge istitutiva. Quella magistratura era un corpo di funzionari pubblici con basse retribuzioni, forti controlli interni e altrettanto forti vincoli esterni; aveva come etica professionale la separazione dal mondo. Il Csm fu costituito da una legge de11958 come organo di alta amministrazione di questo corpo di funzionari. Nel corso dei decenni le cose sono radicalmente cambiate. La magistratura si è progressivamente liberata da controlli e da vincoli; esercita forti poteri di intervento autonomo nella società, nell’economia e nella vita dei cittadini; è diventata in via di fatto una componente essenziale del sistema di governo del Paese. I partiti le hanno ceduto porzioni crescenti di potere, a volte spogliandosi delle proprie prerogative costituzionali. Tutto ciò che avviene nel Paese è sindacabile dalla magistratura, tanto che si è arrivati alle clausole di esenzione da responsabilità penale, ieri per l’Ilva, oggi per il Covid. È cambiato conseguentemente il quadro di riferimento dei magistrati: il Comitato direttivo dell’Anm è il loro Parlamento, il Csm e il loro governo e le correnti sono i loro partiti. Erano associazioni di idee, sono diventate centri di potere. Oggi costituiscono corpi intermedi tra Csm e magistratura, scelgono i candidati, organizzano il consenso, intervengono nelle trattative con i partiti per la designazione del vicepresidente del Csm e a volte, come emerge dalla vicenda Palamara, anche per i più importanti incarichi direttivi. Il Csm si è anch’esso trasformato in via di fatto, spesso andando oltre le proprie funzioni e assumendo anche compiti para-legislativi e di indirizzo. Si rischia la deriva, perciò è necessario intervenire. La riforma deve definire un organo costituzionale con competenze, funzioni e finalità stabilite con chiarezza. Deve restare intatto il rapporto tra togati, due terzi, e i laici, un terzo. E non dev’essere minimamente incrinata l’indipendenza. Ma tutto il resto va cambiato. Per ragioni di brevità mi soffermo su quattro punti che mi sembrano essenziali. Attribuire al capo dello Stato la nomina del vicepresidente del Csm, al di fuori dei membri eletti dal Parlamento e dai magistrati. Portare a sei gli anni di durata dell’incarico al Csm; solo nella prima consigliatura, dopo quattro anni, sorteggiare la metà dei membri, che decadono e vengono sostituiti da nuovi eletti, di modo che ci sia una rotazione dei giudici e non dell’intero Csm, come avviene per la Corte Costituzionale. Separare le funzioni di governo interno che restano al Csm da quelle disciplinari, che dovrebbero spettare a un’Alta Corte competente per gli illeciti disciplinari di tutte le magistrature, ordinaria, amministrativa, contabile, tributaria e militare. Attribuire all’Alta Corte anche la funzione di giudice sul ricorso contro i provvedimenti del Csm e degli organi di governo interno di tutte le altre magistrature. Ciascuna di queste proposte, naturalmente, è criticabile e correggibile. Ma bisogna essere consapevoli che siamo di fronte a problemi di libertà e di equilibrio costituzionale. Come evitare “il metodo mafioso” nella magistratura di Pietro Di Muccio de Quattro L’Opinione, 20 giugno 2020 Per dovuta precisione, è stato il magistrato Nino Di Matteo a dichiarare a Massimo Giletti, divenuto il suo confessore mediatico, che “privilegiare nelle scelte che riguardano la carriera di un magistrato il criterio dell’appartenenza a una corrente o a una cordata di magistrati è molto simile all’applicazione del metodo mafioso”. E se lo dice lui, il più anti-mafioso dei magistrati, come non credergli? Aggiungiamo che Di Matteo è membro del Consiglio superiore della magistratura, grazie ad un’elezione dove non è azzardato presumere che anche nel suo caso possa aver avuto influenza il naturale gioco delle correnti che presiede alla selezione delle candidature e alla distribuzione dei voti. A parte questo, Di Matteo ha dato voce con una similitudine parossistica allo stupore dei cittadini di fronte al caso Palamara, un altro magistrato che, nelle intercettazioni subìte e nelle indiscrezioni rivelate in pubblico allo stesso confessore, ha ammesso che il sistema delle nomine consisteva nella spartizione delle cariche direttive tra gli esponenti delle varie correnti. Insomma, per entrare al Csm e per farsene nominare ai vertici degli uffici giudiziari, bisognava accettare l’azione redistributiva praticata dai capi dell’Associazione nazionale magistrati, il sindacato delle toghe. È interessante notare che nella Prima Repubblica lo stesso sistema, ma riferito alla politica generale, era vituperato (ma non dai partiti) con il nome di lottizzazione, che significava strapotere usurpatorio dei partiti e ripartizione di incarichi, funzioni, uffici in proporzione della loro forza elettorale, nazionale o locale. A ben vedere, tuttavia, la qualificazione delle nomine sentenziata da Di Matteo è nuova, sebbene in modo dirompente, solo per l’esplicito e gravissimo riferimento alla mafiosità del metodo, viepiù greve provenendo da un magistrato di punta nelle inchieste sulla mafia. Infatti quel sistema era ed è il segreto di Pulcinella, essendo ben noto agli addetti ai lavori e ai non addetti che amano approfondire le cose. Palamara ammette, “obtorto collo”, che il Re è nudo. Di Matteo soggiunge che somiglia al Padrino. Fin qui la “pars destruens” del magistrato Di Matteo risulta vera, corroborata da prove irrefutabili, dirette e indirette. Invece la “pars construens” appare fragile, un pio desiderio piuttosto che un rimedio efficace contro la lottizzazione, appunto, dei posti di componente del Csm e degli incarichi direttivi in magistratura che esso assegna per Costituzione. Infatti, nella stessa confessione, Di Matteo apre il cuore: “Più che le riforme serve a mio parere una svolta etica, un cambiamento vero che deve riguardare la mentalità dei consiglieri e la mentalità di tutti i magistrati”. Orbene, sorprende che un magistrato di tale esperienza trascuri la considerazione, una verità avallata dalla storia e dal diritto, secondo cui nelle questioni di potere affidarsi alla palingenesi morale e alle svolte etiche non avvicina, allontana la soluzione dei problemi generati dall’immoralità, dalla slealtà, dalle frodi, le quali prosperano anche dove abbondano i magistrati onesti, capaci, virtuosi, se manca uno statuto dell’organo che raffreni le passioni e i difetti comuni ad ogni uomo, così aiutandolo ad essere migliore quanto possibile. Non sbaglia Machiavelli ad affermare: “È necessario, a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei” né Hume a rincararne la dose: “Gli scrittori politici hanno stabilito come massima che, nell’escogitare qualunque sistema di governo e nel fissare i molti limiti e controlli della costituzione, ogni uomo dovrebbe proprio essere presunto un farabutto ed avere nessun altro fine, in tutte le sue azioni, che l’interesse personale. In base a questo interesse noi dobbiamo guidarlo e, per mezzo di esso, farlo cooperare al pubblico bene nonostante la sua insaziabile avidità ed ambizione”. Senza applicare tali principi non possiamo aspettarci nulla di risolutivo dalle prospettate riforme governative. Finché i magistrati del Csm saranno eletti, la logica correntizia prevarrà, magari sotto altro nome, perché dove sono elezioni lì sono lotte di potere, dappertutto. Solo istituendo per Costituzione l’estrazione a sorte dei membri del Csm sarà troncato il rapporto abusivo, nocivo e indecoroso, tra camarille sindacali, ambizioni personali, accordi elettorali, competenze istituzionali del Consiglio superiore della magistratura. L’elezione è addirittura controproducente; il sorteggio invece, funzionale. Parafrasando James Madison, se i magistrati fossero angeli non sarebbe necessaria l’estrazione a sorte, perché elettori virtuosi sceglierebbero consiglieri probi. Ma le confessioni di Palamara dimostrano che esistono anche angeli decaduti e Di Matteo conferma che potrebbero assimilarsi a demoni con la coppola. La riforma della giustizia e il patto scellerato tra media e toghe di Arturo Diaconale L’Opinione, 20 giugno 2020 È finalmente arrivata la tanto attesa e sollecitata strigliata del Presidente della Repubblica alla magistratura per le tristi e mortificanti vicende che ne hanno incrinato la credibilità agli occhi dell’opinione pubblica. Sarebbe tuttavia un errore dare per scontato che alla severa critica possa seguire in tempi brevi o lo scioglimento del Consiglio superiore della magistratura, che il Capo dello Stato non può effettuare o quella riforma dell’organo di autogoverno della magistratura che da anni da più parti si invoca non certo al fine di piegare la schiena dei giudici e dei pubblici ministeri e per sottoporli al potere della politica ma, al contrario, per affrancarli dai condizionamenti che proprio il potere politico indipendentemente dal colore esercita sulla loro categoria e sull’esercizio della giurisdizione riducendone sempre di più l’affidabilità agli occhi dei cittadini. Il Presidente della Repubblica ha lanciato il sasso in piccionaia. Ora, però, spetta al Governo ed al Parlamento dare una prospettiva ed uno sbocco concreto alla reprimenda quirinalizia approntando una riforma che consenta di riappropriarsi dell’onore perduto alle toghe condizionate dalla politica e agli italiani di riacquistare fiducia nei confronti dei singoli magistrati e dell’intero Stato. Nessuno si illuda che la riforma della giustizia possa essere una impresa semplice e di breve durata. Non perché se ne parla da decenni e non si riesce mai a realizzarla concretamente. Ma perché i nodi da sciogliere non riguardano solo il sistema di elezione e di gestione interna del Consiglio superiore della magistratura e la necessità di trovare un punto di equilibrio tra il diritto costituzionale dei magistrati di poter esprimere liberamente le proprie idee organizzandosi in correnti e quello degli italiani di avere giudici capaci di giudicarli senza pregiudizi politici di sorta. Accanto a simili questioni di fondo permangono i nodi legati alla metamorfosi e agli sviluppi di una società che dai tempi di Montesquieu ad oggi ha subito cambiamenti inimmaginabili. A cominciare dalla contiguità sciagurata tra i tre poteri tradizionali dello Stato di diritto ed il potere mediatico, a cui si è consegnato il potere di esercitare una torsione, un condizionamento e di subornare i primi tre, trasformando il magistrato in un protagonista della scena pubblica del Paese. Con tutti i rischi e le conseguenze che una tale sovraesposizione di visibilità e popolarità comporta. Certo, è impossibile che una qualsiasi riforma possa modificare i caratteri, le personalità e le ambizioni di chi dedica la propria esistenza all’applicazione della legge. Ma uno sforzo in questa direzione dovrebbe essere compiuto. Per evitare che alla lunga nell’opinione pubblica italiana si ingeneri la convinzione che quella dei magistrati debba essere considerata una casta di pericolosi disturbati da eccesso di fama, popolarità e visibilità costretti a recitare sempre e comunque la parte di stelle del firmamento mediatico del Paese. Spezzare il connubio che si crea tra media e magistratura non è impossibile. È solo un problema di fissare e graduare le responsabilità degli uni e degli altri liberandoli dalla schiavitù di essere condannati ad alimentare le proprie ambizioni proteggendosi e sostenendosi a vicenda. Funerali della Giustizia, gli avvocati italiani in piazza a Roma il 23 giugno Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2020 Si è spenta la Giustizia. Ne danno il triste annuncio gli Avvocati d’Italia. Si svolgeranno martedì 23 giugno alle 11:00 in piazza Cavour a Roma i funerali della Giustizia italiana, delegittimata, paralizzata, indifesa. La manifestazione di protesta, organizzata dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, vedrà la partecipazione del Coordinatore dell’Organismo Congressuale Forense Giovanni Malinconico e di decine di Avvocati dal distretto della Capitale in rappresentanza dei colleghi di tutta Italia, e vuole per l’ennesima volta rendere chiara e manifesta la sensazione di profondo disagio della classe forense davanti all’inerzia di un Governo che, pure più volte sollecitato, ha completamente trascurato non solo le esigenze degli operatori della Giustizia, ma i diritti di milioni di cittadini, negati quotidianamente nelle aule di tribunale del nostro Paese. La fase 3, dopo l’emergenza Covid, ha visto ripartire quasi tutte le attività economiche e produttive d’Italia, perfino il calcio. Non così per la Giustizia, che quotidianamente si confronta con udienze rinviate, processi a distanza farraginosi, udienze in presenza distillate con il contagocce. “Gli Avvocati italiani scendono in piazza il 23 giugno per protestare contro la mancata ripresa dell’attività giudiziaria, avvenuta finora solo sulla carta, lasciando tuttora vigente la miriade di “linee guida” e “protocolli” dettati dai Capi degli Uffici giudiziari - si legge nella nota che presenta l’evento - La promessa ripartenza del 1 luglio si colloca a ridosso dell’inizio del periodo utile per le ferie dei Magistrati di metà luglio, in gran parte già programmate, richieste ed ottenute”. “Gli Avvocati da tempo chiedono un piano straordinario per la messa in sicurezza degli edifici giudiziari al fine della ripresa delle udienze a pieno regime - spiega il Coordinatore dell’Organismo Congressuale Forense Giovanni Malinconico - ma finora tutti gli appelli sono caduti nel vuoto”. “Abbiamo visto gli Avvocati restituire le toghe - commenta il Presidente del Coa di Roma Antonino Galletti - li abbiamo visti deporre i codici sulle scale della Cassazione, abbiamo pesato otto chili di linee guida diverse in una giungla normativa senza precedenti. Ora non ci resta che mostrare ai cittadini dove ci ha condotti questa incredibile inerzia del Governo, evidentemente incapace di affrontare di petto la situazione: al funerale della Giustizia che ci accingiamo a celebrare in piazza a Roma “. Fra le richieste puntualmente ignorate dell’Avvocatura si ricordano: la fissazione di modalità di svolgimento delle attività giudiziarie disposte in modo uniforme su tutto il territorio nazionale; l’immediata copertura delle piante organiche dei magistrati e del personale di cancelleria; la dotazione di adeguati strumenti informatici, di linee a banda larga e di personale tecnico di supporto per gli uffici giudiziari, per lo svolgimento in sicurezza delle attività da remoto. Infine l’aumento del fondo di dotazione del patrocinio a spese dello Stato per la difesa degli strati deboli della nostra società”. “A Giuseppe Conte e Alfonso Bonafede, entrambi avvocati - conclude la nota - ricordiamo il mondo dal quale essi provengono e il disagio dei loro colleghi nel vedere un servizio essenziale quale la Giustizia relegato in fondo all’elenco delle priorità dell’esecutivo, perfino dopo il calcio. Con l’amara considerazione che chi abusa non tanto di panem quanto di circences, non è destinato a governare a lungo”. 10 anni di “detenzione disumana” al 41bis. Accolta l’istanza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 giugno 2020 Per dieci anni, ben 3.679 giorni, un recluso al 41bis de L’Aquila ha dovuto subire una detenzione disumana. Così il tribunale di Sorveglianza aquilano ha accolto l’istanza presentata dai legali del detenuto, stabilendo che dal momento dell’ingresso nel carcere abruzzese deve riconoscersi la violazione dell’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo come interpretata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu). Perché? Sul muro del corridoio della sezione c’è un oblò attraverso il quale gli agenti penitenziari possono osservare il detenuto mentre è al bagno. A seguito della richiesta di chiarimenti in tal senso, la direzione carceraria ha riferito che la cella del 41bis presenta lo spioncino che dal corridoio della sezione consentirebbe di guardare all’interno del bagno. Tale spioncino ha un diametro di circa sei centimetri ed è posizionato a un metro e mezzo di altezza dal pavimento stesso. Spioncino progettato appunto per consentire al personale addetto alla vigilanza di ispezionare l’eventuale presenza del detenuto al bagno. Interessante apprendere che i detenuti, in maniera del tutto autonoma, oscurano con mezzi di fortuna lo spioncino per poter garantire la loro riservatezza mentre fanno i loro bisogni al bagno. “È evidente - si legge nell’ordinanza - che la presenza di detto spioncino ad un’altezza tale dal pavimento che consente di guardare direttamente all’interno del bagno rappresenta una violazione del diritto alla riservatezza durante appunto la fruizione dei servi igienici che non può essere rimediata dall’utilizzo di quelli che la stessa direzione carceraria ha definito “mezzi di fortuna”, vale a dire l’oscuramento con asciugamani o maglie o altro disponibile per il detenuto”. Il magistrato di Sorveglianza, prosegue sottolineando il fatto che “sicuramente preferibile è qualunque altra soluzione che l’Amministrazione avrebbe dovuto trovare per assicurarsi la presenza del detenuto nel bagno al momento del controllo soprattutto per assicurarsi l’integrità fisica dello stesso, ma non una ingerenza del genere”. Per il recluso al 41bis, il tribunale di Sorveglianza ha quindi riconosciuto ben 3.679 giorni di trattamento disumano e, non potendo farsi luogo alla corrispondenza dell’indennizzo economico come richiesto dal detenuto con il suo reclamo non avendo ancora espiato 26 anni di pena, ha disposto che la pena sia ridotta di 367 giorni complessivi. Il 41bis, ricordiamo, nasce per uno scopo ben preciso. Evitare che un boss recluso veicoli ordini al proprio gruppo criminale d’appartenenza. Nient’altro. Tant’è vero che la Corte Costituzionale, nella sua sentenza n. 376 del 1997, richiamandosi anche a quelle precedenti del 1993 e 1994 (rispettivamente, n. 349 e 410 per il 1993 e 332 del 1994), ha ordinato che le misure adottate “non possono consistere in restrizioni della libertà personale ulteriori rispetto a quelle che già sono insite nello stato di detenzione, e dunque esulanti dalla competenza dell’amministrazione penitenziaria in ordine alla esecuzione della pena”. Inoltre, che “il regime differenziato non può constare di misure diverse da quelle riconducibili con rapporto di congruità alle finalità di ordine e sicurezza proprie del provvedimento ministeriale; le misure disposte non possono comunque violare il divieto di trattamenti contrari al senso d’umanità né vanificare la finalità rieducativa della pena”. Quindi, come nel caso specifico, osservare il detenuto mentre è anche in bagno è una misura che lede il diritto alla riservatezza e al pudore. Una misura del tutto invasiva e senza alcuna giustificazione. Qualsiasi misura inutilmente afflittiva, non rientra nello scopo originario del 41bis. Suicidio di un detenuto in carcere nel 2001, ecco la sentenza Cedu di Raul Leoni gnewsonline.it, 20 giugno 2020 È stata pubblicata la sentenza emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) nel ricorso promosso da Santo Citraro e Santa Molino sulle responsabilità dell’Italia nel suicidio del figlio, avvenuto in stato di detenzione nel 2001. Il tema della causa riguardava la vicenda del detenuto A.C., rinvenuto impiccato a un lenzuolo nella sua cella del carcere di Messina dopo aver più volte posto in essere atti di autolesionismo - compresi dei tentativi di suicidio - e quando già, su richiesta dello psicologo dell’istituto, il magistrato di sorveglianza di Messina aveva autorizzato il suo trasferimento presso l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, all’epoca ancora operativo prima della chiusura degli OPG disposta nel 2015. I ricorrenti si erano rivolti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo per vedere riconosciuta in primo luogo la violazione materiale dell’art. 2 della Convenzione nella parte in cui recita “Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge”, non avendo lo Stato italiano adottato le misure sufficienti per prevenire il suicidio del loro figlio. Altri motivi del ricorso riguardavano la violazione dell’elemento procedurale dello stesso art.2, che richiede di condurre un’indagine effettiva sulle cause della morte per individuare gli eventuali responsabili del decesso, e dell’art. 3, che recita “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La sentenza della Cedu ha accolto solo la prima richiesta, accordando ai ricorrenti la somma di 32mila euro a titolo di danno morale e di 900 euro per le spese, oltre alla maggiorazione dovuta per eventuali imposte e per interessi: è stata riconosciuta la responsabilità dello Stato italiano in quanto la disposizione obbliga non solo ad astenersi dal provocare la morte in maniera volontaria e irregolare, ma anche ad adottare le misure necessarie per la protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione. La domanda di equa soddisfazione per le altre due doglianze è stata respinta: quella relativa all’aspetto procedurale dell’art. 2, in quanto la Corte ha ritenuto che le autorità italiane avessero sottoposto il caso di A.C. a un esame scrupoloso, conducendo un’indagine effettiva sulle circostanze del suo decesso, mentre sull’art. 3 si è dichiarato non doversi esaminare la questione, alla luce dell’esito riguardante le altre questioni. Per leggere la sentenza: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.page?contentId=SDU279209&previsiousPage=mg_1_20 Non sono più i detenuti che vanno sui tetti a protestare, ma gli agenti di Antonio Nastasio* bergamonews.it, 20 giugno 2020 Sui tetti del carcere ieri, sui tetti del carcere oggi: non sono più i detenuti che vanno sui tetti, ma gli agenti. Non mi stupisce questo tipo di comportamento dove, la dimostrazione del dissenso, si manifesta nel medesimo modo tra detenuti e custodi. Quello che mi viene alla mente è lo sconcerto per i cittadini; per i protagonisti una situazione di abbandono, di mancanza di riferimenti, di punti di riferimento validi per confrontarsi e tutelarsi, infatti non ho notizie che sia intervenuta l’Amministrazione penitenziaria in modo partecipativo. Salire sui tetti è stata considerata la prassi ultima e unica, certamente una prassi vincente, confermata da anni dai reclusi, quindi perché no per i custodi. Ma non è accettabile che parti avverse si contendano gli stessi strumenti di lotta. Diviene comprensibile però quando una persona si sente abbandonata, estrema ratio di chi sa di essere solo, di essere stato lasciato solo davanti al fatto, davanti alla responsabilità. Il come è avvenuta la notifica (perlomeno come riferiscono i media, in divisa, all’ingresso del lavoro cioè fuori dal carcere), che dovrebbe essere un atto che deve avere il massimo della riservatezza e del rispetto della persona, invece si è trasformata in una condanna avvenuta, una spettacolarizzazione della giustizia. La colpa, presunta o meno, non fa venir meno il rispetto e la dignità, pertanto è davvero incomprensibile questa modalità di notifica di un avviso di garanzia, che viceversa dovrebbe rappresentare un momento di tutela. Perché, colpevoli o innocenti che siano, l’avviso di garanzia è un modo immediato per farsi ascoltare, e per un imputato poi diventa la cosa più importante. Sui tetti si andava con una certa frequenza negli Anni Settanta per protestare contro maltrattamenti, violenze, e sollecitare i politici ad approvare la riforma delle carceri, la cui gestione non ha nulla in confronto all’attuale per quanto peggiore sia. Ogni contesto e struttura ha sempre due parti nette e ben definite: gestori e clienti. Nelle carceri queste due parti si sono andate negli anni a definirsi in modo sempre più forte. All’intento, almeno credo, di dare un’offerta di migliori servizi, come voleva l’Ordinamento penitenziario del 1975. Il personale di custodia da agenti di custodia (secondini), con la legge del 1991 ha voluto affermarsi come corpo in divisa, ma con questo passaggio anziché affermarsi nella sua specificità come custode specializzato, è andato negli anni a perdere questa connotazione per realizzarsi invece fuori dei reparti carcerari e dalle strutture carcere. Per cui chi lavora in reparto, è sempre considerato il peius mentre il meius è operare fuori del reparto: un errore che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria avrebbe pagato col tempo, ed è quello che è avvenuto. Non stupiamoci di vedere la polizia penitenziaria di reparto sui tetti, perché è abbandonata a sé stessa, quasi che il lavorare in carcere, a contatto coi detenuti, è la cosa meno gratificante, quasi una punizione, mentre dovrebbe essere il fiore all’occhiello dell’amministrazione penitenziaria. L’agente di reparto è il solo al momento di intervenire in una situazione di rivolta, il solo a pagarne le conseguenze, il solo a difendersi. Questa è una azione che dovrebbe essere gestita dal comandante su disposizioni del direttore, che non sembrano compromessi. Allora sul tetto a gridare la loro solitudine, o le loro dignità violata, neppure i sindacati sono stati ritenuti meritevoli di attenzione, loro soli come lo sono i detenuti, quei detenuti che avrebbero offeso. Si perché questi hanno dovuto affrontare i detenuti, rivestendo un ruolo tra i più importanti dello stato democratico: custodire. Loro custodi senza rispetto, loro custodi senza potere di fare; che si condanna ma si chiede contemporaneamente di fare, di custodire. Sa tutto di assurdo, non tanto sulla possibilità di violenze fatte dai custodi ai reclusi, ma perché già condannati, e condannati ad espiare in contemporanea al dovere di esercitare un mandato istituzionale. Sul tetto disperati per essere ascoltati. Da chi? Perché? Per cosa? Chi nel formulare l’avviso di reato ha pensato alla incompatibilità tra essere contemporaneamente inquisiti e custodi? L’Amministrazione era all’oscuro di tutto? Non era un fatto singolo ma un fatto che è relativo a 40 persone come poteva essere sconosciuto? Se c’è stato un corpo a corpo durante le rivolte, i verbali sono stati stilati come informativa ad altre autorità o come denuncia? Quello che è accaduto nei giorni scorsi è un fatto gravissimo che non può passare per mera spettacolarizzazione. È un fatto unico e atipico, nuovo, ma conferma l’incapacità dei vertici di capire le ragioni del malcontento. Non sanno perché estranei al contesto, e chi non sa deve chiedere a chi è lì e magari da anni. Occorre la presenza di conosce il contesto non nella teoria, ma nella sua modalità di attuarsi nei suoi interstizi e pieghe del potere e degli interessi che coprono. Conoscere le persone, le cose, le consuetudini, specie quelle che dettano legge ma non sono Bisogna cambiare tutto se si verificano fatti come gli attuali credo di sì. Non vuol dire cambiare un nome è portare una persona che conosca i meccanismi e metta fine ad una gestione come attuale in modo forte ed immediato. Sono troppe le spinte alla polizia penitenziaria per eseguire attività esterne e a scapito di quelle naturali interne reparto: io proporrei in analogia con altri paesi europei (Francia) di effettuare istituzionalmente questo scindersi in due: una parte per attività interna e di reparto carcerario, assimilarsi alla Polizia di Stato, mentre la parte esterna, assimilarla al Corpo dei Carabinieri per il controllo del territorio di tutti quelli che sono in misura alternativa al carcere, soluzione da attuare con l’Ente locale ed il Terzo Settore. Questo tipo di soluzione non è nuova ed è stata attuata dal Ministero del Lavoro per gli ex Uffici di collocamento, già 30 anni fa. A mio avviso si avrebbe un risparmio economico e un servizio più attento. *Ex dirigente superiore dell’Amministrazione penitenziaria, in quiescenza Roma. Suicidio a Regina Coeli: detenuto di 26 anni si impicca in cella romatoday.it, 20 giugno 2020 Tragedia nel carcere di Regina Coeli dove un detenuto è stato trovato morto impiccato. Il tragico rinvenimento intorno alle 9.30 di venerdì 19 giugno in uno dei bagni del penitenziario romano di via della Lungara. Ad essere trovato privo di vita un detenuto albanese di 26 anni, D.P. le sue iniziali. La scoperta da parte dei compagni di cella dopo che il giovane era andato in bagno riferendo loro di non disturbarlo. Non avendo più risposte dall’uomo, sono entrati nel bagno, dove il 26enne è stato trovato morto dopo essersi impiccato con delle lenzuola bagnate. Inutile la corsa del personale sanitario del 118 intervenuto nella casa circondariale di Rebibbia, con lo stesso che non ha potuto far altro che constatare il decesso del detenuto. Cassino (Fr). Il Garante in visita al carcere: “Condizioni intollerabili di sovraffollamento” tusciatimes.eu, 20 giugno 2020 Ieri il Garante Anastasìa si è recato alla Casa circondariale di Cassino dove ha visitato l’istituto, incontrato il Direttore Francesco Cocco e ha potuto interloquire con alcuni detenuti sulle loro condizioni di detenzione. I problemi principali dell’istituto rimangono il sovraffollamento e la fatiscenza delle strutture. Attualmente nel carcere vi sono 203 detenuti a fronte di 130 posti effettivamente disponibili, con un sovraffollamento di circa il 156%. Il sovraffollamento è concentrato nella II sezione dove, a seguito della chiusura nel marzo 2019 della III sezione dichiarata inagibile, quasi tutte le stanze hanno 7 letti e dove risulta spesso impossibile aprire/chiudere del tutto la finestra. “Si tratta di condizioni intollerabili che ho già rappresentato al Provveditore regionale e per le quali mi auguro ci sia un’immediata azione di riduzione delle presenze” dichiara il Garante. L’alto tasso d’affollamento è determinato anche dal trasferimento presso il carcere di Cassino di detenuti provenienti da altri istituti. Inagibile anche l’unica palestra dell’istituto e inaccessibile il campo di calcio perché per accedervi è necessario transitare sotto la III° sezione nella palazzina dichiarata inagibile. Dal 29 maggio i nuovi ingressi vengono sottoposti a tampone, finora risultati tutti negativi. Le sale colloqui sono state attrezzate per consentire i colloqui familiari quattro postazioni con il divisorio in plexiglass. Da segnalare la riapertura alle attività di soggetti esterni, come la Caritas e l’Università di Cassino, che già da qualche settimana hanno ripreso ad incontrare i detenuti per attività di sostegno sociale, diritto allo studio e informazione legale. Sassari. Il Sindaco incontra il direttore del carcere di Argentino Tellini L’Unione Sarda, 20 giugno 2020 Il Garante dei detenuti: “Bancali è una struttura già vecchia”. Un vertice per fare il punto sui problemi del penitenziario. Ieri a Palazzo Ducale il sindaco di Sassari Nanni Campus ha incontrato il direttore della Casa circondariale di Sassari (Bancali) Graziano Pujia, alla presenza di Antonello Unida, garante dei diritti delle persone private e delle libertà personali presso il carcere. È stato il primo incontro tra le due istituzioni dopo la nomina del direttore Pujia, avvenuta poco prima dell’emergenza coronavirus. Anche nella giornata odierna è emersa la volontà di rafforzare i rapporti tra la comunità e i detenuti del carcere, anche attraverso iniziative che portino la città dentro la struttura e i reclusi all’esterno, con progetti di rieducazione e reinserimento. “In quest’ottica, oltre ad altri progetti mirati, cercheremo anche quest’anno di far ballare il candeliere all’interno del carcere, alla presenza di detenuti e autorità - spiega il garante per i detenuti Antonello Unida, che aggiunge - Il carcere di Bancali ha diversi problemi da risolvere. La struttura, nonostante sia aperta solo dal 2013, appare in diverse parti già vetusta. Inoltre 2 educatori di certo non bastano per tutti i carcerati. Tutte cose che devono essere migliorate e risolte al più presto”. Nel carcere di Bancali sono 460 i detenuti, 90 sono i soggetti sottoposti al 41bis, 20 sono i terroristi islamici reclusi. “Tra i soggetti sottoposti al 41bis - conclude il garante Unida - vi sono anche brillanti studenti universitari, iscritti alle facoltà di Agraria e Giurisprudenza”. Ancona. Il Garante a Montacuto e Barcaglione: “Il sistema sanitario ha funzionato” cronacheancona.it, 20 giugno 2020 “Non possiamo che ritenerci soddisfatti di come il sistema sanitario abbia affrontato l’emergenza epidemiologica nell’ambito degli istituti penitenziari marchigiani, dove a tutt’oggi non sono stati registrati casi positivi”. A dirlo è il Garante dei diritti, Andrea Nobili, dopo un lungo confronto con il responsabile dell’area sanitaria delle strutture anconetane di Montacuto e Barcaglione, prevista dall’azione di monitoraggio ripartita in presenza ormai da alcuni giorni. Come richiesto, Nobili ha anche incontrato il direttore, il referente delle attività trattamentali e i comandanti della polizia penitenziaria. Effettuati diversi colloqui con i detenuti. “Abbiamo avuto la possibilità - specifica il Garante - di approfondire diverse problematiche, in modo da poter affrontare, attraverso le misure più adeguate, la nuova fase dell’emergenza. In questa direzione speriamo di poter riavviare quanto prima le attività trattamentali, che rappresentano un’occasione irrinunciabile per promuovere l’aggregazione e la risocializzazione dei detenuti nella società, una volta terminata la pena. Elementi tanto più necessari nel momento di difficoltà che tutti noi stiamo attraversando”. Sono diversi i progetti inerenti le attività trattamentali già attivati, anche con il sostegno del Garante, e che attendono di essere ripristinati. Alcune attività culturali e pratiche da rimettere in moto in tutti gli istituti penitenziari delle Marche. Caserta. Emanuela Belcuore designata Garante dei diritti dei detenuti larampa.it, 20 giugno 2020 Con Decreto Presidenziale n. 12, pubblicato stamane, è stata designata, all’esito di un avviso pubblico, la dottoressa Belcuore Emanuela, quale Garante dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale della Provincia di Caserta. “Il Garante dei diritti delle persone detenute e private della libertà è una figura importante per l’intera comunità provinciale - ha dichiarato il Presidente della Provincia, Giorgio Magliocca - in quanto svolge una funzione di presidio, di garanzia su tutte le forme di privazione della libertà, garantendo nel contempo che sia osservata scrupolosamente la normativa vigente, salvaguardando sempre e comunque la tutela della dignità della persona umana. Alla dottoressa Belcuore formulo i migliori auguri di un buon lavoro, sicuro che saprà svolgere con competenza il suo delicato ruolo nel campo dei diritti umani, delle connesse tematiche sociali, con particolare sensibilità per le quelle relative alle persone temporaneamente private della libertà. È un ulteriore passo in avanti - ha concluso Magliocca - per la comunità di Terra di Lavoro”. Sul piano storico, la figura del garante fu istituita per la prima volta in Svezia nel 1809, con il compito principale di vigilare sull’applicazione delle leggi e dei regolamenti da parte dei giudici e degli ufficiali. Nella seconda metà dell’Ottocento si è trasformato in un organo di controllo della pubblica amministrazione e di difesa del cittadino contro ogni abuso. Macomer (Nu). Un detenuto del Cpr malmenato e sedato. Gli altri salgono sul tetto di Giansandro Merli Il Manifesto, 20 giugno 2020 Jamal si è cucito la bocca in segno di protesta. Lasciatecientrare: “Chiudere queste strutture detentive”. Giovedì scorso i reclusi nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Macomer, comune sardo in provincia di Nuoro, hanno protestato per le violenze della polizia contro Jamal, un migrante di origini marocchine. “Jamal si è cucito le labbra in segno di protesta - racconta Yasmine Accardo, della rete Lasciatecientrare, che ha potuto parlare con alcune delle persone trattenute nella struttura - Per questo è stato assalito e malmenato dalle forze dell’ordine. Quindi sedato. Ora sta male e non sappiamo dove si trovi”. La notizia del ricovero in ospedale non è confermata. Per il momento non si conoscono le ragioni alla base del gesto di protesta. All’interno del centro sono presenti alcune persone che hanno superato il periodo massimo di reclusione (180 giorni, che prima delle leggi Salvini erano 90), ma sono ancora in attesa del rilascio. Jamal sarebbe tra loro. Le scene di violenza contro di lui hanno provocato la reazione degli altri 23 reclusi, che si sono arrampicati sul tetto. La situazione si è calmata solo in serata. “Rimangono stanchezza e depressione, soprattutto tra chi è trattenuto oltre il limite - continua Accardo - I Cpr continuano a rappresentare luoghi di trattamenti inumani e degradanti. Bisogna chiuderli subito”. Il deputato leghista Eugenio Zoffoli ha annunciato di voler presentare un’interrogazione parlamentare alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese per avere chiarimenti sull’episodio. Quello di Macomer è uno dei sei Cpr italiani rimasti attivi dopo la chiusura per lavori di Palazzo-San Gervasio. Secondo l’ultimo bollettino diffuso dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, al 29 maggio scorso erano 178 i reclusi all’interno di queste strutture. Si registra dunque un forte decremento nel periodo segnato dall’epidemia: il 12 marzo nei Cpr c’erano 425 persone. Al momento sono occupati solo un terzo dei 525 posti disponibili. Secondo il Garante la riduzione dell’affollamento ha contribuito alla “diminuzione delle tensioni”. Il governo italiano ha scelto di non svuotare completamente i centri nonostante il blocco dei rimpatri a cui la detenzione amministrativa dovrebbe essere finalizzata. Gela (Cl). Dall’Aipamm dispositivi igienici per agenti e detenuti gnewsonline.it, 20 giugno 2020 L’Associazione Italiana Pazienti con Malattie Mieloproliferative consegna mascherine e altri prodotti igienizzanti alla Casa Circondariale di Gela. Mascherine chirurgiche, tute sterili di protezione, guanti, disinfettanti, spray igienizzanti sono stati donati dall’Associazione Italiana Pazienti con Malattie Mieloproliferative (Aipamm) agli ospiti della Casa Circondariale di Contrada Balate a Gela. I dispositivi sanitari sono stati consegnati ieri da Giacomo Giurato, responsabile nazionale delle relazioni esterne di Aipamm, a Cesira Rinaldi, direttrice della Casa Circondariale Cesira Rinaldi, alla presenza del Cappellano, fra’ Emanuele Artale, e dei rappresentanti della Polizia Penitenziaria e degli operatori. Aipamm è un’associazione di pazienti affetti da un gruppo di malattie ematologiche rare, in molti casi più esposti al rischio Covid per caratteristiche delle patologie più gravi, per assunzione di farmaci o perché sottoposti al trapianto di cellule staminali emopoietiche. Pazienti che, durante il periodo del lock down, hanno dovuto osservare restrizioni maggiori e hanno avvertito maggiormente il peso dell’isolamento. “Per questo motivo - ha spiegato Giacomo Giurato - abbiamo pensato a un simbolico segno di solidarietà a chi ha vissuto tanto una situazione di isolamento quanto una condizione di maggior rischio”. La scelta è caduta sull’istituto di Gela in quanto in questa cittadina è nata la prima sede Aipamm della Sicilia, regione dove si contano molti casi di malattie ematologiche. “L’iniziativa nasce dalla sinergia tra Aipamm, il Cappellano e la Direzione della struttura penitenziaria - ha aggiunto Giurato - e rappresenta un piccolo ma concreto alle necessità quotidiane di tutti gli agenti, gli operatori e soprattutto agli ospiti dell’istituto che hanno meno mezzi economici”. Un programma nazionale di educazione al civismo di Enzo Manes Corriere della Sera, 20 giugno 2020 L’obiettivo di ogni percorso educativo deve essere quello di permettere di vivere responsabilmente la complessità del nostro tempo. Quindi in nessun percorso scolastico o universitario può mancare uno spazio per riflettere sul tema del senso civico. Fa bene Ferruccio de Bortoli a spronare gli imprenditori perché si impegnino di più sui temi del capitale umano e della formazione della classe dirigente. Va dissipato il sospetto che sia un argomento che nel mondo dell’impresa suscita solo tiepido interesse. È un’illusione che chi vive sui mercati internazionali possa ignorare la condizione delle nostre istituzioni formative, e cavarsela comunque mandando i figli a studiare all’estero. Chi lo pensa sega il ramo su cui è seduto: un Paese che non investe in educazione, ad ogni livello, è un Paese che condanna al declino (anche) la propria economia. È inevitabile, vista la complessità e la densità cognitiva richiesta oggi dalle imprese, vecchie e nuove. La società della conoscenza ha trasformato la produzione industriale e il mondo dei servizi, spostando sempre di più la competizione sul versante dei saperi e delle competenze. Se un Paese non forma adeguatamente e con lungimiranza i propri giovani, nel giro di un paio di decenni, o anche meno, il know-how produttivo ne farà le spese e ci ritroveremo con un sistema industriale impoverito e incapace di stare al passo con la concorrenza internazionale. Quindi, si tratta di un tema rispetto al quale il mondo economico non può restare a guardare. Liberiamoci allora dall’indifferenza che ha portato ad archiviare un anno scolastico come se niente fosse e proviamo a rispondere alla sollecitazione di de Bortoli: quale responsabilità deve assumersi la classe dirigente imprenditoriale, la parte più ricca e internazionalizzata del Paese? Come può prendersi cura del bene comune, intervenendo sul versante dell’educazione? Per quanto possa essere singolare sentirlo da un imprenditore, per conto mio la priorità non è investire in funzione delle esigenze dell’industria o ritenere che il problema stia tutto nel dare più spazio all’istruzione tecnica e scientifica. La priorità, a mio avviso, è riconoscere come competenza essenziale la formazione civica e agire perché diventi una componente fondamentale di qualsiasi programma di studi. L’obiettivo di ogni percorso educativo - che si scelga una carriera nell’industria, nelle libere professioni, nella pubblica amministrazione o in qualunque altro ambito - deve essere quello di permettere di vivere responsabilmente la complessità del nostro tempo. A questo deve tendere la formazione, prima ancora che a plasmare specialismi e eccellenze settoriali. Per questo motivo, da nessun percorso scolastico o universitario può mancare uno spazio per riflettere sul tema del senso civico. Civismo è la forma breve per indicare l’esperienza di una vita che sa affrontare responsabilmente la complessità sociale, anziché lasciarsene travolgere. Civico è l’esercizio con cui si apprende che a volte per perseguire la propria libertà e il proprio interesse è necessario sacrificarne una parte per realizzare un bene superiore. Una vera educazione civica ha per tema i valori e le soft skill della convivenza in ambienti dove dominano la diversità ed è indispensabile la faticosa ricerca dei punti di incontro. Educare al civismo significa fornire gli strumenti culturali per comprendere che non si possono rivendicare diritti senza assumersi anche doveri. Per fare la differenza, gli imprenditori illuminati che de Bortoli sfida a farsi avanti dovrebbero farsi carico di questo compito: investire in un programma nazionale di educazione al civismo, calato nella concretezza dei diversi percorsi formativi. Sostenendo un progetto culturale da portare in tutte le 96 università italiane. Un programma che investa in corsi, incorporati in tutte le discipline, su temi fondamentali come l’etica pubblica, i beni comuni e l’amministrazione condivisa, la dimensione sociale delle imprese, le forme della partecipazione sociale, le nuove metriche per una misurazione del benessere che non coincida solo con il Pil. Un’educazione pratica e non solo teorica. Con metodo aperto a esperienze esterne, a casi concreti, a scenari che si confrontano con situazioni reali. Un progetto nazionale per stimolare lo sviluppo della cultura civica in quanto presupposto culturale e etico dell’esercizio responsabile del ruolo di cittadini, professionisti, imprenditori, policy-maker, operatori dell’informazione e della cultura, e di ogni altra posizione e funzione che non può prescindere da una componente di impegno civico. Perché lo scopo, in definitiva, è di creare quei “fondamentali” che non possono mancare nella formazione di nessun cittadino. Questo progetto, più della creazione di una nuova università privata o di qualche ulteriore master, sarebbe un gesto concreto di assunzione di responsabilità da parte delle imprese, per la crescita del capitale umano nel Paese. Perché è da questo, in definitiva, che dipende la nostra futura classe dirigente. E sappiamo quanto ne abbiamo bisogno. La pandemia, lo stato di crisi e l’eccezione alla vita di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 20 giugno 2020 L’emergenza sanitaria creata dalle pandemie non sfocia necessariamente in uno stato d’eccezione permanente, a meno che non si inserisca, come sta accadendo oggi col Covid-19, in una profonda crisi sociale e etica che del problema dell’infezione è concausa e anche un ostacolo a una buona soluzione. Per comprendere la natura vera dello stato d’eccezione in cui ci troviamo, per motivi di necessità scarsamente interrogati dalla grande maggioranza degli “esperti” di vario tipo, sarebbe opportuno partire dal fatto che tra ogni ordinamento giuridico e la giustizia, c’è sempre una discrepanza. La giustizia non è un concetto mistico; è il principio della parità dei soggetti desideranti che, diversi nella declinazione della propria esistenza, sono liberi di costituirsi come amici o nemici nel campo degli scambi erotici, affettivi, culturali e sociali, senza aspirare a una posizione di dominio o sentirsi indifferenti tra di loro. La “società civile”, intesa nel modo più proprio, cioè come terreno in cui i sentimenti e le idee dei cittadini si incontrano, in contrasto con le ineguaglianze sociali, è il luogo in cui la giustizia, strumento etico/critico che misura la distanza dell’essere umano da sé stesso, respira e resiste. In tutte le forme di stato d’eccezione temporaneo si sospende il legame tra la giustizia e la legge. Per conservare l’ordinamento giuridico di fronte a una minaccia incombente, per imporre un ordinamento dittatoriale attraverso l’aumento della divaricazione tra giustizia e legge, per creare un ordinamento più giusto attraverso un atto rivoluzionario di rottura con quello precedente. Diverso è lo stato d’eccezione permanente in cui l’eccezione riproduce continuamente sé stessa e riduce l’ordinamento giuridico in imperativi retorici al servizio di schemi mentali/comportamentali di massa che hanno potere conformante e “forza di legge” L’esito dello stato d’eccezione permanente è un regime totalitario, fondato sulla coincidenza, di fatto, del diritto del più forte col diritto di uccisione impersonale dell’altro. Non è un insieme di forze totalitarie che crea lo stato d’eccezione permanente, è l’incapacità di uscire dall’eccezione che fa nascere l’apparato necessario alla produzione del totalitarismo. L’emergenza sanitaria creata dalle pandemie non sfocia necessariamente in uno stato d’eccezione permanente, a meno che non si inserisca, come sta accadendo oggi col Covid-19, in una profonda crisi sociale e etica che del problema dell’infezione è concausa e anche un ostacolo a una buona soluzione. In questo caso è corretto parlare di ‘stato di crisi’ di cui la pandemia è una severa aggravante. Lo ‘stato di crisi’ da tempo sta svuotando l’ordinamento democratico, riducendolo progressivamente al suo guscio formale. Ha creato uno stato d’eccezione strisciante che ha le sue origini nella ‘deregulation’ di cui Reagan e Thatcher sono stati i genitori politici putativi. Lo stato di crisi si manifesta in modo fin troppo evidente nella parcellizzazione estrema delle conoscenze scientifiche, diventate competenze tecniche, nel finanziamento della ricerca quasi indissolubilmente legato al lucro, nella dissoluzione del sistema sanitario selvaggiamente privatizzato, nel disinteresse nei confronti dell’ambiente, nell’estrema concentrazione della ricchezza che rende praticamente ingovernabile il pianeta. Al centro di tutto è la dissociazione, in gran parte, della produzione di beni dalla creazione di oggetti d’uso che soddisfino i nostri desideri e bisogni. Si producono cose che indipendentemente dal loro valore d’uso nominale servono per appagare bisogni artificiali presentati come desideri. L’eccezione permanente al legame tra la legge e la giustizia ci condanna a una mobilitazione perpetua contro questo o quell’altro pericolo che riproduce sé stessa all’infinito. La rinuncia a un pensiero critico su ciò che realmente sta accadendo oggi e sulla via d’uscita dall’impasse (che non coincide con la scoperta di un vaccino), favorisce uno stato di ‘necessità psichica’ claustrofilica che ci intrappola in una condizione di eccezione perenne alla vita. Giornata mondiale dei rifugiati. Dal piccolo Alan agli hotspot, la crisi dell’ospitalità di Maurizio Ambrosini Avvenire, 20 giugno 2020 Il Vecchio continente è ancora impegnato nella ricerca di un’intesa sulla gestione dei richiedenti asilo. Sono passati cinque anni dal 2015, entrato nell’immaginario collettivo come l’anno della “crisi dei rifugiati”. In quell’anno lo Stato islamico avanzava in Iraq. In Siria la guerra civile aveva sradicato milioni di persone. Il 20 aprile 800 persone erano affondate nel Mediterraneo, in acque libiche ma non lontano dall’isola di Lampedusa. Un fatto purtroppo non nuovo, che riattualizzava la memoria del naufragio del 3 ottobre 2013, avvenuto a poche miglia dal porto di Lampedusa, con un bilancio di 368 morti accertati e circa 20 dispersi. A fine anno le vittime accertate sarebbero state 3.328, più del doppio del 2014 (1.456) e meno che nel 2016 (4.481). Cominceranno a calare nel 2017 (3.552), poi ancora nel 2018 (2.275) e nel 2019 (1.283), a fronte però di una drastica contrazione degli arrivi, a seguito degli accordi con i paesi di transito: Turchia, Niger, Libia. La pericolosità delle traversate infatti è aumentata: la stima è di una vita persa ogni 60 arrivi riusciti, secondo il Dossier Idos 2019. Le parole di Merkel - Le tragedie delle migrazioni non avvenivano però soltanto in mare. Il 28 agosto 2015 le autorità austriache scoprirono i corpi di 71 persone in un camion frigorifero abbandonato in prossimità del confine ungherese. Si trattava del drammatico epilogo di un ramo del flusso di centinaia di migliaia di persone, che soprattutto dalla Siria cercavano di raggiungere il territorio dell’Unione Europea via terra, attraverso la cosiddetta “rotta balcanica”, passando attraverso Turchia e Grecia. L’Ungheria era il primo Paese dell’Ue che incontravano sul loro cammino, e lì venivano ammassati in campi di detenzione e sostanzialmente abbandonati, per effetto del regolamento di Dublino III. Il 29 agosto i richiedenti asilo accampati alla stazione Keleti di Budapest decisero di intraprendere una “marcia della speranza” verso il confine austriaco, nel tentativo di raggiungere la Germania. Il 31 agosto la cancelliera Angela Merkel, durante la visita a un centro di accoglienza per rifugiati a Dresda, pronunciò le famose parole “Abbiamo gestito così tanti problemi, gestiremo anche questa situazione”: una dichiarazione che segnò l’inizio di una svolta nella politica tedesca in materia. Il dramma di Alan - Pochi giorni dopo, il 2 settembre, la foto del piccolo Alan Kurdi annegato durante la traversata dell’Egeo, scosse per un attimo la coscienza dell’opinione pubblica europea. Sull’onda di quel sentimento, il 5 settembre Angela Merkel decise di sospendere l’applicazione del regolamento di Dublino III. Bus e treni furono mandati a raccogliere i profughi in Ungheria, per trasferirli in Germania attraverso l’Austria. Nelle stazioni che attraversavano, i rifugiati erano accolti con applausi, fiori, musica, doni di varia natura. Per la prima volta dal 1989 i confini dell’Ue venivano aperti a masse di non-cittadini, anche se in maniera selettiva: ai siriani arrivati via terra in cerca di asilo. Si formò in quella circostanza un movimento spontaneo di accoglienza che si stima abbia mobilitato tra il 10 e il 20% della popolazione adulta tedesca, per la maggioranza mai prima coinvolta in iniziative analoghe ed estranea ai circuiti della solidarietà organizzata. L’invasione che non c’è - Secondo i dati Eurostat, i paesi dell’Ue hanno ricevuto complessivamente 1,3 milioni di domande di asilo nel 2015 e 1,2 milioni nel 2016. La Germania ne ha catalizzato la maggior parte. L’incremento rispetto agli anni precedenti è stato sostanzioso, ma anche in quegli anni oltre l’80% dei richiedenti asilo ha continuato ad essere accolto in Paesi in via di sviluppo, principalmente quelli confinanti con le aree di crisi. Solo un’ottica eurocentrica ha potuto alimentare la leggenda di un’Europa invasa dai rifugiati: di una “crisi dei rifugiati”. L’unico Paese dell’Ue che compare tra i primi dieci del mondo per numero di rifugiati registrati è appunto la Germania: 1,1 milioni di persone accolte e 370.000 domande pendenti (fine 2018). L’apertura tedesca tuttavia rivelò le profonde spaccature politiche all’interno dell’Ue sull’argomento. Alcuni governi cominciarono ad adottare posizioni di rifiuto e ostilità nei confronti dei rifugiati che premevano ai confini. Il 15 settembre 2015 il primo ministro ungherese Viktor Orban decise di chiudere il confine con la Serbia. In ottobre le autorità ungheresi completarono la costruzione di una barriera al confine con la Croazia. A novembre fu la volta del governo austriaco, che intraprese la costruzione di un muro lungo il confine con la Slovenia, mentre il governo sloveno fortificava con filo spinato il confine con la Croazia. La nascita degli hotspot - La svolta nei sentimenti di molta parte dell’opinione pubblica dei paesi dell’Ue si verificò bruscamente nel mese di novembre, a seguito degli attacchi terroristici di Parigi. Un altro scossone per la cultura dell’accoglienza derivò dai fatti di Colonia nella notte di Capodanno: aggressioni e molestie sessuali attribuite a uomini di origine araba. Il collegamento tra musulmani, terrorismo e stupri alimentò un’ondata di paura e rifiuto nei confronti dei profughi. Nel frattempo era però maturata a Bruxelles una decisione politica carica di conseguenze: l’istituzione degli hotspot nei punti d’ingresso, sostanzialmente Italia e Grecia, con l’obbligo di identificazione dei nuovi arrivati anche mediante il prelievo forzoso delle impronte digitali. In cambio, la commissione Ue presieduta da Juncker proponeva una ripartizione dei richiedenti asilo tra i Paesi membri. Mentre tuttavia gli hotspot sono entrati rapidamente a regime, la successiva redistribuzione è andata a rilento, o non è avvenuta affatto. Il gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia) la respingeva sdegnosamente, altri con toni più felpati (Danimarca, Regno Unito, Irlanda), altri ancora facevano mostra di accettarla ma non l’attuavano, o in minima parte. Quando infine la misura è stata ingloriosamente archiviata, soltanto 13.000 richiedenti asilo erano stati trasferiti dall’Italia e poco più di 20.000 dalla Grecia. Tensioni xenofobe - La politica dell’asilo non scritta da parte italiana e greca consisteva nell’agevolare il transito verso l’interno dell’Ue dei profughi, che perlopiù non chiedevano di meglio. Gli hotspot, rafforzati dai controlli di frontiera introdotti dagli Stati confinanti, hanno fatto impennare le richieste di asilo nei Paesi di primo ingresso. Sul numero delle persone sbarcate dal mare, nel 2014 solo il 37% avevano presentato domanda di asilo in Italia (66.066); nel 2015 il dato sale al 56% (103.792), poi al 68% nel 2016 (176.554), finendo per superare il 100% nel 2017, pur calando in valore assoluto (119.310), a causa dei respingimenti da altri Paesi Ue e degli ingressi via terra dal confine orientale. L’accresciuto impegno nell’accoglienza e la visibilità dei nuovi arrivati contribuisce ad alimentare nel Paese un’ondata xenofoba: mentre complessivamente l’immigrazione è stazionaria, l’insediamento dei rifugiati (circa 300.000 a fine 2018, su circa 6 milioni d’immigrati: dati Unhcr) viene presentato come un’invasione. Mentre l’immigrazione, in Italia come nel resto dell’Europa occidentale, è prevalentemente femminile ed europea, un diffuso senso comune gonfiato da una propaganda ostile identifica gli immigrati con i giovani maschi africani arrivati dal mare. I decreti “sicurezza” - Già nel 2016, nel frattempo, il problema degli ingressi di profughi principalmente siriani attraverso la Turchia veniva risolto con l’accordo del 18 marzo con Ankara. In cambio di ingenti aiuti economici e concessioni politiche, tra cui la tolleranza non scritta per la svolta autoritaria di Erdogan, la Turchia assumeva il ruolo di gendarme esterno delle frontiere europee. Nel 2017 anche il corridoio del Mediterraneo centrale veniva chiuso grazie agli accordi di Marco Minniti, allora ministro degli Interni italiano, con il governo e con le milizie locali libiche. In questo caso, anche personaggi ambigui e coinvolti nel traffico di esseri umani erano ingaggiati nel controllo dei transiti. I decreti sicurezza di Matteo Salvini, nel 2018-2019, hanno completato il quadro, spingendo più avanti una scelta di contrasto ai salvataggi in mare che ha condotto a criminalizzare le Ong e a scacciarle dal Mediterraneo. Già nel 2017 il numero delle richieste di asilo nell’Ue scendeva a 700.000, per poi continuare a calare negli anni successivi: 646.000 nel 2018, di cui circa 60.000 in Italia; 613.000 nel 2019: 142.000 in Germania, 35.000 in Italia. L’identità tradita - Soprattutto, le politiche europee sono riuscite a schiacciare gli ingressi dal mare: erano stati 1.015.000 nel 2015, si sono ridotti a 114.000 nel 2018. Quasi il 90% in meno. Per l’Italia il dato è sceso a 23.000. Il fantasma dell’invasione si dissocia sempre più dai dati effettivi, a cui la svolta sovranista del nostro Paese ha solo impresso un supplemento di disumanità. Più che di “crisi dei rifugiati” occorre dunque parlare di “crisi dell’accoglienza dei rifugiati”. Nel 1999-2000 un’Ue più piccola dell’attuale accolse un numero di richiedenti asilo dal Kossovo pari a quello del 2015. Ma 15 anni dopo opinioni pubbliche impaurite e governi incerti, pressati dal nazional-populismo in crescita, hanno scelto di disattendere progressivamente i propri impegni umanitari. Come hanno mostrato i violenti respingimenti di inizio marzo al confine greco-turco, hanno deciso di trincerarsi in una fortezza Europa sempre più lontana dai propri principi fondativi. Giornata mondiale dei rifugiati. Leyla: “Sono fuggita dai talebani e l’Italia mi ha salvata” di Jacopo Storni Corriere della Sera, 20 giugno 2020 È nata a Wadrak, in Afghanistan, ed è in fuga da quando ha 4 anni. In Italia, grazie al Centro Astalli, ha potuto studiare. “Sarò la prima donna laureata della mia famiglia”. “Sono rifugiata da quando ho memoria”. Leyla ha cominciato a fuggire da quando aveva 4 anni. È nata a Wadrak, città rurale dell’Afghanistan. “Mio padre coltivava la sua terra, che poi era la terra di suo padre e di suo nonno. Ma eravamo di etnia Hazara, una delle una delle minoranze religiose ed etniche più perseguitate dell’Afghanistan, e questo a un certo punto è diventato un problema molto serio”. Era piccolissima quando i talebani hanno fatto irruzione in casa. “Non ricordo quello che successe, so soltanto che il giorno dopo lasciammo la nostra casa e cominciammo un lungo cammino. Pochissimi bagagli e ancora meno spiegazioni”. Da quel giorno, la sua vita è stata per anni una fuga dietro l’altra, una minaccia dietro l’altra, uno sfruttamento dietro l’altro, fino all’emigrazione in Italia, dove oggi grazie al Centro Astalli, il centro dei gesuiti che si occupa dei rifugiati, ha potuto studiare ed è diventata parrucchiera. Un sogno che diventa realtà, anche se lei vuole andare oltre. “Vorrei di più. Continuo a studiare per diplomarmi e poi chissà magari un giorno mi iscriverò all’università. Sarò la prima donna laureata della mia famiglia. Sarebbe bello, soprattutto per i miei genitori che hanno portato sulle loro spalle tutto il peso dell’esilio”. Dopo quel giorno coi talebani dentro casa, parte il lungo cammino e l’arrivo a Kabul a casa dei nonni materni. “Abbiamo vissuto lì un anno. Poi anche lì è arrivata la guerra. Ricordo benissimo i colpi di arma da fuoco che si sentivano per tutto il giorno. Ci nascondevamo di continuo in cantina. Non potevamo restare. Era troppo pericoloso. Una notte mamma e papà ci rimettono di nuovo in viaggio. Questa volta la meta finale è il Pakistan. Abbiamo vissuto per 8 anni in 10 persone in una stanza ad Islamabad”. Vita da rifugiata, giorno dopo giorno, lavorando senza sosta per sopravvivere, anche se lei era ancora una bambina. “A Islamabad ho imparato a cucire tappeti, insieme ai miei fratelli. Avevo 6 anni e ogni giorno dalle 8 del mattino alle 8 di sera andavo in una stanza vicino alla nostra dove viveva un’altra famiglia. Stavamo con loro tutto il giorno ad imparare a fare i nodi dei tappeti ma non venivamo pagati ed è stato difficilissimo, ogni giorno mangiavamo solo pane, zucchero e tè”. Poi una piccola svolta: “Dopo questo primo periodo, una grande azienda di tappeti ha sistemato nel cortile fuori dalla nostra stanza un telaio per farci cucire. A quel punto riuscivamo a comprare qualcosa in più da mangiare. Di quegli anni mi rimangono dei ricordi e delle mani troppo vecchie per una ragazza della mia età”. A 16 anni arriva la svolta che le cambierà per sempre la vita. “Ho conosciuto in Pakistan un giovane ragazzo di nome Khan. Lui ha chiesto di prendermi in sposa. Mio padre ha accettato senza riserve. Una bocca in meno da sfamare”. Khan all’età di 23 anni tenta il viaggio della speranza. Parte per l’Iran, poi Turchia. In Grecia si nasconde sotto il motore di un camion che si sta imbarcando. Scende ad Ancona quasi morto. Viene accolto in un centro di accoglienza, diventa richiedente asilo, poi rifugiato e infine trova lavoro come meccanico in un’officina. Così riesce a fare il ricongiungimento familiare con Leyla, che arriva in Italia. “Oggi la nostra vita è serena. Ci vogliamo bene. Lavoriamo e voglio continuare a studiare”. Grazie al Centro Astalli ha imparato l’italiano e ha sostenuto gli esami di terza media. “Gli operatori sociali mi hanno aiutato a trovare lavoro”. E così diventa parrucchiera. È abile con le mani, questo lavoro le ricorda i tanti anni a cucire tappeti quando ancora era una bambina. La sua vita è cambiata, ma nella sua mente si agitano i fantasmi del passato. “Un giorno spero vicino, non sarò più una rifugiata, non tanto nei documenti, quanto nella mia testa. Vorrei finalmente sentirmi a casa, al sicuro. Vorrei finalmente essere libera”. Egitto. Regeni, Conte promette la svolta che non c’è di Chiara Cruciati Il Manifesto, 20 giugno 2020 In Commissione d’inchiesta il premier difende la scelta del “business per la verità” ma per al-Sisi collaborare significa auto-denunciarsi. E in assenza di pressioni politiche Il Cairo resta in silenzio. La battaglia per Giulio sulle spalle della Procura di Roma: il 1° luglio vede gli egiziani. Non ci si aspettava una svolta in politica estera dall’audizione in notturna del presidente del Consiglio Giuseppe Conte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni. Ma nemmeno il silenzio sul pacchetto di armi in partenza verso l’Egitto nel prossimo futuro, con le due fregate Fremm Fincantieri apripista di contratti tra i nove e gli 11 miliardi di dollari. Un’enormità sottolineata in chiusura dal presidente della Commissione, il deputato di LeU Erasmo Palazzotto, che fanno dell’Egitto “un partner strategico nel Mediterraneo, il principale” nonostante la natura intrinseca del regime egiziano. Ieri le reazioni del mondo politico riflettevano le appartenenze politiche: i senatori del M5S in una nota si dicevano speranzosi che “questa strategia dia presto i suoi frutti, a partire dall’incontro tra magistrati italiani e ed egiziani previsto per il primo luglio”. Il Pd, con la vice ministra degli Esteri Marina Sereni, promette “di alzare il livello di pressione” sull’Egitto alla vigilia dell’incontro tra procure che ruoterà intorno alla disattesa rogatoria italiana dell’aprile 2019. Più dura Sinistra italiana. “Continuo a credere che la scelta di vendere armamenti all’Egitto sia un grande errore”, ha detto il deputato Nicola Fratoianni a Rai3, ricordando che una legge dello Stato, la 185/90, vieta di vendere armi a paesi in guerra o violatori dei diritti umani e suggerendo di ricorrere a una classica strategia diplomatica: “Prima ci dite quello che ci dovete dire, tanto per cominciare ci date gli indirizzi dei cinque ufficiali sospettati dell’arresto, delle torture e dell’omicidio di Giulio. Poi vi arrivano le armi”. L’opposto della strategia del governo Conte 2, ideatore di una nuova scuola che, chissà, potrebbe rivoluzionare i rapporti internazionali: si fanno affari e si intensifica il business per farsi amica la riottosa controparte, così che magari ceda e consegni qualcosa di concreto. Andiamolo a dire a paesi devastati da embargo e sanzioni, a quelli con cui la diplomazia “dolce” non è stata mai applicata, ai cubani, gli iraniani, gli iracheni. Loro venivano/vengono sanzionati (o bombardati) per costringerli ad adeguarsi agli interessi altrui. L’Egitto no. L’Egitto va coccolato, anche se è chiaro che dal regime non arriverà aiuto. Perché dare quell’aiuto nelle indagini significherebbe ammettere che il sistema di potere post-golpe di Abdel Fattah al-Sisi è un sistema fondato sul monopolio della forza bruta di esercito e servizi segreti, i due corpi che danno legittimazione a un presidente senza partito né base elettorale propria. Consegnare i responsabili materiali della morte di Regeni - e la Procura di Roma ne ha individuati almeno cinque, con un lavoro indefesso e straordinario, applaudito giovedì notte dai membri della Commissione e da Conte - significa consegnare simbolicamente il mandante: il regime, abile tessitore di una macchina del controllo sociale e della repressione quasi senza pari. Quel regime e il suo apparato repressivo ricevono oggi nuova legittimazione dall’Italia che lo considera abbastanza alleato e abbastanza affidabile da vendergli due fregate Fremm da 1,2 miliardi. Per questo le parole di Conte (per quanto si voglia credere, e non c’è motivo di dubitarne, che continui a chiedere ad al-Sisi collaborazione e verità sulla morte di Regeni) non muovono di un millimetro la battaglia per la giustizia, tornata sulle spalle della Procura di Roma, che tra dieci giorni discuterà con gli investigatori egiziani del silenzio assordante sulla rogatoria di 14 mesi fa, che chiedeva conto, tra l’altro, della presenza a Nairobi nell’agosto 2017 di uno dei cinque indagati, il maggiore Sharif: secondo un testimone avrebbe raccontato dettagli sul sequestro di Giulio a un pranzo. Quello che gli investigatori italiani vogliono - e che è stato ribadito giovedì sera dalla vice presidente della Commissione Deborah Serracchiani - è il domicilio legale dei cinque membri dei servizi egiziani iscritti nel registro degli indagati per sequestro e tortura. Così da poterli processare in Italia, in contumacia. Su questo Conte non ha fatto promesse: pur assumendosi la responsabilità dei mancati progressi, nella sessione pubblica non è stato in grado di fornire un solo elemento che faccia immaginare una qualche svolta, anche minima, nelle indagini. Il premier si rifugia nel primo luglio: è da quell’incontro tra procure che si auspica di ricevere una “manifestazione tangibile di volontà” sul caso Regeni, come chiesto nella telefonata del 7 giugno ad al-Sisi, motivo della sua convocazione da parte della Commissione d’inchiesta. Unica forma di “pressione” è l’assenza di visite di Stato ufficiali tra Italia ed Egitto (come dimenticare quelle sfavillanti dell’allora premier Renzi), ma di ritirare l’ambasciatore non se ne parla: “Mantenere un’interlocuzione costante permette di esigere rispetto”. Caso Regeni, Palazzotto: “Serve la svolta. Dall’Egitto nessun segnale, governo rassegnato” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 20 giugno 2020 Il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta Erasmo Palazzotto: a rischio la credibilità internazionale dell’Italia. Senza novità rivedere le nostre politiche. Erasmo Palazzotto, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Regeni, che impressione ha tratto dall’audizione del premier Giuseppe Conte? “Di un governo e una classe politica rassegnati, che considerano la normalizzazione dei rapporti economici e commerciali con l’Egitto un dato ineluttabile. Rinunciando a far diventare la ricerca di verità e giustizia sul sequestro e la morte di Giulio Regeni la bussola per ricostruire le relazioni con quel Paese”. Su quali presupposti? “Che bisogna tenere separate le relazioni economiche dalla richiesta di cooperazione sul caso di Giulio; c’è chi vorrebbe che pure la nostra commissione si limitasse a leggere le carte giudiziarie. Ma non potrà accadere”. Perché? “Perché il progressivo ritorno alla normalità ha influito sull’assenza di verità. Non a caso la Procura di Roma è riuscita a ottenere qualche informazione solo nel periodo in cui il nostro ambasciatore è stato richiamato in Italia. Grazie a quei dati e allo straordinario lavoro dei magistrati e degli investigatori siamo riusciti a conquistare gli unici brandelli di verità, che hanno evidenziato la responsabilità degli apparati di sicurezza egiziani nel sequestro”. In seduta segreta Conte vi ha riferito le risposte di Al Sisi. Può dirci almeno se ci sono novità nella collaborazione promessa a parole? “Al di là di generici impegni non ci sono passi avanti né atti concreti. Allora dobbiamo chiederci: dopo il gesto unilaterale dell’Italia di riallacciare normali rapporti, come l’autorizzazione a vendere le due navi da guerra, siamo riusciti a ottenere qualcosa per avvicinare la verità sulla morte di Regeni?”. Secondo lei a quando va fissata la verifica? “Credo che già l’incontro del 1° luglio tra il procuratore generale egiziano, il procuratore di Roma Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco, debba essere considerata una prima tappa. Se si rivelerà un ennesimo flop, e non verranno comunicate le informazioni necessarie per proseguire almeno l’azione giudiziaria italiana, si potrà fare finta di niente? Io penso che non ce lo possiamo permettere. Rimanere inflessibili sul piano politico e diplomatico nel sostenere la domanda di giustizia è l’unico modo per non rendere vano lo sforzo compiuto dai magistrati”. Lo dice per provare a fermare la vendita delle due navi da guerra? “Io faccio parte di una forza politica, Leu, che era e resta contraria alla vendita di armi e strumenti di guerra a Paesi che non rispettano i diritti umani, per ragioni etiche e politiche. Il governo ha approvato quella vendita, ma restano in ballo altre operazioni e autorizzazioni da concedere: affari per nove miliardi; non condizionarne la prosecuzione al raggiungimento di altri. Le indagini sulla sua morte hanno portato a un nulla di fatto e non sono mancate tensioni tra i due Paesi. Giovedì il premier è stato ascoltato dalla commissione d’inchiesta parlamentare risultati renderebbe la perdita di credibilità del nostro Paese inesorabile e fatale”. Nei confronti della famiglia Regeni, che si sente tradita da quanto è accaduto? “Non solo, nei confronti di tutta la collettività. Il sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio sono una ferita aperta per l’intera collettività nazionale, è in ballo la dignità dell’Italia. Se uno Stato non è in grado di proteggere un proprio cittadino all’estero, o di ottenere giustizia per la sua morte, non è uno Stato affidabile. Se continueremo ad assistere inermi a depistaggi, prese in giro e risposte dilatorie per continuare a perdere tempo, rischiamo di diventare lo zimbello del Mediterraneo”. Crede che Conte abbia recepito il vostro messaggio? “Ho apprezzato la tempestività con cui ha aderito alla nostra richiesta di audizione, e il premier ha ascoltato con attenzione ciò che hanno detto tutti i commissari. Ma ora il nostro lavoro prosegue”. Come? “Apriremo un nuovo ciclo d’indagine sulla politica; chiameremo presidenti del Consiglio, ministri degli Esteri, dell’interno e tutti coloro che hanno avuto un ruolo. Anche solo incontrando Al Sisi per altre ragioni. Dobbiamo capire quello che ha funzionato ma, soprattutto, quello che non ha funzionato e ci ha allontanato, in questi quattro anni e mezzo, dalla verità”. Egitto. Il giornalista Mohamed e la dottoressa Alaa: cosa significa essere egiziani di Chiara Cruciati Il Manifesto, 20 giugno 2020 Storie di ordinaria repressione (con le armi italiane ed europee): un altro reporter dietro le sbarre, detenzioni e punizioni per i medici che denunciano la mala gestione dell’epidemia di Covid-19 Soldati egiziani per le strade del Cairo. Sono le storie dei singoli a far capire, all’estero, cosa significhi essere egiziani. Khaled Said, Alaa Abdel Fattah, Mahmoud Abu Zeid, Giulio Regeni, Patrick Zaki, Sarah Hijazi, chi ucciso per strada dalla polizia, chi torturato per giorni fino a morirne, chi detenuto senza ragione se non quella della repressione politica, chi tanto umiliato e abusato da voler abbandonare la vita. Le loro storie sono tanto più dolorose perché non sono l’eccezione, ma la normalità. Una normalità fatta di (ed è una stima) due o tre sparizioni forzate al giorno, di 60mila prigionieri politici, di leggi che vietano lo sciopero e le manifestazioni di dissenso. Vale la pena raccontarne altre: a soffocare gli egiziani sono corpi militari e di polizia i cui strumenti arrivano dall’Italia e l’Europa, armi leggere, sistemi di intercettazione, veicoli blindati. Non ci sono solo le fregate. Lunedì scorso in prigione in Egitto è finito l’ennesimo giornalista. Mohamed Monir, 65 anni, è stato arrestato da agenti in borghese ed è al momento in detenzione preventiva, i famosi 15 giorni rinnovabili senza limite. È accusato di appartenenza a organizzazione terroristica, diffusione di notizie false e abuso dei social media. Il motivo: era apparso su Al Jazeera, emittente tv qatariota, considerata dall’Egitto quasi minaccia esistenziale. La ragione è politica: il Qatar è un sostenitore dichiarato dei Fratelli Musulmani, dal 2013 messi al bando dal Cairo come organizzazione terroristica, soggetti a processi di massa e massacri (come quello di piazza Rabaa, agosto 2013, primo atto del regime di al-Sisi). Dopotutto Mahmoud Hussein, caporedattore di Al Jazeera in Egitto, è agli arresti dal 20 dicembre 2015, senza che si sia mai arrivati a processo. E senza che un’accusa formale nei suoi confronti sia mai stata mossa, dopo oltre 1.270 giorni trascorsi in cella. La polizia era stata a casa di Monir già il sabato precedente senza trovarlo. Gli agenti erano però stati “catturati” dalla videocamera di sorveglianza. Solo a maggio sono stati quattro i giornalisti arrestati in Egitto, terzo paese al mondo per reporter dietro le sbarre dopo la Cina e la Turchia, attualmente 26, numero che comprende solo quelli arrestati in relazione diretta al lavoro svolto. Non solo i media. Negli ultimi mesi di epidemia di Covid-19 il sistema repressivo si è scagliato anche contro gli operatori sanitari critici verso la mala gestione della crisi. C’è chi ha scioperato, chi si è dimesso, chi ha raccontato in che condizioni si lavora negli ospedali al collasso, privi di attrezzature e protezioni. Si finisce in carcere: secondo Amnesty International tra marzo e giugno l’Nsa, i servizi di sicurezza egiziani - gli stessi responsabili della sparizione e le torture a Giulio Regeni, secondo quanto accertato dalla Procura di Roma - hanno arrestato sei medici e due farmacisti per aver espresso sui social media le loro preoccupazioni. Tra loro c’è Alaa Shaaban Hamida, dottoressa di 26 anni, arrestata il 28 maggio all’ospedale di Alessandria, dopo essere stata segnalata dal suo stesso direttore. Hany Bakr, oftalmologo di 36 anni, è stato portato via dalla sua casa a Qalyubia, nord del Cairo, il 10 aprile per un post di critica al governo su Facebook. Il 27 maggio è stato un medico la vittima dell’Nsa: aveva scritto un articolo sul fallimentare sistema sanitario egiziano. Questi alcuni dei casi. Ce ne sono tanti altri, denunciati dal sindacato dei medici, che parla di minacce, interrogatori, multe, trasferimenti: “Stanno costringendo i medici a scegliere tra la morte e la prigione”. Stati Uniti. Che fine hanno fatto i detenuti di Guantánamo di Alberto Bellotto insideover.com, 20 giugno 2020 Oggi nelle celle di Guantánamo, la base navale Usa in territorio cubano, sono ancora incarcerati 40 detenuti. Tra di loro, la mente che ha progettato gli attacchi dell’11 settembre 2001, Khalid Sheikh Mohammed, e molti altri terroristi di Al Qaeda. Nonostante da quella stagione siano passati quasi 20 anni, i detenuti potrebbero restare dietro le sbarre ancora a lungo. Ma da quelle celle c’è anche chi è riuscito a uscire. C’è chi è stato scarcerato e poi è scomparso e chi, invece, è tornato a fare quello che faceva: compiere attentati. Il campo di detenzione è nato ufficialmente nel 2002, durante la “War on Terror” lanciata dall’amministrazione Bush dopo l’attacco al World Trade Center. Negli anni, la popolazione carceraria ha subito diverse variazioni, con il picco raggiunto nel giugno del 2003 con 684 persone detenute. In 18 anni di vita, ben 731 detenuti sono transitati per l’isola caraibica, nove di questi non sono mai usciti perché morti durante la detenzione. A riempire le celle, soprattutto nella prima fase, sono stati afghani, sauditi, yemeniti e pakistani. Nell’ottobre del 2001, gli Stati Uniti hanno iniziato la guerra in Afghanistan e i primi arresti non hanno riguardato solo leader e combattenti di al Qaeda, ma anche moltissimi miliziani e capi talebani. Il via vai è stato incessante quasi da subito. Già nel febbraio 2004 i prigionieri trasferiti erano 106 e negli anni successivi i movimenti sono aumentati. Un momento significativo per la struttura è arrivato nel 2009, quando la nuova amministrazione di Barack Obama ha deciso di chiudere il carcere. Secondo l’ordine esecutivo del presidente la struttura andava svuotata entro un anno, ma alla fine tutto è rimasto uguale perché il Senato ha bocciato la proposta con 80 voti contrari. La preoccupazione principale era quella di gestire i combattenti, il loro trasferimento, e l’eventuale pericolosità di alcuni di loro. Nel 2012 l’Intelligence Authorization act per l’anno fiscale 2012 prevedeva che il direttore della National Intelligence Agency, quello della Cia e quello della Dia rendessero pubblici i dati relativi ai tassi di recidiva degli ex detenuti di Guantánamo. I dati più recenti di questo monitoraggio risalgono al gennaio del 2019. Prima del 2009, anno dell’ordine esecutivo, i combattenti recidivi, tornati alla lotta, erano 115 sui 532 trasferiti all’estero, il 21,6%. 82 (il 13,7%) erano invece quelli dal destino incerto, cioè detenuti dei quali si sospetta un ritorno alla militanza ma senza conferme definitive. Post 2009 i numeri sono stati più bassi, con solo il 4,6% di detenuti tornati alla lotta armata e il 9,1% di sospetti recidivi. Osservando tutto il periodo è anche possibile vedere qual è stato il destino di questi combattenti. 38, tra recidivi confermati e sospettati, sono morti, mentre 39 sono quelli complessivamente tenuti in custodia da governi locali. Il dato più preoccupante, però, riguarda i latitanti. Ben 67 sono quelli ancora attivi come combattenti e 78 quelli sospettati. Nel 2009 un rapporto del Pentagono spiegava che almeno un detenuto su sette di quelli che allora erano transitati per la prigione era tornato al jihad. Sempre secondo una stima dell’amministrazione Obama, almeno 12 detenuti rilasciati avrebbero poi colpito obiettivi americani, soprattutto in Afghanistan. Tra i rilasciati che sono tornati a combattere ci sono anche dei casi emblematici. Per capire il livello di pericolosità si può partire dalla storia di Yasir al Silmi, yemenita noto anche come Muhammaed Yasir Ahmed Taher. Identificato come detenuto 679, è stato arrestato in Pakistan nel 2002 e considerato affilato a una cellula di Al Qaeda. Senza essere mai formalmente incriminato, è stato poi rispedito in Yemen nel dicembre del 2009. Otto anni dopo, nel marzo del 2017, al Silmi è stato ucciso nel corso di un raid americano nel governatorato di Abyan. La particolarità di questa esecuzione è che l’ex detenuto non era l’obiettivo primario dell’attacco, ma anzi si trovava nella stessa stanza con Usayd al Adnani, un operativo di alto profilo di al Qaeda nella Penisola arabica (Aqap). Per il Pentagono al Silmi era una figura di poco conto, ma il fatto che si trovasse lì dimostrava una qualche forma di ritorno alla militanza. Il caso di al Silmi non è il solo a dimostrare una certa capacità attrattiva dello Yemen per gli ex detenuti vicini ad Al Qaeda. Un altro esempio è quello di Said Ali al-Shihri. Cittadino saudita nato a Riad, è stato portato a Guantánamo tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002 per poi essere rispedito a Riad nel novembre del 2007. Da quel momento, ha iniziato un lungo percorso di militanza in al Qaeda culminato nel 2009, quando è apparso in un video che annunciava la nascita di Aqap. Quattro anni dopo al Shihri, che nel frattempo era diventato vice del gruppo, è stato ucciso con un raid americano. Nel famoso filmato del 2009, accanto ad al Shihri c’erano altri tre volti noti: Nasser al Wahaishi, primo leader della formazione ucciso da un drone Usa nel 2015; Qasim al Raymi, successore di al Wahaishi e ucciso in un altro strike americano nel gennaio di quest’anno; e infine un quarto personaggio identificato con molti nomi: Mohamed Atiq Awayd Al Harbi, noto anche come Muhammad al Awfi e Abu Hareth Muhammad al-Oufi. Al Oufi era il detenuto 333 di Guantánamo e come al-Shihri è stato rilasciato nel novembre del 2009. Ad oggi risulta essere l’ultimo rimasto vivo del quartetto, anche se la sua posizione risulta incerta. Tra i rilasciati eccellenti finiti tra le file di Aqap, c’è anche Ibrahim Sulayman Muhammad al-Rubaysh, altro saudita, altro internato a Cuba. Catturato nel dicembre 2001 in Afghanistan e portato a Guantánamo il 16 gennaio 2002, al Rubaysh è stato rilasciato poco dopo, il 13 dicembre del 2006. Tre anni dopo, secondo una ricerca del think tank Jamestown Foundation, al Rubaish si sarebbe unito ad Aqap in qualità di muftì e avrebbe militato nella formazione in Yemen almeno fino al 2015 quando un drone Usa ha colpito la sua abitazione nei pressi del centro di Mukalla. Lo Yemen, però, non è l’unico Paese in cui gli ex detenuti sono tornati a combattere. Nel novembre scorso, il dipartimento del Tesoro Usa ha imposto una serie di sanzioni contro organizzazioni e individui per aver dato supporto finanziario allo Stato islamico. Tra questi c’è anche Rohullah Wakil. Secondo le autorità americane Wakil, come membro dell’organizzazione solidale Nejaat Social Welfare Organization, avrebbe contribuito a raccogliere fondi per lo Stato islamico nella provincia del Khorasan. Wakil, matricola 798, è stato incarcerato a Cuba nel 2002 per poi essere rimpatriato in Afghanistan il 30 aprile del 2008. È chiaro che la tracciabilità completa non è semplice. Il 7 aprile del 2009, poco più di tre mesi dall’ordine esecutivo di Obama, la Dia ha rilasciato una prima lista di presunti ex prigionieri tornati al jihad, ma da allora non è stato possibile avere altre liste dettagliate. L’ordine di Obama aveva lasciato in eredità anche un’altra cosa: un ufficio di controllo, lo “Special Envoy for Guantánamo Closure”, con il compito di negoziare e monitorare i rilasci. Un sistema complicato che prevedeva negoziazioni con Paesi terzi per il trasferimento e il controllo delle persone tenute a Guantánamo. Verso la fine del 2018, l’amministrazione Trump ha deciso di chiudere l’ufficio con sede al dipartimento di Stato, per riaccentrare il controllo nella base. Se da un lato questo ha ottimizzato le risorse, dall’altro ha limitato la possibilità di controllo dei rilasciati. In questo senso ci sono due casi emblematici. Il primo è quello di Abu Wa’el Dhiab. Nato in Libano da padre siriano e madre argentina, negli anni 90 aveva lavorato come autista per l’aviazione siriana per poi trasferirsi in Pakistan verso la fine del decennio. Da lì, grazie all’aiuto di alcuni facilitatori locali, ha passato dei periodi in Iran e Afghanistan fino alla cattura nell’aprile del 2002. Trattenuto per lo più come informatore dati i suoi legami con talebani e reclutatori di al Qaeda, Dhiab è stato poi traferito in Uruguay nel dicembre del 2014. Nell’estate del 2018, però, l’uomo ha fatto perdere le sue tracce. Secondo il ministro dell’Interno uruguagio, Jose Gonzales, sentito dal magazine McClachy, l’ex detenuto avrebbe attraversato il confine con il Brasile e preso un volo da San Paolo per la Turchia. Fonti dell’intelligence siriana avrebbero poi confermato che Dhiab sarebbe entrato e uscito più volte dalla Siria, in particolare dalla regione di Idlib controllata in larga parte da gruppi islamisti e dall’ex fronte qaedista di Tahrir al-Sham. Il problema è che tutti questi passaggi sono sfuggiti alla giustizia americana, come confermano episodi analoghi in altri Paesi che hanno ospitato ex detenuti. Il Senegal ne ha rispediti due in Libia, mentre dei 23 trasferiti negli Emirati Arabi Uniti non si hanno più notizie. Tra gli otto trasferiti in Slovacchia tra il 2010 e 2014, quattro sono scappati. Uno di questi, Rafik al Hami sarebbe tornato in Tunisia. Oggi di lui si sono perse le tracce, ma secondo la madre sarebbe morto in Siria negli ultimi anni.