Giornata finale del progetto “Carcere e scuole: educazione alla legalità” Ristretti Orizzonti, 1 giugno 2020 Il 3 giugno dalle 10 alle 12.30 ci sarà una Videoconferenza, in cui Gianrico Carofiglio*, magistrato e scrittore, terrà una lezione e dialogherà sulla necessità di “liberare le parole dal logorio di un utilizzo inconsapevole o, peggio ancora, dalla loro alterazione da parte dei ladri di parole: per fare questo è indispensabile operarne un’attenta manutenzione”. “Maggiore chiarezza e precisione delle parole significano più democrazia. Minore chiarezza e maggiore oscurità implicano meno democrazia. (…) Farsi capire è un dovere e capire è un diritto. Doveri e diritti richiedono impegno, fatica, tempo. (…) Scrivere vuol dire anche cancellare e riscrivere, rendere la propria comunicazione precisa ed essenziale, chiara e corretta”. La Giornata si concluderà con la premiazione, da parte dell’assessora Marta Nalin del Comune di Padova e del direttore della Casa di reclusione, dei testi più interessanti. Silvia Giralucci, giornalista, autrice del libro “L’inferno sono gli altri”, farà delle brevi interviste ad alcune delle persone che hanno deciso di contribuire a “salvare” questo progetto: vittime (parteciperanno sicuramente Agnese Moro, figlia dello statista rapito e ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978, Fiammetta Borsellino, Giorgio Bazzega, Lucia Di Mauro); Carlo Riccardi, mediatore penale; famigliari di detenuti, persone che hanno finito di scontare la pena, volontari, operatori della Giustizia, insegnanti, funzionari e operatori del Comune di Padova). Tutti gli altri interessati potranno assistere all’incontro in diretta Facebook sulla pagina di Ristretti Orizzonti, anche chi non ha Facebook. Se avete Facebook: cliccate su https://www.facebook.com/Ristretti/posts/ qualche minuto prima dell’evento - troverete la diretta Se non avete Facebook: cliccate su https://www.facebook.com/Ristretti/posts/ qualche minuto prima delle 10, comparirà la pagina Facebook di Ristretti Orizzonti, scorrete verso il basso usando la barra verticale sulla destra dopo qualche secondo un pannello la coprirà (ha la scritta Vedi altri contenuti di Ristretti Orizzonti...): cercate in basso e cliccate sulla piccola scritta “Non ora”. Ora potete seguire la diretta. Chi assiste all’incontro su Facebook potrà intervenire inserendo un post. *Gianrico Carofiglio, magistrato e scrittore, è autore tra l’altro dei romanzi con al centro l’avvocato Guerrieri, che è diventato l’avvocato più famoso del romanzo giudiziario italiano. È uscito di recente “La misura del tempo”. È autore del saggio “La manomissione delle Parole”, dove riflette sulle lingue del potere e della sopraffazione, e si dedica al recupero di cinque parole chiave del lessico civile: vergogna, giustizia, ribellione, bellezza, scelta. Detenzione domiciliare, pannicello per le carceri di Ilaria Li Vigni Italia Oggi, 1 giugno 2020 Rivolte nelle carceri e sovraffollamento: parziali soluzioni del Cura Italia (Decreto legge 18 del 17 marzo 2020, convertito con legge n. 27 del 24 aprile 2020) che consente la detenzione domiciliare per le condanne fino a 18 mesi, salvo i più gravi reati. L’art. 123 del decreto legge n. 18 del 17 marzo 2020, convertito in legge a fine aprile, al fine di far fronte all’emergenza Coronavirus dal punto di vista della tenuta del sistema carcerario, come purtroppo riscontrato in occasione di alcune rivolte di detenuti in molte carceri italiane, introduce una serie di deroghe, valide dal 17 marzo 2020 e sino al 30 giugno 2020, alla disciplina della detenzione domiciliare di cui alla legge n. 199/2010. Tale particolare tipologia di detenzione domiciliare, in sintesi, consente l’espiazione della pena della reclusione non superiore a 18 mesi, anche se residuo di maggior pena, presso il domicilio, con un procedimento applicativo del beneficio estremamente accelerato (addirittura, da concedersi entro cinque giorni dalla richiesta) e di competenza del magistrato di sorveglianza, anziché del tribunale di sorveglianza. Occorre precisare che il beneficio della detenzione domiciliare, ai sensi della legge n. 199/2010 non può essere concesso a determinate categorie: - ai condannati per reati ostativi di cui all’art. 4bis dell’Ordinamento penitenziario (reati più gravi di criminalità organizzata, di droga, reati sessuali, ad esempio) - ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza; - ai detenuti sottoposti al regime della sorveglianza particolare; - “quando vi è la concreta possibilità che il condannato possa darsi alla fuga ovvero sussistono specifiche e motivate ragioni per ritenere che il condannato possa commettere altri delitti ovvero quando non sussista l’idoneità e l’effettività del domicilio anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato”. Dalla lettura dell’art. 123 del decreto legge “Cura Italia”, si comprende che il legislatore, per coloro che facciano istanza di applicazione del beneficio dal 17 marzo 2020 ed entro il 30 giugno 2020, ha ritenuto di soprassedere in parte a tale ultimo requisito e, specificamente, alla necessità che non vi sia la concreta possibilità che il condannato possa darsi alla fuga o possa commettere altri delitti. Va detto, comunque, che il comma 2 dell’art. 123 concede al magistrato di sorveglianza la possibilità di negare il beneficio qualora “ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura”. Viene, invece, mantenuta la necessità che il domicilio sia idoneo ed effettivo, ai sensi della lettera f) dell’art. 123 e viene imposto, in ogni caso, l’utilizzo del cosiddetto “braccialetto elettronico”, fino a quando la pena da espiare sia inferiore ai sei mesi di reclusione. Pur con questa importante deroga, la normativa precisa, altresì, rispetto all’originaria formulazione dell’art. 1 della legge n. 199/2010, che il beneficio, in questa situazione emergenziale, non potrà essere concesso: - ai condannati per i reati di cui agli art. 572 (maltrattamenti) e 612bis c.p. (atti persecutori), oltre che, ovviamente, per i reati ostativi ex art. 4bis dell’Ordinamento penitenziario; - a detenuti che nell’ultimo anno siano stati sanzionati per infrazioni disciplinari concernenti la partecipazione o promozione di disordini o a sommosse, fatti di evasione o la commissione di reati ai danni di compagni, operatori penitenziari o visitatori; - a detenuti nei cui confronti sia stato redatto rapporto disciplinare per la partecipazione o il coinvolgimento nelle recenti sommosse avvenute nelle carceri italiane a far data dal 7 marzo 2020, proprio in relazione all’emergenza Coronavirus. “Le carceri sovraffollate sono un disumano supplemento di pena” di Giacomo Galeazzi interris.it, 1 giugno 2020 Mancano i braccialetti elettronici. La tecnologia consente il controllo a distanza ma l’Italia è ancora indietro rispetto al resto d’Europa. Interris.it ha messo a confronto sindacati di polizia, avvocati penalisti e garanti dei detenuti. “È incomprensibile che solo in Italia lo Stato non sia in grado di utilizzare uno strumento che in tutte le società occidentali consente di far uscire dal carcere e di sorvegliare i detenuti che scontano pene per crimini minori”, afferma Giuseppe Tiani, segretario generale del Siap (Sindacato italiano appartenenti Polizia). “I numeri negli istituti penitenziari vanno deflazionati e l’Italia è stata più volte sanzionata per il sovraffollamento carcerario: malgrado tutte le sollecitazioni dell’Europa e degli operatori del settore ad alleggerire la pressione sulle carceri, le istituzioni non sono ancora riuscite a organizzarsi per usare la tecnologia del controllo a distanza - prosegue Tiani. La pena deve essere scontata in maniera civile e le celle sovraffollate costituiscono un’inaccettabile supplemento di pena”. Oltre la capienza - Secondo i dati del Ministero della Giustizia, in Italia i detenuti sono 61.230, a fronte di una capienza regolamentare delle carceri pari a 50.931 posti. In altre parole, dove dovrebbero stare 100 persone lo Stato italiano ne ha confinate 120. Questa situazione non è poi omogenea e, ricostruisce l’Agi, ci sono penitenziari più sovraffollati di altri. Ad esempio a Regina Coeli a Roma sono detenute 1.061 persone in 616 posti (più di 170 persone ogni 100 posti), a Brescia nel carcere Fischione i detenuti sono 366 e i posti 189 (194 persone ogni 100 posti), a Bologna nel carcere D’Amato sono confinati in 500 posti 891 detenuti (quasi 180 persone ogni 100 posti), a Busto Arsizio 434 detenuti per 240 posti (180 ogni 100 posti) e gli esempi potrebbero proseguire. Secondo l’Unione delle camere penali, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede “si è assunto la gravissima responsabilità di aver modificato le iniziali previsioni della detenzione domiciliare per le pene brevi”, protestano i penalisti, una soluzione che “non risolve ma anzi aggrava la condizione di tutte le persone che nel carcere sono ristrette e che nel carcere sono chiamate ad operare, oltre che delle strutture sanitarie esterne che potrebbero essere investite in pandemia dalla popolazione carceraria malata”. Tempi di attesa - Afferma Samuele Ciambriello, garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale in Campania: “Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) sostiene di averne acquistati 5000 ma intanto anche nella nostra Regione i tempi di attesa per i detenuti che hanno ottenuto un’ordinanza di concessione della misura alternativa della detenzione domiciliare con applicazione del braccialetto elettronico, sono diventati lunghi e vanno sia a compromettere i contenuti del decreto legge 17 marzo 2020, numero 18 e le scelte della magistratura di sorveglianza, sia creano sentimenti di angoscia in coloro che ne sono beneficiari”. E, prosegue il Garante campano dei detenuti, “tale frustrazione e malessere hanno portato un detenuto del carcere di Aversa a compiere un grave tentativo di gesto estremo, scongiurato soltanto grazie alla professionalità e alla prontezza del personale in servizio”. Tempi di attesa - Il garante Ciambrello elogia la “direttrice reggente del carcere di Aversa, Carla Mauro, per la lettera-denuncia inviata al ministero della Giustizia-Dap in cui chiede di interessare nuovamente il dicastero dell’Interno-dipartimento di pubblica sicurezza per ogni utile intervento atto a ridurre la lunghezza dei tempi di attesa, che non soltanto va ad inficiare il criterio di semplificazione sotteso alla normativa deflattiva in parola, ma che soprattutto mina il clima generale dell’istituto, già provato dal particolare periodo di emergenza nazionale”. La direttrice, nella lettera inviata anche al garante per conoscenza, sostiene di essere in attesa di 10 braccialetti elettronici per i suoi detenuti. “È una vergogna, sia la mancanza di braccialetti, sia il fatto di volerli utilizzare per forza per fare uscire i detenuti che devono scontare ancora solo 18 mesi di reclusione, in misura di detenzione domiciliare- evidenzia il garante- Ma la politica ha capito che il carcere è una polveriera con miccia corta?”. Appello del Siap - Il Siap (sindacato italiano appartenenti Polizia) sollecita, perciò, un “salto di qualità” e chiede che “la polizia penitenziaria diventi polizia dell’esecuzione penale”. Quindi, precisa a Interris.it il leader sindacale dei poliziotti italiani Giuseppe Tiani, la proposta del Siap è che gli agenti “non sorveglino più soltanto i detenuti all’interno di un luogo chiuso come il carcere ma anche, in base a determinate funzioni, controllino chi esce per svolgere lavori esterni o per terminare la pena a casa”. E ciò può avvenire “secondo un inquadramento di dipendenza gerarchica dal dicastero della Giustizia e funzionale dal ministero dell’Interno”. L’esempio da seguire, secondo Tiani, è quello tedesco. “In Germania si fanno uscire con il braccialetto elettronico i detenuti che hanno residui di pena di alcuni mesi in modo che possano essere impiegati in mansioni socialmente utili (come prendersi cura del verde pubblico) sotto il controllo della polizia. In questo modo vengono immesse in un circuito virtuoso persone che stanno terminando di scontare la loro pensa per crimini minori”. Civiltà giuridica - “Per costruire nuove carceri servono anni e ovviamente l’esecuzione della pena deve essere garantita - puntualizza Tiani. Il braccialetto elettronico allevia il sovraffollamento delle carceri che è un preciso dovere di uno Stato democratico. La civiltà giuridica impone allo Stato di consentire che l’esecuzione della pena avvenga nel pieno rispetto dei diritti umani. Mettere 12 persone in una cella per sei viola la dignità umana. Il sovraccarico delle carceri favorisce e accelera l’abbrutimento degli individui come avviene in America latina dove i detenuti non hanno neppure lo spazio per sedersi e devono stare in piedi. Chi sconta il crimine che ha commesso deve pagare con una pena giusta e non accresciuta dalla disorganizzazione del sistema carcerario”. Prosegue Tiani: “I sistemi complessi sono lenti da riformare e l’Italia soffre una carenza di personale: 36 mila agenti di polizia penitenziaria invece dei 40 mila previsti in organico”. Mancano, osserva Tiani, 4 mila uomini a sorveglianza delle carceri e lo Stato deve farsi carico di un salto ordinamentale e organizzativo, unendo l’uso su larga scala del braccialetto elettronico e il controllo sull’esecuzione della pena di chi esce per i domiciliari e il lavoro esterno da parte della polizia penitenziaria. È questa l’unica soluzione possibile al sovraffollamento delle carceri”. Conclude Tiani: “È una misura indispensabile per assicurare condizioni generali di giusta detenzione. A beneficiarne in particolare devono essere coloro ai quali resta da scontare un residuo di pena e che sono in carcere per reati minori. Non certo, dunque. i boss mafiosi o i grandi criminali”. Le complessa finalità delle misure alternative alla detenzione di Tayla Jolanda Mirò D’Aniello iusinitinere.it, 1 giugno 2020 Intervista al Magistrato di Sorveglianza di Santa Maria Capua Vetere, dott. Marco Puglia. Da giorni si assiste ad una forte polemica inerente la scarcerazione di alcuni detenuti sottoposti al regime del c.d. carcere duro. La questione è sorta a seguito della concessione del beneficio della misura alternativa ad alcuni soggetti detenuti, al fine di contenere la diffusione del virus Covid- 19 all’interno delle carceri. Il dato che ha suscitato più perplessità è che un numero considerevole di ristretti stava espiando una pena per il reato di associazione mafiosa art. 416 bis c.p., la preoccupazione risiede, dunque, nella possibilità che l’uscita dagli istituti penitenziari di soggetti altamente pericolosi, possa favorire la ricostituzione di clan di stampo mafioso. La situazione è molto delicata perché si tratta di bilanciare equamente due principi fondamentali: da un lato l’incolumità pubblica e dall’altro il diritto alla salute del detenuto. A tal proposito giova ricordare che nell’Ordinamento penitenziario le norme che disciplinano le misure alternative (in particolare la semilibertà, l’affidamento in prova al servizio sociale e la detenzione domiciliare) prevedono che al ricorrere di determinate situazioni il Magistrato di sorveglianza possa disporre la concessione di predette misure. Precisamente dalla lettura dell’art. 47 ter dell’ordinamento penitenziario (che disciplina la misura alternativa della detenzione domiciliare) si evince che il giudice, in via preliminare, accerta mediante la relazione delle forze dell’ordine l’idoneità del domicilio e la disponibilità dei familiari ad accogliere il detenuto, inoltre nella valutazione dei dati si tiene conto della condotta intramuraria tenuta dall’istante e della informativa trasmessa dalla Dda che comunica al magistrato competente se persistono collegamenti tra il detenuto e organizzazioni criminali. Il Magistrato dovrà, infine, considerare le condizioni di salute dell’istante che se incompatibili con il regime carcerario legittimano il differimento della pena. Gli articoli summenzionati trovano conferma negli articoli 146 e 147 c.p. i quali prevedono il differimento della pena in presenza di particolari situazioni di salute, specificamente: “l’esecuzione di una pena può essere differita se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita contro chi si trova in condizioni di grave infermità fisica”. Questa possibilità, invero, è compatibile con il finalismo della pena sancito nell’art. 27 c. 3 della Cost, secondo il quale la pena deve tendere alla rieducazione e alla risocializzazione del reo. Questa finalità può essere maggiormente soddisfatta attraverso degli strumenti quali appunto le misure alternative, che permettono il graduale reinserimento di colui che ha commesso un reato nella società. Per comprendere maggiormente la questione abbiamo posto alcuni quesiti al Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Dott. Marco Puglia. Alla luce del dibattito venutosi a creare a seguito della scarcerazione di alcuni detenuti sottoposti al regime del 41 bis, lei crede che esistono degli strumenti normativi che siano in grado di bilanciare equamente i contrapposti interessi in gioco (specificamente incolumità pubblica e diritto alla salute del detenuto)? Certo che esistono e questi strumenti normativi sono, ovviamente, le misure alternative alla carcerazione. Queste nascono con una finalità duplice, soprattutto quando hanno riguardo la salute del detenuto, la finalità è quella di assicurare che la pena sia conforme alla Costituzione e quindi, allorquando sia necessario, hanno la funzione di assicurare i corretti i trattamenti sanitari per tutelare un diritto supremo come la salute, ma hanno, per le prescrizioni e limitazioni da cui sono composte, anche il compito di tutelare il resto della società e dunque, sostanzialmente contenere l’eventuale pericolosità sociale dei soggetti che sono destinatari delle misure alternative. L’esecuzione della pena in misura alternativa risponde alla finalità rieducativa sancita dall’art. 27 c. 3 Cost.? Molto probabilmente la finalità risocializzante assicurata dall’art. 27 della Costituzione può dirsi maggiormente esaudita proprio attraverso quelle che sono le misure alternative, al punto che spesso si è detto che la stessa dicitura di “alternativa” sia in qualche modo fuorviante, perché tenuto conto della grande capacità delle misure alternative in questione dovrebbero essere esse stesse la prima scelta del legislatore e dunque del giudice individuando, invece, quale alternativa, quale extrema ratio, la detenzione in carcere in misura non dissimile da quanto accade sostanzialmente anche per le misure cautelari che oggi, in ragione delle elaborazioni giurisprudenziali, hanno subito un netto ridimensionamento applicativo, nel senso che la custodia cautelare in carcere rappresenta una scelta ultima alla quale il giudice si rivolge laddove non sia altrimenti possibile soddisfare le esigenze cautelari, in questo senso le misure alternative dovrebbero, oggi più che mai, soprattutto con il recente ampliamento ad opera della Corte Costituzionale del limite massimo che consente la non esecuzione dell’ordine di carcerazione, rappresentare un elemento preponderante e centrale. Ci sono delle reali opportunità lavorative per una persona con precedenti penali, precisamente se è vero che la pena deve tendere alla risocializzazione del reo, la comunità è davvero pronta ad accogliere una persona che ha commesso reati? Sono numerosissime le difficoltà che un soggetto detenuto e in generale un soggetto condannato riscontra nel reperimento di un’attività lavorativa e questo non soltanto perché viene ad incontrarsi e scontrarsi con un mercato del lavoro che è generalmente complesso in Italia, soprattutto nel sud-Italia e soprattutto in questo momento storico, ma anche perché questi marchi del carcere e della condanna rappresentano elementi molto spesso pregiudizievoli per il soggetto che ne sia portatore. Per tali motivi non è un caso che vi siano numerose associazioni volte ad assicurare un’attività lavorativa all’esterno o spesso le attività lavorative iniziate nel corso della detenzione rappresentano un elemento di grande formazione, perché consentono sostanzialmente, laddove vi sia un percorso lavorativo serio e certificato, che il soggetto detenuto una volta libero possa nel mercato del lavoro spendere una competenza che riesce (o può riuscir)e a superare il pregiudizio che circonda la sua persona. Le carceri (con specifico riferimento a quelle della Campania) sono organizzate in modo adeguato? diversamente quali sarebbero i miglioramenti da apportare? Per le carceri campane, ovviamente, la varietà delle stesse non consente una valutazione unitaria. Gli istituti penitenziari in Italia, senz’altro, necessitano di una particolare manutenzione e rivalutazione di alcune zone e di alcuni trattamenti, questo perché sostanzialmente sono gli spazi, in taluni casi, a mancare ed è tale il motivo per cui ancora oggi l’Italia deve corrispondere a soggetti detenuti una cifra a titolo di indennizzo per quella che stata definita dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo una detenzione inumana e degradante, che ruota in primo luogo intorno ad un problema di sovraffollamento carcerario, un sovraffollamento che molto spesso inibisce il perseguimento della finalità risocializzativa. Che incidenza ha il Dap nelle scelte del magistrato di sorveglianza? Non ci sono delle incidenze da parte del Dap, perché ovviamente il magistrato di sorveglianza, al pari di qualsiasi magistrato, gode di autonomia e indipendenza. Il Dap è un interlocutore importante e fondamentale con il quale il magistrato può confrontarsi per la gestione di specifiche esigenze detentive, ed è anche un interlocutore che può essere, all’uopo con gli strumenti previsti dal nostro sistema, adeguatamente propulsato per il raggiungimento di specifici scopi tutelati ed individuati dal legislatore; tra tutti appunto la possibilità per il detenuto di promuovere un reclamo avverso il dipartimento, per il tramite delle rappresentazioni all’interno dell’istituto e dall’altro la possibilità per il giudice di accogliere eventualmente il reclamo e addirittura nominare un commissario ad acta per l’esecuzione dei provvedimenti emanato. L’istituzione carceraria può ritenersi attuale alla luce dei dettami costituzionali in merito al finalismo della pena? Ovviamente dipende da quali siano le condizioni dell’istituto penitenziario, da quali siano le offerte trattamentali e quali siano i legami, i collegamenti del carcere con il tessuto connettivo- sociale che circonda lo stesso. Questo perché è estremamente rilevante nell’ambito del trattamento carcerario, anche il coinvolgimento, laddove sia possibile, della società civile che possa sostanzialmente assicurare un contributo all’interno dell’istituto penitenziario e quindi, favorire anche attraverso attività di volontariato che possano tradursi in attività teatrali, musicali o didattiche, oltre a quelle già assicurate e previste dal nostro sistema. A seconda di come questi criteri vengono a modellarsi potrà aversi un carcere c.d. modello ed un carcere che modello non lo è, proprio perché non riesce ad assicurare neanche gli standard minimi per il perseguimento di queste specifiche finalità. Lei ritiene che nell’evoluzione giurisprudenziale la funzione retributiva-afflitiva della pena sparirà definitivamente o residua ancora un suo spazio? Specificamente l’art. 27 c. 3 Cost. assolve anche ad una funzione punitiva- sanzionatoria, ciò alla luce della giurisprudenza Edu? Nel nostro sistema l’unica espressa finalità riconosciuta, anche se a questa è fatta riferimento con una finalità tendenziale, è appunto quella risocializzante - rieducativa, è indubbio, però, dal punto di vista criminologico che all’interno del nostro sistema basta anche una mera lettura coordinata del codice penale e del codice di procedura penale, ma anche degli studi che sono stati fatti per rilevare la presenza, ovviamente, anche una finalità retributiva che del resto insita nella determinazione legislativa della pena. La finalità afflittiva è in qualche modo essa stessa insita nel concetto di pena, perché le restrizioni che questa determinano comportano un grado di afflizione più o meno elevato nei confronti dei soggetti che ne sono attinti. Tuttavia, è ovvio che l’afflizione e la retribuzione non possono trasformarsi in altro, la retribuzione non può divenire mero arbitrio nella determinazione della pena e l’afflizione non può essere informata da criteri satisfattori e quindi, di primordiale vendetta che non possono essere introdotti nel nostro sistema. In qualche modo la Corte Edu da atto di questa vivacità dell’esecuzione penale, ovviamente prediligendo la finalità rieducativa della pena, anche allorquando essa vada sostanzialmente a riguardare soggetti con uno spiccato profilo criminale. Pena rieducativa. I detenuti producono in cella 800mila mascherine al giorno di Nando Dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2020 Che bello potere parlare dei diritti dei detenuti sapendo che non ci sono dietro le pretese di impunità dei boss e dei loro avvocati. Che bello quando il dibattito si libera dell’unica ragione per cui in questo Paese si discute di garantismo e condizioni carcerarie: la voglia dei mafiosi di tornare a casa e riprendersi, fra tante oche giulive, il quartier generale da cui comandare. Ecco, martedì 26 maggio è partito dal carcere di Bollate un piano straordinario. Che ha messo insieme Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e alcune industrie private in nome di un progetto detto “Lavori di pubblica utilità”. Obiettivo: garantire alla collettività nazionale, grazie al lavoro dei detenuti, una fornitura di 800mila mascherine al giorno. Una cifra altissima, se solo si pensa a quanto il Paese ha pagato in vite umane l’assenza di adeguati dispositivi di protezione. L’intervento delle imprese ha permesso di mettere a punto in una settimana la costituzione di tre strutture produttive: le sedi penitenziarie di Milano Bollate, di Roma Rebibbia e di Salerno. Vincenzo Lo Cascio, responsabile dell’Ufficio centrale lavoro detenuti, entusiasmo e lampi di sguardo che ricordano il miglior Verdone, è quasi commosso per il clima che si è formato negli ultimi giorni. Un imprenditore coinvolto nella sfida, che non si era mai occupato di carceri, gli ha confessato che “l’idea che io possa essere il veicolo per cambiare in meglio la vita di un’altra persona mi fa sentire vivo come non mi era mai successo”. L’obiettivo più urgente è contrastare la diffusione del Covid nelle carceri. Ma le cifre assolute sono tanto ossigeno per il fabbisogno nazionale. In tempi record sono state progettate le aree in cui verranno ospitate le linee produttive, completamente al di fuori da quelle di detenzione anche se all’interno del complesso di sicurezza, per permettere ingresso e uscita degli addetti e il movimento dei mezzi di trasporto coinvolti nella filiera. Saranno usati macchinari tecnologicamente avanzati di provenienza cinese, presi dalla struttura del Commissario straordinario e dati gratuitamente all’Amministrazione penitenziaria. Che sforneranno mascherine dotate delle certificazioni di conformità e degli standard qualitativi previsti. Le cifre di questa nuova occupazione sociale? Sono calcolati sull’intero ciclo produttivo 162 detenuti, per ognuno dei quali è previsto un periodo di formazione. Le macchine lavoreranno 24 ore al giorno. Mentre la polizia penitenziaria assicurerà, anche in remoto, la sorveglianza delle aree interessate. “Tutte mascherine chirurgiche certificate, al costo di 60 centesimi l’una”, ci tiene a sottolineare Lo Cascio, “con risparmi miliardari per le casse dello stato ed evitando le maxi truffe che hanno infestato le scorse settimane”. Ecco finalmente a voi, insomma, la funzione rieducativa della pena. Che è teatro, è giardinaggio, è lavoro utile, è servizio pubblico, è studio. Non è arresti domiciliari in barba alla legge e non è falsa perizia medica come hanno voluto far credere i difensori “dei diritti umani” o gli intellettuali da pronto soccorso giunti a giurare che “certa antimafia estremista fa più male della mafia” (complimenti, professore). E sempre a proposito di funzione rieducativa, proprio martedì scorso a Bollate, mentre arrivavano le prime due macchine, è stata annunciata la riapertura del ristorante “In galera”, del cui esordio Il Fatto parlò diversi anni fa. La sua fondatrice, Silvia Polleri, che aveva temuto che il Covid le mandasse in malora una fatica esemplare di anni, era raggiante: “Incomincia la rinascita!”. Darà e insegnerà un lavoro anche lei a una dozzina di detenuti. Che diventeranno cuochi e camerieri. E anche se non sono dei boss ma dei poveri diavoli, a noi interessa lo stesso. Anzi, di più. Renzi: “Doveroso ridurre il ricorso alla custodia cautelare” Il Dubbio, 1 giugno 2020 Il leader di Italia Viva nel suo libro “La mossa del cavallo”: “Necessaria una sistematica battaglia culturale”. “Privare qualcuno della libertà vuol dire in ogni caso infliggere un doloroso supplizio. Se poi si scopre che questo atto era del tutto privo di fondamento o di motivazione, l’ingiustizia diventa un trauma insuperabile, inaccettabile. Per questo ritengo doveroso ridurre il ricorso alla custodia cautelare preventiva, che, sebbene non vi sia coscienza nell’opinione pubblica della sua incredibile diffusione, è tuttora praticata, spesso senza un’effettiva necessità”. È quanto scrive Matteo Renzi in uno dei capitoli del suo nuovo libro “La mossa del cavallo”, in uscita il 4 giugno per Marsilio. “Tutte le volte che il tribunale del riesame o la Cassazione annullano un’ordinanza d’arresto non soltanto viene deturpato il principio stesso dello Stato di diritto, ma rimane irrimediabilmente sfregiata la vita delle persone, di chi è stato ingiustamente privato della sua libertà e il cui percorso appare segnato da una macchia indelebile. In uno Stato liberale è quanto di più grave possa darsi”, afferma l’ex premier. “Questo significa che può capitare a tutti, che non è affatto giustificato ciò che, nell’intimo delle nostre coscienze, al sicuro nelle nostre case, continuiamo a ripeterci: “Io non ho fatto niente e dunque nulla ho da temere”, oppure, mettendo in campo la spietata consequenzialità della logica: “Se l’hanno arrestato, qualcosa avrà fatto”. Un modo di pensare miope, sebbene comprensibile e quasi scontato, ma, se riflettiamo bene, profondamente iniquo”, sottolinea Renzi. “E del resto non è un caso che nel corso di una trasmissione televisiva al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sia significativamente sfuggita la frase: “Gli innocenti non finiscono in carcere”. Che cos’è infatti quell’esternazione se non la spia di un sentimento diffuso?”, aggiunge. “A preoccupare molto di più, però, è la scarsa cultura giuridica diffusa in questo paese, in cui è come se non esistesse, o fosse stato rimosso, il principio di non colpevolezza sancito dalla Costituzione nel momento in cui questa legittima la condanna solo dopo una sentenza passata in giudicato - sottolinea il leader di Italia Viva. E invece ogni cittadino diventa, suo malgrado, un colpevole non ancora scoperto, come teorizzato per anni da Pier Camillo Davigo, magistrato capofila di una cultura giustizialista approdata prima al vertice dell’Associazione nazionale magistrati e poi persino al Consiglio superiore della magistratura. Ma non stupisce più di tanto, se si pensa che lo stesso Csm aveva accolto uno dei giudici responsabili di quello che, a ragione, viene incluso nella lista dei più clamorosi scandali giudiziari che l’Italia ricordi, il caso Tortora - aggiunge. Basti questo a confermare come un tale atteggiamento sia un problema strutturale della giustizia italiana, che non può essere risolto se non attraverso una lunga e sistematica battaglia culturale”. “Se, da un lato, il magistrato è un essere umano, e come tale può commettere errori - spiega ancora -, dall’altro è inaccettabile che possa essere promosso al più alto organo di autogoverno della magistratura dopo essersi reso responsabile di una vicenda tanto delicata da essere rimasta scolpita nella memoria collettiva del paese. Ecco perché oggi appare indispensabile lavorare perché si giunga a una definitiva presa di coscienza del problema, prima ancora che per cambiare la legge”. Magistrati, addio alla toga per chi fa politica. Carriere quasi separate e cambia il Csm di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 1 giugno 2020 Riforma pronta per il Consiglio dei ministri. Pd e grillini divisi sugli ex parlamentari, come Legnini ed Ermini. La riforma della magistratura muove il suo primo passo. In settimana dovrebbe approdare in Consiglio dei ministri. Ma c’è una falla nel testo concordato in due lunghi vertici di maggioranza. I grillini sostengono il divieto per ex ministri, sottosegretari e parlamentari di essere eletti al Csm. È previsto nel testo, filtra in serata. Falso, ribatte il Pd: era nella prima bozza di Bonafede, gli altri tre partiti della maggioranza l’hanno bocciata. Falla non da poco, se dovesse preludere all’ennesimo affondo contro David Ermini, vicepresidente del Csm ed ex deputato Pd. Come il predecessore Giovanni Legnini. Entrambi immortalati nelle chat di Palamara. La riforma sarà un disegno di legge delega, come per le riforme dei processi civile e penale, già in Parlamento. L’accordo è di non blindare il testo di partenza, ma vista l’aria che tira (Salvini e Meloni che strattonano il Quirinale, Berlusconi a rimorchio, la Casellati che rilancia il sorteggio del Csm, incostituzionale per gran parte della dottrina) è più facile il dialogo con magistrati e avvocati che con l’opposizione. La riforma ha 4 gambe: nomine giudiziarie, carriere dei magistrati, rapporti con la politica, elezione del Csm. La prima nasce direttamente dal caso Palamara. Obiettivo: modificare l’iter delle nomine giudiziarie, imponendo al Csm l’applicazione dei principi di trasparenza come per ogni normale procedura amministrativa, il rigoroso ordine cronologico (per disincentivare accordi a pacchetto tra correnti), l’audizione dei candidati (per Roma, un anno fa, l’aveva chiesta invano Mattarella), il parere degli avvocati e dei magistrati del territorio, un’età più matura e una professionalità certificata per i posti più ambiti, una limitazione della discrezionalità nella valutazione dei curricula (da cui nascono caterve di ricorsi al Tar). Sulle carriere, la novità “a effetto” è la riduzione da quattro a due, nell’intera carriera, delle finestre per passare da pm a giudice e viceversa. Separazione di fatto delle carriere, ma non rivoluzione. Il Csm già privilegia la continuità di funzioni: per un posto di Procuratore, è meglio vista un’intera carriera da pm piuttosto che una intervallata da un’esperienza da giudicante. Alla faccia della sventolata “cultura della giurisdizione”. Previste regole più stringenti per l’accesso in Cassazione, terreno di scontro/accordo tra correnti (nel Csm ancora fumano gli ardori dell’ultima infornata), e per le valutazioni di professionalità, sovente improntate al “todos caballeros”. Cambia anche il giudizio disciplinare: più oneri per i capi degli uffici, possibile riabilitazione a fini di carriera in caso di sanzioni lievi. La questione delle “porte girevoli” tra politica e magistratura (ordinaria, amministrativa e contabile) viene affrontata ampliando le ipotesi di ineleggibilità. La novità (questa sì, storica) è che i magistrati che hanno ricoperto incarichi di premier, ministri, parlamentari nazionali o europei, presidenti assessori o consiglieri regionali, sindaci di città con oltre 100mila abitanti non indosseranno più la toga: cessato il mandato, svolgeranno funzioni amministrative a parità di stipendio. Chi si candida senza essere eletto non potrà per tre anni lavorare nello stesso ufficio giudiziario di prima, né in altro ufficio legato al collegio elettorale, oltre al divieto di concorrere per posti direttivi. Sosta ai box anche per 4 anni per gli ex membri del Csm e per 2 anni per i magistrati (circa 200) rientrati dal “fuori ruolo” negli staff di Palazzo Chigi, ministeri e Regioni. Quanto al Csm, la bozza prevede l’aumento dei consiglieri da 24 a 30 (invariata la proporzione: due terzi togati, un terzo eletti dal Parlamento). Vietato far parte della sezione disciplinare, ampliata e riorganizzata, e della commissione nomine. Le due più ambite: nominare e punire. Cambia il sistema elettorale, che diventa un maggioritario vagamente francese: non più collegio unico nazionale, ma 20 collegi territoriali senza liste e con voto personale. Se al primo turno nessuno prende il 65%, si va al ballottaggio a due. Nobile intento destrutturare le correnti e favorire candidati indipendenti. Ma l’eterogenesi dei fini potrebbe rinsaldare i potentati locali e favorire desistenze più o meno occulte (nel 2018 il voto in Cassazione fu capolavoro di trasversalismo). A occhio, l’effetto sarà la spinta verso un bipartitismo giudiziario: da una parte i progressisti di Area, dall’altra un blocco conservatore egemonizzato da Magistratura Indipendente. In mezzo (come la Dc nel 1994) quel che resta di Unicost, corrente che fu di Palamara. Non a caso tra i più fieri avversari del maggioritario c’è Autonomia e Indipendenza, la corrente più giovane e meno organizzata. Così com’è, la riforma Bonafede rischia di far comodo più a Cosimo Ferri che a Piercamillo Davigo. La mossa M5S sul Csm: stop ai politici. La versione di Palamara in onda in tv di Giuseppe Scarpa Il Messaggero, 1 giugno 2020 Si discute di una riforma radicale del Consiglio Superiore di magistratura. Una bozza di legge, targata M5S, in cui i nove componenti laici di Palazzo dei Marescialli non potranno provenire né dal governo né dal parlamento. La prossima settimana sarà portata al Consiglio dei ministri. Si tratta di una proposta che i grillini avevano comunque già avanzato nelle scorse settimane. Una bozza già avversata dagli alleati di governo, Pd, LeU e Italia Viva. Per gli altri tre partiti che reggono l’esecutivo è impensabile accettare l’ipotesi messa sul tavolo del Movimento. Al massimo si potrebbe trattare sulla provenienza dei consiglieri dalle file del governo, non da quelle del parlamento. Ad ogni modo, solo per fare un esempio, se questa norma fosse stata in vigore già in passato nessuno degli ultimi due vice presidenti - né l’attuale David Ermini, né il suo predecessore Giovanni Legnini - sarebbero potuti essere eletto. Una proposta che si pone l’obiettivo di evitare commistioni tra politica e magistratura. Commistioni venute alla luce in virtù dell’inchiesta sul pm Luca Palamara, ex consigliere al Csm ed ex presidente dell’Anm, che ha svelato il mercato delle toghe. E proprio ieri il pm intervistato a Non è l’Arena, il programma di Massimo Giletti, ha fornito la sua versione. Le chat agli atti dell’inchiesta di Perugia con pm, giudici e parlamentari hanno scoperchiato il grande gioco delle nomine in procure e tribunali. Una negoziazione che poi si traduceva in voti non sempre dettati da un criterio di merito, ma dal peso delle correnti. L’anno scorso a Palazzo dei Marescialli c’erano state le dimissioni di sei consiglieri, con l’affossamento delle correnti Magistratura Indipendente e Unicost, travolte dallo scandalo. Un terremoto politico giudiziario che aveva successivamente colpito anche l’Anm. L’Associazione nazionale dei magistrati che aveva poi eletto presidente Luca Poniz, di Area, l’ala progressista uscita, 12 mesi fa, indenne dalla bufera. Ma adesso, la seconda tornata di intercettazioni e, soprattutto, di chat presenti sul cellulare di Palmara, ha coinvolto anche colleghi di questa corrente. Mentre Unicost ne esce ancora più in frantumi dopo le parole captate dell’ex leader, Palamara, che diceva al procuratore di Viterbo, Paolo Auriemma, quanto fosse necessario “fermare” Matteo Salvini, all’epoca ministro dell’Interno e indagato in Sicilia per sequestro di persona in relazione agli sbarchi vietati. Ma i dialoghi agli atti dell’inchiesta di Perugia, oltre ad avere creato turbolenze dentro la giunta dell’Anm, hanno toccato anche il ministero della Giustizia: a doversi dimettere, il 15 maggio scorso, è stato il capo di gabinetto di Alfonso Bonafede, Fulvio Baldi, di Unicost, più volte intercettato in conversazioni con Palamara su toghe da sponsorizzare per essere portate anche in via Arenula. Poi, sono arrivate ai vertici dell’Anm le dimissioni di Poniz e del segretario generale, Giuliano Caputo (Unicost), successivamente ritirate. Una decisione che, la settimana scorsa, ha mandato su tutte le furie la corrente conservatrice delle toghe che ha abbandonato il Cdc dell’Associazione. Una sorta di parlamentino dell’organo rappresentativo dei magistrati. Lo ha fatto in polemica con il cambio di rotta di Area e Unicost. Onida: “La politica deve uscire dal Csm. Vale per le correnti e anche per i laici” di Liana Milella La Repubblica, 1 giugno 2020 Il traffico delle nomine del caso Palamara? Sono “fatti gravi”. Non ha dubbi l’ex presidente della Consulta Valerio Onida che sulle correnti della magistratura dice “agiscano come aggregazioni culturali, e non come gruppi di potere”. Per Onida i consiglieri laici del Csm dovrebbero comportarsi come i giudici della Consulta, “rispondere solo alla Costituzione e alla loro coscienza, non agli schieramenti politici che li hanno indicati”. Dal caso Palamara deriva un’indiscutibile delegittimazione di tutte le toghe. Il malcostume investe il Csm e ne inficia la trasparenza. Lei che idea si è fatta? “Sembrano emergere fatti gravi: una modalità di scelta dei titolari di incarichi direttivi guidata da trattative fra correnti e da interlocuzioni con esponenti politici, più che da un esame spassionato dei meriti e delle attitudini. Come se le qualità fondamentali di un magistrato che aspira a una carica consistessero più nella sua appartenenza a una corrente o nella abilità nel trattare dei suoi sponsor che non nella capacità dimostrata di saper guidare un ufficio”. Mattarella esclude di poter sciogliere il Csm. E lei? “Nell’accenno del presidente allo scioglimento “ove venga meno il numero legale dei componenti”, potrebbe perfino essere letto, volendo, un invito all’attuale Csm a considerare l’ipotesi di dimissioni anticipate, motivate dall’opportunità di “ricominciare da capo” dopo la revisione parlamentare delle norme sull’elezione”. Come impedire il mercato delle nomine dei capi degli uffici? “Queste decisioni non dovrebbero esser affatto politiche nel senso usuale, e dunque ogni interferenza o tentativo di influenza da parte di esponenti politici o guidato da criteri politici su singole scelte è del tutto improprio e gravemente scorretto”. Possibili rimedi? “C’è un organo politico, vale a dire il ministro della Giustizia, che per legge è chiamato a esprimere il suo “concerto” sulle proposte di nomina dei capi degli uffici. Naturalmente non dovrebbe introdurre proprie preferenze di parte, ma potrebbe far valere le proprie valutazioni sulle capacità e attitudini organizzative e direttive dei candidati”. Non ricordo un simile intervento di un Guardasigilli... “La cosa singolare è che i ministri della Giustizia per lo più non sembrano essere stati molto capaci né interessati a esercitare bene questa funzione di “concerto” che pure si attiva sempre. Il Csm segue le proprie logiche interne, e il ministro non si oppone”. Come giudica la presenza dei politici al tavolo delle trattative? “I politici dovrebbero rimanere rigorosamente estranei alle scelte che fa il Csm, tanto più quando si tratta di un politico che è a sua volta magistrato, magari esponente di punta di una corrente, collocato fuori ruolo perché ha assunto un ruolo politico, di parlamentare odi membro del governo”. Ma il Csm non è politicizzato per natura? Basti pensare alle trattative in Parlamento sul voto per i membri laici... “La “spoliticizzazione” del Csm passa anche per una diversa disciplina e prassi nella scelta dei laici, fra cui è scelto il vicepresidente. A dare le indicazioni saranno pur sempre i partiti, ma si tratta non di “mandare” al Csm dei loro rappresentanti, bensì di eleggere dei laici esperti di diritto che portino valutazioni istituzionali, anche per compensare tendenze corporative che possono emergere tra i togati”. Chiede ai laici del Csm la “spoliticizzazione” che vivono i giudici costituzionali? “Proprio come loro, i membri laici dovrebbero rispondere solo alla Costituzione e alla loro coscienza”. Le correnti della magistratura vanno sciolte? “Parlare di scioglimento non ha senso, perché sono solo delle libere aggregazioni di magistrati. Ma devono agire come aggregazioni culturali, non come gruppi di potere”. Davigo e la sua frase in tv: “Qui non si dimette mai nessuno per la notizia di essere indagato”. Come la giudica? “I procedimenti penali e disciplinari devono fare il loro corso, con tutte le garanzie. Ma nel frattempo è possibile e doveroso trarre conseguenze dagli scandali emersi, là dove la verità di certi fatti (non necessariamente di rilievo penale) appaia irrefutabile, e innegabile l’esigenza di cambiare: quindi anche di dimettersi odi invitare a dimettersi. Ricordando sempre che anche i colpevoli ritenuti tali per sentenza rimangono persone. E che nessun reo “è” solo il reato che ha eventualmente commesso”. Mea culpa di Palamara su Salvini: “Sbagliate le parole contro di lui” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 1 giugno 2020 L’ex presidente dell’Anm parla per la prima volta in tv a “Non è l’Arena” su La7, intervistato da Massimo Giletti. Il giallo degli incontri di Basentini, ex capo del Dap. “Su Salvini ho usato un’espressione impropria, non volevo offenderlo. Ma quella frase non rispecchia fedelmente il pensiero: è decontestualizzata, volevamo tutelare il pm che indagava”. A un anno esatto dal suo interrogatorio davanti ai pm di Perugia, l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara parla per la prima volta in tv. Lo fa intervistato da Massimo Giletti a “Non è l’Arena” su La7. E si difende: “Non sono io il male assoluto. Potrebbe far comodo a qualcuno pensarlo. Sono un uomo delle istituzioni e ho la toga nel cuore”. Ma quel trojan, dice, lo ha reso come il Covid: “Chi ha attuato il distanziamento da me si è salvato”. Il “manuale Cencelli” delle toghe - Non ha più la barba, né peli sulla lingua l’ex consigliere Csm, e sottolinea: “Facevo parte di un organo collegiale composto da 27 persone. Ipotizzare che sia solo io, a far convergere tutte le situazioni verso una unica, dà una falsa rappresentazione della realtà”. Nega di aver fermato Nino Di Matteo nella corsa a superprocuratore antimafia: “Il sistema di correnti si accordò su nomi diversi e il plenum ratificò, una sorta di manuale Cencelli”. E spiega: “Il sistema premia chi appartiene alle correnti e negare che le correnti rappresentino una scorciatoia significa negare la realtà”. Non si sottrae alla domanda sulle cene con Lotti: “Ho sottovalutato che fosse indagato”. E sulla nomina di Ermini dice: “Il sistema di elezione del vicepresidente prevede un accordo fra correnti”. Il caso Basentini - Oltre a Palamara, ieri “Non è l’Arena” è tornata a occuparsi di Francesco Basentini, ex capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria costretto alle dimissioni dopo la bufera per le scarcerazioni dei boss durante l’emergenza Covid. Giletti, documenti alla mano, ha svelato un episodio che è stato al centro dell’attenzione della Procura di Potenza e sul quale lo stesso Basentini è stato ascoltato, come persona informata sui fatti, per cinque ore. Basentini, stando alla ricostruzione, nel febbraio 2019 riceve nel suo ufficio al Dap due persone: l’avvocato Raffaele De Bonis Cristalli (che non sa di essere pedinato per un’inchiesta che lo farà finire in arresto) e Vito Matteo Barozzi, cui fa capo la Cobar, impresa che ha già fatto parlare di sé per appalti finiti sulle cronache giudiziarie: la ricostruzione-scandalo del teatro Petruzzelli e il “pizzo” pagato alla ‘ndrangheta per l’allestimento del Museo dei Bronzi di Riace a Reggio Calabria. Cosa ci facessero quei due nell’ufficio del capo del Dap se lo sono chiesti i pm di Potenza. E visto che Basentini aveva fatto partecipare all’incontro anche l’architetto Barletta che cura gli appalti del Dap, glielo avrebbero chiesto in quel lungo colloquio. Lui avrebbe minimizzato, sostenendo che i lavori nelle carceri vengono affidati dal ministero delle Infrastrutture. “Però - sottolinea Giletti - dopo il decreto Semplificazione anche il Dap può bandire gare”. A Palamara Basentini inviò un messaggio: “Luca, ho saputo che oggi la Commissione proporrà Curcio ahimè. Non si riesce a fare proprio nulla per D’Alessio?”. “Purtroppo è così”, fu la risposta di Palamara. E infatti Curcio ora indaga su quel giallo. Palamara non è un caso ma la regola di un sistema marcio, serve riforma radicale di Valerio Spigarelli Il Riformista, 1 giugno 2020 La prima cosa da dire è che finiranno per non cambiare nulla se continueranno a raccontarci che Palamara è un caso. Non è vero, non era un caso, era la regola. L’unica cosa singolare delle chat del telefonino che ha sconvolto il mondo della magistratura è il linguaggio da adolescente millennial comprensivo di faccine che utilizzano signori fatti e finiti. Ma forse neppure quello ad essere sinceri: ognuno di noi ha il cellulare pieno di faccine e male parole scambiate senza freni inibitori con amici e conoscenti. Roba che, peraltro, in un Paese serio sarebbe rimasta comunque riservata, e ciò va ribadito tanto per marcare la doverosa distanza da quella stampa “garantista” che bestemmia contro il trojan finché non gli serve a sputtanare il nemico. Così come, mai come in questa occasione, è necessario chiarire che il troian non dovrebbe servire a fare il check up morale di nessuno: neppure di Palamara né della magistratura. Per il resto, quello che racconta quel cellulare, dalla concezione proprietaria della giustizia che è propria della magistratura da decenni, ai rapporti stretti con esponenti politici, per finire con la deriva cencelliana delle correnti, era un segreto di Pulcinella che va avanti da quando Luca Palamara era all’asilo e solo qualche sepolcro imbiancato può raccontare la favola del compagno che sbaglia ma il popolo (cioè la magistratura) non c’entra. Ed è inutile stare lì a fare le orazioni sul fatto che esistono centinaia di magistrati laboriosi e schivi, che non vanno allo stadio o in trattoria coi vip, che non chiamano il capo corrente per avere un posto, che non hanno il giornalista - o il giornale - di riferimento, oppure rapporti stretti col mondo della politica; e infine che non fanno o chiedono raccomandazioni. Certo che esistono, solo che non rappresentano il sistema di potere che si è sedimentato all’interno della magistratura e attorno ad essa. Anche durante la Prima Repubblica c’erano italiani che non cercavano raccomandazioni per evitare il servizio militare o per trovare lavoro. Identicamente c’erano militanti di partito che non avevano a che fare con le tangenti. Però il sistema era quello e lo teneva in piedi la maggioranza degli italiani che, servizio di leva a parte, non è che siano molto cambiati. Checché ne pensino i millenaristi di professione - che da noi hanno sempre una certa, temporanea, fortuna in politica, da Guglielmo Giannini fino a Grillo - la degenerazione di un sistema non riguarda solo la sua classe dirigente ma investe direttamente i rappresentati. Ed allora, con il permesso delle madamime dei media di destra e di sinistra - che sferruzzano articolesse moralisteggianti, o intemerate a favor di telecamera sperando che il trojan non infetti qualche altro cellulare che spiegherebbe le carriere e le miserie loro - il problema, come avrebbe detto Riccardo Lombardi, è che ci vuole “una riforma di struttura”. È la struttura costituzionale ed ordinamentale della magistratura che ha permesso, prima ancora di Tangentopoli, l’esondazione e la deriva di potere dell’ordine giudiziario. Ed è lì che si deve intervenire, non con i pogrom antimagistrati o, peggio, con gli autodafé. Bisogna agire sui capisaldi: struttura e composizione dell’organo di governo autonomo per l’affermazione della terzietà del giudice rispetto alle parti e il contenimento della deriva corporativa dell’organo costituzionale; istituzione di una Alta Corte di Disciplina esterna al Csm; accesso laterale in magistratura di soggetti esterni provenienti dal mondo dell’avvocatura e dell’accademia; ridefinizione dell’obbligatorietà dell’azione penale; divieto di rientro in magistratura dopo esperienze politiche; limitazioni rigide al collocamento fuori ruolo dei magistrati. Roba che presuppone una certa idea della giustizia che purtroppo è estranea alla maggioranza della classe politica, è invisa alla stragrande maggioranza dei magistrati ed è anche ostica alla comprensione della pubblica opinione. Ma, proprio come dicevano i riformisti seri, è dalle modifiche di struttura che nasce una diversa cultura. Anche quando si iniziò a parlare di divorzio e aborto la società italiana era in maggioranza, a destra e sinistra, del tutto avversa a tali temi. Ci volle un lavoro politico serio, e gente - come Pannella - non disposta a barattare principi per una cadrega, per imporre quelle scelte che a loro volta hanno accompagnato e fatto affermare un diverso sentire fino a farlo diventare proprio della generalità dei cittadini. E su questo il sistema della informazione gioca un ruolo fondamentale. Limitandosi a guardare dal buco della serratura del cellulare di Palamara, oppure fermandosi alla trita retorica dei piagnistei anticasta, la stampa sta perdendo l’ennesima occasione per confrontarsi con una idea liberale della giustizia che gli è sostanzialmente aliena. Così come è estranea non solo, ovviamente, all’ala manettara dello schieramento politico che, oltre ai 5Stelle, comprende una buona fetta della sinistra italiana e i tanti garantisti a dondolo del centrodestra, ma persino quelli che sul garantismo hanno fatto, almeno a parole, un investimento politico, come Italia Viva. Il Renzi che rimprovera a Bonafede la retorica del sospetto, ma poi gli salva la poltrona rivendicando come un merito di aver fatto morire Provenzano in carcere, si dimostra più un campione del peggiore trasformismo democristiano che un erede di Calamandrei, per capirci. Per un dibattito serio su una questione altrettanto seria ci vogliono, poi, interventi istituzionali di pari livello. Giorgio Napolitano ammonì più volte il Parlamento sulla necessità di una riforma strutturale della giustizia, e lo fece perché aveva sotto gli occhi la degenerazione del sistema, la sua inefficienza ed anche i misfatti legati ai rapporti tra il mondo della giustizia e l’informazione che fecero morire di dolore Loris D’Ambrosio. Proprio ieri è intervenuto l’attuale Presidente della Repubblica rammentando di aver già da tempo auspicato una riforma “delle regole di formazione del Csm” ma al tempo stesso rispedendo al mittente gli inviti a sollecitare una legge che preveda “criteri nuovi e diversi” per la formazione di tale organo ricordando che questo compito è affidato al Parlamento. Peccato, è una occasione persa, se avesse agito come il suo predecessore sarebbe stato un passo avanti. Questa vicenda viene da lontano e non è una faccenda di mele marce e raccomandazioni: è una crisi strutturale che va avanti da decenni e richiede interventi di pari livello. Il rischio, infatti, è che tutto si risolva nell’ennesima, truffaldina, instant law, magari sui meccanismi elettorali del Csm. Un’altra di quelle leggine reattive, simboliche e demagogiche, cui ci hanno abituato gli incompetenti al potere che darebbe la magistratura in mano a Davigo e i suoi. Come dire dalla padella alla brace. Prescrizione, alla Consulta la retroattività del blocco di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2020 L’articolo 221 del decreto Rilancio (Dl 34/2020) prevede che il termine per la proposizione della querela sia sospeso con efficacia retroattiva dal 9 marzo all’11 maggio 2020. È l’ultima delle novità dagli effetti controversi innestate dalla normativa emergenziale sulla materia penale. Prescrizione - L’articolo 83 del decreto cura Italia (Dl 18/2020) ha sospeso la prescrizione del reato per il periodo di stop delle attività processuali, con il limite massimo del 31 luglio. La norma riguarda tutti i procedimenti pendenti, non solo quelli per fatti successivi all’entrata in vigore del decreto. Ma la disciplina della prescrizione, incidendo sulla punibilità della persona, è soggetta in modo inderogabile al divieto di applicazione retroattiva previsto dall’articolo 25, comma 2, della Costituzione: il principio è pacifico nella giurisprudenza della Cassazione (sentenza 31877/2017) e della Corte costituzionale (ordinanza 24/2017). Tanto che, proprio per queste ragioni, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 83 è già stata sollevata dai Tribunali di Siena (si veda Il Sole 24 Ore del 27 maggio) e di Spoleto. La regola deve valere anche per i procedimenti la cui celebrazione durante il periodo di sospensione è condizionata alla richiesta dell’imputato o del difensore, perché si tratta di un motivo di congelamento della prescrizione comunque sopravvenuto e diverso da quelli ordinari previsti dall’articolo 159 del Codice penale. Per lo stesso motivo la Consulta, in un caso analogo, ha sancito il divieto di applicazione retroattiva della causa di sospensione della prescrizione consistente nell’adesione del difensore allo sciopero dalle udienze (sentenza 114/1994). Querela - Lo stop del termine per presentare la querela non opera durante la sospensione feriale dei termini, ma non è una novità per le situazioni di calamità, come fu il sisma aquilano del 2009. Anche durante l’epidemia doveva essere previsto: la limitazione alla libertà di circolazione ha reso quasi impossibile per la persona offesa andare dall’avvocato o presso una stazione di polizia per sporgere la querela. Ma bisognava farlo all’inizio dell’emergenza, in modo che la sospensione si potesse applicare a tutti i fatti commessi in seguito. L’inserimento del congelamento del termine con efficacia per il passato non si concilia con il divieto costituzionale di applicazione retroattiva di una norma penale di sfavore. La Cassazione ha precisato che il termine per proporre la querela ha natura sostanziale, e non processuale, perché attiene alla punibilità di un fatto precedente all’inizio del procedimento (sentenza 23281/2010). La sospensione del termine, che si traduce in un suo allungamento di circa due mesi, non può dunque riguardare i fatti commessi prima del 19 maggio, data di entrata in vigore del decreto Rilancio: poiché riguarda solo il periodo dal 9 marzo al 12 maggio, la fragilità costituzionale dell’articolo 221 appare evidente. Misure cautelari personali - L’articolo 83 del decreto legge 18/2020 ha congelato i termini di durata delle misure coercitive e interdittive personali per i procedimenti sospesi. Si tratta di una norma processuale: il problema di applicazione ai procedimenti in corso non dovrebbe porsi. Ma l’allungamento del periodo di limitazione cautelare della libertà non dipende da una responsabilità dell’imputato, o da un’esigenza istruttoria, ma dall’impossibilità di celebrare il processo in condizioni di sicurezza sanitaria: ciò comporta una penalizzazione sproporzionata della libertà personale, che rischia per assurdo di determinare un periodo di detenzione preventiva superiore alla pena irrogata. Senza considerare la lesione alla presunzione di innocenza e al diritto di difesa, dato che il maggior periodo di privazione della libertà personale serve solo a consentire uno slittamento insindacabile del processo di diversi mesi. Intercettazioni, legittime videoregistrazioni in luoghi non riconducibili al concetto di domicilio di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2020 Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 7 febbraio 2020 n. 5253. Sono legittime le videoregistrazioni aventi a oggetto comportamenti comunicativi e non comunicativi disposte dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari in luoghi non riconducibili al concetto di domicilio. Nel caso di specie per cui si è espressa la Cassazione con la sentenza 5253/2020le telecamere erano state allocate all’interno delle scale di un edificio e al di fuori del pianerottolo di un appartamento. Tali attività di captazione delle immagini - se eseguite in luoghi pubblici, aperti o esposti al pubblico per esigenze lavorative e non - sono qualificabili come prova atipica e quindi utilizzabili senza alcuna necessità di autorizzazione preventiva del giudice (la Corte ha precisato che il pianerottolo delle scale di un fabbricato in condominio costituisce un luogo aperto al pubblico, in quanto consente l’accesso a una indistinta categoria di persone e non soltanto ai condomini, che hanno la possibilità giuridica e pratica di accedervi senza legittima opposizione di chi su detto luogo esercita un potere di fatto o di diritto). La giurisprudenza è pacifica nel senso che le scale di un condominio e i pianerottoli delle scale condominiali non sono luoghi privati, perché non assolvono alla funzione di consentire l’esplicazione della vita privata al riparo da sguardi indiscreti essendo destinati all’uso di un numero indeterminato di soggetti (tra le tante, Sezione II, 10 novembre 2006, Di Michele e altro; nonché, Sezione IV, 29 maggio 2018 Montagna e alti). In proposito, va ricordato, più in generale, che le videoregistrazioni in luoghi pubblici, ovvero aperti o esposti al pubblico, effettuate dalla polizia giudiziaria, devono essere annoverate tra le cosiddette “prove atipiche”; conseguendone l’inapplicabilità degli articoli 266 e seguenti del Cpp, che si applicano alle sole ipotesi di intercettazioni delle conversazioni telefoniche o ambientali e delle videoregistrazioni da effettuarsi mediante intrusione nella privata dimora o nel domicilio [cfr. sezione II, 24 aprile 2013, Bonasia]. Tale orientamento si ricollega alla nota decisione delle sezioni Unite 28 marzo 2006, Prisco. In tale occasione, tra l’altro, le sezioni Unite hanno affrontato anche la questione della legittimità e utilizzabilità a fini di prova delle riprese visive effettuate “in luoghi pubblici”. In proposito, la Corte si è espressa nel senso della piena utilizzabilità come prova delle immagini così ottenute, tanto nel caso di riprese effettuate “al di fuori del procedimento” (ad esempio, nell’ipotesi di registrazioni effettuate con impianti di videosorveglianza installati in pubblici esercizi o in quella di registrazioni delle immagini di episodi di violenze negli stadi; si veda, anzi, relativamente a tale ultimo esempio, il disposto dell’articolo 8, comma 1- ter della legge 13 dicembre 1989 n. 401, e successive modifiche, che ne fonda l’utilizzabilità anche ai fini dell’arresto in flagranza), quanto nel caso di riprese avvenute nell’ambito delle indagini di polizia giudiziaria (ad esempio, nell’ipotesi della captazione di immagini nell’ambito delle operazioni di osservazione e pedinamento). Le prime, hanno osservato le sezioni Unite, possono essere introdotte nel processo come documenti e diventare quindi una prova documentale. Le altre, invece, effettuate nel corso delle indagini, costituiscono la documentazione dell’attività investigativa, e non documenti, cosicché sono suscettibili di utilizzazione probatoria se e in quanto riconducibili alla categoria delle cosiddette prove atipiche, con la conseguenza che sull’ammissibilità della prova derivante dalle videoregistrazioni dovrà pronunciarsi il giudice quando sarà richiesto della sua assunzione nel dibattimento (spettando poi sempre al giudice di individuare lo strumento - perizia o mera riproduzione - che dovrà essere utilizzato per conoscere e visionare le immagini acquisite). Resistenza a pubblico ufficiale: è “violenza” la fuga in auto con guida pericolosa di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2020 Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 14 febbraio 2020 n. 5926. In tema di resistenza a pubblico ufficiale, integra l’elemento materiale della violenza la condotta del soggetto che, per sfuggire all’intervento delle forze dell’ordine, si dia alla fuga, alla guida di un’autovettura, ponendo deliberatamente in pericolo, con una condotta di guida pericolosa, l’incolumità personale degli altri utenti della strada. Lo ricorda la Cassazione con la sentenza 14 febbraio 2020 n. 5926. È principio pacifico quello secondo cui, in tema di resistenza a pubblico ufficiale, integra l’elemento materiale della violenza la condotta del soggetto che si dia alla fuga, alla guida di una autovettura, non limitandosi a cercare di sottrarsi all’inseguimento, ma ponendo deliberatamente in pericolo, con una condotta di guida obiettivamente pericolosa, l’incolumità personale degli agenti inseguitori o degli altri utenti della strada (sezione VI, 20 maggio 2015, Farina, in una fattispecie in cui il reato è s tato ravvisato a carico di soggetto che, datosi alla fuga, aveva posto in essere manovre spericolate di guida pur avendo a bordo del proprio veicolo un neonato; nonché, sezione I, 4 luglio 2019, Foriglio). Sul punto si è ancora più in dettaglio precisato che il reato di resistenza postula la “violenza” o la “minaccia” per opporsi all’atto di ufficio o di servizio, il che presuppone - quanto alla prima ipotesi - un vero e proprio impiego di forza da parte dell’agente e - quanto alla seconda ipotesi - l’attuazione di un comportamento percepibile come minaccioso, in entrambi i casi volto contrastare il compimento dell’atto del pubblico ufficiale. Per l’effetto, il delitto non è configurabile nel caso in cui l’agente ponga in essere una condotta di mera resistenza passiva, come nel caso in cui si dia semplicemente alla fuga, ovvero quando si limiti a divincolarsi come una reazione spontanea e istintiva al compimento dell’atto del pubblico ufficiale. Dovendosi piuttosto solo precisare, quanto alla fuga, in linea con quanto sostenuto qui dalla Cassazione nella sentenza massimata, che integra l’elemento materiale della violenza rilevante ai fini della sussistenza della resistenza punibile, la condotta del soggetto che si dia alla fuga, alla guida di una autovettura, non limitandosi a cercare di sottrarsi all’inseguimento, ma ponendo deliberatamente in pericolo, con una condotta di guida obiettivamente pericolosa, l’incolumità personale degli agenti inseguitori o degli altri utenti della strada (sezione VI, 2 febbraio 2017, Billè). È interessante la peculiarità della fattispecie, caratterizzata dal fatto che la condotta di resistenza era stata posta in essere nei confronti di attività di controllo posta in essere da personale della polizia municipale, che aveva controllato il contravventore nel territorio di competenza, proseguendo l’inseguimento, dopo la fuga, in altro territorio comunale. La Corte, respingendo sul punto la doglianza della difesa, ha ritenuto applicabile il disposto dell’articolo 4, lettera b),della legge 7 marzo 1986 n. 65 [legge quadro sull’ordinamento della Polizia Municipale], laddove è previsto che “le operazioni esterne di polizia, d’iniziativa dei singoli durante il servizio, sono ammesse esclusivamente in caso di necessità dovuto alla flagranza dell’illecito commesso nel territorio di appartenenza”, in ragione proprio del fatto che l’inseguimento era iniziato nel territorio di competenza di quello specifico ufficio di Polizia municipale. Sottrazione minori all’estero, no alla sospensione automatica della responsabilità genitoriale Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2020 Corte costituzionale - Sentenza 29 maggio 2020 n. 102. Il giudice penale deve valutare caso per caso se corrisponda all’interesse del figlio che il genitore, autore del reato di sottrazione di minore all’estero, sia sospeso dall’esercizio della responsabilità genitoriale. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 102depositata il 29 maggio (relatore Francesco Viganò), dichiarando illegittimo l’automatismo della pena accessoria, sin qui previsto dall’articolo 574-bis del codice penale. La motivazione - Non c’è dubbio, ha osservato la Corte, che il reato di sottrazione di minore all’estero sia particolarmente odioso e leda pesantemente i diritti del figlio, oltre che quelli dell’altro genitore, che ne è anch’esso vittima. Tuttavia, dal momento che la pena accessoria in questione incide in modo marcato sul diritto del figlio a mantenere un rapporto con entrambi i genitori, la Corte ha escluso che sia ragionevole considerarla “sempre e necessariamente (…) la soluzione ottimale per il minore”. La sua applicazione potrà giustificarsi soltanto qualora risponda in concreto agli interessi del minore, da apprezzare anche alla luce di tutto ciò che è accaduto dopo il reato. È ben possibile - si legge infatti nella sentenza - che “il mantenimento del rapporto con il genitore autore della sottrazione o trattenimento all’estero non risulti pregiudizievole per il minore, e anzi corrisponda a un suo preciso interesse, che lo Stato avrebbe allora il dovere di salvaguardare in via preminente rispetto alle stesse esigenze punitive nei confronti di chi abbia violato la legge penale”. Il caso - Tanto più in casi come quello da cui ha preso spunto il giudizio di costituzionalità: una madre aveva portato con sé i figli in Austria senza l’autorizzazione del padre ma le stesse autorità giudiziarie italiane competenti nei paralleli procedimenti civili sulla salvaguardia degli interessi dei due ragazzi avevano poi deciso che il figlio minorenne continuasse a vivere in Austria con la madre. La dichiarazione di illegittimità - La Consulta ha dunque dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 574-bis, terzo comma, del codice penale, nella parte in cui prevede che la condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di sottrazione e mantenimento di minore all’estero ai danni del figlio minore comporta la sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale, anziché la possibilità per il giudice di disporre la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale”. La Corte ha infine sottolineato che spetterà eventualmente al legislatore riconsiderare, nel quadro di una sempre possibile riforma della disciplina vigente, se il giudice penale sia davvero il più idoneo ad assumere una tale decisione, ferma restando comunque la necessità di assicurare il coordinamento tra tutte le autorità giurisdizionali (giudice penale, tribunale per i minorenni, tribunale ordinario civile) chiamate a tutelare gli interessi del minore in queste delicate situazioni. Siena. Detenuto suicida in isolamento, il carcere spiega: “Abbiamo seguito tutte le norme” Corriere di Siena, 1 giugno 2020 Dopo il caso di un detenuto che si è tolto la vita all’interno del carcere di Santo Spirito, dove si trovava in isolamento per i protocolli legati al Coronavirus, il garante regionale Giuseppe Fanfani ha deciso di andare a fondo della questione, tuonando che “il suicidio soprattutto si manifesta nelle persone psichicamente più fragili come appare fosse questo giovane”, poi ha promesso “un’attenta interlocuzione al fine di evitare che drammi di questo genere possano ripetersi”. Dalle parole è passato ai fatti, come conferma il direttore dell’istituto senese, Sergio La Montagna. “Ho parlato con il garante dei detenuti - spiega - ed è in atto una richiesta da parte dell’autorità giudiziaria. Questo mi impedisce di parlare, dunque la mia non è reticenza. Posso soltanto dire che abbiamo approntato tutte le misure prescritte dall’ordinamento giudiziario e dalla situazione legata all’emergenza sanitaria. Questa persona era affetta da Covid-19, e la situazione attuale, purtroppo, ci impone di adottare il provvedimento dell’isolamento”. Anche Claudio Benzo, segretario provinciale del Sindacato autonomo agenti di polizia penitenziaria, conferma: “Difficile capire i motivi di un gesto così tremendo. Le disposizioni impongono che chiunque venga portato in carcere passi i primi quindici giorni di detenzione in isolamento, per precauzione, a prescindere che sia contagiato o no. È la prassi. Oltretutto lui presentava anche qualche linea di febbre”. L’Aquila. Al 41bis punito per aver augurato la buonanotte ai detenuti di un altro gruppo Il Dubbio, 1 giugno 2020 La Cassazione: “Afflizione inutile”. L’ergastolano Mario De Sena era stato escluso dalle attività in comune. I giudici: “Il mero saluto non costituisce uno scambio di informazioni”. Era stato escluso dalle attività in comune per aver augurato la buonanotte ai detenuti appartenenti ad un diverso gruppo di socialità. Un’inutile afflizione, “non prevista e quindi non consentita, nei confronti del detenuto”, secondo la Cassazione, che ha respinto il ricorso avanzato dal ministero della Giustizia contro il Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila. Il magistrato di sorveglianza, il 2 aprile scorso, aveva infatti rigettato il reclamo proposto dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria contro la decisione di revocare il provvedimento disciplinare inflitto a Mario De Sena, che all’epoca dell’Nco era il referente di Raffaele Cutolo nella zona di Acerra, escluso dalle attività per avere salutato (augurando la “buonanotte”) detenuti appartenenti a un diverso gruppo di socialità?. Il reclamo del Dap si fondava su quanto disposto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, che prevede l’impossibilita? di comunicare tra detenuti di diversi gruppi di socialità? e che vieta quindi ogni forma di dialogo e comunicazione tra loro, sottolineando che “la comunicazione puo? anche essere non verbale”. Una constatazione contestata dal Tribunale di Sorveglianza, secondo cui quel divieto di comunicazione, finalizzato ad evitare uno scambio di notizie, doveva pertanto “essere costituito da uno scambio di contenuti”. Il semplice saluto, ha dunque evidenziato il Tribunale di Sorveglianza era, invece, “una forma espressiva neutra, dalla quale non poteva evincersi quale tipo di informazione potesse essere scambiata”. Una posizione contestata dal ministero della Giustizia, nel cui ricorso ha avanzato la tesi di una erronea applicazione di legge, sostenendo che l’azione disciplinare “non aveva addotto alcun pregiudizio al diritto del detenuto di comunicare, il quale era garantito dal gruppo di socialità? di assegnazione, mentre il divieto in oggetto era finalizzato a impedire contatti con propri sodali”. Nelle motivazioni del ricorso, il ministero ha contestato al Tribunale di Sorveglianza un’interpretazione della norma “che superava un limite imposto espressamente, e sostanzialmente aveva configurato come diritto la facoltà? di procedere allo scambio comunicativo, poiché? il termine “comunicazione” doveva intendersi quale comprensivo di ogni forma di contatto, il quale può? rivelarsi anche nel saluto, nel gesto, nelle movenze e in ogni scambio alternativo all’ordinario che può? definire un ruolo e un messaggio occulto”. Lo stesso procuratore generale della Cassazione ha però chiesto il rigetto del ricorso, in quanto, così come rilevato dal Tribunale di Sorveglianza, “il mero saluto non poteva essere assimilato ad una trasmissione verbale di contenuti ed informazioni, vietata appunto dalla normativa specifica”. L’articolo 41 bis, comma 2, evidenziano i giudici di Cassazione, stabilisce che quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, “il ministro della Giustizia possa disporre, nei confronti di detenuti o internati per gravi reati in materia di terrorismo o di criminalità? organizzata, la sospensione, in tutto o in parte, delle regole del trattamento che possano porsi in contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza, al fine di impedire i collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva”. Tuttavia, “non può? non rilevarsi che per “comunicazione” si intende il processo e le modalità? di trasmissione di una informazione da un individuo a un altro attraverso lo scambio di un messaggio connotato da un determinato significato: il concetto di comunicazione comporta la presenza di un’interazione tra soggetti diversi, nell’ambito della quale due o più? individui costruiscono insieme una realtà? e una verità? condivisa”, si legge nelle motivazioni della decisione presa dalla Cassazione. Secondo cui, nel caso specifico, “correttamente il Tribunale di Sorveglianza rilevava che la mera dichiarazione di saluto doveva considerarsi di natura neutra, nel senso che non vi era modo di cogliere una particolare informazione trasmessa in quel modo: in definitiva, un atto privo di un vero e proprio intento comunicativo (o almeno, diverso da quello evidente)”. La sanzione, dunque, rappresenta “una inutile afflizione, non prevista e quindi non consentita, nei confronti del detenuto, essendo stata invece rispettata la finalità? della norma”. Modena. Carcere di Sant’Anna, protezioni anti-covid realizzate dai detenuti Il Resto del Carlino, 1 giugno 2020 Le materie prime sono state donate alla casa circondariale dall’associazione Gens Nova. Mascherine confezionate dai detenuti, frutto dell’attività benefica svolta dall’Associazione Gens Nova Odv rivolta ai penitenziari d’Emilia. Dopo gli Istituti Penali di Reggio Emilia, dove è stato consegnato materiale certificato, frutto di donazioni di aziende e privati, con il quale i detenuti hanno confezionato mascherine, è la volta della Casa Circondariale Sant’Anna. Anna Protopapa, socia Gens Nova, ha consegnato nei giorni scorsi al comandante dottor Mauro Pellegrino, dell’Istituto penitenziario modenese, materie prime donate dall’azienda reggiana Nuova Sapi di Casalgrande. “Il fine di questa iniziativa rivolta alle carceri - dichiara il presidente nazionale dell’associazione Gens Nova, l’avvocato penalista Antonio Maria La Scala - non è solo fornire un sostegno concreto agli agenti penitenziari, al personale addetto alle strutture detentive e ai detenuti stessi che necessitano di dispositivi di protezione individuale, ma anche un intervento di recupero educativo e di opportunità per i detenuti di impegnare positivamente il loro tempo”. Milano. Cibo a domicilio per le famiglie in difficoltà, i “fattorini” sono detenuti semiliberi di Andrea Gianni Il Giorno, 1 giugno 2020 Dopo una frenata, c’è una ripartenza. In momenti di crisi, quando tutto sembra immobile, nascono occasioni di crescita. Detenuti delle carceri milanesi in regime di semilibertà o ex detenuti in libertà condizionale hanno ottenuto l’incarico di distribuire cibo a famiglie disagiate a Rozzano e Peschiera Borromeo, riuscendo a garantirsi uno stipendio minimo nei mesi dell’emergenza sanitaria. Un’occasione di incontro tra persone che stanno cercando di ricostruirsi una vita fuori dal carcere e famiglie fragili, che rischiano di finire ai margini. Un risultato del Gruppo della Trasgressione, iniziativa creata 22 anni fa dallo psicologo Angelo Aparo per il recupero di detenuti attraverso l’auto-percezione delle proprie responsabilità, attiva nelle carceri di Opera, Bollate e San Vittore. Oltre all’aggiudicazione dei bandi per la distribuzione di cibo nei due Comuni dell’hinterland milanese, il Gruppo ha ottenuto una nuova sede a Milano grazie al bando di Palazzo Marino “Valori in gioco”. Si tratta di un appartamento in via Sant’Abbondio, zona Chiesa Rossa, che diventerà una base per le iniziative anti-degrado nel quartiere. “Dopo decenni di sudore, paradossalmente, in un periodo terribile per tutti, il nostro gruppo raccoglie frutti sui quali avevamo quasi perso le speranze”, spiega Angelo Aparo, fondatore del progetto che all’epoca contò tra i primi partecipanti il manager Sergio Cusani, in cella per la maxi-tangente Enimont, e ha offerto un percorso di recupero anche a persone condannate per omicidi e associazione mafiosa. Percorsi fatti anche di incontri con le vittime di reati e di lavoro in aziende partner e nella cooperativa sociale Trasgressione.net, che vende e distribuisce frutta e verdura. “Con l’emergenza coronavirus il lavoro della cooperativa si è fermato - spiega Aparo - e per fortuna abbiamo ottenuto gli incarichi a Rozzano e Peschiera che ci permettono di sostenerci anche economicamente. In questo periodo non possiamo più lavorare nelle carceri: abbiamo avviato iniziative alternative online come un cineforum sulla “banalità del male” che coinvolge detenuti, magistrati, studenti e vittime di reati, in attesa di riprendere i percorsi”. Velletri (Rm). Scuola chiama carcere di Ivana d’Amore* noidonne.org, 1 giugno 2020 Il programma di video-lezioni nelle carceri è stato attuato anche nel carcere di Velletri, che diventa un’eccellenza del Lazio. Il 26 marzo 2020, in una Circolare del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) si dispone la sospensione dei colloqui tra detenuti e familiari: troppo alto il rischio di contagi dal nuovo Covid-19. Vengono sospese le attività scolastiche, gli ingressi dei volontari, le attività sportive e la formazione professionale: insomma, tutto quello che a fatica, e in parte, riempie il grigio quotidiano detentivo. La paura dei contagi cresce, vengono fermate tutte le attività produttive anche all’esterno del mondo carcerario. Ma la Scuola Italiana di ogni ordine e grado non si ferma. Diventa il cuore pulsante della nostra società che non vuole arrendersi al contagio del corona virus. È un esercito di migliaia di insegnanti che accettano una nuova sfida: passare dall’insegnamento frontale a quello a distanza tramite l’utilizzo di piattaforme on-line. In questa battaglia vengono coinvolti gli stessi studenti e le loro famiglie. Tutti concorrono, anche se con tanti sacrifici, difficoltà ed incertezze, ad un obiettivo comune: andare avanti ad ogni costo per terminare in modo dignitoso l’anno scolastico 2019-2020. Ad essi si aggiungono, con il permesso del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, gli Istituti Scolastici all’interno delle carceri Italiane. Viene concesso l’uso di Skype e della posta elettronica per gli esami, le lezioni online con i docenti, e la corrispondenza via email con i familiari. Anche i detenuti entrano nel mondo digitale! Si tratta di un’autentica rivoluzione culturale di enorme valore, che mette al centro la responsabilità della rieducazione. Il 27 aprile in Emilia Romagna, parte un programma di video-lezioni a distanza per la scuola in carcere, dove si lancia l’iniziativa #nonèmaitroppotardi2020. Con la ripresa dei corsi scolastici in questa nuova modalità, si vuole dare attenzione e responsabilità ed assicurare il diritto all’eguaglianza per l’accesso alla conoscenza e nutrire una speranza di reinserimento nella società i detenuti. Ed ecco che la nuova sfida è accolta con entusiasmo anche dal Lazzaria, il carcere di Velletri che ospita un’alta percentuale di detenuti provenienti da Anzio, Nettuno e dalle zone limitrofe, ed è per questo motivo che è anche detto il carcere del nostro territorio. Diventando, in questo momento di emergenza, un modello regionale. Un fiore all’occhiello non solo per l’intera comunità carceraria Italiana, ma per tutto il nostro Territorio. Una bella storia fatta di collaborazione tra le parti istituzionali, ossia tra scuola e carcere. Tra volenterosi insegnanti, come ad esempio la giovane prof.ssa di chimica Maria Spoto, insegnante dell’istituto agrario, la collaborazione dei volontari dell’associazione Vol.A.Re. e di tutto il personale del carcere, a partire dal direttore, al capo dell’area educativa, all’ispettore dell’area trattamentale (referente informatico). In breve, un processo di trasformazione porta a qualcosa di inatteso e sorprendente: per la prima volta il carcere è al passo con i tempi! Si parte con l’allestimento di due sale, una con computer portatili, con monitor e telecamere incorporate e microfoni per agevolare i colloqui tra detenuti e le loro famiglie tramite skype; un’altra sala viene attrezzata all’interno di una sezione del carcere per svolgere video lezioni a distanza su piattaforma Jitsi, rivolte ad una decina di studenti del V anno dell’Istituto Agrario “Cesare Battisti” con pc, webcam, e microfoni. Purtroppo, per mancanza di computer, restano esclusi da ogni attività i “protetti”. Ma la situazione è in continuo divenire: cambia quando arriva l’elogio del Provveditorato del Ministero della Giustizia del Lazio. L’Istituto Penitenziario di Velletri riceve elogi per l’eccellenza dimostrata nello svolgimento della didattica a distanza. In questa occasione, il Provveditorato del Ministero della Giustizia dona 11 cellulari con 100 Gb, per agevolare i colloqui tra i detenuti ed i famigliari, e per poter utilizzare qualche telefonino come router per i computer, per la didattica a distanza. Ad essi si affiancano le donazioni del Cpia (centro permanente di Istruzione degli adulti) e dell’istituto Agrario. La proficua collaborazione tra le parti Istituzionali consente, in tempi brevi, il potenziamento e l’allestimento di nuove aule sia per lo svolgimento della didattica a distanza sia per i colloqui tra detenuti e le loro famiglie, e con l’area trattamentale. Anche per noi, società civile, questo avvenimento dimostra, seppure in condizioni impossibili, quanto possono fare uomini e donne che amano e lavorano per gli altri. Non importa se il Lazzaria di Velletri è un carcere di periferia, o di quanti siano gli effettivi agenti di polizia penitenziaria, di personale amministrativo, di educatori e di quanti invece ce ne dovrebbero essere. Come Don Milani scrisse a sua madre: “la grandezza di una vita non si misura dal luogo in cui si è svolta”. *Associazione Vol.A.Re. Milano. Panopticon. C’è un futuro per il carcere di San Vittore? di Daria Signorotto thesubmarine.it, 1 giugno 2020 A Milano si rinnova ciclicamente il dibattito sull’opportunità di rinnovare o spostare il carcere di San Vittore dal centro. I disagi causati dalla pandemia e le rivolte di marzo riporteranno questo tema al centro dell’attenzione pubblica? Quando nel maggio del 1872 cominciarono i lavori per la costruzione di San Vittore, il primo carcere moderno di Milano, si decise di collocarlo nella zona periferica di Porta Vercellina e di ispirarsi a un modello di architettura carceraria, il Panopticon (ideato da Samuel e Jeremy Bentham per facilitare al massimo la sorveglianza), che avrebbe accelerato la trasformazione del carcere da area di contenimento temporaneo a luogo di espiazione della pena. Nel 1889 terminarono i lavori e i carcerati vennero spostati ai margini della città. Un secolo e mezzo di successiva urbanizzazione ha però trasformato San Vittore da carcere periferico a casa circondariale in pieno centro. La posizione di San Vittore oggi, e soprattutto il suo valore immobiliare, stridono con la preferenza della classe politica per la delocalizzazione delle carceri ai margini o fuori dai centri urbani. A Milano, gli appelli per ricollocare San Vittore sono una malattia cronica. Esiste ora la concreta possibilità che ne vengano proposti di nuovi: le rivolte nelle carceri scoppiate dopo il Dpcm dell’8 marzo 2020 e la polemica legata al rilascio agli arresti domiciliari di un totale di 376 tra condannati o individui in detenzione preventiva per reati di stampo mafioso hanno riportato, per la prima volta da tempo, l’attenzione sul tema del sovraffollamento delle carceri. Negli ultimi anni sono stati proposti progetti improbabili e maldestri come la Cittadella della Giustizia a Porto di Mare (Letizia Moratti) di cui rimane una scolorita memoria consultabile sul sito del Comune. La giunta Pisapia abortì il progetto, e San Vittore rimase dov’è. Nel 2016 l’allora ministro Orlando (governi Renzi e Gentiloni) propose di smantellare tutte le carceri presenti nei centri urbani per costruirle ex-novo su modelli di architettura carceraria all’avanguardia e l’allora candidato sindaco Beppe Sala si dichiarò favorevole al progetto. A sostegno dello spostamento di San Vittore, si dice che la struttura di viale Papiniano è obsoleta, sovraffollata e insalubre: uno “spazio sospeso” nel pieno centro di Milano. Si tratta di un dibattito che si trascina da anni, che tuttavia non ha posto alcun ostacolo al ricorso sistematico a misure d’emergenza che non si soffermano granché né sulla possibilità effettiva di spostare il carcere, né sul reale impatto che questo avrebbe sulle condizioni di vita dei detenuti. San Vittore è una casa circondariale, ovvero un “carcere di passaggio” in cui la maggior parte dei detenuti non ha ancora una condanna ma è in custodia cautelare. Quando si parla di decentralizzarlo, spesso si dimentica che la posizione di San Vittore è cruciale per garantire la vicinanza con gli studi degli avvocati e con il tribunale. Inoltre, per costruire una nuova struttura i tempi sono biblici. Il carcere di Bollate, per esempio, è stato consegnato nel 2000 mentre i progetti risalgono agli anni 80. Opera, aperto nel 1987, avrebbe dovuto sostituire San Vittore, ma il drastico aumento della popolazione ristretta verificatosi in quegli anni ha reso impossibile il trasferimento dei detenuti. Il risultato è stato l’aumento del numero di strutture, senza che sia mai avvenuto il tanto sperato passaggio di consegna. “La scusa per chiudere San Vittore è che sia vecchio e fatiscente, ma le carceri costruite ex novo a Milano non sono molto migliori da un punto di vista strutturale. Si tratta di carceri inaugurate tra gli anni ‘80 e i 2000, ma hanno già richiesto interventi di messa a norma” osserva Alessandra Naldi, ex Garante dei diritti delle persone private della libertà personale a Milano. Del resto la soluzione al sovraffollamento non può rifarsi esclusivamente alla costruzione di nuove strutture. Come ribadito negli Stati generali dell’esecuzione penale, una serie di studi interdisciplinari sull’esecuzione della pena voluti nel 2015 dal ministro Orlando “se non si riesce a contrastare la diffusa convinzione che il carcere sia l’unica risposta alle paure del nostro tempo […] ogni riforma normativa sarà fatalmente esposta a scorrerie legislative di segno involutivo e carcerocentrico, che torneranno a determinare sovraffollamento nei penitenziari”. Il nodo del sovraffollamento, che così spesso viene agitato dai politici locali quando si ragiona sul futuro di San Vittore (perché non farci un parco o un hotel?), in realtà dipende da un circolo vizioso del nostro quadro normativo. L’unica reale possibilità di ridurlo è diminuire drasticamente il ricorso alla custodia cautelare in carcere. Nel 2013, la sentenza Torreggiani (Corte Europea di Strasburgo) ha obbligato l’Italia ad affrontare il problema, insistendo sull’inefficacia di un sistema che ingloba nella macchina carceraria persone che non dovrebbero assolutamente averci a che fare. Dopo la sentenza, sono state introdotte importanti misure di natura emergenziale, tra cui il regime a celle aperte con sorveglianza dinamica, ma non si è arrivati a un ripensamento drastico della realtà carceraria in Italia. Viene da chiedersi cosa succederebbe se le pressioni esterne dovessero allentarsi. Per capire quali effetti avrà la pandemia di Sars-CoV-2 sulla situazione carceraria, considerando i problemi strutturali preesistenti, si può fare riferimento al XVI° Rapporto dell’associazione Antigone, che da anni monitora la situazione nei diversi penitenziari italiani. Intanto, mentre il dibattito pubblico si concentra sull’obsolescenza del Panopticon, passano in secondo piano i problemi specifici di un carcere di passaggio come San Vittore. Per esempio la difficoltà che i carcerati e i loro parenti incontrano nell’accesso ai colloqui (che al momento sono ancora sospesi). I parenti entrano, da un portoncino su viale Papiniano, in una stanza piccola e affollata (con bagni all’esterno) dove passano ore prima di essere ammessi. In pochi metri quadri vengono controllati i pacchi per i detenuti, ci si stringe sulle poche panche presenti e si cerca di tenere buoni i bambini. Cartelli vietano l’uso dei cellulari. Una volta entrati in sala colloqui, per andare in bagno bisogna bussare e sperare che un appuntato passi di lì e apra la porta. I tempi d’attesa a San Vittore sono particolarmente lunghi proprio perché è un carcere di passaggio; ha un elevato turn-over di detenuti e una fitta popolazione di stranieri i cui familiari hanno spesso problemi con i documenti. “[Bisogna] considerare che, in generale, i vincoli imposti sui colloqui quando le indagini sono ancora in corso rendono il processo [della visita] ancora più lento, e a San Vittore questo è il caso della maggior parte dei detenuti” ci spiega Alessandra Naldi. Quando, invece, i detenuti hanno una condanna definitiva - una volta sbrigate le procedure burocratiche e ottenuto il permesso di visita - l’intero processo si svolge un po’ più agevolmente. Un secondo problema è, per i detenuti, la scarsa prospettiva di svolgere attività all’interno del carcere, diretta conseguenza di una permanenza media di massimo tre mesi. Ma se il carcere venisse spostato, è difficile immaginare che lo stesso numero di volontari (principale motore delle attività) riuscirebbe a raggiungere Opera o Bollate con la stessa facilità. È un problema anche la separazione dei reclusi in diversi regimi di detenzione, che diventano compartimenti stagni, contribuendo a minare la stabilità mentale dei detenuti. Abbiamo parlato con Giorgio (nome di fantasia) che ha trascorso quattro mesi nel raggio “protetti” perché omosessuale. “[Nel mio reparto] c’erano poche cose da fare. Io ho fatto un corso di yoga, e poi c’era arte-terapia. Noi protetti non potevamo andare in giro se non scortati dagli appuntati e non potevamo partecipare alle attività che facevano gli altri. Idem per le ore d’aria, che poi non sono granché, perché le aree all’aperto del nostro raggio sono tutte grigie”. Il racconto di Giorgio trova riscontro nei documenti del 2018 di Antigone, che evidenziano come, mentre in quasi tutte le sezioni le celle sono aperte dalle 8:00 alle 20:00, nel raggio protetti gli orari sono ben diversi: dalle 9:30 alle 10:30 e dalle 13:00 alle 15:30. Un altro tema sollevato da Giorgio, che raramente trova riscontro nel discorso pubblico sulle carceri, è quello della salute mentale dei detenuti: “nel mio reparto tutti seguivano una terapia. La psichiatra veniva due volte a settimana, io la vedevo sempre, perché avevo una diagnosi già da prima. Ma anche agli altri davano farmaci per evitare che diventassero aggressivi, insomma calmanti”. Nel suo saggio La variabile umana Lorenza Ronzano fa notare che “un servizio psichiatrico [dovrebbe] aiutare i pazienti a risolvere problemi alla cui origine concorrono motivazioni ben diverse da quelle personali e patologiche”. Difficile non pensare alla carcerazione come a una di queste motivazioni esogene: la terapia in detenzione cura prevalentemente i problemi che la detenzione stessa fa nascere o acuisce. Insomma, ogni volta che si parla di spostare San Vittore, le argomentazioni sembrano prendere in considerazione esclusivamente l’età e la tipologia della struttura, quasi fossero la causa del sovraffollamento. Ma rimuovere il carcere dal centro significa in realtà riappropriarsi di uno spazio dall’enorme potenziale economico, cancellandone la memoria storica. Se veramente si vuole risolvere il problema di San Vittore, bisogna soprattutto cambiare il quadro normativo oltre che ristrutturare l’esistente. O, magari, abolire il carcere? Franca Leosini: “Come far parlare un criminale” di Annamaria Piacentini Libero, 1 giugno 2020 La conduttrice torna con “Storie maledette”: “In carcere scopro cose che i pm non sanno”. La giornalista Franca Leosini torna al timone di Storie maledette, il programma di Raitre che, da sempre, vanta “innumerevoli tentativi di imitazione” e conquista milioni di telespettatori. Ideato e condotto con professionalità ed eleganza dal lontano 1997, ha cambiato il modo di fare inchieste puntando su interviste fatte ai protagonisti dei più efferati delitti. Dal prossimo 7 giugno la rivedremo su piccolo schermo in prime time (ore 21,20) con due nuove puntate. Franca, il 7 giugno torna con il suo storico programma. Perché solo due puntate? “Con il Coronavirus entrare nelle carceri è praticamente impossibile. Stiamo aspettando, dovremmo registrarne altre due appena sarà possibile. Intanto volto pagina con una nuova serie dedicata ai mandanti dei delitti”. I “signori” che ufficialmente non si sporcano le mani? Cosa si intitolerà la prima puntata? “Lo scotch che sigilla un mistero. Protagonista Franco Rocca, che nel 2008 aveva 38 armi, ed era un medico dentista in Barbagia. Dopo un lungo e complicato percorso di indagini è stato condannato all’ergastolo”. Mandante di quale delitto? “Quello della moglie Lina Dore di 37 anni. La storia è davvero molto forte, mi ha colpito”. Ce la racconta? “Dina Dore è stata uccisa nel garage sotto casa, a Gavoi. La porta era chiusa e non era riuscita ad uscire con la macchina perché non ha trovato le chiavi. Gli inquirenti, dopo la scoperta del corpo hanno prestato molta attenzione a tutto ciò che poteva essere utile alle indagini, che all’inizio apparivano come un tentativo di sequestro finito male”. Invece? “Era un depistaggio. È stata la cocaina a sostituire l’epoca dei processi per sequestro in Barbagia”. Torniamo a Dina Dore. Come è stata uccisa? “Gli è toccata una morte orribile, valutata in 7-8 minuti di grande sofferenza. È stata incaprettata (una corda parte dal collo ed arriva fino alle gambe che vengono sollevate. Quando i muscoli cedono si muore soffocati ndr). È stata trovata così”. Perché l’ergastolo al marito? “L’accusa è stata fondata sul fatto che si era innamorato della segretaria che lavorava nel suo studio. Ha avuto una storia con lei. Ma questa donna non è mai entrata nelle indagini, gli inquirenti hanno preso le distanze. L’esecutore materiale è stato trovato e condannato, era un minorenne, di 17 armi. Gli inquirenti sono convinti che ad aiutarlo ci sia stato un altro ragazzo di cui non si conosce il nome. Mettere in atto tutto da solo, sarebbe stato impossibile. La sentenza definitiva è arrivata dopo otto anni”. Si dichiarava innocente? “Continua a dichiararsi innocente. Gli inquirenti dopo la morte della moglie tenevano d’occhio Rocca. Risultavano agli atti una lettera anonima e alcuni messaggi. Le prove diventavano sempre più concrete per chi indagava”. Ha incontrato Francesco Rocca, cosa ne pensa? “Non sono un magistrato, non posso giudicare, ma mi faccio sempre un’idea. In questi casi mi auguro che un condannato all’ergastolo sia colpevole. È inaccettabile pensare che un innocente sconti questo tipo di pena. La considero una tragedia umana”. La seconda puntata? “Racconta la storia di Sonia Bracciale condannata a 21 anni per il pestaggio che ha portato alla morte il marito. È considerata la mandante, quella che voleva la sua morte avvenuta poi nel 2012 in un ospedale emiliano dopo essere caduto sotto le sprangate. Mi ha raccontato molte cose. A volte, quando vado nelle carceri per fare le interviste e mi confidano momenti che non hanno detto neanche ai magistrati, io non tradisco”. So che prima di fare le interviste non c’è niente di concordato, giusto? “Assolutamente no! Non so mai cosa possono dirmi i miei interlocutori e non accetto interferenze. Tutto deve essere spontaneo. Nella scorsa serie ho rifiutato un’intervista”. I sovversivi da avanspettacolo di Luigi Manconi La Repubblica, 1 giugno 2020 Non sono i disubbidienti, questi gilet arancioni: sono gli screanzati. Non sono gli obiettori di coscienza, ma il Partito di chi parcheggia in terza fila. È forte la tentazione di considerare le manifestazioni dei “gilet arancioni” come il dettaglio farsesco che inevitabilmente si palesa all’interno di una tragedia. Ovvero il particolare meschino e ridicolo che sembra sospendere, almeno per un attimo, il senso del dramma collettivo. In effetti, quando al circo cade il trapezista, si fanno entrare i clown e, d’altra parte, nella storia di tutte le guerre c’è sempre un tratto di comicità involontaria che deforma il sentimento del dolore. Dunque, possiamo classificare i No Mask e i loro gilet simil-Anas come la componente caricaturale all’interno di una rappresentazione corale segnata dal lutto. Ma i “gilet arancioni” non sono solo questo: a motivarli sono tre tendenze proprie del carattere nazionale degli italiani. Innanzitutto, uno spirito anarcoide privo di qualsiasi ispirazione culturale e ideologica, ma basato su una incoercibile insofferenza per le regole. È l’atteggiamento di chi attraversa con il rosso e butta le cartacce per terra in base a un Assoluto filosofico che si riassume così: e perché non dovrei? Quindi non la contestazione razionale di un provvedimento ritenuto irrazionale e, tantomeno, l’obiezione nei confronti di un ordine ingiusto, bensì l’espressione di una ribalderia esistenziale che si compiace di sottrarsi a qualsiasi vincolo e limite. Il rifiuto di indossare la mascherina equivale né più né meno che a quello di allacciare la cintura. Una sorta di sovranismo dei comportamenti e dei movimenti come affermazione prepotente dei propri comodi contro ogni richiamo alla corresponsabilità. Il carattere primitivo di questa rivolta del gesto si spiega con la natura altrettanto elementare dell’analisi da cui muove. All’origine di tutto c’è la Grande Cospirazione. È una variante della sindrome del complotto che, in questo caso, riesce a ricomporre tutti gli elementi della trama universale, riassumendoli in un unico nemico. I Rothschild e i Rockfeller, Bill Gates e George Soros, Big Pharma e le diverse lobby mondialiste: tutti questi soggetti, in genere accusati di speculazioni finanziarie e manipolazioni di Borsa e mercato, oggi vengono ridotti ad agenti di una guerra batteriologica che nascerebbe in un laboratorio della regione cinese di Wuhan. Qui, la paranoia del complotto rassomiglia, piuttosto, alla parodia delle grandi storie di spionaggio, che si trova nel film Casino Royale di John Houston, Peter Sellers e Woody Allen. Il terzo motivo ispiratore dell’azione dei “gilet arancioni” è costituito dal negazionismo antiscientifico. Chi si toglie la mascherina dice che non crede al Covid-19. Dice che non esiste alcun virus. Ma da dove nasce questo rifiuto della realtà? Il pregiudizio antiscientifico è estremamente diffuso in Italia, risultato in primo luogo di una smaccata ignoranza delle cognizioni essenziali e di quello stesso ribellismo che rifiuta le regole della convivenza sociale. E, di conseguenza, le leggi della scienza e le sue evidenze. Queste ultime appaiono arbitrarie, non esito di ricerca e sperimentazione, ma mero prodotto del potere. Dunque sottrarsi alle regole della scienza sarebbe un atto di libertà: tanto più che l’autorevolezza delle prescrizioni mediche e delle disposizioni sanitarie vengono lette come articolazioni di un dispotismo politico che piega ai propri voleri le competenze degli esperti, (i virologi e gli epidemiologi, in questo caso). Ma, si potrebbe obiettare, stiamo parlando di un’irrisoria minoranza. Se non fosse che i “gilet arancioni” potrebbero giovarsi di altre imprevedibili coincidenze. Per il 2 giugno, festa della Repubblica, è prevista una serie di iniziative, promosse da Lega e Fratelli d’Italia. Innanzitutto la richiesta di collocare una corona di fiori sull’Altare della Patria e, poi, numerosi flash-mob in varie città. La somma delle diverse manifestazioni risulta davvero scombiccherata: un’intenzionale offesa a quella idea di unità nazionale e di concordia sociale che, non questo o quel partito o quell’uomo di governo, bensì la permanenza della pandemia esige. La piena espressione della libertà di critica nei confronti dell’esecutivo non è certo in discussione, ma l’unilateralità di un gesto di omaggio partitico ai caduti di tutte le guerre va ben oltre: e lacera un tessuto di solidarietà che dovrebbe essere patrimonio di tutti. La destra, se vuole essere all’altezza di questa terribile crisi, deve trovare un suo ruolo e una sua fisionomia, evitando la subalternità nei confronti dei sovversivi da avanspettacolo e la pretesa settaria di rappresentare un’intera società che, oggi ferita e dolente, continua a essere fatta di molte culture e differenti identità. Stati Uniti. Macerie, selfie, prediche e Klan: qui Minneapolis di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 1 giugno 2020 Viaggio nell’epicentro della rivolta, sul fiume simbolo dell’America: voci (infondate) di raduni del Klan, l’assalto al banco dei pegni. La paura tra epidemia e devastazioni. La Guardia Nazionale sembra aver ripreso il controllo di Minneapolis. Nella notte tra sabato e domenica ancora qualche scontro e pochi incendi. Ma niente di paragonabile alle devastazioni dei giorni scorsi. Così ieri mattina il governatore Tim Walz si è presentato in conferenza stampa per “ringraziare i cittadini” che hanno contribuito a isolare “i vandali”. Minneapolis vive sentimenti contrastanti. I commercianti hanno sprangato tutto, proteggendo le vetrine con pannelli di truciolato. Il centro è deserto, non si trova neanche un caffè aperto. La combinazione tra la paura delle devastazioni e il virus (ieri oltre 600 nuovi casi in Minnesota) pare aver ibernato questa metropoli di 3,6 milioni di abitanti se si comprende anche la “città gemella” di St. Paul, sull’altra riva del Mississippi. Si torna a respirare - Ma è una sensazione sbagliata. In questa domenica Minneapolis torna a respirare, a vibrare ancora di indignazione per l’omicidio di George Floyd, afroamericano di 46 anni. Le tv trasmettono nuovi video che inchiodano alle loro responsabilità criminali l’ex poliziotto Derek Chauvin e i tre agenti che erano con lui di pattuglia lunedì 25 maggio, un giorno destinato a rimanere nella storia recente del Paese. Chauvin, 44 anni, è in carcere con l’accusa di omicidio colposo. L’avvocato della famiglia di George chiede alla Procura di prevedere l’imputazione più grave: omicidio premeditato. Il momento della politica - All’incrocio tra la Chicago Avenue e la 38 esima Strada il pastore Curtis Farar tiene la predica all’aperto, davanti a persone sedute a distanza e con l’accompagnamento di una band soul. È un religioso molto popolare nel quartiere. Tiene insieme dolore e rabbia, a pochi metri dai fiori, dalle candele, dai palloncini, dai disegni per George. Poco più in là, invece, ecco, finalmente, la politica. Perché gli scontri e le proteste di Minneapolis e ormai dell’America intera, da New York a Los Angeles, pongono domande cui non possono rispondere né i soldati in assetto di guerra, né i “cani feroci” evocati due giorni fa da Donald Trump. La poliziotta - Rina Morcen è una deputata del Parlamento del Minnesota e, soprattutto, la leader del gruppo (il caucus) afro-asiatico. È venuta con il senatore locale Jeff Hayden per promettere “la riforma del sistema giudiziario e di polizia”. È il tema centrale su cui i vertici del partito democratico si stanno impegnando da anni. Senza risultati. L’epoca della speranza era cominciata nel 2012 quando, per la prima volta, diventa capo del Dipartimento di Polizia una donna, Janeé Harteau. Si presenta dichiarando la sua omosessualità e assicurando che avrebbe cambiato da cima a fondo il comportamento degli agenti. Harteau contribuì ad arginare le prassi più violente. Ma nel 2016 la sua gestione viene tragicamente sconfessata dall’uccisione dell’afroamericano Philando Castile, inerme come George Floyd, durante un controllo stradale nei dintorni di Minneapolis. Il poliziotto coinvolto, Jeronimo Yanez, sarà poi assolto dal tribunale. Il sindaco - Per tutta risposta i democratici sostituiscono Harteau con Medaria Arrondo, primo capo della Polizia afroamericano. Si mette di nuovo mano a codici e protocolli. Si stabilisce che la “tecnica” del ginocchio sul collo può essere usata solo in casi di estremo pericolo. Però resta nei codici e questo spiega la decisione del procuratore Mike Freeman di mandare a giudizio Derek Chauvin con l’accusa di omicidio colposo. Come dire: ha usato impropriamente “una modalità di contenimento” non illegale. Sempre nel 2017 il sindaco Jacob Frey, anche lui democratico, vince le elezioni con una piattaforma di “riforme nel Dipartimento di Polizia”. E siamo a George, a questa domenica di parziale sollievo tra edifici ancora fumanti. Ma questo retroterra spiega la profondità della frustrazione afroamericana di Minneapolis. Ancora ieri gli attivisti che si passavano il microfono o l’altoparlante dicevano cose che sono allarmante richiamo per i vertici nazionali del partito, per il candidato Joe Biden. Uno di loro, Joseph Webb IV ci dice: “Non basta essere contro Trump. Non abbiamo bisogno di star o giocatori di basket. Vogliamo mettere mano alle regole, vogliamo la giustizia che nasce da buone leggi”. Tra anarchici e suprematisti - Ma le “giornate di Minneapolis” consegnano al Paese un altro problema, che si materializza ritornando sulla East Lake Street, l’epicentro della rivolta. Anche ieri la via è stata meta di un surreale pellegrinaggio, gente che curiosava, che faceva selfie o foto posate. Senza esagerare: uno scenario da post bombardamento. Il Terzo Distretto di Polizia, quello cui faceva capo Derek Chauvin, è stato il primo edificio dato alle fiamme. Ma quelli vicini sono stati spolpati dal fuoco. Le rovine di un ristorante etiope-asiatico-vegetariano sono ancora fumanti. Un “Pawn shop” - banco dei pegni - è completamente sventrato. Una scia lunga quasi un chilometro. Qualcuno ha pianificato tutto questo? Il governatore Walz ha suggerito l’idea che “i suprematisti bianchi” si siano infiltrati e abbiano fomentato la furia dei manifestanti. Nella notte tra sabato e domenica una voce, poi risultata infondata, aveva segnalato persino un raduno del Ku Klux Klan in un parco. Da Washington il presidente Trump annuncia che “il gruppo della sinistra radicale Antifa verrà dichiarata organizzazione terroristica”, perché “sta alimentando le rivolte nelle città americane”. A Minneapolis si discute di “anarchici venuti da fuori”. La parlamentare Rina Morcen dice di non “aver mai sentito parlare di formazioni di questo tipo in Minnesota”. Ma l’impressione è che investigatori e politici non abbiano le idee chiare. Le organizzazioni afroamericane, a cominciare da “Black lives matter” sono giustamente preoccupate. Tre donne sindaco, democratiche e “black”, come Lori Lightfoot (Chicago), Muriel Bowser (Washington) e Keisha Lance Bottoms (Atlanta) hanno avuto parole durissime contro i violenti. C’è la necessità politica di non macchiare la più grande e potente ondata di proteste. E c’è anche la voglia civica, spontanea di pulizia. Dentro questo stato d’animo ci stanno benissimo le scene che abbiamo visto nel fine settimana. Centinaia di ragazzi e di ragazze, molti giovanissimi, sono arrivati sulla East Lake Street con ramazze e rastrelli per spazzare via i detriti e distribuire gratuitamente la merce abbandonata nel supermercato Target. Stati Uniti. Il Premio Nobel Jody Williams: “Razzismo e sessismo stelle polari di Trump” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 1 giugno 2020 “Donald Trump? È l’antitesi della democrazia. Ora è arrivato anche a minacciare Twitter, perché hanno osato correggerlo, che neanche Putin…”. Ad affermarlo è Jody Williams, fondatrice della Campagna Internazionale per il Bando delle Mine Antiuomo, insignita del Premio Nobel per la pace nel 1997. La scure di Donald Trump si è abbattuta anche sui social - Trump è già in campagna elettorale e adesso ha un altro nemico contro cui scagliarsi. Ciò che non riesce a controllare, cerca di annientarlo. Lui concepisce la libertà di espressione a senso unico. Quanto poi all’accusa a Twitter di interferire nelle elezioni presidenziali, avanzata dal presidente del Russiagate. La sfrontatezza di Trump non conosce limiti: proprio lui parla di correttezza d’informazione, lui che forte dei suoi oltre 80 milioni di followers, brandisce Twitter come arma politico-propagandistica, seminando anche teorie cospirative e oltre 16 mila affermazioni false o fuorvianti da quando è in carica, secondo un resoconto dei media. Sedicimila fake! Un record mondiale. Intanto a Minneapolis continua la rivolta degli afroamericani, una rivolta che si sta estendendo ad altre città. È il segno di una rabbia che covava da tempo. I responsabili della orribile fine di George Floyd devono dar conto in un’aula di tribunale del loro comportamento. La richiesta di giustizia va soddisfatta, ma resta il clima di odio contro gli afroamericani e i latinos che Donald Trump e i suoi consiglieri hanno alimentato. Il Presidente ha accusato il sindaco di Minneapolis di “assoluta mancanza di leadership”. Se per questo ha anche definito Jacob Frey, un sindaco di “estrema sinistra”, come se questo fosse un marchio d’infamia. È lo stile-Trump: individuare il nemico di turno, accusarlo di essere un debole, usarlo come capro espiatorio. La via da seguire è quella della disobbedienza civile, della resistenza non violenta. È una via difficile, ma ciò che mi conforta è vedere che sempre più persone nel mio Paese, specie tra i giovani, sono disposti a seguirla, rischiando anche di finire in carcere. Mi auguro che questa ribellione morale possa passare dalle piazze ai seggi elettorali il 3 novembre prossimo. E porre fine ad un incubo. L’incubo Trump. Lei non è mai stata tenera con The Donald. Trump ha dato spazio alle componenti più retrive e pericolose della società americana. Con lui alla Casa Bianca i suprematisti bianchi si sono sentiti legittimati a portare avanti, e non solo a parole, le loro campagne di odio e di violenza contro le minoranze, le donne, i gay. Trump ha vinto le elezioni con lo slogan “America first”, e in questa idea di America, bianca, suprematista, l’inclusione è bandita. È davvero capace di tutto, e lo ha ampiamente dimostrato, contro gli immigrati, contro le donne. Ha cancellato i finanziamenti del governo federale a tutte le organizzazioni che praticano o fanno informazione sulle interruzioni di gravidanza nel mondo, ha smantellato l’”Obamacare” lasciando così venti milioni di persone senza sanità pubblica, con le conseguenze disastrose che stiamo vivendo nell’affrontare la crisi pandemica: pur di non assumersi le sue responsabilità, Trump si è prima inventato ridicole soluzioni mediche e poi, visto la figuraccia fatta, ha provato con la storia del virus generato in un laboratorio cinese. Tutti sono colpevoli, tranne lui. Le donne sono state in prima fila nel movimento anti-Trump. Hanno compreso sulla propria pelle che ogni atto di Trump, in ogni ambito della sfera pubblica e sociale, ha una impronta sessista. L’ideologia che ispira Trump è quella dei suprematisti bianchi, coloro che considerano non solo gli afroamericani ma anche le donne come razza inferiore. Sessismo e razzismo si tengono assieme. Le donne subiscono questa oppressione come lavoratrici, madri, in ogni ambito del loro essere. Stiamo lottando per dei diritti che si ritenevano ormai consolidati ma che Trump ha smantellato, giorno dopo giorno. Appello urgente per l’evacuazione dei profughi dalla Libia di Don Mussie Zerai Il Manifesto, 1 giugno 2020 Chiediamo ai governi europei e alle autorità libiche di evacuare tutte queste persone verso i paesi limitrofi, creando un campo temporaneo, per poi organizzare un programma di reinsediamento. Da giorni stiamo ricevendo appelli e grida di dolore da varie parti della Libia da profughi che si trovano intrappolati in zone di conflitto, dove milizie costringono ad imbracciare le armi uomini e ragazzini, tra i profughi chi si rifiuta viene malmenato, ci sono state anche uccisioni, come è successo nel lager a Tajoura. Situazioni devastanti a Tripoli, centinaia di profughi totalmente abbandonati a se stessi, cacciati dalle case in piena pandemia perché non hanno soldi per pagare l’affitto, ci dicono che non mangiano da giorni, rischiano di morire di fame prima ancora di ammalarsi di Covid-19, visto che è diventato impossibile reperire il cibo. Si può dire che c’è una specie di caccia al profugo da gruppi criminali che vanno alla razzia. Nei lager di Zawiya, Kumuz, Mekazin ci sono circa 5 mila profughi eritrei, etiopi e sudanesi che da mesi ci chiedono aiuto per essere evacuati fuori dal territorio libico al sicuro. Ieri abbiamo ricevuto una richiesta di aiuto da un ragazzino sudanese impaurito e affamato solo al mondo che ci ha detto che non mangia da giorni a Tripoli, ha paura di lasciare il suo rifugio fatto di cartoni per la strada perché non sai chi incontri. Molti profughi sono stati derubati, ci sono continue razzie, hanno preso di mira le case abitate da migranti e profughi, c’è un razzismo molto diffuso verso i neri. I razzi che arrivano, gli spari che si sentono ovunque, i profughi ci dicono di vivere nel terrore giorno per giorno. Un’altra testimonianza viene da una famiglia con 5 figli (il più grande ha solo 9 anni, il più piccolo 1 anno), dal 2017 attendono di trovare un paese che gli offra asilo, ora sono angosciati su come sopravvivere alla pandemia, al conflitto, alle razzie, alla fame: gridano aiuto. Di fronte a tutto quello che sta accadendo in Libia, nessuno può voltarsi dall’altra parte, nessuno può dire che non sapevamo. Ogni migrante o profugo morto in Libia oggi lo avremo sulle nostre coscienze. Italia, Francia, Germania facciano lo sforzo per ottenere un corridoio umanitario per l’evacuazione di queste persone che sono in trappola. Non possiamo tacere, diamo voce a questi fratelli e sorelle che sono oggi più che mai senza voce, sono scomparsi dal radar dei grandi mass media, scomparsi dai discorsi politici, soccombono in silenzio nel deserto come nel mare, molti anche nei lager spesso sovvenzionati con fondi europei, per le strade delle città libiche quanti corpi esanimi anonimi. Il nostro appello ai governi europei e alle autorità libiche è di trovare una soluzione urgente per evacuare tutte queste persone verso i paesi limitrofi, creando un campo temporaneo, per poi organizzare un programma di reinsediamento per coloro che sono bisognosi di protezione internazionale, e trasferirli legalmente verso paesi che sono in grado di accoglierli, proteggerli e integrarli nel proprio tessuto sociale, culturale ed economico.