Oggetto: ripresa attività trattamentali di Ornella Favero* e Maurizio Mazzi** Ristretti Orizzonti, 19 giugno 2020 "Oggetto: ripresa attività trattamentali". Si intitolano così le disposizioni che il provveditore reggente dell’Amministrazione penitenziaria per il Veneto - Friuli Venezia Giulia - Trentino Alto Adige, Gloria Manzelli, ha emanato il 16 giugno per i direttori delle carceri. Da quando è iniziata in tutto il Paese la Fase 2, e poi la Fase 3, che hanno aperto un complesso periodo di “convivenza” con il coronavirus, la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ha posto la questione della ripresa delle attività in carcere, con la forte convinzione che in assenza del Volontariato le carceri non sono in grado in alcun modo di rispettare il mandato costituzionale di garantire la rieducazione delle persone detenute. Le Conferenze regionali hanno allora cominciato a muoversi in piena collaborazione con i Garanti territoriali delle persone private della libertà personale per chiedere, rispettando le diverse situazioni locali, di rientrare nelle carceri, e di farlo subito, in un periodo particolarmente difficile come è quello estivo, quando gli istituti penali diventano spesso luoghi ancora più chiusi. Oggi, dopo mesi di ulteriore “desertificazione”, dopo la paura, l’ansia, la sensazione di solitudine che hanno caratterizzato la vita detentiva durante la pandemia, il provveditore del Veneto, Gloria Manzelli, con l’Ufficio dei detenuti e del trattamento del Prap e in sintonia con i Garanti territoriali, che si sono fatti interpreti della volontà del Volontariato di tornare a essere presente nei luoghi di pena, ha dato indicazioni chiare per questo rientro e hanno scelto di farlo non nel linguaggio burocratico tipico di tanti atti amministrativi, ma usando parole semplici, chiare ed efficaci. Dunque, speriamo davvero di rientrare. E ci saranno parecchie cose da ricostruire, prima di tutto perché il mondo fuori, tutto preso dalla tragedia del Covid, rischia di diventare ancora più indifferente ai problemi delle carceri, e poi perché in questi mesi la pessima informazione sulle “scarcerazioni dei mafiosi” ha creato il vuoto su questi temi e riportato le carceri al clima ostile degli anni prima della riforma dell’Ordinamento penitenziario del 1975. Nelle disposizioni sulla ripresa delle attività trattamentali, è poi importante che il provveditore ribadisca che, per quanto concerne le attività che si svolgono da remoto, “queste non sono destinate a scomparire, anzi, rappresentano un valido strumento per garantire la fruizione di alcuni servizi e dovranno essere potenziate”, anche perché “rappresentano, probabilmente, il futuro anche per il sistema penitenziario”. È esattamente quello che il Volontariato chiede da tempo: di rientrare in carcere, e che però non escano più le nuove tecnologie, e le persone detenute smettano di essere dei “senzatetto digitali” e diventino le persone responsabili che vuole la nostra Costituzione. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia **Presidente della Conferenza Regionale Volontariato Giustizia del Veneto Carcere, lockdown e volontariato. Anastasìa: “Importante ripartire subito” di Teresa Valiani difesapopolo.it, 19 giugno 2020 Il coordinatore dei Garanti regionali fa il punto della situazione e auspica una ripresa in tempi brevi e in sicurezza delle attività trattamentali affidate a volontari e operatori esterni, “mantenendo le conquiste in fatto di comunicazioni digitali”. Attività trattamentali, corsi scolastici, sostegno individuale e sociale, incontri culturali: anche il carcere sta uscendo dal lockdown. Ma qual è oggi la situazione negli istituti penitenziari italiani in relazione a tutte le attività gestite dal volontariato e che spesso fanno la differenza nella qualità della vita dietro le sbarre? Stefano Anastasìa, coordinatore dei Garanti regionali e Garante di Umbria e Lazio, fa il punto della situazione per Redattore Sociale tra chiusure, proposte e nuovi orientamenti dettati dalle emergenze interne. Dott. Anastasìa, qual è oggi la situazione nelle carceri? Purtroppo la gran parte delle attività trattamentali, culturali o di sostegno individuale e sociale sono sospese e ancora senza una ipotesi di data per la ripresa. Ha fatto eccezione, non dappertutto purtroppo, la didattica a distanza per i detenuti a fine ciclo scolastico che, dovendo preparare gli esami, almeno nelle scorse settimane hanno potuto avere relazioni dirette con i loro insegnanti. A distanza sono riprese anche alcune attività teatrali, come quella di Rebibbia Nuovo complesso. In presenza, invece, sono generalmente proseguite le lavorazioni per conto terzi, come nel caso del laboratorio di pasticceria di Padova e altri simili: tra poco, ad esempio, dovrebbe aprire il laboratorio tessile di Perugia. Di questi giorni, invece, le prime timide riaperture, come a Cassino, dove il direttore ha consentito il rientro dello sportello di informazione legale e sostegno allo studio dei detenuti iscritti all’università. Lo stop agli ingressi di volontari e operatori esterni dettato dall’emergenza si può considerare superato? Anche in carcere è finito il lockdown. La ripresa dei colloqui con i familiari, seppure con tutte le precauzioni del caso, e forse anche con qualcuna di troppo, ne è stata la sanzione. Dal 19 di maggio gli istituti penitenziari non sono più chiusi all’ingresso di persone dall’esterno, anche se in realtà non lo sono mai stati completamente, posto che il personale penitenziario e quello sanitario, necessariamente, ha continuato ad accedere dall’esterno anche nei momenti più difficili. Questo ha aperto il problema della ripresa di attività essenziali per la vita quotidiana dei detenuti e per il rispetto della finalità rieducativa della pena che sono assicurate dal volontariato e da enti esterni all’amministrazione penitenziaria. Nella gran parte degli Istituti si aspettano indicazioni, se non dalla direzione generale dei detenuti, almeno dai provveditorati. E noi Garanti territoriali, d’intesa anche con il Garante nazionale, abbiamo raccolto l’istanza della Conferenza nazionale volontariato giustizia per verificare regione per regione tempi e modi per la riapertura ai volontari e agli operatori esterni. Il 30 giugno scade la disciplina provvisoria dei colloqui con i familiari stabilita con il decreto del 10 maggio scorso. Se sarà confermata, non potrà non portare con sé la riapertura degli istituti al mondo esterno. Con tutte le cautele del caso, ma le carceri non possono restare chiuse per tutta l’estate. In che modo è possibile riattivare i corsi e la frequentazione dei volontari e con quali misure di sicurezza? La Conferenza nazionale volontariato giustizia ha elaborato un documento che riprende le indicazioni già operative per le imprese che hanno continuato a mandare avanti le lavorazioni in carcere durante il lockdown. Si tratta di indicazioni ragionevoli che corrispondono alle norme di prevenzione indicate dalle autorità sanitarie a livello nazionale per i luoghi di lavoro e/o di convivenza: dal rispetto della distanza di sicurezza all’uso dei dispositivi di protezione individuale, dalla ripetuta igienizzazione dei locali fino all’adozione di misure straordinarie come quelle della separazione tramite plexiglas. Poi, certo, c’è anche la possibilità di continuare alcune attività a distanza. L’emergenza della pandemia ha fatto finalmente cadere il tabù penitenziario nei confronti delle tecnologie della comunicazione digitale, facendo vivere nuove emozioni a tanti detenuti che, dopo anni, hanno potuto rivedere in uno smartphone parenti lontani o i propri ambienti domestici. Questo è un risultato da cui non si deve tornare indietro, consolidando e regolamentando in maniera avanzata le modalità di accesso alla rete, alla posta elettronica e alla video-comunicazione. Le tecnologie della comunicazione possono essere molto utili in questa fase ibrida di convivenza con il virus, ma non possono sostituire il rapporto diretto e la presenza in carcere di operatori volontari. Lo sappiamo, lo abbiamo vissuto tutti quanti tutti i giorni: le tecnologie digitali sono una grande opportunità se si affiancano alle relazioni in presenza. Se le sostituiscono sono un dimezzamento della nostra esperienza umana, necessaria in un momento di massima emergenza, inaccettabile oltre. Perché è così importante far ripartire l’attività del volontariato? Chi conosce il carcere sa che esso affida le sue possibilità di rispondere ai principi costituzionali in materia di privazione della libertà ed esecuzione della pena al contributo che viene da altri soggetti, istituzionali e non. Non c’è tutela della salute senza il servizio sanitario nazionale, non c’è rieducazione senza l’offerta di istruzione di scuole e università, ma, soprattutto, non ci sono sostegno sociale, offerta culturale e programmi di reinserimento senza il volontariato e il terzo settore. Un carcere che resti chiuso a queste presenze è un carcere che torna a prima della riforma e della Costituzione, un carcere intollerabile e inaccettabile. Ma questo lo sanno benissimo i dirigenti e il personale dell’amministrazione che aspettano il ritorno del volontariato in carcere per poter fare meglio il proprio mestiere. Indagine del Consiglio d’Europa: 2 milioni di persone scontano pene alternative agensir.it, 19 giugno 2020 Sono 118mila i detenuti rilasciati nel lockdown. Gli Stati europei applicano sempre di più sanzioni e misure che mantengono gli autori dei reati nella comunità senza privarli della loro libertà, secondo l’edizione 2019 dell’indagine annuale Space II, condotta per il Consiglio d’Europa dall’Università di Losanna. Al 31 gennaio 2019, c’erano circa 2 milioni di persone in Europa che stavano scontando pene alternative alla detenzione (sorveglianza elettronica, servizi socialmente utili, arresti domiciliari…). Si tratta del 7,9% in più rispetto al 2018, dato che emerge dal nuovo sondaggio annuale Space II condotto per il Consiglio d’Europa dall’Università di Losanna e pubblicato oggi. È un dato di soddisfazione per il Consiglio d’Europa che da tempo invita “i suoi Stati membri a usare la prigione come ultima risorsa e ad applicare pene alternative alla privazione della libertà il più spesso possibile”, per meglio “promuovere l’integrazione dei criminali nella società, ridurre la recidiva, prevenire il sovraffollamento, migliorare il funzionamento delle carceri e promuovere un trattamento umano ed efficace dei detenuti”. Un secondo rapporto, pubblicato oggi invece fotografa la situazione dei “detenuti in Europa durante la pandemia” e indaga l’impatto delle misure legate alla pandemia di Covid-19 sulle popolazioni carcerarie in Europa, al 15 aprile 2020. Venti amministrazioni carcerarie su 43 hanno rilasciato detenuti per limitare la diffusione di Covid-19, facendo ricorso a misure quali l’amnistia, il rilascio anticipato o provvisorio o pene alternative. Sarebbero stati 118mila i detenuti rilasciati in Europa nei mesi scorsi. Tutto ciò non ha risolto il problema del sovraffollamento che permane in alcuni Paesi (Turchia, Romania, Grecia, Ungheria, Cipro, Italia, Francia, Serbia, Repubblica Ceca e Austria). Bambini e genitori in carcere, la campagna di “Children of Prisoners Europe” di Carmelina Maurizio tecnicadellascuola.it, 19 giugno 2020 Quando le frontiere della libertà individuale si chiudono, non per un temporaneo quanto urgente e drammatico lockdown, ma per la detenzione, conseguenza di illegalità di ogni tipo, spesso non si considera come nel processo siano coinvolti bambine e bambine. A questo tema, scottante e poco noto, ma non per questo meno serio e importante Cope, Children of Prisoners Europe dedica ogni anno una campagna. Di Cope fa parte l’Italia che ogni anno organizza per tutto il mese di giugno “Bambini senza sbarre”, una serie di iniziative a cui collaborano il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, la Campagna Carceri aperte per portare alla ribalta il tema della relazione figli - genitori detenuti, organizzando in ogni istituto penitenziario dei momenti speciali per le famiglie. Alla fine di maggio si è svolta la conferenza di apertura della Campagna, che ha visto quasi 400 partecipanti, da ben 38 paesi, dall’Europa all’Africa, con la Nigeria per esempio, dall’America del Nord a quella del Sud. Il tema affrontato quest’anno - Non interrompere il legame fra i figli e loro genitori detenuti, nella crisi di Covid-19 e oltre, la situazione in Europa - è stato certamente molto sentito in questo periodo di pandemia, con le carceri chiuse in quasi tutti i paesi del mondo e la conseguente impossibilità per milioni di bambini e bambine nel mondo di poter fare le periodiche visite ai genitori detenuti. Sono visite diventate “virtuali” tramite l’uso delle piattaforme di video-chat offerte dal Web. Tra le riflessioni emerse durante la conferenza c’è l’importanza che questo tipo di azioni possano portare i bambini a cambiamenti positivi non solo per loro, ma anche per le persone detenute e le loro famiglie, nella convinzione che le visite online in epoca Covid-19 non andranno a sostituire in alcun modo le visite di persona nel dopo Covid-19. A stabilirlo infatti è un diritto sancito dalla Convenzione Onu dei diritti dell’infanzia, poi diventata Raccomandazione europea nel 2018, che riconosce formalmente il diritto dei minorenni alla continuità del proprio legame affettivo con il genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto alla genitorialità. Il prossimo appuntamento sarà il 25 giugno 2020, dalle ore 17.00 alle ore 19.00, quando si svolgerà la videoconferenza europea di chiusura dal titolo “Figli e genitori, rimaniamo connessi”, in questa occasione interverrà anche la presidente della rete Children of Prisoners Europe Cope, Lucy Gampell, e i relatori che hanno dato la loro adesione all’iniziativa. In bici con Roberto per superare il carcere Il Dubbio, 19 giugno 2020 Dal Brennero a Capo Passero, dal Nord alla punta più estrema dell’Italia passando per Firenze, Roma, Napoli. È il viaggio di Roberto Sensi, amministratore unico della società editrice del Dubbio, tra le carceri italiane. Perché un mondo senza sbarre è possibile. Un tour in bicicletta da un capo all’altro del Paese attraverso le carceri italiane. Un viaggio di dieci giorni e circa 2000 chilometri tra il Brennero e Capo Passero che Il Dubbio percorrerà raccogliendo le voci di chi vive quotidianamente gli istituti penitenziari: istituzioni, associazioni e, naturalmente, i detenuti. L’iniziativa, al via il 25 giugno, nasce per raccontare una realtà sepolta, ai margini della società, e lanciare un messaggio di rinnovamento e superamento del carcere come mero strumento repressivo. “L’articolo 27 della nostra Costituzione ci dice che la pena è una realtà aperta al futuro. Ci spiega che non solo le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, ma che devono tendere alla rieducazione del condannato. Così, dunque, la nostra Costituzione scommette sul cambiamento, sull’idea che la personalità del condannato non è incisa per sempre al reato che ha commesso ma è aperta al cambiamento”. Sono le bellissime parole del giudice costituzionale Francesco Viganò, parole che ha pronunciato nel lungo viaggio che la Corte Costituzionale ha intrapreso negli istituti di pena italiani. “Mai più un carcere cimitero dei vivi, giurarono i padri costituenti, che durante il ventennio fascista avevano conosciuto la mortificazione del carcere-cimitero”, hanno ribadito i giudici costituenti. Quella contro l’idea del carcere-cimitero è una delle battaglie culturali sulle quali è stato fondato il Dubbio. Anche noi, come ha ricordato il giudice Viganò, scommettiamo su un’idea di pena che sia rieducativa e ribadiamo che i diritti fondamentali devono includere tutti. Anche perché la mera repressione, oltre a tradire la nostra Costituzione, non fa un buon servizio alla sicurezza collettiva. I dati parlano chiaro: chi sconta la propria pena fuori dal carcere, chi può beneficiare di pene alternative e percorre progetti di reinserimento ha molte meno possibilità di reiterare i reati. Ma la costruzione di progetti alternativi è più faticosa e ha bisogno di una politica forte, autorevole, paziente. Abbiamo assolutamente bisogno di una politica che smetta di assecondare per meri fini propagandistici le pulsioni più rabbiose e feroci che arrivano dalla società e che sia in grado di mettersi alla guida di un progetto di grande riforma che abbia come orizzonte una radicale trasformazione del carcere. Questo viaggio sarà anche l’occasione per riflettere sul presente e riannodare metaforicamente i fili spezzati di un Paese che in questi mesi si è dovuto chiudere in sé stesso: una sorta di grande detenzione collettiva che ha cambiato il nostro modo di vivere e di pensare e che nel momento stesso in cui ci ha isolati dagli altri, ci ha fatto capire quanto gli altri siano fondamentali. E così le nostre carceri che appaiono come monadi isolate, in realtà sono intrecciate più di quanto si crede alla “vita di fuori” e alla coscienza di ognuno di noi. Testimone di un Paese che prova a rimettersi in piedi sarà Roberto Sensi, amministratore unico della società editrice del Dubbio, che in sella alla sua bici muoverà lo sguardo dall’ultimo avamposto della battaglia contro la disgregazione sociale. “Quella della bici - spiega Roberto - è l’unica catena che ti rende libero. E così con i tempi dilatati del viaggio in bici, mentre assaporo tutta la libertà che la bici offre, il mio pensiero va a chi di questa libertà non può godere: ai reclusi. Attraverso questa mia avventura voglio dare voce alle persone che vivono in un mondo di tre metri per tre, che lo Stato ha recluso e la società ha escluso, voglio essere il testimone di questo mondo parallelo, e latore di un messaggio di superamento del carcere”. Il suo viaggio sarà seguito in tempo reale dalla redazione del Dubbio che, attraverso il sito web e l’edizione cartacea, accoglierà e diffonderà i suoi racconti quotidiani. Video, scrittura, audio. La redazione utilizzerà tutti gli strumenti a sua disposizione per raccontare questo pellegrinaggio dei diritti scandito dai temi che Il Dubbio affronta quotidianamente: il 41bis, il fine pena mai, le tante storie di vite spezzate dagli errori giudiziari. Sul tema del carcere duro, il regime di 41bis, ci soffermeremo a Parma, mentre la tappa a Modena sarà l’occasione per ricostruire i fatti accaduti durante l’emergenza sanitaria da Covid-19 con l’esplosione delle rivolte e la morte di oltre 10 detenuti. A Firenze affronteremo il tema del perdono attraverso una figura emblematica all’interno degli istituti di pena: il cappellano. Dal carcere di Poggioreale a Napoli racconteremo la violenza e l’inumanità delle strutture di detenzione, mentre a Perugia incroceremo ancora la storia di Carmelo Musumeci: condannato all’ergastolo ostativo per omicidio e associazione mafiosa, da un anno e sei mesi è in liberazione condizionale e fa volontariato in una casa famiglia in Umbria. E giù per lo stivale con molto altro: il lavoro in carcere, gli istituti minorili, storie di malagiustizia. Un vero e proprio diario di viaggio alla fine del quale nessuno potrà più dire: “Marciscano pure in galera”. Mattarella ai magistrati: “Gravi distorsioni in decisioni Csm. Toghe chine su stesse” di Concetto Vecchio La Repubblica, 19 giugno 2020 Duro discorso del Capo dello Stato alla cerimonia che commemora i magistrati uccisi dal terrorismo e dalla mafia. Le vicende emerse con il caso Palamara “sono in amaro contrasto con l’opera di questi servitori dello Stato”. È stato “un anno difficile per la magistratura”. “Nessun motivo per ampliare i poteri del Quirinale. La fedeltà alla Costituzione “è l’unica fedeltà richiesta ai servitori dello Stato. L’unica fedeltà alla quale attenersi e sentirsi vincolati”. Lo ha detto il presidente Sergio Mattarella durante la cerimonia per gli anniversari dell’uccisione di Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli, Mario Amato Gaetano Costa e Rosario Livatino. Giacumbi, Minervini, Galli e Amato vennero uccisi nel 1980 dal terrorismo. Costa, nell’80, e Livatino nel 1991, dalla mafia. Un discorso durissimo, incentrato in larga parte sul caso Palamara, le cui vicende “sono in amaro contrasto con l’alto livello morale delle figure che oggi ricordiamo. In quest’anno così difficile per la magistratura italiana cadono gli anniversari di magistrati che hanno perso la vita a causa del loro impegno”. Gravi distorsioni al Csm. Mattarella ha detto che sono emerse “gravi e vaste distorsioni” nelle decisioni del Csm oggetto dell’inchiesta di Perugia. Ha aggiunto: “La documentazione raccolta dalla Procura della Repubblica di Perugia - la cui rilevanza va valutata nelle sedi proprie previste dalla legge - sembra presentare l’immagine di una magistratura china su stessa, preoccupata di costruire consensi a uso interno, finalizzati all’attribuzione di incarichi. Questo fenomeno - continua Mattarella - si era disvelato nel momento in cui il Csm è stato chiamato, un anno addietro, ad affrontare quanto già allora emerso. Quel che è apparso ulteriormente fornisce la percezione della vastità del fenomeno allora denunziato; e fa intravedere un’ampia diffusione della grave distorsione sviluppatasi intorno ai criteri e alle decisioni di vari adempimenti nel governo autonomo della magistratura. Sono certo che queste logiche non appartengono alla magistratura nel suo insieme, che rappresenta un ordine impegnato nella quotidiana elaborazione della risposta di giustizia rispetto a una domanda che diventa sempre più pressante e complessa”. Modestia etica. Mattarella ha usato denunciato “la modestia etica” emersa dalle carte dell’inchiesta, pur sottolineando che è stata sempre la magistratura a disverlare il malcostume. I poteri del Quirinale. Il Capo dello Stato, in un altro passaggio molto rilevante del suo discorso, ha anche mosso un puntuto appunto a chi lo tira per la giacca. Serve il “rispetto rigoroso delle regole della Costituzione”, ha detto. “Si odono talvolta esortazioni, rivolte al Presidente della Repubblica, perché assuma questa o quell’altra iniziativa, senza riflettere sui limiti dei poteri assegnati dalla Carta ai diversi organi costituzionali. In questo modo si incoraggia una lettura della figura e delle funzioni del Presidente difforme da quanto previsto e indicato, con chiarezza, dalla Costituzione. Ho ritenuto, e ritengo, di avere il dovere di non pretendere di ampliare” la sfera dei poteri costituzionali del presidente. “Non esistono motivazioni contingenti che possano giustificare l’alterazione della attribuzione dei compiti operata dalla Costituzione: qualunque arbitrio compiuto in nome di presunte buone ragioni aprirebbe la strada ad altri arbitri, per cattive ragioni”. Certezza del diritto. Il Presidente della Repubblica ha quindi chiesto il rispetto della certezza del diritto. “I nostri cittadini hanno diritto a poter contare sulla certezza del diritto e sulla prevedibilità della sua applicazione rispetto ai loro comportamenti. Questo vale - a partire naturalmente dalle scelte del Legislatore - per la giustizia civile come per quella penale, per quella amministrativa come per quella contabile: non possono essere costruite ex post fattispecie e regole di comportamento”. Scuola di formazione decisiva. “La scuola superiore, particolarmente in questo momento, assume un ruolo decisivo per la formazione etica e professionale dei magistrati. Appare necessario che dedichi sessioni di studio apposite ai doveri di correttezza e trasparenza nell’esercizio delle funzioni giudiziarie”. Mattarella scuote toghe e Csm: distorsioni, manca credibilità di Diodato Pirone Il Messaggero, 19 giugno 2020 Il “caso Palamara” ha trasmesso l’immagine di “una magistratura china su stessa, preoccupata di costruire consensi a uso interno, finalizzati all’attribuzione di incarichi”. Alcuni magistrati - sia pure una minoranza - hanno svelato una “modestia etica” tale da far crollare la fiducia dei cittadini nell’intero mondo della Giustizia. È quindi l’ora di riformare severamente il Consiglio Superiore della Magistratura, di tornare al principio fondamentale di fedeltà alla Costituzione, di trovare uno scatto di reni per far recuperare “credibilità” alla magistratura che rischia, in questa sua caduta d’immagine, la sua autonomia e indipendenza. È durissimo il “j’accuse” del presidente della Repubblica che non fa sconti alle toghe e, dal suo doppio ruolo di capo dello Stato e presidente del Csm, in un complesso discorso tenuto ieri al Quirinale. Le conversazioni pubblicate che hanno fatto emergere distorsioni, brame di potere e lotte intestine al Csm, hanno turbato nel profondo Sergio Mattarella che ieri ha acceso un faro fra le differenze che separano il “correntismo” che infesta l’organo di autogoverno dei magistrati dall’etica e l’attaccamento al dovere che ha pervaso alcuni “servitori dello Stato” uccisi negli anni 80 dal terrorismo e dalla mafia. Commemorando gli anniversari dell’uccisione dei magistrati Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Giudo Galli, Mario Amato, Gaetano Costa e Rosario Livatino, il presidente ha inviato un monito alle toghe di oggi: “la fedeltà alla Costituzione è l’unica fedeltà richiesta ai servitori dello Stato. L’unica fedeltà alla quale attenersi e sentirsi vincolati”. Un messaggio che è necessario inviare per Mattarella, visto che l’inchiesta di Perugia “fornisce la percezione della vastità del fenomeno e fa intravedere un’ampia diffusione della grave distorsione sviluppatasi”. Sulla stessa lunghezza d’onda il ministro Alfonso Bonafede: “Ogni intervento riformatore che stiamo per portare avanti, dalla riduzione dei tempi del processo alla revisione dell’ordinamento giudiziario, deve mirare a consegnare al cittadino una giustizia, non soltanto più efficiente e celere, ma anche più credibile”. Ma a dare con grande forza il senso della degenerazione che l’ambiente vive in queste settimane è stato il vice presidente del Csm David Ermini: “le garantisco, signor Presidente, che l’abbrutimento etico dell’ordine giudiziario ha nell’attuale Csm l’avversario più tenace. C’è chi dovrà chiedere scusa. Contrastare ogni scoria correntizia e mantenere l’autogoverno nel solco tracciato dalla Carta costituzionale è già ora e ancor più lo sarà nei mesi a venire il nostro quotidiano assillo”, ha assicurato dal Quirinale. Nelle pieghe del severo discorso dedicato alla Giustizia il presidente ha voluto trovare spazio per una puntualizzazione. Che suona più o meno così: basta strattonarmi, chiedermi interventi di ogni tipo e genere che esulano dai miei poteri, io non ho la minima intenzione di espanderli sfruttando alcune debolezze della politica. “Si odono talvolta - ha detto Mattarella con sottile understatement - esortazioni, rivolte al Presidente della Repubblica, perché assuma questa o quell’altra iniziativa, senza riflettere sui limiti dei poteri assegnati dalla Carta ai diversi organi costituzionali” Mattarella fa sapere che non intendeva prima e non lo intenderà in futuro “ampliare” i poteri del Quirinale. “Non esistono motivazioni contingenti che possano giustificare l’alterazione della attribuzione dei compiti operata dalla Costituzione - ha sottolineato il Presidente - Qualunque arbitrio compiuto in nome di presunte buone ragioni aprirebbe la strada ad altri arbitri, per cattive ragioni”. Nuove accuse da Di Matteo: qualcuno disse a Bonafede di non scegliermi per il Dap di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 19 giugno 2020 L’ex pm: “Di Maio propose due volte di farmi ministro Diedi la disponibilità ma poi nessuno ha più chiamato”. “Non è una vicenda personale, ma istituzionale”, accusa l’ex pubblico ministero antimafia Nino Di Matteo, oggi componente del Consiglio superiore della magistratura. E nella sede istituzionale che per settimane ha evocato come il luogo per tornare a parlare del conflitto innescato con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sulla sua mancata nomina nel giugno 2018 a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, la commissione parlamentare antimafia, rilancia: “Nel momento del dietrofront mi fece chiaramente intendere che c’erano stati dinieghi o mancati gradimenti. A chi si riferisse può dirlo solo lui”. Subito dopo rivela: “Prima delle elezioni del 2018, in due occasioni, Luigi Di Maio mi chiese se ero disponibile a fare il ministro; la prima volta dell’interno o della Giustizia, la seconda dell’interno. Diedi una disponibilità di massima, ma poi nessuno mi ha più chiamato”. Un precedente che nella lettura di Di Matteo rafforza i dubbi sul “dietrofront” di Bonafede, e gli fa dire: “Che segnale diamo alla mafia? Non c’è da fare nessuna pace con il ministro perché non c’è stata una guerra; non è un problema di invidiuzze o posti da reclamare, bensì una questione dalle implicazioni istituzionali”. Il presidente dell’antimafia Nicola Morra chiosa: “Mi pare che il dottor Di Matteo abbia parlato con sufficiente chiarezza”. Ora in commissione si aprirà la battaglia sull’audizione di Bonafede, ministro grillino che ha contro un pezzo di Movimento. Le opposizioni hanno già annunciato la richiesta, così come Mario Giarrusso, espulso dal M5S. Non a caso i commissari dei Cinque Stelle provano a contrastare o ridimensionare le dichiarazioni di Di Matteo, tentando di proteggere il Guardasigilli. Mentre il commissario del Partito democratico Walter Verini fa sgombrare il campo almeno da una questione; su sua domanda l’ex pm precisa che se avesse avuto elementi per dire che dietro la sua mancata nomina c’erano indizi di una nuova trattativa tra lo Stato e la mafia, il magistrato ha risposto che non si sarebbe limitato a fare una telefonata in diretta tv: “Sarei andato in una Procura della Repubblica”. Tuttavia gli affondi di Di Matteo non si fermano. Ricorda che per motivare il suo ripensamento Bonafede cercò di sminuire il ruolo del Dap rispetto all’impegno antimafia, mostrando - dice ora l’ex pm - “di non essere in grado di valutare bene determinate dinamiche della lotta alla mafia. La corretta gestione del circuito carcerario è centrale nel contrasto alle organizzazioni mafiose, sia per dare sostanza al “41bis”, sia per evitare inquinamenti da parte dei servizi segreti, sia per la valorizzazione delle attività della polizia penitenziaria a scopi informativi e investigativi”. Inoltre l’alleggerimento del “carcere duro” è sempre stato un pallino dei boss, da Totò Riina in giù, e sebbene il magistrato non abbia prove riaffiorano i sospetti, soprattutto dopo le scarcerazioni legate all’emergenza Covid: “Sono state un segnale devastante, da parte della mafia può essere stato interpretato come un cedimento, e un motivo speranza per loro”. Per il magistrato che ha istruito e condotto il processo sui contatti tra capimafia e esponenti delle istituzioni “non si tratta di trattativa”, ma poi aggiunge: “È chiaro che le scarcerazioni a me hanno fatto venire in mente le vicende vissute a Palermo, e una possibile analogia con il ricatto portato avanti con le bombe del 1993, di cui ci parlò l’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano. Ero preoccupato perché c’erano state le rivolte nei penitenziari, e si pensava che potevano essere state organizzate a un livello più alto dei detenuti saliti sui tetti”. Opinioni, impressioni, sensazioni. Cosa diversa, però, dalle “percezioni” su cui ha recriminato Bonafede a proposito di quel colloquio del 2018. “Ridurre tutto a un malinteso o una percezione sbagliata non è corretto - accusa ancora l’ex pm - perché significa farmi passare per uno che non capisce”. Capì invece benissimo, ribadisce, che qualcuno indusse il ministro grillino a cambiare idea. Ora l’ha capito pure l’antimafia; prossimo capitolo: il prevedibile scontro sulla convocazione di Bonafede. Di Matteo: “Io capo del Dap perché sono stato fondamentale nelle indagini sulla trattativa” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 giugno 2020 Voleva con piacere diventare capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) perché lo riteneva importante nella lotta alla mafia, soprattutto a seguito delle sue indagini sulla trattativa Stato-mafia dove il Dap - secondo la tesi giudiziaria - avrebbe ricoperto un ruolo importante. Lo ha spiegato ieri il consigliere del Csm Nino Di Matteo davanti alla commissione Antimafia per chiarire i motivi che l’hanno spinto ad accogliere la proposta iniziale che gli fece il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a giugno del 2018. Il consigliere del Csm ha, quindi, ripercorso gli eventi che sono al centro del dibattito dopo il suo intervento a Non è L’Arena, il programma di Massimo Giletti su la7. “Nel 2018 ricevetti una telefonata dal ministro Bonafede - ha raccontato Di Matteo - all’epoca ero sostituto procuratore antimafia e mi disse che aveva pensato a me come capo del Dap o come direttore degli Affari penali, ma su quest’ultima ipotesi il guardasigilli mi spiegò che quella nomina avrebbe avuto un ruolo simbolico visto che fu occupato da Falcone. Mi propose quindi di fare o subito il capo del Dap oppure di accettare un eventuale futuro ruolo agli affari penale se avesse convinto Donatella Donati a dimettersi da quell’incarico dato precedentemente dall’ex ministro Orlando”. Il magistrato Di Mattero poi ha proseguito: “Il ministro mi disse che voleva una riposta immediata perché avrebbe voluto sfruttare il plenum del Csm per poter attivare la richiesta di collocamento fuori ruolo. Io, quindi, preso atto di questa urgenza egli riferì che l’indomani mi sarei recato direttamente da lui per fornirgli una risposta”. Di Matteo ha poi aggiunto che, sempre al telefono, disse al guardasigilli che c’è una nota del Gom dove riferisce delle proteste di alcuni detenuti al 41bis contro una sua eventuale nomina. “Mi colpì il fatto - ha spiegato sempre Di Matteo alla commissione antimafia - che in quella nota era allegata una relazione nella quale veniva riportato un episodio di un detenuto al 41bis che dette l’ordine, urlando da un piano all’altro, di fare una istanza al magistrato di sorveglianza per lamentarsi. Il ministro mi disse di essere informato delle reazioni, senza scendere nei particolari”. Di Matteo ha spiegato che sempre quello stesso pomeriggio, oltre ai suoi familiari, riferii la telefonata a qualche suo collega amico e anche al giornalista Saverio Lodato. “Il giorno dopo - ha spiegato sempre Di Matteo sono andato dal ministro Bonafede con l’intenzione di dirgli che avrei accettato l’incarico di capo del Dap. Non ho avuto dubbi ad accettare quell’incarico - ha sottolineato - perché molte indagini giudiziarie mi avevano fatto saper comprendere quanto una gestione corretta ed efficace del sistema penitenziario sarebbe stato importante per combattere la mafia. Tutto questo è stato soprattutto grazie all’indagine sulla trattativa e le stragi in generale!”. Di Matteo ha spiegato che si incontrò con Bonafede, presso il ministero della Giustizia, alle 11 di mattina del 19 giugno 2018 e disse subito che accettava l’incarico al Dap. “A quel punto - ha proseguito con il racconto - con mia sorpresa, Bonafede mi disse che in fondo il capo del Dap non era adatto a lui, visto che aveva compiti come la gestione degli appalti, il rapportarsi con i sindacati di polizia penitenziaria, opere trattamentali. Ma io gli riposi - ha raccontato di Matteo - che noi che abbiamo fatto l’indagine a Palermo, sappiamo quanto sia stato importante il sistema penitenziario per il 41bis e la trattativa e che anche l’aspetto di quel tipo di detenzione è importante visto che ancora sono reclusi diversi capi storici della mafia”. Ma nulla da fare. Di Matteo ha spiegato che quello stesso giorno Bonafede avrebbe già scelto Francesco Basentini come capo del Dap facendo la richiesta al Csm e che avrebbe insistito per fargli accettare di ricoprire il ruolo agli affari penali perché non c’erano - avrebbe detto Bonafede - “dinieghi o mancati gradimenti che tengano”. “Quell’amarezza l’ho tenuta per me - ha spiegato accoratamente Di Matteo - quei fatti l’ho raccontati a pochissime persone tra cui Tartaglia, Ingroia, Piscitello, Ardita. Oltre a Saverio Lodato, altri giornalisti lo sapevano e volevano dichiarazioni ma non volevo rilasciare interviste per motivi istituzionali perché non volevo delegittimare il ruolo del ministro”. Ma poi cosa è accaduto? Nell’ultimo periodo, prima dell’intervento nella trasmissione di Giletti, secondo Di Matteo sarebbero accadute molte cose strane. Quali? Le rivolte carcerarie, le centinaia di “scarcerazioni” di soggetti detenuti per mafia, la famosa circolare del 21 marzo, le dimissioni di Basentini. “Iniziavano a filtrare le voci che il capo del Dap sarei stato io. Alcuni giornali - ha spiegato Di Matteo - facevano polemiche sul mio nome. Poi quando da Giletti dissero che c’erano state trattative per il mio nome, allora sono intervenuto”. Di Matteo ha ribadito anche che, secondo lui, le rivolte carcerarie e la scarcerazione dei mafiosi (in realtà si tratta di detenzione domiciliare) avrebbero analogie con la trattativa che sarebbe avvenuta nel 1993. Ancora una volta ritorna il feticcio del teorema della trattativa che, ricordiamo, non ha nessuna sentenza definitiva che lo consolidi, mentre sono definitive altre sentenze che sconfessano tale tesi. Ricordiamo anche che il Dap non può essere gestito come se fosse una specie di succursale di qualche procura dell’antimafia e nemmeno può essere diretto secondo una visione dietrologica degli avvenimenti. La gestione delle carceri richiede una visione generale che tenga conto di bisogni educativi, di integrazione sociale, di salute e di sicurezza. Non può ridursi al 41bis o alta sorveglianza che rappresenta una piccolissima percentuale della popolazione detenuta. Nel frattempo i componenti della commissione Antimafia richiedono a gran voce di essere audito Bonafede. Si vorrà chiarire una volta per tutte cosa sia accaduto e, soprattutto, chi gli ha fatto cambiare idea sulla scelta di Di Matteo. Stati generali della giustizia, ma allargati. Sette riforme per andare oltre il contingente di Daniela Piana Il Dubbio, 19 giugno 2020 È vero che viviamo in tempi fuori dall’ordinario. Ma è pur anche vero che il senso della storia talvolta aiuta. La prima volta in cui sono apparsi gli Stati generali in un sistema sociale e politico della modernità essi avevano senza alcun dubbio il connotato di un rito e di un meccanismo di legittimazione esterna della macchina dell’esercizio del potere. È tempo che vi siano gli Stati generali del sistema giustizia. Tre ragioni, di metodo e di merito, chiedono ad alta voce che ciò accada. La prima attiene al fatto che nessuna riforma credibile del sistema giustizia potrà adeguatamente essere progettata e realisticamente essere attuata senza che, sin dalla sua ideazione, non sia ispirata e supportata da due fondamentali: l’esperienza, diversa, complementare, dialettica, ma indistricabile, delle parti- voci che partecipano alla vita organizzativa ed istituzionale del sistema “giustizia” nel suo complesso, avvocatura, magistratura, personale amministrativo. La seconda ragione attiene al fatto che nessun intervento di lungo periodo - e non sarebbe uno scenario che il cittadino intenderebbe vedere quello di un utilizzo frammentato e non sostenibile del recovery fund - può essere fatto senza sapere esattamente quali sono gli effetti di interdipendenza fra le varie misure prese per la giustizia del XXI secolo: investire sulla riforma delle intercettazioni significa investire sulla cyber security; investire sul processo civile telematico presso il giudice di pace significa porsi il problema dei riti della giustizia; investire sugli sportelli all’utenza significa investire sulle diverse articolazioni extra giurisdizionali, e così di seguito. La terza ragione è che, lo si è detto ma è bene ricordarlo, ci è data la responsabilità di pensare al sistema “giustizia” del 2030. Una responsabilità grande, che appunto merita, come quando ci si accinge a sottoscrivere un “patto sulle regole del gioco” un patto per la ‘architettura’ di cui il sistema “giustizia” ha bisogno, di un metodo da grandi occasioni: gli Stati generali. Chi deve sedere al tavolo? Il Cnf, il Csm, il Ministero della Giustizia, partecipanti d’obbligo: ma non lasciamoli da soli! Abbiamo bisogno che a quel tavolo seggano anche quegli attori istituzionali, economici e sociali che di una giustizia che funziona e che sia servizio intelligibile e affidabile hanno bisogno, hanno bisogno, per potere al meglio investire, non tanto sul piano materiale, quanto sul piano fiduciario, verso il futuro. Senza regole e diritti certi che siano tutelati i secondi e rispettate le prime in modo diffuso quale fiducia mai potrebbe esistere a livello sistemico? E la parola sistema pare ricorrere come un matra... Chiamiamo a quel tavolo Unioncamere, chiamiamo Legambiente, chiamiamo Il Forum del terzo settore e le Associazione dei consumatori, chiamiamo i Comuni, chiamiamo la piattaforma delle professionalità tecniche. E sono solo alcuni esempi. Facciamo una Air (analisi di impatto della regolazione) del progetto di sistema “giustizia” che vogliamo per il 2030: rigorosa, partecipata, accountable, comprensibile al cittadino. E investiamo su ciò che ha la capacità di durare nel tempo e che non può attendere oltre: 1) Edilizia giudiziaria: gli spazi di giustizia del XXI secondo sono spazi pensati con l’anima verde e quella civica dentro, che sono già progettati sapendo che una parte della giustizia il cittadino non la chiede alla giurisdizione ma in spazi extra giudiziali, come la mediazione, e che una parte delle funzioni sono espletate - soprattutto quelle di carattere amministrativo, contabile, e tutto ciò che è gestione e razionalizzazione degli accessi - anche in remoto. 2) Spazi ibridi. Cyber security e gestione banche dati. La giustizia del XXI è una giustizia che chiede di prendere sul serio il potenziale di conoscenza che esiste nelle banche dati e che si confronta con responsabilità inter- temporale con il tema della sicurezza. La qualità del dato va insieme alla qualità della conoscenza sul sistema giustizia, di cui al punto c. 3) Osservatorio integrato su ricerca monitoraggio analisi e valutazione del sistema giustizia, che presidi in modo inter- professionale - con la voce di Cnf, Csm, Ministero della giustizia - e in un dialogo permanente con le università la qualità del sistema, comprensiva di buona gestione, crescita delle professionalità, quality assurance rispetto a rischi, buona governance tecnologica. 4) Creazione di macro- direzioni inter- regionali che diventino lo snodo di interfaccia sul territorio della governance del sistema “giustizia” con le altre funzioni della governance pubblica, fra cui sanità, protezione civile, in rete con le istituzioni stakeholders. 5) Investimento sulla dotazione tecnologica per la giustizia di prossimità ovvero per la risposta capillare al contenzioso che più tocca la vita dei cittadini ed in particolare delle fasce deboli, ivi compreso il giudice di pace. 6) Investimento su uffici distrettuali a composizione professionale ibrida - avvocatura e personale amministrativo e personale togato insieme con applicazioni di competenze esterne per ambiti come la statistica, gare e appalti. 7) Investimento sull’impianto edilizio carcerario pensato sin dall’inizio in conformità con lo spirito e gli esiti già sul campo della riforma della messa alla prova. Sette riforme, sette investimenti: non per utilizzare i fondi, ma per darsi la chance, finalmente, grazie al recovery fund, di pensare insieme, bene, e per qualcosa che vada oltre cicli di legittimazione rappresentativa contingenti, comprensibili, certo, ma ai cittadini sempre più alieni. Thyssen, la giustizia non è negata di Claudio Cerasa Il Foglio, 19 giugno 2020 Le condanne ci sono. L’esecuzione della pena spetta agli stati, non alle vittime. “Ci vergogniamo dell’Italia e ci vergogniamo della Germania, non possono zittirci”. “Ci incateneremo a Roma. Andremo a Essen”. È stata drammatica, piena di rabbia, la reazione dei famigliari delle vittime del rogo alla ThyssenKrupp di Torino nel 2007 alla notizia della concessione della semilibertà ai due manager tedeschi, Gerald Priegnitz e Harald Espenhahn, in base alla legge del paese che prevede un massimo di cinque anni di detenzione per il reato di omicidio colposo aggravato. La sentenza italiana di Cassazione del 2014 aveva confermato le condanne. A differenza dei quattro manager italiani del gruppo condannati e incarcerati in Italia, i due tedeschi avrebbero dovuto scontare la pena nel proprio paese. Ma, e questo è invero inaccettabile, siamo pur sempre nell’Unione europea, il mandato di cattura internazionale nei loro confronti non è mai stato eseguito. E ora scattano le misure di legge previste in Germania. Il dolore e il senso di giustizia negata delle vittime va sempre rispettato e mai giudicato. Ma non può essere nemmeno disgiunto da considerazioni che riguardano il valore e il senso della giustizia dei tribunali. Una sentenza è stata emessa, i colpevoli riconosciuti, la giustizia è stata in questo modo (l’unico possibile) ricostruita. Ma nessuno potrà ridare ai propri cari le vite che sono state tolte. L’esecuzione della pena - poiché viviamo in stati (europei) di diritto - è affidata alle leggi e alla magistratura e non al sentimento, per quanto comprensibile, dei congiunti delle vittime. Il procuratore generale di Torino Francesco Enrico Saluzzo ha commentato: “Comprendo bene lo sconforto e la delusione dei parenti, ma parliamo dell’esecuzione della pena regolata dalla legge di uno stato estero, adesso non possiamo più fare nulla”. È una constatazione amara, ma molto più aderente ai fatti e al diritto che non le dichiarazioni della sindaca di Torino Chiara Appendino: “È uno schiaffo alla loro battaglia e la città continuerà a schierarsi al fianco delle mamme”, nei toni del più schietto populismo giudiziario. Che andrebbe invece sottoposto al tribunale della ragione. Il procuratore generale Saluzzo: “Sulla Thyssen fatto tutto il possibile” di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 19 giugno 2020 Il procuratore generale dopo la semilibertà ai manager. “La decisione del Tribunale di Essen non può più essere messa in discussione, noi abbiamo fatto il possibile”. Le parole del procuratore generale Francesco Saluzzo sono la presa d’atto di una sconfitta. La battaglia per i sette operai morti nel rogo della Thyssen e per le loro famiglie è stata lunga. Ma alla fine non resta che accettare un verdetto che ha il sapore del fallimento. “La decisione del Tribunale di Essen non può più essere messa in discussione”. Le parole del procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo sono la presa d’atto di una sconfitta. La battaglia per i sette operai morti nel rogo della Thyssen e per le loro famiglie è stata lunga e complicata. Ma alla fine non resta che accettare un verdetto che ha il sapore del fallimento. Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz, i due manager della multinazionale tedesca condannati per il rogo nelle acciaierie torinesi, non sconteranno neanche un giorno di carcere pieno. I giudici tedeschi hanno concesso a entrambi la semilibertà: dovranno rientrare in cella la notte, di giorno potranno continuare a lavorare in azienda. Ieri mattina i parenti delle vittime hanno dato vita a un sit-in di fronte al Palazzo di Giustizia. Il loro sfogo non è rimasto inascoltato. Il procuratore generale li ha accolti nel proprio ufficio. “La giustizia di sconfitte ne subisce tante, è stato un percorso a ostacoli. E alla fine, quando è stato il momento di affrontare l’ultimo, il risultato è stato meno importante di quanto ci aspettassimo” ha spiegato Saluzzo. “Credo di comprendere bene il vostro sconforto e la vostra rabbia, però parliamo dell’esecuzione della pena regolata dalla legge di uno Stato estero - ha aggiunto -. Noi abbiamo fatto tutto il possibile. Siamo arrivati all’esecuzione, ma su come la declina la Germania non possiamo far nulla. Non possiamo intervenire. E neanche il Governo. Le nostre rimostranze non sono in grado di indurre il Tribunale a rivedere la decisione”. La realtà è questa e la Procura generale non si nasconde, pur rivendicando il lavoro e gli sforzi di questi anni. “Abbiamo agito in tempi rapidi e abbiamo eliminato tutti i fattori che avrebbero potuto portare a ulteriori rallentamenti - ha insistito Saluzzo. Se avessi potuto dirvi che i due erano in carcere, lo avrei fatto subito”. Il magistrato ha messo a nudo l’amara realtà. “Non possiamo accettarlo - ha replicato Laura Rodinò, sorella di Rosario. L’errore è stato condannarli per un reato colposo e non doloso. Il governo doveva monitorare il processo”. “Il procuratore Raffaele Guariniello e i pm Laura Longo e Francesca Traverso non si sono risparmiati - ha rimarcato Saluzzo - hanno convintamente sostenuto l’omicidio doloso. Ma i giudici hanno deciso diversamente”. I familiari delle sette vittime hanno poi incontrato la sindaca a Palazzo Civico. Chiara Appendino ha annunciato che sarà con loro a Roma, quando incontreranno il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: “Questo è uno schiaffo alla loro battaglia. La Città, come ha fatto in passato, continuerà a schierarsi al loro fianco. Siamo vicini alle mamme”. Presenti anche i responsabili della sicurezza di Cgil, Cisl e Uil: “La rabbia e l’incredulità delle famiglie sono giustificate. E ci sembra incredibile che i due manager continuino a lavorare per la Thyssen dopo quello che è successo”. Ergastolo ostativo, arriva alla Consulta anche la questione della liberazione condizionale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2020 Corte di cassazione - Sezione I Penale - Ordinanza 18 giugno 2020 n. 18518. La Cassazione apre un nuovo capitolo sull’ergastolo ostativo rinviando alla Consulta il quesito sulla legittimità costituzionale delle norme che impediscono la concessione del beneficio della liberazione condizionale - a meno di una formale collaborazione - a chi è stato condannato alla pena perpetua per reati di mafia. La Corte di cassazione con l’ordinanza n.18518 depositata ieri ha, infatti rinviato alla Corte costituzionale la questione sulla legittimità degli articoli 4 bis e 58 ter dell’ordinamento penitenziario e dell’articolo 2 del Dl 152/91 nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’articolo 416 bis del Codice penale e che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale. L’orientamento - La Cassazione facendo perno soprattutto sulla giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo con la nota sentenza Viola contro Italia e sulla connessa sentenza costituzionale n. 253/2019 ha ritenuto ormai acclarato il principio secondo il quale i benefici in sede di espiazione della pena dell’ergastolo per mafia non possono essere governati da automatismi preclusivi, quale appunto il requisito di essere collaboratore di giustizia. La collaborazione con gli inquirenti o l’accertata impossibilità di realizzarla assurge nel meccanismo attualmente in vigore a specifico requisito per poter accedere al riconoscimento dei periodi di liberazione anticipata ai fini della concessione della liberazione condizionale rendendo, di fatto, del tutto irrilevante il percorso rieducativo e la reale dissociazione dalla criminalità organizzata di colui che, però di fatto, non ha collaborato. Ciò nettamente contrasta con il terzo comma dell’articolo 27 della Carta costituzionale che pone al centro dello scopo della pena comminata la sua finalità rieducativa. Mentre, al contrario, l’ergastolo è stato ammesso come legittimo dalla giurisprudenza sovranazionale e nazionale solo se è possibile la valutazione dell’effettiva risocializzazione del condannato detenuto. Cioè la risocializzazione dell’ergastolano non può essere esclusa a priori e accertata solo tramite l’avvenuta collaborazione. La Cassazione nella decisione di rinvio costituzionale usa parole quali il “diritto alla speranza” e la “libertà di collaborare”, come diritti e libertà che non possono essere negati neanche ai condannati per i reati previsti dalle norme ora poste al vaglio della giustizia costituzionale. Campania. Come funziona la sanità nelle prigioni, l’ergastolo bianco dei detenuti di Viviana Lanza Il Riformista, 19 giugno 2020 Salute e carcere. C’è un aspetto di questo binomio in cui si addensano le maggiori criticità. È quello della tutela della salute psichica delle persone condannate. In genere i posti nelle sezioni specializzate non sono sufficienti e i ricoveri lunghi diventano una sorta di “ergastolo bianco” come segnalato dal Garante regionale dei detenuti. Pur volendo considerare una situazione (e purtroppo non dappertutto è la normalità) in cui gli stessi diritti di salute garantiti fuori vengono egualmente garantiti dentro il carcere, appare evidente che il carcere, per sua stessa natura, può comprimere diritti individuali. La reclusione, la privazione della libertà, la condizione di dipendenza del detenuto per diverse necessità del vivere quotidiano finiscono inevitabilmente per incidere sulla sua sfera psicologica. E tutto si complica quando ci sono patologie pregresse, in quel caso la compatibilità tra carcere e salute mentale diventa davvero difficile. “Nonostante i ripetuti richiami degli organismi internazionali, che rispecchiano peraltro l’ispirazione originaria della riforma sanitaria - si legge nella relazione del garante regionale dei detenuti - prevale l’idea che la tutela della salute mentale equivalga ad assicurare solo servizi psichiatrici specialistici, in linea con la più generale tendenza a confondere la salute con la sanità”. I dati dell’ultimo anno aiutano a comprendere le dimensioni del problema. Almeno un migliaio di detenuti con disagi mentali si trova negli istituti normali e 1.200 detenuti sono in istituti specifici. In carcere le patologie più diffuse sono schizofrenia e disturbi psicotici (in genere relativi a situazioni precedenti alla detenzione), disturbi dell’umore (frequente la depressione come reazione allo stato detentivo), disturbi d’ansia e psicosi indotte dall’uso di particolari sostanze. Non mancano casi di disturbi della personalità nei confronti dei quali il trattamento in carcere appare più complicato. Quando il governo ha provveduto a svuotare gli ospedali psichiatrici giudiziari per riportare la gran parte die malati in carcere, all’interno degli istituti di pena sono state attivate sezioni specializzate. A Napoli è il carcere di Secondigliano a ospitare un’articolazione di salute mentale con diciotto posti letto. La durata media del ricovero oscilla tra uno e cinque mesi, se non addirittura anni. “Tali situazioni - spiega il garante Ciambriello nel report annuale - non solo rischiano di acutizzare e cronicizzare le stesse manifestazioni psichiche dei detenuti degenti ma impediscono un corretto usufrutto da parte degli altri detenuti che in media superano di gran lunga la capacità dei posti all’interno di tali reparti speciali”. Le sezioni cliniche di salute mentale dovrebbero funzionare come luoghi transitori, per preparare programmi terapeutici e riabilitativi da eseguirsi sul territorio. “Di fatto invece - si denuncia nel report - i detenuti che transitano in questi spazi vi restano in maniera cronica, quasi a ripetere la triste situazione di un ergastolo bianco”. Campania. Le misure alternative funzionano bene, ma manca personale negli Uepe di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 19 giugno 2020 Utilizzati per decongestionare le carceri campane, decine di programmi di reinserimento rischiano lo stop a causa della mancanza di assistenti sociali: è indispensabile un piano mirato. Le carceri della Campania scoppiano. E così misure alternative alla detenzione, a cominciare dalla messa alla prova e dall’affidamento al servizio sociale, appaiono decisive per decongestionare le celle e rieducare i reclusi. Il problema è che gli uffici dell’esecuzione penale esterna non dispongono di un numero sufficiente di assistenti sociali, educatori e agenti di polizia penitenziaria. “Una difficoltà organizzativa seria e concreta”, si legge nella relazione annuale sulle condizioni degli istituti penitenziari della Campania: parole che impongono un intervento rapido e drastico, indispensabile per contrastare il sovraffollamento ed evitare che tanti progetti subiscano un brusco stop. Secondo le stime ufficiali, in Campania i soggetti affidati agli uffici dell’esecuzione penale esterna sono stati circa 9mila, addirittura 3mila in più rispetto al 2018. Il dato è tanto più significativo se si pensa che in altre regioni, come la Calabria con le sue cinque province, quel numero non supera le 3mila e 600 unità. Solo in Lombardia, che però conta sette province, i detenuti in esecuzione penale esterna sono più di 16mila. Se si pensa che i soggetti in esecuzione penale esterna dovrebbero essere circa 4mila e 800 a regione, si comprende la proporzione enormemente maggiore dei dati campani. Che cosa vuol dire? “Nella nostra regione si registra una concezione della pena rieducativa più che punitiva - si legge nella relazione annuale firmata dal garante dei detenuti - che è però collegata alla difficile situazione del sovraffollamento carcerario”. In altre parole, ai detenuti che debbano scontare pene non superiore ai quattro anni per determinati reati si concedono l’affidamento in prova ai servizi sociali, la detenzione domiciliare, la semilibertà o il lavoro di pubblica utilità per contenere il caos nelle prigioni. Questo largo ricorso alle misure alternative, però, presuppone che gli uffici preposti siano dotati del personale necessario. Servono fi gure che aiutino e controllino le persone sottoposte a messa alla prova o affidate al servizio sociale, che sostengano i condannati nel lavoro di pubblica utilità, che indaghino sulla situazione individuale e socio-familiare di quanti chiedano di essere ammessi alle misure alternative, che forniscano consulenze ai vertici degli istituti penitenziari per favorire il buon esito del trattamento. In Campania ci sono? Sì, ma non a sufficienza. Basti pensare all’ufficio per l’esecuzione penale esterna di Napoli, dove si contano soltanto 34 assistenti sociali, 24 amministrativi, nove poliziotti, tre psicologi e 12 esperti del servizio sociale chiamati a seguire quasi 6mila soggetti. E le carenze di personale sono altrettanto evidenti nelle altre province della Campania. Eppure l’esperienza regionale dimostra quanto sia importante, per i detenuti, accedere alle misure alternative e ricostruire, seguendo questa strada, un futuro fuori dal carcere. A Napoli, per esempio, il progetto Obiettivo Persona ha consentito la realizzazione di visite guidate a carattere culturale e l’attivazione di gruppi di discussione di cui sono stati protagonisti i detenuti ai domiciliari. I progetti Apitour e Terra Felix hanno portato all’attivazione di tirocini formativi rispettivamente nel campo dell’apicoltura e dell’agricoltura, senza dimenticare i percorsi di sostegno alla genitorialità, i laboratori di ceramica e le azioni di riqualificazione urbana che hanno visto impegnati migliaia di detenuti. Con risultati incoraggianti anche sotto altri aspetti: rispetto alla cosiddetta popolazione ristretta, cioè alle persone che si trovano in cella, tra i detenuti in esecuzione penale esterna si registra un minore tasso di tentativi di suicidi ed evasioni. E le revoche, disposte quando il detenuto non osservi o violi apertamente le prescrizioni, non superano il 4 per cento. Segno che, quanto più il condannato o l’imputato è seguito attentamente e da vicino dal centro di servizio sociale, tanto più alta è la probabilità che la misura alternativa alla detenzione sortisca gli effetti sperati. “È indispensabile creare una rete sul territorio più solida che consenta agli utenti di trovare altre opportunità di sussistenza e appartenenza - si legge nella relazione del garante dei detenuti - I dati sul personale, sulle azioni e sui progetti realizzati devono essere messi al centro di tavoli di discussione della politica affinché le scelte di quest’ultima siano congrue e rispondenti alle esigenze della realtà carceraria”. Toscana. Una nuova cabina di regia per progetti su carcere e inclusione di Antonella Barone gnewsonline.it, 19 giugno 2020 La Giunta della Regione Toscana, nella seduta del 15 giugno, ha ridefinito la composizione e ampliato le funzioni della Cabina di regia per il coordinamento delle politiche regionali penitenziarie, istituita nel 2008. Oltre a occuparsi di specifica progettazione di livello territoriale e regionale riguardante tutta l’area penale, il nuovo organismo dovrà curare i rapporti con i Tavoli nazionali che si occupano di questioni penitenziarie e di esecuzione penale esterna, operare in coordinamento con l’Osservatorio permanente sulla Sanità penitenziaria; collaborare con il Centro Regionale Criticità Relazionali, sia per la tematica relativa alla Salute carcere che per quella correlata alla costruzione di Reti territoriali per Comunità. Tra i componenti della “Cabina di regia per il coordinamento delle politiche regionali in ambito penitenziario e di esecuzione penale esterna” - questa la nuova denominazione -, il Provveditore Regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Toscana e l’Umbria, i direttori del Centro di Giustizia Minorile e dell’Uiepe (Ufficio Interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna) di Toscana-Umbria, e due dipendenti del Servizio Sanitario Regionale esperti in ambito penitenziario. L’esigenza di ridefinire le funzioni della Cabina, è stata determinata anche dai contenuti dell’accordo nazionale tra Conferenza delle Regioni e Cassa delle Ammende siglato il 26 luglio 2018 con l’obiettivo di rafforzare il campo di azione delle politiche di inclusione sociale. A marzo scorso è stata approvata una convenzione della regione Toscana con la Cassa delle Ammende per il finanziamento di un gruppo articolato di progetti finalizzati a costruire opportunità di lavoro, studio e formazione per persone in esecuzione penale. Santa Maria Capua Vetere. Lo stress diventa contagioso: ammalati 130 agenti di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 19 giugno 2020 Non è risolta la crisi del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Se due giorni fa tra gli agenti della polizia penitenziaria in servizio i malati per stress da lavoro erano 100, oggi sono diventati 130, e la gestione ordinaria della struttura “è ormai insostenibile”. Voci dall’interno del penitenziario confermano come, dopo il doppio episodio che ha fatto schizzare alla ribalta della cronaca la struttura carceraria casertana, le condizioni di lavoro non siano assolutamente migliorate. La notifica degli avvisi di garanzia da parte dei carabinieri agli agenti penitenziari di giovedì 11 giugno e la rivolta dei detenuti di sabato 13 giugno hanno lasciato strascichi significativi tra gli agenti, che non riescono più a sopportare l’atmosfera che si respira; i circa 80 uomini del Gom (Gruppo operativo mobile) inviati dai vertici del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) come rinforzo non hanno compiti di servizio, per cui qualcuno, specie tra i sindacalisti, li giudica anche poco utili. Con i 130 poliziotti malati, in servizio ora ce ne sono poco meno di 250: è quasi impossibile far funzionare bene il carcere. Sul caso di Santa Maria Capua Vetere era intervenuto ieri il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, con notizie di tenore diverso: il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sta adottando tutti i provvedimenti di sua competenza nei confronti dei detenuti responsabili dei disordini “e già nell’immediatezza dei fatti - ha ribadito il ministro - ha disposto il trasferimento di tre detenuti ascritti al circuito Alta sicurezza e di quattro ascritti al circuito Media sicurezza”. Bonafede è intervenuto al question time: “Il personale del Gom, subito intervenuto in supporto, è stato impiegato per il rinforzo di tutti i reparti detentivi e sono stati predisposti gli atti per l’assegnazione, in via provvisoria, presso la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, di complessive 40 unità del Corpo di polizia penitenziaria per permettere di superare il momento di contingente complessità che si è venuto a creare”. Bonafede aveva poi sottolineato la “particolare attenzione” del ministero al Corpo di polizia penitenziaria: “da quando sono ministro sono stati immessi in ruolo complessivamente 3931 agenti e 256 unità di personale amministrativo, mentre sono oltre 6.000 le assunzioni complessive già programmate per i prossimi anni, tra amministrativi e militari)”. È inoltre in corso “il riordino delle carriere con l’obiettivo di allargarne gli orizzonti di crescita professionale, migliorarne la funzionalità organizzativa, così da equipararne la progressione a quella delle altre forze armate”. Il ministro, al quale le opposizioni non hanno risparmiato critiche, ha parlato anche di altri argomenti, stavolta però su Facebook: “Oggi, con il via libera del Senato alla fiducia sul decreto “carceri e intercettazioni”, compiamo un altro passo importante per il miglioramento del sistema giustizia. Il decreto adesso passerà alla Camera dei deputati per la definitiva conversione in legge”. “A causa dell’emergenza Coronavirus, è stato necessario prorogare l’entrata in vigore della riforma sulle intercettazioni, una legge importante che potenzia un fondamentale strumento d’indagine salvaguardando la privacy dei cittadini”, ha ricorda Bonafede. La legge “prevede inoltre che siano richiesti stabilmente i pareri delle procure antimafia per la concessione della detenzione domiciliare nei confronti dei reclusi per gravi reati”. Critico sul punto il Csm: “Il sistema di rivalutazioni” previsto dal decreto, con cadenza quindicinale e poi mensile, “per la serrata tempistica con la quale essi devono intervenire e per la complessità degli accertamenti da svolgere periodicamente, determinerà un notevole aggravio del lavoro della magistratura di sorveglianza, le cui attività hanno subìto un notevole incremento in concomitanza dell’emergenza Covid-19”. Santa Maria Capua Vetere. “Acqua gialla dai rubinetti, i detenuti hanno macchie sulla pelle” edizionecaserta.net, 19 giugno 2020 “Nel carcere è ritornata la calma e si lavora nel rispetto dei ruoli di tutti. Il clima resta però per certi versi pesante, visto che nello stesso luogo si trovano denuncianti e denunciati”. È quanto ha affermato il Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, che oggi si è recato al carcere di Santa Maria Capua Vetere dove ha visitato i padiglioni Danubio, Nilo e Tamigi, ascoltando i detenuti delle diverse sezioni in cui ci sono state recentemente proteste, scioperi della fame, tentativi di rivolte e presunte violenze della Polizia Penitenziaria. Sono 57 gli agenti indagati dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere per reati come la tortura, in relazione proprio ai presunti pestaggi commessi ai danni dei detenuti il sei aprile scorso; tutti sono ancora in servizio - molti si sono però dati malati per stress da lavoro - così come non sono stati ancora trasferiti i detenuti che hanno presentato denuncia contro gli agenti per i fatti di aprile. “Esprimo la mia fiducia - ha detto Ciambriello - nell’operato della magistratura e confido nell’accertamento della verità, condizione essenziale per il rafforzamento della giustizia. Anche oggi parlando con alcuni agenti ho manifestato il mio apprezzamento per il delicato e proficuo lavoro che svolgono tutti i giorni. Non ritengo che siano venuti meno gli elementi su cui in questi anni ho fondato il mio giudizio positivo sul loro operato”. “Alla politica - ha aggiunto - dico di non essere né parolaia né populista, e di mettere in campo progetti concreti per le carceri e gli operatori penitenziari. Bisogna evitare strumentalizzazioni e polemiche pretestuose”. Nel corso della visita, Ciambriello ha parlato lungamente anche con il responsabile sanitario del carcere e con i medici e gli psicologi dell’Asl presenti nell’istituto. “Ho verificato - ha spiegato il Garante - che l’acqua dei rubinetti e delle docce è gialla e continua a causare irritazioni cutanee alla popolazione detenuta. Qui come altrove ho constatato che il carcere non può essere solo contenimento ma deve essere soprattutto accudimento, sulla scia del dettato costituzionale che definisce il carcere e le pene come strumenti per rieducare”. Milano. Il vecchio decrepito San Vittore ha vinto la battaglia con il virus di Fabrizio Ravelli La Repubblica, 19 giugno 2020 C’è un posto a Milano dove l’emergenza Covid è stata affrontata in maniera eccellente. E forse non tutti sanno che, direbbe la Settimana enigmistica, questo luogo è il carcere di San Vittore. Sì, proprio il vecchio, decrepito, sovraffollato, anacronistico San Vittore. Nei primi tempi dell’epidemia il rischio che il virus entrasse e facesse una strage era altissimo, era l’incubo della direzione, della polizia penitenziaria, dei detenuti e dei loro familiari fuori. La rivolta di marzo aveva a che fare (anche) con questa paura, e le prime drastiche misure di chiusura che erano state prese: sospensione dei colloqui, divieto di ingresso per tutti i volontari. Alla fine di marzo il primo contagio, di un detenuto che però era già ricoverato in ospedale e lì è poi guarito, aveva alzato la tensione. Poi è partito il progetto per affrontare l’emergenza, un progetto del tutto nuovo. È stato allestito nei locali del Centro clinico, dopo aver trasferito a Opera i 90 pazienti, un centro Covid. Affidato all’équipe di Medici senza frontiere. Msf ha stabilito le linee guida per l’intervento, coordinato il lavoro degli operatori - tutti volontari, sia agenti che detenuti - e organizzato la formazione di quelli che avrebbero poi portato avanti il reparto. La quarantena dei nuovi detenuti in arrivo è stata organizzata per piccoli gruppi. Il reparto Covid è stato messo a disposizione di tutte le carceri lombarde, e ha curato 62 persone. Una sola non ce l’ha fatta: era asintomatica, poi ricoverata al San Paolo dove è deceduta. Il clima che si è creato fra la direzione, la polizia penitenziaria e i detenuti è stato incoraggiante. Nel frattempo venivano allestiti colloqui quotidiani via telefono e videochiamate fra detenuti e familiari. E si producevano mascherine. La battaglia è stata vinta. Il vecchio San Vittore è diventato un modello. L’Aquila. Ingiusta detenzione, altro stop alla richiesta di Giulio Petrilli Il Centro, 19 giugno 2020 “Mi hanno comunicato dall’ufficio contenziosi della presidenza del Consiglio che hanno inoltrato la mia istanza per il risarcimento da ingiusta detenzione (sei anni di carcere e poi assolto) anche al ministero delle finanze”. Lo dice Giulio Petrilli che sta portando avanti la sua battaglia. “Ma mi hanno anche detto”, prosegue, “che se non saldo il debito con l’Agenzia delle entrate che è intorno ai 200.000 euro per una condanna della corte dei conti, mai potrò accedere al risarcimento. Condanna subita in quanto da presidente Aret avevo stabilizzato quattro giovani precarie e ridotto l’indennità del direttore da 110.000 euro a 39.000. Questo perché per i risarcimenti da ingiusta detenzione superiori a 5000 euro il ministero verifica se il beneficiario non ha inadempienze. La magistratura aquilana e la Corte dei conti non hanno mai condannato nessuno per la corruzione post terremoto, ma in tutti questi anni solo un’eccezione di condanna per due persone, a me per “abuso d’ufficio” e all’ex rettore del Convitto per non aver fatto evacuare la notte del terremoto dove anche lui rimase a dormire insieme ai suoi figli. Che vergogna”. Torino. Relazione Garante detenuti: “Coronavirus, doppio blocco dietro le sbarre” di Marina Lomunno vocetempo.it, 19 giugno 2020 In tempo di Coronavirus anche la Relazione 2019 della Garante dei detenuti del Comune di Torino, Monica Cristina Gallo, si è tenuta “a distanza”, tramite le piatteforme on line, venerdì 12 giugno in collegamento video anche con il sindaco Chiara Appendino: negli anni scorsi la presentazione del dossier, si teneva nell’aula Magna del penitenziario torinese “Lorusso e Cutugno” anche alla presenza di un gruppo di detenuti ed era l’occasione per fare il punto della situazione delle due principali aree di competenza dell’Ufficio della Garante, l’esecuzione penale, interna (il carcere per adulti e l’Istituto di pena minorile Ferrante Aporti) ed esterna e l’area del controllo delle migrazioni nella struttura del Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Torino (Cpr) di corso Brunelleschi. Sono gli effetti del “blocco” che dal 9 marzo scorso, con il divieto d’ingresso dei parenti dei ristretti per i colloqui, dei volontari e il fermo di tutte le attività aggregative e di inserimento lavorativo ha penalizzato prima di tutto i detenuti, come aveva evidenziato la Garante già in una nostra intervista all’inizio dell’emergenza coronavirus. L’emergenza sanitaria è scoppiata in un tempo problematico per i penitenziari italiani (e per quello torinese) che già soffrono per sovraffollamento e difficoltà dovute spesso a strutture obsolete e carenza di personale. Così la relazione della Garante (il cui mandato scade quest’anno dopo 5 anni di attività serrata per monitorare che i diritti dei detenuti vengano rispettati) ha sottolineato come il lavoro di rete compiuto nel 2019 e negli anni precedenti, in sintonia con la direzione del carcere e tutte e le associazioni che si occupano di problemi detentivi e grazie anche ai giovani obiettori che hanno lavorato nel suo ufficio - nel dossier è anche citata l’iniziativa del nostro giornale “Abbona un detenuto” - si sono potute evitare le proteste avvenute in alcune carceri italiane nei mesi scorsi. “Fin dall’inizio dell’emergenza”, ha evidenziato la Garante, “sono state organizzate assemblee con la direzione e i detenuti per informare sugli effetti del lockdown a cui io ho partecipato e, grazie alla possibilità di utilizzare smarth-phone e pc ho potuto continuare i colloqui con i ristretti soprattutto quelli più fragili e cercare di far fronte alle loro emergenze facendo da ponte con le famiglie”. Rimane il problema del sovraffollamento del penitenziario torinese che non ha favorito le misure anti-contagio: all’inizio della pandemia al “Lorusso e Cutugno” erano recluse 1.480 persone su una capienza regolamentare di 1062 posti. 77 sono stati i detenuti positivi al Covid, 24 isolati, 641 persone sono state mandate o agli arresti domiciliari o scarcerate per fi ne pena. Nessun positivo al virus per fortuna nel Cpr di corso Brunelleschi le cui presenze al 9 giugno 2020 erano di 178 persone in attesa di rimpatrio. Nessun contagio neppure all’Istituto minorile Ferrante Aporti le cui presenze dall’inizio della pandemia sono passate da 48 a 28 e dove si è proseguita la didattica a distanza per i giovani che seguono corsi di studio e si sono programmate alcune attività con i ragazzi nella sala cineforum. In attesa che si attenui l’emergenza e che la vita dietro le sbarre possa ritornare promuovere attività di reinserimento dei reclusi, Monica Cristina Gallo ha annunciato la pubblicazione del sito Liberante.it, un nuovo strumento on line con le informazioni di base rivolte a tutte le persone detenute che tornano in libertà, realizzato dall’Ufficio del Garante e dall’Associazione Museo Nazionale del Cinema di Torino. Campobasso. Nasce il protocollo d’intesa che dà voce ai diritti dei detenuti colibrimagazine.it, 19 giugno 2020 Siglato da Garante dei Diritti della Persona, Uiepe, Antigone e Cittadinanzattiva, mira alla sensibilizzazione sulle condizioni di vita nei penitenziari e a fornire un supporto concreto per la risocializzazione delle persone private della libertà personale. Più voce ai diritti dei detenuti grazie al protocollo d’intesa siglato questa mattina a Campobasso presso l’Ufficio del Garante regionale dei Diritti della Persona, Leontina Lanciano. Il documento, firmato nella sede della Regione Molise, è stato sottoscritto, oltre che dalla dottoressa Lanciano, dagli esponenti delle principali istituzioni e associazioni da sempre impegnate sul fronte dei diritti e delle garanzie nell’ambito del sistema carcerario e penale: Giuseppe Di Leo per Ulepe, Gianmario Fazzini per Antigone, Jula Papa per Cittadinanzattiva Molise Onlus. “Si tratta di uno strumento importante - è stato evidenziato nel corso dell’incontro - perché consentirà di incrementare la collaborazione tra le istituzioni, le associazioni e gli enti che operano nel settore. Lavorare in maniera sinergica e in rete contribuirà ancora di più a una proficua analisi delle problematiche specifiche e ad una loro ottimale risoluzione. L’obiettivo primario, comune a tutte le parti interessate, è naturalmente quello di assicurare la giusta tutela e garanzia dei diritti fondamentali della persona, che deve restare un punto fermo in qualsiasi circostanza, e quindi anche nella vita all’interno delle strutture penitenziarie”. Tra le iniziative più rilevanti contenute nello strumento firmato oggi, “c’è - comunica la Garante - la volontà di istituire di un ‘Osservatorio permanente carcere e territorio’, che mira a fornire risposte concrete alle aspettative di risocializzazione dei detenuti, offrendo allo stesso tempo un necessario strumento di supporto a tutte le diverse iniziative promosse in questo settore. Tramite l’Osservatorio, sarà possibile predisporre le linee di intervento da sottoporre ai competenti enti pubblici e verificare l’efficacia dei progetti operativi come risposta alle problematiche emergenti. Tutto ciò contribuirà a favorire lo sviluppo di una cultura di solidarietà e di rispetto nei confronti dell’identità e dei bisogni delle persone private della libertà personale”. Il protocollo prevede, poi, la costituzione di un tavolo tecnico regionale che, attraverso il confronto periodico tra i soggetti interessati, consentirà la pianificazione strategica delle iniziative da portare avanti. Gli obiettivi che il documento si prefigge sono molteplici. In particolare, si legge nel Protocollo d’intesa, c’è la promozione di “attività per la sensibilizzazione della situazione degli istituti penitenziari italiani, nonché di quelle attività volte alla risoluzione di problematiche legate alla sanità delle persone private della libertà personale e quella di promuovere attività volte al reinserimento nella società dei detenuti, anche attraverso attività lavorative (e/o di acquisizione di abilità e nozioni”. Si punta, inoltre a “organizzare seminari e convegni rivolti ai cittadini per illustrare la situazione nelle carceri e le tematiche della giustizia riparativa, nonché eventi tesi alla sensibilizzazione del problema del sovraffollamento delle carceri”. Saranno incentivate “iniziative mirate alla valorizzazione delle risorse territoriali (Enti ed associazioni Onlus) impegnate nelle attività dei lavori socialmente utili e/o del volontariato”, in modo da rendere partecipe la comunità di ogni intervento volto all’inclusione sociale. Padova. Tribunale, è scattata la messa in sicurezza Il Gazzettino, 19 giugno 2020 Arnau, presidente degli avvocati: “differenziate le entrate e le uscite, preparati percorsi specifici per l’utenza”. I lavori di messa in sicurezza del Tribunale di Padova sono iniziati. Verranno implementati segnaletica, accessi e percorsi per facilitare il ritorno alla normalità in condizioni di sicurezza. A tal proposito il commento del presidente Leonardo Arnau: “Al fine di porre rimedio all’assenza di una cabina di regia nazionale che avrebbe potuto adottare disposizioni uniformi ed evitare l’infelice immagine attuale di una Giustizia sospesa a tempo indeterminato, è ora il momento della responsabilità. E per questo che il Consiglio dell’Ordine ritenendo che solo se tutte le componenti abbandoneranno arroccamenti corporativi, per offrire risposte alla domanda di giustizia dei cittadini, potrà compiersi qualche passo in avanti ha scelto di percorrere, a Padova, la strada del dialogo e della ricerca in concreto delle situazioni praticabili. E così, facendo leva sulla preziosa collaborazione con il Presidente del Tribunale, il Procuratore della Repubblica ed i Dirigenti del personale amministrativo, il Consiglio ha incaricato un tecnico esterno di notoria competenza per l’interlocuzione con il Responsabile della Prevenzione e della Sicurezza presso il Tribunale, al fine di procedere all’elaborazione di un progetto in fase di ultimazione mentre scrivo queste righe utile e necessario al riavvio delle attività in presenza nel nostro palazzo di Giustizia, che prevede: l’individuazione di specifici percorsi per l’utenza, anche differenziati per l’entrata e l’uscita e opportunamente segnalati con cartellonistica o nastri apposti sul pavimento; l’accesso ai front office, agli ascensori e ai diversi piani del tribunale; la misurazione della capienza delle singole aule delle presenze possibili in udienza; la verifica di quante persone possano essere contemporaneamente presenti in attesa di accedere ai servizi di cancelleria, individuando anche i percorsi che le stesse devono seguire. Tale progetto dovrebbe consentire di adeguare in modo condiviso, rispetto all’attuale regolamentazione, l’affluenza del pubblico, gli orari di apertura delle cancellerie e degli appuntamenti, le tipologie delle udienze da celebrarsi in presenza, garantendo il rispetto della distanza di almeno un metro tra le postazioni e la disponibilità di una superficie di 4 mq a persona”. Alessandria. 1.500 mascherine monouso in omaggio al carcere oggicronaca.it, 19 giugno 2020 La Crivop Italia Odv consegnerà in donazione al Direttore della Casa Reclusione di Alessandria San Michele Dott.ssa Elena Lombardi n°1500 mascherine chirurgiche monouso. Domani mattina l’organizzazione di volontariato penitenziario raggiungerà gli Istituti Penitenziari di Alba (Cn) ed Asti. La Crivop Italia Odv entro fine mese pensa di coprire tutti gli Istituti Penitenziari del Piemonte Liguria e Valle d’Aosta con più di 10.000 mascherine chirurgiche donate. La Crivop Italia Odv Organizzazione di Volontariato Penitenziario, è stata costituita a Messina dal Fondatore Michele Recupero il 1 dicembre 2008. Negli anni ha acquisito professionalità nelle attività di volontariato, grazie anche ai Corsi Base di Formazione Penitenziaria che il fondatore ha tenuto dal 2012 in diverse città d’Italia. L’Organizzazione Crivop ha portato sostegno morale e materiale a centinaia di detenuti e internati di vari istituti penitenziari nel territorio italiano, a molti ristretti sottoposti alla detenzione domiciliare ed a tante famiglie di detenuti, favorendo la riabilitazione e il reinserimento nella società attraverso un percorso di cambiamento, umano e relazionale. Firenze. Opere d’arte esposte nel carcere di Sollicciano come via di recupero dei detenuti di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 19 giugno 2020 Se i detenuti non possono andare al museo, è il museo ad andare da loro. L’idea è venuta a Sergio Risaliti, direttore del Museo Novecento di Firenze che ha deciso di portare all’interno della casa circondariale di Sollicciano alcuni dei “suoi” pezzi cercando di sfumare le barriere tra il carcere e la realtà che aspetta fuori i suoi ospiti. “Perché vedere le opere dal vero è sempre un’esperienza emozionante, è diverso che vederle nei libri”, spiega. “I musei hanno un compito fondamentale, quello di sensibilizzare ed educare il pubblico, di sviluppare la creatività. Inizialmente abbiamo pensato di avvicinare i bambini e gli adulti andando a casa loro. Ma ci siamo spinti oltre: ci siamo recati da coloro che non possono venire da noi, dalle persone che vivono la dura prova del carcere”. Il Museo è dedicato all’arte italiana del XX e XXI secolo e propone, oltre a una collezione permanente, mostre e cicli espositivi, installazioni e progetti speciali. La sede espositiva è l’antico spedale delle leopoldine di piazza Santa Maria Novella. “Qui l’esposizione classica, ma poi c’è Outdoor - continua Risaliti - progetto ormai diventato parte di Educare alla bellezza, un piano allestito per conoscere i musei fiorentini già avviato dalla scuola Cpia1 (Centro Provinciale per l’istruzione degli adulti) e che vede partecipare i detenuti e le detenute iscritti e frequentanti i corsi scolastici presenti all’interno del penitenziario”. Insomma l’arte esce dal museo e va incontro al pubblico, ma non a un pubblico qualsiasi, ma a chi è stato allontanato dalle pratiche culturali e siccome l’accesso alla cultura è parte integrante del percorso di esecuzione della pena, la proposta di portare pezzi esemplari al di là del muro, è esemplare. “Alla direzione di Sollicciano l’iniziativa è piaciuta molto - continua Risaliti - anche se ci siamo resi conto fin da subito che trasferire, seppur temporaneamente, opere d’arte di un certo valore dentro un carcere non sarebbe stata cosa facile. Ci siamo avvalsi del supporto di uno staff sia per la fase di trasporto e allestimento, sia per il momento più delicato: quello della presentazione. I nostri esperti hanno spiegato cosa significa restaurare un’opera, quali sono i problemi nel riportare all’origine un dipinto. Non solo. Sono riusciti a far indossare a ciascuno un paio di occhiali speciali durante l’illustrazione delle tele per spiegare nei dettagli come è fatto un quadro, quali sono i colori impiegati, il tipo di pennellata e il tocco dell’artista. Una sorta di performance tra didattica, teatro e mediazione culturale che ha avuto un obiettivo fondamentale, quello di far conoscere anche la materialità dell’opera”. L’arte come strumento per il recupero e il reinserimento dei detenuti, una sinergia di passione e di speranza che ha rivelato, attraverso reazioni del tutto inedite, un saggio di varia umanità anche se vista attraverso il filtro di una cancellata. “A dire il vero l’emozione più grande è stata la nostra, perché abbiamo avvertito immediatamente il superamento di una soglia. Un duro colpo” confessa Risaliti. “E poi l’impatto con loro. Cento, 150 detenuti, tutti insieme. All’inizio un po’ di clamore, poi è calato un silenzio surreale al momento della scoperta dell’opera. Hanno avuto l’opportunità di avvicinarsi, quasi di toccare con mano, di formulare domande di ogni genere, basandosi sui colori o sulla luce, sul contenuto che spesso rifletteva la parabola della loro condizione”. L’iniziativa ha confermato che il carcere non è un contenitore di corpi, ma una fucina di spiriti nella quale la persona è al centro, ha raccontato una comunità che si confronta, discute, fa. Un tocco di colore dietro le sbarre che testimonia come ci sia all’interno delle prigioni un piccolo universo che chiede di partecipare e crescere. “Un ponte tra chi vive una situazione normale e chi una eccezionale, quale quella dei ristretti” conclude Risaliti. “Il carcere non va visto isolato perché ha un prima e un dopo e l’arte si inserisce in un quadro di orientamento formativo. Gli istituti carcerari sono prima di tutto luoghi di rieducazione e la cultura può essere di grande aiuto”. Carestie e guerre. Ottanta milioni di persone in fuga di Giordano Stabile La Stampa, 19 giugno 2020 Raddoppiato in vent’anni il numero di persone che non ha più una casa. E per i profughi la speranza di ritornare è sempre più flebile. Fra i 79,5 milioni di persone in cerca di una nuova casa, un rifugio, un posto lontano dalle bombe e dalla fame c’erano anche loro, il piccolo Alaa e sua mamma. Tentavano di passare il confine fra la provincia siriana di Idlib e la Turchia. Le guardie di frontiera hanno sparato. Lui è morto, un altro ragazzo è rimasto ferito. L’ennesima vittima, dopo la bambina di cinque anni annegata in Libia pochi giorni fa, le migliaia e migliaia che negli anni scorsi non ce l’hanno fatta, in mare, sulle montagne, nelle foreste. L’esercito dei rifugiati nel mondo continua a crescere. Fra il 2018 e il 2019 ha fatto un balzo impressionante, da poco più 70 milioni a quasi 80, un record. Un abitante della Terra su 97 è in fuga, all’interno del proprio Paese o all’estero, come denuncia l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) nel rapporto Global Trends, pubblicato alla vigilia della Giornata mondiale del rifugiato. Le crisi peggiori I due terzi delle persone in fuga all’estero provengono da cinque Paesi: Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar. Nazioni devastate da guerre civili e crisi ormai decennali. Lo status di rifugiato si incancrenisce, la speranza di ritornare è sempre più flebile. Soprattutto per i siriani, che da soli assommano 13,2 milioni di rifugiati, richiedenti asilo o sfollati interni, più di metà dell’intera popolazione. Eppure continuano a voler fuggire. L’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria ha documentato dal 2011 a oggi l’uccisione di 450 civili da parte delle guardie di frontiera turche. Compresi 79 minori e 44 donne. Dopo i 380 mila morti della guerra civile, la distruzione di intere città, adesso sono la crisi economica e le sanzioni a spingerli verso la Turchia, che già ne ospita 3,6 milioni. Dall’inferno al purgatorio - È il salto da un inferno a un purgatorio. I siriani in Turchia hanno quasi tutti trovato un’abitazione, soltanto 68 mila sono rimasti nei campi profughi, i buoni pasto finanziati dall’Unione europea in base all’accordo del 2016 permettono di mangiare. Anche se l’obiettivo finale rimane quello di ritornare a casa, forse un giorno ricostruita. Un obiettivo sempre meno realistico. Negli anni Novanta 1,5 milioni riuscivano a fare ritorno a casa ogni anno. Ora la media è crollata a 385.000. Dei 79,5 milioni di rifugiati nel mondo, 45,7 sono sfollati all’interno dei propri Paesi, mentre degli oltre trenta milioni fuggiti oltre confine in 4,2 milioni hanno fatto domanda di asilo. Il numero di minori in fuga è compreso fra i 30 e i 34 milioni, più elevato di quello dell’intera popolazione di Australia, Danimarca e Mongolia messe assieme. “Siamo testimoni di una realtà nuova che ci dimostra come gli esodi forzati non soltanto siano più diffusi, ma non costituiscano più un fenomeno a breve termine - spiega l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi. Non possiamo aspettarci che le persone vivano per anni e anni una condizione precaria, senza avere né la possibilità di tornare a casa né la speranza di poter cominciare una nuova vita nel luogo in cui si trovano”. Un discorso che vale per i siriani ma anche per i 5,6 milioni di rifugiati palestinesi, in questa condizione da settant’anni, mentre le prospettive di un accordo di pace con Israele si allontanano. E l’agenzia che si occupa di loro, l’Unrwa, è sotto attacco da parte dell’Amministrazione Trump, che ha bloccato i finanziamenti. Il nuovo nemico Il clima è un problema globale. Le agenzie dell’Onu si trovano di fronte a crisi sempre più prolungate, i fenomeni esplodono e così i bisogni finanziari. Il numero dei rifugiati è raddoppiato in meno di dieci anni, nel 2010 erano 41 milioni, i fondi per l’Unhcr sono saliti l’anno scorso a 4,8 miliardi di dollari, il massimo di sempre. Ma la differenza fra le risorse necessarie e quelle erogate è salita al 42 per cento. Significa che servirebbero quasi il doppio dei soldi a disposizione. Anche il personale è raddoppiato, da 6 mila a 12.800, per il 44 per cento donne. E un impegno che richiede sacrificio. L’80 per cento delle persone in difficoltà sono in Paesi colpiti da carestia, malnutrizione, disastri climatici, guerre croniche. L’85 per cento è in Paesi in via di sviluppo e cerca rifugio in Paesi confinanti. Alle guerre senza fine, quella afghana è entrata nel suo quinto decennio, si aggiungono adesso i disastri ambientali. Nel 2019 hanno causato 24,9 milioni di sfollati, un altro record, circa tre volte il numero causato da conflitti e violenze. Il peggioramento - Il rapporto dell’Unhcr sottolinea come il cambiamento climatico è destinato essere “una causa crescente” degli sfollamenti, sia in maniera diretta che come “moltiplicatore”. La previsione è che i disastri “aumenteranno in frequenza e intensità”. Di questo passo le probabilità di arrivare a cento milioni di rifugiati sono molto elevate e l’Onu insiste con gli Stati perché vengano adottate politiche preventive, prima di dover affrontare una crisi sistemica, impossibile da gestire. In fondo, una delle cause della guerra civile in Siria è stata proprio la siccità anomala, prolungata su più anni, che ha reso la vita impossibile nelle campagne, gonfiato le periferie, aggravato i conflitti sociali e settari fino a farli esplodere. Tutto è legato. I migranti del Sahel in balia del Mediterraneo in tempesta, il piccolo Alaa in cerca di un passaggio sulle montagne. Come dice un proverbio siriano, “siamo tutti assieme nello stesso vento”. Migranti. Il M5S frena, fumata nera per i decreti sicurezza di Carlo Lania Il Manifesto, 19 giugno 2020 Lunedì nuovo incontro al Viminale. Crimi: “Non è il momento per cambiarli”. Il pacchetto di misure proposto dalla ministra Lamorgese più esteso delle modifiche chieste dal Quirinale. È durato poco più di un’ora. Il tempo necessario per i saluti ma soprattutto per capire che, almeno per il momento, raggiungere un accordo sulla revisione dei decreti sicurezza non è possibile. A frenare, ancora una volta, è stato il Movimento 5 stelle che i provvedimenti anti-migranti di Matteo Salvini li ha votati quando era al governo con la Lega e che adesso - nonostante il ministro degli Esteri Di Maio ieri avesse assicurato che “un punto di caduta” con gli alleati alla fine si sarebbe trovato - continua a fare resistenza. “Non è il momento opportuno, con la crisi economica e la pandemia l’opinione pubblica non capirebbe”, ha spiegato il viceministro dell’Interno dei 5 Stelle Vito Crimi, presente all’incontro convocato al Viminale dalla ministra Luciana Lamorgese con il collega del Pd Matteo Mauri, il responsabile sicurezza dei dem Carmelo Miceli, il capogruppo di Leu alla Camera Federico Fornaro e il capogruppo di Italia Viva al Senato Davide Faraone. Sul tavolo il pacchetto di misure messo a punto nei mesi scorsi dai tecnici del ministero e che, per volontà della stessa ministra Lamorgese, vanno ben oltre i rilievi fatti a suo tempo dal presidente Mattarella. In particolare si mette mano a ben 9 dei 18 articoli del primo decreto sicurezza e a due su due del secondo, in pratica tutte le parti che riguardano i migranti. A partire dai tempi di detenzione nei Centri per i rimpatri (Cpr), innalzati da Salvini fino a 180 giorni e che invece potrebbero ritornare a 90. Stessa cosa per la protezione umanitaria. Il viceministro Mauri ha chiesto che venga reintrodotta in maniera integrale. Il documento del Viminale prevede che possa essere riconosciuta alle famiglie con figli minori, persone gravemente malate, quelle con disturbi psichici, disabili, donne incinta e infine, alle persone che hanno subito un trattamento degradante, comprendendo in questa categoria anche chi, malato, nel Paese di origine non potrebbe ricevere cure adeguate. C’è, infine, la questione Sprar, il sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati fortemente ridotto da Matteo Salvini e che invece si vorrebbe ripristinare. Il Viminale ha già fatto un primo passo in questa direzione prolungando fino al 31 dicembre 2020 l’assistenza ai richiedenti asilo, anche quelli che nel frattempo ne avrebbero perso il diritto di essere ospitati nei Cas. Un modo per togliere dalla strada persone che, in tempi di pandemia, rappresenterebbero un rischio per sé stesse e per gli altri. Restano invece invariate tutte le parti riguardanti in maniera più stretta la sicurezza, dalle norme antimafia all’utilizzo dei braccialetti elettronico. Per quanto riguarda il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, infine, viene mantenuto solo nei confronti degli appartenenti alle forze dell’ordine reintroducendo la discrezionalità del giudice nel valutare la non punibilità per “la particolare tenuità del fatto”. Un pacchetto di misure che, come si vede, è più largo della revisione chiesta dal Quirinale e mirata soprattutto rivedere le maxi multe per le navi delle Ong, il sequestro delle imbarcazioni che non rispettano il divieto di ingresso nelle acque italiane, ma anche il rispetto degli obblighi di soccorso in mare previsti dal diritto internazionale. Misure che vanno incontro a quanto richiesto da mesi dal Pd, LeU e Iv. “Una nuova politica dell’immigrazione deve innanzitutto riportare a una corretta funzione del ruolo del ministero dell’Interno ponendo fine alla criminalizzazione delle Ong”, ha commentato al termine dell’incontro Fornaro. Lunedì alle 16 nuovo incontro, questa volta per presentare gli emendamenti alle proposte della ministra. Migranti. L’Ue striglia Orban: “Illegale la legge che colpisce le Ong” di Victor Castaldi Il Dubbio, 19 giugno 2020 Il ricorso della Corte di giustizia europea. Un duro colpo al progetto neo-autoritario di Viktor Orban che incassa una strigliata da parte della Corte di giustizia europea. Nel mirino i provvedimenti che il presidente dell’Ungheria ha preso contro le ong e le associazioni umanitarie, in particolare quelle che si occupano di accoglienza dei migranti. “Non sono conformi al diritto dell’Unione Europea le restrizioni imposte dall’Ungheria al finanziamento delle organizzazioni civili da parte di soggetti stabiliti al di fuori di tale Stato membro”, afferma dunque la Corte di Giustizia dell’Unione Europea dopo il ricorso per inadempimento presentato dalla Commissione sulla legge introdotta dal governo di Budapest. Il provvedimento impone obblighi di registrazione, dichiarazione e pubblicità, con la possibilità di sanzioni, a alcune Ong che beneficiano di sostegno finanziario esterno oltre una certa soglia. Secondo i giudici di Lussemburgo, la legge ungherese sulle Ong ha “introdotto restrizioni discriminatorie e ingiustificate” nei confronti delle organizzazioni non governative, ma anche dei loro finanziatori. Nel 2017 l’Ungheria aveva adottato una legge presentata come volta a garantire la trasparenza delle Ong che ricevono donazioni provenienti dall’estero, in base alla quale tali organizzazioni devono registrarsi presso organi giurisdizionali ungheresi come “organizzazione che riceve sostegno dall’estero” nel momento in cui l’importo delle donazioni ricevute da altri Stati membri dell’Ue o da paesi terzi nell’arco di un anno superi una soglia. All’atto della registrazione, le Ong devono anche indicare il nome dei donatori sopra i 1.400 euro e l’importo esatto del sostegno. La Corte di Giustizia dell’Ue ha innanzitutto constatato che la legge sulla Ong costituisce una misura restrittiva, di natura discriminatoria, in materia di movimento dei capitali, perché introduce una differenza di trattamento tra i movimenti nazionali e transfrontalieri. Questa norma, inoltre, dissuade le persone fisiche o giuridiche stabilite in altri Stati membri o in paesi terzi dal fornire un sostegno finanziario alle organizzazioni interessate. Inoltre dicono i giudici di Lussemburgo - la legge sulle Ong può creare un clima di diffidenza nei confronti delle associazioni e fondazioni. In secondo luogo, la Corte Ue ha constatato che le misure previste dalla legge sulle Ong limitano il diritto alla libertà di associazione - sancito dall’articolo 12 della Carta sui diritti fondamentali - in quanto rendono significativamente più difficili l’azione e il funzionamento delle associazioni. Infine, secondo la Corte Ue, gli obblighi di dichiarazione e pubblicità costituiscono un limite al diritto al rispetto della vita privata e familiare e una violazione del diritto al rispetto della privacy. “La decisione storica di oggi infligge un colpo agli sforzi delle autorità ungheresi di stigmatizzare e minare le organizzazioni della società civile che criticano le politiche del governo”. Lo ha detto David Vig, direttore di Amnesty International Ungheria, commentando la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. La legge sulle Ong è “un palese tentativo di mettere a tacere le voci critiche e di sottrarre sostegno pubblico alle organizzazioni che lottano per i diritti umani, la giustizia e l’uguaglianza”, ha concluso Vig. Guerre. L’Italia nella “filiera” di Al Sisi ed Erdogan di Alberto Negri Il Manifesto, 19 giugno 2020 Dalla “cabina di regia” in Libia, promessa più volte dagli americani, l’Italia è passata a far parte della filiera bellica e strategica di dittatori e autocrati come Al Sisi ed Erdogan. Loro possono pagarci e ricattarci quando vogliono. I diritti umani, la vicenda di Giulio Regeni, la repressione dei curdi, il destino di ogni esponente democratico in carcere sia in Turchia che in Egitto, ce li siamo giocati in cambio delle forniture di navi da guerra al Cairo mentre la Turchia decide quando vuole pure l’agenda del nostro ministro degli Esteri. Di Maio doveva essere ricevuto mercoledì ad Ankara poi i turchi hanno deciso di rinviare l’appuntamento e andare a Tripoli per aprire due basi militari in Libia. Come in Siria, la Turchia si gioca la partita libica con la Russia e forse, nonostante i contrasti, finirà per trovare un accordo con Mosca. Erdogan controlla le due rotte dei migranti, a est nell’Egeo e a sud in Libia: ci tiene in scacco insieme all’Europa, che già lo paga per tenere chiusa la via balcanica dell’immigrazione. Da come vanno le cose finiremo per fargli fare lo stesso lavoro sporco in Libia, visto che controlla milizie e jihadisti. Le commesse di Fincantieri con l’Egitto, accompagnate da forniture belliche future per 10 miliardi, intanto ci fanno schierare nel Mediterraneo con il Cairo. Giampiero Massolo, presidente di Fincantieri e dell’Ispi, ex segretario generale della Farnesina, ex direttore del Dis, spostando l’asse verso l’Egitto, dove l’Eni ha il mega-giacimento di gas di Zhor, prova a fare più politica estera dei nostri governanti nell’era post-Covid 19. A Paesi come Egitto e Turchia vendiamo armi, anche in contrasto con nostri interessi geopolitici e in violazione delle leggi italiane, sperando che turchi ed egiziani, per altro nemici tra loro in Libia, non ci trattino troppo male quando decideranno la spartizione delle risorse energetiche nel Mediterraneo, dalle coste libiche a quelle dell’Egeo, rivendicate dalla Turchia con l’accordo fatto firmare da Erdogan a Sarraj. Di tutto questo e di Giulio Regeni ha parlato questa notte il nostro premier Conte alla commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte dello studente italiano torturato e ucciso dai poliziotti di Al Sisi nel 2016. È avvenuto con il favore delle tenebre, a giornali chiusi, e nella speranza che la questione venga assorbita dal Consiglio europeo odierno e dagli stati generali dell’economia. È sintomatico delle nostre contraddizioni che il presidente della commissione Erasmo Palazzotto, prima giudicato come un “terrorista” dai turchi perché amico dei curdi, oggi sia visto dai media di Ankara come un “eroe” che tenta di bloccare la fornitura delle fregate italiane all’Egitto. In realtà è chiaro come il sole che Al Sisi un processo ai responsabili non lo vuole e non può neppure farlo perché si tratta di risalire ai capi dei servizi tra cui c’era anche uno dei suo figli. Dell’indirizzo dei suoi assassini, come chiesto da Roma, non sapremmo che farcene. Del resto il clima nel nostro Paese favorisce non la giustizia ma l’occultamento. La verità è che nel Mediterraneo siamo passati dalla cabina di regia al gabbiotto del portiere di condominio. In Libia gli Stati uniti hanno scelto Ankara non l’Italia. Dovevamo aspettarcelo visto che gli Usa, ritirandosi dal Rojava nell’ottobre scorso, avevano dato via libera al massacro dei curdi siriani da parte di Ankara e oggi non muovono un dito per fermare Erdogan in Iraq. E pensare che i curdi del Rojava erano i migliori alleati degli Usa contro l’Isis. Erdogan vuole che siano dichiarati tutti “terroristi” e minaccia di bloccare i piani Nato nell’Est Europa. In Turchia abbiamo aperto la porta a Erdogan che adesso si prende la base aerea di Al Watiya, di cui forse ne darà un pezzo agli americani, e quella navale di Misurata, dove teniamo 300 soldati a guardia di un ospedale da campo. Più che registi siamo comparse. Comandiamo la missione navale europea Irini per controllare l’embargo di armi ed ecco cosa succede. Giorni fa una nave greca ha avuto l’ordine di bloccare un mercantile turco e ha fatto decollare un elicottero ma è intervenuta una fregata di Ankara minacciando di abbatterlo. Con la missione Irini, non solo noi ma l’intera Europa si sta coprendo di ridicolo. Ecco perché Al Sisi le fregate Fremm di Fincantieri le vuole subito: per contenere la Turchia. Gli unici che ci invidiano al momento sono i francesi che dopo avere abbattuto Gheddafi con inglesi e americani nel 2011 hanno sostenuto il declinante generale Haftar, amico di Russia, Egitto, Emirati e sauditi. Secondo il quotidiano La Tribune, Macron, sollevando con Al Sisi la questione dei diritti umani, si è giocato le commesse belliche. Una bella soddisfazione per noi: abbiamo perso la Libia ma a fare i “bravi ragazzi” ci si guadagna sempre qualcosa. Egitto. Regeni, Conte in commissione d’inchiesta: “Da al Sisi disponibilità, ma ora atti” di Giuliano Foschini La Repubblica, 19 giugno 2020 Il premier sui rapporti con l’Egitto: “Abbiamo sollecitato i nostri interlocutori egiziani ad assicurare collaborazione più intensa. Se c’è stata incapacità di ottenere risultati imputatela a me”. Il Pd lo incalza: “Con lei presidente Il Cairo è diventato il primo acquirente di armamenti italiani”. Mette la faccia: “Ho detto ai signori Regeni che se c’è stata incapacità di raggiungere risultati maggiori lo potete imputare a me direttamente”. Non rinnega però un passo di quelli compiuti e traccia, senza mai citare esplicitamente la questione delle fregate Fremm da vendere all’Egitto, i passi per il futuro. Un futuro fatto di collaborazione con l’Egitto. “Risultati nella ricerca della verità sull’omicidio di Giulio Regeni si avranno soltanto con l’intensificazione, non con l’interruzione del dialogo bilaterale. Allo stato è meglio un dialogo per quanto franco e a tratti frustrante piuttosto che l’interruzione dei rapporti”. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha parlato ieri per quasi due ore davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta per la morte di Giulio Regeni. Una lunga ricostruzione dei fatti nella quale Conte ha spiegato di aver chiesto al presidente egiziano Al Sisi, “una manifestazione tangibile di volontà”. E di aspettarsi nei prossimi giorni una risposta. Chi si aspettava che Conte portasse qualche risultato, è rimasto deluso. Per il momento l’Italia non ha incassato nulla dall’Egitto. Spera che qualcosa possa accadere il 1° luglio, quando ci sarà l’incontro tra le Procure del Cairo e di Roma. “Ogni mia interlocuzione con Al Sisi è partita da un semplice quanto inevitabile assunto - ha detto Conte - i nostri rapporti bilaterali non potranno svilupparsi a pieno” se non si farà luce sul “barbaro assassinio di Giulio Regeni e non si assicureranno alla giustizia i suoi assassini”. “Nel colloquio telefonico del 7 giugno - ha continuato - Sisi mi ha dato la disponibilità sua e delle autorità egiziane a collaborare”. Sul tavolo c’è la rogatoria della procura di Roma rimasta senza risposta da più di un anno. “Anche io condivido e ho rappresentato una preoccupazione per la lentezza dell’Egitto nel fornire collaborazione all’Italia” ha spiegato ancora il premier davanti alla commissione presieduta dal deputato di Leu, Erasmo Palazzotto. “L’ho rappresentata in modo insistito le ultime volte che ho avuto modo di confrontarmi con il presidente Al Sisi. Il 14 o 15 gennaio di quest’anno sono stato al Cairo a incontrarlo. In quell’occasione ho rappresentato molta costernazione e ho sollecitato una ripresa della collaborazione. In quell’occasione come in altre ho detto che la vicenda Regeni per l’Italia è una ferita che non potrà mai essere rimarginata e che richiede l’accertamento della verità giudiziaria”. Conte, però, nonostante gli appelli della famiglia Regeni e di una parte della coalizione di Governo, non ha intenzione di rompere con l’Egitto. “L’Egitto nei nostri confronti ha molta attenzione: abbiamo capacità in certi contesti di dialogare dove altri non riescono. Questa attenzione ho sempre cercato di utilizzarla anche per intensificare il dialogo anziché prospettarne l’interruzione. Io stesso, se trascorrendo del tempo non avessi visto risultati concreti, avrei invitato il gabinetto dei ministri a valutare come soluzione spendibile e utile l’interruzione dei rapporti. Ma essendomi insediato quando già in passato si erano interrotti i rapporti, mi sono convinto che l’intensificazione del dialogo, cogliere dall’Egitto l’interesse nei confronti del premier italiano, andasse volto per ottenere un risultato che però, mi rendo conto, stenta ancora a produrre dei risultati concreti. Non abbiamo ottenuto molto me ne rendo conto. Io - ha detto il premier - ho incontrato 6-7 volte Al Sisi. Il fatto di parlargli di persona, guardarlo negli occhi ed esprimere tutto il rammarico per poter influenzare con un’influenza diretta vis a vis, forse non ha portato risultati, non sono stato capace. È quello che ho detto alla famiglia Regeni l’ultima volta. Erano un poco dispiaciuti che con la nostra presenza diplomatica non ottenesse risultati. Ho detto che se la dovevano prendere con il premier che avevano di fronte visto che è il premier che incontra Al Sisi vis a vis. Il nostro diplomatico non incontra il capo di stato. Se c’è un’incapacità la potete imputare a me direttamente”. Il Partito democratico, con Lia Quartapelle, parla del dato “sconcertante” della vendita delle armi all’Egitto: “Da quando lei è presidente del consiglio l’Egitto è passato da quarantaduesimo Paese con cui commerciavamo armi, a decimo Paese nel 2018, a primo”, dice Quartapelle. “Oltre alle due fregate Fremm vendute al Cairo ci sono nove miliardi di commesse in armamenti”, sottolinea Palazzotto. Ma Conte, pur non citando mai la questione direttamente, ha fatto capire di non voler mettere in discussione i rapporti. “Se otterremo qualche risultato sarà perseverando, battendo i pugni sul tavolo, passetto dopo passetto riuscendo a ottenere qualche sviluppo di questa vicenda” ha detto. Cosa accadrebbe se l’Egitto sbattesse la porta nell’incontro del primo luglio? “A mio avviso non siamo ancora quel punto. Questa è una valutazione che dovremo sempre aggiornare costantemente con le forze di maggioranza e i ministri. Dovremo verificare se questa interlocuzione dà risultati o meno, dovremo mantenerci sempre vigili e valutare tappa dopo tappa questo percorso”. Stati Uniti. La Corte suprema boccia i capricci di Trump: i Dreamers restano di Marina Catucci Il Manifesto, 19 giugno 2020 Affossato il piano di cancellazione del programma che tutela i figli dei migranti illegali voluto da Obama. Commozione e gioia tra i democratici, il presidente reagisce parlando di armi. La Corte suprema ha decretato che l’amministrazione Trump non può cancellare il Deferred Action for Childhood Arrivals (Daca), il programma di protezione dei giovani immigrati arrivati negli Stati uniti illegalmente al seguito dei genitori, noti come Dreamers. Il Daca ha permesso a quasi 800mila giovani di rimanere negli Stati uniti ed evitare il rimpatrio in paesi che conoscono a malapena. La sentenza del tribunale è un duro colpo a una delle promesse centrali della campagna di Trump, che aveva ripetuto che da presidente avrebbe “immediatamente posto fine all’amnistia esecutiva illegale di Obama”. Trump ha più volte definito i Dreamers come un pericolo per gli Usa, anche se tutti i dati mostrano che in realtà sono una parte importante della forza lavoro specializzata statunitense. Gli operatori sanitari coinvolti nella risposta all’epidemia di Covid-19, hanno fatto affidamento su circa 27mila Dreamers, tra cui dentisti, farmacisti, assistenti medici, assistenti sanitari a domicilio, tecnici e quasi 200 studenti di medicina. A questi si aggiungono altre decine di migliaia di impiegati nell’high tech, come ha sempre sottolineato la Silicon Valley. Tim Cook, ad di Apple, subito dopo la sentenza ha twittato: “I 478 Dreamer di Apple sono membri della nostra famiglia collettiva. Con creatività e passione, ci hanno reso l’azienda americana più forte e innovativa. Siamo lieti della decisione odierna e continueremo a combattere fino a quando le protezioni del Daca saranno permanenti”. La sentenza, infatti, specifica che la richiesta di cancellare il Daca appare “capricciosa”. “Non decidiamo se il Daca o la sua risoluzione siano politiche valide - ha scritto il giudice capo, John Roberts, il cui voto è stato decisivo per l’esito della sentenza - Ci pronunciamo solo riguardo l’ottemperanza dell’agenzia al requisito procedurale di fornire una spiegazione motivata per la sua azione”. A fine 2017 Trump aveva annunciato la chiusura del programma, fornendo come unica motivazione la convinzione che la creazione o il mantenimento del programma andasse oltre il potere legale di qualsiasi presidente. Questa giustificazione fornita dal governo, ha scritto Roberts, è insufficiente. Ora l’amministrazione statunitense potrebbe riprovare a fornire altre ragioni per chiudere il programma, ma difficilmente ne troverà di adeguate. È la seconda volta in questa settimana in cui la Corte suprema delibera su un caso importante andando contro i desideri di Trump: solo lunedì il tribunale aveva stabilito che non si possono discriminare i lavoratori in quanto gay e transgender. Tutto questo non è certo piaciuto a The Donald che ha subito twittato rivolgendosi alla sua base e dicendo che il prossimo passo della Corte suprema, se non dovesse essere rieletto, sarà quello di cancellare il secondo emendamento che protegge il diritto di possedere un’arma. Commozione e gioia, invece, nell’area democratica. Il capo della minoranza Dem al Senato, Chuck Schumer, ha ricevuto la notizia mentre era in aula e con la voce emozionata ha ripetuto più volte “wow”: “La Corte suprema - ha detto Schumer - chi avrebbe mai pensato che avrebbe preso così tante buone decisioni in una settimana?”. Egitto. Operatori sanitari costretti a scegliere tra la morte e il carcere amnesty.it, 19 giugno 2020 Il governo egiziano deve interrompere immediatamente la campagna di intimidazioni e persecuzioni ai danni degli operatori sanitari in prima linea durante la pandemia da Covid-19 e che esprimono preoccupazioni o criticano il governo per la gestione dell’emergenza sanitaria. Grazie al nostro lavoro di ricerca, abbiamo documentato il modo in cui le autorità del Cairo stanno ricorrendo ad accuse vaghe e generiche di “diffusione di notizie false” e “terrorismo” per arrestare arbitrariamente e imprigionare operatori sanitari che hanno preso la parola, sottoponendoli poi a minacce, intimidazioni e provvedimenti amministrativi punitivi. Le persone prese di mira denunciano condizioni di lavoro insicure, assenza di dispositivi di protezione individuale, inadeguata formazione all’individuazione dei contagi, insufficienti mezzi per testare il personale sanitario e mancato accesso a cure mediche vitali. I nostri ricercatori hanno svolto 14 interviste con medici, parenti di questi ultimi, avvocati, rappresentanti sindacali e ha esaminato corrispondenze scritte e messaggi audio di pubblici funzionari. “Invece di proteggere gli operatori sanitari che si trovano in prima linea nel contrasto alla pandemia e che si lamentano legittimamente a proposito delle loro condizioni di vita e dei rischi per la loro salute, il governo egiziano gestisce l’emergenza da Covid-19 ricorrendo alle consuete tattiche repressive. Così, gli operatori sanitari che prendono la parola si trovano di fronte a una scelta impossibile: rischiare la vita o affrontare il carcere”, ha dichiarato in una nota ufficiale Philip Luther, direttore delle ricerche di Amnesty International sul Medio Oriente e l’Africa del Nord. “Le autorità egiziane hanno spesso elogiato gli operatori sanitari come ‘il nostro esercito in camice bianco’ ma evidentemente lo hanno fatto contando sul loro silenzio”, ha aggiunto Luther. Secondo il Sindacato dei medici, da metà febbraio, quando è scoppiata la pandemia da Covid-19, oltre 400 operatori sanitari sono risultati positivi al test e almeno 68 sono morti. Questi numeri non comprendono quelli relativi ai medici morti con sintomi da coronavirus, come la polmonite, che tuttavia non erano stati sottoposti al tampone. Non comprendono neanche infermieri, odontoiatri, farmacisti, tecnici di laboratorio, addetti alle consegne dei farmaci, personale delle pulizie e altri lavoratori essenziali, a loro volta in prima linea per assicurare che le persone avessero accesso alle cure mediche e ad altri servizi di base. Tra marzo e giugno Amnesty International ha documentato i casi di otto operatori sanitari (sei medici e due farmacisti) arrestati arbitrariamente dalla famigerata Agenzia per la sicurezza nazionale solo per aver espresso le loro preoccupazioni sui social media. Alaa Shabaan Hamida, medico di 26 anni, è stata arrestata il 28 marzo all’ospedale universitario el-Sharby di Alessandria dove lavorava, dopo che un’infermiera aveva usato il suo cellulare per segnalare al “numero verde” del ministero della Salute un caso di coronavirus. A denunciarla è stato il direttore dell’ospedale, sostenendo che fosse andata oltre i suoi compiti chiamando direttamente il ministero. Alaa, incinta, è attualmente in detenzione preventiva con le accuse di “appartenenza a un gruppo terrorista”, “diffusione di notizie false” e “uso improprio dei social media”. Hany Bakr, un oftalmologo, è stato arrestato nella sua abitazione a Qalyubia, a nord del Cairo, dopo che aveva scritto un post in cui aveva criticato il governo per aver inviato aiuti sanitari in Italia e in Cina. Un altro medico è stato arrestato il 27 maggio per aver scritto un articolo in cui aveva messo in discussione l’efficacia della risposta del governo alla pandemia da Covid-19 e i gap strutturali nel sistema sanitario egiziano. Secondo i suoi familiari, quattro agenti delle forze di sicurezza hanno fatto irruzione nella sua abitazione, sequestrandogli cellulare e computer e chiedendogli se avesse preso parte ai funerali di un collega, Walid Yehia, che era morto dopo aver contratto il virus e che era rimasto due giorni in attesa di trovare un letto disponibile in un ospedale per la quarantena del Cairo. Il 14 giugno il Sindacato dei medici ha emesso un comunicato stampa in cui si sottolineava come questi arresti avessero creato “frustrazione e paura tra i medici”. Il 25 maggio un gruppo di medici dell’ospedale al-Mounira del Cairo ha rassegnato le dimissioni, lamentando la mancanza di formazione e di kit per effettuare i tamponi nonché “le decisioni arbitrarie [del ministero della Salute] in relazione all’effettuazione dei test e alle misure di isolamento”, che potrebbero aver contribuito alla morte di Walid Yehia. Secondo numerose fonti, funzionari dell’Agenzia per la sicurezza nazionale si sono recati all’ospedale al-Mounira per costringere i medici in sciopero a ritirare le dimissioni. In relazione alla morte di Walid Yahia, le indagini avviate dal ministero della Salute hanno riconosciuto “responsabilità amministrative” ma limitatamente all’ospedale dove era avvenuto il decesso. La persecuzione nei confronti di operatori sanitari esisteva anche prima della pandemia. Nel settembre 2019 cinque medici erano stati arrestati per aver lanciato la campagna “I medici egiziani sono arrabbiati”, che chiedeva una riforma del sistema sanitario egiziano. Uno di loro, il dentista Ahmad al-Daydamouny, è ancora in carcere per aver denunciato online il salario basso, le condizioni di lavoro e l’inadeguatezza delle strutture sanitarie. I nostri ricercatori hanno parlato anche con sette medici che hanno assistito a minacce nei confronti di loro colleghi che avevano sollecitato, attraverso post sui social media, il ministero della Salute a fornire kit per effettuare i tamponi, formazione e accesso alle cure mediche in caso di positività al coronavirus. Una fonte del Sindacato dei medici ha confermato che gli operatori sanitari vengono tuttora sottoposti a minacce e interrogatori da parte dell’Agenzia per la sicurezza nazionale, procedure amministrative e sanzioni: “Stiamo ricevendo molte denunce, mentre altri preferiscono pagare, procurarsi di tasca propria strumenti di protezione personale, e tacere. Ci stanno costringendo a scegliere tra la morte e il carcere”. L’Agenzia per la sicurezza è presente in tutti i comitati di crisi del Covid-19 del paese, a conferma dell’approccio securitario nella gestione della pandemia. Abbiamo ascoltato alcuni messaggi audio inviati a operatori sanitari da funzionari locali del ministero della Salute o dalle direzioni degli ospedali in cui si minacciano segnalazioni all’Agenzia per la sicurezza nazionale o procedimenti amministrativi che potrebbero portare al decurtamento dello stipendio. In uno di questi messaggi, un medico che aveva rifiutato di tornare al lavoro per l’assenza di condizioni di sicurezza viene definito “un soldato traditore che merita di subire la più dura delle pene”. In una lettera firmata dal governatore del Sinai del Nord c’è scritto che i medici che non svolgeranno il loro lavoro o che risulteranno assenti verranno convocati dall’Agenzia per la sicurezza nazionale. Sempre fonti del Sindacato dei medici hanno riferito di operatori sanitari puniti col trasferimento negli ospedali per l’isolamento delle persone in quarantena o in strutture sanitarie più lontane. Questa situazione mette a rischio i medici anziani o quelli con patologie pregresse. Un provvedimento del genere ha riguardato un medico dell’ospedale centrale di Deyerb Negm, trasferito altrove dopo aver postato un video in cui sollecitava la fornitura di dispositivi di protezione individuale. Stesso destino hanno subito otto farmaciste, trasferite in altri governatorati del paese dopo che avevano denunciato le condizioni di lavoro all’interno dell’Istituto di medicina nazionale di Damanhour.