Revocata la circolare anti-Covid. Il Dap: “Non è più necessaria” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 giugno 2020 Alla fine, martedì, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha emanato una circolare che revoca la famosa nota del 21 marzo che aveva ordinato le direzioni carcerarie di segnalare alle autorità giudiziarie i detenuti vecchi e malati. Quella famosa circolare è stata messa all’indice dalla Commissione Antimafia presieduta da Nicola Morra, perché considerata responsabile della detenzione domiciliare concessa ai circa 500 reclusi per reati mafiosi. La circolare che revoca quella precedente, a firma del capo Dap Bernardo Petralia e del suo vice Roberto Tartaglia, è ben motivata e non stigmatizza assolutamente quella precedente. Anzi, i vertici del Dap spiegano il perché ora non è più necessaria. Vale la pena riportare tutto il contenuto. Il Dap scrive che “la legge n. 27 del 24 aprile 2020, nel convertire il decreto - legge n. 18 del 17 marzo 2020, al comma 17 dell’art. 83 ha indicato al 31 maggio 2020 il periodo relativo alla sospensione dei permessi premio e del regime di semilibertà”, ma dopodiché “l’articolo 4 del decreto-legge n. 29 del 10 maggio 2020, pur continuando a prevedere fino al 30 giugno 2020 - per il rispetto delle condizioni igienico-sanitarie idonee a prevenire il rischio di diffusione del contagio - lo svolgimento a distanza dei colloqui di cui agli artt. 18 O.P. e 37 del d.P.R.. 230 del 2000, ha comunque reintrodotto i colloqui de visu”. Il Dap prosegue spiegando che la lettera cc) dell’art 1 comma 1 del D.P.C.M. del 17 maggio 2020, come modificata dall’art 1 del D.P.C. M.del 18 maggio 2020, “non contiene più riferimenti alla raccomandazione di valutare la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare”. Non solo, nella circolare si sottolinea che “il numero dei ristretti positivi al Covid-19, pari oggi a 66 persone su poco più di 53.000 detenuti, è in costante diminuzione. Negli istituti penitenziari risultano in atto protocolli di prevenzione dal rischio di diffusione del contagio”, quindi, conseguentemente “si dispone la sospensione dell’efficacia delle disposizioni impartite con la nota n. 95907 del 21 marzo 2020”. Però il Dap aggiunge, dimostrando accortezza, che “resta evidentemente impregiudicato il disposto della normativa e delle altre circolari in materia. Resta parimenti impregiudicata la necessità del più accurato monitoraggio delle condizioni di salute dei ristretti e fra questi, in particolare, di coloro maggiormente a rischio di complicanze in caso di contagio”. Ora quindi la nota circolare del 21 marzo è sospesa. Importante anche per sapere che fino all’altro ieri, di fatto, sono rimaste le disposizioni per la comunicazione alla Autorità giudiziaria, “per le eventuali determinazioni di competenza”, dei nominativi dei ristretti in condizioni di salute tali da comportare un elevato rischio di complicanze in caso di contagio. Questo è anche importante perché, fino all’altro ieri, i direttori penitenziari avevano l’obbligo di fare determinate segnalazioni. In realtà anche senza quella circolare sono tenuti a farlo. L’art. 23 comma 2 del Regolamento di Esecuzione penitenziaria prevede che “fermo restando quanto previsto dal comma 4 dell’articolo 24, qualora dagli accertamenti sanitari o altrimenti, risulti che una persona condannata si trovi in una delle condizioni previste dagli articoli 146 e 147, primo comma, numeri 2) e 3), del Codice Penale, la direzione dell’Istituto trasmette gli atti al magistrato di Sorveglianza e al tribunale di Sorveglianza per i provvedimenti di rispettiva competenza. La Direzione provvede analogamente, quando la persona interessata si trovi in custodia cautelare, trasmettendo gli atti alla Autorità Giudiziaria procedente”. Inoltre, l’Art. 108 del predetto Regolamento di Esecuzione, prevede che “Il Pubblico ministero competente per l’esecuzione, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria, il direttore dell’istituto penitenziario e il direttore del centro di servizio sociale (ora ufficio locale di Esecuzione penale esterna), quando abbiano notizia di talune delle circostanze che, ai sensi degli articoli 146 e 147, primo comma, numeri 2) e 3), del Codice Penale, consentono il rinvio dell’esecuzione della pena, ne informano senza ritardo il Tribunale di Sorveglianza competente e il Magistrato di Sorveglianza”. Questo senza alcuna distinzione, che siano detenuti ostativi o meno. Il nuovo Dap dice che nelle carceri va tutto bene, ma non è così di David Allegranti Il Foglio, 18 giugno 2020 La nuova direzione del Dap ha sospeso la circolare del 21 marzo che chiedeva ai direttori dei penitenziari italiani di indicare - per contrastare il contagio nelle carceri - i nomi dei detenuti con più di 70 anni affetti da patologie. Motivo? “Il numero dei ristretti positivi al Covid-19, pari oggi a 66 persone su poco più di 53 mila detenuti, è in costante diminuzione”, dicono i nuovi vertici del Dap, il capo Bernardo Petralia e il vice Roberto Tartaglia, e “negli istituti penitenziari risultano in atto protocolli di prevenzione del rischio di diffusione del contagio”. I vertici del Dap dunque nella sospensione della circolare richiamano le “recenti norme che testimoniano di un minore rischio di diffusione del contagio: il superamento delle limitazioni agli spostamenti per tutti i cittadini e, in ambito penitenziario, il ripristino dei permessi premio e del regime di semilibertà, la reintroduzione dei colloqui fisici, i protocolli di prevenzione tuttora in atto negli istituti penitenziari e il numero di ristretti positivi al Covid-19 in costante diminuzione”. Per Emilio Santoro, filosofo del diritto, si tratta di un “pessimo segnale” della nuova direzione. “La circolare - dice Santoro al Foglio - non faceva che ricordare, in un momento particolare, un dovere che le direzioni hanno sempre: quello della tutela della salute dei detenuti. Che le direzioni debbano sottoporre ai magistrati di sorveglianza i rischi per la salute delle persone affidate alla loro cura (oltre che controllo) è un dato certo nell’ordinamento. Se non lo facessero ne deriverebbe una violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (che proibisce la tortura e i trattamenti inumani e degradanti) e una responsabilità da contatto sociale secondo la normativa nazionale”. Entrambe le cose, aggiunge Santoro, “se fatte valere giudizialmente costerebbero parecchie migliaia di euro allo stato e sarebbe legittimo che questo chiamasse i direttori che non hanno fatto le segnalazioni a rispondere del danno erariale. La revoca della circolare è un pessimo segnale della nuova direzione del Dap. Sembra dire ai direttori: “Non vi dovete preoccupare del diritto, che la Costituzione considera fondamentalissimo, alla salute delle persone che vi sono state affidate, lasciate che siano loro a fare le istanze”, cosa che con i tempi non brevissimi che queste prevedono può recare un danno irreparabile alla salute dei detenuti e compromettere anche la loro vita”. Quella del Dap, insomma, è una mossa eminentemente politica, visto che non è l’amministrazione penitenziaria a decidere chi deve uscire dal carcere oppure no, ma sempre la magistratura di sorveglianza. Peraltro, la fase 2 delle carceri è tutt’altro che serena, come osserva Sofia Ciuffoletti, direttrice dell’Altro diritto. Quest’anno ci sono stati 23 suicidi in carcere, tre di questi sono avvenuti in Toscana, Campania e Piemonte proprio nelle sezioni Covid. “Questo significa che nella gestione dell’isolamento non sono state tutelate le persone che hanno sofferenze psichiche”. C’è dunque una distonia fra le considerazioni del Dap e la realtà delle cose: “I dati su chi è positivo e chi non lo è non sono chiari. In più, i colloqui si fanno ancora in videoconferenza e ai detenuti sono permessi incontri dal vivo soltanto una volta al mese”. L’altra questione, fondamentale, è il sovraffollamento, osserva Ciuffoletti. Dall’inizio dell’emergenza sanitaria a oggi sono state scarcerate 10 mila persone, “ma il paradigma normativo è rimasto lo stesso, nonostante in Italia la condizione di sovraffollamento endemico sia accertata da anni. In questi tre mesi c’è stata una corsa alle misure alternative, che io saluto naturalmente con grande favore, ma è solo temporanea e non di lungo periodo, destinata a non mantenersi. In dieci anni non siamo riusciti a deflettere il tasso di sovraffollamento, è stata necessaria una pandemia. Ma il nostro timore è che a breve ricomincerà a salire, perché il quadro normativo non è cambiato”. Mirabelli: Cura Italia e circolare Dap non c’entrano con arresti domiciliari dei mafiosi senatoripd.it, 18 giugno 2020 “Certamente la messa agli arresti domiciliari, nessuna liberazione, di troppi condannati per reati di mafia è stata grave e ha fatto emergere la necessità di ulteriori norme per garantire che i mafiosi non possano tornare nei propri territori ricostruendo i rapporti con le proprie organizzazioni. Questo è il senso di una parte importante di questi decreti. All’inizio della pandemia, ci siamo posti il problema di preservare la salute dei detenuti e di chi opera in carcere. Preservare la salute anche dei detenuti, di tutti i detenuti è un dovere e una responsabilità a cui non potevamo e non possiamo sottrarci. Infatti il punto non è questo. Né il 123 del Cura Italia che prevedeva gli arresti domiciliari col braccialetto per chi doveva scontare ancora fino a 18 mesi, ma escludeva esplicitamente i reclusi al 41bis o per reati di mafia, né la famosa circolare del Dap che segnalava la necessità di salvaguardare i soggetti a rischio di fronte al pericolo Covid, sono all’origine del problema. Il punto è stato che il rapporto quotidiano tra Dap e procure antimafia che aggiornava la situazione dei detenuti per reati associativi, si è interrotto e la procura non ha potuto far valere il proprio diritto di segnalare i rischi di reiterazione dei rapporti con le organizzazioni criminali e impedire gli arresti domiciliari. In secondo luogo, fermo restando, e spero che su questo siamo tutti d’accordo, che il diritto alla salute va garantito anche ai peggiori criminali, non si sono predisposte strutture alternative agli arresti domiciliari in gradi di garantire insieme la sicurezza e la salute del detenuto. Oggi, con questi due provvedimenti, quello che obbliga la magistratura di sorveglianza a chiedere e ottenere il parere delle procure antimafia in merito ai collegamenti tutt’ora esistenti con le organizzazioni criminali e alla pericolosità del detenuto e quello che dà la possibilità alla sorveglianza di rivalutare i provvedimenti assunti a fronte di ipotesi alternative di reclusione, compatibili con lo stato di salute del detenuto, interveniamo per impedire il ripetersi di vicende come questa”. Così Franco Mirabelli, vice presidente dei senatori del Pd, nel suo intervento sul Dl intercettazioni a proposito del tema degli arresti domiciliari di reclusi per mafia durante la pandemia da Covid. Ardita: “La Circolare del 21 marzo è un atto d’impulso e non andava fatto” Il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2020 Il presidente della I Commissione del Csm, in passato direttore generale del Trattamento detenuti del Dap, è stato ascoltato dalla commissione Antimafia, che sta continuando il suo lavoro sulle scarcerazioni di 223 detenuti in regime di 41bis e Alta sicurezza posti ai domiciliari durante l’emergenza coronavirus. “Quell’atto di impulso non andava fatto”. E quell’atto è l’ormai celebre circolare del Dipartimento amministrazione penitenziaria del 21 marzo scarso. Non ha dubbi Sebastiano Ardita, presidente della I Commissione del Csm e tra il 2002 e il 2011 direttore generale del Trattamento detenuti del Dap. Il magistrato è stato ascoltato dalla commissione Antimafia, che sta continuando il suo lavoro sulle scarcerazioni di 223 detenuti in regime di 41bis e Alta sicurezza posti ai domiciliari durante l’emergenza coronavirus. “Sono usciti 250 mafiosi, è un fatto senza precedenti, mai accaduto”, ha commentato a Palazzo San Macuto, dove l’organo parlamentare sta cercando di capire come è nata quell’ormai famosa nota del Dap e se ha avuto come fine proprio la concessione dei domiciliari a detenuti esclusi dalle leggi incluse nel Cura Italia. Quella circolare è stata sospesa dal Dap proprio oggi. “La circolare era una nota con cui il Dap assumeva la sua posizione rispetto al problema del Covid, ma non può essere letta sganciata da un contesto. È successo che a un certo punto, mentre il Paese si è preparato all’emergenza ciò non sembra essere avvenuto per l’universo penitenziario” che invece “avrebbe dovuto farlo perché ci vuole un piano per il carcere”, ha spiegato Ardita. “La circolare - ha continuato - si innesta in quadro in cui la premessa, non fondata, è stata che il Covid si diffonde in maniera maggiore nei penitenziari”. Per il magistrato dunque quel documento era un “atto di impulso che non doveva essere fatto. Dal mio punto di vista non andava elaborata una nota del genere. Contraddice il compito del Dap che è quello di assicurare il massimo dei servizi”. Insomma: secondo l’ex direttore generale dell’Ufficio Trattamento detenuti anche in caso di un’epidemia il Dap deve essere in grado di mantenere le condizioni di sicurezza dentro alle carceri, senza dover ricorrere alle scarcerazioni di massa. “La circolare - ha spiegato il consigliere del Csm - si innesta su questo quadro: il sillogismo che il Covid carcere si diffonde più rapidamente, premessa non fondata. La conseguenza è che il rischio di trovarsi dei provvedimenti giudiziari su un dato non suffragato dalla realtà è molto elevato. C’è stata una situazione a cui hanno concorso più fattori. E la circostanza che vi fosse un pericolo Covid poi è diventata una verità, rimpallata tra organi istituzionali e circolari”. Quella circolare, tra l’altro, secondo Ardita “non poteva essere firmata” dalla dirigente di turno e lo stesso “Romano (il direttore generale della direzione detenuti e trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ha detto che è stata firmata per nome e conto suo” Ardita ha commentato anche la gestione dei penitenziari durante l’emergenza: come è noto, infatti, i penitenziari di tutta Italia sono esplosi in una serie di rivolte contemporanee tra il 7 e il 9 marzo. “Tranquillizzando i detenuti si sarebbe impedito che qualcuno soffiasse sul fuoco della rivolta dei mesi scorsi e si poteva agire in modo da tranquillizzare la popolazione detenuta in merito alla diffusione del virus. Distendendo la situazione si poteva agire in modo da tranquillizzare la popolazione detenuta e anche gli agenti. La risposta è stata molteplice - ha detto Ardita nella sua ricostruzione esterna rispetto a quanto accaduto - c’è stata una normativa che è ha previsto a certe condizioni la detenzione ai domiciliari fuori dai canoni ordinari, perché l’hanno ottenuta anche persone erano ritenute non idonee, sul presupposto del pericolo Covid in carcere: un presupposto non suffragato dalla realtà”. Secondo Ardita “le rivolte non sono fatti accaduti per caso, sono un punto di caduta di anni di disattenzione rispetto questa realtà. A un certo punto ci sono alcuni eventi critici, alcune circostanze gravi che avvengono nel carcere subiscono una moltiplicazione: ad esempio le aggressioni al personale della penitenziaria erano 294 nel 2010 crescono fino a 805 nel 2019, le minacce a pubblico ufficiale passano da 270 a 3mila, il rinvenimento di coltelli da 37 a 200, le infrazioni disciplinari passano da 579 nel 2010 a venti volte tanto”. Il magistrato aggiunge che questi dati “fotografano il clima interno alle carceri” e “fotografano una realtà fuori controllo”. La crescita degli atti di “autolesionismo” così come quelli sul “mancato o ritardato rientro in carcere di detenuti che ottengono il permesso” indicano “l’evidente disagio delle condizioni di vita dei detenuti”. “Carceri fuori controllo, rivolte frutto di anni di disattenzione” “Le rivolte non sono fatti accaduti per caso, sono un punto di caduta di anni di disattenzione rispetto questa realtà”. Lo afferma il presidente della I Commissione del Csm, Sebastiano Ardita, ascoltato in audizione in Commissione parlamentare Antimafia parlando della situazione nelle carceri. “A un certo punto ci sono alcuni eventi critici, alcune circostanze gravi che avvengono, nel carcere subiscono una moltiplicazione: ad esempio le aggressioni al personale della penitenziaria erano 294 nel 2010 crescono fino a 805 nel 2019, le minacce a pubblico ufficiale passano da 270 a 3mila, il rinvenimento di coltelli da 37 a 200, le infrazioni disciplinari passano da 579 nel 2010 a venti volte tanto”, ha sottolineato Ardita. Ardita aggiunge che questi dati “fotografano il clima interno alle carceri” e “fotografano una realtà fuori controllo”. La crescita degli atti di “autolesionismo” così come quelli sul “mancato o ritardato rientro in carcere di detenuti che ottengono il permesso” indicano “l’evidente disagio delle condizioni di vita dei detenuti”. Per quanto riguarda poi la contestatissima circolare del Dap in cui veniva richiesto di indicare ai magistrati di sorveglianza i detenuti più fragili in relazione all’epidemia di coronavirus, “era una nota con cui il Dap - sottolinea Ardita - assumeva la sua posizione rispetto al problema del Covid, ma non può essere letta sganciata da un contesto. È successo che a un certo punto, mentre il Paese si è preparato all’emergenza” ciò non sembra essere avvenuto per “l’universo penitenziario” che invece “avrebbe dovuto farlo perché ci vuole un piano per il carcere”. “La circolare si innesta in quadro in cui la premessa, non fondata, è stata che il Covid si diffonde in maniera maggiore” nei penitenziari, ha spiegato Ardita, secondo il quale si è trattato di un “atto di impulso che non doveva essere fatto”. “Dal mio punto di vista non andava elaborata una nota del genere - ha concluso - Contraddice il compito del Dap che è quello di assicurare il massimo dei servizi”. Errori giudiziari, sale il conto dei risarcimenti di Clemente Pistilli La Notizia, 18 giugno 2020 Gli indennizzi per ingiusta detenzione cresciuti da 33,3 a 43,4 milioni. Gli errori giudiziari costano. Costano tanto a chi si trova in carcere da innocente e si vede rovinare la vita. E pesano pure sulle casse dello Stato che deve risarcire le vittime. Costano talmente tanto che nel giro di un anno gli indennizzi per ingiusta detenzione sono aumentati di 10 milioni di euro. Una piaga che emerge dalla relazione sull’applicazione delle misure cautelari personali e sui provvedimenti di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione predisposta dal Ministero della giustizia e presentata alla Camera dei deputati dal ministro per i rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà. Al 31 marzo scorso, stando ai dati forniti dall’86% degli uffici giudiziari italiani al dicastero di via Arenula, risulta che nel 2019 sono state emesse 94.197 misure cautelari, 31.624 delle quali in carcere, dunque le più pesanti. Circa ottomila in più dell’anno precedente. Aumentati però anche gli innocenti messi in carcere. Le riparazioni per ingiusta detenzione disposte dalle diverse Corti d’Appello, non più soggette ad impugnazione e dunque definitive, sono state infatti 489. E altre 537 sono invece quelle ancora soggette ad impugnazione. Oltre mille in totale. Ogni provvedimento del genere è la storia di un dramma vissuto dai protagonisti di tali vicende. E un costo per lo Stato. Tanto che nel 2019 per i rimborsi a chi è stato ingiustamente detenuto il Ministero dell’economia e finanze ha speso 43,4 milioni di euro. Dieci milioni in più del 2018, quando la spesa è stata di 33,3 milioni. Mille le ordinanze a cui ha dovuto far fronte il Mef, per un importo medio di 43.487 euro. Esborsi si relativi in larghissima parte a errori compiuti nel Meridione, con i pagamenti più consistenti emessi in relazione provvedimenti della Corte d’Appello di Reggio Calabria. Chi sbaglia è però ancora difficile che paghi. Nella relazione presentata a Montecitorio viene specificato che, analizzando l’attività svolta dall’Ispettorato generale del Ministero della giustizia, la comparazione con gli anni precedenti non risulta possibile, considerando che l’Ispettorato ha fornito per il 2019 dati parziali, in quanto non disponibili quelli relativi alle Corti d’Appello di Brescia, Lecce, Napoli, Perugia, Salerno. Evidenziato quindi che, relativamente ai procedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati, “l’analisi normativa e il monitoraggio avviato dall’Ispettorato generale sulle ordinanze di accoglimento delle domande di riparazione per ingiusta detenzione consentono di ritenere”, l’assenza di correlazione tra il riconoscimento del diritto alla riparazione accertato nei citati provvedimenti e gli illeciti disciplinari dei magistrati, che le anomalie che possono verificarsi in correlazione con l’ingiusta compressione della libertà personale in fase cautelare sono costantemente oggetto di verifica da parte degli Uffici ministeriali, sia nel corso di ispezioni ordinarie sia a seguito di esposti e segnalazioni delle parti, dei loro difensori e di privati cittadini, che in esito alle informative dei dirigenti degli uffici, e che il sistema disciplinare consente di intercettare e sanzionare condotte censurabili molto prima ed indipendentemente dalla verifica giudiziaria dei presupposti per il riconoscimento della riparazione da ingiusta detenzione. Intanto c’è chi senza colpe continua a finire in una cella e lo Stato che con i soldi di tutti continua a rimborsare gli errori. Csm: “Col dl Bonafede a rischio il diritto alla difesa” Il Dubbio, 18 giugno 2020 “Si rischia un “vulnus” al diritto di difesa”. È questo il parere reso dalla VI commissione del Csm sul decreto del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che ha previsto un sistema di rivalutazione periodica della concessione dei domiciliari ai detenuti per motivi di salute legate all’emergenza sanitaria. Il parere è stato approvato ieri pomeriggio dal plenum a maggioranza, con l’astensione dei laici M5S Filippo Donati e Fulvio Gigliotti e del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. La sesta commissione critica infatti “la serrata tempistica con la quale essi devono intervenire”, ovvero entro 15 giorni, e “la complessità degli accertamenti da svolgere periodicamente”, cioè ogni mese, la quale “determinerà un notevole aggravio del lavoro della magistratura di sorveglianza”. La quale “dapprima investita del compito di risolvere il cronico problema del sovraffollamento delle carceri, con il dl che le ha offerto ridotti strumenti/ argomenti per valutare i presupposti dell’applicazione di misure alternative”, ora viene “investita del compito di offrire una supplenza rispetto al problema del reperimento di strutture interne al circuito penitenziario”. La norma ha ottenuto ieri il via libera del Senato, con 154 voti a favore, 129 contrari e 2 astensioni alla fiducia posta martedì dal governo. Il maxi emendamento al dl 28/ 2020, che ora passa all’esame della Camera, proroga al primo settembre l’entrata in vigore della riforma dell’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando sulle intercettazioni. Una proroga resa necessaria a causa delle ripercussioni nel settore della giustizia dell’emergenza coronavirus. Entra invece immediatamente in vigore il deposito in forma telematica degli atti e dei provvedimenti riguardanti le intercettazioni. Il decreto stabilisce, soprattutto, la fine della Fase 2 della Giustizia, fissando al primo luglio la data del ritorno nelle aule di tribunale, e approva anche le udienze da remoto per la Giustizia amministrativa, così come proposto dall’Unione nazionale avvocati amministrativisti. Ma il punto più controverso è, appunto, quello relativo al carcere, dopo le polemiche delle scorse settimane sugli arresti domiciliari concessi a diversi condannati per 416bis. Il testo prevede che per la concessione degli arresti domiciliari e dei permessi ai detenuti per reati legati alla criminalità organizzata e sottoposti al 41bis il magistrato di sorveglianza, prima di decidere, dovrà chiedere il parere del procuratore della Repubblica del tribunale del capoluogo del distretto dove è stata emessa la sentenza e del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. “Un altro passo importante per il miglioramento del sistema giustizia”, ha commentato Bonafede. La norma disciplina, infine, anche l’utilizzo dell’App Immuni. Scarcerazione Carminati ineccepibile, è Bonafede a non aver capito di Giorgio Spangher Il Riformista, 18 giugno 2020 Quella che passerà nell’opinione pubblica sarà l’idea che un criminale è libero. Non è così. Sono scaduti i termini massimi della custodia cautelare per i due reati per i quali Carminati era in carcere, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 304 comma 6 del codice penale, nel rispetto del dettato costituzionale - e più precisamente dell’articolo 13 - e nel rispetto della giurisprudenza in materia di contestazioni a catena. In altri termini Carminati resta imputato in attesa che il giudice di rinvio definisca la pena che dovrà scontare dopo che la Cassazione - che non poteva definirla perché non è un giudice di merito - aveva escluso l’aggravante mafiosa ma ne aveva riconosciuto la colpevolezza. Carminati non poteva restare in carcere in attesa di questa decisione perché il tempo massimo previsto per la custodia cautelare era scaduto. Quando il processo di rinvio rideterminerà la pena per i reati pendenti Carminati sconterà l’esecuzione cui sarà condannato salvo una possibile valutazione medio temporale di esigenze cautelari. Anche la stampa dovrebbe dunque farsi garante di un’informazione che non calchi sul pedale dell’emotività. Anche la nuova politica si sta misurando con l’autonomia della giurisdizione e rinverdisce i vecchi strumenti. Si mettono in campo rispetto ai provvedimenti che non si condividono - ancorché non definitivi e suscettibili quindi di successivi controlli - i tradizionali strumenti distorsivi. Il riferimento va in questo caso all’invio degli ispettori. Già sperimentati con il Tribunale di sorveglianza di Sassari, sono riproposti per il tribunale della Libertà di Roma. Ma prima di lasciarsi andare a valutazioni sommarie sarebbe opportuno leggere i provvedimenti. Se mi è consentito esprimermi, quello romano è pienamente condivisibile: sfido un non esperto non solo a leggerlo - cosa che dubito succederà - ma anche a chi conosca la materia a confutarlo nel merito. Si tratta difatti di una materia di un tale approfondimento che solo un esperto del tema delle misure cautelari può comprendere fino in fondo. Invece è facile prevedere che ci si farà travolgere dal circuito mediatico e dall’ideologia punitiva e dalla polemica politica dalla quale un ministro dovrebbe restare lontano rispettando nei fatti e non solo a parole l’autonomia della magistratura. È facile prevedere anche che si batteranno le strade delle modifiche delle leggi come già successo per le famigerate “scarcerazioni dei boss” rischiando che la fretta confezioni norme ad alto rischio di illegittimità costituzionale come nella vicenda Zagaria. E che si tenterà il ripristino del carcere per i condannati assegnati agli arresti domiciliari. Senza tener conto della decisione della Corte costituzionale sulla legge spazza-corrotti e della sentenza della Corte europea sul caso Viola, che rigettando il ricorso del governo ha confermato che non c’è compatibilità tra il cosiddetto ergastolo ostativo previsto dall’art. 4 bis della Legge sull’Ordinamento penitenziario e l’articolo 3 della Convenzione. La magistratura ha sicuramente dei limiti e può commettere errori, ma un profondo respiro prima di prendere qualche decisione e soprattutto dopo aver ben valutato i suoi provvedimenti può non essere inopportuno. “La scarcerazione di Carminati è giusta e l’ispezione decisa da Bonafede espone i magistrati” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 giugno 2020 Intervista all’avvocato Cesare Placanica: “Quello di Bonafede è un messaggio privo di serietà, rivolto ai naviganti, a coloro che non hanno cognizioni giuridiche: le ispezioni si fanno, non si annunciano. I magistrati così subiscono il linciaggio dell’opinione pubblica”. La scarcerazione di Massimo Carminati ha riempito le pagine di tutti i giornali e suscitato molte polemiche. Ieri la Procura generale della Corte di Appello ha disposto l’obbligo di dimora nel comune di Sacrofano. “Una decisione che fatico a comprendere” commenta il suo difensore Cesare Placanica, che lo assiste insieme al collega Francesco Tagliaferri. Ne parliamo con il suo difensore Cesare Placanica, che lo assiste insieme al collega Francesco Tagliaferri. Avvocato Placanica tanto clamore per nulla, in fondo si è solo rispettata la legge? Determinate sensibilità nell’opinione pubblica spesso prescindono dai dati concreti. Quello che si è verificato è in realtà l’esplicazione di un principio generale non solo del nostro ordinamento giuridico ma di tutti quelli caratterizzati da un alto tasso di democrazia che prevedono un limite alla carcerazione preventiva. Tra l’altro in Italia questi limiti sono estremamente ampi, molto più degli altri Paesi. Qui la carcerazione preventiva è afflitta da un abuso. Molti hanno legato la decorrenza dei termini della sentenza “Mondo di mezzo” con la scarcerazione di Carminati... Se c’è un caso in cui la decorrenza dei termini è assolutamente priva di ogni responsabilità è “Mafia Capitale” perché sotto il profilo della tempistica i giudici sono stati molto celeri. Io sapevo che Carminati sarebbe uscito dal carcere quando è stata emessa il 22 ottobre 2019 la sentenza della Cassazione: era impossibile evitare la scarcerazione. Il mio assistito, cadendo l’accusa di mafia, resta imputato per fatti che non possono consentire una custodia preventiva oltre i 5 anni e 4 mesi. In quella data ne aveva scontati quasi 5 e sapevo che era impossibile in 4 mesi pubblicare le motivazioni della Cassazione, trasmettere gli atti alla Corte di Appello, celebrare il giudizio di appello bis, trattarlo, scrivere le motivazioni e dare i termini alle parti per impugnarle. Però il ministro Bonafede ha inviato gli ispettori... Questo sistema di mettere all’indice i magistrati che fanno il proprio lavoro non giova per niente alla giurisdizione. In qualche modo può condizionare e intimorire il giudice, messo nelle condizioni di avere una dote che nessun Paese civile può pretendere da un giudice: il coraggio. Io ho dedicato gran parte della mia discussione dinanzi al Tribunale del Riesame nel dire ai giudici: “verrete criticati aspramente se applicherete la legge ma so che il vostro senso del dovere non può fare a meno di rispettarla” nel disporre la scarcerazione di Carminati. Quello di Bonafede è un messaggio privo di serietà, rivolto ai naviganti, a coloro che non hanno cognizioni giuridiche: le ispezioni si fanno, non si annunciano. I magistrati così subiscono il linciaggio dell’opinione pubblica, perché appaiono non solo come ingiusti ma anche collusi con un fantomatico sistema che vuole farla fare franca a Carminati. Spero che l’Anm faccia sentire la propria voce. Alfonso Sabella in una intervista al Corriere della Sera ha detto: “come spiegare ad un cittadino comune che, con quel curriculum criminale, Carminati adesso resti a casa sua?”... Sabella ha premesso che Carminati è uscito per rispetto delle regole del codice. Però Sabella fa il giudice ma ogni volta che parla non nasconde la sua natura di pubblico ministero. Credo che la sua sia una visione assolutamente partigiana che parte da un dato: Carminati è l’uomo nero, il manovratore di tutte le trame occulte d’Italia e quindi è ingiustificato che sia libero. Tuttavia uno è un uomo nero, un mafioso, un omicida solo se è scritto negli atti processuali: se lui mette in discussione ciò non fa altro che mancare di fiducia alla valutazione della giurisdizione. La Procura generale della Corte di Appello ha disposto ieri l’obbligo di dimora per Carminati, che non potrà spostarsi dal Comune di Sacrofano... Fatico a comprendere questa decisione perché voglio ricordare che nel processo per l’omicidio Pecorelli Carminati si era presentato davanti al carcere per costituirsi qualora fosse stato ritenuto colpevole ed era consapevole che rischiava l’ergastolo; mi sembra difficile che adesso si dia alla fuga. Enrico Bellavia su Repubblica ha scritto: “Se le mafie si evolvono e cambiano pelle, anche la giurisprudenza dovrebbe adeguarsi offrendo strumenti per qualificare incisivamente ciò che appare come un grado più sofisticato di consorteria mafiosa”... Mi sembra un discorso illiberale, da difesa sociale tipico di uno Stato totalitario. Adeguare al fatto concreto l’effettiva valenza di una norma è una prassi tipica della giurisprudenza. Ma bisogna tenere presente che tutti i reati associativi sono già reati estremamente difficili da inquadrare sotto il profilo della condotta. L’essenza di ogni sistema penale democratico è che il fatto vietato deve essere descritto nei particolari. L’arresto di Carminati è finito in tutte le televisioni. La sua scarcerazione anche. C’è sempre il solito problema della giustizia show? Nutro grande rispetto per il diritto di informazione che come tutti i diritti deve incontrare un limite che è quello del rispetto della dignità dell’uomo. Riprendere e pubblicare l’arresto di una persona, che è un momento di estrema delicatezza, significa violare l’intimità e i diritti essenziali dell’uomo. Nel nostro ordinamento è esplicitamente vietato questo: è una norma introdotta dopo la pubblicazione di alcune immagini di cui il nostro Paese si deve vergognare, come l’arresto di Enzo Tortora. Bonafede e populismo giudiziario: le lentezze della giustizia non possono pagarle gli imputati di Davide Rossi atlanticoquotidiano.it, 18 giugno 2020 È soprattutto in momenti come questi che ci manca Marco Pannella. Mi riferisco alla scarcerazione di Massimo Carminati e alle ispezioni subito disposte dal ministro della giustizia Bonafede (da poco “graziato” sulla mozione di sfiducia al Senato dal cialtronismo politico di Renzi). Ispezioni o intimidazioni verso i giudici che, vivaddio, hanno applicato la legge? Intendiamoci, sul tasso di criminalità e spietatezza del soggetto non si discute e tutti ci auguriamo che la condanna definitiva che gli verrà inflitta sia la più dura possibile. Ma Pannella, un leader politico autenticamente garantista, che non ha mai temuto battaglie scomode e politicamente scorrette, non sarebbe rimasto in silenzio. Ci permettiamo di azzardare che il leader radicale avrebbe attaccato il ministro grillino per questo ennesimo, sottovalutato episodio di populismo giudiziario. Caduta l’accusa di associazione mafiosa nel processo di primo grado, Carminati è stato condannato per corruzione. Nonostante la presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva, in teoria principio cardine del nostro ordinamento (non sappiamo ancora per quanto, vista la brutta aria che tira), Carminati ha già scontato cinque anni e sette mesi di carcerazione preventiva, ossia più di due terzi della pena edittale massima che potrà essergli comminata in caso di condanna definitiva. Quindi, i giudici, di fronte alle istanze dei difensori, lo hanno sacrosantamente scarcerato. Comprensibile che Carminati appaia indifendibile, ma le norme di garanzia del nostro ordinamento valgono anche per lui, così come per qualunque altro cittadino dovesse incappare nelle maglie della giustizia. Oppure, dopo la prescrizione, i grillini vogliono abolire anche i termini di carcerazione preventiva? Per questo, sono convinto che Pannella non sarebbe rimasto in silenzio. Perché messe in discussione le garanzie costituzionali e di legge per Carminati, il vulnus riguarda tutti noi. Eppure, non c’è una forza politica che queste cose abbia il coraggio di dirle. Siamo passati dalla democrazia alla “sondaggiocrazia”, così tutto ciò che è impopolare anche se giusto, non lo si dice. Se va bene si fa finta di niente e nella maggior parte dei casi si cavalca populisticamente l’argomento. Ed invece Bonafede andrebbe sì criticato, ma non per aver permesso la scarcerazione del boss di “Mafia Capitale”, bensì perché dopo oltre due anni al governo non è riuscito a far funzionare in modo più celere la giustizia penale e civile. Ma è mai possibile che in Italia in sei anni si concluda solo il giudizio di primo grado? Non è una grave distorsione, di per sé una forma di ingiustizia? È questo il punto su cui dovrebbe svilupparsi il dibattito politico. Neppure di fronte al clamore mediatico suscitato da questa vicenda si è riusciti a far camminare speditamente il processo, figuriamoci quel che succede nei procedimenti a carico dei cittadini “ordinari”, che si celebrano al riparo dai riflettori. Il ministro Bonafede dovrebbe tra l’altro chiarire le ragioni per le quali i suoi uomini al DAP hanno aperto le porte del carcere a centinaia di condannati per mafia, col pretesto del coronavirus, piuttosto che inviare ispettori presso i giudici del caso Carminati. Anche gli aedi dell’”indipendenza della magistratura”, nel Pd e altrove, non hanno nulla da dire? Tutti zitti, tanto un’ispezione ministeriale oramai sta bene su tutto e non si nega a nessuno. In questa ignavia, ipocrisia e codardia della nostra classe politica, pezzo dopo pezzo, si intaccano, screditandoli, tutti quegli istituti che rendevano il nostro un sistema appena garantista. Ecco sì, oggi Pannella ci sarebbe proprio servito. Carminati libero e boss scarcerati, la giustizia amministrata dai grillini mi preoccupa di Andrea Viola* Il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2020 Dopo oltre due anni di governo grillino, il punto sulla Giustizia, da loro amministrata, si può fare. E basterebbe prendere i numeri e leggere gli ultimi avvenimenti - scarcerazione per decorrenza dei termini di Carminati e scarcerazioni dei vari boss mafiosi - per capire come il Ministero amministrato da Alfonso Bonafede desti forti preoccupazioni. Riforme reali ed utili mai fatte ma solo propaganda demagogica e nulla di più. L’esempio classico è sulla prescrizione: una riforma completamente sbagliata e superata dalla realtà e dalle reali condizioni dei tribunali italiani e dalle condizioni delle carceri. I processi arrivano già morti prima di iniziare e la prescrizione nulla c’entra. Senza poi considerare la carenza cronica di magistrati e cancellieri in molti tribunali. Il quadro - se possibile - si è ampliato in peggio dall’emergenza Covid che vede il sistema giudiziario completamente impantanato e organizzato in ordine sparso. Oltre a questo le continue ombre lanciate insistentemente dal consigliere del Csm, Nino Di Matteo, sulla sua mancata nomina al Dap. E le intercettazioni di Luca Palamara che disegnano un sistema di correnti nella magistratura che si intreccia con disinvoltura con politica, giornalismo e ogni altro tipo di potere. Insomma uno scenario molto preoccupante e che evidentemente tutti hanno timore ad affrontare. E diciamo la verità. Se al Ministero della Giustizia ci fosse stato un altro partito oggi i grillini avrebbero fatto la loro classica sceneggiata e riempito le tv e i giornali - oltre ai social - di insulti e improperi contro la casta. Immaginatevi voi se Carminati e i boss mafiosi fossero usciti dal carcere con al Ministero un politico di un altro colore. Il finimondo. Ma questo è quello che sta accadendo e purtroppo non se ne vede una luce. La giustizia grillina è al lavoro da due anni e questi sono i risultati, una discesa senza fine e nessuna reale prospettiva. Basterebbe andare un giorno in tribunale o nelle carceri per capire veramente di cosa si parla. Fare oggi una causa è vedere una sentenza civile veloce è impossibile. Nel campo penale anche peggio. I criminali ringraziano e le vittime non trovano il giusto conforto. Sulla questione poi, della sempre dimenticata, funzione rieducativa della pena neanche ne parliamo più. Ma il problema vero è che tutto questo continua ad allontanare gli investitori che non si sentono sicuri e che vedono un sistema giudiziario inefficace e pericoloso. Un Paese così di certo non può definirsi civile. Ecco, che avrebbero detto oggi i grillini di allora? Questo è il frutto della incompetenza al potere e della facile propaganda populistica fatta quando si era all’opposizione. E i risultati poi si vedono senza scusanti. Questa è l’idea di Giustizia? Quelli che dicevano basta anche il sospetto per doversi dimettere. Ad oggi questi i risultati: un disastro. *Avvocato e consigliere di Italia Viva Di Matteo e l’accusa di “metodi mafiosi” al Csm, ma nessuno apre un’inchiesta di Tiziana Maiolo Il Riformista, 18 giugno 2020 Se un leader di partito, di un qualunque partito, magari sconfitto in un congresso, andasse in tv a dire di aver perso perché sono stati usati metodi mafiosi, che cosa succederebbe? Nel nome del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, un procuratore della Repubblica aprirebbe un fascicolo. Magari con il modello 45, cioè contro ignoti. Ma sentirebbe subito dopo come persona informata sui fatti il leader rancoroso e poi magari, come atto dovuto, manderebbe un’informazione di garanzia al segretario di quel partito. Ci sarebbero titoloni sui giornali, il circo mediatico sarebbe in movimento e quel fatto, quasi sicuramente inesistente, potrebbe portare a un mutamento dell’assetto politico. Tutto ciò non accade se Nino Di Matteo, che pure è riuscito a vincere, con l’aiutino di Piercamillo Davigo, in un’elezione suppletiva del Csm, porta in tv le proprie frustrazioni e arriva a dire che l’uso delle correnti o delle cordate tra magistrati nelle progressioni di carriera è un sistema “mafioso”. È chiaro che il pm reso famoso dal processo “trattativa”, accusando gli altri, parli di sé. Ma solo per autoassolversi e recitare la parte della vittima. È arrabbiato perché non è diventato ministro quando il partito che lo ha sempre osannato, il Movimento Cinque stelle, è andato al governo. È furibondo perché il guardasigilli Bonafede gli aveva promesso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e poi vi ha collocato un Basentini qualunque. Voleva andare a una procura distrettuale “antimafia” e non ce l’ha fatta. Poi gli era arrivato il contentino di un posto nel pool creato dal Procuratore nazionale Cafiero de Raho per indagare finalmente sui “mandanti” delle stragi, quelli che non erano mafiosi ma erano i veri ispiratori delle bombe. Insomma, Berlusconi o giù di lì. Ma anche in quella commissione gli era andata male ed era stato liquidato in pochi giorni. Insomma, se non ci fosse stato l’amico Davigo… Perché sia chiaro che la sua elezione al Csm è pura, è etica, è fuori dalle correnti dei “mafiosi” come Palamara. Il quale, come risulta da qualche chat o da quel diavolo di trojan, era contrario alla sua collocazione nel pool sulle stragi e si è poi compiaciuto del fatto che Cafiero de Raho l’avesse espulso. Ma Palamara, intervistato nello stesso salotto di Giletti in cui Di Matteo, in carne e ossa oppure al telefono o in immagini registrate è il dominus, ha spiegato molto bene come funziona il meccanismo “mafioso”. Non sono nemico di Di Matteo, ha detto, infatti l’ho sostenuto nel 2009 quando voleva andare all’antimafia, ma gli ho preferito altri nel 2016, quando si è ritenuto che altri profili fossero più adatti per il ruolo. Il meccanismo è fatto così. Il fatto che il dottor Di Matteo oggi sia indignato, dopo aver saputo come si sviluppano le carriere dei suoi colleghi, ci è di grande conforto. Supponiamo che negli anni scorsi lui sia stato all’estero e non abbia mai avuto contatti con altri magistrati italiani che lo tenessero informato di quel che succedeva. Ora vuol fare una svolta “etica” tra le toghe. Preferiremmo il termine “culturale”, anche perché lo Stato etico lo vediamo ogni giorno in inchieste come quella di cui il dottor Di Matteo è stato promotore, quello sulla fantasiosa “trattativa” tra lo Stato e la mafia. Ma è anche preoccupato, l’ex pm, perché vede la sua corporazione indebolita dall’immagine che ormai in tanti hanno delle toghe e teme che qualcuno ne approfitti. Qualcuno chi? Beh, il mondo politico, che vorrebbe distruggere l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati e sottoporli al controllo dell’esecutivo. Un bel ragionamento da pubblico ministero, che confonde la parte con il tutto, o il tutto con una singola parte. Perché, neanche nel programma del più entusiasta sostenitore del sistema processuale anglosassone si è mai pensato di toccare l’indipendenza dei giudici, ma semmai di rendere responsabili politicamente i pubblici accusatori. La svolta etica del dottor Di Matteo consisterebbe dunque in questo? Nel rafforzare il partito dei pm, considerando solo loro i veri magistrati, i veri componenti della casta? 37 anni fa l’arresto di Enzo Tortora: in suo nome Giornata delle vittime della giustizia ingiusta di Francesca Scopelliti Il Riformista, 18 giugno 2020 Troppo spesso trascurato dai giornali e dalla tv, l’anniversario del 17 giugno 1983 resta scolpito nella memoria di quanti assistettero sgomenti alla scoperta traumatica di cos’erano diventate nel nostro Paese l’amministrazione della giustizia e del diritto, le carceri, le leggi. Quel giorno due procuratori napoletani in cerca di popolarità e carriera fecero una clamorosa e imponente retata di 856 arresti di presunti camorristi (ne verranno poi condannati appena un terzo) e per sorreggere la credibilità di tale inchiesta decisero di infilare nel mucchio, senza indagini e senza uno straccio di prova, un galantuomo come Enzo Tortora. Da 37 anni ricordiamo questa data insieme ai compagni del Partito radicale. Sarebbe il caso che lo facesse finalmente anche il Parlamento, approvando una legge che istituisca nel nome di Enzo la Giornata per le vittime della giustizia ingiusta. Nell’attesa, questo 17 giugno 2020 cade proprio quando il virus del Trojan ha irrimediabilmente compromesso l’onorabilità della magistratura associata. Quella, per intenderci, che per anni ha occupato il pulpito arrogante dell’indipendenza senza limiti e della superiorità morale senza critica ma che adesso dovrebbe rassegnarsi allo scomodo banco degli imputati. Dovrebbe, se non fosse per la benevolenza che ancora le viene accordata da buona parte della stampa: antropofaga con Enzo Tortora, per anni complice dei tanti Palamara e ora silente per imbarazzo, convenienza e cattiva coscienza. Sì, cattiva coscienza. La stessa che pervade quella classe politica che negli scorsi decenni ha sistematicamente avversato le battaglie referendarie di Marco Pannella e dei radicali per la separazione delle carriere dei magistrati, per l’abolizione del sistema elettorale del Csm a liste concorrenti e per l’eliminazione degli incarichi extragiudiziari. Insomma, 37 anni dopo, il dolore e l’indignazione per quel che accadde devono fare ancora i conti con un’attualità immutata, tragicamente teatrale, contaminata oltretutto dal populismo giustizialista di una società “civile” nella quale si fatica a distinguere le guardie e i ladri. Nel gennaio 1984, in una lettera a Giorgio Bocca, Enzo scriveva: “Non entro nel merito dei due pesi e delle due misure che lei descrive. Valga solo un fatto. In una recente retata (mi pare sullo scandalo dei Casinò) fu ammanettato un tale, sorpreso a tavola, a cena, con un magistrato. Ciò non significa nulla. Ma si immagina se esistesse una foto di Tortora che banchetta con Cutolo? Lei pensa non sarebbe stata considerata, come tutte le altre infamie che mi crocifiggono, la “prova schiacciante”?”. E più avanti: “Ho scoperto l’Italia nella quale la dignità del cittadino viene calpestata in omaggio a quello che una volta veniva definito il “Mussolini ha sempre ragione”. Ma io alla giustizia, e non al Duce, ci credo. E affermo che a battermi, disperatamente, per la Giustizia, sono oggi io, e non quel pugno di criminali che la beffano, la disonorano, la ingannano. Le ripeto: la mia è la storia di molti. La giustizia quella vera, non deve arroccarsi in un malinteso senso di irresponsabilità: deve semplicemente liberarsi da coloro che la disonorano in vista di un prezzo, di un miserabile privilegio. Ho compreso molte, troppe cose, in questi mesi d’angoscia. Eppure mi batto. Fin che avrò vita, forza, voce”. In tutti questi anni, grazie alla Fondazione costituita dallo stesso Tortora con volontà testamentaria e al Partito Radicale, quella voce è stata tenuta viva, non si è mai spenta. Ma non basta, evidentemente. Ci sono oggi altri soggetti - partiti, associazioni, giornali, personalità della cultura, dell’impresa e delle professioni - che abbiano la voglia e la forza di aggiungersi, rendendola più forte? Dalla risposta a questa domanda dipende buona parte del nostro futuro. Rogo Thyssenkrupp, concessa la semilibertà ai due manager tedeschi di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 18 giugno 2020 Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz non sconteranno la pena completamente in carcere per il rogo di Torino del 2007 che causò 7 vittime. L’annuncio di Radio Colonia. La rabbia dei parenti delle vittime: “Ci sentiamo presi in giro”. Nella notte tra il 6 e il 7 dicembre del 2007 un incendio divampò lungo la linea 5 dello stabilimento ThyssenKrupp di Torino: sette operai persero la vita, divorati dalle fiamme. Dodici anni dopo, la memoria di quei sette uomini intrappolati nel fuoco viene macchiata da una giustizia negata. Ieri pomeriggio i familiari delle vittime si sono ritrovati a casa di Rosina De Masi, la mamma di Giuseppe. Avrebbero dovuto confrontarsi su alcune iniziative da organizzare per l’anniversario della tragedia. Ma l’incontro si è trasformato in un consiglio di guerra. Dalla Germania è giunta infatti la notizia che Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz, i due manager della multinazionale riconosciuti colpevoli del rogo e della morte dei dipendenti, avevano ottenuto la semilibertà. “Ci incateneremo a Roma. Moriremo di fame e di sete pur di avere una risposta - si sfoga Rosina. Non è accettabile che non scontino neanche un giorno di carcere. Se non vanno in galera loro, che hanno sette morti sulla coscienza, allora chi ci andrà?”. Misura alternativa - La Procura generale di Essen ha concesso ai dirigenti tedeschi il cosiddetto “Offner Vollzug”, una misura alternativa al regime carcerario pieno. In sostanza, Espenhahn e Priegnitz potranno lasciare il penitenziario di giorno e continuare a lavorare, ma dovranno fare rientro la notte. A spiegare la decisione dei magistrati tedeschi è stato lo stesso procuratore di Essen, Anette Milk, nel corso di un’intervista all’emittente Radio Colonia. La notizia ha poi trovato conferma negli ambienti giudiziari torinesi. Entro un mese dovrebbe quindi partire per entrambi l’esecuzione della pena. I dirigenti hanno potuto accedere alla misura alternativa perché i giudici ritengono ci siano tre fattori a loro favore: non hanno precedenti penali, non sussiste il pericolo di fuga e non c’è nemmeno il rischio di reiterazione del reato in considerazione degli incarichi che oggi svolgono in seno alla multinazionale. “Non era certo questa la notizia che ci aspettavamo - sottolinea Antonio Boccuzzi, unico sopravvissuto al rogo -. Siamo arrabbiati, delusi. Tutte le rassicurazioni che ci sono state date sono cadute nel vuoto. È inquietante rendersi conto che non si può più credere in nessuno. E nemmeno nella giustizia. I lunghi anni di processo e le battaglie per la sicurezza sui luoghi di lavoro perdono ogni significato di fronte a decisioni di questo tipo, che mancano di rispetto a sette morti e a un intero Paese”. “Inevitabile” - Il rischio che i due dirigenti non scontassero neanche un giorno di carcere sembrava a un certo punto scongiurato. Nei giorni scorsi il procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo - in seguito a una dettagliata relazione depositata da Eurojust - aveva infatti spiegato che per i manager il carcere “era inevitabile e imminente” e che non erano previste misure alternative. Ora la decisone dei giudici tedeschi disattende tutte le aspettative. Nel 2016 Espenhahn, all’epoca della tragedia amministratore delegato Thyssen, era stato condannato in Cassazione a 9 anni e 8 mesi di reclusione; per Priegnitz, membro del cda, la pena inflitta era stata di 6 anni e 10 mesi. All’indomani del verdetto, però, avevano fatto ricorso alla magistratura tedesca. La loro ultima istanza è stata respinta a febbraio dal tribunale superiore di Hamm. Ma la pena è stata ridotta a cinque anni: il massimo previsto in Germania per il reato di omicidio colposo. Abnorme il decreto che dispone la confisca non stabilita dalla sentenza di condanna di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2020 Contro l’omessa pronuncia sull’applicazione della confisca esistono solo due rimedi o l’impugnazione della sentenza di condanna contenente l’omissione o l’applicazione della medesima misura di sicurezza da parte del giudice dell’esecuzione, ma in tal caso ovviamente solo quando la condanna è passata in giudicato. Quindi, come afferma la sentenza n. 18461 depositata ieri dalla Corte di cassazione penale, il giudice in fase di cognizione non può con provvedimento successivo a quello di condanna stabilire la misura della confisca. Il caso - È, infatti, definito “abnorme” dalla Cassazione il decreto del Gip che dopo la decisione di condanna assunta con rito abbreviato disponga, di fatto in assenza di contraddittorio, la misura di sicurezza. Nel caso specifico la Cassazione ha annullato il decreto con cui il Gip aveva disposto la confisca finalizzata alla distruzione, perché non ne era possibile la vendita, di un autoveicolo che era stato il mezzo di commissione del reato di detenzione illecita di cocaina e marijuana. Protezione umanitaria, la condizione di vulnerabilità va valutata caso per caso Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2020 Straniero - Protezione umanitaria - Vulnerabilità - Valutazione - Individuale - Necessità - Fattispecie. La situazione di vulnerabilità che rileva ai fini della protezione umanitaria deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale del richiedente perché altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del soggetto ma piuttosto quella del suo paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui all’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998 (Nella specie la corte di cassazione ha rigettato la domanda di un cittadino del Bangladesh formulata sulla base della provenienza da una zona del suo paese con particolare conformità geografica e conseguente clima avverso che lo esponevano al rischio di calamità naturali e all’impossibilità di provvedere al suo, e degli altri residenti, sostentamento) • Corte di Cassazione, sezione I, ordinanza 4 giugno 2020, n. 10624. Straniero - Protezione umanitaria - Necessaria valutazione comparativa tra integrazione sociale raggiunta in Italia e situazione con riferimento al paese d’origine - Fattispecie. In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, in assenza di comparazione, aveva riconosciuto ad un cittadino gambiano presente in Italia da oltre tre anni il diritto al rilascio del permesso di soggiorno in ragione della raggiunta integrazione sociale e lavorativa in Italia allegando genericamente la violazione dei diritti umani nel Paese d’origine). • Corte di Cassazione, sezione I sentenza 23 febbraio 2018 n. 4455. Straniero - Protezione internazionale - Protezione umanitaria - Vulnerabilità - Valutazione relativa alla vicenda personale del richiedente - Necessità - Fondamento. La valutazione della condizione di vulnerabilità che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria deve essere ancorata ad una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, poiché, in caso contrario, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui all’art. 5, comma 6, d. lgs. n. 286 del 1998. • Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza 3 aprile 2019, n. 9304. Straniero - Protezione internazionale - Protezione umanitaria - Presupposti di riconoscimento del titolo di soggiorno. Non può, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, né il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza Si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria • Corte di Cassazione, sezioni Unite, sentenza 13 novembre 2019, n. 29460. Napoli. Il carcere di Poggioreale cade a pezzi e Bonafede non fa nulla di Viviana Lanza Il Riformista, 18 giugno 2020 Celle in cui si sta in sei e persino in nove, pareti fatiscenti, muffa, umidità, perdite d’acqua e fili elettrici scoperti. A Poggioreale ci sono padiglioni da ristrutturare ma i fondi sono fermi da tre anni. La denuncia arriva dal garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello che ieri ha scritto al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per denunciare una situazione ormai ai limiti, o meglio per rinnovare la denuncia visto che ai piani alti di chi governa la segnalazione sulle condizioni di alcuni luoghi del carcere di Poggioreale, il più grande e affollato d’Italia, era arrivata anche un anno fa. “È trascorso un anno e ancora ci sono padiglioni con celle da sei o nove persone. Prima che sia troppo tardi - denuncia Ciambriello - credo sia opportuno e giusto nominare un commissario ad acta per i lavori di ristrutturazione di questi padiglioni disumani e fatiscenti”. È un grido di allarme, l’ennesima segnalazione di una criticità a cui porre rimedio si potrebbe, perché i fondi, a sentire Ciambriello, non mancherebbero. E allora perché non si fa? L’interrogativo resta con il punto di domanda. “Ci sono 12 milioni di euro che da tre anni sono inutilizzati dal Provveditorato alle opere pubbliche della Campania” dice il garante regionale dei detenuti. “Esattamente un anno fa, il 16 giugno 2019, i detenuti protestarono occupando il padiglione Salerno del carcere di Poggioreale. Il pretesto iniziale fu la condizione sanitaria di un giovane detenuto ristretto al secondo piano ma le vere motivazioni della protesta - scrive Ciambriello al ministro della Giustizia - erano le pessime condizioni igienico-sanitarie, il sovraffollamento, lo stato delle singole celle tutte senza docce, con intonaci consumati dall’umidità e dalla muffa, e perdite d’acqua che rischiavano di entrare in contatto con fili elettrici scoperti”. Il detenuto del padiglione al secondo piano si era ammalato di meningite e la sera stessa fu trasferito in ospedale, ma la notizia che stava male fece presto il giro delle celle esasperando animi già esagerati, e fu protesta. La situazione fu tale da far intervenire l’allora capo del Dap Francesco Basentini in persona. “Fu la prima volta nella storia” ricorda Ciambriello. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si recò a Poggioreale e parlò con i detenuti. “Verificò con i propri occhi le condizioni dei padiglioni dove si era sollevata la protesta. Durante la visita - racconta il garante - si rese conto delle pessime condizioni dei locali e interloquì con i detenuti del padiglione Salerno incontrandoli all’interno delle celle. Già in quella occasione segnalai che da tre anni erano disponibili dodici milioni di euro presso il Provveditorato delle opere pubbliche della Campania per lavori di ristrutturazione dei padiglioni Salerno, Livorno, Milano, Roma e Napoli. Purtroppo in questi tre anni sono stati fatti solamente due sopralluoghi”. Quei fondi furono stanziati dall’allora ministro delle Infrastrutture. Ci sarebbero anche soldi per rimettere a nuovi parti del grande penitenziario di Poggioreale, una struttura costruita nel 1918, ammodernata solo in parte nel tempo, composta da otto padiglioni centrali più il reparto per il centro diagnostico terapeutico realizzato successivamente. Poggioreale è l’istituto più grande del paese e con il più alto numero di detenuti (2.127 reclusi a fronte di una capienza regolamentare di 1.644 secondo l’ultimo report annuale). “Lo spazio fisico vitale, aggregativo e ricreativo, unitamente alla mancanza di vuoti comunicativi e relazionali con le famiglie, sono già stati oggetto di sanzione da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo” afferma Ciambriello sollecitando l’intervento del ministro “prima che sia troppo tardi”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). 130 agenti assenti per stress di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 18 giugno 2020 Non è risolta la crisi del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Se due giorni fa tra gli agenti della polizia penitenziaria in servizio i malati per stress da lavoro erano 100, oggi sono diventati 130, e la gestione ordinaria della struttura “è ormai insostenibile”. Voci dall’interno del penitenziario confermano come, dopo il doppio episodio che ha fatto schizzare alla ribalta della cronaca la struttura carceraria casertana, le condizioni di lavoro non siano assolutamente migliorate. La notifica degli avvisi di garanzia da parte dei carabinieri agli agenti penitenziari di giovedì 11 giugno e la rivolta dei detenuti di sabato 13 giugno hanno lasciato strascichi significativi tra gli agenti, che non riescono più a sopportare l’atmosfera che si respira; i circa 80 uomini del Gom (Gruppo operativo mobile) inviati dai vertici del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) come rinforzo non hanno compiti di servizio, per cui qualcuno, specie tra i sindacalisti, li giudica anche poco utili. Con i 130 poliziotti malati, in servizio ora ce ne sono poco meno di 250: è quasi impossibile far funzionare bene il carcere. Sul caso di Santa Maria Capua Vetere era intervenuto ieri il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, con notizie di tenore diverso: il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sta adottando tutti i provvedimenti di sua competenza nei confronti dei detenuti responsabili dei disordini “e già nell’immediatezza dei fatti - ha ribadito il ministro - ha disposto il trasferimento di tre detenuti ascritti al circuito Alta sicurezza e di quattro ascritti al circuito Media sicurezza”. Bonafede è intervenuto al question time: “Il personale del Gom, subito intervenuto in supporto, è stato impiegato per il rinforzo di tutti i reparti detentivi e sono stati predisposti gli atti per l’assegnazione, in via provvisoria, presso la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, di complessive 40 unità del Corpo di polizia penitenziaria per permettere di superare il momento di contingente complessità che si è venuto a creare”. Bonafede aveva poi sottolineato la “particolare attenzione” del ministero al Corpo di polizia penitenziaria: “da quando sono ministro sono stati immessi in ruolo complessivamente 3.931 agenti e 256 unità di personale amministrativo, mentre sono oltre 6.000 le assunzioni complessive già programmate per i prossimi anni, tra amministrativi e militari)”. È inoltre in corso “il riordino delle carriere con l’obiettivo di allargarne gli orizzonti di crescita professionale, migliorarne la funzionalità organizzativa, così da equipararne la progressione a quella delle altre forze armate”. Il ministro, al quale le opposizioni non hanno risparmiato critiche, ha parlato anche di altri argomenti, stavolta però su Facebook: “Oggi, con il via libera del Senato alla fiducia sul decreto “carceri e intercettazioni”, compiamo un altro passo importante per il miglioramento del sistema giustizia. Il decreto adesso passerà alla Camera dei deputati per la definitiva conversione in legge”. “A causa dell’emergenza Coronavirus, è stato necessario prorogare l’entrata in vigore della riforma sulle intercettazioni, una legge importante che potenzia un fondamentale strumento d’indagine salvaguardando la privacy dei cittadini”, ha ricorda Bonafede. La legge “prevede inoltre che siano richiesti stabilmente i pareri delle procure antimafia per la concessione della detenzione domiciliare nei confronti dei reclusi per gravi reati”. Critico sul punto il Csm: “Il sistema di rivalutazioni” previsto dal decreto, con cadenza quindicinale e poi mensile, “per la serrata tempistica con la quale essi devono intervenire e per la complessità degli accertamenti da svolgere periodicamente, determinerà un notevole aggravio del lavoro della magistratura di sorveglianza, le cui attività hanno subìto un notevole incremento in concomitanza dell’emergenza Covid-19”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Lega, FdI e M5S: “accertamenti sugli episodi di violenza” Il Dubbio, 18 giugno 2020 Mentre ieri il Sindacato autonomo della Polizia penitenziaria (Sappe) ha manifestato davanti al carcere di Santa Maria Capua Vetere per chiedere la dimissione del guardasigilli Alfonso Bonafede e addirittura l’abrogazione della figura del garante regionale dei detenuti, in Parlamento c’è La Lega, Fratelli d’Italia e il Movimento Cinque Stelle che offrono sponda alle lamentele dei sindacalisti chiedendo al ministro di avviare accertamenti su quanto è accaduto. Sia sulla rivolta di alcuni detenuti (alcuni di loro trasferiti in altre carceri per punizione) di sabato 13 giugno, che ha portato al ferimento di otto agenti della penitenziaria, e sia sulle tensioni di giovedì 11 giugno tra carabinieri e poliziotti penitenziari in seguito alla notifica da parte dei militari dei 55 avvisi di garanzia per presunte torture di detenuti commesse in carcere dagli agenti. Quello stesso giorno, per protesta, alcuni agenti sono perfino saliti sui tetti. “Non entriamo nel merito delle contestazioni della Procura - ha detto Donato Capece, segretario nazionale del Sappe - ma diciamo no alla spettacolarizzazione della giustizia”. Capece ha invocato inoltre lo “scudo penale” per gli agenti. Secondo le denunce raccolte dall’associazione Antigone, la Onlus Il Carcere Possibile e dallo stesso Garante regionale Samuele Ciambriello, il 5 aprile, a seguito del diffondersi della notizia che tra i detenuti del reparto “Nilo” ci fosse un caso positivo al “Covid 19”, alcuni detenuti hanno iniziato una protesta. Nella stessa serata del 5 aprile, anche grazie all’intervento del Direttore e del Garante regionale, la protesta è rientrata. La mattina seguente anche il Magistrato di sorveglianza si è recato presso l’istituto per un confronto pacifico con i detenuti. Sempre il 6 aprile, ma intorno alle ore 15, agenti di polizia in tenuta antisommossa, con il volto coperto da caschi e i guanti alle mani, avrebbero iniziato a compiere atti violenti. Alcuni agenti sarebbero entrati nelle celle e, cogliendo i detenuti di sorpresa, li avrebbero violentemente insultati e picchiati con schiaffi, pugni, calci e a colpi di manganello. Alcuni detenuti picchiati sarebbero poi stati posti in isolamento, altri sarebbero stati trasferiti in altri istituti. Ma ad accertare la veridicità di tali racconti sarà la procura. Vasto (Ch). Carcere per detenuti in osservazione anti-Covid da tutto l’Abruzzo histonium.net, 18 giugno 2020 Stato di agitazione della Polizia penitenziaria di Vasto per effetto di un’ultima disposizione che indica nella struttura di Torre Sinello la “sede ricettiva da destinare alle persone arrestate di tutta la Regione Abruzzo, che dovranno essere tenute in osservazione quale misura di contenimento nella diffusione del Covid-19”. A segnalarlo, in una nota, le organizzazioni sindacali Sappe, Cnpp, Osapp, Cgil, Cisl e Uil, quelle maggiormente rappresentative del personale del Corpo Polizia Penitenziaria in servizio alla Casa Lavoro di Vasto che parlano di “ennesimo e grave atto unilaterale dell’Amministrazione penitenziaria le cui conseguenze, come di solito, ricadono sull’esiguo personale che presta servizio nell’istituto di pena vastese”. Si legge nella nota: “Questa volta, senza preventivo coinvolgimento delle rispettive rappresentanze sindacali di comparto, ha individuato nella Casa Lavoro di Vasto quale sede ricettiva da destinare alle persone arrestate di tutta la Regione Abruzzo, che dovranno essere tenute in osservazione quale misura di contenimento nella diffusione del Covid-19. Questa decisione, tra l’altro presa in modo repentino dal Provveditore Regionale per le regioni Lazio, Abruzzo e Molise, senza adeguati provvedimenti a supporto, crea pregiudizio alle già esigue risorse di personale, carenti del 30% circa, con ricadute peggiorative sull’organizzazione del lavoro, di sicurezza sanitaria che interessa oltre gli interessati, le proprie famiglie e più in generale tutta la Città di Vasto. Per questi motivi - si conclude nel documento diramato dalle sigle sindacali - le scriventi organizzazioni sindacali proclamano lo stato di agitazione e la conseguente protesta dell’astensione della fruizione della mensa di servizio, non escludendo altre azioni più eclatanti, qualora l’Amministrazione non porrà in essere adeguati e urgenti provvedimenti tesi al rispetto delle regole, delle prerogative del personale e risorse necessarie a garanzia dell’incolumità di tutti operatori”. Parma. “Si avvii il servizio di lavanderia industriale in carcere, già finanziato” parmadaily.it, 18 giugno 2020 In questi giorni abbiamo depositato una interrogazione relativa alla apertura del nuovo padiglione presso il Carcere di Parma, annunciata per questo mese, e svolto una comunicazione urgente nel consiglio del 15 giugno per voce del cons. Campanini, nella quale tra l’altro è stato nuovamente sollecitato l’avvio del servizio di lavanderia industriale, già finanziato, in cui verrebbero impegnati diversi detenuti. In passato in Consiglio Comunale abbiamo condiviso con le altre forze politiche la preoccupazione per l’apertura di tale nuovo padiglione che sembra quantomeno prematura. Il carcere è un luogo spesso dimenticato e non considerato dalla pubblica opinione, ma esso ha una importanza rilevante per molte ragioni ed in particolare per le possibili ricadute che porta sul territorio. Le percentuali di recidiva estremamente alte, oltre a mettere in discussione l’efficacia delle pene (che dovrebbero invece scongiurare le ricadute), incrementano la necessità per le altre istituzioni, di effettuare prevenzione, reinserimento sociale e gestione del fenomeno “sicurezza”, con intuibili difficoltà. È chiaro quindi che l’arrivo di altri 200 detenuti, in una struttura che già denuncia carenza di organico, di programmi professionalizzanti interni alla struttura e sovraffollamento, deve preoccupare, assieme alla perdurante mancanza di una dirigenza stabile e duratura. L’interrogazione si pone quindi l’obiettivo di sensibilizzare nuovamente la politica dall’interno dell’istituzione comunale, con lo scopo di levare una voce, più unitaria possibile, affinché siano assicurate misure idonee all’esercizio di una funzione tanto delicata quale quella carceraria, quando non fosse possibile rinviare l’apertura del nuovo padiglione o almeno diminuire il numero dei detenuti previsti. È giusto infine esprimere il nostro ringraziamento a tutti coloro che in vari modi e a diverso titolo lavorano e\o operano all’interno del carcere, ricordando che, nonostante il sovraffollamento e la carenza di organico, nulla di grave è accaduto nel periodo del Covid-19 sia in termini di contagio, sia in termini di disordini. Gruppo consiliare Partito Democratico Lorenzo Lavagetto, Sandro Campanini, Daria Jacopozzi, Caterina Bonetti L’antimafia con gli occhi di “Nessuno tocchi Caino” Il Dubbio, 18 giugno 2020 “La vetrina e il retrobottega del negozio dell’antimafia”: sarà questo il tema del coniglio direttivo convocato da Nessuno tocchi Caino- Spes contra Spem per sabato 20 giugno, dalle 9.30 alle 21.30 sulla piattaforma Zoom e in diretta su Radio Radicale e sui canali social YouTube e Facebook di Nessuno tocchi Caino. “Mentre in vetrina è esposto il capo fine e nobile della lotta alla mafia, nel retrobottega è invece stipata la mercanzia grossolana comunemente usata nella lotta alla mafia”, si legge in una nota. I dirigenti dell’associazione radicale Sergio D’Elia, Rita Bernardini ed Elisabetta Zamparutti, nel convocare la riunione, hanno sottolineato che “non è mai vero che il fine giustifica i mezzi, perché può accadere che i fini più nobili, idee sacrosante siano pregiudicati e distrutti dai mezzi sbagliati usati per conseguirli. Noi siamo impegnati a scongiurare questa tragica eterogenesi dei fini che si rivelano l’opposto rispetto agli scopi originari. Siamo convinti che sia possibile - continua la nota. Che sia possibile combattere la mafia senza minare i principi dello Stato di Diritto e i diritti umani fondamentali. Che sia possibile prevenire il crimine senza distruggere il lavoro, la vita delle persone e delle imprese. Che sia possibile evitare l’infiltrazione mafiosa nella vita democratica senza annullare il voto e la partecipazione dei cittadini alla vita democratica. Che sia possibile mettere gli individui pericolosi in condizione di non nuocere senza degradare in atti lesivi della dignità umana, tortura e trattamenti o punizioni inumane o degradanti”. La riunione affronterà due punti della mozione generale: iniziative di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e di ricorso alle alte giurisdizioni nazionali e sovranazionali, volte a superare l’armamentario emergenzialista speciale di norme e regimi quali il sistema delle informazioni interdittive e delle misure di prevenzione antimafia, e delle procedure di scioglimento dei comuni per mafia; iniziative volte all’abolizione dell’isolamento, a partire dal regime di 41bis e dell’isolamento diurno. Il vento e la stella. Storie e sogni per bambini di Valeria Saladino* psicotypo.it, 18 giugno 2020 La Direzione della Casa Circondariale “Giuseppe Passerini” di Civitavecchia, in collaborazione con il Master in Storytelling attivato dal Dipartimento Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre, hanno bandito nel 2019 il primo concorso di scrittura creativa riservato esclusivamente alle donne detenute negli Istituti penitenziari italiani. Il concorso nasce con l’intenzione di regalare uno spazio di espressione e un’eco di ascolto per le donne detenute, un’esigua minoranza rispetto al totale dei reclusi in Italia, e per questo destinataria di poche attenzioni specifiche. Paolo Maddonni, il funzionario educatore che presso l’Istituto di Civitavecchia segue appunto la sezione femminile e ha ideato il concorso, riporta che: “Una storia da ascoltare è quello che i bambini e i ragazzi chiedono ai genitori prima di addormentarsi la sera, durante un viaggio o quando sono tristi. Spesso la mamma, il papà, la nonna, la zia, i fratelli più grandi, leggono storie e filastrocche da un libro; molte volte, però, le inventano utilizzando le proprie narrazioni: favole con animali, fiabe di magia, racconti fantastici, drammatici o paurosi, storie incredibili ma vere, episodi di famiglia; ma anche filastrocche, poesie o testi di canzoni. Il Premio Letterario Il vento e la stella ha rappresentato, per le donne detenute, l’occasione di inventare e raccontare una storia o una poesia dedicata a bambini o ragazzi del mondo per mandare loro un messaggio di affetto. Poi, la voglia di tirare fuori quanto si porta dentro forse da anni, ha fatto sì che diverse delle opere inviate non fossero favole o filastrocche, ma spezzoni di racconti e ricordi intimi e importanti di donne che hanno colto l’invito del concorso trovandovi un ambiente piccolo e accogliente”. Sono 22 le opere inviate da 20 autrici, di cui due non italiane, recluse in 8 diversi Istituti in tutta Italia. Riceveranno un attestato di partecipazioni con commenti e valutazioni da parte dei giurati, oltre che premi di varia natura. Le stelle che ci guidano oltre le avversità - Le donne che si raccontano parlano di ciò che mai hanno potuto condividere con i loro figli, spesso fuggiti agli abbracci a causa del tempo che le condanna alla lontananza. Alcune affrontano tematiche forti. Una poesia racconta in chiave favolistica una storia di violenza subita, mantenendo la sua fermezza nonostante i toni leggeri che sembrano raccontare una storia d’amore ma che nasconde una dura verità. Come le favole per bambini questa poesia racchiude in sé un insegnamento: che l’amore non deve far male, che bisogna seguire sempre la propria stella. Avere il coraggio di rialzarsi nonostante tutto, osservare il cielo illuminato e seguire quella stella che alta ci guida. Un’altra poesia affronta il tema della perdita e della lontananza infondendo la forza e la speranza di una madre che prega di rivedere sua figlia. L’autrice descrive un temporale silenzioso che tormenta il suo animo di madre. Una madre che saluta la figlia e che si rassegna a non vederla per un po’ di tempo e a riabbracciarla cambiata in volto e nella mente in un futuro incerto. La donna descrive foreste tristi e scure che rappresentano i ricordi. Nonostante l’oscurità, basta immaginare e usare la fantasia per “colorare nella mente”, poiché quando si può immaginare allora si può anche realizzare ciò che si desidera, resistendo ad ogni ostacolo anche alla neve da cui nasce un giglio. Questa poesia mostra la resilienza e la voglia di non arrendersi di fronte alle avversità, mantenendo il proprio essere anche quando ci si dimentica di sé. La mamma è il vento e i bambini le sue stelle - “Ti amo perché ti vedo riflessa in tutto che c’è di bello al mondo” una donna descrive la proiezione di sé attraverso i suoi figli, riflesso della sua parte migliore. Una madre ricorda con queste parole la bellezza di quando era bambina e di come sia fondamentale non perdere questa parte di sé poiché è quella che ci rende più umani “non esiste emozione più bella di essere bambini, godersi i momenti magici con la famiglia. Proprio lì ci si sente innocenti e con la purezza addosso che non tutti manteniamo. Ricordiamo al mondo che possiamo essere adulti ma bisogna sempre avere lo spirito giovanile dentro e far rimanere in noi la parte bambina”. E tra i pensieri che piombano pesanti nella mente alcune donne raccontano di sé interrogandosi sul senso della vita, sperando di riuscire a guardare avanti e al futuro, di vivere nel qui ed ora della loro cella per apprezzare il là ed allora dei ricordi “tocco pareti ruvide di umidità e di gelo. Che senso mi dà la mia piccola cella, e vedo solo sbarre. E nonostante a volte io mi sento inutile c’è sempre quello spiraglio di luce che mi dà la grinta e la forza di affrontare questo passaggio di vita. Queste mura lasciano ricordi indelebili che fanno capire veramente il senso della vita”. E altre ancora invocano la fortuna d’essere bambini e di vedere tutto a colori “bambino si diventa, non si nasce. Il regalo più bello dei nostri genitori è essere per sempre tutta la vita bambini dentro”. Ci sono donne che parlano di amore impossibile e ricerca di tenerezza e poi c’è chi dice “sono il vento io, sono quella che ti allontana e spinge nel cielo della vita, e poi sono qui calma di vento che ti aspetta al ritorno…come una madre sa. Cosa ci fa il vento in prigione? Si può imprigionare il vento? E tu stella mia come stai sapendomi qui? Brilli ancora? Stella che non sorride più, figlio mio, sei nel mio cuore”. Qualche considerazione - I pensieri sono di certo sentieri sconosciuti, lo diventano un po’ meno, tuttavia, nel momento in cui li mettiamo nero su bianco sulla carta ruvida o liscia. Nello scrivere buttiamo fuori dei macigni che pensavamo di non avere ma che quasi ci soffocano con la loro importanza e la loro imponenza. Questa grandezza quasi inafferrabile si tramuta in bellezza inesprimibile e le donne che poco prima erano chiuse nel loro mondo fatto di qui ed ora, di praticità e anche si solitudine sono autrici del loro passato, come canta storie, creano il futuro sperando nelle stelle e rivolgendosi alla luna, accompagnate dal vento. Le donne recluse sono spesso poco attenzionate, i loro pensieri e il loro passato emerge timidamente ma anche coraggiosamente in questi scritti. La scrittura enfatizza e puntualizza ma soprattutto esprime ciò che si nasconde. Progetti come questo rendono possibile un confronto su una base che ci accomuna: l’arte. Il potere dell’arte è quello di creare ponti di comunicazione che legano persone da tutte le parti del mondo, di ogni genere, razza e con ogni passato. *Fondatore di Psicotypo “Le mie mille ore in carcere, la filosofia è un’evasione” di Adriana Bazzi Corriere della Sera, 18 giugno 2020 Ha portato la filosofia negli istituti di pena del Triveneto e ora anche in Toscana e Umbria. Il suo impegno come volontaria: la consulenza gratuita è offerta anche a educatori, agenti penitenziari e personale amministrativo. “Lo psicologo è come un dottore… lei invece è… come una mamma!”. Parole inaspettate se pronunciate da un collaboratore di giustizia, detenuto in un carcere del Triveneto. “Lei” è Anna Maria Corradini, la persona che ha portato la filosofia negli istituti di pena, prima con esperienze di gruppo fra i reclusi, poi con colloqui faccia-a-faccia, persino con i “pentiti”. “Sì, la consulenza filosofica è diversa dalla psicologia, che si occupa dei meccanismi psichici e fa diagnosi - ci dice Anna Maria Corradini con le stesse parole che usa per spiegarla quando si presenta ai reclusi -. La prima, invece, lavora sul pensiero, cioè cerca di capire quali sono le riflessioni che una persona è portata a fare quando deve prendere una decisione. Riflessioni che possono appartenere al passato (e che spingono anche a delinquere, ndr), sul presente (sulla vita in carcere, per dire, che costringe a convivenze spesso impossibili, ndr) e al futuro (per chi ha commesso un reato e vorrebbe cominciare una nuova vita, ndr). Perché quel detenuto mi ha paragonato a una mamma, lasciandomi stupita, perplessa e non certo lusingata? Perché quella parola, mamma, significava per lui rinascita”. Non è facile tradurre con parole semplici il senso di questa disciplina, ma ecco una piccola semplificazione: “C’è l’esempio del cane: se hai paura del cane io non curo la paura del cane (quello è appunto compito della psicologia, ndr), ma cerco di capire perché hai paura del cane. Perché, forse, c’è stata un’esperienza che ti ha fatto ritenere il cane cattivo?”, aggiunge Corradini che si definisce, appunto, una specialista del pensiero. “L’idea - prosegue - è quella di andare a cercare quei pensieri che condizionano, in una persona, la visione della realtà e, di conseguenza, i comportamenti, compresi quelli criminali. L’approccio filosofico deve vedere, ascoltare, dialogare, senza pregiudizi e, tantomeno, pretese di formulare giudizi. L’obiettivo non è consolare e non ha niente a che fare con il conforto della religione”. La consulenza filosofica è nata in Germania con Gerd Achenbach ed è stata introdotta in Italia dal filosofo Neri Pollastri. Anna Maria Corradini, una volta lasciato l’insegnamento della filosofia nelle scuole superiori, ha acquisito un master in Consulenza filosofica all’Università di Venezia Ca’ Foscari, curato dal Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze e coordinato da Luigi Perissinotto, con il filosofo Umberto Galimberti come tutor. Corradini è stata consulente per aziende e istituzioni, poi ha deciso di lavorare con le carceri e grazie a un protocollo firmato con il Prap (il Provveditorato per le carceri del Triveneto) di Padova, ha potuto cominciare a lavorare (come volontaria) negli Istituti di quelle Regioni. E attualmente (con la Onlus Eutopia Aps) sta promuovendo questa disciplina anche in Toscana e in Umbria. Un impegno che Anna Maria Corradini ha appena raccontato in un libro dal titolo “Mille ore in carcere”, edito da Diogene Multimedia. “Me lo hanno chiesto i detenuti. Per loro - ci spiega - era un desiderio di riconoscimento, per me un volere raccontare quello che ho visto, conosciuto e anche sofferto. Perché sulla copertina c’è un frigorifero? Perché la vita in carcere “congela” una persona, senza prepararla al dopo. Eppure il carcere dovrebbe avere una funzione riabilitativa e non solo quella di “rinchiudiamoli e buttiamo via la chiave”. Dentro le mura, però, non ci sono solo i detenuti: ci sono gli agenti penitenziari, gli educatori, gli amministrativi, eccetera (anche a questi viene offerta la consulenza filosofica: non sono rari i casi di suicidi fra gli agenti): a loro quasi nessuno pensa e non sono nemmeno stati citati come “eroi”, nonostante il grande lavoro che hanno svolto in questa emergenza da coronavirus. Come tanti medici e infermieri. E, a proposito di coronavirus, nelle carceri è successo qualcosa di particolare: “In questi ultimi mesi - commenta Corradini - si sono ammorbidite le resistenze dei detenuti nei confronti dei poliziotti perché hanno condiviso la stessa paura della malattia e sono diminuiti i conflitti interni”. Italia post Covid imbambolata, tutti in attesa del domani di Walter Siti Il Riformista, 18 giugno 2020 Il calcio ha ripreso a stadi vuoti, la politica accelera i propri falsi movimenti, le discoteche invitano a ballare da seduti, a RaiUno è riapparso il varietà di Carlo Conti in prima serata (coi concorrenti-vip che devono parlarsi all’orecchio mantenendo il metro di distanza); ciò nonostante, il Paese sembra incantato in una bolla d’attesa. Aspettiamo per prima cosa, ovviamente, il vaccino; ma i tempi annunciati sono variabili, per adesso sono molte le ricerche concorrenti e nessuna ha prevalso con certezza. Aspettiamo che il caldo estivo attenui la carica virale, e intanto ciascuno si regola secondo i propri timori e i propri pregiudizi: aspettiamo ogni sera (almeno qui a Milano) il bollettino della Regione, che non ci dice quanti siano deceduti per Covid in quel giorno nella nostra città, né quanti dei “nuovi casi” siano da attribuire a “nuove insorgenze” o a “presenza pregressa del virus”, né se si siano individuati focolai e dove. Quindi ci si limita a sperare che il numero diminuisca, o che gli amici siano meno contagiosi degli sconosciuti. L’attesa è lunga, le cifre sono piatte da parecchio tempo, o contraddittorie. Si rimandano le visite mediche annuali, o stagionali, perché si diffida degli ambulatori; la pulizia dei denti, il controllo alla prostata, il pap test possono aspettare. I mercati finanziari aspettano, e temono, la seconda ondata di virus in autunno; gli speculatori godono nell’altalena delle Borse ma le banche consigliano ai piccoli investitori di non far niente, per ora. I pensionati e gli statali preferiscono non affrontare grosse spese, perché sarebbe giusto che lo Stato chiedesse loro un contributo di solidarietà e dunque è meglio prepararsi a qualche defalcamento di pensioni e stipendi. Chi invece in questi mesi ha perso molto (negozianti, albergatori, artisti dello spettacolo) sta aspettando i contributi a fondo perduto; qualcuno resta chiuso, qualcuno riapre a scartamento ridotto, i ristoranti offrono menù di poche portate. Tutti aspettano (aspettiamo) l’Europa e i suoi bazooka, sapendo che ci vorrà tempo e non saranno gratis, e si dovrà lavorare perché i nomi degli aiuti diventino più accettabili per alcune forze politiche. (Da bambino rifiutavo i piselli, poi mamma mi assicurò che erano le perle verdi di una regina e da allora li mangiai con gusto). Si aspettano le elezioni regionali in concorrenza con la riapertura delle scuole; si aspetta di capire, meglio che dai sondaggi, quali siano i reali rapporti di forza tra i partiti. In Lombardia si aspettano i processi (“che la giustizia faccia il suo corso”), sempre più estesi e con accuse sempre più vaghe; i medici da eroi stanno diventando imputati, lo scaricabarile furoreggia. Ci si incattivisce, e mentre Giuseppe Conte parla sul velluto si cercano valvole di sfogo secondarie, risse che durano pochi giorni, pretesti per non far decadere e marcire la rabbia; perfino le manifestazioni anti-razziste (con conseguenti insensate iconoclastie) sembrano ribellioni interlocutorie. L’idea di una resa dei conti brontola in lontananza ma il governo in carica si fa forte della propria debolezza, proteggendosi dietro lo scudo della mancanza di alternative. L’opposizione dura e pura non supera il quaranta per cento, le ricette economiche autarchiche non entusiasmano nessuno. La comunicazione mediatica oscilla tra il piccolo cabotaggio di giornata e le grandi campagne ideali, né potrebbe fare diversamente, convinta com’è che i cambiamenti seri in politica avverranno dopo la fine dell’emergenza. In tivù e sui social riprende forza il trash, ma gli influencer e i tiktoker più furbi hanno capito che per la voglia di stupidera è consigliabile attendere tempi migliori. Le aziende sono più caute a sponsorizzare, le truffe in Rete aumentano: molti operatori (e operatrici) del settore si accontentano per ora di fare gli auguri di buon compleanno a pagamento, a prezzi modici. Le case editrici sono in attesa di capire se i fan book per ragazzine siano ancora un business conveniente, o se convenga puntare sui “diari della quarantena”. Si è riscoperta la famiglia, i single si attrezzano per corteggiamenti sanitariamente protetti. Festeggiamo giustamente i nuovi nati, ma nel frattempo molte coppie hanno preferito rimandare il matrimonio, perché la festa di nozze da distanziati e il prete con la mascherina sono troppo tristi; perfino le coppie che scoppiano rimandano il divorzio, forse i conflitti sono legati all’eccezionalità del periodo e gli stessi consulenti matrimoniali consigliano di concedersi una pausa di riflessione. Gli atleti hanno ricominciato ad allenarsi sperando che le Olimpiadi rimandate di un anno si possano effettivamente svolgere nel 2021; chi atleta non è si accontenta di qualche corsetta e qualche dieta, tanto quest’anno sulle spiagge ci sarà più tolleranza estetica. Ci siamo tutti abituati, durante i dibattiti televisivi o nei convegni arrangiati su Zoom, ad aspettare con pazienza che si ripristinino i collegamenti saltati; le code alla posta e al supermercato sono ordinate e calme; quelli che ti passavano davanti magari spintonando, come se due minuti fossero questione di vita o di morte, non esistono più. Una vita meno frenetica potrebbe essere un buon risultato della pandemia. La sensazione che ho, purtroppo, è meno positiva: più che una riconquistata saggezza, a dominare mi pare che sia una specie di imbambolamento. La frenesia dei movimenti e del consumo è stata per troppo tempo il rimedio delle carenze affettive e relazionali; non per niente, durante il lockdown, è aumentato il consumo di alcol e droghe. Rallentare ci ha fatto franare l’equilibrio sotto i piedi. Mentre ci sforziamo di considerare quotidiano l’inaccettabile, e commovente il grottesco, e ci salutiamo col gomito e ci mandiamo i baci via Skype, anche i nostri pensieri inconsciamente rallentano, ondeggiando in un’atmosfera vischiosa. Le rabbie e le maledizioni sono a pronta cassa, mentre creazioni mentali più strutturate faticano a maturare fin che la morte bussa all’uscio. Il rallentamento diventa alibi: “ci penserò domani”, diceva Scarlett O’Hara. E forse c’è perfino qualcosa di più: siamo nebbiosi prigionieri in un dormiveglia dal quale non desideriamo davvero svegliarci; forse preghiamo che questa estate sia eterna, perché col fresco ritornerà la lucidità, e sarà peggio. Migranti. Dl sicurezza, il governo riprova a cambiarli di Carlo Lania Il Manifesto, 18 giugno 2020 Oggi vertice al Viminale per la revisione dei provvedimenti simbolo della Lega. Si parte dalle osservazioni avanzate a ottobre del 2018 dal presidente della Repubblica Mattarella in una lettera al parlamento nella quale, in sostanza, si chiedeva di rivedere alcune parti dei decreti sicurezza dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. Osservazioni considerate da una parte del M5S, quella più vicina al leader della Lega, le uniche modifiche possibili. Poi c’è chi vorrebbe andare oltre, anche molto oltre, arrivando a ipotizzare una revisione più ampia non solo dei due decreti ma più in generale delle leggi sull’immigrazione. Lato della barricata lungo il quale si trovano LeU e, seppure in maniera più soft, Pd e Italia viva. In mezzo c’è il lavoro svolto dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e rimasto per mesi chiuso in un cassetto, vuoi perché prima, a dicembre, bisognava approvare la legge di bilancio poi perché, prima che l’emergenza coronavirus bloccasse tutto e tutti, si è preferito dare la precedenza ad altri provvedimenti considerati meno rischiosi per la tenuta della maggioranza. Ecco, oggi pomeriggio si ripartirà da qui nel lavoro di revisione dei decreti sicurezza. L’appuntamento è per le 16 al Viminale e oltre a Lamorgese saranno presenti i due viceministri dell’Interno Vito Crimi per il M5S e Matteo Mauri per il Pd, i due capogruppo di LeU alla Camera e al Senato, Federico Fornaro e Loredana De Petris e il deputato Davide Faraone per Italia Viva. “La revisione dei decreti sicurezza sono uno dei punti del programma di governo, e per noi le osservazioni del presidente Mattarella rappresentano un punto di partenza, non certo di arrivo”, spiega Fornaro. Tra i punti ai quali verrà messa mano ci sono sicuramente le maxi multe (fino a un milione di euro) previste per le navi delle ong che non rispettano il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane. La proposta Lamorgese è di riportare le sanzioni a una cifra compresa tra i 10 mila e i 50 mila euro, come previsto nella prima versione del decreto sicurezza bis. L’eventuale sequestro della nave verrebbe poi subordinato alla reiterazione del reato. Modifiche che però non cancellerebbero l’impronta punitiva verso chi è colpevole solo di salvare vite nel Mediterraneo. Altro intervento riguarda l’oltraggio a pubblico ufficiale. Il decreto oggi non prevede più la non punibilità per la “particolare tenuità del fatto”, come in passato. La modifica in questo caso consiste nella reintroduzione della discrezionalità del giudice nella valutazione del reato. Fino a qui gli interventi principali. Ma al Viminale si è lavorato anche sul primo decreto sicurezza che di fatto ha abrogato la protezione umanitaria. Al parlamento Mattarella aveva ricordato come “restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali”. L’idea sarebbe quindi quella di ripristinare l’umanitaria estendendola rispetto a oggi a cinque nuove categorie di migranti considerati vulnerabili: le famiglie con figli minori, le persone gravemente malate, quelle con disturbi psichici, i disabili e le donne in stato di gravidanza. L’allarme dell’Onu: “80 milioni di rifugiati nel mondo” di Gabriella Colarusso La Repubblica, 18 giugno 2020 Il rapporto annuale dell’Unhcr certifica che le persone costrette a lasciare le loro case da guerre, carestie e cambiamenti climatici sono al numero più alto degli ultimi 10 anni. I quasi dieci anni di guerra in Siria; le persecuzioni delle minoranze nel Sud Sudan e in Birmania; la grande fuga del Venezuela di Maduro. E ancora: gli sconquassi ambientali provocati dal cambiamento climatico nella regione del Sahel, i conflitti in Yemen, Libia, Afghanistan. La geografia umana del mondo è stata stravolta da guerre, persecuzioni, carestie, violazioni di diritti umani: alla fine del 2019 quasi 80 milioni di persone nel mondo sono state costrette a fuggire dal proprio Paese o a cercare asilo all’interno delle frontiere del proprio Stato, il numero più alto degli ultimi 10 anni. Nel 2010 gli sfollati globalmente erano 41 milioni, la metà, dice il rapporto Global Trends del 2020 dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati e che fotografa una mutazione radicale nei movimenti forzati delle persone. “Stiamo assistendo a una realtà completamente cambiata in cui gli spostamenti forzati non sono solo molto più diffusi: non sono più un fenomeno temporaneo e di breve durata”, commenta Filippo Grandi, Alto commissario per i rifugiati. I minori in fuga e il grande esodo dal Venezuela - Dei 79,5 milioni di sfollati nel mondo nel 2019 - 9 milioni in più rispetto al 2018 - si stima che circa il 40%, tra i 30 e i 34 milioni, siano minori di 18 anni. I rifugiati sul totale sono 26 milioni - 5,6 sono palestinesi sotto la protezione dell’Unrwa - 45.7 milioni sono invece le persone che si sono spostate all’interno dei confini dei loro Paesi, 4,2 milioni sono richiedenti asilo e 3,6 milioni sono venezuelani fuggiti all’estero. L’1% della popolazione mondiale - 1 persona ogni 97 - è oggi sfollata. Nel 2019 il rapporto era 1 a 159. “L’aumento annuale dei rifugiati è dovuto ai nuovi spostamenti ma anche al fatto che quest’anno è stato incluso nel conteggio l’esodo dei venezuelani all’estero che affrontano rischi di protezione, indipendentemente dal loro status”, spiega l’organizzazione. La crisi venezuelana si è aggrava negli ultimi due anni: alla fine del 2019, circa 4,5 milioni di venezuelani avevano lasciato il loro Paese, “il più grande esodo nella storia recente della regione”, lo definisce l’Unhcr. Turchia e Colombia i Paesi che ospitano il più alto numero di rifugiati - Più di due terzi delle persone in fuga nel mondo, il 68% di tutti i rifugiati e dei venezuelani sfollati all’estero, proviene da soli cinque Paesi: Siria (6,6 milioni); Venezuela (3,7 milioni); Afghanistan (2,7 milioni); Sud Sudan (2,2 milioni) e Birmania (1,1 milioni). E ad accogliere sono soprattutto i Paesi in via di sviluppo, che ospitano l’85% dei rifugiati nel mondo. La Turchia è lo Stato che accoglie il più alto numero di rifugiati: 3,6 milioni di persone provenienti soprattutto dalla Siria. Subito dopo c’è la Colombia, dove si è riversata la gran parte delle persone in fuga dal Venezuela: attualmente il Paese ospita 1,8 milioni di rifugiati. Seguono la Germania (1,5 milioni); il Pakistan (1,4 milioni), l’Uganda, (1,4 milioni). Le conseguenze della guerra siriana - I siriani continuano ad essere di gran lunga la più popolazione con il più alto numero di sfollati in tutto il mondo: 13,2 milioni, di cui 6,6 milioni rifugiati e oltre sei milioni sfollati internamente. Anche considerando solo le persone che sono riuscite a scappare all’estero, i siriani restano la popolazione più colpita con 6,7 milioni di sfollati nei Paesi confinanti, in Europa o negli Stati Uniti. L’impatto della crisi siriana è stato significativo soprattutto sui Paesi vicini come il Libano o la Turchia, ma anche sull’Europa. Il vecchio continente ha risentito anche del conflitto in Ucraina che nel 2014 ha dato inizio a un largo movimento di persone: alla fine del 2019, c’erano 60mila ucraini rifugiati nel mondo. Egitto. Caso Regeni, stasera Conte in commissione. Vertice fra le procure di Roma e Cairo Il Manifesto, 18 giugno 2020 Zingaretti: no scambi osceni fra armi e diritti. L’audizione sarà in diretta streaming. Palazzotto (Leu): i commissari faranno domande. Cosa si sono detti la settimana scorsa il premier italiano e il generale golpista egiziano Al Sisi durante il colloquio telefonico riferito da Palazzo Chigi, in seguito al quale il giorno dopo, durante un consiglio dei ministri, Conte ha dato il via libera “politico” alla vendita delle due fregate italiane Fremm al Cairo? Sarà una delle circostanze di cui oggi Conte dovrà riferire alla commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni. Il presidente Erasmo Palazzotto (Leu) lo ha invitato negli scorsi giorni. Il premier, con tempestività apprezzabile, ha offerto la disponibilità per stasera alle 22. Praticamente una seduta notturna, “con il favore delle tenebre”, ironizza la Lega. Ma Palazzotto spiega di aver colto con favore “la disponibilità di Conte, anche in una settimana fitta di impegni, fra gli Stati generali e il Consiglio europeo”. Ieri, a margine degli Stati generali dell’economia, il premier ha spiegato che anche lui sente l’urgenza di incontrare la commissione: “Per far prima sono stato costretto a ricavare questo orario, ma è giusto che le istituzioni lavorino a qualsiasi ora, del giorno e permettetemi di dire anche della notte, non dobbiamo mica fare una conferenza stampa”. Anche perché l’incontro sarà trasmesso in diretta streaming. Il premier dovrà spiegare cosa sta facendo il governo per portare a casa la verità sulla morte del ricercatore italiano Giulio Regeni, avvenuta quattro anni fa al Cairo. “Sarà un’audizione libera, i commissari potranno fare tutte le domande che ritengono”, assicura Palazzotto. Sabato scorso, dopo l’amarezza della famiglia del ricercatore e la prima ondata di proteste per la vendita delle due fregate all’Egitto, il premier aveva pronunciato una frase sibillina: “Ogni opinione della famiglia Regeni merita rispetto. Meritano rispetto anche gli sforzi del governo italiano per l’accertamento della verità”. Oggi dovrà svelare la concretezza di questi sforzi. D’altra parte la vendita delle navi non sarebbe neanche ancora conclusa: il dossier ora è all’Uama - l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento - e secondo Palazzotto ci sarebbe qualche margine perché l’affare non vada in porto. Potrebbe dipendere - al momento è una speranza più che un’ipotesi concreta - anche dal vertice in videoconferenza fra le procure di Roma e del Cairo fissato per il primo luglio, un appuntamento che secondo fonti della Farnesina sarebbe stato organizzato da tempo. È nella promessa ma mai realizzata collaborazione fra le due procure il principale motivo di stallo dell’inchiesta. Dal Cairo non è mai stata presa in considerazione l’ultima rogatoria dei pm italiani, datata 29 aprile 2019, con la comunicazione dell’iscrizione nel registro degli indagati di cinque ufficiali dei servizi egiziani accusati di concorso in sequestro di persona (il generale Sabir Tareq, il maggiore Magdi Abdlaal Sharif, il capitano Osan Helmy, il suo collaboratore Mhamoud Najem e il colonnello Ather Kamal). Stanotte insomma sarà l’ora della verità, almeno sulle mosse del governo italiano. La maggioranza è divisa, ma le pressioni crescono. Ieri il segretario Pd Zingaretti, dalle colonne di Repubblica, ha sollecitato il governo a compiere “tutti i passi dovuti per ottenere dall’Egitto le condizioni elementari per avviare il processo e la possibilità di fare ulteriori passi in avanti nei rapporti bilaterali”. Con una sottolineatura: “Noi non abbiamo mai legato la vicenda delle fregate italiane alla Marina egiziana all’idea di un possibile osceno scambio tra vendita di armi e diritti umani”. Per iniziativa del deputato dem Orfini il 25 giugno la direzione Pd discuterà una mozione che chiede lo stop all’affare in assenza di passi concreti verso la verità. Stessa posizione quella di Leu, espressa ieri in aula dal capogruppo alla Camera Fornaro: “Per noi la verità sulla sua morte viene prima di ogni cosa, e prima degli accordi commerciali e della geopolitica”. Il collega Fratoianni ha chiesto che anche Speranza, il ministro di Leu, faccia sentire la sua voce. E dopo un’interrogazione proprio di Leu, il ministro degli esteri Di Maio dovrà rispondere a una seconda, stavolta dei 5s, prima firma Paolo Lattanzio. Il sottosegretario alla difesa Tofalo (anche lui 5S) chiede la convocazione in commissione anche dell’ex ministro Minniti, al Viminale ai tempi della morte di Regeni. Vietare per legge la vendita di armamenti all’Egitto di Giorgio Pagano* Il Secolo XIX, 18 giugno 2020 L’Egitto dopo il golpe del generale Al Sisi nel 2013 è un regime militare, autoritario e repressivo. Amnesty International denuncia che, ogni giorno, spariscono due oppositori. Dal 2016 al 2019 ci sono stati almeno 2.400 condannati a morte. A Sara Hegazi, omosessuale, suicida nei giorni scorsi mentre era in esilio, la vita l’avevano già tolta tre anni fa, quando fu arrestata e torturata in un carcere egiziano. A chi sostiene che bisogna avere buone relazioni con l’Egitto in quanto Paese alfiere della lotta al terrorismo, vanno ricordate le risoluzioni del Parlamento europeo, che denunciano che “sono etichettati come terroristi i dissidenti pacifici, gli attivisti per la democrazia e i difensori dei diritti umani”. Il caso di Giulio Regeni non è quindi l’unico problema nei nostri rapporti con l’Egitto. E l’Italia non può far dipendere il suo atteggiamento solo da qualche - ovviamente auspicabile - progresso sul caso Regeni. La questione ha una molteplicità di aspetti e di implicazioni. Certamente l’uccisione del giovane ricercatore e la successiva azione di depistaggio da parte del governo egiziano ci mettono davanti al fatto che è in gioco la nostra sovranità nazionale: la capacità dello Stato di tutelare l’incolumità dei suoi cittadini in un Paese straniero. L’oltraggio non è solo alla famiglia Re geni, è all’Italia. Ma i principi in discussione sono anche altri. Coloro che sostengono che la scelta di vendere armi - molte armi - all’Egitto corrisponde ai nostri interessi, dimenticano che il compito della politica è, nella misura del possibile, quello di conciliare interessi e principi, senza mai dimenticare che, in ultima istanza, sono i principi a dover prevalere. In questo caso è evidente che dobbiamo mettere in secondo piano gli interessi. Non solo perché non esiste Stato al mondo che venda armamenti a un regime che è coinvolto nell’omicidio di un suo cittadino; ma anche perché una legge dello Stato, la n. 185 del 1990, stabilisce che le esportazioni di armamenti “devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia”. Dov’è questa conformità, nel caso dell’Egitto? Consideriamo il ruolo che Il Cairo sta svolgendo nel Mediterraneo: sostiene direttamente l’offensiva militare in Libia del generale Haftar fornendo basi di supporto e materiali militari alle sue truppe, e pertanto contrasta apertamente le nostre politiche per un processo di pacificazione in Libia. L’errore più grande che oggi l’Italia potrebbe fare nel Mediterraneo è schierarsi con l’Egitto. Di più: le esportazioni di armamenti sono vietate, recita la legge n. 185, “verso i Paesi in stato di conflitto armato” - e l’Egitto non solo è coinvolto nel conflitto in Libia ma anche in quello in Yemen senza alcun mandato internazionale - e “verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’Ue o del Consiglio d’Europa”. Il che è stato più volte accertato. In sostanza: una cosa sono le relazioni commerciali tra Paesi, una cosa sono le esportazioni di armamenti. Ci sono molti Paesi con cui abbiamo relazioni commerciali ma a cui non vendiamo armi. L’Egitto dovrebbe essere tra questi. Fa prevalere i principi significa esercitare una pressione molto più forte per chiedere sia la verità su Giulio Regeni che la libertà per tutti i prigionieri politici incarcerati. Significa non vendere armi ai Paesi in guerra e che violano i diritti umani. Significa dar vita a un grande progetto dell’Italia e dell’Europa per la pace nel Mediterraneo, per la ricostruzione civile, sociale ed economica della Libia, per la riconciliazione del popolo libico. Servono visione e strategia, non la ricerca del business immediato. *Presidente delle associazioni Mediterraneo e Funzionari senza Frontiere Libia. “Dall’Italia 3 milioni in più alla Guardia Costiera, mentre in mare si continua a morire” La Repubblica, 18 giugno 2020 La nota di Oxfam: 58,28 milioni per il 2020, 213 milioni in 3 anni, nonostante le indicibili violazioni dei diritti umani per migliaia di disperati. Dall’inizio dell’anno, oltre 230 vittime nel Mediterraneo centrale. L’Italia ha in programma di continuare ad aumentare gli stanziamenti alla Guardia Costiera libica: 3 milioni in più nel 2020, per un totale di 58,28 milioni di euro diretti alle autorità libiche, che portano il costo sostenuto dai contribuenti italiani a sostegno dell’accordo Italia-Libia, siglato nel 2017, a 213 milioni di euro. Tutto ciò, nonostante si continui a morire lungo la rotta del Mediterraneo centrale - con oltre 230 vittime dall’inizio dell’anno - e nonostante numerose inchieste e testimonianze abbiano confermato il coinvolgimento della Guardia Costiera libica nel traffico di esseri umani. Mentre proseguono i “rimpatri” forzati verso i “lager” libici, dove uomini, donne e bambini in fuga da guerre e persecuzioni, sono ancora oggi vittime di torture e abusi inimmaginabili. L’industria della detenzione. È l’allarme lanciato da Oxfam, alla vigilia della Giornata mondiale del rifugiato e in occasione dell’inizio del dibattito sul rinnovo delle missioni militari italiane all’estero in Commissione Esteri alla Camera, che approderà presto in aula per il voto. “Siamo al paradosso. - sottolinea Paolo Pezzati, consulente politico per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia - mentre al largo delle coste libiche si continua a morire, come dimostra l’ennesima tragedia di pochi giorni fa, proprio il Governo che doveva segnare una discontinuità sulle politiche migratorie, con un copia e incolla della descrizione delle missioni nel dossier presentato al Parlamento negli anni precedenti, aumenta gli stanziamenti alle autorità libiche e alla Guardia Costiera. Non si ha notizia poi delle modifiche richieste al governo libico - aggiunge Pezzati - che a novembre hanno giustificato il rinnovo dell’accordo. In sostanza, si va avanti nella stessa direzione, in un Paese dove l’industria del contrabbando e della tratta degli esseri umani è stata convertita in industria della detenzione, con abusi e violenze oramai note a tutti, anche grazie a questo considerevole flusso di denaro”. L’impatto dell’emergenza Covid nei centri di carcerazione. Al momento si contano oltre 2 mila migranti bloccati nei centri di detenzione ufficiali libici e un numero imprecisato in quelli non ufficiali, controllati dalle diverse bande armate e fazioni in lotta, con oltre 400 mila gli sfollati interni a causa della guerra civile. “Con oltre 480 contagi da coronavirus registrati ufficialmente nel paese, e molti altri che potrebbero non essere stati rilevati - continua Pezzati - in questo momento a preoccupare sempre di più è proprio la situazione sanitaria nei centri di detenzione dove si vive ammassati, in condizione di vera disumanità Un allarme rilanciato pochi giorni fa anche da Papa Francesco, a cui ci uniamo nel fare appello alla comunità internazionale, perché venga trovata il prima possibile una soluzione concreta per porre fine a violenze e abusi”. Oltre 4.200 migranti riportati in Libia dall’inizio dell’anno. “A pochi giorni dal voto parlamentare sul rinnovo delle missioni militari italiane all’estero - conclude Pezzati - chiediamo al Governo e ai partiti di maggioranza di congelare immediatamente gli stanziamenti per il 2020 diretti alle autorità e alla Guardia costiera libica, che solo quest’anno ha intercettato e riportato in un Paese in guerra oltre 4.200 migranti, quasi 1.400 in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno Il fragile cessate il fuoco appena raggiunto può essere l’occasione per definire un Piano di evacuazione, coordinato a livello europeo, di tutti i migranti e rifugiati detenuti arbitrariamente, proponendo inoltre un piano di riforme che metta fine alla loro detenzione obbligatoria e automatica. Finché l’Italia e l’Europa continueranno a girarsi dall’altra parte, avremo sulla nostra coscienza orrori indicibili che abbiamo contribuito a generare”. Stati Uniti. “Negato il conforto di un sacerdote”. La Corte Suprema lo strappa al boia di Loretta Bricchi Lee Avvenire, 18 giugno 2020 Ruben Gutierrez avrebbe dovuto morire, martedì, per mano del boia del Texas, ma la Corte Suprema americana l’ha salvato in extremis, un’ora prima dell’esecuzione, per prendere in considerazione la possibile violazione dei suoi diritti religiosi. L’anno scorso, il sistema carcerario dello Stato che detiene il triste primato per numero di omicidi legali ha eliminato la presenza del cappellano dalla camera della morte, così il 43enne - giudicato colpevole di omicidio nel 1998 - avrebbe dovuto affrontare l’iniezione letale senza il conforto di un sacerdote. “Gutierrez è un cattolico devoto e la sua fede richiede l’assistenza di un religioso che lo accompagni nel passaggio dalla vita all’Aldilà”, ha spiegato il suo legale, Shawn Nolan, mettendo in chiaro che “il dipartimento della giustizia criminale del Texas ha cambiato il regolamento per il proprio vantaggio, ma il conforto spirituale al momento della morte non è una convenienza: è un diritto legale protetto”. Ad intervenire a favore del condannato con un appello ai giudici supremi è stata anche la Conferenza episcopale dello stato che, attraverso il vescovo di Brownsville, Daniel Flores, ha definito “crudele e inumano negare l’accesso alla guida spirituale a un prigioniero che affronta l’esecuzione”. Lo scorso novembre, la Corte Suprema aveva fermato l’esecuzione del detenuto Patrick Murphy che aveva chiesto il sostegno spirituale di un buddista quando il sistema carcerario statale prevedeva solo un counselor cristiano o musulmano. Così, in risposta alla decisione del massimo organo giudiziale del Paese, il Texas aveva eliminato ogni figura religiosa dalla camera della morte, chiaramente dando origine a una questione ben più ampia. Il caso legale del buddista rimane fermo in un tribunale federale di Houston e ora i giudici costituzionali intendono esprimersi - in data ancora da stabilirsi - sul diritto di Gutierrez di andare incontro al boia accompagnato da un sacerdote, aprendo la strada a una sentenza di portata nazionale. Hong Kong. 86 ong chiedono di ritirare la legge sulla sicurezza di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 18 giugno 2020 Alla vigilia della riunione del Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo, Amnesty International e altri 85 gruppi della società civile hanno chiesto alle autorità cinesi di ritirare la proposta di legge sulla sicurezza nazionale per Hong Kong, che se entrasse in vigore costituirebbe un devastante assalto ai diritti umani. La legge potrebbe essere approvata entro la fine di giugno ed essere rapidamente applicata per reprimere le libertà a Hong Kong. Nella lettera indirizzata al Comitato permanente, le 86 Ong affermano: “Anche se gli specifici contenuti della proposta di legge sono in gran parte ignoti, quello che sappiamo è sufficiente per temere che essa minerà i diritti e le libertà fondamentali della popolazione di Hong Kong. Le disposizioni del tutto vaghe previste criminalizzeranno qualsiasi critica nei confronti del governo e saranno usate contro chiunque voglia pretendere e difendere in modo pacifico i suoi diritti umani”. Tra le azioni che verranno considerare reato figurano “la divisione”, “la sovversione”, “il terrorismo” e “le attività di stranieri e interventi esterni negli affari interni di Hong Kong”. La legge consentirà al governo cinese di costituire organismi per “proteggere la sicurezza nazionale” di Hong Kong, “laddove necessario”, come ad esempio il ministero per la Sicurezza dello stato e l’ufficio per la Sicurezza nazionale presso il ministero per la Pubblica sicurezza, già noti in Cina per arresti arbitrari e torture. La legge entrerebbe in vigore a Hong Kong attraverso una mera promulgazione, ignorando il Consiglio legislativo della città e senza alcuna significativa consultazione pubblica. Il ministro per la Sicurezza di Hong Kong, dal canto suo, ha dichiarato che la legge verrà applicata dalla polizia “sin dal primo giorno” della sua entrata in vigore. Fonti del Comitato permanente non hanno escluso che potrà essere applicata persino retroattivamente. A sua volta la segretaria alla Giustizia Teresa Cheng ha affermato che potrebbe essere istituito un “tribunale speciale” per giudicare casi relativi alla sicurezza nazionale “per aiutare i giudici a muoversi in terreni inesplorati”.