Sospesa la circolare Dap sulle scarcerazioni per il Covid La Repubblica, 17 giugno 2020 In costante diminuzione il numero dei positivi. È stata sospesa la circolare sulle scarcerazioni per il Covid. Con un provvedimento datato il 16 giugno, il capo del Dap, Bernardo Petralia, insieme al vice Roberto Tartaglia, hanno disposto “la sospensione dell’efficacia delle disposizioni impartite” con la nota del 21 marzo scorso nella quale venivano “date disposizioni per la comunicazione all’autorità giudiziaria ‘per le eventuali determinazioni di competenza’ dei nominativi dei ristretti in condizioni di salute tali da comportare un elevato rischio di complicanze in caso di contagio” da Covid 19. Il Dap ha motivato la decisione spiegando che il numero dei ristretti positivi “pari oggi a 66 persone su poco più di 53mila detenuti, è in costante diminuzione” e “negli istituti penitenziari risultano in atto protocolli di prevenzione del rischio di diffusione del contagio”. Intanto sono iniziate nell’Aula del Senato le dichiarazioni di voto sulla fiducia posta dal governo sul decreto carceri, il provvedimento che riunisce i due decreti varati dal governo in materia di giustizia durante la fase emergenziale da coronavirus. Il decreto contiene misure urgenti per la funzionalità dei sistemi di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario, nonché disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia civile, amministrativa e contabile e misure urgenti per l’introduzione del sistema di allerta Covid-19. Romano: “Bonafede espresse apprezzamento sulla circolare che poi scarcerò i mafiosi” di Liana Milella La Repubblica, 17 giugno 2020 L’audizione in Antimafia dell’ex direttore dell’ufficio detenuti del Dap, che definisce quell’atto “una mera segnalazione”, poi furono i giudici a scarcerare. E su Zagaria ammette: “Un grave errore del mio ufficio”. Bonafede sapeva. Basentini era d’accordo e aveva dato l’ok. “Io non firmai perché non avevo la firma digitale”. Davanti alla commissione parlamentare Antimafia, che sta conducendo un’inchiesta sulle scarcerazioni dei mafiosi avvenute tra marzo e aprile, arriva l’ex direttore dell’ufficio detenuti del Dap Giulio Romano. Che si è dimesso il 3 giugno, anche se adesso è ancora lì. Due ore alla fine delle quali il presidente dell’Antimafia Nicola Morra dichiara di essere “esterrefatto”. Perché Romano - la cui audizione proseguirà mercoledì alle 20 - non solo ammette “il grave errore compiuto dal mio ufficio” sul caso di Pasquale Zagaria, il camorrista messo ai domiciliari dal tribunale di sorveglianza di Sassari dopo la mancata risposta del Dap su un ospedale che potesse ospitarlo ma lasciandolo nel circuito carcerario. Ma soprattutto Romano ricostruisce la storia della circolare del 21 marzo indirizzata ai provveditori e direttori delle carceri, i quali a loro volta dovevano segnalare ai magistrati di sorveglianza i detenuti con patologie gravi e quelli over 70. Romano minimizza: “Era una mera segnalazione, non c’era nessun riferimento di sorta alla detenzione domiciliare umanitaria”. E ancora: “Dire che la circolare è uguale alle scarcerazioni è un messaggio sbagliato”. “Basentini e Bonafede sapevano” - È il passaggio clou della minuziosa ricostruzione di Romano. Che però gioca su tre puntelli. Il primo: tutto nasce dall’allarme dei magistrati di sorveglianza. Il secondo: gli stessi magistrati, già prima della circolare, stavano scarcerando per via del Covid. Il terzo: il capo del Dap Francesco Basentini dà l’ok alla necessità di segnalare i detenuti con patologie e lo stesso Romano avverte la segreteria del ministro. La relazione su quei tre giorni - Romano legge la sua minuziosa relazione. Racconta: “Il 17 marzo alle 7.42 mando una mail al capo di gabinetto del ministro Baldi e a Basentini parlando delle patologie di cui ho già parlato con il nostro virologo, richiamo la giurisprudenza, dico di valutare e di parlare con il ministro e con il capo dell’ufficio legislativo. Alle 14 Baldi dice che l’ha passata a Salvadori, il capo della segreteria del ministro”. Siamo al 18 marzo, quando Romano scrive al virologo Giulio Starnini “per porre il problema”. Il film prosegue: “Il 19 marzo mando una mail a Basentini per formalizzare l’elenco delle patologie, ipotizzo di mandare un quesito all’Istituto superiore sanità. Della questione si parla sulla lista dei magistrati di sorveglianza. Ipotizzo anche una verifica con la Cedu”. Romano elenca varie misure possibili, dal permesso premio per 45 giorni, alla detenzione umanitaria per gli over 60 e per i malati psichici. Siamo al 19 marzo, quando alle 18 e 17 si materializza l’ipotesi “di una call con Bonafede, il presidente dell’Anm Poniz, quello dei magistrati di sorveglianza Fiorillo, le presidenti dei tribunali di sorveglianza di Milano Di Rosa e di Brescia Lazzaroni sul tema Covid e detenzione”. La bozza della circolare e il via libera - Romano racconta ancora dello “scambio di opinioni con Basentini su una bozza che contiene anche l’ipotesi della detenzione umanitaria”, che sarebbe stata, “quella forse sì troppo avanti”. Alle 14 e 23 Basentini la definisce “ottima”. Alle 17 e 11 sempre Basentini aggiunge “aspettiamo la call”. Nel frattempo De Rosa e Lazzaroni, anche loro in call, “confermano la drammaticità della situazione”. Il 20 marzo alle 21 e 23 Salvadori, il capo della segretaria di Bonafede, parla di una “utile nota asciugata come detto”. Quindi, chiosa Romano, una “mera segnalazione”, senza riferimenti alla detenzione umanitaria. Il 21, alle 8 e 31, Romano scrive a Basentini “allora procediamo?”. Alle 10 e 09 Basentini risponde con un “per me va benissimo”. La circolare viene firmata dal funzionario di turno Assunta Borzacchiello perché Romano, che è arrivato a fine febbraio al Dap, ha avuto un contatto Covid, è rimasto in casa senza firma digitale, ed è tornato solo il 24 marzo. Il 26 marzo, racconta infine Romano, Salvadori “mi chiede se la circolare fosse stata mandata”. Aggiunge: “In seguito, in una data che non ricordo, il ministro espresse apprezzamento per l’iniziativa”. Romano ricorda infine che il primo di aprile il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi “aveva affrontato la questione, scrivendo che lo stato di sovraffollamento consiglia il monitoraggio delle detenzioni preventive e suggeriva di passare agli arresti domiciliari”. Romano: “Da ministro apprezzamento. Su Zagaria grave errore”. Morra: “Esterrefatto” di Giuseppe Pipitone ilfattoquotidiano.it, 17 giugno 2020 Carceri, il dirigente del Dap che scrisse la circolare: “Da ministro apprezzamento. Su Zagaria grave errore”. Morra: “Esterrefatto”. Prosegue il lavoro dell’Antimafia sul caos che si è scatenato nelle carceri durante l’emergenza coronavirus. Giulio Romano, direttore del Trattamento detenuti del Dap, definisce una “svista” la mancata risposta del suo ufficio al tribunale del Riesame che chiedeva penitenziari idonei ad ospitare la mente economica dei Casalesi: “È stato accertato un errore nell’indicazione della posta elettronica del dipendente del Tribunale di Sassari, imputabile all’ufficio e al personale della direzione che io dirigevo”. Il presidente dell’Antimafia lo riconvoca. Il ministro della giustizia Alfonso Bonafede espresse “apprezzamento” per la circolare del Dipartimento amministrazione penitenziaria del 21 marzo scorso. Ed era presente a una videoconferenza convocata il giorno prima dell’emanazione di quel documento, al centro delle polemiche successive alle scarcerazioni dei boss mafiosi durante l’emergenza coronavirus. A sostenerlo davanti alla commissione Antimafia è chi quella circolare la ha pensata, scritta e diramata a tutte le carceri italiane: Giulio Romano, il direttore del Trattamento detenuti del Dap. L’audizione del magistrato che si astenne sul bavaglio - Magistrato di grande esperienza, già membro del Csm tra il 2006-2010, Romano viene ricordato come l’estensore della sentenza di condanna disciplinare contro l’allora pm Luigi De Magistris. A Palazzo dei Marescialli fu pure l’unico togato ad astenersi quando il Csm votò contro il bavaglio delle intercettazioni voluto dall’allora guardasigilli Angelino Alfano nel 2009. Per questo motivo nel febbraio scorso a più di qualcuno sembrò strano vederlo nominare al Dap con il Movimento 5 stelle al governo. Ufficio guidato da Francesco Basentini, preferito da Bonafede a Nino Di Matteo nel giugno del 2018 e poi dimessosi nel maggio scorso. Anche Romano ha lasciato il suo incarico il 22 maggio in seguito al clamore scatenato dalle scarcerazioni (“sono state tali da privarmi della serenità”) ma non - sostiene lui - per richiesta del guardasigilli: Bonafede non ha mai chiesto al dg del Dap di dimettersi. In ogni caso Romano è ancora al suo posto, in attesa di essere ricollocato alla procura generale della Cassazione come sostituto: “Non potevo lasciare vacante l’ufficio, non posso nominare un facente funzioni”, ha spiegato nella sua audizione davanti alla commissione Antimafia. Da settimane, infatti, Palazzo San Macuto sta cercando di capire come è nata quell’ormai famosa nota del Dap e se ha avuto come fine proprio la concessione dei domiciliari ai detenuti reclusi in regime di Alta sicurezza e 41bis: in totale sono stati 223 in poco meno di due mesi. Morra: “Esterrefatto”. E lo riconvoca - Durante le ultime udienze dell’organo parlamentare d’inchiesta Romano è emerso come il personaggio centrale di tutta questa storia, citato più volte dai testimoni auditi sul caos che si è scatenato nelle carceri durante l’emergenza coronavirus. Il presidente dell’Antimafia, Nicola Morra, però non è rimasto soddisfatto dell’audizione. E infatti si è detto “esterrefatto” dell’esposizione di Romano, riconvocandolo per la giornata di domani, 17 giugno 2020 per proseguire l’audizione. A suscitare la reazione di Morra è stato quanto riferito dal magistrato sul caso di Pasquale Zagaria. Mente economica del clan dei Casalesi, Zagaria è uno dei boss reclusi al 41bis che ha ottenuto gli arresti domiciliari durante il coronavirus. “Si è trattato di un grave errore del mio ufficio, già sovraccarico di lavoro”, ha detto il dirigente del Dap. Il 24 aprile scorso, infatti, il tribunale di Sorveglianza di Sassari, spiegando perché aveva concesso i domiciliari a Zagaria, scriveva di aver chiesto al Dap di verificare l’eventuale possibilita? di trasferimento “in altro Istituto penitenziario attrezzato per quel trattamento o prossimo a struttura di cura nella quale poter svolgere i richiesti esami diagnostici e le successive cure”. Cosa aveva risposto il Dap? Nulla. “Dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non e? giunta risposta alcuna”, ha scritto il giudice. “Su Zagaria errore grave del mio ufficio. Svista su mail” - Oggi Romano ha spiegato che si trattò di una svista: “È stato accertato un errore nell’indicazione della posta elettronica del dipendente del Tribunale di Sassari, imputabile all’ufficio e al personale della direzione che io dirigevo”, ha raccontato il magistrato, aggiungendo che con il sistema di posta elettronica interno al Dap arriva la conferma di lettura per le pec mentre se si tratta di posta ordinaria “non sai se è arrivata”. E dunque le mail che il Dap sosteneva di aver inviato al giudice di Sassari su Zagaria non sono mai arrivate a destinazione perché sono state inviate a una casella di posta sbagliata. Zagaria è ancora oggi fuori dal carcere visto che il tribunale di Sorveglianza ha sollevato eccezione di illegittimità costituzionale del decreto Bonafede, emanato per frenare la scarcerazione di mafiosi durante la pandemia. “La circolare non c’entra con le scarcerazioni” - Un decreto che in molti hanno letto come una risposta per limitare gli effetti di quella circolare del 21 marzo, in cui si ordinava ai penitenziari di segnalare “con solerzia” all’autorità giudiziaria l’elenco dei detenuti affetti da almeno una tra nove patologie gravi come l’Hiv o il diabete scompensato o l’insufficienza renale. In coda a quel documento però c’è anche una condizione che non è una patologia: “Soggetti di età superiore ai 70 anni”. Un’età che per Caterina Malagoli, altra dirigente del Dap sentita nei giorni scorsi, vuol dire una cosa sola: “Al 41bis, soprattutto tra i siciliani di Cosa nostra, la maggior parte è gente ultrasettantenne”. Insomma: a causa di quella circolare, che non faceva distinzioni di sorta per le condizioni giudiziarie dei carcerati, rischiavano di uscire anche i detenuti pericolosi. Non la pensa così chi quell’atto lo ha preparato, cioè lo stesso Romano. “Il clamore per cui circolare uguale scarcerazioni è un messaggio sbagliato”, ha detto il magistrato, che a San Macuto ha elencato una serie di sentenze dei tribunali di Sorveglianza precedenti alla stesura del suo atto. Come dire: la circolare non c’entra nulla con le scarcerazioni e la prova è che già prima della sua diffusione alcuni giudici avevano iniziato a concedere i domiciliari anche ai detenuti in regime di Alta sicurezza. “Emergeva l’insufficienza del Cura Italia” - Se così fosse, allora, a cosa serviva quel documento? Se i giudici avevano già cominciato a scarcerare anche i detenuti più pericolosi ma a rischio contagio a cosa serviva quella circolare? Anche perché una legge per diminuire la pressione sui penitenziari già c’era. È il 17 marzo quando con il decreto Cura Italia l’esecutivo incentiva la concessione dei domiciliari ai detenuti per reati minori e con meno di 18 mesi ancora da scontare. Quelle norme - secondo i dati del ministero della Giustizia - liberano le carceri sovraffollate di circa 6mila detenuti e servono a combattere il rischio contagio nei penitenziari. Gli altri carcerati, quelli con pene più pesanti e considerati pericolosi, sono stati volutamente esclusi da quei benefici dal guardasigilli Bonafede. A sentire Romano, però, dal mondo dei giudici di Sorveglianza si chiedeva un ulteriore sforzo visto che con il Cura Italia i penitenziari rimanevano ampiamente sovraffollati. “Non c’è nulla di losco, di segreto, c’è un tema serio già posto da concrete decisioni della magistratura di Sorveglianza. Emerge chiara l’opinione dell’insufficienza dell’ultimo decreto legge”, dice il magistrato. Un’affermazione che sembra confermare il sospetto di Nicola Morra, espresso durante le ultime settimane: “Io qui leggo il tentativo per altra via, forse amministrativa, di far ciò che il legislatore non aveva concesso per via politica”. Come è nata la circolare - Per questo già dal 18 marzo il dirigente comincia una serie di “interlocuzioni” sulla possibilità di preparare un provvedimento. La svolta arriva durante una video-conferenza alla quale, nel racconto di Romano, partecipano “il ministro, i giudici di sorveglianza Fiorillo, Di Rosa, Lazzaroni, il presidente dell’Anm Poniz”. Dunque alla videoconferenza - evocata davanti all’Antimafia già da Malagoli - c’era anche il guardasigilli Bonafede. “L’oggetto - ha continuato Romano - era l’esecuzione della pena. Il 20 nella mattina parlo con Basentini su una possibile bozza di circolare, che in quel momento contiene un espresso riferimento al dibattito sulla detenzione domiciliare umanitaria. Se fosse stata quella definitiva si avrebbe ragione a dire che la circolare si è spinta troppo oltre”. Quel riferimento alla “detenzione domiciliare umanitaria” sarà eliminato nella versione definitiva del documento. “Durante la videoconferenza - ha continuato il magistrato - le presidenti dei tribunali di sorveglianza Milano e Brescia confermano la drammaticità della situazione nelle carceri. Chiedo se può essere d’aiuto che si facciano giungere ai tribunali le segnalazioni sui detenuti più esposti. La risposta è positiva ma non entusiasta”. È in questo modo che viene partorita l’ormai famosa nota. Il 21 marzo mattina alle 8.31 Romano scrive una mail a Basentini “dicendo che mi pare che nella videocall del giorno precedente fosse emerso l’ok. Lui mi risponde: per me va benissimo. Invio la circolare alla dirigente di turno specificando che c’era l’assenso del Capo Dipartimento”. La dirigente di turno è Assunta Borzacchiello che fisicamente firma quel documento, visto che Romano in quei giorni è in telelavoro da casa. In seguito, prosegue sempre Romano “il 26 marzo Salvadori (Tommaso, segretario particolare del ministro Bonafede ndr) mi chiede tramite un whatsapp se l’avevo mandata, gli rispondo, inoltrandogliela stesso mezzo: nessuna contestazione di sorta”. Anzi, il magistrato mette a verbale a San Macuto i complimenti ricevuti dal guardasigilli: “Successivamente in occasione di altra videoconferenza, il ministro esprimerà apprezzamento per l’iniziativa”. Quando Bonafede avrebbe espresso apprezzamento? Romano si è limitato a rispondere: “In una data che non ricordo successiva al 26 marzo”. Di sicuro il 7 maggio a Montecitorio il guardasigilli si è espresso in questo modo su quel documento: “La citata circolare del 21 marzo 2020 si limitava a prevedere la trasmissione all’autorità giudiziaria - da parte delle direzioni - dei nominativi dei detenuti che si trovassero in particolari condizioni di salute; nient’altro. La Costituzione non lascia spazio a ipotesi in cui la circolare di un direttore generale di un dipartimento di un Ministero possa dettare la decisione di un magistrato”. Le derive penitenziarie del sistema carcerario di Enrico Sbriglia* Il Dubbio, 17 giugno 2020 Per favore, non ripetiamo la marcescente espressione che “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, rovinando ancora una volta il sonno di Voltaire, perché altrimenti dovremmo tutti incamminarci, senza indugio, verso le caverne più buie dell’umanità. Sono trascorsi ormai 15 anni dalla Riforma della Dirigenza Penitenziaria del 2005 che imponeva una diversa ed organica architettura organizzativa dell’amministrazione penitenziaria e che invece è stata affossata dalla bramosia di quanti hanno governato il Dap; sono, però, nel frattempo passati circa 27 anni senza che venissero banditi, puntualmente, i necessari concorsi pubblici per poter assicurare il turn-over e la doverosa copertura degli incarichi di direttore e vice negli istituti penitenziari. Solo qualche giorno fa, non potendo, evidentemente, fare più altrimenti, vista oramai la gravissima, e probabilmente irreversibile, situazione delle carceri italiane, è stato pubblicato un misero bando per 45 posti di dirigente penitenziario: numero assolutamente insufficiente per assicurare, dignitosamente, un servizio pubblico essenziale che tocca da vicino gli aspetti più delicati di un cittadino allorquando, a prescindere dalle sue eventuali responsabilità, viene privato della libertà. Attualmente i direttori superstiti presenti, quelli che eufemisticamente, vengono indicati come i “più giovani”, sono di epoche precedenti, con alcuni nel 1997, e poi di corsa, indietro nel tempo, per arrivare agli anni 80. Però, sentite, è solo di qualche settimana fa il riconoscimento ai dirigenti penitenziari di diritto pubblico (così si chiama il loro rapporto di lavoro alle dipendenze dello Stato) di un contributo economico per i loro figlioli che frequentino gli “asili nido”: provvedimento questo che appartiene alla saga del ridicolo, perché, per ragioni anagrafiche, è inverosimile che vi siano ancora dirigenti di mezza età con prole fruente le predette strutture; insomma l’apoteosi del nulla, una concessione che risulta quasi come una sorta di sfottò. Ma come se non bastasse, si aggiunge un’altra amenità del “non diritto” del lavoro: ai Direttori delle nostre carceri sarà addirittura riconosciuto il pagamento delle ore di straordinario effettuate, sempre però che ci siano i fondi; chissà, probabilmente per evitare tale esborso per l’erario, i maggiori responsabili degli istituti, mostrando eroico senso pubblico del risparmio, avrebbero potuto e dovuto abbandonare ogni giorno le carceri alle 14 in punto, soprattutto in caso di proteste e rivolte anche violente dei detenuti, così come in presenza di risse, suicidi, perché come si sa, questi disguidi impegnano tempo. E poi, in fondo, è noto a tutti come le carceri italiche siano obiettivamente luoghi sereni e monotoni, vedasi per ultima Santa Maria Capua Vetere: sempre le stesse rivendicazioni del personale penitenziario, in sottorganico da lustri, sempre gli stessi tossicodipendenti, sempre più vecchi, infettivi e sdentati, sempre le stesse gerarchie criminali, oggi ancora più forti perché in grado di governare pure le piazze penitenziarie, rectius, i larghi corridoi dei reparti detentivi, dove, come se fossero dei fori commerciali, si affacciano le celle aperte per un tempo non inferiore alle otto ore giornaliere e dove può accadere di tutto che, ovviamente, non sarà mai raccontato. Questi luoghi, infatti, sono presidiati dalle stesse organizzazioni criminali con rigore militare, mentre gli agenti, da fuori le sezioni, possono solo immaginare cosa accada in quegli slum, di ferro e cattivo acciaio, commisto di odore di sugo, curry, candeggina e, non di rado, sangue. I luoghi, comunque, rispettano l’italica tradizione dei decumani e si coniugano con la monotonia del carcere: ove si constaterà la stessa sbobba alimentare, somministrata di regola dalle medesime imprese operanti da tempo immemorabile, e poi sempre gli stessi orari della vita- nonvita quotidiana, sempre gli stessi cancelli e le stesse grate, sempre gli stessi autolesionismi di braccia tagliate, di labbra cucite, di scioperi della fame, di medici che non si trovano; sempre gli stessi noiosi suicidi ed evasioni, che poi sono la stessa cosa: a volte si evade con il sogno, con un libro e con la fantasia, a volte, invece, con la carezza di un lenzuolo stretto al collo, altre volte, poche, scivolandoci sopra, come un dito scorre la corda tesa di una chitarra, un intreccio di pezze rubate ed annodate che ti portano sulla strada, dove potrai palpare la libertà! Direttori in via di estinzione, ricordavo, che si assottigliano giorno dopo giorno, come il Kebab, e con carceri ormai dirette “a distanza”, perché molti dirigenti, oltre alla ordinaria sede naturale, ne devono coprire, contemporaneamente, almeno altre due o tre, se non quattro, perfino ubicate in regioni diverse. Si aggiungano poi gli ulteriori incarichi a scavalco, quelli della Giustizia Minorile e di Comunità, per supplire pure la carenza dei dirigenti degli uffici distrettuali ed interdistrettuali dell’Esecuzione Penale Esterna (le riforme a costo zero, sono questo dopotutto…), i quali si interessano, prevalentemente, di misure alternative alla pena, della messa in prova e dei lavori di pubblica utilità. Le carceri italiane, quindi, come navi alla deriva, senza direttori che provino a mantenere una rotta credibile, e con a bordo equipaggi stanchi, demotivati e preoccupati, ma stracolme di passeggeri obbligati, rumorosi, in guerra tra loro, e poco interessati ai tramonti, insomma comunità abbandonate. Ma la cosa non interessa, l’importante è che le macellerie penitenziarie mantengano le saracinesche abbassate e tutto rimanga chiuso nelle celle frigorifere, vivi o morti non fanno differenza, come quelli di Modena. Intanto il container arrugginito, per stare sempre in mare, continua a riempirsi: tossici, qualche spolveratina di colletti bianchi, folli e folletti, piccoli delinquenti e grandi criminali, giovanissimi in carriera e ottuagenari che hanno scritto la storia delle criminalità, autolesionisti e portatori di malattie psichiatriche, falliti aspiranti suicidi e persone disabili, donne e bambini e qualche cimice da letto, tutto uguale e monotono. I suicidi, oramai riguardano pure gli stessi operatori penitenziari, in psicologia si dice “ricalco”, non c’è bisogno della stampante tridimensionale delle carceri, d’altronde i poliziotti sono stanchi: turni spesso terribili, sempre tesi e sul chi vive, si sentono come esche sanguinolente in mezzo ai pescecani, con un rapporto, se va bene, di un agente e trenta/quaranta detenuti e l’insicurezza può generare mostri, gli educatori poi, sono pochissimi, e non sanno come dividersi nei mille compiti che devono assicurare. Gli psicologici, poi, sono professionalità rara, pagati ad ore come le sguattere, massimo 80 ore mensili: eppure dovrebbero scandagliare le personalità dei detenuti, per fornire alla magistratura di sorveglianza elementi obiettivi di giudizio per le proprie decisioni: con 80 ore e semmai 100 detenuti da osservare, è già tanto se gli psicologi riusciranno a ricordarne i nomi esotici e le nazionalità. Tutto ciò, evidentemente, acuisce le tensioni e la rabbia, trasfor-mando in una mera aspirazione le condizioni di vita che si vorrebbero di ordine e legalità e che non solo tranquillizzerebbero l’opinione pubblica ma anche le famiglie dei ristretti, oltre che quelle dello stesso personale. In verità, mai come adesso ci vorrebbe un’azione di politica penitenziaria sistemica, che derivasse anch’essa da una visione strategica delle problematiche della giustizia, anzi della non giustizia, invece si preferisce continuare ad abbandonare le navi alla deriva, ben sapendo che in caso di affondamento esse trascineranno, senza distinzioni, detenuti e detenenti, ma in fondo, anzi nel fondale, cosa interessa, l’importante è occupare Roma e gli scranni alti del Dap, dopotutto c’è sempre un giudice che ci assolve a Berlino. *Penitenziarista - Già Dirigente Generale dello Stato Il diritto alla cura in carcere Il Pensiero Scientifico, 17 giugno 2020 Tra sovraffollamento, barriere linguistiche e medicina di genere. Intervista a Nerina Dirindin e Fabio Gui del Forum nazionale per il diritto alla salute delle persone private della libertà. La Costituzione italiana afferma che i detenuti hanno pari diritto ai cittadini in libertà alla cura, ma è realmente così? Nel 1978 l’istituzione del Servizio sanitario nazionale (Ssn) recepisce il dettato della Costituzione italiana e istituisce un servizio sanitario universalistico. Non è da poco, anche se spesso lo scordiamo. Questo concetto, però, si è fermato alle porte del carcere perché lasciava a un secondo momento l’attuazione del servizio sanitario nei luoghi di detenzione. Quindi di fatto il sistema sanitario nel territorio era a carico del Ssn tranne che negli istituti penitenziari dove restava a carico del Ministero della giustizia. Poi, dobbiamo ricordare il passaggio nel 2000 delle competenze relative alla prevenzione e alle tossicodipendenze dalla giustizia alle regioni, determinando l’apertura nelle carceri dei servizi per le tossicodipendenze (Ser.T) e - laddove le Asl lo hanno fatto - anche dei dipartimenti di prevenzione. Solo con il Dpcm del 2008 si è reso irreversibile il trasferimento al Ssn delle funzioni svolte dalla medicina penitenziaria. L’obiettivo della riforma era ed è quello di offrire a tutti i detenuti/e livelli di prestazioni sanitarie il più possibile omogenei, progetti regionali (screening, prevenzione ecc.) che partono dalle necessità della popolazione detenuta. Bisogna dire con onestà che quell’omogeneità prevista dal Dpcm per quanto riguarda prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione è ancora tutta da raggiungere per tanti motivi. Perché il budget economico non era sufficiente, perché alcune regioni erano alle prese con i piani di rientro e perché possono avere organizzazioni diverse. Inoltre, nel 2008 si è partiti con un quadro oggettivamente critico. Dopo anni in cui il Ministero della giustizia utilizzava risorse a calare nella sanità penitenziaria, le Asl hanno trovato delle strutture sanitarie spesso obsolete, non a norma, una situazione complessa rispetto al personale sanitario e soprattutto un grande sovraffollamento dei detenuti. Tutte condizioni che ci dicono che il percorso è avviato ma è ancora da monitorare per arrivare a questa affermazione. Un sistema carcerario efficiente dovrebbe considerare anche le esigenze dei detenuti con gravi disabilità fisiche o con una grave patologia. Quanto viene realmente fatto? A questa domanda si deve rispondere che le esigenze sanitarie dei detenuti - nelle varie situazioni giuridiche - sono affidate ai medici e alle autorità giudiziarie. In alcune situazioni la magistratura dichiara delle incompatibilità alla permanenza in carcere per la presenza di determinate patologie, ma spesso si tratta di un giusto provvedimento che trova delle situazioni di assenza di una rete sociale o familiare, per poter dare continuità. Abbiamo poi detenuti malati, sia per i medici sia per la magistratura, che non possono usufruire di benefici perché non hanno residenza, non hanno domicilio o non hanno una rete familiare. Infine, può accadere anche che il servizio sanitario regionale dichiari l’incompatibilità alla permanenza in carcere e i magistrati rispondano che il detenuto è anche pericoloso socialmente e quindi resta in carcere. In estrema sintesi, sulla salute dei detenuti in carcere si giocano diverse letture, competenze, responsabilità, diritti, anche perché il carcere è ancora isolato rispetto alla rete sociale che lo vede spesso come una “discarica sociale”. Finiscono in carcere persone con una bassa pericolosità sociale ma con un’alta domanda assistenziale. Quali sono le malattie più diffuse all’interno delle carceri? La malattia più diffusa del carcere, ci viene da dire, è il sovraffollamento che favorisce l’insorgere di tutte le altre patologie. Su tutte, quella del disagio mentale. Seguono le malattie da contatto e quelle dovute a una scarsa igiene, non solo personale ma soprattutto degli ambienti. Pensiamo ai materassi e alle lenzuola, agli ambienti destinati alle docce, alla poca areazione. Ma anche alle strutture stesse delle carceri, alla fatiscenza, al fatto che poche strutture sono a norma con il regolamento che prevede la separazione degli ambienti sanitari da quelli della socializzazione. Ancora, un terzo delle persone ha problemi legati alle dipendenze e una serie di patologie legate a una vita “da povero”, quindi malattie legate alla cura dei denti o all’alimentazione, epatopatie. Poi ci sono tutta una serie di malattie legate all’età: per esempio l’incidenza dei detenuti anziani ha portato un aumento delle malattie legate all’apparato circolatorio e a quello digerente. Infine, ci sono problemi legati all’abuso di farmaci, ad esempio di gocce per dormire o di tranquillanti. Accenno poi alla difficoltà di assicurare la continuità terapeutica per quei detenuti che hanno iniziato percorsi diagnostici e di cura e poi sono trasferiti - per sfollamenti, per esigenze di sicurezza, per motivi giudiziari o legati alla posizione giuridica - in altri istituti penitenziari. Quali sono le difficoltà nel rapporto tra gli operatori sanitari e i detenuti? Nel caso di detenuti extracomunitari è presente anche la figura del mediatore culturale? Il primo problema è che in carcere il medico non è scelto, ma spesso è imposto dall’organizzazione sanitaria presente, dalla sezione detentiva, dalla posizione giuridica. È difficile percepire un legame fiduciario. Inoltre, un terzo delle persone presenti in carcere è straniero, dunque come si fa ad avere un rapporto sanitario di fiducia con il medico con la barriera della lingua? E come si fa a fare un’anamnesi? Dove non c’è il mediatore previsto dall’ordinamento si cerca di trovare delle soluzioni. Spesso ci sono delle realtà in cui i detenuti della prima generazione sono usati come mediatori linguistici e culturali. Capite la delicatezza del tema. Per non parlare dei problemi di privacy. Come vengono gestiti i farmaci all’interno delle carceri? Ci sono sportelli farmaceutici? La teoria dice che ogni istituto penitenziario dovrebbe avere una carta dei servizi sanitari con un prontuario farmaceutico, che l’acceso ai farmaci per i cittadini detenuti è uguale alla fruibilità dei cittadini liberi, che sono presenti i farmaci generici. Ma nella pratica c’è il problema della disomogeneità delle Asl e dei diversi istituti penitenziari. Nelle carceri ci sono servizi sanitari che per l’organizzazione aziendale hanno accesso alle farmacie ospedaliere, altri che hanno delle farmacie territoriali dove l’approvvigionamento a volte può essere difficoltoso. Il problema vero è che molti farmaci devono essere comprati e spesso lo fanno i cappellani e i volontari. Ancora, molti farmaci sono a pagamento, ad esempio quelli per la dermatologia, che però sono fondamentali in una vita di collettività in cui la distanza sociale è difficile da mantenere. Nelle carceri si riesce a tenere conto delle prestazioni mediche richieste da quella che è stata chiamata medicina di genere, aderente ad alcune caratteristiche della salute delle donne? Le donne sono una parte minoritaria dei detenuti, il 4-5 per cento, che però presenta delle necessità peculiari. Molte donne sono straniere, molte di etnia rom, spesso i bambini sono in carcere con loro. Molte hanno condizioni psicologiche e sociali particolarmente difficili. Dunque, non è sufficiente la sola presenza dello specialista, manca una corretta gestione di esigenze specifiche che le donne hanno in alcuni periodi della vita. Pensiamo ad esempio all’attività di prevenzione di patologie femminili o ai disturbi fisici e psichici legati alla menopausa. La condizione delle donne in carcere richiede una maggiore attenzione, a tutto tondo. Accenno anche a un altro frammento della popolazione detenuta molto vulnerabile: le detenute transessuali ospitate in carceri maschili. Alle problematiche comuni si aggiungono, quindi, le criticità dovute al mancato riconoscimento della transizione in essere da un genere a un altro. Inoltre, un aspetto rilevante da tenere in considerazione è quello psicologico: spesso il disagio che accompagna lo stato di detenzione delle persone transessuali si manifesta in comportamenti autolesivi che fanno temere per la stessa sopravvivenza della persona. Quindi direi che si riesce a dare una risposta parziale e con grosse difficoltà. Quello che fa la differenza è la sensibilità del personale sanitario e del trattamento intramurario. Nelle carceri viene svolto un lavoro di prevenzione e di educazione a un corretto stile di vita? In una situazione di sovraffollamento, di decadenza delle carceri, in cui spesso non si lavora, in cui non c’è una separazione tra la zona giorno e la zona notte, il problema del fumo e della prevenzione è davvero residuale. Non perché non sia importante, ma perché viene richiesto in un contesto di decadi mento generale. Se volessimo parlare di un corretto stile di vita dovremmo chiudere il carcere e riformularlo. A volte la richiesta di non fumare diventa un problema di accesso ai percorsi sanitari. Ad esempio, nelle realtà di Roma le strutture sanitarie per i detenuti, in ottemperanza alle normative europee, hanno un regolamento per cui non si può fumare nel periodo del ricovero. È giusto o non è giusto? Di fatto abbiamo conosciuto detenuti che per questo vincolo non hanno accettato i ricoveri. L’Organizzazione mondiale della sanità qualche anno fa ha introdotto l’espressione “healthy prison” per contrastare un’evidenza: alcuni studi mostrano che spesso è proprio lo spazio della prigione a determinare la malattia. È d’accordo? Sì, siamo d’accordo perché come tutti gli ambienti in cui è prevista la promiscuità, il carcere è un elemento patogeno. Ma lo è nella quotidianità, lo è nel momento in cui per fare una telefonata devi chiederlo, per fare la doccia devi chiederlo. Alcuni usano dire che il carcere infantilizza perché toglie le responsabilità e mette tutto sotto un’organizzazione e una richiesta. Però, paradossalmente, il carcere può avere anche un ruolo utile perché intercetta una popolazione più fragile, più vulnerabile, più marginale, e potrebbe proporre dei percorsi di salute e di sanità. Potrebbero essere coinvolte in un concetto di sanità pubblica e sociale avviando dei percorsi di reinserimento e riabilitazione. Quindi dipende da come si intende il carcere. Se è un contenitore dove mettere le persone che sul territorio hanno difficoltà allora sì, è un elemento di patologia. Ma può diventare una prospettiva. Ad esempio, alcune persone scoprono di essere malate quando entrano in carcere perché fanno degli esami, perché fanno più attenzione alle loro condizioni di salute. E quindi si ritorna a quello che la riforma del 2008 metteva al centro: percorsi di prevenzione, di diagnosi e di cura. È una riforma culturale? Ne abbiamo bisogno, perché significa restituire alla fine della pena dei tratti di coscienza e di responsabilità che prima non c’erano. Come tutti gli ambienti in cui è prevista la promiscuità, il carcere è un elemento patogeno. Come si sta gestendo all’interno delle carceri l’emergenza coronavirus? Inizialmente non si è gestito bene. Si è chiesto ai detenuti, come elemento di contenimento e prevenzione, l’isolamento, di limitare gli spostamenti. È un ragionamento che prevede l’adesione, la partecipazione, la consapevolezza dei cittadini. Ma si è saputo della chiusura dei colloqui con la famiglia non dalle autorità, ma dalla televisione. E questo ha scatenato nella maggior parte dei detenuti preoccupazione, panico e ansia. Consideriamo che in carcere è difficile mantenere la distanza sociale, dal momento che sono presenti 10.000 persone in più rispetto alla capienza massima. È difficile avere una persona responsabilizzata alla salute di sé stessa e degli altri se si trova in una cella con altre 6, 7 o 8 persone nelle condizioni che prima abbiamo descritto. E poi dicono che l’unico contatto da evitare è quello con la famiglia? Si è deciso di affrontare il problema non tenendo conto della specificità del carcere. Con decisioni, anche giuste se vogliamo, prese dall’alto, che non sono state condivise con gli stessi operatori del carcere, che non hanno considerato i tempi necessari per attivare le alternative tecniche, che non hanno coinvolto i detenuti e le associazioni. Decisioni subite e non condivise. La chiusura dei colloqui è un fatto importante che deve necessariamente acquisire una adesione, la partecipazione, la consapevolezza dei cittadini detenuti. Una responsabilità che è il contrario del comportamento infantile. E si è parlato delle carceri solo quando c’è stata la ribellione e la violenza. Così come si è tornato a parlare della tossicodipendenza in carcere quando ci sono stati morti di overdose. Inaccettabile. Non si può parlare del carcere solo nei momenti dell’emergenza. Teniamo presente che il detenuto è soprattutto un cittadino e dovrebbe godere dello stesso diritto alla tutela della salute di tutti gli altri cittadini. Il Partito Radicale: oggi la giornata delle vittime degli errori giudiziari di Valentina Stella Il Dubbio, 17 giugno 2020 Il 17 giugno 1983 Enzo Tortora venne svegliato alle 4 del mattino dai Carabinieri di Roma e arrestato per traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Lo ammanettarono e lo diedero in pasto ai fotografi chiamati per l’occasione. Era innocente. A 37 anni da quel giorno vergognoso per la storia giudiziaria italiana il Partito Radicale, che elesse Tortora quale simbolo della giustizia ingiusta e lo fece eleggere a Strasburgo, chiede, tramite il Segretario Maurizio Turco e il Tesoriere Irene Testa, che “si approvi subito la proposta per istituire la giornata vittime errori giudiziari”. Ieri, aggiungono Turco e Testa, “finalmente la nostra proposta di legge promossa per dedicare una Giornata nazionale alle vittime di ingiusta detenzione ed errori giudiziari in Italia è stata, grazie al Presidente della Commissione giustizia del Senato Andrea Ostellari, messa in calendario nei lavori della Commissione, con il voto di quasi tutti i gruppi ad eccezione del Movimento 5 stelle”. Oggi sarà posto in votazione l’incardinamento. “Sappiamo che da allora poco è cambiato sul fronte della giustizia - ci dicono gli esponenti radicali. Ancora oggi troppi innocenti finiscono in carcere, troppi ancora in custodia cautelare”. Dai dati rilevati dal sito errorigiudiziari.com, emerge che dal 1992 al 31 dicembre 2018 si sono registrati oltre 27.500 casi di ingiusta detenzione: in media, 1.057 innocenti in custodia cautelare ogni anno. Con una spesa che supera i 750 milioni di euro in indennizzi, per una media di circa 29 milioni di euro l’anno. “In venticinque anni di attività sottolineano proprio al Dubbio i giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, fondatori di Errorigiudiziari.com - per mantenere acceso un faro sul problema degli innocenti in carcere, abbiamo capito che quello degli errori giudiziari è uno dei temi più sottovalutati e colpevolmente trascurati della nostra giustizia. E il confronto con l’Europa sta lì a dimostrarlo: in Gran Bretagna si sono registrati 87 casi negli ultimi dieci anni, in Francia ci sono una sessantina di vittime di ingiusta detenzione l’anno, da noi circa mille. In Spagna la spesa media annua in indennizzi è di circa 5 milioni di euro, da noi quasi 30. Per questo qualunque gesto, anche solo simbolico come l’istituzione di una giornata intitolata a chi ha vissuto il dramma di finire in cella senza colpa, ha un suo valore. Ecco perché abbiamo accettato volentieri, con la nostra associazione, di essere tra i promotori dell’iniziativa”. Ispiratore della proposta di legge è stato l’avvocato Giuseppe Rossodivita: “Alle vittime dei crimini ci dovrebbe pensare la giustizia, alle vittime della giustizia però non ci pensa nessuno e gli errori sono molti di più di quelli che vengono riconosciuti come tali. Le vittime sono tutte uguali, sono persone che hanno avuto rovinata la propria esistenza per colpa di altri, ma quando il carnefice veste l’abito del giudice e usa come armi poteri conferiti dalla legge, la coscienza collettiva tende a rimuovere, a cancellare il misfatto e la stessa vittima. Spero che la proposta sia approvata al più presto, sarebbe un importante segnale culturale, oltre che per le vittime e le loro famiglie”. Per aumentare la sensibilizzazione sul tema il Partito Radicale ha organizzato oggi su Radio Radicale la Giornata delle vittime degli errori giudiziari dalle 11 alle 14. All’appuntamento parteciperanno: Francesca Scopelliti, Presidente Fondazione Enzo Tortora, i senatori Ostellari, Mirabelli, Ciriani e Dal Mas, gli onorevoli Boschi, Gelmini e Molinari, i giornalisti Vittorio Feltri, Paolo Del Debbio, Gian Marco Chiocci, Mario Sechi, Carlo Fusi, Piero Sansonetti, i radicali Rita Bernardini e Deborah Cianfanelli, non mancheranno le testimonianze delle vittime di errori giudiziari ed ingiusta detenzione: Daniela Candeloro, Giuseppe Gullotta, Bruno Lago, Antonio Lattanzi, Anna Maria Manna, Diego Olivieri, Antonio Perugini, Cristiano Scardella, fratello di Aldo. Bambinisenzasbarre e la campagna promossa dal Cope sul rapporto tra figli e genitori detenuti di Martina Blasi epale.ec.europa.eu, 17 giugno 2020 Ogni anno Bambinisenzasbarre, nella cornice della Campagna europea “Non è un mio crimine ma una mia condanna”, promossa dal network europeo Cope - Children of Prisoners Europe, di cui l’associazione è membro per l’Italia, organizza con il supporto del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, la Campagna Carceri aperte per portare alla ribalta il tema della relazione figli - genitori detenuti e organizza in ogni istituto penitenziario dei momenti speciali per le famiglie durante tutto il mese di giugno. Quest’anno, a causa dell’emergenza Covid-19, la Campagna prende il nome di: In attesa di Carceri aperte, figli-genitori connessi. La videoconferenza europea di apertura della Campagna si è svolta il 26 maggio 2020, con 390 partecipanti da 38 paesi, dalla Nigeria all’Argentina, dai Paesi europei a quelli dell’America del nord e dell’Asia. Il tema affrontato - Non interrompere il legame fra i figli e loro genitori detenuti, nella crisi di Covid-19 e oltre, la situazione in Europa - è molto sentito in questo periodo di pandemia, con le carceri chiuse in quasi tutti i paesi del mondo e l’impossibilità per milioni di bambini di poter fare le periodiche visite ai genitori detenuti, per mantenere il proprio fondamentale legame parentale. Sono visite diventate “virtuali” tramite l’uso delle piattaforme di video-chat offerte dal Web. Protagonisti del seminario sono stati Mirna Cacic, di Parents in Action (Croazia), Edoardo Fleischner di Bambinisenzasbarre, Richard Garsite, del Center for Crime and Justice Studies (Regno Unito), con moderazione di Nancy Loucks di Families Outside (Scozia). Durante la conferenza, Bambinisenzasbarre ha descritto le nuove azioni svolte in questo critico periodo, ovvero il potenziamento del Telefono Giallo, la consulenza a distanza per le famiglie, lo Spazio Neutro virtuale - incontri protetti tra genitori-figli on line e i laboratori artistici on line, in cui i bambini, coordinati da un arte-terapeuta, disegnano insieme. La principale riflessione emersa durante la conferenza è l’importanza che queste azioni portino a cambiamenti positivi e duraturi per i bambini, per le persone detenute e le loro famiglie e la convinzione che le visite online - la risposta più efficace a mantenere in contatto bambini e genitori durante la crisi Covid-19 - non debbano sostituire in alcun modo le visite di persona nel dopo Covid-19. Il diritto dei minori al contatto diretto con un genitore rimane un diritto sancito dalla Convenzione Onu dei diritti dell’infanzia. Nel lungo dibattito si è quindi ripetuto e sottolineato con forza che gli incontri online dovrebbero aggiungersi alle visite di persona, sempre troppo poche, quando queste diventeranno nuovamente possibili. In continuità con la conferenza sopra descritta, il 25 giugno 2020 dalle ore 17.00 alle ore 19.00, si svolgerà la videoconferenza europea di chiusura dal titolo “Figli e genitori, rimaniamo connessi”, in questa occasione interverrà anche la presidente della rete Children of Prisoners Europe Cope, Lucy Gampell, e i relatori che hanno dato la loro adesione all’iniziativa. Cuore della Campagna “In attesa di Carceri aperte, figli-genitori connessi” è quindi il mantenimento della relazione figli-genitori detenuti, diritto rappresentato dalla Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti. La Carta - firmata nel 2014 dal Ministro della Giustizia, dalla Garante nazionale dell’Infanzia e dell’Adolescenza e da Bambinisenzasbarre e diventata Raccomandazione europea nel 2018 - riconosce formalmente il diritto dei minorenni alla continuità del proprio legame affettivo con il genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto alla genitorialità. L’emergenza Covid-19 ha imposto un blocco anche nel percorso di buone pratiche e procedure aderenti alla Carta. È un blocco che deve rimanere temporaneo, per non disperdere tutto il lavoro di questi ultimi vent’anni. Il difficile equilibrio tra giustizia e politica di Giuseppe Maria Berruti* La Stampa, 17 giugno 2020 Nel 1993, in piena sindrome Mani Pulite, il Parlamento tolse l’autorizzazione a procedere da parte del giudice nei confronti dei parlamentari. Apparve quei sta la risposta a una esigenza di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Soprattutto a una domanda di giustizia sostanziale, cioè a dire libera dalla razionalità dei percorsi giuridici troppo formali. Fu un errore storico. Che ne sta producendo altri. La Costituzione non aveva inteso dare vita a un privilegio gratuito, ma a una guarentigia. A una funzione, cioè, coerente con la centralità del Parlamento il cui presupposto è la sua integrità. Solo l’elettore può dare o togliere la posizione di parlamentare. E l’indipendenza tra i poteri dello Stato imponeva, secondo lo spirito costituente, che la valutazione dell’opportunità di un procedimento fosse rimessa a ciò che si definiva un fumus. Una percezione, tutta politica, di possibile intento extragiudiziario del magistrato. Questa guarentigia non poteva che dividere, ogni volta che fosse stata applicata. Ma la Costituzione scontava la divisività per conservare la democrazia parlamentare. Lasciando alla politica, alla fine, di decidere sulla sorte, appunto politica, del parlamentare oggetto di richiesta di autorizzazione. Oggi l’indagine non deve essere autorizzata. L’arresto invece, a indagine evidentemente in corso e in stato tale da imporre valutazioni, e ogni altra misura limitativa della libertà personale, debbono esserlo. Si è dato vita a uno strano meccanismo, nel quale, essendo legittima l’indagine, si dovrebbe entrare nel tecnicismo della cattura e valutarne, in luogo del giudice, l’opportunità contingente. Opportunità sempre opinabile. Una follia. Figlia dell’errore commesso nel 1993. Ma anche della mancata riflessione da parte dei magistrati sulla responsabilità culturale che il testo nuovo dell’art. 68 impone a chi indaga su uomini e donne del Parlamento. Il cambiamento della norma intendeva togliere solo una diseguaglianza. Non certo mettere nelle mani dell’inquirente la relazione di forza di cui il Parlamento vive. Il nuovo testo dell’art. 68 avrebbe richiesto anche dai magistrati una riflessione sulla delicatezza estrema della richiesta di cattura di un parlamentare. Essa cambia, o può cambiare, la realtà di un’assemblea, di una compagine di governo. Dunque cambia la politica. E cambiare la politica, se pure nel concreto della Storia è un effetto che può derivare dai processi, non è una attribuzione della magistratura. La riflessione non vi è stata. Le catture sono richieste con lo stesso standard di ragionamento adoperato nei confronti del cittadino comune. Il quale non è depositario del potere di fare le leggi e di fare i governi. Sono richieste senza la considerazione, politica nel senso più alto e nobile, della ricaduta generale. Il mito della giustizia cieca, duro a morire per quanto antistorico. E per quanto, appunto, mito. La frase “non siamo i passacarte delle procure”, pronunciata ogni tanto da politici in disaccordo sulla richiesta di arresto, è ruvida. Ma esprime un concetto costituzionale ruvido. Il Parlamento che decide in sede di articolo 68 non è un giudice. È il Parlamento. E le sue valutazioni debbono essere politiche. Perché la Costituzione, la vita associata dentro il suo patto, le regole di questa vita associata, sono politica. Ma questo portato della logica di una democrazia parlamentare non è facile da cogliere. Da parte di un’opinione pubblica che si schiera sempre in modo sostanzialista: colpevole o innocente, senza processo, ma nella loquace confusione delle convenienze delle forze politiche. La feroce balcanizzazione dei magistrati viene da questi errori. La debolezza di un Csm eletto nella quota giudiziaria sulla base delle diverse legittime appartenenze, e nella quota cosiddetta laica da parte del Parlamento e perciò legittimamente portato a valutare le nomine sotto un profilo, almeno, di contiguità culturale, sono una conseguenza ovvia. Si è scoperto, niente meno, che le grandi nomine sono frutto di patti. Dunque di pressioni, di valutazioni contrapposte e di accordi. Si è scoperto che governare un ufficio giudiziario può avere ricadute percepite come immediatamente politiche. Si immaginano rimedi come la limitazione della discrezionalità del Consiglio. Come se l’indipendenza della magistratura non fosse connessa alla discrezionalità del suo governo autonomo. Le cui deviazioni vanno impedite con il controllo sociale. Con la trasparenza dei percorsi. Con la chiarezza dei controlli disciplinari. L’Italia è chiamata a grandi cambiamenti. Tra i quali quelli che attengono alla affidabilità del suo sistema giudiziario. È un’occasione per avvocati e magistrati, oltre che per la politica, per riparare ai ritardi. *Commissario Consob Csm, il vero male italiano delle clientele di Livio Pepino Il Manifesto, 17 giugno 2020 Il caso Palamara mostra che i riferimenti non sono più le “correnti”, ma un indifferenziato “correntone” nel quale le impostazioni culturali non contano più nulla. C’è, in magistratura, una questione morale: evidente e grave. Il reticolo di intrallazzi, raccomandazioni e pressioni rivelato dal trojan installato sul telefono dell’ex presidente dell’Associazione magistrati Luca Palamara è solo la conferma di una situazione nota da tempo. A ciò la politica, la stampa e una parte della magistratura (comprensiva anche di chi quei metodi ha ampiamente utilizzato in un passato più o meno recente) rispondono stracciandosi le vesti. E proponendo “riforme” del sistema elettorale del Consiglio superiore e dello status dei magistrati. Una cosa, peraltro, manca. Una risposta non elusiva alla domanda fondamentale: perché tutto questo accade? Senza una risposta adeguata a questa domanda è facile prevedere che le “riforme” non modificheranno la situazione (o addirittura la aggraveranno, come accaduto con gli interventi normativi che si sono susseguiti negli ultimi anni). Conviene partire dalla risposta più frequente ripetuta come un mantra a destra e a sinistra. La colpa - si dice - è delle correnti dell’associazione magistrati che, per ragioni di potere, hanno minato un corpo altrimenti sano. È una risposta tanto facile e consolatoria quanto sbagliata. Certo, le correnti ci hanno messo del loro (e non poco) ma il clientelismo e la ricerca di appoggi e protezioni, anche tra i magistrati, ha radici antiche, in un’epoca in cui l’associazionismo giudiziario non esisteva e la magistratura era un corpo ideologicamente compatto e omogeneo. Oltre un secolo fa, infatti, per cercare di sanare il malcostume imperante ci volle addirittura una legge (la n.438 del 1908) contenete l’esplicito divieto, per giudici e pubblici ministeri, di ricorrere a raccomandazioni di politici o avvocati per ottenere facilitazioni in carriera. E si trattò di un divieto vano (poco più di una grida manzoniana) se è vero che durante il fascismo, nel febbraio 1930, il guardasigilli Rocco dovette ribadirlo con una circolare. Anch’essa sistematicamente disattesa tanto che uno dei successori di Rocco, Dino Grandi, dovette richiamarla, il 7 maggio 1940, con un telegramma-circolare in cui sottolineava la necessità (quantomeno) di evitare il flusso e la permanenza a Roma dei magistrati che assediavano i componenti del Consiglio superiore per tutto il tempo in cui gli stessi erano impegnati negli scrutini o nelle promozioni. Né la situazione migliorò in epoca repubblicana, ben prima della nascita delle correnti, almeno a giudicare dal grottesco ritratto che Dante Troisi (in Diario di un giudice, 1955) riservava al collega in lacrime perché, non conoscendo né vescovi né cardinali, non poteva ambire alla “meritata promozione”. Non solo, ma lo stesso spaccato emergente dall’affaire Palamara evidenzia che i riferimenti non sono più, da tempo, le “correnti” ma gli esponenti più forti e potenti di un indifferenziato “correntone” nel quale le idee e le impostazioni culturali non contano più nulla. Se è così - ed è difficile sostenere il contrario - si può disarticolare per legge l’associativismo giudiziario e/o modificare il sistema di governo autonomo della magistratura, magari sostituendo le elezioni con il sorteggio (novità proposta fin dal 1972 dal fascista Almirante), ma ciò non servirà a sradicare intrallazzi e clientele, che saranno semplicemente dirottati altrove. Per cambiare bisogna andare alla radice del problema e prendere atto che clientele, protezioni e appoggi sono regola nelle pubbliche amministrazioni e in tutti gli apparati burocratici come emerge ogni volta in cui un’inchiesta giornalistica o un’indagine giudiziaria apre una finestra sulle modalità di nomina di direttori di Asl o di presidenti di enti pubblici, di prefetti o di questori, di direttori di reti televisive o di presidi di facoltà. Non è certo un’attenuante per chi ha praticato e pratica quei metodi nella magistratura e nel suo Consiglio superiore ma è un fatto che contiene in sé l’indicazione della strada per uscirne. Se la burocratizzazione è fonte di clientelismo, per invertire la rotta occorre perseguire il suo contrario: sburocratizzare l’apparato giudiziario, rendere temporanea la dirigenza degli uffici e ridurne i poteri, realizzare un’organizzazione “orizzontale” della giurisdizione (nella quale i magistrati si distinguano davvero solo per diversità di funzioni), eliminare i rapporti impropri di pubblici ministeri e giudici con il potere politico e il sottogoverno, svecchiare l’ingresso nel corpo giudiziario, potenziare la formazione e aprirla al “punto di vista esterno”. Dunque, l’opposto di quel che si va proponendo. Non è una bacchetta magica, ma una boccata d’ossigeno su cui ulteriormente lavorare, sì. Altrimenti - inutile illudersi - non si uscirà dal pantano. Cambieranno i riferimenti ma non i metodi. E non sarà gran cosa se malgoverno e clientele faranno capo al ministro, alla politica o a amministratori “per caso” anziché a centri di poteri interni al corpo giudiziario. Ritorno delle udienze in aula? Io, magistrato, temo sia un flop di Claudio Castelli* Il Dubbio, 17 giugno 2020 L’emendamento che sposta il termine delle misure organizzative transitorie, demandate ai capi degli uffici, dal 31 luglio al 30 giugno rischia di essere un boomerang per la giustizia. Una scelta che, al di là dell’apparenza, viene ad essere demagogica senza farsi carico dei problemi concreti che oggi gli Uffici Giudiziari attraversano. Tutti vogliamo che il ritorno al ritmo ordinario di udienze e sentenze avvenga nel tempo più rapido possibile, ma farlo oggi con un semplice emendamento soppressivo senza tempi sufficienti per adeguarsi, ed eliminando le intelligenti misure organizzative che la legge 24 aprile 2020 n. 27 aveva ideato per cercare di contemperare ripresa dell’attività e sicurezza, rischia di avere l’effetto opposto. Ovvero il rischio che tutte le udienze già programmate con udienze da remoto o virtuali vengano rinviate. Si pongono due problemi: da un lato la difficoltà di riprogrammare in quindici giorni tutto il calendario, con relative modalità, di luglio, dall’altro la necessità di assicurare un’adeguata sicurezza in particolare nelle zone in cui il contagio è ancora vivo. In alcune zone riprendere indiscriminatamente le udienze in presenza in condizioni di sicurezza è semplicemente impossibile. Non solo, ma si sta perdendo una grande occasione. Alla fine della sperimentazione dei diversi istituti di cui all’articolo 83 sarebbe stato saggio analizzare la prova che ciascuno di essi ha dato e mantenere quelli che si sono dimostrati validi e utili per tutti. Perché tornare indietro rispetto alle notifiche via Pec nel settore penale o all’obbligo di deposito telematico nel settore civile? Perché rinunciare alla possibilità di udienze da remoto o alle udienze virtuali quando c’è il consenso delle parti? In questo periodo drammatico abbiamo fatti passi avanti e ci siamo resi conto di quanto può aiutarci la tecnologia. Dobbiamo coglierne i frutti e metterli a sistema. Non abbiamo capito che oggi ogni ragionamento sul futuro del nostro Paese vede la giustizia come un peso ed un ostacolo e non come una grande opportunità da cogliere? È possibile perpetuare il conflitto con avvocati contro personale amministrativo e magistrati e viceversa? Bisognerebbe cominciare a dire che in realtà i Tribunali non sono stati mai chiusi e che le udienze, sia pure molto rallentate, anche nel periodo più buio non si sono mai fermate. Che le realtà dei nostri Tribunali sono state estremamente diversificate, condizionate dai livelli di contagio, dalle situazioni logistiche, ma anche dal clima interno creatosi nei vari uffici. Credo di poterlo dire a buon diritto dal distretto di Brescia che comprende tre delle province più colpite in assoluto dall’epidemia (Bergamo, Brescia e Cremona) e che nel periodo di blocco ha comunque mantenuto un’attività limitata, ma comunque quantificabile nel 20- 25 % di quella svolta nell’anno precedente e che dal 12 maggio è salita al 50% nel settore penale e al 70% nel settore civile. Livello dì attività oggi in continuo aumento. Il problema oggi è ripartire, ma non per tornare ad una normalità pre-epidemia un po’ ammaccata ed ancora meno appetibile, ma per ripensare ad un modello di giustizia fruibile, rapido e digitalizzato. Questa è la sfida che abbiamo davanti tutti, di qualsiasi professione giuridica e di qualsiasi latitudine. *Presidente della Corte d’appello di Brescia Carminati torna libero e Bonafede invia gli ispettori del ministero di Giuliano Santoro Il Manifesto, 17 giugno 2020 L’ex Nar, protagonista del cosiddetto “Mondo di mezzo”, scarcerato per scadenza termini. Aspetterà il nuovo processo in libertà. Alle 13.30 di ieri, per Massimo Carminati si sono aperti i cancelli del carcere di Oristano. L’ex militante dei Nar, una vita a cavallo tra eversione neofascista e criminalità, era detenuto dal dicembre del 2014, quando era scattata l’operazione “Mondo di Mezzo”. L’indagine della procura di Roma, all’epoca coordinata da Giuseppe Pignatone, ruotava attorno all’ipotesi che a Roma operasse una criminalità organizzata di nuovo tipo denominata Mafia Capitale. Per questo motivo Carminati era finito insieme all’altro protagonista dell’inchiesta, il ras delle cooperative sociali Salvatore Buzzi, prima alla massima sicurezza del carcere di Tolmezzo e poi a Parma, al carcere duro previsto dal 41bis. I due, finiti alla sbarra assieme ad altri dodici imputati, secondo l’accusa si occupavano di recuperare crediti, di inserirsi nei meandri dell’amministrazione e di accreditarsi di fronte alla politica. La gran parte degli affari riguardava la creazione di “emergenze sociali” attorno alle quali lucrare e ottenere incarichi in affidamento diretto, cioè senza passare per le gare d’appalto. Il 20 luglio del 2017 era arrivata la prima condanna: vent’anni di reclusione per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e una serie di altri reati. L’anno successivo, in appello, la condanna era scesa 14 anni e mezzo ma era stata riconosciuta l’aggravante dell’associazione mafiosa. Lo scorso 22 ottobre la Cassazione ha annullato quel verdetto e rispedito le carte in corte d’appello. Il nuovo processo servirà soltanto a ricalcolare le pene, ma a questo punto per Carminati sono scaduti i termini della custodia cautelare. Ecco perché ieri il tribunale della libertà ne ha disposto la scarcerazione. “A fine marzo Massimo Carminati aveva già scontato il tetto massimo dei due terzi del reato più grave che gli è stato contestato: una corruzione”, spiega il suo avvocato Cesare Placanica. Il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ha dato mandato all’ispettorato generale di via Arenula di compiere sul caso “i necessari accertamenti preliminari”. La scarcerazione di Carminati dal punto di vista tecnico-giuridico è inappuntabile: una volta che l’alta corte aveva stabilito che il “Mondo di Mezzo” teorizzato enfaticamente dallo stesso Carminati in una conversazione intercettata dagli inquirenti non aveva nulla a che fare con la fattispecie mafiosa ma doveva servire a mettere in relazione la strada ai palazzi del potere, ad oliare certi meccanismi criminali, allora Carminati ha il diritto di attendere la nuova sentenza da uomo libero. Eppure, come avevano ammesso gli stessi inquirenti nelle 900 pagine che quasi sei anni fa disponevano gli arresti, questa è una storia in larga parte fatta di suggestioni e narrazioni epiche, che talvolta tornano utili ai protagonisti per aumentare il loro peso specifico e intimorire il prossimo con la mitologia del soldato che si rialza sempre e che trova il modo di farla franca. Quel mito che è stato cucito addosso a Carminati fin da quando, negli anni Settanta, si muoveva al confine tra terrorismo e criminalità, tra esponenti della borghesia nera e sottoproletari desiderosi di scalare la società: soldi facili e scambi di favori. Venti anni fa, era luglio del 1999, quest’aura di intoccabilità si fregiava del colpo alle cassette di sicurezze dell’istituto bancario del Tribunale di Roma, alla ricerca di preziosi ma anche di documenti scottanti per condizionare magistrati e avvocati del foro capitolino. Questa trama di ricatti e di connivenze, di relazioni pericolose e di capacità di mediare tra mondi diversi, era stata dipanata tra omissioni, ricostruzioni di comodo e allusioni trasversali nella lunga deposizione che Carminati aveva deciso di rilasciare proprio al processo per Mafia Capitale, nell’aprile del 2017. In quell’occasione, come nelle intercettazioni ambientali contenute nel faldone processuale, si era capito che il mito del Nero, che dalle fiction sulla Banda della Magliana in poi ha fatto ingresso nell’immaginario collettivo, a Carminati non dispiace. Ecco perché la liberazione dell’uomo affaticato e un po’ invecchiato che abbiamo visto ieri potrebbe assumere ancora una volta un valore simbolico, sociale e politico che va ben oltre il codice di procedura penale e i singoli episodi di corruzione. Massimo Carminati ha scontato 5 anni al 41bis senza motivo. Giusto che esca di Paolo Delgado Il Dubbio, 17 giugno 2020 Se un comune detenuto, condannato per un fattaccio di corruzione, uscisse di prigione per decorrenza dei termini della custodia cautelare dopo aver passato quasi cinque anni al 41bis, il regime di carcere duro, senza alcun motivo, essendo alla fine stato assolto con formula pienissima dall’accusa di essere a capo di un’associazione mafiosa, nessuno ci troverebbe nulla di strano. Sui giornali la notizia comparirebbe forse in qualche trafiletto. Di certo il ministero della Giustizia non spedirebbe con la rapidità del fulmine i suoi ispettori a verificare le ragioni per cui il Tribunale del Riesame ha deciso di rispettare i diritti di quel detenuto. Se a varcare ieri le porte del carcere di Oristano, senza obbligo di domicilio né di firma, fosse stato solo un tal Carminati Massimo, condannato a 14 anni e mezzo ma in attesa di ridefinizione della pena sproporzionata una volta caduta l’accusa di essere il Totò Riina della Capitale, le cose andrebbero effettivamente così. Ma a uscire ieri dal carcere è stato invece il Nero, popolarissimo coprotagonista del più fortunato noir italiano di tutti i tempi, il Romanzo criminale di Giancarlo De Cataldo, una trasposizione sul grande schermo e due stagioni di una serie tv che ha aperto la strada a una quantità di epigoni. A andarsene libero come l’aria dal carcere di Oristano è stato il Samurai, protagonista del romanzo Suburra e del seguito La notte di Roma, entrambi dello stesso De Cataldo e del giornalista di punta di Repubblica Carlo Bonini. Anche in questo caso film e poi serie tv che ancora spopola sono seguiti a stretto giro. Soprattutto, lascia la galera l’uomo che nel 2012 era stato descritto dal giornalista dell’Espresso Lirio Abbate come uno dei “quattro re di Roma”, i boss che secondo l’inchiesta tenevano in pugno Roma. Gli altri tre erano tutti nomi notissimi, boss del calibro di Carmine Fasciani o Peppe Casamonica, Il vero oggetto dell’inchiesta era il quarto uomo, l’ex Nar ed ex banda della Magliana che nessuno sospettava essere diventato nel frattempo un padrino. Un articolo profetico: due anni dopo l’inchiesta della Procura di Roma nota alle cronache come Mafia Capitale confermava. Massimo Carminati era il vero boss della Capitale. Anche se a suo carico non comparivano fatti di sangue, anche se a intimidire i politici, secondo l’atto di accusa, non erano minacce formali ma solo il temuto nome. Anche se il quartier generale non era la villa dei Corleone a Long Island ma una stazione di servizio su Corso Francia e se la sua cosca erano vecchi camerati, amici e sodali dagli anni 70, dediti soprattutto al “recupero crediti”. Cravattari, come si dice a Roma. La sentenza di Cassazione ha smontato quel fantasioso impianto. Le motivazioni, uscite appena cinque giorni fa, la hanno letteralmente polverizzata. La biografia del supposto padrino avrebbe dovuto far suonare campanelli d’allarme sin dal primo momento. Carminati ha frequentato davvero sia i Nar sia la banda della Magliana, soprattutto in virtù del forte legame con il fondatore e forse unico vero capo, Franco Giuseppucci, “er Negro”. Ha commesso crimini, compiuto rapine, secondo i pentiti si è reso colpevole di un omicidio ma le sentenze non hanno confermato. È stato processato per l’omicidio di Mino Pecorelli ma assolto. Sia nei Nar che nella banda era una specie di compagno di strada o fiancheggiatore, partecipe, rispettato ma esterno. La rapina al caveau del palazzo di giustizia della Capitale, nel 1999. Fu un colpo grosso che fruttò 50 mld di lire. Ma l’ipotesi che il vero bottino fossero documenti segreti che gli avrebbero poi permesso di ricattare buona parte dei togati della capitale è invece frutto di quella stessa fantasia sbrigliata che ha reso un malavitoso certamente temibile ma di medio calibro una leggenda del crimine. La sentenza di Cassazione dice a tutte lettere che Massimo Carminati non è mai stato il capo della mafia romana. Non si tratta di negare l’esistenza di organizzazioni mafiose a Roma. Solo di chiarire che la banda dedita al recupero crediti di Corso Francia e il gruppo di corrotti e corruttori che si dava da fare intorno al comune di Roma non erano né mafiose né collegate tra loro, nonostante la presenza di Carminati all’interno di entrambe. Ma quella è la realtà di Massimo Carminati e non sarà mai tanto forte e potente quanto la leggenda del Nero e del Samurai. O la bufala del “quarto re di Roma”. Ora il Guardasigilli è sotto assedio. “Non ho altri strumenti per agire” di Federico Capurso La Stampa, 17 giugno 2020 Ennesima grana dopo le scarcerazioni dei boss per coronavirus e le rivolte dei detenuti. Il Guardasigilli Alfonso Bonafede assiste sgomento all’uscita di Massimo Carminati dal carcere di Oristano. Sul “Cecato” e sull’inchiesta “Mondo di mezzo” il Movimento 5 stelle ha costruito parte delle sue fortune politiche, e ora che al ministero della Giustizia c’è lui, un grillino, il colpo si fa sentire. È l’ennesima tegola di questi mesi per il responsabile di via Arenula, capo delegazione dei Cinque stelle al governo, dopo le rivolte dei detenuti, la polemica furiosa con il pm Nino Di Matteo per la sua mancata nomina al Dap, i boss mafiosi che tornavano a casa per il coronavirus, le intercettazioni di Luca Palamara sul Csm. Adesso, anche Carminati. Bonafede apprende la notizia alle prime ore del mattino dalle agenzie di stampa; convoca il suo gabinetto e decide di dare un segnale, incaricando l’ispettorato generale del ministero di valutare se nella procedura ci siano stati illeciti, ritardi o omissioni. Anche di fronte all’eventualità di una stortura nei passaggi che hanno portato alla scarcerazione di Carminati - che a via Arenula ritengono comunque poco probabile - viene però allontanata di getto l’ipotesi di un futuro intervento normativo per stringere le maglie della giustizia sul tema della custodia cautelare: “Il mio unico strumento sono gli ispettori”, dice Bonafede a La Stampa. Non si seguirà, dunque, la linea presa invece quando di fronte alle uscite dal carcere dei boss mafiosi, durante l’emergenza coronavirus, si decise di mettere una toppa con un decreto d’urgenza. C’è, innanzitutto, una questione di rispetto del principio di separazione dei poteri, sottolinea chi è vicino al ministro della Giustizia. La questione della misura cautelare, inoltre, rappresenta un problema in senso opposto: ci sono già troppe persone in prigione in attesa di processo e l’ipotesi di irrigidire le procedure non farebbe altro che aggravare il problema. Pensare di proporre un decreto legge, pensato per riportare in carcere Carminati, poi, “sarebbe semplicemente incostituzionale”. Le opposizioni, però, hanno gioco facile per lanciare un nuovo attacco su via Arenula. L’ennesimo in poche settimane. Il Movimento reagisce facendo quadrato intorno a Bonafede, cosciente che il suo nome è quello che più si è indebolito: “Il ministro non ha nessuna responsabilità”, rimarcano i vertici M5S. E gli fanno eco i deputati della commissione Giustizia, che agli attacchi di Matteo Salvini replicano: “Torni a studiare come funziona lo Stato e la giustizia”. La differenza tra giustizia e talk-show di Giuliano Ferrara Il Foglio, 17 giugno 2020 Invece di ispezionare i tempi dei processi, e mandare a casa i magistrati incapaci, da noi si mandano gli ispettori quando si ha notizia di qualcosa che allarma la pubblica opinione. Appunti sul caso Carminati, per non imitare le Filippine di mister Duterte. Come non essere contenti della decisione di Dj Bonafede di mandare gli ispettori a ispezionare la scarcerazione di Massimo Carminati? Accerteranno che le motivazioni del tribunale sono corrette. Che Carminati, detto “Er Cecato” per aver perso un occhio in uno scontro a fuoco con la polizia, ha il profilo di un gangster, ma l’Italia non è le Filippine di Duterte, dove ai gangster e ai presunti delinquenti viene imparzialmente tagliata la gola brevi manu, a discrezione, o sono buttati in una fossa carceraria senza chiave per riaprirla. L’Italia ha però un che di dutertesco, accerteranno gli ispettori, visto che a Carminati ha inflitto preventivamente quattro anni al 41bis, roba fortissima, per un’accusa grottesca di “Mafia Capitale”, che oggi i giornali derubricano pudichi, dopo aver soffiato sul fuoco e sorpresi dal suo interramento giudiziario in Cassazione, a “Mondo di mezzo”, e un anno e spicci in relazione all’accusa più credibile di associazione per delinquere a scopi corruttivi. I termini di custodia preventiva in carcere sono scaduti, dunque la scarcerazione di questo tipo non rassicurante, uno che però in uno stato di diritto non avrebbe fatto tutta quella brutta galera, e non sarebbe passato sotto la gogna caudina infamante che si sa, fino all’esito in tempi ragionevoli di un giusto processo. Da noi invece di ispezionare i tempi dei processi, e mandare a casa i magistrati incapaci o cambiare il sistema che ostacola quelli meno inetti, per ottenere una giustizia utile a sancire i delitti e castigare i rei con la certezza della pena, si mandano gli ispettori quando si ha notizia di qualcosa che allarma la pubblica opinione, la scarcerazione di uno che ha il profilo ben radicato del gangster. È il nostro modo facile di giustiziare chi assurge a simbolo, magari in un contesto di violenta politicizzazione del caso che lo riguarda, evitandosi la fatica e la cura di una rigorosa applicazione delle norme di garanzia operativa per l’accusa e per la difesa. Mediocre barbarie. Ora vedremo come procederà la faccenda, quante grida saranno elevate al cielo per lo scandalo di un lupo rimesso in libertà, dopo un arresto plateale e thriller tratto da una serie scritta da qualche magistrato romanziere criminale, quando la promessa era stata di buttare via la chiave con condanne faraoniche e bombastiche. Il fatto che questo lupo, invece che azzannare e sbranare le galline nel pollaio, se ne stesse presso una pompa di benzina a regolare un banale traffico corruttivo e un’attività minore, per quanto orrida, di incravattamento di poveri debitori strozzati, bè, questo non conta. Bisognava trovare un modo per eccellere in inchiesta, le famose eccellenze italiane che annunciano gli arresti a un convegno del Pd, per dannare la Capitale e bollarla in Italia e nel mondo con l’accusa turpe di mafia, bisognava applicare gli strumenti pensati per combattere Riina e Pippo Calò in un contesto di cooperative sociali di spazzini e di combriccole di colletti bianchi comunali percettori di extra-reddito a sbafo, la più classica e laica delle corruzioni amministrative. Bisognava terrorizzare i romani e indurli a votare una candidata sindaco terrorizzante, ma in nome della guerra alla mafia, addirittura. Con il risultato che da quel momento in poi, salvo qualche resipiscenza da campagna elettorale, gli spazzini chi li ha visti? Tutto questo fatto, e emigrato in Vaticano il pur bravo magistrato che si era prestato alla sceneggiata, ecco che tutto si compie con la giusta scarcerazione di uno col profilo del gangster e l’ispezione generale. Come non essere contenti? Complimenti vivissimi. Cedu. Il detenuto musulmano è libero di pregare all’alba: il riposo è un diritto non un dovere avvocatocassazionista.it, 17 giugno 2020 Il ricorrente è un detenuto musulmano osservante che si lamenta dei vani ricorsi contro le sanzioni disciplinari per avere pregato durante l’orario di riposo obbligatorio notturno (tra le 21 e le 6 del mattino). La sua religione, infatti, prevede 5 preghiere al giorno. Violata la libertà religiosa del ricorrente (art. 9 Cedu): non si può imporre una restrizione alla libertà di culto salvo che comporti “rischi per la sicurezza pubblica, la salute, la morale o i diritti di altri prigionieri”, abbia causato inconvenienti agli altri detenuti ed imposto oneri alle autorità. In una società pluralista la libertà di religione (ivi compresa quella di non professarne alcuna) assurge ad un ruolo fondamentale: “la manifestazione del credo religioso può assumere la forma dell’adorazione, dell’insegnamento, della pratica e del rispetto dei precetti. Testimoniare parole e opere è legato all’esistenza di convinzioni religiose”, purché avvenga nel rispetto degli altri credi, convinzioni etc. Nella fattispecie la religione musulmana impone 5 preghiere al giorno, specie nel periodo del Ramadam: ergo rientrano nelle pratiche religiose poste a fondamento di detta libertà. Ciò non creava disagi od oneri aggiuntivi per le autorità e gli altri detenuti, tanto più che il riposo è un diritto e non un dovere, sì che ognuno durante il suddetto periodo (21-6 con obbligo di sonno ininterrotto dalle 22 alle 6) può fare ciò che vuole senza disturbare gli altri detenuti: era prevista una sorveglianza obbligatoria da parte dei secondini e la preghiera non deteriorava le condizioni degli altri carcerati. Non vi è stato perciò un equo bilanciamento tra i contrapposti diritti, anzi le autorità hanno peccato di eccessivo formalismo, sì da imporre misure non necessarie in una società democratica ed incompatibili con l’art. 9 Cedu. Sospensione termini con interpretazione a rischio per i privati di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2020 È giallo sulla sospensione dei termini dei procedimenti amministrativi che era stata disposta per l’emergenza coronavirus dal Dl Cura Italia (Dl 18/2020, articolo 103). Ora che l’attività sta riprendendo, emergono interpretazioni secondo cui la sospensione varrebbe solo per la pubblica amministrazione e non anche per cittadini e imprese, come invece sembrava pacifico e pare emergere ancora dalla lettura della norma. Il risultato è che alcuni privati che in questi giorni stanno espletando pratiche ritenendosi ancora nei termini vengono respinti per decadenza o sanzionati per ritardo. È il caso di alcune immatricolazioni di veicoli nuovi: la richiesta di iscrizione al Pra va normalmente presentata entro 60 giorni dalla data della dichiarazione di vendita e dal conteggio dei tempi andrebbe escluso il periodo della sospensione, dal 23 febbraio al 15 maggio. Ma l’Avvocatura dell’Aci, ente gestore del Pra, sta fornendo un’interpretazione diversa, basata sulla relazione illustrativa al Dl. Se quest’ultima venisse adottata in modo generalizzato, sarebbero a rischio milioni di procedimenti di vari tipi, comprese le autorizzazioni a svolgere certe attività. Ma ciò non pare corretto: il comma 1 dell’articolo 103 (modificato dall’articolo 37 del Dl 23/2020) stabilisce che nel periodo di sospensione non vi sono scadenze né si perdono facoltà o vi sono sanzioni per ritardi. Tutto ciò che appartiene ad un procedimento amministrativo, cioè tutto ciò che si può chiedere ed ottenere dalla pubblica amministrazione, beneficia della sospensione. Senza distinguere tra privati e pubbliche amministrazioni (che non perdono i loro poteri, né formano silenzio assenso o silenzio rigetto). Tutto ciò non significa paralisi assoluta: se il procedimento si è svolto con tappe anche tra il 23 febbraio e il 15 maggio (ad esempio, in via digitale), non vengono meno né l’operato dell’amministrazione né quello del privato, anche se non vi possono essere conseguenze sfavorevoli né per l’uno né per l’altro. La norma tende infatti ad evitare squilibri, danni e conseguenze negative. Ciò vale come disciplina generale, quindi non si applica agli specifici procedimenti disciplinati da altre norme sull’emergenza Covid-19. Ad esempio, la sospensione non si applica a procedure di collaudo di pescherecci, versamenti e adempimenti fiscali, permessi di soggiorno, stipendi e procedimenti disciplinari. L’evento eccezionale ha quindi, nella sostanza, le stesse conseguenze sia nei rapporti contrattuali tra privati sia in quelli con la pubblica amministrazione: tra privati è indispensabile tener presente la difficoltà di adempiere nei mesi di emergenza (articolo 91 del Dl 18/2020); nei rapporti con enti pubblici, tale difficoltà è diventata, nell’articolo 103 del Dl 18 / 2020 una sospensione che riguarda i termini, sintetizzabile con il concetto che nessuna posizione può risultare compromessa da un’attività avvenuta (o mancata) nei mesi regolati dalla legge. Non pare rilevante il fatto che la relazione illustrativa affermi che la sospensione sia stata decisa “al fine di evitare” che l’amministrazione “incorra in eventuali ritardi”: espressione generica che non esclude garanzie anche per i privati, anzi. Inoltre la lettera della norma pare chiara di per sé. Doppia responsabilità per anomalie analoghe nella contabilità di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2020 Corte di cassazione - Sentenza 18279/2020. La sussistenza di analoghe anomalie nella contabilità dell’emittente e dell’utilizzatore avvalora la falsità delle operazioni e quindi la responsabilità penale per i reati in materia di operazioni inesistenti. Ad affermarlo è la Cassazione con la sentenza 18279 depositata ieri. La vicenda riguarda due imprenditori condannati uno per utilizzo e uno per emissione di fatture per operazioni inesistenti. La decisione, confermata in entrambi i gradi di merito, veniva impugnata in Cassazione, lamentando un’errata valutazione delle prove. In particolare, secondo la difesa, trattandosi di opere edili, era mancato un riscontro sia presso i clienti proprietari degli immobili oggetto di intervento, sia sui conti correnti dei soggetti coinvolti. La Suprema corte, confermando la decisione, ha innanzitutto rilevato che in sede di appello il giudice aveva riesaminato criticamente tutto il materiale probatorio. Più precisamente dalle prove in atti emergeva che l’utilizzatore delle fatture le aveva inserite in contabilità proprio nell’imminenza della scadenza della dichiarazione, mentre l’emittente nemmeno le aveva conservate. Inoltre, la descrizione dei documenti era generica e in alcuni casi illeggibile nonostante il valore non fosse irrisorio. L’emittente, in ogni caso, era privo di personale o materiali necessari per eseguire le prestazioni fatturate. Infine, entrambi non avevano dimostrato l’effettiva corresponsione del pagamento o le modalità in cui sarebbe dovuto avvenire. La difesa sul punto aveva descritto le opere eseguite, al fine di dar prova dell’effettività delle prestazioni fatturate. Tuttavia, i giudici di legittimità hanno evidenziato che tale tesi era del tutto irrilevante atteso che dai documenti contabili in atti non risultavano descritti i lavori che gli imputati sostenevano di aver effettuato. In ultimo, la Cassazione ha rilevato che l’utilizzatore aveva tratto beneficio fiscale con la registrazione delle citate fatture. La decisione fa riflettere perché tutti gli elementi singolarmente considerati avrebbero verosimilmente giustificato la sussistenza delle prestazioni e quindi l’infondatezza dell’accusa. Tuttavia, valutati nel loro complesso, per di più unitamente tra emittente ed utilizzatore, si sono in realtà mostrati convergenti nel confermare l’ipotesi accusatoria. Infatti, ad esempio, la registrazione delle fatture da parte dell’utilizzatore a ridosso della presentazione della dichiarazione, valutato contemporaneamente alla mancata conservazione delle stesse da parte dell’emittente, potrebbe maggiormente dimostrare intenti evasivi. Ciò non equivale all’inversione all’onere della prova in capo all’imputato, ma si tratta della mera concordanza degli indizi accusatori. Va ricordato che, l’articolo 9 Dlgs 74/00 esclude il concorso tra emittente e utilizzatore dei documenti per operazioni inesistenti. Per la Cassazione tale esclusione opera solo se il destinatario delle fatture le abbia concretamente utilizzate e quindi risulti imputato per il reato di dichiarazione fraudolenta (Cassazione 41124/19). Mistero buffo di Stefania Amato* Ristretti Orizzonti, 17 giugno 2020 Atto primo, interno carcere, città del nord Italia. I personaggi si muovono meccanicamente, tenendosi a distanza l’uno dall’altro. Tutti gli agenti di polizia penitenziaria portano mascherine, l’avvocato anche i guanti; ha passato i controlli, la prova della febbre, il questionario sugli eventuali contatti con contagiati dal virus, ha dovuto disinfettare i guanti (?) con il gel, è pronto per l’udienza di convalida dell’arresto. Udienza ai tempi del lockdown, in una delle città più colpite dalla pandemia: rigorosamente da remoto. Il giudice attende il collegamento in tribunale, dove avrebbe potuto andare anche l’avvocato, stando alle regole. Ma scusate, no: io difensore voglio essere accanto al mio assistito, l’incolpazione provvisoria è seria, l’arresto è stato complicato, una telefonata ha consentito un sommario colloquio sui fatti, ma non basta. Già dobbiamo sottostare, travolti dall’emergenza, all’invasione del “remoto”, che ci distanzia dal giudice; ma la vicinanza, anche fisica (a non meno di un metro, ovviamente) tra difensore e arrestato, quella non ce la possono togliere: è sacra. Ho dovuto quasi litigare per questo: discutere a lungo con il direttore del carcere che non voleva farmi entrare. Preoccupazione alle stelle, in questi giorni, per il pericolo di diffusione del contagio negli istituti. E si capisce: il momento è tragico. Strade deserte, sirene delle ambulanze in continuazione, elicotteri a sorvolare il disastro. Epperò per il mio assistito è in atto un disastro personale: perde la libertà, vuole il suo avvocato accanto. E io ci devo essere: devo essere per lui la difesa tecnica ma anche l’ideale braccio intorno alle spalle che non lo fa sentire solo davanti allo Stato che lo vuole rinchiudere qui dentro, chissà per quanto tempo. Per questo ho insistito tanto, prendendomi quasi il rimprovero di voler mettere a rischio la salute dei detenuti, anche se le cautele sono enormi. E quindi lo aspetto, adesso, nella saletta attrezzata con il monitor, raggiunta con fatica. Mi intrattengo a commentare l’attualità con le guardie, passano i minuti. Cinque, dieci, venti. Ecco, compare in video il giudice, il microfono gracchia un po’: avvocato, dov’è il suo assistito? Non lo vedo. Si faccia portare l’arrestato! Ma l’arrestato non c’è. Ed è con candore che l’ispettore ci informa che il detenuto è in un’altra ala del carcere: eccolo che appare nello schermo, circondato dalle divise, mi saluta con la mano. Pausa, atto secondo. Altro Foro, udienza davanti al G.I.P. fissata da settimane con oculata scelta dell’aula adatta al collegamento con alcune parti da remoto. Scena prima: nulla si accende, PC, microfoni, schermi. Con l’intervento di otto tecnici, due alla volta, individuato il problema: manca la ciabatta per le prese di corrente. Scena successiva, entra il giudice. Rinvio fulmineo ad altra data: si accerta che il PC dell’aula non reca installato il programma per il collegamento, che comunque il cancelliere non saprebbe utilizzare perché non ha ricevuto formazione sul punto. Ha, in compenso, ricevuto guanti monouso troppo grandi che le impediscono di scrivere il verbale. Si scansi, faccio io, dice il giudice. Terzo e ultimo atto. Stavolta siamo davanti a una corte d’assise di appello, sono passati i mesi, l’Italia, in piena fase due, galoppa verso l’estate e le agognate vacanze. Qui però si deve discutere di cose non proprio amene, come una condanna per omicidio aggravato, a pena pesante. L’imputato, detenuto, non c’è. Non sarà tradotto in aula perché una norma dell’emergenza prevede che la sua partecipazione sia garantita, “ove possibile”, con collegamento da remoto. E qui, nel ricco nord-est, tutto è possibile: la migliore tecnologia garantirà la presenza, pur virtuale, del detenuto davanti al suo giudice. Così risponde la corte al difensore, che chiede la presenza vera e che lamenta che con la Costituzione e il giusto processo questa modalità di celebrare l’udienza non ha nulla da spartire. E poi il pericolo non è cessato, il virus circola ancora, bisogna evitare il contagio in carcere. Sarà. Però fa un po’ strano vedere che riaprono palestre, parrucchieri, ristoranti, cinema e sale bingo; che i colloqui dei familiari con i detenuti sono ripresi, pur con le necessarie cautele. Che dallo stesso carcere, negli stessi giorni, alcuni detenuti vengono tradotti per altre udienze. Ma tant’è. Noi abbiamo Microsoft Teams, di che ci lamentiamo? Mah, per esempio non ci pare la stessa cosa, oltretutto per una corte composta anche da giudici popolari, decidere di un paio di decenni abbondanti di carcere per una persona in carne e ossa o per una figurina lontana, stretta in un rettangolo di pixel. Quanto alla potenza risolutiva della tecnologia, la nostra scena vede, il giorno dell’udienza, un’aula enorme (ci starebbero anche cinquanta persone, alla giusta distanza) e un piccolo schermo, uno solo. Il presidente ha una telecamerina che cerca di muovere per inquadrare, uno alla volta, chi prende la parola; risultato: l’imputato non vede la corte ma solo, volta per volta, il presidente, il P.G. o il difensore. L’imputato non può vedere il suo giudice, la corte d’assise; e dubito che il giudice seduto all’estremo opposto riesca a distinguere bene l’imputato. Non vi è alcuno strumento per la comunicazione riservata tra imputato e avvocato. Semplicemente non esiste. La proposta è che il carcere, tramite centralino, metta in comunicazione il detenuto con il telefono cellulare del difensore. L’udienza dovrebbe celebrarsi così. Peccato che non ci sia campo per il telefono, nell’aula. E poi, come la metteremmo con l’interprete, dovendosi escludere viva voce e passaggio di telefonino, potenziale ricettacolo di virus? L’ispettore, sconsolato, fa presente che alla stessa ora avrebbe un collegamento disposto da un altro giudice. Sipario, sul mistero buffo (perché in aula, a un certo punto, si ride per non piangere) di una legge che descrive un mondo perfetto, mentre la vita vera è questa, il processo non può che essere carne viva, voce, sguardo piantato negli occhi di chi mi giudica, che non può dissolversi se salta la connessione. *Avvocato Veneto. Garanti e volontari: preoccupati per i detenuti tgpadova.it, 17 giugno 2020 Il Coordinamento dei Garanti del Veneto e la Conferenza Regionale Volontariato Giustizia del Veneto, dopo un incontro per aggiornarsi sulla situazione complessiva degli istituti detentivi del Veneto e per valutare la prospettiva di una ripresa della ordinaria attività legata anche al rientro dei volontari e dei soggetti del terzo settore, hanno espresso “grande preoccupazione per molti aspetti rilevanti ancora non regolati da linee guida diramate da parte delle istituzioni nazionali - Dap - o territoriali - Prap - e di conseguenza affrontati con modalità differenti dai direttori delle carceri del Veneto che si trovano a dover gestire in prima linea questa seconda delicata fase”. Queste le riflessioni affidate a una nota da Mirella Gallinaro e Maurizio Mazzi, in un comunicato congiunto fra Coordinamento dei Garanti del Veneto e Conferenza Regionale Volontariato Giustizia del Veneto che evidenziano “le difficoltà che incontrano i detenuti, quelli che potrebbero godere dell’art. 21 e di permessi, e degli studenti, che frequentano corsi; la necessità della ripresa effettiva e diffusa delle attività del trattamento previsto dalla Costituzione tramite i funzionari giuridico pedagogici e gli assistenti sociali con l’apporto della comunità esterna; le incertezze sul mantenimento della sorveglianza dinamica e sul mantenimento ed il rafforzamento dell’uso delle tecnologie di comunicazione con l’esterno: apparecchi e connessioni”. Chiedono anche “l’adozione urgente di linee guida per l’accesso dei volontari alle strutture penitenziarie e in area penale esterna; l’utilizzo per i colloqui di sostegno individuale e per le attività scolastiche educative e ricreative di collegamenti in streaming; il mantenimento delle attività proposte e autorizzate anche nell’imminente periodo estivo”. “Riteniamo importante informare anche la Magistratura di sorveglianza - concludono Gallinaro e Mazzi - per renderla partecipe della nostra preoccupazione per il possibile protrarsi di uno stato di incertezza e di assenza di attività con il conseguente impatto sulle concrete condizioni di vita dei detenuti”. Campania. Salute in carcere, un detenuto su 5 deve rinunciare alle visite di Viviana Lanza Il Riformista, 17 giugno 2020 In Campania i reclusi attendono fino a sei mesi per una tac e addirittura un anno per un ricovero. Il 21% è costretto a rinunciare ai controlli per difficoltà del nucleo di traduzione. Il monito di Compagna: “Serve personale specializzato”. Da uno a tre mesi per una visita specialistica in ortopedia, oculistica, psichiatria o cardiologia. Fino a sei mesi l’attesa per una tac o una risonanza magnetica. Anche un anno per un ricovero in ospedale. Chi è recluso in un carcere campano può andare incontro a questi tempi d’attesa per veder tutelata la propria salute. Sono tempi sui quali incidono fattori che nulla sembrano avere a che fare con valutazioni di tipo clinico. Le traduzioni, per esempio. Sì, quelle incidono in maniera determinante al punto che circa il 21% delle visite specialistiche non può essere effettuato per difficoltà del nucleo traduzioni. Sì, proprio così. Emerge dal report annuale del garante regionale dei detenuti. Le visite saltano perché non ci sono mezzi adeguati per il trasporto di detenuti con particolari problemi di salute o perché nell’uso dei pochi mezzi a disposizione bisogna dare la priorità a motivi di giustizia. E così “si elude il principio di equivalenza delle prestazioni sanitarie citato in numerosi documenti e dichiarazioni nazionali e internazionali sui diritti delle persone detenute”, si legge nella relazione annuale del garante Samuele Ciambriello in cui è riportato il bilancio di un anno di interventi. Colpisce che su 7.727 visite specialistiche richieste per detenuti delle varie carceri campane nel 2019, soltanto 6.132 sono state effettuate. Negli altri 1.595 casi le visite specialistiche non sono state garantite a casa di difficoltà del nucleo traduzioni. In questi numeri, però, ci sono persone, storie, vite, drammi, ci sono sofferenze per dolori e malattie, ci sono ansie e paure. A Poggioreale, il più grande carcere non solo della regione ma di tutt’Italia, in un anno sono state garantite 1.500 visite specialistiche e rimandate per criticità organizzative 180. È andata peggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, di recente al centro di tensioni, rivolte e un’inchiesta per presunti pestaggi nelle celle, dove solo cinque detenuti hanno potuto sottoporsi a visite mediche specialistiche nel 2019, mentre sono stati 780 quelli che hanno dovuto rinunciarvi per difficoltà del nucleo tradizioni. È il dato che emerge dalla relazione annuale del garante, un dato su cui occorrerebbe fare delle riflessioni per ripensare al sistema nel suo complesso. Ci sono criticità anche quando si parla di ricoveri di detenuti. In Campania le aziende ospedaliere di riferimento sono nove per un totale di 31 posti letto. Nel 2019 i ricoveri sono stati in totale 312 con tempi di attesa anche fino ad un anno. E anche in questo caso hanno pesato le difficoltà di organizzare trasferimenti dalle celle alle corsie protette degli ospedali e di avere a disposizione uomini e mezzi per gestire le traduzioni con tempismo. “Il carcere non è in grado di curare e da quando la sanità è regionale non è neanche in grado di far curare al di fuori delle sue mura”, commenta Luigi Compagna, già senatore, docente universitario di Storia delle dottrine filosofiche e consigliere della Svimez, l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno. Nel corso della sua esperienza politica si è interessato del problema delle carceri e ha svolto diverse visite ispettive in istituti di pena, soprattutto in Campania. “Il vero nodo sono le uscite dal carcere”, spiega. “Organizzare trasferimenti di detenuti o ricoveri ospedalieri è un’impresa difficile per i direttori penitenziari. Per come è fatta la vita nel carcere poi, c’è bisogno di specializzazioni continue. Non è che il carcere può essere anche sede di servizi sanitari specialistici, certo ci sono medici per questioni di pronto intervento ma chi ha un quadro clinico complicato ha bisogno di ricoveri ospedalieri che non è facile garantire. Abbattere le mura del carcere è sempre più difficile - aggiunge Compagna - il che si rispecchia anche in un altro aspetto della vita carceraria, il lavoro, che è sempre di meno anche negli istituti di pena”. Lavoro e sanità, quindi, i settori dolenti. Perché? “L’ordinamento regionale è fallito completamente”. Marche. Carceri e fine del lockdown, Nobili: “Plauso anche della Polizia penitenziaria” anconatoday.it, 17 giugno 2020 Prosegue l’azione di monitoraggio messa in atto dal Garante Andrea Nobili. Nuovo appuntamento per il Garante Andrea Nobili nell’ambito dell’azione di monitoraggio degli istituti penitenziari, riavviata in presenza dopo il periodo di lockdown reso necessario dall’emergenza epidemiologica. Visita alla Casa circondariale di Fermo per i colloqui con i detenuti, ma anche per una visione complessiva della situazione. Come per le altre strutture regionali, infatti, Nobili ha ritenuto opportuno chiedere un incontro a Direttore, Comandate della Polizia penitenziaria, dirigente medico e responsabile delle attività trattamentali. “Una scelta dettata dall’esigenza - come evidenziato dal Garante - di seguire da vicino le varie fasi del ritorno alla normalità, che nell’ambito carcerario merita ancor più attenzione e prudenza. Affrontando le diverse problematiche, è emerso che a Fermo non c’è più un referente effettivo per le attività trattamentali. Un aspetto che sarà oggetto di segnalazione, perché riteniamo che si tratti di una figura importante all’interno degli istituti”. E nell’ambito di una riflessione più generale, Nobili non manca di sottolineare che “se finora il sistema carcerario nelle Marche ha retto all’uragano sanitario è anche merito della Polizia penitenziaria. Nel nostro territorio, per quello che ho potuto constatare, opera con serietà e attenzione, anche ai diritti dei detenuti. Un’attenzione che, spesso, contribuisce a rendere più umano il mondo del carcere”. Con le stesse modalità degli incontri estesi a più componenti, nei prossimi giorni verranno effettuate le visite presso gli istituti di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno e Fossombrone. A completare l’azione di monitoraggio altri incontri attivati per approfondire gli interventi all’interno dei penitenziari. Nei giorni scorsi un confronto diretto, in via telematica, con i rappresentanti delle diverse realtà di volontariato. Un appuntamento ormai consolidato nell’agenda del Garante, al quale hanno anche partecipato il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Emilia Romagna e Marche, Gloria Manzelli, e il dirigente dell’area detenuti e trattamento Prap, Marco Bonfiglioli. Santa Maria Capua Vetere (Ce): Si.Di.Pe.: fare chiarezza su notifica-show di avvisi di garanzia di Antonio Pisani anteprima24.it, 17 giugno 2020 Dopo aver incassato la solidarietà del sindacato dei carabinieri, gli agenti della polizia penitenziaria in servizio al carcere di Santa Maria Capua Vetere ricevono anche quella dei direttori delle strutture carcerarie, riuniti nel Si.Di.Pe (Sindacato dei Direttori Penitenziari). Il carcere casertano è finito al centro della cronaca per la rivolta dei detenuti di sabato 13 giugno, che ha portato al ferimento di otto agenti della penitenziaria, e per i fatti di giovedì 11 giugno, quando ci furono tensioni tra carabinieri e poliziotti penitenziari in seguito alla notifica da parte dei militari degli avvisi di garanzia per presunte torture di detenuti commesse in carcere dagli agenti; operazione ritenuta “eccessivamente spettacolare”. In una nota a firma del segretario nazionale Rosario Tortorella, il sindacato dei direttori, dopo aver manifestato apprezzamento per “il tempestivo intervento sul posto dei vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria”, auspica “che la richiesta di chiarimenti formulata dal Procuratore Generale di Napoli al Procuratore della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere e ai vertici regionali dell’Arma dei Carabinieri possa contribuire a meglio chiarire i contorni della vicenda, non essendo ammissibile che possa essere scalfita l’immagine e la dignità dell’intero Corpo di polizia penitenziaria e, con esso, di tutti gli operatori penitenziari e della stessa Amministrazione; un’Amministrazione che vanta, in tutte le sue componenti, valorosi esempi di eroismo e numerose vittime del dovere”. “D’altra parte - prosegue la nota - nel confermare piena fiducia nella magistratura ed assoluta sintonia con le Forze dell’Ordine, nel comune obiettivo di contrastare il crimine e di tutelare i cittadini, non possiamo non manifestare contrarietà rispetto ad eventuali modalità di esecuzione dei provvedimenti giudiziari che devono in ogni caso evitare forme di spettacolarizzazione e di strumentalizzazione mediatica che, magari inconsapevolmente, possono nuocere gravemente alla sicurezza degli istituti penitenziari”. “Al Corpo di polizia penitenziaria che, operando accanto ai Direttori delle carceri ed al restante personale penitenziario, svolge quotidianamente i propri compiti istituzionali con altissimo senso del dovere, con grande professionalità e non comune spirito di sacrificio, i Dirigenti penitenziari esprimono, senza se e senza ma, la propria vicinanza e la propria stima” conclude la nota. Napoli. Il Garante regionale: “Un commissario per Poggioreale, il carcere va ristrutturato” ildenaro.it, 17 giugno 2020 Nominare un commissario ad acta che si occupi della ristrutturazione dei padiglioni fatiscenti del carcere napoletano di Poggioreale. È la richiesta contenuta in una lettera che il garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello ha inoltrato al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e al capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Bernardo Petralia. “Da ben tre anni - si legge nella lettera - sono disponibili 12 milioni di euro nel provveditorato delle opere pubbliche della Campania per lavori di ristrutturazione dei padiglioni Salerno, Livorno, Milano, Roma e Napoli. Purtroppo, in questi tre anni, sono stati fatti solamente due sopralluoghi”. Ancora oggi “ci sono padiglioni con celle o stanze “di pernottamento” da 6 - 9 persone - denuncia Ciambriello. Lo spazio fisico, vitale, aggregativo e ricreativo, unitamente alla mancanza di vuoti comunicativi e relazionali con le famiglie, sono già stati oggetto di sanzione da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo”. La richiesta del garante arriva a un anno di distanza da una protesta dei detenuti che occuparono il padiglione Salerno del penitenziario. “Le vere motivazioni della protesta - ricorda Ciambriello - erano le pessime condizioni igienico sanitarie, il sovraffollamento, lo stato delle singole celle tutte senza docce, con intonaci consumati dall’umidità e dalla muffa e perdite d’acqua che rischiavano di entrare in contatto con fili elettrici scoperti. Il giorno dopo la protesta venne a Poggioreale l’ex capo del Dap Francesco Basentini per verificare di persona le effettive condizioni dei padiglioni dove si era sollevata la protesta. Durante la visita si rese conto delle pessime condizioni dei locali e interloquì con i detenuti del padiglione Salerno incontrandoli all’interno delle celle”. Livorno. A Gorgona il primo carcere a cinque stelle di Franco Pigna La Notizia, 17 giugno 2020 Che il sistema carcerario italiano abbia bisogno di una svecchiata, ce lo dicono i dati e anche l’Unione europea. Ma pochi sanno che il Movimento 5 stelle, proprio in queste ore, sta dando il via ad una rivoluzione del settore trasformando il carcere dell’isola di Gorgona, nell’arcipelago toscano, in un laboratorio “di buone pratiche per la rieducazione dei detenuti”. Può sembrare poco ma si tratta di una vera e propria rivoluzione che scardina definitivamente il vecchio paradigma del carcere visto in ottica repressiva perché, al contrario, mette al centro il reinserimento nella società di chi ha commesso reati anche gravi. Dall’orticoltura alla cura degli animali, dalla conservazione dei boschi al turismo ecosostenibile passando per un vigneto autogestito e la formazione di competenze manageriali in vista del fine pena. Sono questi i punti cardini del progetto, reso possibile dall’accordo quadro firmato dal ministero della Giustizia, dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e dal Parco nazionale dell’arcipelago toscano, che partirà ufficialmente quest’estate. Già da inizio luglio i detenuti potranno prendersi cura degli oltre 150 animali rimasti sull’isola dopo la chiusura del mattatoio interno al carcere di Gorgona, avvenuta quasi un anno fa, e che ora sono ospitati in un rifugio gestito dalla Lav. “L’avvenuta chiusura” del centro di macellazione “e il trasferimento sulla terraferma di buona parte degli animali significano una riduzione drastica dell’inquinamento sull’isola”, spiega il sottosegretario grillino alla giustizia Vittorio Ferraresi secondo cui ciò “consente ai detenuti di svolgere, con gli animali che resteranno, attività rieducative non violente, focalizzate sullo sviluppo di un rapporto empatico e sul rispetto per il territorio. Con il valore aggiunto di dare l’opportunità ai detenuti di imparare un mestiere che tornerà loro utile una volta terminata la pena”. Senza rischio di essere smentiti, quanto sta accadendo è una rivoluzione nel modo di concepire i penitenziari tanto che sono stati istituiti anche percorsi di ricerca per analizzare questo innovativo progetto. Tra questi spicca quello per il “monitoraggio e l’osservazione dei benefici educativi recati dalle relazioni detenuti/animali” che avverrà a dicembre e sarà realizzato dalla cattedra di Diritto penitenziario del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Milano Bicocca in collaborazione con l’équipe dell’istituto penitenziario. Altra convenzione è quella con l’Università di Firenze, il Parco dell’arcipelago toscano, l’Asa (Azienda Servizi Ambientali) e il Comune di Livorno, per l’elaborazione di percorsi e strategie “finalizzate al raggiungimento di vari obiettivi: completare il passaggio verso l’autonomia energetica dell’isola; sviluppare il recupero delle acque reflue per il riuso in agricoltura; gestire i fanghi di depurazione; efficientare i sistemi di irrigazione delle colture; valorizzare l’agrobiodiversità locale in collaborazione con la Banca del germoplasma della Toscana”. Non solo. Grazie alla collaborazione con il Parco nazionale dell’arcipelago toscano ai detenuti sarà dato modo di valorizzare l’aspetto turistico dell’isola. Un modello che, se si rivelerà funzionante, potrà essere poi esportato in tutta Italia. Distruggere le statue non muta il passato: terremota il presente di Sergio Valzania Il Dubbio, 17 giugno 2020 Dall’antichità ai nostri giorni tutti i poteri hanno provato a cancellare le tracce di chi li ha preceduti. ma la storia è anche degli sconfitti. La memoria non è territorio di conquista, da ridisegnare a nostro piacimento distruggendone le tracce scomode, né uno specchio nel quale riconoscersi. Che provincialismo! Spaziale e temporale. Buttare giù le statue del nemico sconfitto è una pratica vecchia come il mondo e diffusa su tutto il pianeta, non c’è niente da stupirsi. Semmai è vero il contrario: converrebbe andare in cerca del come e del quando si è cominciato a credere che il passato non sia territorio di conquista, da ridisegnare a nostro piacimento distruggendone le tracce scomode, quanto piuttosto uno spazio di ricerca, un gigantesco specchio nel quale è utile osservare il riflesso che produciamo per conoscerci e riconoscerci. La storia dovrebbe consistere in questo. Si tratta di un mestiere che presenta una qualche difficoltà appunto perché poco condiviso nei suoi fondamenti. A tutti piace abbattere statue. Non appena si è scoperto che il passato orienta il futuro, ci si è affannati a cambiarlo, a riscriverlo, a documentarlo in modo tendenzioso. Il tentativo più ambizioso e radicale in questa direzione è stato fatto in Cina qualche millennio orsono, nel 213 a. C., quando l’imperatore Shi Huang Di, quello dell’esercito di terracotta, accolse la proposta di Li Si e cancellò ogni traccia del passato, cominciando da tutti i testi scritti che non fossero strettamente tecnici. In questo modo intendeva far ripartire la storia dell’umanità dall’inizio del suo regno. Non è riuscito lui a cancellare il passato, è difficile ci riesca qualcun altro. In effetti la tecnica più diffusa per liberarsi di un passato qualsiasi consiste nel disinteresse, nel seguire la moda, nel lasciare che la natura faccia il suo corso distruggendo palazzi e cancellando città. A questo si può aggiungere un brutale e sbrigativo desiderio di appropriazione. Nelle tombe dei faraoni, suoi loro sarcofagi di materiali pregiati si sono riconosciute le sostituzioni dei cartigli con i nomi degli scomparsi in essi inumati; nell’antica Roma, dove nacque l’espressione damnatio memoriae, cambiare la testa delle statue al mutare degli imperatori era un fatto normale e anche gli archi di trionfo venivano riutilizzati per nuovi generali vittoriosi, una volta cessata la popolarità del primo destinatario. La Domus Aurea neroniana fu cancellata dalla topografia della capitale imperiale pochi anni dopo la costruzione per certificare una transizione nella continuità imperiale. Il medioevo lasciò andare in abbandono quasi tutte le architetture imperiali, non solo quelle celebrative. Anche gli acquedotti smisero di funzionare, ma di loro c’era meno bisogno, dato che le grandi città erano scomparse. Roma era passata da quasi due milioni di abitanti a poche migliaia. Intanto i monaci provvedevano a selezionare il sapere dell’antichità con la semplice tecnica di copiare solo i testi compresi nel canone dell’ortodossia cristiana. Il plot del Nome della Rosa di Umberto Eco si basa proprio su di una questione di conservazione di testi antichi attraverso la copiatura o di un loro occultamento. L’estetica medievale è un ambito fittizio, ricostruito dai moderni per parlare del passato con le parole del presente, utile però a individuare una continuità che viene percepita per lo meno fino al tredicesimo secolo. Carlo Magno batteva monete dall’aspetto romano, sulle quali era raffigurato in abiti classici. In termini architettonici questo comportava la concezione del contemporaneo/ nuovo come bello, in contrapposizione a edifici antichi ai quali si guarda come riferimenti formali, non in quanto vestigia da conservare. Anche quando si affaccia l’Umanesimo e si afferma il Rinascimento l’attenzione è centrata sul presente proiettato verso il futuro. Il passato classico costituisce il modello da riprodurre, quello definito complessivamente gotico rappresenta la rozzezza da rifiutare, senza pensar troppo né alle sue valenze estetiche, né a quelle architettoniche, che a livello tecnico saranno superate solo nel barocco, quando si diffonderanno le strutture rinforzate da elementi metallici interni. È in epoca rinascimentale che a Roma i Barberini smantellano una parte del circuito esterno del Colosseo per procurarsi a bon prezzo materiale edilizio utile alla costruzione del loro palazzo. L’avvento della modernità, con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese, conferma, se ce ne fosse bisogno, l’esistenza di una sensibilità che coglie nelle architetture la manifestazione del potere e interpreta in maniera simbolica il rapporto che con esse si deve mantenere. La devastazione del primo esempio di grande architettura gotica, l’abbazia di Cluny, depredata, saccheggiata, distrutta e utilizzata come cava di pietre fino al 1813, costituì un gesto programmatico. Nello stesso periodo fu avanzata la proposta di radere al suolo il castello di Fontainebleau, residenza di caccia di Francesco I e dei suoi successori, con l’intento esplicito di chiarire ai precedenti proprietari che non sarebbe stato loro concesso di tornare. Anche la cattedrale di Notre Dame di Parigi subì interventi distruttivi. Le statue della facciata, ritenute erroneamente dei re di Francia, furono decapitate: le teste gettate nella Senna sono state recuperate negli anni Sessanta del Novecento e si trovano oggi esposte al museo nazionale del medio evo a Parigi. Per parecchio tempo l’edificio fu adibito a stalla e magazzino, con una considerazione ben diversa da quella che tutto il mondo occidentale ha dimostrato in occasione dell’incendio dell’anno scorso. Il palazzo delle Tuileries, residenza monarchica e poi dei governanti francesi succedutisi al potere fino al 1871, fu incendiato il 23 marzo di quell’anno da un commando di estremisti comunardi, con l’esplicito intento di eliminare un luogo simbolo del potere, letto come ostile in ogni caso. L’edificio bruciò per due giorni e per spegnere l’incendio fu necessario far intervenire l’esercito. L’attiguo Museo del Louvre si salvò per una serie di fortunate circostanze. Negli anni precedenti proprio Parigi era stata teatro di una sorta di guerra delle statue, combattuta in Place Vendomme, nel pieno centro della città. All’origine la piazza ospitava una statua equestre del Re Sole, abbattuta e distrutta dai rivoluzionari nel 1792. Diciotto anni dopo vi fu collocata la Colonna della Grande Armata, alta 44 metri e ricoperta da una decorazione in bronzo, ottenuto dai cannoni catturati a russi e austriaci ad Austerlitz, che racconta le imprese dell’esercito francese. In cima viene collocata una statua di Napoleone in abiti da imperatore romano. L’insieme non è diverso da quello di Trafargar square, dove a dominare è Orazio Nelson. Quando occuparono Parigi nel 1814 i coalizzati rimossero la statua dell’imperatore, che venne fusa nel 1818 per recuperare il bronzo. Nel 1833 Luigi Filippo, per dimostrare la propria buona disponibilità nei confronti dei bonapartisti, fece realizzare e collocare in cima alla colonna una nuova statua, alta 3,50 metri, che raffigurava l’imperatore in abito da petit caporal. Giunto sul trono, Napoleone III fece trasferire la nuova statua dello zio agli Invalides e la sostituì con una copia di quella originale andata distrutta. Nel 1870, durante la Comune, il pittore Gustave Courbet richiese l’abbattimento della colonna e della statua, ritenendole un monumento “di barbarie, un simbolo di forza bruta e di falsa gloria, una affermazione di militarismo”. Fu accontentato il 16 maggio dell’anno successivo, salvo essere condannato poi a rifondere il costo della ricostruzione. Pagò solo la prima rata, dato che si spense subito dopo. Pochi anni prima, nell’Italia unificata era avvenuta una delle maggiori rivoluzioni toponomastiche della storia, con il cambiamento di denominazione delle strade principali di città, cittadine e villaggi che si riempirono di vie e piazze dedicate a Vittorio Emanuele II, Cavour, Mazzini e Garibaldi. Neppure la Repubblica portò a un sommovimento dedicatorio di tale ampiezza, quando nacquero i viali Gramsci e Stalingrado. Fu in questa temperie che sorse e lentamente si affermò la concezione per la quale gli edifici e gli arredi urbani provenienti dal passato hanno un valore storico, di memoria collettiva e non solo di prepotente affermazione identitaria, ed è per questo che vanno rispettati e conservati. Per affetto, come il quadro del nonno, indipendentemente dalle sue qualità morali. Gli eroi di questa nuova visione furono il francese Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc e l’inglese John Ruskin, portatori di due concezioni opposte di conservazione e restauro. Secondo il primo si doveva procedere a ricostruire accuratamente quanto possibile il complesso sul quale si interveniva, anche a costo di porlo in una condizione nella quale storicamente non si era mai trovato. Fu così che nacquero e Carcasson e le gargoyle di Notre Dame, poi esportate in tutta Europa nonostante non siano mai esistite nell’architettura medievale. Ruskin sosteneva invece che non fosse ammesso intervenire in alcun modo per ripristinare, ma solo proteggere l’esistente per quanto possibile, rassegnandosi alla sua scomparsa quando fosse arrivato il momento. La riflessione sul restauro si è sviluppata molto in seguito, ma continua a spostarsi tra questi due poli. E a non uscire dall’ambito europeo. In altre culture il rispetto per le architetture del passato è molto minore. Sono semmai i luoghi in sé a ispirare rispetto. In Giappone i templi in legno vengono ricostruiti con regolarità, persino sulla Basilica della Resurrezione a Gerusalemme si interviene con una certa libertà, mentre rimane poco o niente delle New York e Chicago di inizio secolo. Della Pechino imperiale resta solo la città proibita e Mao si impegnò con determinazione nel cancellare le tracce del passato, come racconta e documenta Tiziano Terzani. Il Novecento è il secolo degli autoritarismi, regimi desiderosi di autorappresentarsi in termini monumentali, atteggiamento per alcuni aspetti proprio anche della democrazia statunitense, esibito nella grandiosità di Washington. Stalin volle la metropolitana e i grattacieli di Mosca, in concorrenza con quelli di New York; Mussolini arrivò in ritardo per dare a Roma un volto nuovo e diverso rispetto alla capitale della cristianità, in concorrenza con la quale erano stati costruiti Vittoriale e palazzo di Giustizia, ma mise a segno qualche colpo fortunato, se non proprio felice, come via della Conciliazione. Della Berlino di Hitler non resta niente. Anche il bunker della Nuova Cancelleria costruita da Albert Speer è stato distrutto, come il Berghof, in Baviera, perché non divenissero luoghi di pellegrinaggio neonazista. Il carcere di Spandau dove sono stati rinchiusi i condannati a pene detentive dal tribunale di Monaco ha seguito lo stesso destino nel 1987, dopo la morte dell’ultimo recluso, Rudolf Hess. Nel dopoguerra, mentre in Italia non si andava molto più in là di spostare le statue a Firenze di Dante e a Trieste dell’imperatrice Sissi, la grande trasformazione dell’arredo urbano e della toponomastica è avvenuta in Europa a seguito della sconfitta sovietica nella guerra fredda e nella caduta di tutti i regimi di socialismo reale. Questo ha portato alla cancellazione di molti monumenti e dedicazioni stradali ad essi collegati, anche se a Berlino si trova ancora, a 200 metri dalla porta di Brandeburgo, il Sowjetisches Ehrenmal, il monumento dedicato ai soldati sovietici caduti nella conquista della città nel 1945. Quelli dei reparti ai quali i generali concessero due giorni di libero saccheggio dopo la vittoria. Esempio massimo del cambiamento del vento in quegli anni fu il ritorno di San Pietroburgo al nome originale, cancellando quello di Leningrado, utilizzato dal 1924 al 1991 e in particolare durante i quasi 27 mesi di assedio ad opera dei tedeschi nella Seconda guerra mondiale. Furono infatti i reduci di quella gigantesca battaglia, connotata dal nome di Leningrado, a opporsi fino alla fine al cambiamento. In questo contesto buttar giù una qualche decina di statue e cambiare qualche centinaio di targhe stradali è la minor spesa. Semmai occorrerebbe domandarsi quanto decisioni del genere rimettano in discussione conquiste importanti sul piano culturale e di analisi storica, di comprensione della realtà, mai univoca, sempre condizionata dall’esistenza delle ragioni del perdente, che la sconfitta non autorizza a calpestare. Sempre ricordando l’adagio per il quale “la giustizia fugge dal campo del vincitore”. Migranti. Regolarizzazione flop: solo 32mila domande, quasi tutte di colf di Massimo Franchi Il Manifesto, 17 giugno 2020 I dati resi pubblici dal Viminale. Il governo corre ai ripari e annuncia la proroga di un mese: ci sarà tempo fino al 15 agosto. Trentaduemila domande in due settimane, di cui il 91 per cento da parte di colf e badanti. Le richieste di regolarizzazione sono ben lontane da quella quota 600mila che qualcuno - soprattutto a destra - vagheggiava per parlare di “rischio invasione”. Ma di sicuro si tratta di un numero deludente che si spiega da un lato con la difficoltà della procedura soprattutto per i braccianti che difficilmente trovano un imprenditore onesto disposto a pagare 500 euro per regolarizzarli o i documenti per dimostrare di essere in Italia dallo scorso anno. Nelle prime due settimane dall’apertura della procedura telematica, lo scorso 1 giugno, sono arrivate al Viminale quasi 32mila domande di emersione: 23.950 già perfezionate e 7.762 in corso di lavorazione. Sebbene, segnala il ministero, il dato “è in costante crescita”, il governo ieri ha comunque annunciato di voler prorogare di un mese - dal 15 luglio al 15 agosto - la scadenza della presentazione della domanda con un apposito articolo nel decreto sulla Cassa integrazione. “La proroga di un mese è una opportunità da cogliere e valorizzare, è una prima risposta alle nostre richieste, poiché ritenevamo la finestra fino al 15 luglio troppo stretta per consentire un’ampia convergenza sul provvedimento, considerando anche la diffusione di interpretazioni avvilenti su alcuni passaggi delle modalità di accesso alla regolarizzazione”, commenta Jean-René Bilongo del dipartimento politiche migratorie e inclusione della Flai-Cgil. “Noi abbiamo istituito anche un Numero Verde 800171100 con l’obiettivo di una più ampia platea di beneficiari”. Come detto, le richieste finora sono per la stragrande maggioranza da parte di colf e badanti, che rappresentano il 91% delle domande già perfezionate (21.695) e il 76% di quella in lavorazione (5.906). Il collaboratore familiare è la categoria più gettonata (16.469 domande), segue l’assistente alla persona non autosufficiente (4.960) ed il lavoratore agricolo (2.233). Per quanto riguarda colf e badanti, le maggiori richieste sono arrivate dalla Lombardia (7.951), seguita da Campania (2.716) e Lazio (2.230). Per il lavoro agricolo, la Campania è invece al primo posto (554), seguita dalla Sicilia (448) e dal Lazio (408). Nella distribuzione delle richieste per paese di provenienza del lavoratore, ai primi posti risultano il Marocco, l’Egitto e il Bangladesh per il lavoro domestico e di assistenza alla persona; l’India, l’Albania e il Marocco per l’agricoltura e l’allevamento. Su 23.950 datori di lavoro che hanno perfezionato la domanda di regolarizzazione, 17.294 sono italiani (il 72% del totale). In queste due settimane sono 1.208 le richieste di permesso di soggiorno temporaneo presentate agli sportelli postali da cittadini stranieri. Per accedere alla procedura il datore di lavoro deve prima versare un contributo forfettario di 500 euro. Nel caso di dichiarazione di sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, deve aggiungere il pagamento delle somme dovute a titolo retributivo, contributivo e fiscale. Soddisfatta dei dati la ministra delle Politiche agricole, Teresa Bellanova: “24mila donne e uomini, fino a ieri invisibili, avranno diritto al permesso di soggiorno e di lavoro”, osserva. “Chi afferma che la norma non serve - aggiunge la ministra - vuol dire che non ha mai visto cos’è un ghetto”. Migranti. Abou incontra Conte: “Ascoltate gli invisibili, ora gli Stati popolari” di Massimo Franchi Il Manifesto, 17 giugno 2020 Stati Generali. Il sindacalista Usb si incatena a Villa Pamphilj, poi è ricevuto e illustra il suo piano: filiera agricola, lavoro regolare, migrazione. “Per il premier la “patente del cibo” è una bella idea, ora rilanciamo: riuniremo a Roma tutti gli esclusi”. Una lunga giornata di lotta e di attesa. Finita con un incontro insperato con il presidente del Consiglio e con l’annuncio della “convocazione degli Stati polari” per dare voce a tutti coloro che sono “invisibili”. Aboubakar Soumohoro, il sindacalista dell’Usb che con il suo impegno per migranti e bracciati è diventato un simbolo riconosciuto in tutto il paese, ha portato la sua lotta a Villa Pamphilj, incatenandosi a pochi metri dalla sede degli Stati generali convocati dal governo nel grande parco romano. Accompagnato da alcuni altri attivisti dell’Usb e poi da un numero di persone sempre più numeroso, Abou ha iniziato uno sciopero della fame e della sete, chiedendo al presidente Conte di essere ascoltato. La svolta alle 16: da villa Pamphilj l’entourage del governo chiama e organizza l’incontro. Una mezz’ora di dialogo schietto e diretto, in pieno stile Abou. “Siamo stati ricevuti dal presidente del Consiglio, dalla ministra Catalfo e dal ministro Gualtieri. Abbiamo rappresentato le ragioni di questo sciopero della fame e della sete partito questa (ieri, ndr) mattina. Ma le ragioni partono da molto lontano, dalla morte di tanti invisibili nelle campagne, africani e italiani, da Paola Clemente fino a Mohamed Ben Ali qualche giorno fa a Borgo Mezzanone, dal grido di dolore di migliaia di lavoratori che i vari governi che si sono succeduti in questi anni non hanno mai ascoltato”, spiega Abou. Già da qualche giorno, Abou e l’Usb avevano definito la loro piattaforma rivendicativa. “Abbiamo portato le nostre tre proposte: la riforma della filiera agricola liberata dal giogo della grande distribuzione che porta al caporalato e allo sfruttamento nelle campagne con la “patente del cibo”; un piano nazionale di emergenza per il lavoro che tuteli tutti coloro che rischiano di perderlo, giovani, precari, lavoratori dell’ex Ilva e della Whirlpool di Napoli e di tutte le altre crisi; sulle politiche migratorie chiediamo che la regolarizzazione non sia legata alla raccolta della frutta - che non marcirà mai perché di lavoratori nelle campagne ce ne sono - ma va legata alla crisi sanitaria - in quanto il lavoro agricolo ad inizio pandemia è stato considerato essenziale - convertibile poi per attività lavorativa. A questo si lega il tema della razzializzazione: in tanti in Italia si sono indignati per le violenze della polizia contro gli afroamericani ma anche nel nostro paese la situazione è la stessa per via della legge Bossi-Fini e dei decreti sicurezza di Salvini che vietano alle persone il diritto di cittadinanza. Per questo chiediamo al governo di ridare a tutte queste persone il diritto di esistere, a partire dai bambini che sono nati in Italia”. L’idea della “patente del cibo” - che “garantisca ai cittadini di sapere dove è stato prodotto quello che mangiano e che sia stato prodotto senza sfruttamento” - ha trovato grande riscontro nel governo: “il presidente Conte ha detto che è un’idea bellissima, un’idea geniale e che si attiverà per metterla in pratica”, riporta Abou. Sul “piano nazionale di emergenza del lavoro” e sulle questioni migratorie invece le risposte sono più interlocutorie e meno soddisfacenti. “Il presidente Conte sul piano del lavoro ci ha chiesto “proposte articolate in merito” che noi gli presenteremo al più presto”, mentre “sulla regolarizzazione ha detto che l’articolo 103 del decreto Rilancio prevede già il permesso di soggiorno ma che interesserà il governo per approfondire il tema”. La risposta più deludente è stata sicuramente sui decreti Sicurezza: “ci ha detto che il programma di governo prevede di riformarli, non ha mai parlato di cancellarli come noi chiediamo”, commenta il sindacalista dell’Usb. Anche per questo arriva l’annuncio di una nuova sfida al governo. “Prima di salutarci l’ho informato che lavoriamo alla convocazione degli Stati popolari. Loro hanno fatto gli Stati generali, noi faremo gli Stati popolari nelle prossime settimane a Roma: chiameremo a parlare giovani, precari, disoccupati. Uno spazio aperto nel rispetto di principi e di valori. Tutti coloro che non si riconoscono in uno stato che non rimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale, come prevede la nostra Costituzione, che impediscono alle persone di poter condurre un’esistenza dignitosa”, conclude Abou. Droghe. Cannabis legale, l’appello di cento parlamentari di Laura Mari La Repubblica, 17 giugno 2020 “Conte affronti il tema agli Stati generali, il futuro del Paese passa anche da qui”. Sodano, deputato M5S: “Sottrarre alle mafie la vendita delle droghe leggere significherebbe anche generare un beneficio economico per le casse statali pari a 10 miliardi di euro, tra il risparmio sulle misure di repressione e le nuove entrate fiscali delle aziende che gestirebbero il settore”. Affrontare il tema della legalizzazione della cannabis agli Stati generali. La richiesta al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, arriva da cento parlamentari che hanno aderito all’appello lanciato dal deputato Cinque Stelle Michele Sodano. “Se è vero, come dice il premier che questi giorni di incontri servono per parlare del futuro dell’Italia - dice Sodano - a maggior ragione crediamo sia arrivato il momento di dare un colpo alle mafie legalizzando la vendita e il consumo della Cannabis e sottraendo loro la gestione del mercato e dei guadagni”. Nell’appello a Conte i parlamentari, tra cui molti senatori e deputati grillini, ma anche di altri partiti di maggioranza, sottolineano che “le politiche repressive si sono dimostrate finora del tutto inefficaci, tanto più che in Italia al momento i consumatori di Cannabis sono sei milioni, nonostante il proibizionismo”. Legalizzare le droghe leggere porterebbe, stando agli studio dell’università La Sapienza di Roma, “un beneficio per le casse dello Stato pari a 10 miliardi derivanti dai risparmi dell’applicazione della normativa di repressione e dal nuovo gettito fiscale che comporterebbe l’apertura del mercato alle aziende”. Secondo i parlamentari, con la caduta del divieto di uso e vendita di cannabis nascerebbero imprese dedicate alla coltivazione di questa pianta, con un conseguente aumento dei posti di lavoro. “Secondo i dati presenti in commissione Giustizia lo scorso 18 febbraio - spiega il 5S Sodano - nascerebbe una filiera produttiva di oltre tremila imprese e 350mila possibilità di impiego”. Bloccare il narcotraffico, come negli Stati Uniti e in Canada, porterebbe quindi anche benefici economici. Soprattutto in questa chiave, quindi, i cento parlamentari firmatari dell’appello al premier sostengono che, in un momento di profonda crisi economica provocata dall’emergenza coronavirus, il futuro e la ripresa dell’Italia “possa - conclude Michele Sodano - passare anche attraverso la legalizzazione della Cannabis”. Droghe. Veneto, cocaina e slot machine. La corrente sul cervello di Maurizio Coletti Il Manifesto, 17 giugno 2020 Più che basiti, più che innervositi si resta stupefatti di fronte all’ennesimo tentativo di affrontare alcuni aspetti di consumi di sostanze o di dipendenze con approcci unicamente medici. Meglio, unicamente basati su un “neurocentrismo” che, ormai, ha mostrato tutti i limiti di trattamenti che prendono in considerazione solo il cervello. È il caso, ultimo ma non unico, della sperimentazione che partirà nel Dipartimento Dipendenze dell’Ussl 6 Euganea di Monselice (Padova); con il “vestito” di un trial randomizzato, controllato, doppio cieco (il golden standard delle ricerche sui farmaci), si parte sottoponendo trenta cocainomani e trenta giocatori d’azzardo ad una somministrazione di stimoli magnetici sul cervello. L’obiettivo sarebbe quello di “resettare” questi ultimi ed ottenere una riduzione del craving, il desiderio che sorge al pensiero od alla vista della droga o delle slot. Conseguentemente, si dovrebbe ridurre la dipendenza dalla sostanza o dal gambling. Si dovrebbero conoscere molto presto i risultati. Tuttavia, si scorgono già alcune criticità, come ad esempio le modalità di arruolamento del campione. Ma se questi sono aspetti che non appaiono nel riassunto giornalistico disponibile e che, magari, sono espressi in forma inappuntabile nel protocollo di ricerca, quello che lascia stupiti è il messaggio sottostante: le “dipendenze” sono malfunzionamenti unicamente cerebrali. Tutto il resto sparisce, in quel determinismo, in quella “reductio ad absurdum” che pervade ormai da quasi due decenni ricerca e trattamenti sui e dei consumi di sostanze. Da quando l’addiction è stata definita “malattia primaria, cronica e recidivante del cervello” (affermazione di Asam e Nida), il campo è militarmente occupato da studi e pratiche che limitano alla scatola cranica ed al suo contenuto l’attenzione e la cura. E, in tempi di riduzione spaventosa non solo delle risorse destinate alla ricerca, ma anche ai trattamenti e perfino alle occasioni di discussione, di confronto, di dibattito sui temi dei consumi e sulle politiche relative, v’è da chiedersi come avranno fatto i bravi ricercatori a trovare i fondi per questo studio. La sentenza Asam e Nida è ormai datata. Mentre una neuroscienziata americana (Sally Satel) afferma: “Il modello neurocentrico lascia la persona consumatrice nell’ombra. Mentre, sia per trattare i suoi problemi, che per guidare le politiche, è importante comprendere quello che il soggetto pensa. È nella mente del consumatore che persistono le storie: come ha iniziato, perché continua a consumare e, se decide di smettere, come lo può fare. Queste risposte non possono essere trovate esaminando il suo cervello, qualsiasi livello di sofisticazione abbiano gli strumenti utilizzati. Il terreno neurobiologico è quello del cervello e delle cause fisiche, i meccanismi che sono dietro ai pensieri ed alle emozioni. Il terreno psicologico, il regno della mente è quello della persona, dei suoi desideri, delle intenzioni, degli ideali e delle ansie”. Cervello e mente, quindi, non sono la stessa cosa. Ambedue sono essenziali ma si continua a commettere l’errore di privilegiare il primo (il cervello) e di scansare il secondo (la mente). Confesso, infine, che c’è un livello di curiosità (mista, lo ammetto, a scetticismo) per i risultati dello studio relativo ai risultati che si otterranno a lungo termine su una patologia compulsiva senza sostanze come il gioco d’azzardo. Condizione con sicure variabili neuronali, ma con altrettante variabili psicosociali che non possono essere scalfite (lo ripeto: a medio e lungo termine) dalla stimolazione magnetica. L’addiction, quindi, deve essere sempre trattata come una “malattia” che non scomparirà mai essendo considerata cronica? E tra quanto potremo parlare e confrontarci su quei consumi regolati individualmente e privi di grandi rischi? Egitto. Regeni, i cinque ufficiali su cui il Cairo continua a non dare risposte La Repubblica, 17 giugno 2020 L’imbarazzo degli egiziani perché gli indagati sono figure di primo piano. Pensavano che la questione fosse chiusa. E invece, evidentemente, chiusa non lo è. Pensavano di venirne fuori con l’ennesimo incontro istituzionale, magari con la restituzione simbolica dei vestiti e gli effetti personali di Giulio (a più di un anno e mezzo di distanza dalla richiesta), e invece gli apparati egiziani si trovano con un nuovo problema sul tavolo: l’elezione di domicilio dei cinque indagati. È un atto tecnico, è vero. Non troppo invasivo: i cinque verrebbero processati in contumacia, senza essere interrogati dai magistrati italiani. Ma che costringerebbe il governo di Al Sisi, probabilmente per la prima volta, a permettere che cinque ufficiali dell’intelligence interna siano processati all’estero. Mettendo così davanti all’opinione pubblica i metodi del regime. Non solo: il via al processo non chiuderebbe affatto le indagini. I genitori di Giulio hanno sempre detto di volere una “verità giudiziaria” completa, che ricostruisca il ruolo dei sequestratori, dei torturatori, degli assassini e anche dei mandanti dell’omicidio di Giulio. “Vogliamo sapere chi e perché lo ha fatto”. Gli indagati nell’inchiesta della procura di Roma non sono figure di secondo piano nell’organigramma dell’intelligence del Cairo: si tratta del generale Tarek Ali Saber che comanda la divisione della National Security Agency incaricata del “monitoraggio di sindacati, ong, organizzazioni politiche che operano illegalmente in Egitto”. I colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal, il maggiore Magdi Sharif. E l’agente Mhamoud Najem. È Tarek il primo alto ufficiale a ricevere la denuncia, falsa, dell’ambulante Mohammed Abdallah, che dà il via all’indagine su Giulio. L’indagine che porta poi al sequestro. Nonostante, parole di Tarek, l’inchiesta si fosse conclusa documentando che il comportamento del ricercatore italiano era trasparente: “Giulio Regeni soggiornava legittimamente in Egitto. Non rappresentava alcun pericolo per la sicurezza del Paese. La denuncia nei suoi confronti non presentava alcuna ombra di verità. Era il frutto delle elucubrazioni di Abdallah”. Per questo le indagini della National security dovevano essere chiuse. E invece proseguiranno, fino al giorno del sequestro il 25 gennaio. Avvenuto in una zona dove c’erano proprio alcuni degli agenti indagati. La vicenda Regeni non è però l’unica sul tavolo tra Italia ed Egitto: oggi c’è l’udienza per Patrik Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna arrestato da 130 giorni. La sua scarcerazione sarebbe un “gesto importantissimo” hanno detto ancora ieri dal Governo. Ma evidentemente non legato in nessun modo alla questione Regeni. Stati Uniti. Caso Floyd, legge e ordine non bastano più di Matteo Angioli Il Dubbio, 17 giugno 2020 Mancano conoscenza, giustizia e non violenza. La protesta americana ha il merito di incanalare il senso di rigetto della violenza, soprattutto quella esercitata dalle autorità. “Tra 10 anni farai lo stesso anche tu! Quel che devi fare oggi che hai 16 anni è trovare un’idea migliore perché ciò che stiamo facendo noi non funziona! Lui è arrabbiato a 46 anni, io sono arrabbiato a 31! Tu sei arrabbiato e ne hai 16! Capisci?”. Le parole, riprese in un video postato su Twitter il 31 maggio scorso, sono rivolte da un uomo di 31 anni a un sedicenne per convincerlo di come sia controproducente saccheggiare. Un attimo prima aveva amaramente constatato la sordità del 46enne alle stesse parole. Tre generazioni di afroamericani lacerate e unite nel dolore e nella rabbia, separate nella via da imboccare per un futuro diverso, come lo erano Martin Luther King jr e Malcolm X. Si fatica ad affrontare il problema che attanaglia gli Stati Uniti senza cadere nella contrapposizione semplificata che vede da un lato gli anti- Trump a priori, dall’altro i protettori dello status quo e del “law and order” a tutti costi. Così, mentre nella grande democrazia americana prende corpo il dibattito su una possibile riforma delle forze dell’ordine, sta lentamente tornando sotto i riflettori una delle cause che condanna i George Floyd: la mancanza di conoscenza e di responsabilità. La città di Minneapolis fa da apripista nel lanciare un confronto serio, aperto, istituzionale e a livello di comunità. Quella di Camden, in New Jersey, offre già un’esperienza particolare avendo sciolto e riformato la polizia locale nel 2012. Nel 2019, Camden, circa 73.000 abitanti, di cui 50% latini e 42% neri, ha registrato un calo del 95% delle denunce di abusi commessi da agenti di polizia e una riduzione del 63% degli omicidi. Nel suo ultimo rapporto, l’International Peace Research Institute di Stoccolma ha mostrato che nel 2019 le spese militari a livello mondiale ammontano a circa 1917 miliardi di dollari. Cinque Paesi rappresentano il 62% della spesa totale: Stati Uniti, Cina, Russia, Arabia Saudita e India. Ci sono quasi un miliardo di pistole al mondo, un record. Ogni anno vengono prodotti circa 12 miliardi di proiettili, e ogni anno circa 500.000 persone perdono la vita sotto i colpi di arma da fuoco. Negli Stati Uniti, lo stesso dato ammonta a 35.000, mentre i feriti superano i 75.000. Dalla tragedia dell’11 settembre, le forze di polizia statunitensi hanno ricevuto in dotazione armi ed equipaggiamenti, e sono addestrate secondo tattiche di guerra. La tattica comporta anche l’assunzione di una mentalità da guerra, da scontro. Si tratta in particolare del “Programma 1033”, che prevede il trasferimento di armi ed attrezzature dall’esercito direttamente alle agenzie di law enforcement statali e locali con modalità semplici e senza rendicontazione obbligatoria. L’ex capo della polizia di Camden ha criticato il programma dicendo che “i poliziotti sono guardiani, non guerrieri”. Dobbiamo chiederci perché si blocca con un ginocchio per quasi nove minuti George Floyd. È stato di diritto sparare alle spalle di Rayshard Brooks, disarmato? È stato di diritto fare irruzione sfondando l’ingresso di un’abitazione nel cuore della notte e uccidere Brionna Taylor, disarmata? È stato di diritto eseguire una manovra di contenimento e soffocare Eric Garner? È stato di diritto uccidere Stefano Cucchi mentre è in “custodia” in strutture dello Stato italiano? È stato di diritto uccidere Federico Aldovrandi, Riccardo Magherini, Davide Bifolco e Dino Budroni in pieno giorno? Marco Pannella, al Congresso di Nessuno Tocchi Caino del 2015 nel carcere di Opera ha detto qualcosa di convincente: “Oggi gli Stati nazionali sono costretti a sopravvivere e a giustificare molto spesso con una interpretazione violenta quel che è legge, quel che è diritto”. Con gli spazi di libertà che li contraddistinguono e le proteste che generano, gli Stati Uniti hanno il merito di incanalare l’ormai insopportabile senso di rigetto per la violenza, soprattutto per quella esercitata dalle autorità, di cui il mondo trabocca. Può mettersi in moto una rivoluzione culturale, dunque politica, che valica, storicamente e antropologicamente, il periodo e le dinamiche elettorali. Difficilmente, la risposta securitaria, legalitaria del law and order aiuterà il sedicenne a trovare Martin Luther King. L’ultima cosa di cui hanno bisogno gli Stati Uniti e il mondo sono nuove generazioni di illusi di oggi destinate a divenire i cupi delusi di domani. La democrazia è conoscenza e crescita o non è. Legge e ordine non bastano più. Mancano giustizia e cambiamento. E arriveranno. Con la nonviolenza. Stati Uniti. L’appello dei funzionari africani dell’Onu: “Smantelliamo le istituzioni razziste” di Tedros Adhanom Ghebreysesus, Mahamat Saleh Annadif* Corriere della Sera, 17 giugno 2020 Le riflessioni congiunte di alcuni Alti Funzionari africani delle Nazioni Unite: “Va sollevata ancora una volta la questione irrisolta dell’eliminazione del razzismo”. “Un disperato struggimento per una madre che si è spenta da tempo. Che arriva in profondità dalle viscere di un’umanità fragile. In cerca di respiro. Il mondo intero ha sentito il tragico grido. La famiglia dei popoli ha visto il suo volto sbattuto contro il duro asfalto. Un dolore insopportabile in pieno giorno. Un collo che si spezza sotto il ginocchio ed il peso della storia. Un gigante gentile, disperatamente aggrappato alla vita. Desideroso di respirare libero. Fino al suo ultimo respiro”. Come alti dirigenti africani alle Nazioni Unite, le ultime settimane di protesta per l’uccisione di George Floyd da parte della polizia ci hanno lasciato tutti indignati per l’ingiustizia del razzismo che continua a pervadere il nostro Paese ospitante e il mondo intero. Non si potrà mai dire abbastanza sul profondo trauma e sulla sofferenza intergenerazionale causata dall’ingiustizia razziale perpetrata nel corso dei secoli, in particolare contro le persone di origine africana. Non basta limitarsi a condannare espressioni e atti di razzismo. Dobbiamo andare oltre e fare di più. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha dichiarato che “dobbiamo alzare la voce contro tutte le espressioni di razzismo e i comportamenti razzisti”. Dopo l’uccisione di George Floyd, il grido Black Lives Matter che risuona in tutti gli Stati Uniti e in tutto il mondo è più di uno slogan. Infatti, le loro vite non solo sono importanti, ma sono la quintessenza della realizzazione della nostra comune dignità umana. Ora è il momento di passare dalle parole ai fatti. Abbiamo il dovere di smantellare le istituzioni razziste, per George Floyd e per tutte le vittime della discriminazione razziale e della brutalità della polizia. Come leader di un sistema multilaterale, crediamo sia doveroso parlare a nome di coloro le cui voci sono state messe a tacere e chiedere risposte efficaci che contribuiscano a combattere il razzismo sistemico, una piaga globale perpetuatasi nel corso dei secoli. La sconvolgente uccisione di George Floyd affonda le sue radici in un insieme più ampio e insormontabile di problemi che non scompariranno se trascurati. È tempo che le Nazioni Unite si facciano avanti e agiscano con decisione per contribuire a porre fine al razzismo sistemico contro le persone di origine africana e altri gruppi minoritari, “promuovendo e incoraggiando il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione”, come stabilito dall’articolo 1 della Carta delle Nazioni Unite. In effetti, il fondamento delle Nazioni Unite è la convinzione che tutti gli esseri umani siano uguali e abbiano il diritto di vivere senza timore di persecuzioni. È stato all’apice del movimento per i diritti civili negli Stati Uniti e durante la nascita delle nazioni africane post-coloniali indipendenti ed aderenti alle Nazioni Unite, che la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (Icerd) è entrata in vigore nel 1969. Questo è stato un momento storico cruciale. Il crollo dell’apartheid in Sudafrica, spinto in parte dalle Nazioni Unite, è stato uno dei risultati più soddisfacenti dell’Organizzazione. I diritti umani e la dignità delle persone di colore in Africa e degli individui di discendenza africana nel mondo risuonano come un potente segnale per le future generazioni: le Nazioni Unite non chiuderebbero mai un occhio sulla discriminazione razziale né tollererebbero ingiustizia e intolleranza legittimate da leggi ingiuste. In questa nuova era, le Nazioni Unite devono usare la loro influenza sia per sollevare ancora una volta la questione irrisolta dell’eliminazione del razzismo e sia per sollecitare la comunità delle nazioni a rimuovere la macchia del razzismo dall’umanità. Noi accogliamo con favore le iniziative del Segretario Generale per rafforzare il dibattito globale sull’antirazzismo, che affronterebbe il razzismo sistemico a tutti i livelli e i suoi effetti ovunque essi si manifestino, incluso all’interno delle stesse Nazioni Unite. Se è nostro compito guidare, dobbiamo farlo con l’esempio. Per innescare e sostenere un reale cambiamento, dobbiamo intraprendere un’onesta valutazione del modo in cui rispettiamo la Carta delle Nazioni Unite all’interno della nostra istituzione. In qualità di funzionari internazionali, la nostra espressione di solidarietà è in linea con le nostre responsabilità e i nostri obblighi di prendere posizione e pronunciarsi apertamente contro l’oppressione. Come leader, noi condividiamo le convinzioni fondamentali, i valori e i principi contenuti nella Carta delle Nazioni Unite, i quali non ci lasciano la possibilità di rimanere in silenzio. Noi ci impegniamo a sfruttare le nostre competenze, la nostra influenza e i nostri mandati per affrontare le cause profonde e indirizzare i cambiamenti strutturali necessari a mettere fine al razzismo. Quasi 500 anni dopo l’inizio della ripugnante tratta transatlantica degli Africani, siamo arrivati ad un punto critico nell’arco dell’universo morale, mentre ci avviciniamo, nel 2024, alla fine del Decennio Internazionale per Persone di Discendenza Africana. Usiamo la nostra voce collettiva per realizzare le aspirazioni delle nostre comunità, affinché le Nazioni Unite esercitino il loro potere morale come istituzione per realizzare un cambiamento globale. Usiamo la nostra voce per contribuire alla realizzazione della visione riformatrice dell’Africa contenuta nell’Agenda 2063, coerente con l’Agenda globale 2030. L’Africa è la culla dell’umanità e l’antesignana delle civiltà umane. Se il mondo intende garantire lo sviluppo sostenibile e la pace è necessario che il continente africano rivesta un ruolo decisivo. Questo era il sogno dei fondatori dell’Organizzazione dell’Unità Africana, ed era anche la forte convinzione di leader di spicco come Kwame Nkrumah e intellettuali illustri come Cheikh Anta Diop. Non possiamo dimenticare le parole del Presidente Nelson Mandela: “Negare alle persone i loro diritti umani è sfidare la loro stessa umanità”. Teniamo sempre a mente l’ammonizione dell’attivista per i diritti civili Fannie Lou Hamer: “Nessuno è veramente libero fino a che tutti non sono liberi”, cui fece eco Martin Luther King Jr., “L’ingiustizia in qualsiasi luogo è una minaccia alla giustizia ovunque”. Le loro parole furono poi incarnate nell’eterogenea nazione arcobaleno del Sudafrica, come dichiarato dall’Arcivescovo pacificatore Desmond Tutu quando disse che “la liberazione dei neri è un prerequisito assolutamente indispensabile alla liberazione dei bianchi, nessuno sarà libero fino a che tutti non saremo liberi”. *Tutti i firmatari riportati di seguito sono alti funzionari delle Nazioni Unite che ricoprono la carica di Sottosegretario Generale. Hanno firmato questo editoriale a titolo personale. Tedros Adhanom Ghebreyesus Mahamat Saleh Annadif Zainab Bangura Winnie Byanyima Mohamed Ibn Chambas Adama Dieng François Lounceny Fall Bience Gawanas Gilbert Houngbo Bishar A. Hussein Natalia Kanem Mukhisa Kituyi Jeremiah Nyamane Mamabolo Phumzile Mlambo-Ngcuka Mankeur Ndiaye Parfait Onanga-Anyanga Moussa D. Oumarou Pramila Patten Vera Songwe Hanna Tetteh Ibrahim Thiaw Leila Zerrougui