Alta Sicurezza, tenere aperte quelle celle è una conquista di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 giugno 2020 La Circolare del Dap, “scoperta” ora, è operativa dal 2015, in linea con le indicazioni Cedu. Le celle del carcere aperte anche per i reclusi in Alta Sicurezza? L’hanno scoperto solo ora e parliamo dell’ennesimo scandalo che non c’è. Aperte oltre le otto ore? Certo, perché otto ore è il criterio minimo da rispettare. Parliamo della cosiddetta “sorveglianza dinamica” contestata da tempo da diversi sindacati di polizia penitenziaria e cavalcata strumentalmente da taluni movimenti politici. Prevede l’apertura delle celle per almeno 8 ore al giorno e fino a un massimo di 14, dando la possibilità ai detenuti di muoversi all’interno della propria sezione e auspicabilmente all’infuori di essa e di usufruire di spazi più ampi per le attività, e il contestuale mutamento della modalità operativa in sezione della Polizia Penitenziaria, non più chiamata ad attuare un controllo statico sulla popolazione detenuta, ma piuttosto un controllo incentrato sulla conoscenza e l’osservazione della persona detenuta. Un compito che non riduce la figura dell’agente penitenziario a mera custodia, ma diventa parte attiva del percorso trattamentale dei detenuti. Tra l’altro è stata la stessa Cedu nell’indicare l’apertura delle celle come elemento compensativo al sovraffollamento. Fin dal 2013 - dopo la sentenza Torreggiani - l’esecuzione della pena ha avuto un importante passo in avanti dando un quadro interpretativo delle norme che delineano i concetti di trattamento penitenziario e rieducativo in relazione alle concrete modalità di svolgimento della vita penitenziaria. Nel 2015 c’è voluta la circolare dell’allora capo del Dap Santi Consolo per emanare ulteriori direttive tese a superare il concetto - retaggio di una sottocultura che purtroppo sta di nuovo emergendo - che un detenuto debba vivere perennemente dentro la propria cella. Si era avviato così un importante percorso innovativo che, coniugando gli obiettivi di sicurezza e trattamento, ha iniziato a definire nuovi modelli di gestione degli istituti penitenziari e di disciplina delle modalità custodiali dei reparti detentivi, consentendo un graduale superamento del criterio di perimetrazione della vita penitenziaria all’interno della cella. La circolare del Dap, “scoperta” solo ora da alcuni giornali che evidentemente hanno poca conoscenza del sistema penitenziario, si richiama alle raccomandazioni europee le quali stabiliscono che il tempo minimo da trascorrere fuori dalle camere detentive sia pari almeno ad 8 ore giornaliere. Ma l’apertura delle celle per almeno 8 ore al giorno è solo uno degli elementi che compongono la ‘ sorveglianza dinamica’. Come da circolare, infatti, alla custodia aperta dovrebbe corrispondere una diversa organizzazione degli spazi all’interno degli istituti, che diano anche la possibilità ai soggetti detenuti di muoversi autonomamente in sezione o anche fuori sezione, per poter accedere all’attività e alla socialità. Questo è il vero punto critico. Uno dei problemi presentatisi alle varie amministrazioni con l’introduzione della sorveglianza dinamica è che, in assenza di spazi adeguati alle attività nonché in assenza delle attività stesse - che siano lavorative, di istruzione, ricreative - all’apertura delle celle spesso comporta solo un permanere dei soggetti detenuti in sezione. Casomai è questo il problema da risolvere con urgenza. Per dare linfa vitale allo scandalo che non c’è, si parla di una correlazione celle aperte / aggressioni. In realtà citare questa correlazione con i detenuti in alta sicurezza è totalmente sbagliato. Il paradosso vuole che, rispetto ai detenuti “comuni”, questi sono più “disciplinati” per vari fattori, tra i quali anche l’età visto che parliamo di persone condannate a pene lunghissime, compreso l’ergastolo. Non a caso, tranne l’eccezione del carcere di Foggia, i detenuti in AS non hanno nemmeno partecipato alle rivolte. Invece di puntare ad incrementare le misure trattamentali proprio per non far oziare i detenuti in sezione, si punta ad un ritorno al passato. Perché? Tra i vari istituti dove i detenuti in alta sicurezza usufruiscono delle celle aperte, viene citata la sezione femminile di Rebibbia. Però non dicono che lì ci sono cinque donne settantenni delle prime Brigate Rosse. Che minaccia per la società potrebbero creare se stanno un’ora in più fuori dalle celle? Non è dato sapere. No, Bonafede non ha “premiato” i detenuti rivoltosi e non ha punito gli agenti pagellapolitica.it, 16 giugno 2020 “A seguito delle rivolte carcerarie (...) il Ministro Bonafede ha ‘duramente reagito’ (...) concedendo lo svuota carceri, come premio a chi ha gravemente danneggiato istituti penitenziari e a chi ha aggredito gli agenti della polizia penitenziaria. Bastava? No! Con Bonafede non c’è mai limite al peggio ed oggi apprendiamo che (...) gli agenti della Polizia penitenziaria che hanno contenuto le rivolte sono stati attinti da avvisi di garanzia”. L’11 giugno il deputato di Fratelli d’Italia e responsabile Giustizia del suo partito Andrea Delmastro ha sostenuto in un comunicato stampa che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede abbia premiato i carcerati che si erano resi protagonisti delle rivolte di marzo, all’inizio dell’epidemia di coronavirus, con lo “Svuota-carceri”, mentre gli agenti della polizia penitenziaria che hanno sedato le rivolte “con Bonafede” sono stati raggiunti da avvisi di garanzia. L’affermazione è sbagliata sotto diversi punti di vista. Andiamo con ordine. I rivoltosi non sono stati “premiati” - Per prima cosa è falso che i carcerati “rivoltosi” siano stati premiati con lo “Svuota-carceri”. Con l’espressione, Delmastro sta facendo riferimento al provvedimento contenuto all’articolo 123 del decreto “Cura Italia” del 17 marzo (convertito in legge il 24 aprile senza modifiche rilevanti ai fini della nostra analisi). Come abbiamo spiegato in una nostra analisi, questo articolo ha modificato le procedure, velocizzandole, per concedere a certi detenuti (vedremo tra poco quali) di scontare i 18 mesi di pena residua ai domiciliari col braccialetto elettronico. Questa possibilità non era una novità: era stata introdotta dal centrodestra nel 2010 (per una pena residua di 12 mesi) e ampliata dal governo Monti nel 2011 (a 18 mesi). Come anticipato, solo alcuni detenuti possono godere di questa possibilità. Sono esclusi ad esempio i condannati per reati gravi (e infatti questa norma non c’entra con la scarcerazione di alcuni boss mafiosi, come abbiamo scritto), i delinquenti abituali e i “detenuti nei cui confronti sia redatto rapporto disciplinare (...) in quanto coinvolti nei disordini e nelle sommosse a far data dal 7 marzo 2020” (lettera e) del primo comma dell’art. 123 del decreto “Cura Italia”). Non solo. Sono esclusi anche (lettera d del primo comma dell’art. 123 del decreto “Cura Italia”) i detenuti che nell’ultimo anno siano stati sanzionati per partecipazione a disordini o a sommosse, promozione di disordini o di sommosse, evasione e fatti previsti dalla legge come reato, commessi in danno di compagni, di operatori penitenziari o di visitatori (articolo 77, comma 1, numeri 18, 19, 20 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230). Insomma, già parlare di “svuota-carceri” per un provvedimento che ha modificato solo alcuni aspetti procedurali di una norma in vigore da dieci anni potrebbe essere considerato forzato. Ma soprattutto il provvedimento esclude dal beneficio proprio i carcerati che hanno partecipato alle rivolte e/o che hanno aggredito gli agenti della polizia penitenziaria. Il ruolo di Bonafede negli avvisi di garanzia agli agenti della Polizia penitenziaria - In secondo luogo Bonafede, chiamato esplicitamente in causa da Delmastro anche su questo aspetto, non c’entra con gli avvisi di garanzia - a cui fa riferimento il deputato di Fdi - inviati l’11 giugno agli agenti della polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, accusati di aver pestato i detenuti a inizio aprile per “punirli” per la rivolta di marzo. Questi “avvisi”, più correttamente chiamati “informazioni di garanzia”, vengono infatti inviati dal pubblico ministero (art. 369 c.p.p.) per informare l’indagato di atti a cui ha diritto di assistere anche il difensore (ad esempio, interrogatorio, perquisizione o sequestro). Se il pm, che per via della separazione dei poteri è indipendente dal potere esecutivo e quindi anche dal ministro della Giustizia, riceve una notizia di reato dalla polizia o dalle denunce di privati cittadini in teoria è obbligato ad agire, per via dell’obbligatorietà dell’azione penale stabilita dall’articolo 112 della Costituzione. Questo nella prassi non sempre accade: le procure sono sommerse di denunce e succede che venga deciso, non senza un margine di discrezionalità, di dare la precedenza alle indagini su certe notizie di reato piuttosto che su altre. Nel caso in questione però, i pm sono stati chiamati in causa direttamente dal Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale (organismo statale indipendente incaricato di monitorare le carceri) per la regione Campania, Samuele Ciambriello, e per un fatto che se fosse vero sarebbe molto grave. Ciambriello è infatti stato a sua volta sollecitato dalle denunce di diversi familiari dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere che avevano raccontato di essere stati picchiati a inizio aprile da agenti a volto coperto (e ci sarebbero delle foto che testimoniano le percosse subite) come punizione a distanza per la rivolta di marzo. Per accertare se le accuse sono vere, se gli agenti della polizia penitenziaria hanno agito in maniera legittima - ricordiamo che è legittimo ad esempio difendersi anche con l’uso della forza da un’eventuale aggressione - e per poterli eventualmente scagionare dalle accuse di reato che sono state mosse, è necessario compiere determinati atti d’indagine che prevedono appunto di inviare le informazioni di garanzia. Infatti anche gli stessi agenti della polizia penitenziaria, secondo i resoconti di stampa, si sono indignati più che per gli “avvisi di garanzia” in sé soprattutto per le modalità con cui questi sono stati dati, recapitandoli direttamente in carcere: una maniera ritenuta eccessivamente “spettacolare”. “Bastava andare a casa dei poliziotti, anche per una questione di rispetto tra corpi dello Stato”, ha dichiarato ad esempio l’assistente capo della Penitenziaria, in servizio a Santa Maria Capua Vetere, Gaetano Napoleone. In ogni caso, come abbiamo detto, in questa vicenda il ministro Bonafede non sembra aver avuto alcun ruolo. Il verdetto - Il deputato di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro l’11 giugno ha sostenuto che Bonafede abbia premiato i carcerati protagonisti delle rivolte di marzo con un provvedimento chiamato da FdI “svuota-carceri”, mentre avrebbe in qualche modo una responsabilità per gli avvisi di garanzia dati ad alcuni agenti della polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Si tratta di un’affermazione priva di fondamento: il provvedimento contenuto nel decreto “Cura-Italia” - chiamato da FdI “Svuota-carceri” con una certa forzatura - esclude esplicitamente proprio i detenuti che hanno partecipato alle rivolte. Dall’altro il ministro della Giustizia non sembra aver avuto un ruolo nell’invio da parte dei pm di avvisi di garanzia a persone coinvolte in eventuali indagini. Nel caso in questione, inoltre, queste indagini sono state avviate dalla denuncia avanzata dal Garante dei detenuti della Campania e non per la repressione delle rivolte, ma per una supposta “punizione” impartita ai detenuti a settimane di distanza. Nel complesso, dunque, per Delmastro una “panzana pazzesca”. Dl Giustizia, raddoppiano le chiamate per i detenuti in alta sicurezza publicpolicy.it, 16 giugno 2020 Raddoppia il numero di chiamate che i detenuti in alta sicurezza potranno effettuare all’interno delle carceri ai loro familiari, ma sempre se autorizzate dal direttore dell’istituto penitenziario. Rimangono esclusi i detenuti sotto il regime del 41bis (il cosiddetto carcere duro): è questa una delle novità contenute in un emendamento al dl Intercettazioni-app Immuni, approvato in commissione Giustizia al Senato. La modifica è a firma dei relatori Franco Mirabelli (Pd) e Angela Piarulli (M5S). L’emendamento rivedere anche i permessi telefonici per i cosiddetti detenuti comuni, quelli in regime di media sicurezza. Per loro, fino ad ora, era prevista una chiamata a settimana. Per i gravi motivi, invece, il numero delle telefonate era a totale discrezione dei direttori degli istituti penitenziari. La modifica, invece, fissa una telefonata al giorno (sempre se autorizzata) nei seguenti casi: contatti con figli minori o figli maggiorenni portatori di una disabilità grave; con il coniuge, l’altra parte dell’unione civile, persona stabilmente convivente o legata all’internato da relazione stabilmente affettiva, con il padre, la madre, il fratello o la sorella del condannato qualora gli stessi siano ricoverati in ospedale. Allo stesso tempo aumenta il numero delle telefonate per i detenuti in alta sicurezza (condannati, ad esempio, per reati di corruzione o associazione mafiosa) se ricorrono i gravi motivi elencati sopra. Si passa da due chiamate al mese a quattro, ovvero massimo una a settimana. Rimangono esclusi da qualsiasi tipo di contatto telefonico i carcerati del 41bis. Il fascino della prigione sul Fatto & co di Piero Sansonetti Il Riformista, 16 giugno 2020 Un doppio paginone (con acclusa intervista a Gratteri) per chiedere che i detenuti nei reparti di Alta Sicurezza siano un po’ più maltrattati. È un’attrazione irresistibile quella di Nicolò Gratteri per il carcere. Lui considera il carcere il dono più prezioso che ci è stato consegnato dalla modernità. Lo coltiva e condivide questa sua passione coi ragazzi del Fatto Quotidiano, in particolare con loro tre, gli inseparabili: Travaglio, Lillo e Barbacetto. Articoli e distintivo. L’altro giorno i tre hanno dedicato una parte importante del Fatto Quotidiano alla loro battaglia preferita. Hanno scoperto, grazie a una lettera segreta di una dirigente del Dap ai direttori delle carceri, che i detenuti in regime di Alta Sicurezza soffrono troppo poco. Per ore vengono lasciati liberi per i corridoi e questo non è un bel modo per tenere la gente al carcere duro. Le celle allora a che servono? E a che serve mantenerle sovraffollate, in modo che il detenuto possa soffrire ben bene, se poi dei direttori di carcere mollaccioni gli aprono le porte per ore e ore e gli permettono di sgranchire le gambe nei corridoi? Dove sono finiti letto di pietra, pane ed acqua? Marco Lillo (che dei tra inseparabili è sempre il meglio informato, spesso informato meglio dello stesso Gratteri) fa capire che la colpa di tutto è di quel poco di buono di Santi Consolo, ex magistrato che per quattro o cinque anni ha diretto il Dap, scelto - manco a dirlo - da quei libertini-libertari del centrosinistra, tipo il ministro Orlando, un debosciato che se non proviene da Lotta Continua poco ci manca. Consolo ha trasformato i reparti di Alta Sicurezza, dove vivono circa 10mila detenuti, in centri estivi. Stabilito che tutto ciò è indecente, Barbacetto si è incaricato di andare a chiedere a Gratteri, il Procuratore di Catanzaro, cosa bisogna fare per porre fine a questa vergogna. E Gratteri - preso in contropiede - come al solito ha commesso un po’ di errori nelle risposte, perché le cose le sa ma non tutte bene. Ha cominciato col definire il 41bis “carcere duro”. Vaglielo a spiegare che non si deve usare questo termine. Lo usiamo noi garantisti, polemicamente, non lo devono usare i magistrati. Il carcere duro in Italia è proibito dalla Costituzione, articolo 27. Fior di magistrati e di politici e di giornalisti ci hanno messo la faccia nella campagna per sostenere che il 41bis è solo una misura di sicurezza e non è carcere duro, poi arriva lui e rovina tutto. Dopodiché Gratteri ha spiegato qual è la sua soluzione per evitare il sovraffollamento nelle carceri. Voi sapete che se chiedi a qualunque giurista come si può evitare il sovraffollamento, lui vi risponderà o proponendo l’amnistia (una minoranza) o la depenalizzazione di molti reati, soprattutto di quelli che hanno portato in prigione decine di migliaia di ragazzi tossicodipendenti, o, infine, la scarcerazione anticipata di chi deve scontare ancora solo pochi mesi. Beh, queste soluzioni a Gratteri ovviamente non piacciono (e tanto meno al trio-manetta del Fatto). E lui propone allora di costruire quattro maxi carceri da 5000 letti ciascuno. Con ventimila posti nuovi, hai voglia ad arrestare! L’idea è quella di dare vita a vere e proprie cittadine-gattabuia. E Gratteri, per dare forza a questa tesi, spiega che in America, nel regno delle libertà, le carceri hanno migliaia e migliaia di posti, mentre da noi sono piccole piccole. Ci sono un paio di osservazioni da fare - con gentilezza, in modo da evitare che Gratteri si offenda e ci quereli. La prima è questa: gli Stati Uniti non sono proprio un esempio di liberalità carceraria. In proporzione hanno quasi dieci volte più prigionieri dei paesi europei. In Occidente hanno il record inavvicinabile del forcaiolismo, da questo punto di vista, e superano persino parecchi paesi arabi. La seconda cosa è che questo carcere di New York del quale lui parla non è vero che ha 18mila posti ma ne ha circa 9mila. Sempre molti, certo, ma perché un magistrato deve essere così impreciso? Se lo è pure nei processi - speriamo di no - stiamo freschi! Ma c’è un’altra questione che Gratteri non sa: a New York è stato approvato un piano per smantellare questo carcere-mostro e sostituirlo con quattro piccole prigioni da 900 posti ciascuna. L’obiettivo è rendere le carceri più piccole e quindi più umane e di ridurre drasticamente il numero dei detenuti. Si è arrivati a questa decisione, e la città di New York ha stanziato 7 miliardi per realizzarla, dopo grandi battaglie da parte dei movimenti dei diritti civili. È bello discutere dei problemi carcerari senza saperne molto. Purtroppo queste discussioni non restano platoniche, ma ci va di mezzo un sacco di gente. I detenuti. È così: nella magistratura c’è una minoranza assai combattiva che è felice solo se può essere aumentato il numero dei detenuti e peggiorata la loro condizione di vita. Anche nel giornalismo è così. Da che dipende? È una lunga storia, che probabilmente ha parecchio a che fare anche con le condizioni nelle quali molte persone hanno vissuto l’infanzia. La vita in carcere? Evasioni con filosofia di Adriana Bazzi Corriere della Sera, 16 giugno 2020 Anna Maria Corradini ha portato la disciplina negli istituti di pena del Triveneto e ora anche in Toscana e Umbria. Il suo impegno come volontaria è confluito recentemente in un libro che racconta le “Mille ore in carcere”. La consulenza gratuita è offerta anche a educatori, agenti penitenziari e personale amministrativo Si lavora sul pensiero cercando di decifrare quali riflessioni scattano quando si deve prendere una decisione L’idea è di trovare ciò che in una persona condiziona la visione della realtà e i comportamenti, non consolare. “Lo psicologo è come un dottore... lei invece... è come una mamma!”. Parole inaspettate se pronunciate da un collaboratore di giustizia, detenuto in un carcere del Triveneto. “Lei” è Anna Maria Corradini, la persona che ha portato la filosofia negli istituti di pena, prima con esperienze di gruppo fra i reclusi, poi con colloqui faccia-a-faccia, persino con i “pentiti”. “Sì, la consulenza filosofica è diversa dalla psicologia, che si occupa dei meccanismi psichici e fa diagnosi - ci dice Anna Maria Corradini con le stesse parole che usa per spiegarla quando si presenta ai reclusi - La prima, invece, lavora sul pensiero, cioè cerca di capire quali sono le riflessioni che una persona è portata a fare quando deve prendere una decisione. Riflessioni che possono appartenere al passato (e che spingono anche a delinquere, ndr), sul presente (sulla vita in carcere, per dire, che costringe a convivenze spesso impossibili, ndr) e al futuro (per chi ha commesso un reato e vorrebbe cominciare una nuova vita, ndr). Perché quel detenuto mi ha paragonato a una mamma, lasciandomi stupita, perplessa e non certo lusingata? Perché quella parola, mamma, significava per lui rinascita”. L’esempio del cane - Non è facile tradurre con parole semplici il senso di questa disciplina, ma ecco una piccola semplificazione: “C’è l’esempio del cane: se hai paura del cane io non curo la paura del cane (quello è appunto compito della psicologia, ndr), ma cerco di capire perché hai paura del cane. Perché, forse, c’è stata un’esperienza che ti ha fatto ritenere il cane cattivo?”, aggiunge Corradini che si definisce, appunto, una specialista del pensiero. “L’idea - prosegue - è quella di andare a cercare quei pensieri che condizionano, in una persona, la visione della realtà e, di conseguenza, i comportamenti, compresi quelli criminali. L’approccio filosofico deve vedere, ascoltare, dialogare, senza pregiudizi e, tantomeno, pretese di formulare giudizi. L’obiettivo non è consolare e non ha niente a che fare con il conforto della religione”. La consulenza filosofica è nata in Germania con Gerd Achenbach ed è stata introdotta in Italia dal filosofo Neri Pollastri. Anna Maria Corradini, una volta lasciato l’insegnamento della filosofia nelle scuole superiori, ha acquisito un master in Consulenza filosofica all’Università di Venezia Ca’ Foscari, curato dal Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze e coordinato da Luigi Perissinotto, con il filosofo Umberto Galimberti come tutor. Le consulenze - Corradini è stata consulente per aziende e istituzioni, poi ha deciso di lavorare con le carceri e grazie a un protocollo firmato con il Prap (il Provveditorato per le carceri del Triveneto) di Padova, ha potuto cominciare a lavorare (come volontaria) negli Istituti di quelle Regioni. E attualmente (con la Onlus Eutopia Aps) sta promuovendo questa disciplina anche in Toscana e in Umbria. Un impegno che Anna Maria Corradini ha appena raccontato in un libro dal titolo “Mille ore in carcere”, edito da Diogene Multimedia. Il riconoscimento - “Me lo hanno chiesto i detenuti. Per loro - ci spiega - era un desiderio di riconoscimento, per me un volere raccontare quello che ho visto, conosciuto e anche sofferto. Perché sulla copertina c’è un frigorifero? Perché la vita in carcere “congela” una persona, senza prepararla al dopo. Eppure il carcere dovrebbe avere una funzione riabilitativa e non solo quella di “rinchiudiamoli e buttiamo via la chiave”. Dentro le mura, però, non ci sono solo i detenuti: ci sono gli agenti penitenziari, gli educatori, gli amministrativi, eccetera (anche a questi viene offerta la consulenza filosofica: non sono rari i casi di suicidi fra gli agenti): a loro quasi nessuno pensa e non sono nemmeno stati citati come “eroi”, nonostante il grande lavoro che hanno svolto in questa emergenza da coronavirus. Come tanti medici e infermieri. E, a proposito di coronavirus, nelle carceri è successo qualcosa di particolare: “In questi ultimi mesi - commenta Corradini - si sono ammorbidite le resistenze dei detenuti nei confronti dei poliziotti perché hanno condiviso la stessa paura della malattia e sono diminuiti i conflitti interni”. “Giustizia, ora la legge limita il lavoro agile” di Errico Novi Il Dubbio, 16 giugno 2020 Il ministero ai cancellieri. Le rappresentanze del personale avevano definito illegali le richieste di riapertura venute dagli avvocati. ora la circolare del capo dipartimento Fabbrini chiarisce il quadro. Dopo il via libera alla ripresa delle udienze ordinato da un emendamento al dl Intercettazioni, si era temuto un nulla di fatto. Secondo le rappresentanze del personale giudiziario, sarebbe stata comunque necessaria una “norma primaria” per mettere fine allo smart working nei Tribunali. Ma la circolare diffusa nello scorso fine settimana da via Arenula chiarisce che non è così. All’orizzonte era sembrato profilarsi persino uno sciopero dei cancellieri. La riapertura della Giustizia già lasciava presumere un terremoto sindacale, coi dipendenti convinti che potesse configurarsi un abuso, dietro la richiesta - suggerita al guardasigilli Alfonso Bonafede innanzitutto dagli avvocati - di tornare al lavoro in tribunale, e dismettere lo smart working. Non ci sarà motivo di rivolta, nonostante ne fossero convinte alcune rappresentanze del personale. A chiarirlo è la Circolare del capo dipartimento Organizzazione giudiziaria di via Arenula, Barbara Fabbrini. Una nota chiara, dettagliata, che ricorda un dato: il dl Rilancio già consente di rimodulare il ricorso al lavoro agile negli uffici pubblici. Non sembra dunque necessario, secondo l’interpretazione del ministero della Giustizia, un dpcm di Conte per anticipare la data del 31 luglio oltre la quale l’attività del personale avrebbe comunque smesso di svolgersi, in via ordinaria, da remoto. Opzione che i sistemi informatici dei tribunali hanno finora reso in gran parte inattuabile. La circolare firmata venerdì da Fabbrini è stata non a caso oggetto di un post pubblicato sabato su Facebook dal ministro Bonafede. Il documento del capo dipartimento è essenziale per mettere fine, il 30 giugno, al lockdown dei diritti, come previsto dall’emendamento al dl Intercettazioni approvato giovedì scorso all’unanimità dalla commissione Giustizia del Senato. Certo, la norma del dl Rilancio richiamata da Fabbrini è chiara, ma poco conosciuta o sottovalutata quanto al suo significato. Al punto che l’Adgi, tra le maggiori organizzazioni rappresentative dei cancellieri, ancora giovedì scorso aveva reclamato da Bonafede una “apposita norma primaria che giustifichi, per il personale giudiziario in deroga alle leggi vigenti, la non applicazione dello smart working previsto per i pubblici dipendenti”. Il capo dipartimento del ministero ricorda le linee guida diramate nelle scorse settimane, in cui già si invitava a servirsi dell’”orario flessibile” e “pomeridiano”, della “rotazione dei servizi di cancelleria”. Fino a ribadire che ora, a maggior ragione, estendere l’orario e i turni può e deve essere fatto, perché consente “una più decisa riapertura delle attività amministrative e giudiziarie” con “meno presenza in contemporanea di personale”. D’altra parte, ed è questo il passaggio chiave, “tale è l’indicazione voluta anche dal legislatore con il decreto legge 34/ 2020 (il dl Rilancio, appunto, ndr) all’articolo 263”. Che, scrive Fabbrini, “indica un chiaro percorso di ripresa”, tale da “dosare le misure dello smart working, previsto dall’articolo 87 del dl 18/ 2020 (il “Cura Italia, ndr)”. Ed è così. L’articolo 263 recita: “Le amministrazioni adeguano le misure di cui all’articolo 87” del dl Cura Italia “sulle esigenze della progressiva riapertura di tutti gli uffici pubblici e a quelle dei cittadini” oltre che delle imprese. Un obiettivo - si legge ancora nel passaggio del dl Rilancio citato da Fabbrini - che le amministrazioni perseguono “attraverso la flessibilità dell’orario di lavoro”. Talmente chiaro che alla fine del pro- memoria il capo dipartimento di via Arenula “raccomanda” di “operare una diversa modulazione del rapporto tra lavoro in presenza” e “lavoro agile” in termini “quantitativi”, ai fini di una “progressiva maggiore ripresa delle attività amministrative e giudiziarie per i mesi di giugno e luglio”. Dettaglio, quello all’ultima riga, che accoglie le richieste dell’avvocatura, di Cnf e Ocf innanzitutto, secondo cui sarebbe indispensabile riavviare la macchina ancora prima del 1° luglio, cioè già dalla prossima settimana. Ecco perché, nel suo post, Bonafede aveva scritto: “Siamo certi che dal primo luglio verrà garantito il regolare svolgimento delle udienze”. Lo dice una fonte primaria, come quella sollecitata a Bonafede dal personale della Giustizia. Semplicemente, i sindacati non si erano accorti che la norma c’era già. La lenta agonia della giustizia, affondata da una politica che rincorre i talk-show di Adriano Sofri Il Foglio, 16 giugno 2020 Si segue con una costernazione il travaso del problema della giustizia nella trasmissione di La7 condotta da Massimo Giletti. Sembrava riguardare un clamoroso dissidio fra il magistrato Nino Di Matteo e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a proposito della nomina a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Clamoroso tanto più per la presunta, fino ad allora, affinità politica e personale fra i due. Nel giro di poco più di un mese la vicenda si è dilatata fino a confiscare l’intera agonia della giustizia, il Consiglio superiore della magistratura, le sue vicende correntizie di carrierismi e corruzioni, i criteri delle nomine ai vertici degli uffici giudiziari, i rapporti fra magistrati inquirenti e giudicanti, l’interpretazione e l’applicazione delle pene. Ai due protagonisti, il volonteroso Di Matteo e il renitente Bonafede, si sono aggiunti via via Gratteri e il suo programma edilizio (4 nuove carceri per 20 mila detenuti), De Magistris, col suo carico di pre-sofferto, diciamo così, un’inchiesta drastica sul già grigio e dimissionato Basentini, il versatile Palamara, magistrati d’esperienza come Sabella e Ardita, e nell’ultima puntata, inopinatamente per chi ne immaginava un riserbo più invincibile, il procuratore antimafia Cafiero De Raho. Formalmente il collasso (così lo chiamano gli stessi suoi celebranti) della giustizia viene preso in cura dal Parlamento e dalle commissioni pertinenti, dai responsabili del ministero e del governo e dal Csm, a presiedere il quale sta il Presidente della Repubblica: cioè dalle massime sedi istituzionali. Gli stessi attori televisivi sostengono di rinviare a quelle sedi il proprio impegno di testimonianza. In realtà succede il contrario, e quelle solenni sedi istituzionali rincorrono trafelate il clamore televisivo. Si può interpretare tutto ciò come un caso di trasparenza. Seguo con costernazione soprattutto perché nell’apparente drammatico garbuglio di posizioni e personalità un risultato affiora univocamente: l’incattivimento sulla condizione carceraria. Su quello c’è un’oggettiva unanimità, dal licenziamento del capo del Dap Santi Consolo, due anni fa, in poi. È un amaro paradosso che lo scandalo nel ministero della Giustizia, con le dimissioni dei responsabili penitenziari, sia stato provocato dalle improvvisate circolari con le quali cercarono in ritardo di mettersi al riparo dai rischi della pandemia. È meraviglioso come le galere siano derelitte di fatto e insieme offrano alla crisi di astinenza dei duri un piatto ricco, ricchissimo: Salvini che di nuovo corre a Santa Maria Capua Vetere e ne fa il cuore della sua recita a “Porta a Porta” - dopotutto i detenuti sono un surrogato e una quintessenza degli immigrati, ci hanno invaso le celle. Di nuovo “i boss mafiosi” diventano la parte cui si assimila il tutto, la moltitudine di disgraziati dei giudiziari e dei recidivi della droga. E di nuovo si spinge la polizia penitenziaria a vedere nei detenuti un nemico da disprezzare e contenere. Detto questo, nel programma di domenica c’era una breve invasione di Adriano Celentano con un video intitolato all’Inesistente. Ipotizzava che fra due che hanno ragione possa essercene uno che non ce l’ha - figuriamoci fra tanti. Immaginava che tutti noi, gli italiani, saremmo disposti a risarcire chi lavora per la florida industria e spaccio internazionale delle armi dei costi della chiusura. Va bene, possiamo discuterne. Noi italiani, e anche tutti gli altri, siamo capaci di tutto. Quando vedo Celentano sono contento. Mi sento come un detenuto che vede Adriano Celentano. Di Matteo non ritratta: a volte le correnti usano metodi mafiosi di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 16 giugno 2020 Durante le indagini sulla trattativa Stato- mafia non abbiamo avuto nessuna tutela da parte del Csm e dell’Anm. Nelle scelte degli incarichi direttivi dei magistrati privilegiare il criterio dell’appartenenza a una corrente è molto simile al metodo mafioso. Abbiamo toccato il fondo (dopo la vicenda Palamara, ndr), dobbiamo invertire noi la rotta prima che qualcuno, approfittando della situazione, faccia una riforma che sottoponga la magistratura al controllo da parte del potere politico. Questo, in estrema sintesi, il “Nino Di Matteo pensiero” illustrato durante l’ultima puntata di “Non è l’arena” su La7. Una chiusura con il botto per il programma di Massimo Giletti che ha avuto come ospite d’onore l’ex pm antimafia e ora consigliere del Csm eletto come indipendente nella corrente di Piercamillo Davigo. L’intervento di Di Matteo si è aperto sulla madre di tutti i procedimenti dell’ultimo ventennio: il processo sulla trattativa che attualmente è in corso davanti la Corte d’assise d’Appello di Palermo. “Quando partì questa indagine molti pensavano che fosse frutto di una costruzione, di un teorema politico di magistrati un po’ fantasiosi. Nel tempo si resero conto che l’indagine si riferiva a fatti concreti”, ha esordito Di Matteo. “Noi - ha aggiunto - abbiamo avuto difficoltà di tutti tipi, non potevamo non prevederle perché la nostra indagine si indirizzava non solo nei confronti dell’alta mafia ma anche nei confronti di appartenenti di alto livello dell’Arma dei carabinieri, a funzionari di polizia, a politici”. E poi l’affondo finale: “C’è stato un momento in cui dopo la vicenda delle intercettazioni di alcune telefonate fra Nicola Mancino con il presidente Napolitano, a noi è stato detto di tutto, siamo stati definiti ricattatori del Capo dello Stato, eversori: in quel momento Anm e Csm, anziché difendere non Nino Di Matteo ma l’operato dei magistrati che indagavano, hanno preferito per motivi di opportunità schierarsi dalla parte del potere politico”. Dopo essersi tolto questo “sassolino” dalle scarpe, Di Matteo è tornato sull’attualità e sull’esclusione, prima di essere eletto al Csm, dal pool “mandanti esterni sulle stragi” della Dna per aver raccontato durante una trasmissione televisiva alcuni dettagli di queste vicende giudiziarie. Su questo particolare è intervenuto telefonicamente il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafieho de Raho: “Io volevo reintrodurlo nel gruppo ma volevo la certezza che da quel momento in poi non vi sarebbero state fughe in avanti”. E infine, una nuova stoccata, dopo quella dello scorso anno, sulle correnti della magistratura: “Io dissi, e lo direi ancora, che privilegiare nelle scelte che riguardano la carriera di un magistrato il criterio dell’appartenenza a una corrente è molto simile al metodo mafioso. La valutazione del lavoro di un magistrato o le nomine fatte per incarichi direttivi nei confronti di un magistrato condizionati dal criterio dell’appartenenza sono assolutamente inaccettabili”. Nessuna replica al riguardo è giunta, fino alla serata di ieri, da parte del Csm e dell’Anm. Tornado all’Anm, è prevista per questa settimana la decisione del Comitato direttivo centrale su Luca Palamara e sui magistrati che parteciparono al dopo cena dell’anno scorso all’hotel Champagne. I probiviri hanno deciso per la loro espulsione. Alcune toghe, per evitare quest’onta, hanno preferito dimettersi prima dall’associazione. Il direttivo, scaduto a marzo, è alla seconda proroga. Presidente del collegio dei probiviri, rimasti in quattro per le dimissioni che hanno falcidiato l’Anm, è il pm Bruno Di Marco che, all’epoca, è stato il difensore per altre vicende, davanti alla sezione disciplinare del Csm, di Giancarlo Longo, il magistrato che raccontò di aver saputo che Palamara aveva ricevuto 40mila euro per la sua nomina a procuratore di Gela. Circostanza smentita dagli inquirenti di Perugia. Magistratopoli, caso Rackete e Giovanni Falcone di Alessandro Butticé Il Riformista, 16 giugno 2020 In un triste momento di estreme polarizzazioni nel nostro Paese, dove persino un virus pandemico si è colorato politicamente, figuriamoci i commenti - sulla stampa e i social - alle sentenze relative al tentativo di collisione-speronamento da parte della nave di una Ong comandata da una giovane capitano tedesca, in danno di un’imbarcazione militare italiana. Soprattutto se legate, seppur indirettamente, alle disposizioni impartite da un ministro dell’interno pro-tempore, Matteo Salvini, inneggiato da alcuni e duramente contestato da altri, compresi alcuni magistrati, come recentemente emerso da alcune chat agghiaccianti dell’ex Presidente dell’Anm Palamara. Dove si apprende persino che Salvini avesse ragione, ma che andava comunque “attaccato”. Senza gli occhiali colorati dall’ideologia e dal tifo da stadio di una parte o dell’altra, mi sono quindi chiesto come avrebbe giudicato il “caso Rackete” l’allora Giudice Istruttore Giovanni Falcone, che mai avrebbe potuto essere parte, ma semmai vittima, di quella che alcuni hanno ormai definito come “magistratopoli”. Mai avremo purtroppo la risposta. E lungi dall’utilizzare la memoria di un eroico Magistrato che ho avuto la fortuna l’onore di conoscere personalmente nel 1984 - e da subito stimare e ammirare, ben prima che diventasse un’icona italiana e della nostra Magistratura - ho provato però ad immaginarmelo. Soprattutto grazie ad un messaggio ricevuto in febbraio - per la precisione la notte dopo la pubblicazione della clamorosa sentenza della Cassazione - dall’amico, oggi generale in congedo, Emilio Errigo. Un autentico “lupo di mare”, oltre che studioso di diritto del mare. Voleva rendermi partecipe di una sua riflessione ispirata dalla sentenza della Corte di Cassazione del 20 febbraio. Per molti - me compreso - ancora controversa e di difficile comprensione. E non solo perché in netto contrasto con altri precedenti pronunciamenti della stessa Cassazione e - secondo alcune interpretazioni - persino della Corte Costituzionale. Visto il tempo trascorso, che sembra ancora più lungo, dopo la pandemia, voglio ricordare sommariamente i fatti, a chi li avesse scordati, perché caduti nel dimenticatoio della stampa, come spesso accade nel nostro Paese dopo qualche giorno di clamore mediatico. Alla giovane comandante tedesca Carola Rackete erano stati contestati i reati previsti dagli art. 1100 del codice della navigazione (Resistenza o violenza contro nave da guerra) e dall’articolo 337 del codice penale (Resistenza a pubblico ufficiale), per avere usato atti di resistenza e di violenza (a rischio di speronamento) contro una motovedetta della Guardia di finanza e del proprio equipaggio. La mancata convalida dell’arresto da parte della Guardia di Finanza, era stata motivata dal GIP di Agrigento sulla base dell’insussistenza del primo fatto, per l’impossibilità di riconoscere nella motovedetta italiana il requisito di “nave da guerra” richiesto dalla norma, e sulla base della mancanza del requisito dell’antigiuridicità del secondo fatto, per essere stato commesso in presenza della causa di giustificazione dell’adempimento del dovere di soccorso in mare (art. 51 c.p.). Sul primo punto, la Cassazione, operata una ricognizione delle fonti di diritto applicabili (in particolare gli articoli 239 e 243 del Codice dell’Ordinamento militare), ha confermato che allo stato degli atti non vi è prova che la motovedetta della Guardia di Finanza in questione integrasse i requisiti previsti dalla legge per essere considerata nave da guerra ai sensi dell’art. 1100 del codice della navigazione. Perché non era comandata da un ufficiale, ma da un sottufficiale. Sul secondo punto, da un lato vengono richiamate le fonti internazionali e nazionali sugli obblighi di salvataggio in mare, e dall’altro lato è stato ricordato che in tema di misure pre-cautelari (l’arresto in flagranza) la sussistenza di una causa di giustificazione che ne vieta l’applicazione non debba apparire evidente ma possa anche solo essere verosimilmente esistente, i giudici hanno ritenuto che nel caso di specie sussistesse il divieto di arresto previsto dall’art. 385 del codice di procedura penale, ed hanno dunque giudicato corretta la prospettazione delineata dell’ordinanza del Gip. Assieme alle mie perplessità per questo ragionamento, ed alla speranza che - nonostante l’avversione di pezzi della magistratura per l’ex ministro dell’interno, emersa dal “caso Palamara” - la tesi accusatoria della Procura di Agrigento sia stata difesa dinanzi alla Suprema Corte, in punto di diritto, col necessario vigore, voglio condividere con i nostri lettori il testo ricevuto dal generale Errigo. Lo faccio come contributo a che ognuno possa farsi la propria libera idea. A mente fredda ed al di fuori del clamore mediatico di quei giorni di febbraio. “Le scrivo a tarda notte perché non riesco a mantenere quieti i miei plurimi pensieri di diritto umanitario, diritti umani e altri non insignificanti diritti di libertà, difesa e sicurezza pubblica. Lei ha buona memoria e ricorderà sicuramente il primo caso di applicazione in Italia, a cura del giovanissimo Brigadiere della Guardia di Finanza che le scrive, allora Comandante del Guardacoste d’altura G.12 Di Bartolo, del nuovo diritto internazionale del mare (Convenzione di Montego Bay del 10 dicembre 1982), al fine di bloccare in “alto mare” un ingente traffico Internazionale di armi e droga da parte di una agguerrita organizzazione internazionale criminale composta da trafficanti internazionali. L’Operazione Fidelio, così venne titolata l’azione di Polizia Giudiziaria sul Mare, portata a termine con successo dalle non grandissime ma ben costruite Motovedette (Guardacoste) allora in dotazione del Servizio Navale del Corpo della Guardia di Finanza, aveva una ben strutturata e consolidata organizzazione Centrale (Comando Generale) di Comando e Controllo delle complesse operazioni aeronavali facente capo strategicamente allora come adesso, a livello nazionale alla Centrale Operativa del Comando Generale delle Fiamme Gialle, mentre a minor livello di responsabilità operativa regionale, tatticamente alle Sale Operative dei Comandi di Legione, allora poste al Comando di un Colonnello della Guardia di Finanza. Ora limitare l’esame della condotta giuridicamente interessante ma incompleta al solo status giuridico del Comandante o del mezzo navale operante a difesa e sicurezza dello Stato Costiero, non lo trovo affatto aderente all’effervescente evoluzione del Diritto Internazionale del Mare, né al diritto europeo o nazionale italiano. Allora 1986, erano altri tempi, certamente diversi, e avevamo assieme a noi che seguiva l’Operazione Fidelio un Giudice Istruttore che si chiamava Giovanni Falcone, il quale ritenne legittimo l’intervento repressivo posto in essere dalle Unità Navali e militari della Guardia di Finanza in alto mare per fermare una condotta umana “allora” come adesso, internazionalmente considerata illegale. In quella operazione Internazionale di polizia giudiziaria sul mare, furono in undici i militari della Guardia di Finanza facenti parte dell’equipaggio della Motovedetta d’altura che rischiarono veramente di perdere la vita in mare, lasciando figli orfani, mogli vedove e genitori col cuore spezzato dal dolore. I Giudici condannarono il Comandante della nave Fidelio battente bandiera dell’Honduras, per aver commesso il reato tentata “distruzione di opere militari”, di cui all’art. 253 del c.p., tale è considerata dal diritto penale vigente la nave della Marina Militare o la Motovedetta di un Corpo di Polizia a ordinamento militare quale è il Corpo della Guardia di Finanza. Ora pur non pretendendo che tutti, compresi alcuni studiosi del diritto, abbiano la stessa conoscenza necessaria per poter comprendere e interpretare i singoli fatti penalmente rilevanti o meno, attirerei l’attenzione dei suoi lettori sulla lettura del citato art. 253 del Codice Penale italiano”. Non posso che comprendere e condividere l’amarezza del generale Errigo. Sono dell’idea che seppure le sentenze si debbano sempre eseguire e rispettare, non necessariamente si devono tutte applaudire. E questa sentenza, come quella del Gip di Agrigento, credo che non riuscirò davvero ad applaudirla. Anche se come servitore dello Stato non avrei esitato un solo istante ad eseguirla, nel caso mi fossi trovato a doverla applicare. E lo dico pur non essendo affatto un estimatore dell’ex ministro dell’Interno. Cui rimprovero, tra l’altro, la sua frequente assenza ai tavoli europei quando si discuteva persino di immigrazione. Oltre che il suo pericoloso (per l’Italia e per l’Europa) e superficiale atteggiamento, fatto soprattutto di proteste ma senza proposte serie e concrete, verso l’Europa. Ma spero che queste sentenze, senza attendere la tanto richiesta di una riforma epocale della giustizia italiana, possano servire da stimolo al legislatore per rapide modifiche normative. Prima che la Guardia di Finanza o le altre forze di polizia, all’incrocio di una nave straniera che sia sospetta di porre in essere una presunta violazione della legge nazionale, decidano di cambiare sistematicamente rotta o girarsi dall’altra parte. So però che questo non succederà mai. Perché la Guardia di Finanza, assieme alle altre Forze Armate e di Polizia, fa parte del meglio che il nostro Paese possa esprimere in questi strani anni della nostra storia nazionale. Ma anche questa è Italia. Prendere o lasciare. La giustizia si migliora vietando ai magistrati incarichi extragiudiziari di Carmelo Barbieri* Il Foglio, 16 giugno 2020 La politica sembra non avere idee troppo chiare e i buoni consigli per la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura e delle carriere dei magistrati si sprecano. Non c’è da stupirsi, è costume italico. Bisognerebbe, invece, che il progetto di riforma di uno dei poteri fondamentali dello Stato costituisse la sintesi politica di un serrato dibattito tecnico tra studiosi di lungo corso della materia. Il momento è talmente disorientante che servirebbe una vera e propria “fase costituente”: la riforma dovrebbe essere in grado di ritrovare e formalizzare i “significati” che abbiamo perso. Per farlo, dovrebbe generare dalla riflessione di giuristi dotati di grande autorevolezza e prestigio personale presso la comunità di riferimento e risultare il più possibile condivisa dalle categorie interessate, in primo luogo la magistratura e l’avvocatura. Ci si asterrà pertanto dall’aggiungersi alle fila dei buoni consiglieri. Soltanto una chiosa, l’argomento è dei più spinosi: il collocamento fuori ruolo dei magistrati per andare ad assumere compiti di alta amministrazione e, più in generale, gli incarichi extragiudiziari. Il tema è trattato dai più con una certa avversione, la soluzione è tranchant: vietarli. La scelta pecca di semplicismo. L’esercizio della giurisdizione e, più in generale, il diritto e la sua applicazione altro non sono che una forma di ingegneria sociale. Porre una regola e interpretarla comporta la comprensione dell’impatto che ne deriverà, degli effetti che si produrranno. L’individuazione dei bulloni da stringere e di quelli da allentare presuppone la conoscenza del fenomeno da regolare. È per questo che l’autoreferenzialità della magistratura va avversata con forza. Ne è consapevole la Commissione europea per l’efficienza della giustizia presso il Consiglio d’Europa che a dicembre 2019 ha approvato le proprie linee guida per “Breaking up judges’ isolation”. Gli incarichi extragiudiziari, se messi al riparo, con regole legislative predeterminate, da logiche corporative e clientelari, costituiscono un’importante valvola di comunicazione tra la magistratura e “i luoghi altri”. Non vanno pertanto vietati ma regolati. Dovrebbe essere compito della fonte legislativa tracciare un’organica e analitica “mappatura” degli incarichi ritenuti attinenti alla funzione giudiziaria perché in grado di contaminarla positivamente. Le esperienze che portano buon contagio vanno separate da quelle che, pur rispondendo a egoistiche esigenze dell’interessato, risulterebbero sterili per l’amministrazione della giustizia. Le prime sono da promuovere, le seconde da impedire. Alla legge dovrebbe essere poi rimesso il compito di fissare i criteri da seguire ai fini dell’apprezzamento dell’attività extragiudiziaria nell’ambito della valutazione di professionalità del magistrato. Ciò fatto, l’esperienza andrà valutata per le competenze che ha effettivamente permesso di acquisire e non svalutata o discriminata per il solo fatto di essere stata svolta al di fuori della giurisdizione domestica. Si potrà così evitare di leggere in delibere consiliari che, ad esempio, lo svolgimento di funzioni giurisdizionali presso Corti sovranazionali non costituisce un’esperienza professionale da valorizzare rispetto a quella ordinaria. C’è bisogno di ritrovare la solitudine dei magistrati, di recuperare la loro capacità di “parlare con sé stessi e con gli altri”, ma non di perseguire il loro isolamento. *Magistrato del tribunale di Milano La separazione delle carriere dei magistrati sarebbe la riforma peggiore di Gian Carlo Caselli* huffingtonpost.it, 16 giugno 2020 Il “caso Palamara” ha offerto all’opinione pubblica un quadro desolante di certe modalità di funzionamento dell’Anm e del Csm che definire distorte o pessime è riduttivo. Sono ai minimi storici la credibilità e la fiducia sia di questi organi di rappresentanza sia della magistratura stessa. L’unica via di scampo sta in radicali riforme, necessarie alla stregua dei respiratori per i malati gravi di Covid-19. Per l’avvocatura e per una certa politica (trasversale agli schieramenti) l’occasione è propizia per assestare una robusta spallata al sistema inserendovi la “separazione delle carriere” fra Pm e giudici. Senza esagerazioni o ipocrisie, va detto che in gioco c’è l’indipendenza della magistratura. La stragrande maggioranza dei magistrati italiani ha la schiena dritta: l’indipendenza (la libertà di decidere senza essere soggetto a palazzi o potentati politici, economici, culturali) la respira e la vive come elemento naturale. Per contro, la realtà di tanti altri paesi è diversa. Anni fa, invitato a Vienna come Procuratore di Palermo, incontrai alcuni Pm del pool nazionale anticorruzione e li trovai in un momento di grande euforia per una novità che consideravano “rivoluzionaria”. Dipendevano dal Ministro della giustizia e le direttive di questi sulle inchieste (se farle o non farle, fino a che punto arrivare, quali soggetti escludere...) dovevano scrupolosamente osservarle. Sempre. Ma gli “ordini” che prima erano soltanto “verbali” adesso - ecco la grande novità - dovevano essere impartiti con atto scritto da inserire nel fascicolo processuale perché ne restasse traccia. L’episodio spiega bene che la separazione delle carriere è praticamente sinonimo di dipendenza del Pm dal potere esecutivo. Nel senso che in tutti i paesi in cui (con modalità che possono essere diverse) c’è la separazione, il Pm - per legge! - deve ottemperare a ordini, direttive o indicazioni del governo. Vale a dire che poco o tanto, per un verso o per l’altro, non è indipendente. Sicuramente non è mai indipendente come nel nostro Paese. Nello stesso tempo l’episodio ci dice che sì, è vero che separazione c’è, senza scandalo né scompensi, in paesi di autentica democrazia. Ma nel nostro paese, purtroppo, si deve registrare una brutta anomalia rispetto alle altre democrazie occidentali. Non solo in Italia, anche altrove, si sono avuti personaggi pubblici inquisiti; ma solo in Italia è accaduto che l’esercizio dell’azione penale nei confronti di imputati “eccellenti” abbia determinato la contestazione in radice del processo e la delegittimazione pregiudiziale dei giudici, spesso indicati “tout court” come avversari politici. Questo invece è proprio ciò cui si assiste nel nostro Paese da quasi 30 anni. Con il dilagare anche nella politica di due idee tipicamente italiane: quella di una giustizia “à la carte”, valida per gli altri, ma mai per sé, e quella che gli interventi giudiziari si valutano non in base ai criteri della correttezza e del rigore, ma unicamente in base all’utilità per sé e per la propria cordata. In sostanza, dunque, il problema della separazione delle carriere è questo: se ancora oggi buona parte della politica ragiona così, conviene subordinare il Pm all’esecutivo? Oppure è meglio continuare con l’indipendenza del Pm, che quantomeno offre la prospettiva di una giustizia uguale per tutti e non “generosa” verso chi può e conta, ma spietata con chi non gode di un posto al sole? Da segnalare infine che il sistema italiano di indipendenza del Pm dall’esecutivo è indicato dalle competenti istanze della Comunità europea come un modello. Si può anche suicidarsi imboccando la strada opposta, ma guai a dimenticare una frase di Calamandrei che ben si può applicare pure nel nostro caso: “la libertà è come l’aria; ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”. *Magistrato Diffamazione e carcere per i giornalisti, la Consulta “pressa” la politica per una riforma di Daniele Nalbone Micro Mega, 16 giugno 2020 Lo scorso 9 giugno la Corte costituzionale, al termine di un’udienza pubblica in merito alla legittimità dell’articolo 595 del Codice penale e dell’articolo 13 della legge della stampa (47/1948) ha “invitato” il Parlamento a modificare le norme. Pur considerando necessaria “una complessa operazione di bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero” e “la tutela della reputazione della persona”, la Consulta ha rilevato l’urgenza di una rimodulazione di questo bilanciamento “alla luce delle indicazioni della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo” per tutelare adeguatamente la libertà dei media. Di fatto la Corte costituzionale ha spostato la decisione finale di un anno: se il Parlamento non avrà cambiato la legislazione entro il 22 giugno 2021 sarà direttamente la Consulta ad abolire le pene carcerarie previste per il reato di diffamazione. Palla alla politica, quindi, che dovrà accelerare la riforma calendarizzando i diversi disegni di legge in materia che attualmente sono all’esame del Senato. Attenzione, però: il rischio che questa decisione della Consulta - affidandosi alla politica - diventi un boomerang contro la libertà di stampa non è campato in aria. “Ogni nuova norma che sostituisca le pene carcerarie” avvertono dal Media Freedom Rapid Response “dovrà evitare l’introduzione di pene pecuniarie sproporzionate o irragionevoli”. E ancora: “Lo spettro di pesanti multe equivarrebbe per le emittenti e le testate giornalistiche alla minaccia di finire sul lastrico e avrebbe sui giornalisti lo stesso potenziale effetto di autocensura delle pene carcerarie”. Per leggere questa decisione della Corte costituzionale, MicroMega ha intervistato Riccardo Iacona, giornalista di inchiesta, autore e conduttore di Presa Diretta. Come legge la decisione della Corte costituzionale di rinviare la questione a un intervento legislativo del Parlamento? Il messaggio inviato dalla Corte costituzionale alla politica è sicuramente forte, in difesa del ruolo - sacro - che ha l’informazione che contribuisce, come poche altre professioni, a rendere il tessuto democratico più forte. Non esistono democrazie se si accetta una contrazione della libertà di pensiero. Un conto sono le responsabilità di chi è chiamato a fare un buon giornalismo, l’altro l’uso dei procedimenti giudiziari come mera sanzione. Io leggo nella decisione della Corte soprattutto un segnale in difesa di chi non ha le spalle forti, chi non ha dietro un editore “pesante”. Perché? Può sembrare banale dirlo, ma ci sono giornalisti con contratti “giusti”, importanti, che si possono difendere. Ma quella che è forse la parte più vivace dell’informazione è fatta da freelance, da giornalisti che lavorano per testate locali. Lo abbiamo visto anche recentemente: la “notizia” della gestione di Alzano Lombardo nasce prima sui giornali locali per poi rimbalzare sulle testate di quelli che, anche a torto, sono considerati Giornalisti con la G maiuscola. Ma quei giornalisti che hanno scoperchiato il vaso di Pandora possono difendersi con meno forza. La Corte costituzionale chiama in causa la politica: il Parlamento ha ora un anno di tempo per cambiare la legislazione. Dovrà farlo entro il 22 giugno 2021. Se entro quella data non saranno abolite le pene carcerarie attualmente previste per il reato di diffamazione, allora la Corte interverrà. C’è però un elemento da analizzare: spesso sono proprio i politici a portare in tribunale i giornalisti... In Italia si vive di conflitti e i politici, in una democrazia limitata come la nostra, non accettano l’ingerenza di altre autonomie: un giornalista che indaga su un politico è lesa maestà. La soluzione, però, ci sarebbe: inserire una penale contro le cause temerarie. Chi porta in tribunale non deve sostenere alcun costo, se non quelli legali, e non corre rischi. E siccome non costa niente, tanto conviene sparare alto per bloccare, per esempio, un’inchiesta sul nascere o la sua diffusione subito dopo la pubblicazione. La maggior parte delle cause mosse contro i giornalisti finisce in un nulla di fatto, ma intanto - magari per anni - il lavoro di un reporter è stato bloccato o quantomeno intimidito. Se invece ci fosse una penale da pagare in caso di “sconfitta”, sarebbe diverso. E si eviterebbe di affollare inutilmente le aule del tribunale. Con Presa Diretta non abbiamo avuto tante querele, ma quelle che ci sono state mosse sono morte prima ancora di arrivare al dibattimento. Però i giudici sono stati costretti a perdere tempo per accuse giudicate nemmeno meritevoli di andare a giudizio. Il rischio, però, è che per far fronte a una depenalizzazione della diffamazione si vada verso un innalzamento delle sanzioni, non crede? La sanzione economica, i risarcimenti, sono armi potenti - meno del carcere, certo - ma possono raggiungere lo stesso obiettivo: silenziare un giornalista. Esiste il diritto di replica a favore di chi è oggetto di un’inchiesta, ma dobbiamo anche dire che il giornalismo deve porsi una questione “etica”: la penna, o la telecamera, non può essere usata per infamare le persone inutilmente. Le poche volte che una simile cosa accade toglie credibilità all’intero settore: in un mondo in cui tutto è opinabile, perfino la magistratura, il giornalismo è sempre più ritenuto al servizio di qualcuno. Purtroppo, in Italia mancano gli editori puri. Il risultato è che per azzittire i giornalisti, in un momento in cui l’intero settore vive una difficile sfida economica, basta veramente poco. Prima ha fatto riferimento all’importanza dei media locali. La “rivoluzione editoriale” innescata dal web ha portato alla nascita di tantissimi siti di informazione. Secondo lei andrebbero riviste le regole del gioco alla luce del fatto che ora, per fare un giornale, basta una connessione internet e un pc? Partiamo da un presupposto: il giornalismo ha tante sfumature e non per questo è meno prezioso. Tra queste, ritengo che anche il giornalismo di propaganda abbia la sua dignità, penso ai giornali di partito che, quando ero più giovane, raccontavano una parte della realtà che altri non raccontavano, che parlavano a una comunità ben precisa. Ecco, ogni volta che viene stilata una classifica di buoni e cattivi mi vengono i brividi: non esiste un giornalismo di serie A e uno di serie B. Ed è proprio in rete che troviamo voci plurali, spesso su siti di informazione non fatti da giornalisti per come li intendevamo fino a “ieri”, ma che stanno sul territorio, seguono le storie con passione. Dall’altra parte, viviamo una stagione di continui tagli, una vera crisi. Ecco, la domanda da porci dovrebbe essere: chi dovrebbe giudicare cosa è giornalismo e cosa no? L’ordine dei giornalisti? Io direi che prima di preoccuparsi di questo, l’ordine dovrebbe rimboccarsi veramente le maniche per tutti quei colleghi - migliaia di persone - che fanno questo mestiere senza avere un giusto contratto. Per me l’importante è non superare il limite: c’è una deontologia professionale e questa va rispettata sempre e comunque, è qualcosa di non derogabile. Mai. Per concludere: può spiegare ai non addetti ai lavori come un giornalista di inchiesta si difende dal rischio di querele? E quanto questo rischio “frena” il lavoro? Per me il passaggio della rilettura o della revisione di un servizio, di un’inchiesta, per cercare di evitare querele è il più prezioso perché mi “costringe” a fare un lavoro approfondito, a raccontare le cose nella maniera più attenta possibile. Un controllo che è teoricamente volto a evitare querele, con la consapevolezza dell’impossibilità di raggiungere pienamente questo obiettivo, visto che - come detto - la querela è un “gioco facile” in Italia, ma che ne raggiunge un altro, ancora più importante: fare un giornalismo di qualità, di ricerca, di approfondimento. Ricordiamoci sempre che la realtà è a colori e non può essere raccontata in modo monocromatico. La vera sfida di un giornalista è quella di riuscire a raccontare una storia in maniera radicale, dura, per denunciare cosa non ha funzionato o non funziona, ma senza porsi altri obiettivi che non siano quelli dell’emersione del problema, primo passo per gettare le basi per le soluzioni. Prendiamo l’esempio di quanto avvenuto con il Covid e il cosiddetto “scandalo lombardo”: dobbiamo raccontare cosa è accaduto non per sete di vendetta ma per analizzare cosa non ha funzionato perché questo non si ripeta. Il giornalismo non è il bastone per colpire qualcuno. Il giornalismo deve contribuire, guardando sempre in avanti, a evitare che si muoia di nuovo per una gestione sbagliata della sanità. Che questo momento storico sia da lezione anche alla politica: quando denunciavamo la fragilità del servizio sanitario nazionale in tempo di pace lo facevamo per evitare che, in tempi di “guerra”, accadesse quanto è accaduto. Diffamazione, Malavenda: “Multe fino a 50mila € mettono in pericolo la libertà di stampa” di Liana Milella La Repubblica, 16 giugno 2020 L’avvocato che da anni difende i giornalisti è scettica sulla possibilità che il Parlamento, dopo 15 anni di fallimenti, cambi le norme come chiesto dalla Consulta. “Multe troppo salate mettono a rischio a rischio la libertà di stampa. E comunque anche quella del giornalista che non può pagare”. Dice così Caterina Malavenda, avvocato esperto di diritto dell’informazione e da anni difensore di moltissimi giornalisti. La Consulta, sulla pena del carcere per i giornalisti, ha riconosciuto che bisogna tener conto del “complesso bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione della persona”. È possibile? “Il bilanciamento è nelle cose, trattandosi di diritti costituzionali. Non vorrei che, per aiutare l’informazione eliminando la reclusione, si finisse per pregiudicarla”. In che senso? “Da anni il Parlamento, anche in linea con la Cedu, intende eliminare la pena della reclusione lasciando solo la multa per chi diffama. Scelta assolutamente condivisibile. Leggo però, dai lavori parlamentari, che la multa resterà l’unica sanzione, ma che potrà andare da un minimo di 5mila a un massimo di 50mila euro, il tetto che il codice prevede per qualunque reato, anche assai più grave”. Una somma eccessiva? “Innanzitutto l’imputato dovrebbe pagare di tasca propria. Se non ha i soldi, la pena viene convertita in libertà vigilata o in lavoro sostitutivo e gratuito, difficili da conciliare con la professione. Invece di una pena detentiva, di fatto quasi mai applicata in Italia, poi, ne scatterebbe una pecuniaria, economicamente insostenibile per chi, a volte, viene pagato poco e per giunta a pezzo. È vero che la pena può essere sospesa, ma solo la prima volta. Dalla seconda condanna in poi bisognerà pagare. Oggi la pena pecuniaria va da 516 a 2.065 euro. Solo teoricamente può arrivare a 50mila, mentre con la nuova legge questo sarebbe il reale tetto massimo. Sì, però si arriva a questa cifra solo se si pubblica consapevolmente un fatto falso... “Premesso che anche i 10mila euro previsti per casi meno gravi sono una cifra eccessiva, per aumentare la pena è stato introdotto il criterio della consapevolezza della falsità che, salvo la lettura del pensiero, potrà essere provato assai difficilmente. Si rischia, dunque, che la consapevolezza venga estesa fino a comprendere anche l’accettazione del rischio che la notizia sia falsa o, per assurdo, che la multa massima non venga applicata mai per difetto di quel presupposto”. I giornalisti dunque rischierebbero più con questa multa che non con il carcere? “Sì, perché la multa sarebbe reale, e anche molto salata, mentre il carcere oggi è solo ipotetico. E poi bisogna considerare che si somma ai risarcimenti e perfino, per i direttori, all’elevatissima sanzione introdotta per la mancata pubblicazione della rettifica, con un massimo di oltre 50mila euro. Tutte scelte contro l’ammonimento della Cedu che ritiene ogni sanzione economica elevata un ostacolo alla libertà di informazione”. Il meccanismo stringente della rettifica è accettabile? “Se si eliminasse la pena pecuniaria così elevata, potrebbe funzionare perché a una rettifica piuttosto “invasiva” seguirebbe la fine del processo penale con l’eliminazione dei rischi di multe elevate. Mi chiedo solo come si possa rettificare un’opinione non gradita”. Ma lei cosa proporrebbe allora? “Lasciare più o meno invariate le multe previste dal codice, proprio come accadrebbe se la Consulta fosse costretta a pronunciarsi perché eliminerebbe solo la reclusione”. Vede in pericolo la libertà di stampa? “Certo. Dovessi scegliere tra questi rischi e occuparmi della foca monaca, non avrei dubbi sulla scelta animalista”. Cause temerarie. La condanna a pagare un quarto del danno richiesto è una buona soluzione? “Eccellente, se verrà applicata, perché esiste già una norma generale di analogo contenuto che i giudici fanno fatica a utilizzare. Se il tribunale accerterà dolo o malafede sarà obbligato a liquidare una somma a favore di chi ha subìto una lite temeraria e a quantificarla sulle somme spesso stratosferiche chieste ai giornalisti”. Il Parlamento ce le farà ad approvare la legge sulla diffamazione dopo 15 anni di tentativi andati a vuoto? “Con questi chiari di luna sono piuttosto scettica”. Omissione versamento contributi anche se il datore in difficoltà economica paga i dipendenti Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2020 Previdenza e assistenza (assicurazioni sociali) - Contributi - Omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali - Corresponsione delle retribuzioni ai dipendenti - Scriminante dello stato di necessità - Esclusione. Non può essere affermata la scriminante dello stato di necessità da chi non versa i contributi per una mensilità e corrisponde però le retribuzioni. Il pagamento delle retribuzioni peraltro è una scelta imprenditoriale che non può far escludere il dolo da omissione mentre i versamenti per i mesi antecedenti e successivi all’inadempimento escludono lo stato di necessità. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 29 maggio 2020 n. 16433. Previdenza e assistenza (assicurazioni sociali) - Contributi - Omesso versamento di ritenute previdenziali ed assistenziali - Crisi di liquidità del datore di lavoro - Scelta del datore di lavoro di corrispondere le retribuzioni anziché versare le ritenute - Scriminante di cui all’art. 51 cod. pen. - Insussistenza - Ragioni. Il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali non può essere scriminato, ai sensi dell’art. 51 cod. pen., dalla scelta del datore di lavoro, in presenza di una situazione di difficoltà economica, di destinare le somme disponibili al pagamento delle retribuzioni, perché, nel conflitto tra il diritto del lavoratore a ricevere i versamenti previdenziali e quello alla retribuzione, va privilegiato il primo in quanto è il solo a ricevere, secondo una scelta del legislatore non irragionevole, tutela penalistica per mezzo della previsione di una fattispecie incriminatrice. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 26 agosto 2019 n. 36421. Previdenza e assistenza (assicurazioni sociali) - Contributi - Omesso versamento di ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni effettuate - Crisi di liquidità del datore di lavoro - Idoneità ad escludere l’elemento soggettivo - Insussistenza. Il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali è a dolo generico, ed è integrato dalla consapevole scelta di omettere i versamenti dovuti, ravvisabile anche qualora il datore di lavoro, in presenza di una situazione di difficoltà economica, abbia deciso di dare preferenza al pagamento degli emolumenti ai dipendenti ed alla manutenzione dei mezzi destinati allo svolgimento dell’attività di impresa, e di pretermettere il versamento delle ritenute all’erario, essendo suo onere quello di ripartire le risorse esistenti all’atto della corresponsione delle retribuzioni in modo da adempiere al proprio obbligo contributivo, anche se ciò comporta l’impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 22 settembre 2017 n. 43811. Previdenza e assistenza (assicurazioni sociali) - Contributi - Omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali - Stato di insolvenza dell’imprenditore - Reato - Configurabilità - Ragioni. Il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali (art. 2, comma primo bis, del D.L. 12 settembre 1983, n. 463, conv. con modd. in L. 11 novembre 1983, n. 638), è configurabile anche nel caso in cui si accerti l’esistenza del successivo stato di insolvenza dell’imprenditore, in quanto è onere di quest’ultimo ripartire le risorse esistenti al momento di corrispondere le retribuzioni ai lavoratori dipendenti in modo da poter adempiere all’obbligo del versamento delle ritenute, anche se ciò possa riflettersi sull’integrale pagamento delle retribuzioni medesime. • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 17 ottobre 2007 n. 38269. Campania. Le criticità del sistema carcerario di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 giugno 2020 Documento del Garante regionale e di quelli di Avellino e di Napoli. Si è evidenziata la carenza di psichiatri, una ripresa dell’attività per educatori, psicologi e volontari e lo scarso utilizzo del lavoro esterno. Mentre non finiscono le polemiche per gli avvisi di garanzia nei confronti di decine di agenti penitenziari del carcere di Santa Maria Capua Vetere finiti sotto indagine per i presunti pestaggi, oltre all’ennesima rivolta - poi rientrata e finita con i trasferimenti - dei detenuti di quel carcere, c’è stato un tavolo di confronto tra il garante regionale Samuele Ciambriello, il garante della provincia di Avelino Carlo Mele e quello locale di Napoli Pietro Ioia. Al termine di questo incontro è stato redatto il seguente documento, dal quale sono emersi diversi punti critici. Pur comprendendo la difficoltà a stabilire, anche a seguito dell’emergenza Covid19, un contatto organico con l’Ufficio di Sorveglianza è evidente una forte criticità, che si manifesta ovvero la carenza di psichiatri all’interno degli istituti di pena. Si è rilevato che con l’aumento di trattazione dei numeri dei processi penali e il conseguente accesso dei testimoni, impedire agli avvocati di accedere alle cancellerie degli uffici di sorveglianza continua a rappresentare una “paralisi” dell’attività giudiziaria, ed in particolare di tutta l’attività connessa alla fase esecutiva. Così come la decisione di non consentire una ripresa all’interno degli Istituti penitenziari, del personale specializzato (educatori, psicologi, volontari etc.) non garantisce una effettiva ripresa dell’attività propedeutica per la valutazione dei presupposti necessari per la corretta trattazione delle udienze dinanzi al Tribunale di Sorveglianza e/ o il Magistrato di Sorveglianza. I Garanti hanno anche espresso la necessità di fare il punto sull’ormai cronica penuria delle figure professionali in ambito trattamentale nella direzione di un loro potenziamento (basti pensare che allo stato, su oltre settemila detenuti vi sono circa 65 Fgp (Funzionari Giuridico Pedagogici) sugli Istituti penitenziari per gli adulti. Anche il lavoro esterno è carente. Nello specifico è emerso, da parte di tutti i convenuti, il potenziale di sviluppo di questo tipo di misura alternativo al carcere che in Campania è scarsamente utilizzato (solo 133 persone su una popolazione di 7872 detenuti presta servizio in imprese o in cooperative esterne agli Istituti di pena). Per quanto attiene il cosiddetto lavoro di pubblica utilità sono state registrate numerose richieste da parte di svariate amministrazioni a cui non sfugge di certo la ricaduta positiva nei diversi territori. Al riguardo è stato rilevato che spesso le Amministrazioni pubbliche, pur essendo fortemente interessate all’utilizzo di questo strumento legislativo (lavori di pubblica utilità), lamentano una scarsità di risorse finanziarie anche solo per coprire la modesta somma (poche centinaia di euro) che serve ad assicurare i soggetti detenuti coinvolti nei lavori esterni al carcere. Tutti i presenti, Ciambriello, Ioia e Mele si sono dichiarati a favore della permanenza dei dispositivi tecnologici (pc tablet per skype e WhatsApp) utilizzati durante il periodo di sospensione dei colloqui dettato dall’emergenza Covid, ritenendo quest’ultimi un importante strumento di comunicazione non solo nei confronti dei propri familiari, ma anche e soprattutto rispetto all’utilizzo didattico, formativo. Fattori, quest’ultimi che vanno a rinforzare il trattamento di risocializzazione della persona ristretta. Campania. Quanto è difficile curarsi nelle carceri di Viviana Lanza Il Riformista, 16 giugno 2020 Isolato a Poggioreale un detenuto positivo alla scabbia, ma è boom di malattie cardiovascolari e disturbi psichici. Il personale sanitario è diminuito del 23% in un anno: servono medici e infermieri per scongiurare un’altra emergenza. Molte patologie e pochi medici, la salute in carcere continua a essere un problema. Cardiopatie e sindromi da ansia e depressione sono tra le principali patologie riscontrate nel carcere di Poggioreale. Ipertensione, ansia e diabete affliggono invece la maggior parte dei detenuti del carcere di Secondigliano. Ansia e depressione sono i mali contro cui si combatte anche nel carcere femminile di Pozzuoli e in quello di Santa Maria Capua Vetere di recente al centro dell’attenzione giudiziaria, politica e mediatica per effetto dell’inchiesta sui presunti pestaggi in cella. Il 4% dei detenuti è affetto da disturbi psichici contro l’1% della popolazione generale. La depressione colpisce il 10% dei reclusi mentre il 65% convive con disturbi della personalità. Nell’ultima relazione sulle carceri campane del garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello spiccano, al primo posto tra le patologie più sofferte dai detenuti, i disturbi psichici nella duplice chiave di lettura di causa ed effetto dello stato di restrizione. A seguire si riscontrano i disturbi cardiocircolatori e gastroenterologici e le patologie infettive. Pochi giorni fa, nel carcere di Poggioreale, si è scoperto un caso di scabbia, malattia infettiva della pelle particolarmente contagiosa. Immediatamente il detenuto in questione, che si trovava recluso nel padiglione Milano, è stato isolato ed è scattata la profilassi. Sebbene si sia riusciti ad arginare con tempismo l’episodio, quello della tutela della salute in carcere, a Poggioreale come negli istituti di pena campani, resta un tema centrale. La politica sembra interessarsene ma solo dopo, quando il fatto o il dramma si è già consumato. Le direzioni penitenziarie affermano di compiere sforzi a fronte di mezzi e risorse non sempre sufficienti. E nei principali dibattiti del Paese la questione carcere in genere la grande esclusa, salvo riesumarla all’occorrenza, magari quando occorre raccogliere consensi elettorali. Accanto a quello delle patologie più direttamente legate alla carcerazione, come ansia e depressione, c’è il tema delle patologie pregresse che in cella rischiano di acuirsi se non affrontate nei tempi giusti. Già, il tempo. Gioca sempre un ruolo determinante, anche quando si parla di salute e carcere. La maggior parte dei medici che lavorano negli istituti di pena ha contratti a tempo determinato, con scadenze variabili da un mese a un anno, e questo comporta un turnover frequente, “rallentando il processo di presa in carico” come evidenziato nella relazione del garante Ciambriello. I numeri aiutano a descrivere la realtà chiusa all’interno delle mura carcerarie. In Campania, al 31 dicembre 2019, erano in servizio 344 unità di personale sanitario a fronte di 7.412 detenuti. In particolare, 108 medici di reparto, 189 infermieri, 7 tecnici di riabilitazione, 17 psicologi, 23 psichiatri. Numeri che hanno fatto registrare, rispetto all’anno precedente, una diminuzione del 23%. Psichiatri e psicologi, pur essendo tra il personale con più contratti a tempo indeterminato, non bastano. “A tal proposito - si legge nel report - sembra essere violato l’articolo 11 dell’ordinamento penitenziario che in particolare prevede almeno uno specialista in psichiatria”. In media, in carcere, i medici fanno 70 visite giornaliere a cui si aggiungono controlli e dimissioni, il che comporta una mole di lavoro eccessiva che può mettere a rischio la salute della popolazione reclusa e l’incolumità professionale. Non va meglio per quanto riguarda la gestione dei detenuti con disabilità. Nel 2019, nelle varie carceri della Campania, ci sono stati 159 detenuti disabili ma solo 7 tecnici della riabilitazione. È chiaro che l’assistenza non può essere garantita a tutti, o almeno non in maniera sufficiente. E se si considerano anche, come nel caso della maggioranza degli istituti di pena, limiti strutturali dovuti a un’edilizia penitenziaria inadeguata, la situazione inevitabilmente sfocia in una criticità seria. Campania. L’indignazione non basta, la riforma del 2008 c’è e dev’essere applicata di Viviana Lanza Il Riformista, 16 giugno 2020 Il parere di Francesco Ceraudo. Recuperare “una cultura del carcere” e investire per rimediare a una riforma della medicina penitenziaria “che è una riforma tradita, purtroppo violentata nello spirito più concreto di applicazione”. Francesco Ceraudo, pioniere della medicina penitenziaria, già direttore del centro clinico di Pisa quando questo era un’eccellenza che veniva presa a modello anche a livello internazionale e presidente del Consiglio internazionale dei servizi medici penitenziari, accetta di commentare con Il Riformista un tema centrale e delicato come quello della salute in carcere. “La riforma del 2008 prevedeva il passaggio totale delle competenze dal Ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale. Ed è stato allora che sono cominciati i problemi”, spiega Ceraudo. “Vi era la piena consapevolezza di trovarci di fronte a una riforma epocale, che avrebbe prodotto finalmente risultati importanti e significativi assicurando la tutela della salute della popolazione detenuta. Una tappa di civiltà attesa da anni, anche in aderenza alle direttive emanate ripetutamente dalla Comunità Europea”. E invece? “Invece dopo dodici anni registriamo con viva preoccupazione risultati fallimentari - dice con amarezza - La riforma della medicina penitenziaria, che era basata su principi molto seri, è fallita nel modo più assoluto. In tutte le regioni”. Puntando la lente sulla Campania, il professor Ceraudo osserva: “In una regione difficile e da prima linea come la Campania, con il presidente De Luca che ha dovuto fare le corse per ripianare i debiti della sanità, si è in condizioni di investire seriamente nella medicina penitenziaria?”, si interroga. E dal tono si intuisce una risposta negativa. “È crollato tutto - aggiunge - perché oggi gli operatori hanno paura, preferiscono una medicina difensiva a una medicina di opportunità e di iniziativa. In alcuni istituti mancano addirittura farmaci salvavita, talvolta persino il carburante per gli automezzi della polizia penitenziaria per accompagnare un detenuto in ospedale e alcuni centri clinici dell’amministrazione penitenziaria che dovevano gestire determinate quote di patologia medica sono andati in tilt”. Perché? Secondo Ceraudo, “non c’è stata la cultura del carcere da parte delle Asl e la sanità penitenziaria risulta gestita da gente che non ha mai messo piede nel carcere”. “La cosa grave - osserva - è che i medici penitenziari, che avevano portato la medicina penitenziaria in una posizione ambita in tutto il mondo, ora sono in posizione marginale, non contano più nulla e la maggior parte ha sbattuto la porta ed è andata via. Attualmente c’è un turnover spaventoso perché in queste condizioni non vuole lavorare più nessuno”. Una soluzione c’è? “Bisogna necessariamente cambiare passo - afferma Ceraudo - D’altra parte registriamo un’amministrazione penitenziaria in grande affanno, arroccata a difendere oltre ogni limite il concetto esasperante della sicurezza senza cogliere l’occasione irripetibile della riforma per avviare un processo di modernizzazione e di riqualificazione delle proprie strutture”. Cultura del carcere e investimenti, ecco la proposta. “Di fronte al dramma carcere non basta l’indignazione a placare le inquietudini e le ansie della nostra coscienza, ma occorre agire concretamente. La riforma della medicina penitenziaria - aggiunge Ceraudo - per essere credibile deve essere realizzata con i medici e gli infermieri penitenziari e tanto meglio funzionerà quanto più sarà condivisa. La riforma deve essere applicata, indietro non si può tornare”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). “Caro amore mio, oggi sono entrati con i manganelli...” di Rita Bernardini Il Riformista, 16 giugno 2020 L’inchiesta sulla Polizia penitenziaria, le rivolte, la politica. Matteo Salvini è andato a dare manforte alle decine di agenti di polizia penitenziaria raggiunti da un avviso di garanzia per i presunti pestaggi avvenuti il 5 aprile scorso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Immediatamente gli ha fatto eco Giorgia Meloni gridando al vergognoso affronto nei confronti degli agenti. Insomma, la sostanza è questa: o ti schieri con le “guardie” o ti schieri con i “ladri”, altre posizioni non possono essere prese in considerazione. A fronte di decine di denunce presentate da detenuti, garanti e associazioni, e in un Paese ove vige l’obbligatorietà dell’azione penale, secondo la coppia Salvini & Meloni la Procura avrebbe dovuto infischiarsene. Salvini e Meloni sono del resto coerenti con il loro credo politico tanto che avevano votato contro l’introduzione nel nostro ordinamento del reato di tortura, avvenuta nel 2017 a 33 anni di distanza dalla ratifica da parte del nostro Paese della relativa Convenzione Onu. Responsabili del clamoroso ritardo, quindi (è giusto non addossare la colpa ad una sola parte), sono stati tanto i governi di centro-destra, tanto quelli di centro-sinistra. Sono peraltro convinta che il duo in questione non faccia un buon servigio nemmeno alla causa degli agenti perché se ci sono - e ci sono - alcuni di loro adusi a violare la legge con le maniere forti (un’infima minoranza), la stragrande maggioranza dei componenti del corpo è sicuramente sana. Isolare i violenti è fondamentale per l’onorabilità e la credibilità del corpo. Non ostacolare le indagini in corso dovrebbe essere l’opera di tutti, altro che salire sui tetri del carcere come hanno fatto alcuni poliziotti rivoltosi (è il caso di dirlo!) ai quali era stato notificato l’avviso delle indagini in corso! Le strumentalizzazioni alla Salvini è molto probabile che portino voti, ma ritengo che vadano a detrimento della professionalità del corpo degli agenti penitenziari perché se è vero che il loro compito è quello di mantenere l’ordine e la sicurezza è vero anche che la loro funzione è determinante per cercare di attuare il principio costituzionale della rieducazione. Quanti ne ho conosciuti di agenti capaci di mettere in piedi l’organizzazione di lavorazioni, eventi o corsi in cui i detenuti possono dedicarsi ad un’attività che li salvi dall’alienazione della vita carceraria fatta esclusivamente di cella e ora d’aria! E quanti di loro riescono a stare vicini ai detenuti nei momenti di scoramento, quando per esempio sono preoccupati e ansiosi per qualche evento spiacevole che ha riguardato figli o loro parenti stretti. Perché se c’è una figura professionale che è sempre presente è proprio quella degli agenti: in alcune carceri trovare educatori, psicologi e, spesso, anche direttori o un medico o un infermiere, è impresa impossibile e questo per scelte dissennate dell’Amministrazione centrale e del Ministero della giustizia in generale. Sugli eventi di quei giorni tra il 5 e il 6 aprile ho personalmente ricevuto una lettera, fra le tante, che mi ha particolarmente colpito. Scrive un detenuto a sua moglie “Caro amore mio, oggi è 18 aprile e ti scrivo per dirti che non sto molto bene e non so nemmeno come mandarti questa lettera in quanto non le fanno partire... sto vedendo se esce qualcuno per fartela avere. Amore, qui il giorno 6 aprile ci hanno fatto le perquisizioni a tutto il reparto, ma non solo questo. ci hanno distrutto le celle con parecchie cose che avevamo comprato noi stessi. Per colpa di qualche sezione a rimetterci sono state anche le altre e, sezione per sezione, sono venuti quasi 100-150 persone di Polizia penitenziaria con i manganelli e si sono messi tutti in fila per il corridoio dopo che ci hanno distrutto le celle e poi cella per cella ci spedivano in saletta e mentre camminavano per il corridoio ci hanno distrutti di manganellate. Calcola che io amò sto pieno di lividi dappertutto. Ma non è finita, stanno ancora continuando a fare abusi sui detenuti: all’improvviso viene la squadretta e portano i detenuti giù e li gonfiano di mazzate. In poche parole amò io non ce la faccio più a subire tutte queste violenze. Per i troppi lividi che ho addosso non ce la faccio nemmeno a sedermi sulla sedia. Poi l’infermiera non ci chiama per farci refertare per paura delle guardie... Comunque amò io ho ancora tante cose da raccontare, se parte la denuncia finirò di raccontare”. Le indagini della magistratura accerteranno se ci siano stati dei pestaggi a freddo o se, invece, le manganellate e altri tipi di violenze siano state l’inevitabile risposta di agenti chiamati a sedare una rivolta (o manifestazione di protesta) che i detenuti avevano inscenato dopo aver saputo che il Covid-19 aveva colpito l’addetto alla distribuzione della spesa: da quel che riporta la stampa sembra che la protesta sia velocemente rientrata, mentre il giorno dopo ci sarebbe stata l’aggressione dei “caschi blu”, cioè di agenti penitenziari con il volto coperto da un casco. Dall’inizio di marzo, come Partito Radicale e Nessuno Tocchi Caino, avevamo fatto di tutto per convincere il Dap e il Ministro della Giustizia a dialogare con la comunità penitenziaria nel prendere le misure necessarie per affrontare la pandemia. Purtroppo, o non siamo stati noi convincenti o, dall’altra parte, c’è stata la presunzione di conoscere il carcere e le dinamiche che si sviluppano in una comunità “reclusa” costantemente bombardata dai bollettini di morte diffusi dalle televisioni. Quanto alla violenza delle rivolte, credo che sia l’ovvia conseguenza che si manifesta quando viene a mancare qualsiasi forma di dialogo e quando si vogliono imporre soluzioni drastiche - come quella del divieto dei colloqui con i familiari - senza dare alcuna spiegazione. Per non parlare del panico che può scatenarsi a seguito dell’assillante campagna dei media sul distanziamento sociale, sull’uso delle mascherine e dei disinfettanti scaraventata in un ambiente come quello penitenziario dove manca lo spazio vitale per muoversi, i luoghi sono malsani, l’assistenza medica è una chimera e persino il personale di ogni ordine e grado viene privato degli essenziali strumenti sanitari di difesa personale. Si parla spesso delle regole trasgredite dalla popolazione detenuta: Giletti a “Non è l’Arena” ha fatto l’elenco dell’aumento incredibile in 9 anni (dal 2010 al 2019) delle aggressioni agli agenti, del rinvenimento di telefonini e stupefacenti, delle infrazioni disciplinari e della violazione di norme penali. Il problema è che non sono mai rilevati i dati sulle regole e norme infrante dall’Amministrazione Penitenziaria: basterebbe prendere il codice penitenziario, leggerlo articolo per articolo, per accorgersi di come l’illegalità regni sovrana nelle patrie galere. Per lo Stato italiano difficilmente c’è chi paga per le violazioni di legge, anche se si tratta della legge suprema, come il comma 4 dell’art. 13 della Costituzione che recita “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Ottenere un po’ di trasparenza sul pianeta carcere sarebbe un passo decisivo per ridurne il tasso di violenza e di fabbricazione del crimine. Ferrara. Tre agenti carcerari accusati di tortura: “Qui comando io” La Repubblica, 16 giugno 2020 Richiesta di rinvio a giudizio per aver agito con “crudeltà e violenza grave”. I tre agenti di polizia penitenziaria accusati del reato tortura ai danni di un detenuto, nel carcere di Ferrara avrebbero agito “con crudeltà e violenza grave” approfittando “della condizione di minorata difesa derivante dall’averlo ammanettato”. È quanto contesta la Procura nella richiesta di rinvio a giudizio, firmata dal pm Isabella Cavallari. “Qui non c’è nessuno, comandante e ispettore sono solo io”. Le parole sarebbero state di uno dei tre agenti della Penitenziaria accusati a Ferrara di aver torturato un detenuto, facendolo spogliare e picchiandolo. La frase, riportata nella richiesta di rinvio a giudizio, secondo la Procura sarebbe stata pronunciata da uno dei tre, un sovrintendente, dopo che la vittima, da lui colpita ripetutamente anche con un oggetto di ferro, aveva invocato il comandante di reparto del carcere. A quel punto sarebbe entrato nella cella il secondo agente, un assistente capo, dicendo: “Ora tocca a me”. Anche lui quindi avrebbe iniziato a picchiare e insultare il detenuto, seguito dal terzo agente, che ha fatto anche da palo. Secondo quanto ricostruito dall’accusa, il sovrintendente e due assistenti capo della Penitenziaria, difesi dagli avvocati Alberto Bova e Giampaolo Remondi, si sarebbero infatti alternati nel fare da palo nel corridoio, in occasione di una perquisizione eseguita arbitrariamente dentro la cella dove si trovava recluso in isolamento il detenuto, 25 anni. Prima il sovrintendente, dopo avergli fatto togliere maglia e canottiera, lo avrebbe fatto inginocchiare, quindi colpito con calci allo stomaco. Poi gli avrebbe fatto togliere scarpe e calzini, lo avrebbe ammanettato continuando a colpirlo su stomaco, spalle e volto e poi anche con un ferro di battitura. A quel punto la vittima avrebbe reagito, con una testata, rompendo gli occhiali all’agente, che lo ha minacciato e lo ha colpito ancora, fino a spaccargli un dente. Il detenuto allora ha chiesto aiuto, ma l’agente lo avrebbe minacciato alla gola con un coltello rudimentale, passatogli da un collega. Finite le percosse dei tre, la vittima è stata lasciata ammanettata fino a quando non è stata notata dal medico del carcere, durante il giro tra le sezioni. Gli indagati rispondono anche di lesioni e a vario titolo di falso e calunnia, per aver scritto nei rapporti, in sostanza, che il detenuto si era opposto alla perquisizione e li aveva aggrediti. Napoli. Poggioreale, nuova epidemia: detenuto con la scabbia in isolamento di Viviana Lanza Il Riformista, 16 giugno 2020 Un detenuto nel padiglione Milano, nel carcere di Poggioreale, è risultato positivo alla scabbia e ora si trova in isolamento. Alla luce di questo episodio, il Riformista ha approfondito il tema della sanità negli istituti penitenziari della Campania nei quali risultano in aumento le malattie cardiovascolari e soprattutto i disturbi della personalità che affliggono circa il 65% dei detenuti. Nonostante ciò e a dispetto dell’emergenza-Covid che le ha investite, nelle carceri della Campania scarseggia il personale medico e infermieristico che, tra il 2018 e il 2019, si è ridotto addirittura del 23%. In altri termini, quasi un medico o infermiere su quattro ha dato forfait evidenziando così le già chiare carenze sotto il profilo dell’organico sanitario: come si fa a garantire il diritto alla salute di circa 7mila detenuti quando si può contare sulle forze di meno di 350 unità di personale medico e infermieristico? A complicare il tutto ci pensa il fatto che molti medici sono assunti con contratto a tempo determinato: di qui il continuo turn-over che allunga i tempi di presa in carico dei pazienti detenuti. Sul punto il Riformista, oltre a evidenziare la necessità di assumere personale sanitario, ha raccolto il parere dell’esperto Francesco Ceraudo traendo una serie di spunti di riflessione e di proposte utili. A cominciare da quella sul passaggio di competenze dal Ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale: “Bisogna attuare la riforma del 2008 - dice Ceraudo - garantendo medici e infermieri negli istituti di pena, oltre che farmaci salvavita e quanto occorre per assicurare il diritto alla salute dei detenuti”. Livorno. Nuova vita nell’isola-carcere di Gorgona di Federica Olivo huffingtonpost.it, 16 giugno 2020 Chiuso il mattatoio, ai detenuti la cura di animali e natura. Accordo tra Ministero Giustizia, Dap e Ente parco Arcipelago toscano. Il sottosegretario Ferraresi ad HuffPost: “Cambiamo il paradigma del lavoro dei reclusi, così l’istituto diventa un modello”. Qualche anno fa erano stati gli stessi detenuti a cambiare il loro atteggiamento verso gli animali. Non accettavano più l’idea di doverli accudire, aiutare a crescere, a volte dare loro anche un nome, e poi macellarli nel mattatoio della struttura. Così, i reclusi del carcere di Gorgona - un’isola dell’arcipelago toscano, dove nel 1869 è stato aperto un penitenziario - hanno chiesto di salvarli. Il tempo è passato, e pochi mesi fa il cambiamento è arrivato. Quel macello è stato chiuso e i detenuti potranno dedicarsi ad altre attività: dall’orticoltura al turismo sostenibile, dalla conservazione dei boschi alla cura degli animali, fino a un vigneto autogestito e alla formazione di competenze manageriali in vista del fine pena. Alcuni progetti esistevano già prima, altri invece sono partiti di recente, altri ancora prenderanno il via a breve. E proprio in questo senso va l’accordo quadro che oggi il ministero della Giustizia e il Dap hanno realizzato con l’ente parco dell’Arcipelago toscano. “Abbiamo pensato di voler cambiare il paradigma delle attività lavorative che i detenuti svolgevano sull’isola - spiega ad HuffPost il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, che da un anno si sta occupando della ‘svolta’ nel penitenziario toscano, dove da sempre i detenuti svolgono varie attività all’esterno - passando così da un lavoro come quello della macellazione che, nei fatti, implica la violenza, a mansioni che comportino una particolare empatia con gli animali. Con il valore aggiunto di dare l’opportunità ai detenuti di imparare un mestiere che tornerà loro utile una volta terminata la pena”. Una decisione, questa, che non cambia solo il quotidiano dei detenuti: “Annullando l’attività di macellazione ci sarà anche un importante risparmio di risorse, si potenzierà l’orticoltura già esistente e, soprattutto, si inquinerà di meno”, spiega ancora Ferraresi. I ristretti avranno anche un ruolo di primo piano nel settore del turismo locale. La collaborazione con l’ente parco porterà all’avvio, si legge in una nota entro il mese prossimo, di interventi di manutenzione dei sentieri e del patrimonio boschivo. Tutto fatto dai reclusi. Per queste opere il parco fornirà un finanziamento di quasi 90mila euro. Saranno utilizzati anche gli introiti dei ticket d’ingresso dei visitatori. “Stiamo lavorando poi - conclude il sottosegretario - anche a un cambiamento nell’approvvigionamento energetico dell’isola, per fare in modo che diventi un vero e proprio esempio di recupero”. L’obiettivo, al quale partecipano anche, oltre all’ente parco, l’Università di Firenze, il comune di Livorno e l’azienda locale di arrivare all’autonomia energetica dell’isola. Sarebbe un balzo importante verso una svolta green. “Pensi che al momento ancora si utilizza il gasolio”, spiega ad HuffPost Giovanni De Pippo, il garante dei detenuti di Livorno, penitenziario di cui Gorgona è sede distaccata. Poi racconta: “Da tempo tra i detenuti era molto sentita l’idea di riscattare gli animali che, invece, erano destinati alla macellazione. Non a caso avevano chiesto al direttore la ‘grazia’ per alcuni di loro”. Non era solo un gesto simbolico: “Chi era ristretto percepiva nell’animale sottratto alla macellazione la salvezza. Ne ho parlato al sottosegretario Ferraresi quando l’ho incontrato anche perché con il direttore del penitenziario avevamo compreso che la cosa oltrepassava l’aspetto etico. Poteva diventare importante anche da un punto di vista ambientale, e fare bene all’isola”. Usa il termine rivoluzione il garante, parlando del progetto: “Lo è. Sia anche da un punto di vista economico ed ambientale”, conclude. Nei prossimi giorni alcuni dei 450 animali che erano presenti sull’isola, inizialmente destinati alla macellazione, saranno trasportati dalla Lega antivivisezione sulla terraferma. L’attività lavorativa dei detenuti sarà monitorata anche dall’Università Bicocca di Milano, che ha fatto dell’esperienza di Gorgona un caso studio. Che un cambio di rotta nelle attività dei reclusi nell’isola fosse necessario era chiaro a Carlo Mazzerbo, direttore del penitenziario. “L’isola non si presta a un’attività zootecnica. Abbiamo quindi pensato di destinare le risorse al momento utilizzate per il mantenimento degli animali ad altre finalità. Per le quali Gorgona è più vocata”, racconta. Quali conseguenze? Non solo i costi più bassi, spiega il direttore, ma una formazione migliore, e più costante, per i detenuti. Sulmona (Aq). Nel nuovo ospedale un reparto per detenuti cityrumors.it, 16 giugno 2020 “Nel nuovo ospedale di Sulmona verrà realizzato un reparto per detenuti che, grazie a una variante, sarà migliorativo rispetto a quanto già previsto nel progetto originario”. Lo ha reso noto il Manager della Asl, Rinaldo Tordera, spiegando che “nel recente incontro con i vertici del carcere di Sulmona i nostri tecnici hanno preso atto delle richieste prospettate dalla direzione del penitenziario e l’hanno recepite negli atti progettuali. Il nuovo reparto per detenuti sarà quindi realizzato, all’interno del nuovo ospedale attualmente in costruzione, proprio in base alle necessità degli operatori penitenziari che devono accompagnare le persone ristrette bisognose di assistenza”. “Nello specifico, verranno realizzate 2 stanze di degenza riservate a detenuti, rispettivamente con uno e due posti letto nonché bagni annessi, e una terza stanza, anch’essa dotata di servizi igienici, che accoglierà il personale di sorveglianza addetto al piantonamento. Il reparto di cui parliamo sarà collocato al terzo piano del nuovo ospedale, in una posizione vicina alle scale d’emergenza, e avrà una superficie di circa 70 metri quadrati che, tra l’altro, comprenderanno anche una piccola anticamera”. “Avremmo potuto limitarci - conclude Tordera - ad attuare quanto previsto dal progetto iniziale, sicuramente meno adeguato alle necessità degli agenti penitenziari e con soluzioni logistiche meno efficaci; invece siamo andati oltre, ascoltando e accogliendo appieno le richieste avanzate dalla direzione dell’istituto di pena”. Torino. Per i detenuti della Vallette 1.300 kit anti-contagio da Covid di Cinzia Gatti torinoggi.it, 16 giugno 2020 Donati dal Fondo Musy: all’interno 3 mascherine lavabili e una sacca per il bucato. I carcerati positivi sono stati in tutto 78. Un kit contro il contagio da Covid per i detenuti del carcere “Lorusso e Cutugno”. Grazie ad una donazione di circa 15 mila euro, il Fondo Alberto e Angelica Musy, ha donato alla casa circondariale 1.300 set - composti da 3 mascherine lavabili e una sacca per il bucato. I carcerati positivi al Coronavirus sono stati in tutto 78, di cui 24 sono rimasti in istituto. Per scongiurare ulteriori contagi è stato ridotto temporaneamente il numero dei presenti, passati dai 1.460 del 9 marzo ai 1.312 dell’8 giugno. A causa del lockdown sono state sospese le visite dei famigliari ai carcerati. Gli indumenti sono stati quindi lavati dentro la struttura, con difficoltà a separarli, raccoglierli e riconsegnarli. Per rispondere a questa esigenza il Fondo Musy ha pensato ad una sacca ad hoc in rete dotata di zip capace di permettere il passaggio in lavatrice senza disperdere il contenuto. Il materiale contenuto nel kit è realizzato dalle donne detenute ed ex-detenute che lavorano nelle Cooperative Sociali Patchanka e Impatto Zero attive nel progetto LEI. “La pandemia - spiega Angela Musy - non ha risparmiato gli istituti penitenziari. Anzi, ne ha stravolto le abitudini, i protocolli di sicurezza, l’organizzazione. Non ci siamo fermati e abbiamo provato a fare qualcosa, pur nel nostro piccolo, per alleviare qualche difficoltà, dare qualche strumento utile per sentirsi più sicuri e curati”. Reggio Emilia. Mascherine confezionate dai detenuti per i bambini dell’Uganda di Antonella Barone gnewsonline.it, 16 giugno 2020 Sono i bambini i destinatari delle nuove iniziative promosse nel carcere di Reggio Emilia dall’associazione Gens Nova, in collaborazione con il direttore Gianluca Candiano e con la comandante commissario capo Rosa Cucca. I bimbi della missione di Apeitolim, in Uganda (guidata dal missionario comboniano Marco Canovi) e i piccoli pazienti dell’ospedale “Regina Margherita” di Torino riceveranno delle mascherine realizzate appositamente per loro, a titolo di volontariato, dai detenuti dell’istituto reggiano. L’iniziativa si deve alla referente dell’associazione Gens Nova Anna Protopapa che, entrata in contatto con la realtà del carcere nel pieno dell’emergenza sanitaria da Covid-19, non ha smesso da allora di lavorare alla creazione di reti solidali che coinvolgano anche i detenuti. “Circa due mesi fa - racconta - mi sono attivata sul territorio reggiano per donare dispositivi di protezione individuale (Dpi) alle forze dell’ordine e ad alcune realtà, tra cui la casa circondariale. Durante l’incontro con il comandante Cucca è emersa la necessità di tutto l’istituto di disporre di ingenti quantità di Dpi. Da qui l’idea di far confezionare mascherine ai detenuti”. Immediata l’adesione di alcuni detenuti, con l’allestimento di un laboratorio in pochi giorni grazie alla disponibilità della direzione. Le macchine da cucire sono state fornite da alcune canoniche del circondario, mentre i materiali sono stati donati da alcune aziende. “Il mio impegno principale- continua Anna Protopapa - è stato quello di reperire materie prime facendo appello alla generosità di imprenditori, commercianti, privati. Abbiamo ricevuto un riscontro positivo non solo da realtà del luogo, ma anche dal Molise, Marche, Veneto. Ad oggi il materiale reperito attraverso tante piccole donazioni di tessuti è corrispondente a circa ventimila mascherine”. Le mascherine per i bambini della missione di Apeitolim sono realizzati in tessuti a fantasie colorate, mentre quelle per i pazienti dell’ospedale Regina Margherita di Torino sono in tinta unita e accompagnate da un pennarello per tessuti, per consentire ai piccoli di “personalizzarle”. Bambini a latitudini diverse, con in comune il bisogno di attenzione, protezione e allegria. “L’iniziativa - conclude Protopapa - ha ricevuto espressioni di riconoscenza e benevolenza da Papa Francesco che per me hanno avuto un grande valore e mi hanno incoraggiato a perseguire la realizzazione di altri progetti lungo questa strada”. Frosinone. Carcere e solidarietà, fino alla Protezione Civile di Simona Aiuti frosinone.italiani.it, 16 giugno 2020 Carcere e solidarietà possono viaggiare uniti. Al riguardo, un gruppo di detenuti della casa circondariale “Pagliei” di Frosinone; ha effettuato una donazione a favore della Protezione civile. Ciò “allo scopo di contribuire, per spirito di solidarietà, alle esigenze dei più bisognosi; in questo periodo di emergenza sanitaria”. Questo è quanto si legge nella nota a firma della direttrice dell’istituto; dr.ssa Anna Del Villano. Essere in un carcere non sempre è l’anticamera dell’oblio. Per via dei fatti di cronaca e non solo; siamo portati a essere estremamente diffidenti verso chi è in carcere. Temiamo che chi esca sia pronto a delinquere ancora, poiché purtroppo ciò accade, eppure “dietro le sbarre”; spesso nascono e si sviluppano gesti di grande solidarietà. Vi sono uomini e donne che da dietro quelle mura che non possono valicare; vedono il mondo che va avanti. E attraverso la televisione, impotenti si prende visione delle tragedie; che continuano a flagellare il paese. Ragion per cui, c’è chi avendo fuori delle famiglie; vuole fare la propria parte e dare un contributo. Anche detenuti della casa circondariale di Frosinone hanno partecipato in modo sensibile; ad effettuare una piccola donazione. Il gesto è stato del tutto volontario, “affinché la somma da noi raccolta; possa essere messa a disposizione per i più bisognosi o per ricerche, affinché il nostro piccolo e sentito aiuto possa contribuire ad andare ad affrontare; quelle che sono le più disparate esigenze. (…) che in questo momento necessitano le strutture di assistenza sanitaria; della provincia di Frosinone. Nella speranza che a breve tutto torni alla normalità”. Lo schiaffo feroce che abbiamo subito dal #Covid19 è stato terribile, e tutti abbiamo cercato di dare una mano. La protezione civile del Comune di Frosinone, coordinata da Marco Spaziani con il supporto del responsabile dei volontari; Massimiliano Potenti, ha dunque inviato la nota, relativa alla donazione effettuata dai detenuti, alla segreteria del Capo Dipartimento, Angelo Borrelli. Quest’ultimo, appena qualche giorno dopo; ha voluto sottolineare l’”apprezzabile iniziativa dei detenuti della Casa Circondariale. Voler destinare una donazione in denaro, a favore del Dipartimento della protezione civile; quale contributo per fronteggiare l’evoluzione dell’emergenza Covid-19 è stato molto apprezzato. Il contributo devoluto sarà finalizzato all’acquisto di materiale sanitario medicale; per dotare le strutture sanitarie della Protezione Civile, di tutto ciò che è necessario per la salvaguardia delle vite umane. Dall’inizio dell’emergenza sanitaria, la macchina comunale; ha attivato l’erogazione di servizi specifici e mirati. Tutti servono per attenuare i disagi connessi; alla diffusione del Covid-19. Ci sono da tempo, una serie di misure; per offrire supporto a tutti i cittadini. Allo scopo di rendere il più agevole possibile la fruizione dei nuovi servizi; sia a favore delle persone direttamente colpite dal contagio, sia dei nuclei familiari si è lavorato molto. Sono disponibili anche linee telefoniche dedicate e unità di personale e di volontari sempre reperibili. Dal 31 gennaio inoltre, data della prima attivazione del Centro Operativo Comunale, ad oggi; sono stati impiegati 416 volontari, tra le donne e gli uomini del gruppo Comunale di Protezione civile; con attività di presidio del territorio, informative, di supporto, assistenza e consegna medicinali e generi di prima necessità. Colonie penali agricole sarde: una storia che rivive di Anna Toro Vita, 16 giugno 2020 Grazie al progetto di formazione professionale “Liberamente” i racconti e le memorie dei detenuti tornano alla luce in otto video immersivi creati per promuovere la storia culturale e le bellezze paesaggistiche della Sardegna, in un’ottica di recupero storico e turismo sostenibile. La storia di ziu Paulinu, detenuto pastore prima all’Asinara e poi nella colonia penale di Is Arenas, che “come un buon padre guarda le sue caprette correre e giocare libere, mentre lui respira la pace portata dal vento”. O quella dei 18 “galeotti” condannati a vita, che nel 1875 sbarcarono insieme a cinque guardie in una valle acquitrinosa, abbandonata e malarica, per fondare col sangue e sudore la nuova colonia penale agricola di Castiadas. C’è il racconto di Corrado Fiaccavento al suo primo giorno come direttore nella colonia penale di Mamone. E tantissime altre testimonianze, uscite dagli archivi delle amministrazioni penitenziarie della Sardegna in anni di ricerca, tra lettere scritte dai detenuti e mai recapitate, documenti e ricordi che raccontano un pezzo di storia dell’isola - e dell’Italia - molto spesso dimenticato: quello delle colonie penali agricole. Negli ultimi anni questi racconti sono tornati a vivere grazie alle nuove tecnologie e a otto video immersivi creati nell’ambito di uno speciale progetto di formazione professionale nato nel 2017 e tutt’ora in corso. Si chiama “Liberamente” e, capitanato da Ifold (Istituto di Formazione del Lavoro Donne), in collaborazione Confcooperative, Poliste, con l’amministrazione penitenziaria della regione Sardegna e il sistema Parchi naturali sardi, è destinato a giovani under 35 e Neet - ma anche a ex detenuti arrivati a fine pena - con l’obiettivo di formare nuove figure professionali in grado di promuovere in modo innovativo le ricchezze ambientali, culturali e identitarie della Sardegna, soprattutto quelle nate attorno alle colonie penali. I video immersivi sono tra i primi risultati di questo progetto, realizzato nell’ambito del programma europeo Green & Blue economy. Si tratta infatti di strutture costruite all’interno di un patrimonio paesaggistico inestimabile dal grande potenziale in ottica di turismo sostenibile - tra aspre montagne, ulivi e querce da sughero, colline di macchia mediterranea, coste e mari incontaminati - basti pensare che su otto colonie presenti nell’isola ben cinque sono situate all’interno di parchi naturali. La cultura e la memoria, però, sono altrettanto importanti, così come la forte impronta sociale dell’iniziativa. “Liberamente è un progetto che parte da un precedente programma europeo di digitalizzazione dei vecchi archivi delle colonie penali. Veri protagonisti di questo progetto sono infatti i detenuti, che si sono occupati del recupero di vecchi archivi dagli scantinati umidi delle carceri sarde, e li hanno pian piano digitalizzati - spiega il Direttore del Parco dell’Asinara Vittorio Gazale durante la presentazione dei risultati del progetto avvenuta venerdì - molti fascicoli risalgono a fine 1800, in un lavoro di recupero che va avanti da 10 anni”. Da queste ricerche è nato il volume curato da Gazale stesso, “Le carte liberate”, così come due cd musicali del cantante sardo Piero Marras - una sorta di istituzione nell’isola - le cui canzoni in lingua sarda e in italiano sono dedicate a queste memorie, storie e tragedie e fanno da sottofondo agli otto video immersivi pubblicati fino ad ora sul sito turistico creato dai partecipanti al progetto, Sardinia Evasion. “Quello sull’Asinara caricato di recente sul sito del Parco ha ricevuto in pochi giorni oltre 50 mila visualizzazioni” continua soddisfatto Gazale. Un video che parla di un’isola senza tempo dove pure “il tempo diventa tangibile, prende peso, sostanza, forma, quella ferma e definitiva di edifici che hanno accolto uomini il cui tempo è diventato pena da scontare, da scandire coi ritmi dei campi della colonia”. Anche la canzone di Piero Marras in sottofondo parla del tempo, quello insostenibile del “fine pena mai” che spesso trasforma la detenzione in vendetta, eppure “un uomo non è il suo errore, e tanto ancora c’è”. Tutto intorno lo splendido paesaggio aspro e incontaminato di un’isola a lungo soprannominata la “Alcatraz del Mediterraneo” (la cui fama fu sfregiata dall’unica fuga mai riuscita, ad opera di Matteo Boe), con edifici dislocati per tutto il territorio tra cui il bunker dove soggiornò Totò Riina, il carcere di massima sicurezza di Fornelli, che ospitò i maggiori esponenti delle Brigate Rosse, una nutrita rappresentanza dell’Anonima Sequestri Sarda e molti detenuti mafiosi e camorristi sottoposti al regime del 41-bis. La colonia penale fu dismessa nel 1997, anno in cui con Decreto Ministeriale viene istituito il Parco Nazionale dell’Asinara. La testimonianza però rimane: “Il sistema di colonie e di ex-colonie penali agricole custodisce memorie storiche e identità locali con significativi risvolti etico-culturali e didattico-educativi legati ai temi dei diritti, della giustizia, del lavoro, della inclusione sociale”. Delle otto colonie penali sarde, solo tre sono ancora attive: Is Arenas, Isili, Mamone, dove i detenuti sono impegnati nel lavoro a fini rieducativi, come l’accompagnamento dei turisti nelle passeggiate a cavallo, il vero e proprio lavoro agricolo e la creazione di prodotti come formaggi, miele, conserve, tra cui quelli venduti all’esterno sotto il marchio “Galeghiotto”. Politica “realista”, l’Italia inquina la lotta per i diritti di Antonio Marchesi* Il Manifesto, 16 giugno 2020 A proposito della vicenda della vendita di navi militari (e, in previsione, di un imponente arsenale di armi) all’Egitto sono stati usati, da uno schieramento trasversale, aggettivi come “ragionevole” (riferito all’operazione) e “matura” (riferito alla politica estera italiana). È stato anche scritto che l’etica è una cosa, la politica estera un’altra, sottintendendo che la seconda non può essere condizionata dalla prima. Questa visione “realista” delle relazioni internazionali, che pare accomunare buona parte degli addetti ai lavori, lascia oggettivamente ai diritti umani pochissimo spazio. Questi non hanno alcuna incidenza autonoma sulle scelte: vengono richiamati solo se rafforzano, non se contraddicono le scelte determinate da altre considerazioni. E le ripetute riaffermazioni dell’impegno internazionale dell’Italia in favore dei diritti umani (e della verità per Giulio) sono sempre più vuote, e stucchevoli, nella misura in cui omettono di specificare che l’Italia, per ottenere un maggiore rispetto dei diritti umani nel mondo, non è disposta a pagare alcun prezzo. Ciò detto, la richiesta di verità e giustizia per Giulio Regeni è anche ma non solo una questione di diritti umani, in quanto tale destinata a soccombere di fronte a una logica “realista”. È anche altro perché riguarda un cittadino italiano ucciso barbaramente in un altro Stato con il probabile coinvolgimento del suo apparato. E proteggere i propri cittadini è, da sempre, da secoli prima che la comunità internazionale accogliesse l’idea dei diritti umani uguali per tutti, un interesse nazionale. Il modo in cui uno Stato svolge questa funzione di tutela dei diritti dei propri cittadini all’estero è indice della sua credibilità internazionale (e della credibilità interna delle sue istituzioni). Lo conferma, se mai ce ne fosse bisogno, l’impegno profuso per ottenere la liberazione di cittadini italiani presi in ostaggio all’estero e il modo in cui le istituzioni si attribuiscono, con grande sforzo di visibilità, i meriti del loro rilascio nei casi in cui, per fortuna, il rilascio avviene. La differenza sta nel fatto che gli ostaggi sono vittime di bande criminali o gruppi terroristici. Giulio Regeni è rimasto vittima invece dell’apparato statale di un “partner ineludibile”, come è stato ripetutamente definito l’Egitto, di fronte al quale, nonostante la brutalità del regime che lo governa, l’Italia rinuncia facendo prevalere altri interessi. Poco importa, a quanto pare, che da quattro lunghi anni quel governo si sia burlato di noi insabbiando, ritardando, non collaborando, nonostante le promesse, i sorrisi e le strette di mano. Poco importa che l’approccio “costruttivo” dell’Italia (ampiamente argomentato quando si è deciso di rimandare al Cairo l’ambasciatore) abbia prodotto soltanto briciole. Nella ricerca di verità e giustizia per Giulio, avrebbero dovuto esserci, fino in fondo, al fianco della famiglia e della società civile, le istituzioni dello Stato italiano. Ciò avrebbe comportato il vantaggio di schierare una forza assai più potente di quella che potevano mettere in campo privati cittadini, ong, organi di informazione. Il coinvolgimento delle istituzioni nascondeva però un grave rischio: che la logica dei rapporti fra Stati, e di un interesse nazionale sacrificabile ad altri interessi nazionali, avrebbe potuto “inquinare” una battaglia per i diritti umani. È ciò che sta accadendo. Decidendo di fare prevalere altri interessi (al di là delle rassicurazioni di facciata di voler proseguire la battaglia per Giulio), lo Stato italiano non solo non ha contribuito a raggiungere l’obiettivo, ma paradossalmente ha indebolito la battaglia della società civile, in difficoltà di fronte a un governo egiziano ormai rassicurato del fatto che la storia di Giulio Regeni non avrà conseguenze sui suoi rapporti con l’Italia. Se i diritti umani in fondo non contano e l’interesse nazionale a tutelare i propri cittadini è sacrificabile, c’è ancora un aspetto che merita di essere considerato. Ci sono norme statali e internazionali che il nostro governo è tenuto a rispettare le quali impongono, in controtendenza rispetto al pensiero “realista”, obblighi di tenere conto dei diritti umani e di altre questioni “etiche” nella gestione del commercio delle armi. Se le vie politiche saranno, come sembra, presto esaurite, non è escluso - e a questo punto è auspicabile - che della questione delle vendite di armi all’Egitto si occupino i tribunali. *Presidente di Amnesty Italia Alarm Phone, il telefono che rilancia gli Sos dei migranti di Giansandro Merli Il Manifesto, 16 giugno 2020 Mediterraneo. Da sei anni il progetto diffonde le richieste di aiuto delle persone in difficoltà nel Mediterraneo. Scontrandosi spesso con la resistenza delle Guardie costiere nazionali Un salvataggio di migranti da parte della ong Sos Méditerranée. “Chi vi paga?”. Razzisti di ogni risma e haters da social network lo chiedono ossessivamente, facendo aleggiare all’occasione il fantasma del solito Soros, eminenza oscura di qualsiasi complotto immigrazionista. “Non abbiamo grandi spese: è tutto lavoro volontario e ci basta qualche spiccio per il telefono. Il progetto è sostenuto da piccole donazioni e iniziative di autofinanziamento” risponde con naturalezza Chiara Denaro, da Palermo. È una delle 200 persone che mantengono attiva la linea telefonica di Alarm Phone (Ap), il numero di telefono per le emergenze in mare a cui i rifugiati chiedono aiuto. “Alarm Phone non può effettuare salvataggi. Non siamo fisicamente presenti nel Mediterraneo e non abbiamo imbarcazioni, né elicotteri” si legge sul sito dell’organizzazione. Ap può però diffondere il segnale di Sos e pressare le guardie costiere affinché intervengano. Il verbo “pressare” è indice preciso dell’assurda situazione che regna nel Mediterraneo: istituzioni assenti, Ong criminalizzate, richieste di soccorso inevase, convenzioni internazionali violate. Il risultato è che le persone sono lasciate morire nel silenzio del mare o deportate tra le urla di disperazione nei campi libici. “All’inizio non era così - dice Deanna Dadusc, italiana residente a Brighton, dove insegna all’università - C’era una buona collaborazione con le guardie costiere. Soprattutto quella italiana ci ringraziava delle informazioni e soccorreva le persone. Ma ormai Roma e La Valletta non rispondono più: hanno delegato tutto ai libici. L’unica novità positiva degli ultimi anni è la flotta umanitaria delle Ong, che hanno salvato tantissime vite”. Ap nasce a ottobre 2014, un anno dopo il naufragio in cui 368 persone persero la vita a poche miglia da Lampedusa. Attivisti del movimento No Border tedesco si confrontarono per 12 mesi con Don Mussie Zerai cercando di capire insieme cosa fare. Il numero di telefono di Zerai si era diffuso tra i rifugiati che tentavano la traversata, lui aveva perso il sonno e non riusciva a stare dietro a tutte le chiamate. “Serve qualcuno che parli le lingue”, disse. Si organizzò un sistema di turni e mediatori linguistici che garantiscono assistenza 24 ore su 24, 7 giorni su 7, da quasi 6 anni. Da oltre 3 mila imbarcazioni in difficoltà, con a bordo un numero incalcolabile di vite umane, è stato composto il +33486517161 (numero pubblico, che si trova su internet). A quelle telefonate hanno risposto attivisti di gruppi locali basati in diversi paesi, da un lato e dall’altro del Mediterraneo. Ce ne sono a Tunisi, Palermo, Melilla, Tangeri, Cadiz, Marsiglia, Strasburgo, Londra, Brighton, Vienna, Zurigo, Berlino, Ginevra e Izmir. Dividono la settimana in 21 turni da 8 ore: il telefono non è mai spento. Solo negli ultimi due mesi Ap ha permesso di documentare il “naufragio di Pasquetta” (12 morti e 51 respinti) e sostenuto il lavoro di inchiesta del quotidiano Avvenire, che ha denunciato l’esistenza di una “flotta fantasma” di pescherecci che respingono illegalmente in Libia i migranti arrivati nella Sar maltese. Le chiamate ad Alarm Phone arrivano da tutte e tre le rotte migratorie mediterranee. Ognuna presenta situazioni e problemi specifici. “Nell’Egeo le distanze sono brevi, i rifugiati partono dalla Turchia vedendo il profilo delle isole greche - spiega Lorenz Naegeli, 31 anni, attivista e giornalista del settimanale svizzero Woz - Più che dare indicazioni registriamo e denunciamo gli abusi. La guardia costiera greca distrugge i motori dei gommoni e li abbandona nelle acque turche. Siamo entrati in una nuova era della guerra ai migranti: i respingimenti illegali che mettono a rischio la vita delle persone sono diventati la norma. Accadono quotidianamente”. Tra le diverse guardie costiere, quella spagnola è rimasta un po’ più collaborativa. Lungo la rotta occidentale, che unisce il paese iberico al Marocco, è ancora possibile che le pressioni producano l’intervento delle autorità. Anche in quest’area, però, ci sono barche di cui si perdono le tracce. “Per noi che viviamo dall’altro lato del Mediterraneo le migrazioni sono una realtà quotidiana, ma la prospettiva è opposta rispetto a quella europea: le storie riguardano gli amici o i conoscenti che sono partiti, a volte riuscendo ad arrivare, altre scomparendo nel mare”, dice Hela K. studentessa 24enne di economia che partecipa ad Alarm Phone da Tunisi. Nel tratto di mare tra Tunisia, Libia, Malta e Italia l’intervento è più complesso: le distanze sono molto maggiori, il tempo di navigazione può prolungarsi per giorni, si comunica solo con i telefoni satellitari, la minaccia dei libici è costante. “Quando arriva una chiamata la prima cosa da fare è capire da dove viene - afferma Dadusc - Poi qual è il problema: motore, acqua, stato di salute. Consideriamo in distress tutte le barche che ci chiamano, perché viaggiano in condizioni precarie. Sono in pericolo di naufragio sin dalla partenza”. Gli attivisti chiedono la posizione Gps, che non sempre i naviganti conoscono o riescono a comunicare agevolmente. Le coordinate sono poi inserite in una mappa aperta che si trova sul sito di “Watch the med”, l’organizzazione sorella di Ap. A quel punto iniziano le telefonate alle autorità e le richieste di intervento. “Le reazioni possono essere diverse - racconta Denaro - Malta e Italia a volte non rispondono, oppure non si mobilitano, non condividono le informazioni. Cerchiamo sempre di mantenere i contatti con le imbarcazioni fino al salvataggio o fino a quando il telefono smette di squillare”. In questo mare non tutte le storie hanno un lieto fine. A volte il cellulare si scarica, il contatto si perde e non si riesce a capire cos’è successo. Altre volte alla perdita del contatto segue la notizia del ritrovamento di barche capovolte e cadaveri. Può anche capitare che molti giorni dopo arrivi una nuova chiamata dallo stesso numero, ma questa volta il rumore di sottofondo non sia quello delle onde ma l’inferno dei centri di detenzione libici. “È difficile gestire queste situazioni a livello emotivo - continua Dadusc - Quando finisce il turno ma c’è un caso aperto non riesci a tornare alla normalità, ad andare a dormire. Non tutti reggono. Ma dobbiamo continuare, siamo lì per coprire il vuoto lasciato dalle istituzioni, per documentare quello che accade e moltiplicare le pressioni sulle autorità. Il nostro obiettivo a lungo termine è non esistere, non essere più necessari. Preferirei fare altro che stare giorni e giorni a seguire una barca abbandonata in mezzo al Mediterraneo”. Stati Uniti. I minori separati al confine: 4.500 abusi denunciati di Giampiero Gramaglia Il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2020 In ciascuno degli ultimi quattro anni censiti, oltre mille minori migranti entrati negli Stati Uniti dalla frontiera meridionale da soli, senza i genitori, o separati dalla famiglia all’arrivo, come prevede la prassi instaurata dall’Amministrazione Trump, hanno subito molestie sessuali mentre erano affidati all’autorità pubblica. I dati sono contenuti in un rapporto ufficiale del Dipartimento della Sanità e dei Servizi umani. È un segnale d’allarme che drammi umani e sociali rischiano di passare inosservati, nell’America delle pulsioni razziste e dei fremiti di protesta anti-razzisti, colpita dall’epidemia di coronavirus e indebolita dalla perdita di decine di milioni di posti di lavoro e da masse di nuovi poveri. Intanto, l’Amministrazione porta avanti le sue politiche d’allentamento delle tutele dei più deboli. Contro la quale si erge talora la Corte Suprema, che per esempio ha ieri trovato un modo di tutelare la minoranza Lgbt nella legge sui diritti civili del 1964 che vieta discriminazioni sul luogo di lavoro basate su razza, religione, origini e sesso. Il parere di maggioranza, scritto da Neil M. Gorsuch, giudice conservatore, nominato da Donald Trump, e condiviso dal presidente, John G. Roberts Jr., pure un conservatore nominato da George W. Bush, è stato approvato 6 a 3. I diritti degli Lgbt sono nel mirino dell’Amministrazione Trump fin dai suoi esordi. I dati pubblicati dal Dipartimento della Sanità e dei Servizi umani sono stati oggetto di audizioni davanti alla Commissione Giustizia della Camera, che indagava sulla politica di tolleranza zero dell’Amministrazione repubblicana verso i migranti illegali. I dati coprono il periodo dall’ottobre del 2014, quand’era ancora presidente Barack Obama, all’estate del 2018: l’Ufficio per i rifugiati del Dipartimento ha ricevuto 4556 denunce di abusi sessuali su migranti minori non accompagnati; 1303 sono state trasferite al Dipartimento della Giustizia, compresi 178 casi di violenze commesse da personale adulto. L’anno peggiore è stato il 2018, con 1261 denunce, un terzo delle quali - 412 - ritenute abbastanza fondate da divenire oggetto d’indagine. Il deputato democratico della Florida Ted Deutch è in prima linea nel denunciare gli abusi sessuali sui minori migranti. Ma la prassi di separare i bambini dai genitori suscita diffuse proteste - anche la first lady Melania se n’era indignata, andando a fare visita a minori detenuti - ed è stata pure contestata in giustizia, ma non è mai stata abbandonata. Negli ultimi mesi la pressione dei migranti alle frontiere dell’Unione s’è allentata, per via dell’epidemia di coronavirus. Delle denunce di abusi e molestie fatte, la vasta maggioranza, i due terzi circa, sono ufficialmente risultate “infondate”, ma oltre 1300 sono parse abbastanza serie da meritare un’indagine più approfondita. John Burnett, che segue il dossier per la Npr, la radio pubblica degli Stati Uniti, ricorda: “La maggior parte erano casi fra i minori. Ma 178 casi riguardavano il personale dei rifugi, in particolare i lavoratori che accompagnano i ragazzi ovunque essi vadano e che dovrebbero proteggerli”. Le denunce coprivano una vasta gamma di comportamenti inappropriati, da relazioni definite ‘romantiché tra adulti e minori a palpeggiamenti a atteggiamenti da guardoni. Deutch considera i 135 rifugi per minori non accompagnati allestiti dall’Amministrazione Trump “un ambiente malsano”: “I documenti - dice - dettagliano un contesto di sistematici attacchi sessuali sui minori da parte del personale”. Di fronte alla Commissione della Camera, i funzionari del Dipartimento della Sanità ammisero le preoccupazioni, perché “anche un solo minore abusato è di troppo”, ma difesero l’Office of Refugee Resettlement (Orr). “Le accuse si rivelano infondate nella stragrande maggioranza”, sottolinea Jonathan Hayes, il responsabile del personale di custodia dei minori. L’Orr dichiara tolleranza zero nei confronti degli abusi sessuali d’ogni sorta: chiunque ne venga a conoscenza deve riferirne nel giro di quattro ore. Gli Sati Uniti considerano minori non accompagnati quelli che superano la frontiera da soli o che viaggiano con un parente che non è un genitore. I minori non accompagnati affidati alla custodia dell’Orr sono stati, a un certo punto, lo scorso anno, 13mila: in media, passano tre mesi nei rifugi, prima di andare a vivere con un adulto loro ‘sponsor’ in attesa che una Corte decida il loro destino. Egitto. Regeni, l’ultimo passo di Carlo Bonini La Repubblica, 16 giugno 2020 C’è un ultimo e unico passo da fare per rompere lo stallo che tiene in ostaggio la verità sul sequestro e omicidio di Giulio Regeni. E c’è una data per compierlo, quel passo. Mercoledì 1 luglio, il Procuratore di Roma Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco torneranno a parlare con i magistrati della Procura generale del Cairo. Lo faranno in una videoconferenza che interromperà un silenzio durato oltre un anno e che offre all’Egitto un’ultima opportunità. In qualche modo decisiva nel misurare con i fatti e non con le dichiarazioni di intenti (ormai tanto stucchevoli, quanto inconcludenti) le intenzioni del regime di Al Sisi e, contestualmente, la capacità di pressione di Palazzo Chigi e della nostra diplomazia. Un’opportunità che non contempla dunque né compromessi, né ulteriori e irricevibili dilazioni. Vale a dire, rimuovere l’ostacolo che, oggi, paralizza la possibilità della Procura di Roma di mandare a giudizio e processare di fronte a un tribunale e “in nome del popolo italiano”, i cinque ufficiali degli apparati di sicurezza egiziani indagati dalla Procura di Roma dall’ormai lontano 5 dicembre 2018. L’ostacolo ha una natura “tecnica”, diciamo così. È una sostanza tutta politica. La Procura generale del Cairo, l’1 luglio, dovrà infatti comunicare alla Procura di Roma quanto il 29 aprile dello scorso anno le era stato chiesto senza ottenere risposta. Se è cioè intenzionata o meno a comunicare il “domicilio” legale dove, di qui in avanti, i cinque alti ufficiali dell’Intelligence egiziana coinvolti nel sequestro e omicidio di Regeni dovranno ricevere gli atti dell’inchiesta che li vede indagati. Un passaggio che, in uno Stato di diritto quale il nostro, è presupposto necessario a mettere un imputato (chiunque esso sia e ovunque risieda, a maggior ragione se all’estero, come in questo caso) nella condizione di sapere che nei suoi confronti si sta celebrando un processo e di potersi dunque compiutamente difendere in quella sede. È un atto che, normalmente, uno Stato di diritto compie attraverso gli strumenti della sua piena sovranità e dunque attraverso la magistratura e gli organi di polizia giudiziaria. Si identifica un indagato, gli si fa indicare il suo domicilio legale, lo si invita a nominare un legale di fiducia.Che lo assisterà nella fase delle indagini, dell’udienza preliminare, dell’eventuale processo. Ebbene, è un atto che, nella vicenda Regeni, non può prescindere dall’autorità politica e giudiziaria del Paese in cui quegli indagati risiedono: l’Egitto di Al Sisi, appunto. Semplice, si dirà. E invece ad oggi impossibile da ottenere. Per una ragione evidente. Aver rifiutato sin qui al nostro Paese lo strumento in grado di sottrarre alla loro condizione processuale di “fantasmi” gli uomini dei propri apparati coinvolti nel sequestro e omicidio di Giulio Regeni, ha significato proteggerli non solo dalle conseguenze di un possibile processo, ma dal processo stesso. Ebbene, non è rimasto molto tempo. Il 5 febbraio del prossimo anno scadrà l’ultima proroga delle indagini della Procura. Il che significa che di qui alla fine dell’anno la nostra magistratura dovrà sapere se è nella condizione di poter celebrare un processo che non sia minato nelle fondamenta dalla naturale obiezione di un giudizio non solo “in absentia” dei suoi imputati ma anche dalla loro “irreperibilità”. Se davvero, come ha chiesto l’ex ministro Marco Minniti su questo giornale ieri, il governo è in grado di immaginare una “partnership esigente” con l’Egitto, Palazzo Chigi chieda ad Al Sisi che mercoledì 1 luglio i cinque uomini “fantasma” dei suoi apparati abbiano finalmente un domicilio legale dove il nostro Paese possa chiedere conto delle loro responsabilità. E lo faccia subito. Senza condizioni. Ne va della nostra sovranità. Oltre che della verità e giustizia per Giulio. Egitto. Il suicidio di Sarah, l’attivista torturata per una bandiera di Francesco Battistini Corriere della Sera, 16 giugno 2020 Suicida l’attivista Lgbt. “Perdonatemi, non ce la faccio”. Era rifugiata in Canada. Sarah Hegazy, 30 anni, si è suicidata nella sua casa in Canada. Gli attivisti di tutto il mondo le hanno reso omaggio sui social, con l’hashtag #Raisetheflag Forsarah e hanno ricordato gli abusi del regime di Al Sisi. La foto la ritraeva felice, sventolare l’arcobaleno. Sarah Hijazi, attivista egiziana per i diritti Lgbt, per quella foto era stata arrestata, poi torturata. Sarah si è suicidata. Nel biglietto d’addio ha scritto: “Perdonatemi, non resisto più”. Una frase per i fratelli: “Ho tentato di trovare riscatto e non ci sono riuscita”. Un’altra per gli amici: “L’esperienza è stata dura e sono troppo debole per resistere”. L’ultima, nella mano una biro tremolante, riservata al mondo: “Sei stato crudelissimo. Ma io ti perdono”. Incarcerata e torturata un anno intero, esiliata e disperata negli ultimi due, non l’ha salvata nemmeno la tranquilla casetta in Canada che le avevano dato come rifugio politico, dopo un’accesa campagna internazionale per la sua liberazione: a 30 anni, nel corpo le cicatrici delle continue “ispezioni corporali” e degli stupri senza fine subìti dalla polizia egiziana, nella memoria le ferite delle minacce e delle derisioni sopportate al Cairo, sul tavolo della cucina canadese un semplice biglietto d’addio, Sarah Hijazi l’ha fatta finita. “Il cielo è più dolce della Terra! - aveva avvertito in un post su Facebook - E io voglio il cielo, non la Terra!”. Sarah sognava un cielo pieno d’arcobaleni e nel settembre 2017 le era bastato sventolare una bandiera per i diritti Lgbt, a precipitarla nei sotterranei che ingoiarono Giulio Regeni, nell’inferno che sta vivendo Patrick Zaki. Un attimo d’esultanza, sotto il palco d’un concerto al parco dell’università Al Hazar. Sarah aveva sentito le parole liberatorie di Hamed Sinno, il Freddie Mercury arabo, s’era dimenata sulla musica trasgressiva dei Mashrou Leila, i Progetto Notte, la più omosex delle band libanesi: “Digli che siamo ancora in piedi! Digli che stiamo resistendo! Digli che abbiamo ancora gli occhi per vedere! Digli che non abbiamo fame”. Imprudente, Sarah s’era messa in tasca l’arcobaleno dei diritti lesbo-gay-bisex-transgender. Poi l’aveva tirato fuori in pubblico, sotto il naso dei poliziotti cairoti. E con altri 77, era finita dentro. Gay & guai. Nell’Egitto del generale Al Sisi, come in quello dei Fratelli musulmani e prim’ancora di Mubarak, c’è sempre voluto molto meno d’un applauso sbagliato per rischiare fino a 17 anni di carcere. D’omosessualità, credendo d’infangarli, tentarono di parlare dopo la morte di Regeni e dopo l’arresto di Zaki. Perché una legge del 1961 e l’islam e tutta la società egiziana la puniscono come “pratica d’abituale depravazione”, anche se è pratica antica e diffusa: chiunque sa delle periodiche retate sotto il ponte Qasr, sul Lungonilo; ognuno ricorda il famoso “processo ai 52” che svelò al mondo le persecuzioni sessuali; tutti hanno visto i proibiti film egiziani sull’identità di genere. “Shim el-yesmine”, annusa il gelsomino, è la canzone più popolare dei Mashrou Leila e insieme l’inno dei gay arabi. Era pure il titolo più amato da Sarah. In queste ore - mentre il governo italiano è assediato dalle polemiche sulle navi militari vendute ad Al Sisi nonostante il caso Regeni, mentre Bologna discute se dare la cittadinanza onoraria a Zaki, ormai in galera da quattro mesi - sul Crescentone di piazza Maggiore hanno srotolato di nuovo un grande manifesto dieci per quindici. Proprio là, dove un cartellone pubblicitario aveva sloggiato quello vecchio. I bolognesi hanno memoria ostinata. Ci sono ancora le foto di Giulio e di Patrick. Manca solo quella di Sarah. Filippine. Condannata la giornalista anti Duterte. Ora rischia sei anni di Raimondo Bultrini La Repubblica, 16 giugno 2020 Maria Ressa, la più famosa giornalista del Paese, doveva rispondere dell’accusa di “diffamazione cibernetica”. Nelle sue inchieste ha spesso denunciato gli abusi del presidente. Un nuovo verdetto contro la stampa libera nelle Filippine ha colpito la più celebre giornalista del paese, Maria Ressa, e un suo collaboratore del sito di news online Rappler. La stessa giudice che l’aveva fatta arrestare nel febbraio del 2019 con l’accusa finora inedita di “diffamazione cibernetica” ha emesso stamattina una sentenza di condanna punibile tra i sei mesi e i sei anni di carcere per lo stesso articolo di otto anni fa, dove si denunciava un uomo d’affari sospettato di aver corrotto l’ex capo della Corte suprema Renato Corona mettendogli a disposizione un’auto sportiva di lusso. Ressa e il giornalista Reynaldo Santos Jr, condannati anche a due rimborsi di 8.000 dollari per danni “morali” ed “esemplari” verso l’imprenditore Wilfredo Keng autore della denuncia del 2017, sono stati autorizzati a pagare una cauzione in attesa del verdetto di appello. Trattenendo a stento le lacrime e con la mascherina sul viso Maria Ressa, ex capo della CNN a Manila, una delle “100 persone dell’anno” secondo la classifica del 2018 di Time, ha parlato ai cronisti presenti fuori dall’aula giudiziaria dov’erano ammesse solo poche persone per le restrizioni del coronavirus. La sentenza - ha detto - è un nuovo “duro colpo per noi giornalisti”, ma non era “inaspettata”, un “ammonimento” per intimidire la stampa. “Se non usi i tuoi diritti, li perderai”, perché “la libertà di stampa - ha aggiunto - è il fondamento di ogni singolo diritto che avete come cittadini filippini. Se non riusciamo a usare il potere di chiedere conto (ai responsabili degli illeciti), non possiamo fare nient’altro”. Difesa da legali filippini e stranieri tra i quali Amal Clooney, moglie dell’attore George secondo la quale il processo di oggi era “un test per la democrazia”, Maria Ressa è accusata in altri sei casi giudiziari dei quali uno la vede indiziata di aver violato le norme della costituzione che impediscono la proprietà straniera dei media, altro reato ritenuto dalla giornalista solo un tentativo di far chiudere il suo sito di notizie, che ha più volte denunciato gli abusi del presidente Rodrigo Duterte, dalle sanguinose campagne antidroga con migliaia di vittime delle “squadre della morte” agli acquisti illegali di fregate militari che portarono all’arresto di un comandante della Marina. L’articolo “incriminato” citava anche un rapporto dell’intelligence secondo il quale Keng era stato sorvegliato dal Consiglio di sicurezza nazionale per un suo presunto coinvolgimento nel traffico di esseri umani e nel traffico di droga. Da qui l’azione legale intrapresa da Keng 5 anni dopo la prima pubblicazione, quando Rappler mise di nuovo online il testo correggendo il refuso di una sola parola. Per l’identico reato e su ordine della stessa magistrata Rainelda Estacio Montesa, la direttrice esecutiva di Rappler aveva già passato una notte nelle celle dell’Ufficio nazionale di investigazioni tra il 13 e il 14 febbraio dell’anno scorso. La legge 10175 nota come “prevenzione della criminalità informatica” era stata legalmente usata in un solo altro precedente, ma il caso di Rappler per la sua delicatezza ha subito scatenato la reazione delle organizzazioni dei giornalisti e dei diritti umani. “È l’ennesimo abuso del leader filippino che manipola le leggi per perseguitare voci critiche e rispettate dei media qualunque sia il costo finale per il paese”, ha sostenuto Phil Robertson di Human Rights Watch Asia, secondo il quale “il caso Rappler si ripercuoterà non solo nelle Filippine, ma in molti paesi”. Quando il caso della diffamazione cibernetica è stato portato in corte nel 2017, Duterte aveva attaccato esplicitamente Rappler durante il suo discorso sullo Stato della Nazione e perfino vietato alla corrispondente presidenziale l’ingresso alle sue conferenze stampa. Il clima di intimidazione e i timori per le conseguenze ha costretto anche l’ex editore dell’influente Inquirer a vendere il giornale a un imprenditore vicino a Duterte mentre il principale sito tv del paese, Abs Cbn ha ricevuto il mese scorso un ordine di chiusura dopo il mancato rinnovo della licenza commerciale. Maria Ressa ha spesso denunciato una campagna di odio e l’uso dei social media come “arma” contro la libera informazione, con la conseguenza di numerose minacce di morte contro di lei e i suoi collaboratori (una giornalista venne perfino arrestata e tenuta in prigione con il figlio appena nato). Dei sette casi giudiziari ancora in piedi contro Rappler uno riguarda il presunto finanziamento con soldi stranieri del popolare sito internet con milioni di followers in violazione di un’apposita norma costituzionale, tutte accuse da lei respinte come tentativi di imbavagliare una voce libera. Nella graduatoria di Reporter senza Frontiere le Filippine sono scese negli ultimi anni al 136esimo posto su 180 paesi che violano la libertà di stampa. Fin dai tempi degli ex presidenti Joseph Estrada e Gloria Arroyo - entrambi allontanati dal potere per le accuse di corruzione - Maria Ressa è emersa con le sue inchieste per la Cnn e i numerosi libri pubblicati come una delle principali voci libere del paese cattolico che ha oltre 100 milioni di abitanti. Dal 2016 con l’avvento di Duterte il suo sito è stato più volte attaccato dai sostenitori di questo capo di stato soprannominato “il giustiziere” non solo per i delitti extragiudiziari contro i presunti spacciatori di droga ma anche per il suo linguaggio minaccioso, come quando definì “spie” i cronisti che gli ponevano domande imbarazzanti. “Solo perché sei un giornalista non sei esentato dall’assassinio”, disse. In un’intervista a La Repubblica Maria Ressa spiegò che gli abusi contro i giornalisti filippini fanno “rabbrividire”, ma non sono isolati. “Il mondo cambia così velocemente attraverso la tecnologia - sostenne - che aumentano i rischi di tendenze dittatoriali e di manipolazione delle masse, con strategie digitali usate per colpire i democratici e far passare informazioni omogeneizzate, l’uso delle campagne di odio, rabbia e paura”. “Le persone che hanno l’obiettivo comune di ristabilire una certa obiettività - concluse - possono trasmettersi però l’un l’altra un’energia di resistenza, come accade a me con il team di Rappler”.