Gratteri’s version: più carcere per tutti e pugno duro con i detenuti di Davide Varì Il Dubbio, 15 giugno 2020 Il procuratore contro la “gestione allegra” delle carceri: le regole e il rigore rieducano. L’ultima apparizione risale al giorno in cui aveva presentato a reti tv unificate la sua ultima operazione antimafia. Ma allora, più che le centinaia di arresti - era l’operazione Rinascita Scoot - fece scalpore la sua frase: “Voglio smontare la Calabria come un treno Lego”, ammise il procuratore nel corso del suo sermone davanti ai media adoranti. Insomma, Gratteri torna a parlare dopo mesi di silenzio, e lo fa a modo suo. Stavolta ci parla di carcere, anzi, di carcere duro che, a dispetto di quel che continuano a raccontare i giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo, è un vero toccasana per i detenuti. In una lunga intervista al Fatto quotidiano - e dove sennò? - il procuratore Gratteri spiega infatti che “lasciare le celle aperte non c’entra nulla con la finalità rieducativa della pena. Al contrario, il fatto che fino a oggi non siano state seguite le regole, per rendere più aperta la detenzione, è un messaggio diseducativo ai detenuti”. Insomma, a chi si ostina a pensare che le misure alternative al carcere siano la strada da seguire, Gratteri contrappone il pugno duro dello Stato che deve rieducare, sì, ma con rigore e le celle ben sigillate. Perché secondo Gratteri, “una gestione allegra, a maglie larghe del carcere, in violazione dell’ordinamento penitenziario, è un incentivo alla non osservanza delle regole”. Certo, Gratteri non chiarisce il significato di “gestione allegra”, ma c’è da presumere che intenda la concessione dei domiciliari a chi è malato. E per quel che riguarda le rivolte, Gratteri è convinto che siano state possibili perché, dice “le celle erano aperte, anche nei reparti di alta sicurezza”. E ancora: “Le rivolte nelle carceri sono state possibili e così devastanti proprio per le celle aperte e la promiscuità praticata negli istituti”. Ma la soluzione per Gratteri è una e una sola: “Io penso che la strada giusta sarebbe quella di porre, finalmente, il problema della nuova edilizia carceraria. È arrivato il momento di avviare la costruzione di nuove carceri. Nella fase post-coronavirus si stanno mettendo a disposizione molte risorse per l’economia, per le infrastrutture. Ci sono soldi che ieri non c’erano: ebbene, è questo il momento per costruire quattro nuove carceri in Italia, distribuite tra nord, centro e sud, per 20 mila posti. Sarebbe la fine del sovraffollamento carcerario”. Come dire: “Cchiu carcere pè tutti!”. Gratteri: “Rivolte devastanti per le celle aperte e la promiscuità praticata negli istituti” rainews.it, 15 giugno 2020 I sindacati: “Chiediamo al Dap tavolo sui disordini a Santa Maria Capua Vetere”. “Quanto accaduto impone una riflessione in profondità sulla gestione delle carceri”, spiega Pompeo Mannone, responsabile della Federazione Nazionale della Sicurezza Cisl. Il reparto “Danubio” in mano ai detenuti per ore nella giornata di venerdì; tre agenti feriti (uno dei quali è stato ricoverato in ospedale) l’altra notte da due carcerati che hanno anche dato fuoco alla cella. Non si placano le polemiche dopo i gravi fatti che si sono registrati nelle ultime 48 ore nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, nel casertano. Episodi che rappresentano solo la punta di un iceberg - come denunciano i sindacati di categoria - di tensioni che oramai vanno avanti da molti mesi anche in altri penitenziari campani. La situazione si è fatta ancora più tesa negli ultimi giorni dopo che lo scorso 11 giugno sono stati notificati 44 avvisi di garanzia ad altrettanti agenti penitenziari. Le accuse sono di presunti pestaggi avvenuti nell’istituto di pena lo scorso 6 aprile. Osapp: “Inviati 100 agenti del Gom” - Circa 100 uomini del Gom, Gruppo operativo mobile della Polizia penitenziaria, sono stati inviati al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Lo fa sapere il sindacato autonomo di polizia penitenziaria Osapp. Per i segretari regionali campani del sindacato, Vincenzo Palmieri e Luigi Castaldo “le difficoltà operative permangono poiché la mancanza di personale è cronica e si fa sentire a discapito della sicurezza di tutti”. Secondo Palmieri e Castaldo “la polizia penitenziaria va dotata di appositi strumenti: taser, telecamere individuali di servizio negli eventi critici, jammer e altra strumentazione strategica per rendere trasparente l’operato del personale di polizia penitenziaria che spesso viene messo in discussione per una remunerazione che dà appena diritto alla sopravvivenza e rende maggiormente difficile la propria tutela legale. Sindacati: “Chiediamo confronto su quanto accaduto” - I vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il Capo Bernardo Petralia, insieme al suo Vice Roberto Tartaglia, ieri sera hanno fatto visita all’agente più grave, che era stato dimesso dal nosocomio di Caserta. Gesto apprezzato dai sindacati che sottolineano che si tratta della prima volta nella storia della Polizia Penitenziaria che i vertici del Dap vanno a far visita ad un poliziotto ferito. Ma i gravi episodi accaduti all’interno e all’esterno del carcere (dove una cinquantina di agenti hanno manifestato ieri mattina) - spiega Pompeo Mannone, responsabile della Fns Cisl, la Federazione Nazionale della Sicurezza Cisl: “necessitano di approfondimenti e risoluzioni e chiediamo al Capo del Dap un tavolo di confronto anche perché quanto accaduto impone una riflessione in profondità sulla gestione delle carceri e sulla priorità della tutela complessiva dei Poliziotti Penitenziari”. Gratteri: “Rivolte devastanti per le celle aperte e la promiscuità praticata negli istituti” - Su quanto accaduto ieri a Santa Maria Capua Vetere è intervenuto - dalle pagine de Il Fatto Quotidiano - il Procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri che si dice d’accordo con il giro di vite del Dap per rendere più rigoroso il regime carcerario di alta sicurezza. “Le rivolte sono state possibili anche perché le celle erano aperte, anche nei reparti di alta sicurezza. In questi sono reclusi non i capi, ma gli esecutori, che hanno una normale ammirazione nei confronti dei capi e sono garzoni e strumenti dei capi - spiega - Le rivolte nelle carceri sono state possibili e così devastanti proprio per le celle aperte e la promiscuità praticata negli istituti”. Per Gratteri “siamo ancora in un momento di confusione” nella gestione carceraria. “Ma vedo che qualche correzione si sta apportando. Io penso che la strada giusta sarebbe quella di porre, finalmente, il problema della nuova edilizia carceraria. È arrivato il momento di avviare la costruzione di nuove carceri. Nella fase post-coronavirus si stanno mettendo a disposizione molte risorse per l’economia, per le infrastrutture. Ci sono soldi che ieri non c’erano: ebbene, è questo il momento per costruire quattro nuove carceri in Italia, distribuite tra nord, centro e sud, per 20 mila posti. Sarebbe la fine del sovraffollamento carcerario’’. Rosato (Pd): “Solidarietà ad agenti, vittime disorganizzazione sistema carcerario” - Indignazione per quanto accaduto nel carcere casertano, è stata espressa anche da molti esponenti politici. “Non è un film americano, ma il carcere di Santa Maria Capua Vetere. Immagini drammatiche che dimostrano come, in un luogo che dovrebbe essere di rieducazione, ci siano criminali che continuano la loro attività soggiogando e minacciando gli altri detenuti”. Così Ettore Rosato sulla sua pagina Facebook mentre commenta le immagini delle rivolte in carcere. “Sono venuto a portare la mia solidarietà al personale della polizia penitenziaria - sottolinea il Presidente di Italia Viva - vittima spesso di queste aggressioni, dei vuoti di organico e della disorganizzazione del sistema carcerario”. Fratelli d’Italia: “Interrogazione al ministro di Giustizia. Conferire encomio ad agenti” - “Fratelli d’Italia chiede al Ministro Bonafede se è sua intenzione conferire un encomio solenne al corpo della Polizia Penitenziaria presso il carcere di Santa Maria Capua a Vetere per l’alta professionalità dimostrata nel contenimento della rivolta carceraria del 5 aprile”. Lo dichiarano i deputati di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro, responsabile Giustizia di Fdi, Giovanni Donzelli, Emanuele Prisco e Galeazzo Bignami annunciando la deposizione di una interrogazione al ministro della Giustizia. “Nel corso della rivolta”, proseguono i deputati Fratelli d’Italia, “150 detenuti armati di coltelli e olio bollente sono stati contenuti con efficacia e professionalità dagli uomini e dalle donne della Polizia penitenziaria. Mentre non si sa ancora nulla dell’esito delle indagini a carico dei rivoltosi, la Procura di Santa Maria Capua a Vetere ha notificato 44 avvisi di garanzia ad altrettanti agenti della Polizia penitenziaria. La magistratura faccia il suo corso, ma anche la politica faccia il suo e il Ministro Bonafede - magari e per sbaglio - batta un colpo, difendendo l’onorabilità e la professionalità dei nostri uomini in divisa e conferendo l’encomio solenne. Qualcuno in Italia, oltre a difendere Caino, dovrà pur stare dalla parte di Abele. Noi”, concludono i deputati di Fdi, “stiamo senza se e senza ma, al fianco di chi, in divisa, contiene le rivolte e non dei detenuti che le organizzano”. Bonafede nel giugno 2018 congedò il vice capo del Dap e poi lo richiamò, senza successo di Marco Lillo Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2020 La ricostruzione dei giorni della mancata nomina di Nino Di Matteo ai vertici della amministrazione penitenziaria, tra il 19 e il 22 giugno. Il Guardasigilli firmò la nomina di Lina Di Domenico al posto di Marco Del Gaudio. Poi però cambiò idea e revocò la nomina per richiamare il secondo. Ma Del Gaudio comunicherà di lì a poco di voler lasciare il Dap. C’è un retroscena inedito che riguarda le nomine del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria nel giugno del 2018: il ministro Alfonso Bonafede chiese al vicecapo Dap Marco Del Gaudio di restare al suo posto. Il Fatto ha ricostruito questa altalena di decisioni di Bonafede: il 19 giugno 2018 chiama il magistrato di sorveglianza di Novara Lina Di Domenico (incontrata già l’11 giugno 2018) e le propone di accettare seduta stante il posto di vicecapo Dap. Il giorno dopo comunica al Csm questa e altre nomine chiedendo per lei il fuori ruolo, poi ci ripensa e il 22 giugno nel pomeriggio chiede a Marco Del Gaudio di restare al suo posto. La dottoressa Di Domenico resta nel limbo per mesi. Alfonso Bonafede dopo averla nominata chiede la revoca della nomina stessa e la rinomina solo a settembre. Quindi, a differenza del capo Dap Francesco Basentini, di Fulvio Baldi, capo gabinetto, o di Giuseppe Corasaniti, Capo Dag, Lina Di Domenico non è inserita subito nella struttura ministeriale. Solo a ottobre del 2018 - e solo per il gran rifiuto di Marco Del Gaudio - diventa finalmente vicecapo Dap. Marco Del Gaudio è un magistrato di grande esperienza che ha alle sue spalle successi nella lotta alla camorra ma non è il classico uomo gradito al M5s. Napoletano, 53 anni, Del Gaudio è legato da decenni alla corrente di sinistra Magistratura Democratica ed è stato nominato prima vice-capogabinetto del ministro Andrea Orlando e poi ad agosto 2017 Vice-capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Nessuno si stupisce quando il 20 giugno 2018 viene fatto fuori dal Dap da Alfonso Bonafede. Alle 11 di mattina di quel giorno di giugno l’allora consigliere del Csm Luca Palamara trasmette in gran segreto ai suoi fedelissimi la lista dei nomi scelti da Bonafede e appena comunicati al Csm. Nella sua chat fa la lista: c’è Fulvio Baldi capo gabinetto (poi dimessosi dopo un articolo de ilfattoquotidiano.it sulle sue conversazioni con Luca Palamara, ancorché non indagato), c’è il capo Ispettorato Andrea Nocera (poi dimessosi per un’indagine per corruzione a Napoli), c’è il capo Dag Giuseppe Corasaniti (poi dimessosi per le incomprensioni con il resto dello staff di Bonafede), c’è anche il capo del Dap Francesco Basentini (dimessosi per lo scandalo scarcerazioni) e c’è pure il vicecapo Dap Lina Di Domenico. Nonostante le indiscrezioni della vigilia per Di Matteo, come scrive in chat Palamara, non c’è “Nulla”. Sono passate due settimane dall’insediamento del primo Governo Conte. La notizia si diffonde il 20 giugno mattina alla festa della Guardia di Finanza. Per celebrare il 244esimo anniversario del Corpo a Villa Spada con il comandante generale Giorgio Toschi c’è il nuovo che avanza: il premier Giuseppe Conte, il ministro dell’interno Matteo Salvini e la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati che appone la medaglia d’oro al merito civile sulla bandiera della Guardia di Finanza. C’è anche il capo Dap Santi Consolo che riceve in quel contesto una telefonata dal ministro. Bonafede gli chiede di andare al Ministero per un colloquio nel quale, dopo mille complimenti, gli comunica che ha appena nominato al suo posto Francesco Basentini. Santi Consolo non la prende bene e annuncia al ministro le sue dimissioni dalla magistratura appena terminato il passaggio delle consegne al nuovo capo del Dap. Anche il suo vice Marco Del Gaudio è stupito dalle modalità della sua rimozione. Il 22 giugno, a margine di un convegno all’hotel Sheraton Parco dei Medici, parla con Bonafede durante la prima uscita pubblica del Ministro davanti ai magistrati. Il ministro lo convoca per il pomeriggio nella sua stanza al Ministero. E lì venerdì 22 giugno pomeriggio, Alfonso Bonafede a sorpresa chiede a Del Gaudio di restare al suo posto. Il vicecapo del Dap è sorpreso. Fa notare al Ministro che ha appena nominato Lina Di Domenico al suo posto e ha già chiesto due giorni prima al Csm per lei il fuori ruolo ma Bonafede gli spiega che non c’è problema. La nomina della Di Domenico si può revocare. Del Gaudio da un lato è gratificato dall’altro spiega al ministro che non stravede per l’idea di fare il vice di Basentini. Bonafede insiste ma Del Gaudio resta perplesso e chiede qualche giorno per pensarci. Bonafede gli parla anche di Antonino Di Matteo e spiega a Del Gaudio la sua idea: creare la casella di vicecapo della giustizia minorile per offrirla alla dottoressa Donatella Donati, nominata pochi mesi prima da Andrea Orlando del Pd per tre anni a capo degli Affari Penali, e proveniente dalla segreteria di Gennaro Migliore (allora Pd). Secondo Bonafede la Donati potrebbe accettare di buon grado lo spostamento lasciando il posto libero a settembre per Di Matteo. Un’operazione simile però, come Del Gaudio spiega al ministro, richiederebbe tempi lunghi e probabilmente un provvedimento normativo con la copertura dell’impegno di spesa per la creazione di un nuovo ufficio. Bonafede scopre così la sua buona conoscenza della macchina ministeriale e si convince di aver fatto un errore a rimuoverlo. Marco Del Gaudio potrebbe essere il Virgilio giusto per accompagnare il neo-nominato Basentini nell’inferno del Dap. Il magistrato promette di pensarci su e si congeda. Anche Francesco Basentini in quelle ore gli rinnova la richiesta di restare ma Del Gaudio resiste. Il magistrato napoletano capisce che Bonafede fa sul serio quando lo avvertono da Roma che il ministro ha revocato la nomina di Lina Di Domenico. Prima di avere l’assenso di Del Gaudio a restare al suo posto, Bonafede chiama la neo-nominata vicecapo Dap e le comunica la revoca della sua nomina. Il ministro le spiega che preferisce un passaggio di consegne più morbido. Accanto a Basentini vorrebbe tenere Del Gaudio come vicecapo per qualche tempo. Poi, tra qualche mese, si vedrà. Quando Marco Del Gaudio apprende della revoca della Di Domenico scrive una lettera al ministro Bonafede per comunicare ufficialmente che preferisce lasciare il Dap, come inizialmente previsto e disposto. Così Alfonso Bonafede incassa il secondo no dopo quello di Di Matteo, ricevuto il 20 giugno dopo il primo incontro interlocutorio del mattino del 19 giugno. A ben vedere i giochi si fanno il 19 giugno. Quella mattina Bonafede incontra Di Matteo e gli dice che non vuole lui ma Basentini a capo del Dap. E la sera dello stesso giorno il ministro chiama la magistrata di sorveglianza Di Domenico, che aveva incontrato al ministero già l’11 giugno 2018 per parlare di Dap senza però specificare quale poltrona fosse in ballo per lei. Il Ministro alle sette di sera del 19 le comunica tre cose: la vuole nominare vice capo del Dap; le chiede di dare il suo assenso formale scritto subito e infine, a richiesta della neo-nominata vice, le comunica che il Capo sarà Basentini. La richiesta formale di fuori ruolo per Basentini e Di Domenico arriva al Csm il 20 mattina. In quel momento Di Matteo incontra al ministero per la seconda volta Bonafede e gli comunica con nettezza che non è interessato agli Affari Penali ma solo al Dap, dove però Bonafede gli spiega di avere già nominato Basentini. Quindi riepilogando: ci sono stati due ripensamenti di Alfonso Bonafede sui vertici del Dap. Tra il pomeriggio del 18 giugno e le 11 di mattina del 19 giugno Bonafede decide di non offrire a Di Matteo ma a Basentini la direzione del Dap. Lo spiega il ministro il 6 maggio durante il question time alla Camera: “mi convinsi - dopo una prima telefonata e in occasione di un primo incontro al ministero - che questa seconda opzione (Direzione Affari Penali e non Dap, Ndr) fosse la più giusta”, ha detto il ministro. “Quando il dottor Di Matteo venne al ministero gli dissi che tra i due ruoli sembrava meglio gli Affari penali (…) e a me era sembrato, ma forse oggi scopro che mi sono sbagliato, che alla fine dell’incontro fossimo d’accordo. Questo spiega perché il giorno dopo mi chiese il secondo incontro, peccato che nel frattempo io avevo già fatto”, ha spiegato nella sua telefonata alla trasmissione “Non è l’arena”. Ora si scopre che per la poltrona di vicecapo del Dap Bonafede revocò la sua nomina del 20 giugno. Avrebbe potuto fare lo stesso con la nomina di Basentini a Direttore del Dap, avvenuta sempre il 20 giugno? La deliberazione ufficiale ci fu solo il 27 giugno in Consiglio dei ministri, su proposta di Bonafede. Nella sua discrezionalità il ministro avrebbe potuto cambiare idea sul numero uno come sul numero due? Un fatto è certo Bonafede scelse nella sua discrezionalità politica di revocare la Di Domenico per lasciare spazio a Del Gaudio e di non revocare Basentini per fare spazio a Di Matteo. Nonostante Del Gaudio non avesse accettato. Mentre Di Matteo lo avrebbe fatto. Le ragioni di questa duplice e divergente scelta discrezionale potrebbero essere spiegate dal Ministro durante la sua audizione in Commissione Antimafia prevista nelle prossime settimane. Riformare la giustizia, priorità di oggi di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 15 giugno 2020 La funzione giurisdizionale è fondamentale oltre che per rimediare al coacervo normativo anche per favorire una concreta funzione unificante all’interno degli ordinamenti nazionale ed europeo nei quali i cittadini reclamano pari diritti di libertà ed economici. La modifica del diritto societario e una maggiore efficienza del “sistema giustizia”, rappresentano i primi due capisaldi della strategia del Governo per rendere più attraente il nostro Paese. È quanto espressamente dichiarato dal Presidente del Consiglio il quale ha aggiunto che “il terzo obiettivo è quello di creare a livello europeo un quadro regolatorio, sul piano fiscale, sufficientemente omogeneo in modo da bandire le pratiche di dumping fiscale all’interno dell’Unione”. Una evidente aporia se si considera che nei fatti o per meglio dire nei numerosi provvedimenti legislativi emanati al tempo della emergenza sanitaria, pochi riguardano la giustizia per la quale ciò che in concreto è stato fatto, peraltro prima della epidemia, è il deposito in Parlamento di due disegni delega di riforma della giustizia civile e penale. Quindi, anche in considerazione delle note polemiche che nel merito di dette proposte sono state sollevate, è evidente che siamo in alto mare con l’aggravante che questa volta le acque sono molto agitate e tendenti al burrascoso. D’altra parte, al tutt’altro che remoto rischio di un debito pubblico che potrebbe superare, entro il corrente anno, il 160 per cento nel rapporto deficit/pil, di un crollo del 9,5 per cento del prodotto interno lordo e un aumento drammatico della disoccupazione che si prevede possa spingersi in pochi mesi fino al 15 per cento, vanno ad aggiungersi le ulteriori sopravvenute problematiche della giustizia che, uscendo dalla fase di quasi totale inoperatività, si troverà ad affrontare una consistente mole di conflitti nel settore imprenditoriale e commerciale, nonché a fronteggiare una pericolosa deriva della criminalità organizzata che, come ormai da più parti viene segnalato, proverà subdolamente ad insinuarsi nelle fenditure dell’economia in sofferenza. Solo questi motivi dovrebbero indurre a cogliere l’occasione per interventi che, in luogo di incerte affermazioni di rivisitazione del complessivo sistema giudiziario, valorizzino l’esperienza di questo periodo ottimizzando, dal punto di vista funzionale quantomeno, la gestione del contenzioso implementando le attività telematiche. Certamente è più agevole farlo nel campo del diritto civile; tuttavia, non vi sono ragioni per impedire che, salvo le eccezioni relative alla tutela dei diritti fondamentali, anche i processi penali possano essere celebrati da remoto. Non essendo ulteriormente giustificato il rallentamento della giustizia, le cui qualità e tempistica si ribaltano sull’economia del Paese, e considerando che alcuni interventi possono essere messi in pratica stabilmente da subito, si tratterebbe di una scelta utile anche a contenere la ormai diffusa diffidenza, quanto non sfiducia vera e propria, in uno dei più importanti comparti nella vita sociale e produttiva del Paese, elidendo la percezione che la riforma della giustizia sia soltanto una espressione rituale, piegata alle contingenze politiche del momento. Nella selezione di interventi che riguardano la giustizia, bisogna innanzitutto prendere atto della fragilità dell’attuale momento storico nel quale i provvedimenti legislativi devono essere in linea con le esigenze di un modello sociale e industriale caratterizzato da un rapido recupero. Una prospettiva complessa nel plumbeo scenario che si profila nel breve e medio tempo, quando si è ancora alla ricerca di soluzioni per uscire dall’emergenza sanitaria, nel quale la giustizia è chiamata a svolgere un ruolo essenziale il cui espletamento, tuttavia, è possibile solo recuperando una piena fiducia. Proprio per questa ragione, la prima riforma da promuovere è quella della magistratura essendo alla stessa demandato il compito di applicare le leggi attraverso una interpretazione coerente alla propria funzione di garante dell’ordine sociale e del rispetto del principio di certezza del diritto. Oggi più che mai, la funzione giurisdizionale è fondamentale oltre che per rimediare al coacervo normativo, la cui carenza di omogeneità costituisce uno dei fattori della crisi del sistema, anche per favorire una concreta funzione unificante all’interno degli ordinamenti nazionale ed europeo nei quali i cittadini reclamano pari diritti di libertà ed economici. La riforma della magistratura in un momento in cui la stessa sta attraversando una profonda delegittimazione, presuppone preservarne ed anzi rafforzarne i principali fondamenti di indipendenza e di autogoverno. Proprio quest’ultimo, come le cronache di questi giorni documentano, vive il pericolo di condizionamenti dei propri assetti istituzionali causato dai contrasti interni. Il controllo disciplinare dell’attività dei magistrati, piuttosto che rappresentare un timore ingiustificato di sanzioni volte a minare la loro indipendenza, deve costituire una garanzia di terzietà ed imparzialità ed essere finalizzato a preservare l’istituzione nel suo insieme nonché i singoli componenti anche dalla tentazione esercitata dai mezzi di comunicazione che, talvolta, ha inciso sulla solidità della loro autonomia. I vantaggi di una Consulta che si apre alla società di Pasquale Pasquino Il Foglio, 15 giugno 2020 La collaborazione degli esperti e i contributi di soggetti terzi già in uso in molte corti straniere. Lontano il rischio della politicizzazione. L’apertura della Corte costituzionale alla società civile, vedremo più precisamente di che cosa si tratta, ha suscitato, come è bene che sia, il dibattito fra i costituzionalisti e qualche commento, necessariamente più vago, sui giornali. La Corte che con il Parlamento, il governo e la presidenza della Repubblica è fra gli organi più importanti del nostro stato costituzionale è però quello meno noto al pubblico, presso il quale gode peraltro di una buona reputazione, come affermano da tempo i sondaggi di opinione. Ed è utile che se ne parli di più e che il suo ruolo, il suo funzionamento e le regole che presiedano alle sue decisioni divengano più familiari ai cittadini i cui diritti essa ha il dovere di proteggere. In questo senso bisogna rallegrarsi del fatto che essa, anche attraverso i suoi ultimi presidenti, abbia cominciato a parlare di più a tutti e non solo agli addetti ai lavori i quali sono in grado di leggere testi inevitabilmente tecnici come le sue sentenze. La decisione presa di recente di aprirsi a soggetti altri rispetto alle parti dei conflitti dinanzi a essa riguarda due figure terze: da un lato esperti, dall’altro soggetti che hanno interessi direttamente legati ai conflitti costituzionali dinanzi alla Corte, senza essere tuttavia in prima persona parti del giudizio. Nel primo caso la Corte fa un ragionevole atto in umiltà, che va intesa qui come assenza di arroganza. I giudici della Consulta sono esperti delle diverse branche del diritto, ma non possono essere a completa conoscenza di tutto lo scibile e di volta in volta possono presentarsi questioni che richiedono competenze specialistiche, per le quali è saggio che la Corte faccia ricorso a esperti. Che si tratti di questioni mediche o tecnologiche o economiche che servono a chiarire punti sui quali guardando essa al diritto e ai diritti dei cittadini la Corte è chiamata a decidere. Ed è certamente utile che la Corte ne solleciti una informativa collaborazione. Nel secondo caso, quello dell’apertura ai contributi di soggetti terzi non bisogna pensare che oggi chiunque, individuo o gruppo, possa invadere la Corte di pareri, ma piuttosto che soggetti direttamente coinvolti dagli effetti della sentenza che la Corte dovrà produrre possano, accanto alle specifiche parti del conflitto, illuminare i giudici sulla questione che essi devono decidere. Come tale apertura si determinerà è difficile da prevedere oggi nei dettagli, essa si definirà, come gran parte del lavoro della Corte sin dalla sua nascita, attraverso la pratica, che potrà dar luogo a regole più precise. È quello che accade in genere nella vita del diritto che non è fatta di immutabili assiomi matematici. Si osservi, inoltre, che queste innovazioni, che parranno azzardate ai più tradizionalisti fra i costituzionalisti, esistono da più o meno lungo tempo in molte corti con competenze simili a quelle della nostra: dal cosiddetto amicus brief, questo da lungo tempo in vigore nei sistemi giudiziari anglo-americani, alla pratica di una corte molto diversa da quella americana, qual è il Conseil constituitionnel francese, dove per una simile forma di accesso all’organo che si occupa della giustizia costituzionale si parla di portes étroites. L’Italia su questo piano era in ritardo, non che si debbano sempre seguire altri modelli, ma in questo caso non si vede la ragione per i giudici di barricarsi dentro la Corte motivati da arroganza onnisciente e da paura rispetto all’esterno. Sui dettagli e sui possibili sviluppi di queste innovazioni si continuerà a discutere e la critica costruttiva, che viene anch’essa dal di fuori della Corte, non può che aiutare al miglioramento dei nuovi strumenti del processo costituzionale. Meno chiara è la minaccia che qualcuno potrebbe far valere di politicizzazione della Corte. Per discutere del tema, bisogna intendersi sul senso delle parole. Sul tema si era espresso con chiarezza già anni addietro il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky in un testo molto utile dal titolo “La Corte in-politica” (Quaderni costituzionali, 2005, p. 273 ss.). Ma già nei primi dibattiti continentali sulla giustizia costituzionale, che ebbero luogo durante la Repubblica di Weimar fra i giuristi di lingua tedesca, Richard Thoma aveva osservato che parlare di politica a proposito di una Corte costituzionale aveva almeno due diversi significati. In un senso positivo, non vi era dubbio per lui che le decisioni di tale organo avessero un impatto sulla vita della polis, la comunità dei cittadini e l’interpretazione dei loro diritti. In un senso negativo con lo stesso termine si faceva riferimento invece al presunto carattere partigiano delle decisioni di tale organo assumendo che necessariamente di parte fossero i suoi membri. Thoma faceva osservare che si potevano certamente scegliere giudici moderatamente partigiani per proteggere l’organo da una possibile corruzione del medesimo. Quasi un secolo dopo quei dibattiti l’esperienza ha insegnato che esistono modalità di nomina dei giudici costituzionali che riducono il tasso di partigianeria dei medesimi. Per opposizione al meccanismo di nomina dei giudici della Corte suprema americana (l’accordo fra il presidente e la semplice maggioranza del Senato, che in presenza di un medesimo colore politico fra questa e l’inquilino della Casa Bianca produce le nomine - a vita - che abbiamo visto imporsi durante la presidenza Trump), si pensi a quelle modalità che richiedono l’accordo dell’opposizione parlamentare per la scelta dei giudici, come avviene per un terzo dei membri della nostra Corte. Gli altri due terzi sono scelti in misura eguale dal presidente della Repubblica e dalle supreme corti del nostro ordinamento giudiziario. Certo l’assenza di una cultura del compromesso nella classe politica italiana ha più di una volta paralizzato tali nomine. Ma chi ha seguito le vicende della Corte sa che canditati, talvolta peraltro perfettamente qualificati e competenti, sono stati bocciati per il loro passato fortemente caratterizzato da una posizione di parte. Si dirà che nessun giudice può essere veramente neutrale; ma qui si confonde una concezione teologica della neutralità, come attributo di un soggetto onnipotente e dotato di tutte le perfezioni, con ciò che il medesimo termine può indicare quando si parla di esseri umani, i quali possono essere solo più o meno di parte. Ed è meglio, grazie ai meccanismi di nomina, che lo siano il meno possibile. Questo tipo di critica non tiene conto nemmeno del fatto che stiamo parlando nel caso delle corti di giustizia di tipo continentale di organi che deliberano collegialmente; il che aiuta a produrre quell’unica neutralità data agli umani la quale consiste nel trovare un punto di aggregazione intorno a un compromesso fra diverse parzialità moderate. Nella deliberazione collegiale i membri del corpo decidente non possono come i cittadini elettori limitarsi a esprimere preferenze, devono fornire argomenti persuasivi ed essere in grado di giungere a compromessi per non diventare marginali. Non essendo elettoralmente responsabili dinanzi a una constituency dalla quale dipenderebbe il rinnovo del loro mandato, la difesa di posizioni di parte cadrebbe nel vuoto, e non potrebbe essere premiata in alcun modo alla scadenza del loro servizio presso la Corte. Per questioni di età o di decenza non sono particolarmente noti casi di ex giudici costituzionali che si impegnano nella vita politica attiva. Guardare fin dove è possibile dentro la Corte, come ogni organo giudiziario tenuta al tempo stesso all’obbligo della motivazione e al segreto della deliberazione, può solo aiutare i cittadini a capirne il ruolo. Così come fa bene alla Corte andare nelle carceri e nelle scuole, invece di restar chiusa sulla bellissima collina alta del Quirinale. Pignatone smantella il reato di abuso d’ufficio: frena il paese di Davide Varì Il Dubbio, 15 giugno 2020 “Rifiuto della firma” da parte dei funzionari pubblici terrorizzati di finire invischiati in qualche inchiesta “temeraria” e scarsi risultati penali. Così l’ex procuratore di Roma ha demolito l’articolo 323 del nostro Codice penale. Uso, anzi, vero e proprio abuso della cosiddetta “burocrazia difensiva”, freno allo sviluppo del Paese e scarsi risultati sul piano della sanzione penale. Sono le tre conseguenze - le più gravi - del reato di abuso d’ufficio. E fin qui nulla di nuovo: da anni ormai l’articolo 323 del nostro codice penale è nel mirino di giuristi e penalisti. La cosa del tutto nuova e inusuale, semmai, è che stavolta le critiche arrivano da Giuseppe Pignatone, l’ex procuratore di Roma che più e più volte nel corso delle sue inchieste ha contestato il reato in questione. Fatto sta che Pignatone prende il toro per le corna e spiega quanto segue. Primo: un utilizzo improprio del reato di abuso d’ufficio determina il cosiddetto “rifiuto della firma” da parte dei funzionari pubblici che per paura di finire invischiati in qualche inchiesta “temeraria” evitano in tutti i modi, e per evitare guai, di agire per il bene pubblico e di assumersi responsabilità; secondo: come conseguenza del punto uno, l’articolo 323 del codice penale concorre a creare sacche di immobilismo produttivo che bloccano l’intero paese; terzo: le statistiche parlano chiaro. “Quasi la metà delle denunce per reati contro la Pubblica Amministrazione riguardano fatti qualificabili come abuso in atti di ufficio; i relativi procedimenti vengono però in gran parte archiviati mentre, secondo una rilevazione di alcuni anni fa, solo il 22% dei processi si conclude con una sentenza di condanna. Anche statistiche più recenti, pur se parziali, confermano questa tendenza. I margini di ambiguità Sull’esattezza di questa analisi e sull’urgenza di un intervento del legislatore vi è un significativo consenso”. Insomma, un vero disastro. E il fatto che la denuncia dell’abuso del reato di “abuso d’ufficio” arrivi da Giuseppe Pignatone, rende la necessità di cambiare quella legge ancora più urgente. E non è un caso che lo stesso Pignatone citi il monito dell’allora presidente della Repubblica Scalfaro: “Non si può avere un mondo di funzionari, di sindaci, amministratori che a un certo punto si trovano impelagati, senza saperlo prima, in un illecito amministrativo o penale”. Sono passati 25 anni da quel monito e i problemi sono rimasti gli stessi. Forse appena un po’ peggiorati. Molti processi, poche condanne. Ma l’abuso d’ufficio frena la Pa di Antonello Cherchi Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2020 La riforma dell’abuso d’ufficio è entrata nei piani del Governo. Lo ha annunciato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che, tra le azioni collegate al Recovery plan, ha inserito il taglio della burocrazia, da realizzare anche circoscrivendo più puntualmente il reato di abuso d’ufficio e la responsabilità erariale. L’obiettivo è evitare che l’incertezza giuridica - determinata dalla quantità di leggi e regolamenti - e la paura di doverne rispondere anche in sede penale freni l’attività della pubblica amministrazione. È il fenomeno della “burocrazia difensiva”, che anche la relazione della commissione guidata da Vittorio Colao indica come uno dei nodi da sciogliere per far ripartire l’Italia. “Non solo i dipendenti pubblici - spiega Andrea Castaldo, professore di diritto penale all’Università di Salerno e titolare dell’omonimo studio legale - hanno a che fare con un numero enorme di norme. Per di più, queste sono spesso di difficile interpretazione. Ciò si traduce da una parte nella difficoltà di applicarle, dall’altra in una discrezionalità lasciata al funzionario pubblico, su cui spesso incombe il rischio dell’abuso d’ufficio”. La burocrazia difensiva - Da qui la fuga del dipendente dal potere di firma. “Ha la meglio -aggiunge Castaldo - la preoccupazione di doversi trovare ad affrontare un procedimento penale. E se è vero che spesso si risolve in un’assoluzione, questa arriva dopo anni. Intanto il danno reputazionale è fatto, con possibili demansionamenti dell’interessato. E non va sottovalutata la questione economica, ovvero la necessità di mettere mano al portafoglio per stare in giudizio”. Un’indagine svolta lo scorso anno sui dipendenti della Regione Campania e coordinata dall’Università di Salerno conferma la paura di agire del dipendente pubblico, con Il 65% degli intervistati che dichiara di sentirsi condizionato nell’attività dal timore di essere sottoposto a un procedimento per abuso d’ufficio. Soprattutto archiviazioni - A ciò si aggiunga che l’articolo 323 del codice penale, che prevede l’abuso d’ufficio, non pare in grado di orientare con chiarezza l’agire dei funzionari. “È troppo ampio il perimetro dei comportamenti a cui si applica e allo stesso tempo è un reato difficile da dimostrare”, afferma Castaldo. Questo si traduce in molte denunce e indagini a fronte di pochissime condanne: secondo l’Istat, nel 2017 sono stati oltre 6.500 i procedimenti aperti dalle procure per abuso d’ufficio e 57 le persone condannate con sentenza irrevocabile. Tendenza confermata dai dati del ministero della Giustizia: dei 7.133 procedimenti definiti nel 2018 dagli uffici Gip e Gup, 6.142 sono stati archiviati, di cui 373 per prescrizione. Il cantiere della riforma - Di una nuova riforma del reato si parla da anni. “L’abuso d’ufficio è la punta di un giudizio di responsabilità che va modificato escludendo almeno la colpa lieve: bisogna decidere quale sia il limite della discrezionalità amministrativa”, chiarisce Giorgio Spangher, professore emerito di procedura penale alla Sapienza di Roma. “Oggi la situazione è molto complessa - prosegue - perché quando un evento coinvolge la Pa la responsabilità non è mai attribuibile a un unico soggetto, ma è diffusa tra funzionari, amministratori e società. Tanto che il numero degli indagati lievita ma è difficile provare le responsabilità”. E con la pandemia, che ha imposto di fare scelte decisive in emergenza, le contestazioni potrebbero aumentare. “La ricerca che da due anni conduciamo sul tema - commenta Castaldo - ci ha portato a elaborare un’ipotesi di riforma che prevede un perimetro più circoscritto delle situazioni a cui si può applicare l’abuso d’ufficio e un parere preventivo che il dipendente può chiedere all’autorità: una volta che vi si conforma non può essere perseguito”. Più radicale Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali: “Il reato di abuso d’ufficio non va riformato, ma abolito. È una nostra vecchia battaglia. È un reato troppo generico, che non serve: bastano le norme che sanzionano le condotte specifiche. Altrimenti, diventa un buco nero dove far ricadere nella dimensione penale condotte di illegittimità amministrativa”. Prima il sorteggio poi il voto: per il Csm arriva il modello misto di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 15 giugno 2020 In attesa del testo del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, per la riforma del sistema elettorale dei componenti togati del Csm inizia a farsi strada un modello “misto”. Prima il sorteggio e poi il voto. In attesa del testo del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, per la riforma del sistema elettorale dei componenti togati del Csm inizia a farsi strada un modello “misto”. Sulla scia della proposta presentata nei giorni scorsi da Fi, ecco arrivare questa settimana quella di “Lettera 150”, un gruppo di docenti e giuristi fra cui Carlo Nordio, Pierpaolo Rivello, Salvatore Sfrecola, Giuseppe Valditara, Claudio Zucchelli. I due meccanismi elettorali sono sostanzialmente simili: un’estrazione a sorte di un paniere, in numero ragionevole, di legittimati passivi, e poi l’elezione dei futuri membri del Csm all’interno di questo paniere. In dettaglio, nella proposta di Forza Italia è previsto che i sorteggiati, magistrati che abbiano almeno la quinta valutazione di professionalità, siano 150, di cui i primi 100 andranno a comporre l’elenco dei soggetti candidati e i 50 restanti l’elenco dei supplenti destinati a subentrare in caso di rinuncia dei candidati. Il numero dei posti è elevato a 20 e di conseguenza, per mantenere il rapporto con i togati stabilito dalla Costituzione di 1 a 3, viene innalzato da 8 a 10 il numero dei laici a Palazzo dei Marescialli. In quella di “Lettera 150”, invece, il numero dei sorteggiati è fissato in 96, senza ritocchi all’attuale numero dei componenti. Tale meccanismo non implica modifiche alla Costituzione che prevede “l’elezione” dei componenti del Csm. Nelle intenzioni tale sistema dovrebbe recidere ogni legame fra il candidato e la corrente, in quanto non sarebbero più le correnti ad individuare ex ante i candidati. “Lettera 150”, poi, ha anche suggerito una modifica del sistema di nomina dei dirigenti, con il ritorno all’anzianità. “Sembra opportuno - si legge nella proposta - ripristinare un sistema che esalti l’anzianità senza deprimere il merito, ma anche che non sia suscettibile di deviazioni”. Il documento dei giuristi affronta poi il tema del procedimento disciplinare a carico dei magistrati, fissandone la durata in un anno. E sull’impugnazione delle sentenze disciplinari davanti alle sezioni unite civili della Cassazione, “si deve raggiungere un equilibrio soddisfacente tra la garanzia di autonomia e indipendenza della magistratura e la necessità di evitare il corporativismo, garantendo un giudice di appello realmente terzo, non appartenente al medesimo ordine cui appartiene l’incolpato”. Sul fronte nomine, invece, mercoledì prossimo è previsto al Csm il voto sul nuovo procuratore di Perugia. Due i candidati: Raffaele Cantone e Luca Masini. Di Matteo: “Le correnti? Metodo mafioso seguire l’appartenenza per le nomine” di Liana Milella La Repubblica, 15 giugno 2020 L’ex pm, ora al Csm, definisce “devastanti” le scarcerazioni dei mafiosi e critica Anm e Csm perché non hanno difeso lui e i colleghi del processo Stato-mafia. Nino Di Matteo a 360 gradi sulle correnti della magistratura per il metodo “mafioso” utilizzato nelle nomine, sulle “devastanti” scarcerazioni dei mafiosi avvenute tra marzo e aprile, sulla solitudine sua e dei suoi colleghi dopo le accuse subite per il processo Stato mafia. Drastico il suo giudizio su Cosa nostra che “fa politica”. Tant’è che Riina, come riferisce Di Matteo durante l’intervista con Massimo Giletti a “Non è l’arena”, dice ai suoi: “Se non avessimo avuto i rapporti con la politica saremmo stati una banda di sciacalli”, cioè, chiosa l’ex pm di Palermo, “dei criminali comuni, e ci avrebbero già azzerato”. Nessuna risposta invece sulla querelle a proposito dell’incarico di direttore del Dap nel 2018 che lo ha portato allo scontro con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede perché, dice Di Matteo, di quello “parlerò in una sede istituzionale”, e cioè giovedì alle 14 di fronte alla commissione parlamentare Antimafia che lo ha convocato. Il Csm e le correnti come la mafia - Di Matteo ripete quanto aveva già detto a novembre dell’anno scorso, nella sede dell’Anm, presentando sé stesso e la sua candidatura per le elezioni suppletive dell’Anm dopo le dimissioni di cinque consiglieri a seguito dell’inchiesta di Perugia per corruzione sull’ex pm Luca Palamara. “Lo dissi, lo ridirei e lo affermo anche oggi - dice Di Matteo - e cioè che privilegiare nelle scelte che riguardano la carriera di un magistrato il criterio dell’appartenenza a una corrente o a una cordata di magistrati è molto simile all’applicazione del metodo mafioso”. Una dichiarazione che già otto mesi fa provocò una durissima reazione. Stavolta Di Matteo mette in guardia i colleghi dal rischio che la magistratura possa rischiare una riforma che la metta sotto “il controllo della politica”. Tant’è che dice: “La valutazione del lavoro di un magistrato o le nomine fatte per incarichi direttivi nei confronti di un magistrato condizionate da un criterio dell’appartenenza sono assolutamente inaccettabili”. Come se ne esce? “Dobbiamo trovare la forza, necessariamente a tutti costi, di invertire per primi la rotta, prima che invece qualcuno possa approfittare di questa situazione di difficoltà e di mancanza di credibilità della magistratura, per fare riforme che hanno uno scopo che non possiamo mai accettare, quello di sottoporre di fatto la magistratura a un controllo da parte del potere politico”. Ovviamente Di Matteo non fa alcun riferimento esplicito alla riforma del Csm su cui sta lavorando il Guardasigilli Alfonso Bonafede, ma è chiaro che si sta parlando di quella. Scarcerazioni “devastanti” - Molto duro anche il giudizio del magistrato antimafia sulle oltre 200 scarcerazioni di mafiosi avvenute tra marzo e aprile. “Il segnale è devastante dal punto di vista simbolico, e comunque è idoneo il ritorno a casa a produrre effetti concreti pericolosi per il futuro. Un mafioso anche al 41 bis si industria sempre per cercare di fare arrivare, soprattutto se è un capo, le direttive fuori dal carcere ai suoi”. E aggiunge: “Figuriamoci se quel mafioso ha avuto la possibilità di tornare a casa”. Palamara e Di Matteo fuori dal pool sulle stragi - L’ex pm parla anche di Palamara e racconta di aver scoperto dalle carte di Perugia il giudizio dell’ex pm su di lui e sulla sua estromissione dal pool sulle stragi quando era in quota alla Procura nazionale antimafia: “Ho verificato dagli atti di Perugia che il dottor Palamara, prima che avvenisse questa esclusione, si era, diciamo, lamentato del fatto che io facessi parte di questo gruppo. E nel momento in cui venne resa nota la mia estromissione, accolse la notizia, diciamo, con molta soddisfazione. Non devo essere io a dire cosa penso”. Abbandonato da Csm e Anm - Di Matteo non riesce a dimenticare di non aver avuto la solidarietà “né dell’Anm, né del Consiglio superiore della magistratura” che “dimostrarono un pericoloso collateralismo politico” quando lui e i suoi colleghi impegnati nell’inchiesta per la trattativa Stato-mafia furono attaccati per le intercettazioni in cui era stato coinvolto l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “Quando partì questa indagine - dice Di Matteo - molti pensavano che fosse frutto di una costruzione, di un teorema politico di magistrati un po’ fantasiosi. Nel tempo molti si resero conto che l’indagine si riferiva a fatti concreti, che non era frutto di una fantasia, adesso oggetto di una sentenza di primo grado e prima ancora di un decreto di rinvio a giudizio”. Ma Di Matteo parla soprattutto di quando esplose il caso delle intercettazioni: “C’è stato un momento in cui, soprattutto dopo la vicenda delle intercettazioni che erano state legittimamente disposte dal gip su nostra richiesta per le utenze in uso al senatore Mancino e alla registrazione di alcune telefonate con il presidente Napolitano, che a noi è stato detto di tutto, siamo stati definiti ricattatori del capo dello Stato, eversori. Quando morì il compianto dottor D’Ambrosio ci chiamarono assassini. In quell’occasione, rispetto a ingiurie e calunnie, non ci ha difeso nessuno. Né l’Anm, né il Csm, che in quel momento dimostrarono un pericoloso collateralismo politico schierandosi per motivi di opportunità dalla parte del potere politico”. La storia, anche recente, rivista per via giudiziaria e le fosse del senno di poi di Claudio Cerasa Il Foglio, 15 giugno 2020 Coloro che oggi tifano per l’incriminazione del governo, sulla zona rossa, sono gli stessi che ai tempi chiedevano di non chiudere nulla e sono gli stessi che hanno vissuto la stagione del lockdown con maggiore insofferenza (vogliamo libertà!). Mentre, dall’altra parte, i politici che oggi guardano con sospetto i pm sono gli stessi che negli ultimi decenni hanno fatto di tutto per dare ai pm potere di vita e di morte sulla politica. C’è un filo sottile, forse impercettibile ma non per questo ininfluente, che lega in modo curioso due storie che negli ultimi giorni hanno colpito l’attenzione di molti osservatori. La prima storia riguarda la furia cieca dei nuovi poliziotti del politicamente corretto contro alcune opere del passato, film, telefilm, statue, monumenti, sculture, opere che se osservate con uno sguardo pigro, superficiale e qualunquista, contestualizzato rispetto alla stagione in cui viviamo, possono prestare il fianco a un osceno processo di revisionismo culturale, una volta iniziato il quale si sa da dove si comincia (Cristoforo Colombo, Churchill, Hazzard, “Via col vento”) ma non si sa dove si finisce (il Colosseo era usato per esibire gli schiavi, che aspettiamo ad abbatterlo? e “Vacanze di Natale” dei Vanzina prendeva in giro i camerieri non bianchi, che aspettiamo a ritirare tutte le pellicole dal commercio equo, corretto e solidale?). La seconda storia riguarda invece la notevole eccitazione mediatica generata dalla sfilata concessa, si fa per dire, dai procuratori di Bergamo di fronte a Palazzo Chigi, e per quanto possano essere pacifiche le intenzioni dei magistrati di Bergamo (di procura di Trani ce n’è una e basta e avanza quella) è difficile non intravedere nella traiettoria imboccata dai pm la volontà di mettere a fuoco non solo un semplice ed eventuale reato commesso ma anche qualcosa di più importante: una verità storica da certificare con l’autorevole bollino. Le due questioni, messe così, possono apparire molto distanti l’una dall’altra, ma se le si guarda con attenzione presentano un tratto in comune non irrilevante: la volontà di riscrivere alcune storie del passato utilizzando le lenti distorte del presente. E così come è un errore osservare simboli e icone del passato con le decontestualizzanti chiavi di lettura del presente, allo stesso modo è un errore osservare una tragedia del passato prossimo del nostro paese, come la stagione acuta della pandemia, con le decontestualizzanti chiavi di lettura disponibili in questo momento. Del senno di poi, direbbe forse oggi Alessandro Manzoni, ne son piene le fosse, e se ci si pensa bene la grancassa mediatica che soffia sulle vele della procura di Bergamo sta cercando in modo più o meno indiretto di spingere i magistrati a dimostrare ciò che semplicemente non si può dimostrare. Ovverosia che l’Italia, nella gestione della pandemia, ha commesso errori che altri paesi non hanno compiuto, e che per questa ragione chi ha governato la stagione del virus merita di essere rimosso con la stessa violenza con cui in giro per il mondo si abbattono le statue. Coloro che in questi giorni stanno tentando di leggere i fatti degli ultimi mesi utilizzando questa chiave di lettura non stanno semplicemente facendo confusione tra codice penale e codice morale (in politica, non tutto ciò che si considera sbagliato può essere codificato come reato e la discrezionalità del potere giudiziario deve sempre finire lì dove inizia la discrezionalità del potere esecutivo) ma stanno anche tentando di rimuovere una verità difficilmente contestabile che suona grosso modo così: i problemi drammatici che l’Italia ha avuto nella gestione della fase pandemica non sono problemi che hanno riguardato esclusivamente l’Italia ma sono problemi che a ben vedere hanno riguardato buona parte dei paesi che hanno avuto a che fare con la pandemia. Pensate alle Rsa, per esempio. In Italia, il 65 per cento delle morti per Covid-19 è stato registrato nelle Rsa. Tra Milano e Lodi le morti, in queste strutture, sono state il 46 per cento del totale. In Belgio, nelle strutture dedicate agli anziani vi è stato, solo a maggio, il 51 per cento dei decessi per Covid. In Spagna le vittime nelle case di riposo sono state il 66 per cento del totale. In Francia il 50 per cento. In Norvegia il 61 per cento. In Svezia e in Scozia il 45 per cento. E come ammesso qualche settimana fa dal direttore dell’area europea dell’Oms, Hans Kluge, fino alla metà dei decessi avvenuti per Covid-19 in Europa si è registrata in queste strutture. Lo stesso vale per il personale medico infettato e deceduto a causa dei protocolli stabiliti purtroppo con scarso tempismo in tutto il mondo (i medici infettati e deceduti sul totale del paese sono arrivati al 14 per cento in Spagna, all’otto per cento negli Stati Uniti, al 10 per cento in Italia). E come segnalato sabato scorso dal Corriere della Sera, le denunce contro la politica non sono solo in Italia ma sono ormai in tutto il mondo (da Londra a New York, e solo a Parigi la scorsa settimana ci sono state ottanta denunce). La storia si può tentare di riscrivere, ci mancherebbe, ma prima di riscriverne una nuova bisognerebbe conoscere quella vera, e bisognerebbe avere il coraggio di non chiudere gli occhi di fronte a tutto quello che è successo negli ultimi mesi. Ad aggravare la pandemia non è stato il partito del denaro, non è stata l’irresponsabilità della politica, non è stata l’incoscienza dei governanti, non è stata la smania di protagonismo dei virologi, ma è stata l’incertezza generata da una delle crisi sanitarie più violente mai conosciute dall’uomo in epoca moderna, che ha portato morti ovunque, senza fare distinzioni di ceto, e che ha costretto medici, operatori sanitari e politici a lavorare a lungo, sotto uno sguardo troppo a lungo imbelle di un Oms ostaggio della Cina, in uno stato di necessità, senza linee guida, o senza programmi terapeutici noti e approvati. In questo senso, un paese che vuole fare di tutto per proteggere in futuro i suoi cittadini, oltre che far sentire protetti i medici che hanno operato in condizioni di emergenza durante la pandemia offrendo loro uno scudo penale, eccezion fatta per i casi relativi al dolo, dovrebbe fare di tutto non per riscrivere la storia ma per provare a scriverne una diversa cercando di capire per esempio se è solo un caso che uno dei pochi paesi al mondo che ha gestito l’emergenza in condizioni di emergenza, ovvero la cattivissima Germania, un paese che in modo davvero incomprensibile risparmia molto quando si può risparmiare e spende molto quando si deve spendere, è lo stesso paese che da anni l’opinione pubblica italiana, piuttosto che indicare come modello da seguire, indica come modello da combattere. Basterebbe tutto questo per segnalare i molti cortocircuiti presenti nella storia del revisionismo storico alimentato per via giudiziaria se non fosse che c’è un ultimo cortocircuito spassoso che merita di essere segnalato in coda al nostro ragionamento. Ci avete fatto caso? Coloro che oggi tifano per l’incriminazione del governo, sulla zona rossa, sono gli stessi che ai tempi chiedevano di non chiudere nulla e sono gli stessi che hanno vissuto la stagione del lockdown con maggiore insofferenza (vogliamo libertà!). Mentre, dall’altra parte, i politici che oggi guardano con sospetto i pm sono gli stessi ma proprio gli stessi che negli ultimi decenni hanno fatto di tutto per dare ai pm potere di vita e di morte sulla politica. Come direbbe Manzoni: del senno di poi ne son piene le fosse. Tribunali dei minori, allarme violenze in casa: interventi raddoppiati di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 15 giugno 2020 Sabato scorso, a tarda notte, un signore porta a spasso il cane. Viene attirato dai pianti disperati che arrivano dal mezzo di una siepe. È un bambino di circa due anni, origini egiziane. Pare caduto dall’alto. Alla finestra proprio lì sopra, quarto piano, una bimba urla: “Il mio fratellino!”. Da basso accorre il fratello maggiore, 14 anni, che vuole riportare a casa il piccolo. Il soccorritore chiama il 118, gli intima di non toccarlo. Chiede al ragazzo di far scendere un genitore, che però non arriva. Il padre è al lavoro, la mamma non parla italiano e sceglie di restare in casa, sgomenta. In ambulanza il piccolo è senza di loro. L’ospedale, reparto rianimazione, constata: femore rotto, milza spappolata. Lo operano. A distanza di una settimana è grave, ma per miracolo non in pericolo di vita. Sulla dinamica le indagini sono in corso e la versione dei genitori risulta confusa: hanno dichiarato che il piccolo ha aperto da solo la porta blindata ed è sceso da solo per quattro piani di scale forse cadendo “nella corsa”. Il fratello maggiore, adolescente, si è subito difeso: “Non sono stato io”, aggiungendo che la mamma aveva chiuso la finestra allontanando una vicina sedia, poco prima dell’arrivo dell’ambulanza. Comunque sia andata, l’episodio si inserisce in un contesto complicato. Da fine 2018 c’è un fascicolo aperto presso il Tribunale per i minori che all’epoca aveva già sancito le limitate capacità genitoriali chiedendo misure di protezione nei confronti dei bambini esposti ad un contesto di vita pregiudizievole, in stato di grave incuria e in un clima di forte tensione, a tratti violento. Circoscritta la responsabilità genitoriale, i servizi avevano già allora avviato l’intervento domiciliare per tentare di coinvolgere i genitori in un progetto di crescita per sé e per i figli. “Negano la gravità del loro comportamento e questo rende impossibile interventi volti ad affrontare le numerose problematiche esistenti in un percorso di sostegno alla genitorialità”, sostengono però i servizi, che anche durante il lockdown hanno incontrato virtualmente, con quattro incontri via Zoom, la famiglia, in crisi come tante altre, senza neanche l’àncora della scuola, rimasta chiusa da fine febbraio e mai più riaperta. “L’emergenza sanitaria si è tradotta in emergenza sociale e lo dimostra l’attività del Tribunale per i minori che si è trovato a svolgere funzione di pronto soccorso rispetto all’aumento di derive domestiche. Abbiamo quasi raddoppiato il numero dei provvedimenti a protezione di bambini e ragazzi”, nota la presidente Maria Carla Gatto. Dal 10 marzo al 31 maggio l’autorità giudiziaria di via Leopardi ha emesso 657 provvedimenti provvisori (contro 356 nel 2019 e 321 nel 2018) con 91 allontanamenti dei minori (contro 38 nel 2019 e 44 nel 2018) e 41 dei conviventi (contro 20 nel 2019 e 29 nel 2018). “Ha senz’altro pesato anche la chiusura protratta dell’istituzione scolastica, presidio educativo e sociale che svolge anche attività di controllo e supporto a famiglie in difficoltà - continua Gatto. Ancora oggi non si è deciso come e quando riapriranno. Mentre tutto il resto è ripartito, i diritti dei minori sotto questo aspetto permangono in lockdown”. Per quanto riguarda la famiglia, nell’urgenza è stato deciso il collocamento temporaneo dei quattro bambini presso una comunità educativa insieme alla mamma (il piccolo raggiungerà gli altri quando verrà dimesso dall’ospedale), ma in prospettiva si valuterà un progetto rivolto solo ai minori. I genitori hanno bisogno di aiuto ma finora non sono riusciti a capitalizzare quello ricevuto. “Non ho mai imparato a fare bene la mamma, non ho abbastanza cura e pazienza”, ha detto in arabo la signora agli assistenti sociali quando ha saputo dell’invio in comunità mentre il padre, che lavora tutta la settimana, anche di sera e al weekend, ha abbassato lo sguardo: “Quanto accaduto l’altra notte era inevitabile, più grande di quanto possiamo fare noi”. Alcoltest: anche se il conducente lo rifiuta deve sapere che può chiamare un avvocato di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2020 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 30 aprile 2020 n. 13493. L’avvertimento della facoltà di farsi assistere da un difensore deve essere rivolto al conducente del veicolo nel momento in cui viene avviata la procedura di accertamento strumentale dell’alcolemia con la richiesta di sottoporsi al relativo test, anche nel caso in cui l’interessato rifiuti di sottoporsi all’accertamento. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza 30 aprile 2020 n. 13493. Quindi, secondo la Cassazione, la polizia giudiziaria è tenuta nel procedere al compimento dell’accertamento (quindi prima di procedervi) ad avvertire la persona sottoposta alle indagini che ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia. Si tratta di una facoltà difensiva il cui esercizio deve fronteggiarsi con l’urgenza e indifferibilità dell’alcoltest, dando vita a contemperamenti che si traducono, essenzialmente, nell’esclusione del diritto del difensore nominato di essere previamente avvisato e del dovere della polizia giudiziaria di attendere l’arrivo del difensore eventualmente nominato. Ciò però non preclude all’indagato, preavvertito della facoltà, di mettersi in contatto con il difensore, di chiedere e ricevere i consigli del caso; né impedisce al difensore di essere presente all’accertamento, se, ad esempio, si trovi nelle vicinanze del luogo in cui si stia procedendo al medesimo e sia in grado di intervenire nello spazio di pochi minuti e di esercitare la difesa, ad esempio richiedendo la verbalizzazione di eventuali osservazioni riguardanti i presupposti e le modalità di esercizio del potere da parte degli organi di polizia, che potrebbero rendere legittimo il rifiuto di sottoporsi all’accertamento. In definitiva, secondo il giudice di legittimità, l’avvertimento della facoltà di farsi assistere da un difensore deve essere rivolto al conducente del veicolo sempre nel momento in cui viene avviata la procedura di accertamento strumentale all’alcolemia con la richiesta di sottoporsi al relativo test, non potendo in quel momento gli organi di polizia apprezzare se l’interessato si sottoporrà alla prova o rifiuterà di farlo. L’inosservanza del dovere dell’avvertimento genera l’irrilevanza penale del rifiuto, perché se è pur vero che contravvenzione di cui al comma 7 dell’articolo 186 del codice della strada si perfeziona con il rifiuto dell’interessato e dunque nel momento in cui l’agente ha espresso la sua indisponibilità a sottoporsi all’accertamento, perché il rifiuto possa integrare detta contravvenzione deve trattarsi di accertamento legittimamente richiesto. In termini, tra le altre, si veda sezione IV, 27 marzo 2018, Cordenons, secondo cui l’avvertimento della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia mentre non è dovuto solo in caso di accertamenti preliminari o esplorativi (cfr. sezioni Unite, 29 gennaio 2015, Proc. gen. App. Venezia in proc. Bianchi), deve essere invece rivolto dagli organi di polizia stradale al conducente del veicolo nel momento in cui viene avviata la procedura di accertamento strumentale dell’alcolemia, con la richiesta di sottoporsi al relativo test, e ciò anche nel caso di rifiuto all’effettuazione dell’accertamento da parte dell’interessato. La Corte, per l’effetto, con la sentenza massimata, prende esplicitamente e consapevolmente le distanze, dal diverso orientamento secondo cui, invece, l’avvertimento della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia non sarebbe necessario in caso di rifiuto all’effettuazione dell’accertamento da parte dell’interessato, e ciò perché, in caso di rifiuto, verrebbe integrato il reato sanzionato dall’articolo 186, comma 7, del codice della strada, e non ci sarebbe più alcun atto da compiere per il quale vada dato l’avviso sulla possibile presenza del legale di fiducia, che appunto presume la riscontrata volontà dell’interessato di sottoporsi al controllo (tra le altre, sezione IV, 16 gennaio 2020, Lachhab). Istanza revoca misure cautelari, non va notificata alla persona offesa se non è “notiziabile” di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2020 Cassazione - Sezione I penale - Sentenza 12 febbraio 2020 n. 5552. L’obbligo per l’imputato di notificare alla persona offesa l’istanza di revoca o di sostituzione delle misure cautelari coercitive applicate nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, non sussiste in caso di difetto di una nomina di difensore da parte della persona offesa ovvero in difetto di dichiarazione o elezione di domicilio della stessa persona offesa. In sostanza, secondo la Cassazione (sentenza 5552/2020), nei procedimenti per reati commessi con violenza alla persona, l’inammissibilità dell’istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare coercitiva in atto per omessa notifica alla parte presuppone che quest’ultima sia “notiziabile”, ovvero abbia nominato un difensore oppure dichiarato o eletto domicilio, e che tali dati siano rilevabili dagli atti accessibili all’istante. Questa conclusione, secondo la Corte, non solo risulta palese dalla formulazione letterale della norma ma si spiega anche per ragioni di ordine logico e sistematico, ove si consideri che l’onere dell’avviso condiziona la procedibilità delle istanze de libertate e quindi - in concreto - l’esercizio del diritto di difesa da parte dell’indagato o dell’imputato e l’interesse di costoro a non vedere ingiustificatamente negato o sospeso l’esame delle loro richieste in una materia così delicata quale quella della libertà personale. Appare allora evidente - secondo il ragionamento del giudice di legittimità - che tale situazione comporta necessariamente il contemperamento di due diversi ordini di beni tutelati e costituzionalmente rilevanti: da un lato i diritti di libertà e di difesa delle persone indagate o imputate e dall’altro i diritti di tutela della vita privata, dell’incolumità personale e dell’esercizio delle proprie facoltà delle persone offese dal reato. Tale contemperamento risulta raggiunto ove la vittima del reato abbia provveduto agli adempimenti previsti dal citato articolo 299, comma 3, del Cpp; in tali ipotesi, infatti, la parte offesa mostra quell’interesse a conoscere le vicende processuali di colui che ha esercitato e può continuare a esercitare violenza nei suoi confronti e al contempo mette l’indagato o l’imputato nelle condizioni di effettuare celermente le notifiche necessarie a consentire la definizione del procedimento incidentale de libertate che lo riguarda. La Corte, nell’aderire a un orientamento già presente nella giurisprudenza di legittimità (per tutte, sezione II, 3 maggio 2017, A.), prende consapevolmente le distanze dall’opposto orientamento secondo il quale, invece, l’istanza avrebbe dovuto essere comunque notificata alla persona offesa, anche in assenza di nomina di difensore ovvero di assenza di dichiarazione/elezione di domicilio (cfr. sezione VI, 14 novembre 2017, A.). Sulla tematica, cfr. anche sezione II, 15 aprile 2016, A., laddove si è affermato che, nel caso di procedimento penale in fase di indagine, in cui l’istante non abbia potuto notiziare la persona offesa dell’istanza di revoca o sostituzione della misura cautelare per non essere stati ancora depositati gli atti dai quali potere desumere i dati della persona offesa (nomina del difensore o dichiarazione o elezione di domicilio), non potrà che essere lo stesso giudicante, adito in sede di istanza, nell’ipotesi di omessa notifica della stessa a parte offesa notiziabile, a verificare se detta omissione possa ritenersi colpevole o meno, ossia se il dato di ricerca potesse essere ricavato dagli atti accessibili alla parte o meno, e solo nel primo caso il giudicante dovrà dichiarare l’inammissibilità dell’istanza; mentre, nell’ipotesi in cui questa verifica comprovi l’esistenza di un’omissione del tutto incolpevole (o, comunque, scusabile), per essere la persona offesa non identificabile, l’istanza dovrà essere valutata nel merito per l’impossibilità di adempiere all’obbligo informativo. La protezione penale del know how aziendale. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2020 Delitti contro l’inviolabilità dei segreti - Rivelazione di segreti industriali - Bene giuridico tutelato - Know how aziendale - Riconducibilità del know how aziendale. È nell’art. 623 del codice penale, il cui bene giuridico protetto è individuato nell’interesse alla non divulgazione di notizie attinenti ai metodi che caratterizzano la struttura industriale, che si rinviene la tutela penale del know how aziendale, per tale intendendosi quel patrimonio cognitivo e organizzativo necessario per la costruzione, l’esercizio, la manutenzione di un apparato industriale. Con tale espressione ci si riferisce sostanzialmente a una tecnica, una prassi o una informazione e, in via sintetica, all’intero patrimonio di conoscenze di un’impresa, frutto di esperienze e di ricerca accumulatesi negli anni, capace di assicurare all’impresa stessa un vantaggio competitivo e quindi un’aspettativa di maggior profitto economico. [Nel caso di specie, si è ritenuto applicabile l’art. 623 c.p. nei confronti di un gruppo di lavoratori che, dopo aver lavorato in una grande azienda meccanica avevano creato una loro azienda in concorrenza con la vecchia impresa realizzando apparecchiature elettroniche con caratteristiche simili]. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 4 giugno 2020 n. 16975. Reati informatici - Accesso abusivo a un sistema informatico - Tutela delle informazioni riservate in ambito industriale - Rivelazione di segreti scientifici o industriali. In tema di rivelazione di segreti scientifici o industriali (articolo 623 c.p.), il concetto di notizia destinata al segreto va elaborato, sotto l’aspetto soggettivo, con riferimento all’avente diritto al mantenimento del segreto stesso (il titolare dell’azienda) e, sotto l’aspetto oggettivo, all’interesse a che non vengano divulgate notizie attinenti ai metodi (di progettazione, produzione e messa a punto dei beni prodotti) che caratterizzano la struttura industriale e, pertanto, il cosiddetto know-how, vale a dire quel patrimonio cognitivo ed organizzativo necessario per la costruzione, l’esercizio, la manutenzione di un apparato industriale; ne consegue che oggetto della tutela penale del reato in questione deve ritenersi il segreto industriale in senso lato, intendendosi per tale quell’insieme di conoscenze riservate e di particolari modus operandi in grado di garantire la riduzione al minimo degli errori di progettazione e realizzazione e dunque la compressione dei tempi di produzione. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 25 ottobre 2018 n. 48895. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Rivelazione di segreti scientifici o industriali - Acquisizione unitaria di una pluralità di informazioni con diverso contenuto - Natura di atto preparatorio - Successive condotte di rivelazione o impiego delle notizie acquisite - Rilevanza - Pluralità di reati - Sussistenza. In tema di rivelazione di segreti scientifici o industriali, l’unitaria acquisizione di una pluralità di informazioni con diverso contenuto - quali i processi industriali, le caratteristiche dei prodotti e le specifiche politiche commerciali - costituisce un atto meramente preparatorio rispetto al quale le successive condotte di rivelazione o di impiego di siffatte notizie rappresentano il momento consumativo di una pluralità di reati, eventualmente unificati dall’unitaria determinazione criminosa, ai sensi dell’art. 81 cod. pen. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 12 luglio 2016 n. 29205. Reati contro la persona - Delitti contro la libertà individuale - Rivelazione di segreti scientifici o industriali - Sussistenza dei presupposti per la brevettabilità della scoperta o della applicazione rivelata - Necessità ai fini della configurabilità del reato - Esclusione. In tema di delitti contro la inviolabilità dei segreti, non costituisce condizione, ai fini della configurabilità del reato di rivelazione di segreti industriali - che ha per oggetto la tutela penale del patrimonio cognitivo e organizzativo necessario per la costruzione, l’esercizio e la manutenzione di un apparato industriale - la sussistenza dei presupposti per la brevettabilità, ex art. 2585 c.c., della scoperta o dell’applicazione rivelata. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 26 marzo 2010 n. 11965. La giustizia che assolve di Vittorio Coletti La Repubblica, 15 giugno 2020 Vedendoli così, sopraffatti dal dolore e dallo sgomento, ai genitori di Martina Rossi non viene da dire altro che doverose e sentite parole di conforto e sostegno nella loro battaglia umana e legale. La loro figlia, si sa, è morta in Spagna in circostanze molto dubbie, che, all’inizio, i magistrati spagnoli hanno giudicato non imputabili a nessuno; poi quelli italiani, in primo grado, hanno ritenuto colpa indiretta di due giovanotti aretini, condannandoli, e ora, in appello, di nuovo non attribuibili a terzi, tanto che hanno assolto gli imputati “perché il fatto non sussiste”. L’ultima parola spetterà alla Cassazione. Questi due genovesi hanno un’aria così dignitosa e forte nel loro inesauribile dolore che ci si sente autorizzati, commentando il loro calvario giuridico, a parole non solo di circostanza. Il padre di Martina, sentita la sentenza di assoluzione degli imputati, ha detto “non c’è più la giustizia”. È difficile, in certi momenti, ricordare che la giustizia degli uomini coincide con la condanna solo se i colpevoli sono giudicati tali oltre ogni ragionevole dubbio, se no, quando i giudici non raggiungono la convinzione e la prova della colpevolezza degli accusati, coincide con l’assoluzione. Istintivamente ce ne dimentichiamo; lo fanno tanti, anche politici e magistrati. Siamo inclini a identificare la giustizia con la condanna degli imputati e non ci rendiamo conto che, se l’azione giudiziaria è cresciuta nei secoli in civiltà giuridica e umana, è proprio perché, oltre a condannare, ha preso anche ad assolvere. Uno straordinario progresso culturale e civile ha indotto, solo da due o tre secoli in qua (e non ovunque), a inserire nei doveri della giustizia anche l’assoluzione, non solo dell’innocente (come ovvio), ma persino del colpevole di cui non è evidente o comprovata la colpa. Per millenni, fin quasi a ieri, in certi paesi ancora oggi, chi arrivava davanti a un giudice era condannato. Poteva essere perdonato, ma non assolto. La civiltà del diritto moderno, quella nata dopo Beccaria, ha cambiato e quasi capovolto questa regola non scritta e l’assoluzione nel dubbio è diventata oggi un cardine del giudizio penale, non meno della condanna del colpevole. È vero che un’interpretazione e un’applicazione puramente formaliste e cavillose della legge hanno a volte portato ad assolvere imputati assai sospetti, con gran discredito di giudici e giustizia, che debbono rispettare le forme ma non tradire lo spirito delle leggi. Tuttavia l’assoluzione in caso di dubbio resta uno dei più nobili gesti della giustizia legale. Hanno mille ragioni i genitori di Martina a dubitare degli imputati al processo di Firenze, tanto più che, senza l’intervento di qualcuno, si dovrebbe supporre che una ragazza serena e festosa come loro figlia si sia improvvisamente e inspiegabilmente buttata dalla finestra. Ma la giustizia degli uomini può condannare solo quelli che ritiene non solo altamente sospettabili, ma anche colpevoli al di là di ogni ragionevole dubbio, perché, se ne resta uno, ha il dovere di assolvere. Il principio che è meglio mandare assolto un colpevole che condannare un innocente è ormai scritto nelle tavole del diritto e parifica di fatto all’innocente l’imputato di cui non è ben dimostrata la colpa. Oggi non si dà neppure più, nel dispositivo delle sentenze, l’assoluzione per insufficienza di prove, neanche se questa è la motivazione del proscioglimento. La giustizia umana ha imparato che la verità processuale non è, purtroppo, quella storica, e proprio per questo esige quasi una certezza nei giudici per autorizzarli a una condanna e fa del dubbio un principio così sacrosanto che si è organizzata per rivedere uno stesso giudizio in più gradi. È un acquisto in civiltà di cui non misuriamo, forse, il bene prezioso. Eppure la credibilità e l’autorevolezza della giustizia odierna stanno proprio nell’ampio spazio del dubbio, nel dovere dell’assoluzione quando non è assolutamente (o quasi) certo il reato o il colpevole. Del resto, la povera vittima di un omicidio sarebbe forse, per altro minimamente e vanamente, risarcita dalla condanna dei suoi assassini. Ma che bene ne potrebbe avere se i condannati fossero innocenti o non del tutto accertata la loro colpa? Sarebbe più onorata da una giustizia che, nonostante il dubbio, condanna o da una che, nel dubbio, assolve? Santa Maria Capua Vetere. Detenuti trasferiti dopo la rivolta, arrivano nuovi agenti di Giuseppe Cozzolino napoli.fanpage.it, 15 giugno 2020 Sono stati trasferiti in altre carceri della Campania i tre detenuti accusati di essere i responsabili della rivolta avvenuta a Santa Maria Capua Vetere, terminata con otto poliziotti feriti. In arrivo nuovi agenti per sopperire alle carenze d’organico. Il parlamentare Rosato: “Sembrava un film americano”. Sono stati trasferiti tre dei detenuti considerati i “promotori” della rivolta scoppiata ieri nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, nel Casertano, costata il ferimento di otto agenti della polizia penitenziaria. I tre sono stati portati nelle carceri di Avellino, Benevento ed Ariano Irpino, e sono tutti e tre detenuti di origine extracomunitaria. Facevano parte del reparto “Danubio” del carcere di Santa Maria Capua Vetere di Caserta, il reparto dove ci sono i detenuti considerati “problematici” proprio per l’ordinamento carcerario. Uno dei tre trasferiti, e responsabile della rivolta dell’altro giorno, è risultato poi essere stato protagonisti anche di altri episodi nel carcere di Carinola, dove aveva aggredito cinque agenti, per essere poi trasferito proprio a Santa Maria Capua Vetere. La dinamica della rivolta - Due le fasi in cui si è articolata la vicenda: la prima nella tarda serata di venerdì, quando due detenuti di origine extracomunitaria hanno aggredito sei agenti che li stavano accompagnando in infermeria dopo che uno dei due aveva dato fuoco ad una cella. Nella mattinata di sabato, invece, durante il passeggio (dalle 9 alle 12), hanno aggredito gli agenti presenti. Questi sono riusciti però ad uscire dal reparto, chiudendo di fatto i detenuti all’interno ed evitando che il tutto degenerasse. Reparto che così per qualche ora è stato “occupato” dai detenuti, fin quando dopo una trattativa questi sono rientrati nelle loro celle. Da segnalare anche che alcuni poliziotti si sono rifiutati di entrare nel reparto dopo l’accusa di tortura e abuso di potere per i quali erano stati incriminati giovedì scorso. Rosato: “Scene da film americano” - La rivolta nel carcere casertano è stata commentata da Ettore Rosato, vicepresidente della Camera dei Deputati e Presidente di Italia Viva, che nelle scorse ore era stato proprio a Napoli ed anche nello stesso carcere casertano. “Non è un film americano”, ha commentato Rosato, “ma il carcere di Santa Maria Capua Vetere. Sono venuto a portare la mia solidarietà al personale della polizia penitenziaria, vittima spesso di queste aggressioni, dei vuoti di organico e della disorganizzazione del sistema carcerario”, ha aggiunto Rosato. Arrivano nuovi agenti nel carcere casertano - Uno degli agenti feriti, quello nelle condizioni più gravi rispetto agli altri, è stato intanto dimesso dall’ospedale. Nel pomeriggio c’era stata anche la visita nel nosocomio di Caserta da parte di Bernardo Petralia, capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e del suo vice, Roberto Tartaglia. Intanto, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, sono già in arrivo nuovi agenti, mentre non si placano le polemiche da parte dei sindacati. “Apprezziamo che i vertici del Dap siano intervenuti a supporto delle criticità della polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere, anche sul fronte dell’organico”, ha spiegato il segretario regionale dell’Unione Sindacati Polizia Penitenziaria, Ciro Auricchio, “ma ora aspettiamo le scuse da parte dell’Arma dei Carabinieri per la mortificazione subita con le operazioni di identificazione dei nostri agenti eseguite davanti all’ingresso del carcere, mentre erano presenti i familiari dei detenuti che andavano al colloquio”. Santa Maria Capua Vetere. Carcere senza pace: 100 agenti si mettono in malattia dopo la rivolta edizionecaserta.net, 15 giugno 2020 Sono stati trasferiti in altre strutture penitenziarie campane (Avellino, Benevento e Ariano Irpino) i tre detenuti extracomunitari promotori della rivolta scoppiata ieri al carcere di Santa Maria Capua Vetere, che ha portato al ferimento di otto agenti della penitenziaria. I disordini sono avvenuti al reparto “Danubio”, quello in cui sono reclusi, anche in isolamento, una cinquantina di detenuti cosiddetti “problematici” per l’ordinamento carcerario, che si sono resi responsabili cioè di intemperanze e violenze dietro le sbarre. Uno dei tre, già nell’altro carcere casertano di Carinola, aveva in passato aggredito almeno cinque agenti, ed era così stato trasferito alla struttura di Santa Maria Capua Vetere. “Il problema è che nel reparto Danubio - dice un agente in servizio al carcere che non vuole essere citato - sono arrivati anche i promotori delle rivolte scoppiate in altri penitenziari, tra cui Foggia e Rieti, durante il periodo più critico dell’emergenza Coronavirus; teste molto calde che in un primo momento erano state tenute in diversi reparti del carcere, poi sono state portate al Danubio, in isolamento, perché davano problemi. Mettere cinquanta teste calde tutte insieme non è mai una buona idea, e a farne le spese siamo stati noi poliziotti penitenziari”. Sono un centinaio gli agenti in servizio al carcere casertano, tra questi anche qualcuno dei 57 indagati per i presunti pestaggi di detenuti avvenuti il 6 aprile scorso, che si sono messi in malattia a causa dello stress provocato da una situazione che, nel carcere di Santa Maria, “è ormai diventata insostenibile”. Così già ieri sera sono arrivate le nuove unità di rinforzo promesse dai vertici del Dap, ovvero quasi un centinaio di agenti del Gom (Gruppo Operativo Mobile) che garantiranno il funzionamento della struttura. Ieri i vertici nazionali del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il capo Bernardo Petralia e il vice Roberto Tartaglia, sono venuti a far visita al carcere, per manifestare la loro vicinanza agli agenti; hanno incontrato anche il poliziotto che durante la rivolta ha riportato le lesioni più importanti. Intanto è ormai stata ricostruita la dinamica della rivolta, scandita da due momenti: il primo nella tarda serata di venerdì, quando due extracomunitari hanno aggredito con violenza i sei agenti che li trasportavano in infermeria, dopo che uno dei due aveva dato fuoco ad una cella. Ieri mattina invece gli altri detenuti dello stesso reparto, mentre stavano facendo il passeggio (dalle 9 alle 12) hanno aggredito gli agenti presenti, che sono riusciti, grazie ad altri colleghi, ad uscire dal reparto, che è rimasto nelle mani dei detenuti per qualche ora, fin quando non sono arrivati magistrati della Procura (Aggiunto Alessandro Milita) e del Tribunale di Sorveglianza (Marco Puglia) e i vertici del Dap, che hanno mediato con i detenuti convincendoli nel primo pomeriggio a rientrare nelle celle. Nel frattempo i poliziotti si sono rifiutati di entrare nel reparto per paura di una nuova incriminazione, dopo quelle per i reati di tortura e abuso di potere ricevuta giovedì 11 giugno. “Apprezziamo che i vertici del Dap - dice il segretario regionale dell’Unione sindacati polizia penitenziaria, Ciro Auricchio - siano intervenuti a supporto delle criticità della polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere, anche sul fronte dell’organico. Aspettiamo però ancora le scuse da parte dell’Arma dei Carabinieri per la mortificazione subita con le operazioni di identificazione dei nostri agenti eseguite davanti all’ingresso del carcere, mentre erano presenti i familiari dei detenuti che andavano al colloquio”. Santa Maria Capua Vetere. Nessuno Tocchi Caino: “basta strage di legalità” Ristretti Orizzonti, 15 giugno 2020 Gli esponenti dell’associazione Nessuno tocchi Caino-Spes contra spem Rita Bernardini, Sergio d’Elia ed Elisabetta Zamparutti su quanto sta accadendo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, hanno dichiarato quanto segue: “Le notizie che giungono da questo carcere dimostrano che quando c’è strage di legalità, lì c’è strage di popoli. Avevamo ricevuto segnalazioni su presunti pestaggi e avevamo invitato a sporgere denuncia, consigliando i detenuti di farsi refertare. Consapevoli come siamo della posizione di fragilità in cui versano quei detenuti che adiscono le vie legali avevamo informato i Garanti delle persone private della libertà personale. Anche alla luce dei fatti accaduti oggi, si vede come il carcere continui ad essere un luogo di estrema marginalità e di abbandono. E questo vale rispetto a tutta la comunità penitenziaria fatta di detenuti e di detenenti per usare parole di Marco Pannella. Invece proprio lì ci deve essere il maggior impegno da parte dello Stato affinché manifesti tutta la sua forza con l’affermazione dello Stato di Diritto. Inoltre, la chiusura del carcere alla comunità esterna, per via dell’emergenza sanitaria, rischia di alimentare violenza, in assenza di trasparenza. Per questo auspichiamo una tempestiva riapertura degli istituti penitenziari alla comunità esterna e agli organismi di monitoraggio”. Busto Arsizio. Nel carcere spazi ridotti causa quarantena. “Nuovi giunti” isolati per 14 giorni di Angela Grassi La Prealpina, 15 giugno 2020 I detenuti sono 90 in meno rispetto ai tempi pre Covid, eppure le forze dell’ordine devono accompagnare i “nuovi ingressi” in altre strutture. A Busto Arsizio non c’è posto. Non perché manchino letti, ma perché ora occorrono celle per la quarantena preventiva di due settimane. E questo ruba spazi, che già non abbondano. Ora in via Per Cassano ci sono 348 detenuti, numeri bassi rispetto alla media abituale. Una ventina di celle sono dedicate a chi viene arrestato e finisce qui direttamente. “L’isolamento precauzionale dura 14 giorni - spiega Rossella Panaro, comandante della polizia penitenziaria - È capitato di non poter accettare nuovi detenuti, perché i posti dedicati alla quarantena fossero pieni. I problemi logistici esistono, ma prima di collocarli accanto a chi è in carcere da mesi dobbiamo accertarci che i nuovi non siano malati. A breve riprenderanno anche i permessi premio: al rientro in struttura, anche per chi uscirà ci saranno forme di tutela dal punto di vista sanitario. Si torna e si resta isolati per un po’, nel rispetto delle direttive regionali. Succede qui come a Varese o a Como”. L’area trattamentale si sta organizzando per questo con la direzione. Proteggere tutti è importante. Chi è recluso da tempo è isolato dal mondo e chi arriva da fuori può rappresentare un pericolo per questa “comunità protetta”. “A tutti abbiamo dato le mascherine, devono usarle quando si spostano, in particolare nei momenti di aggregazione con altri - dice Panaro - Il che significa praticamente sempre, perché le porte delle celle di giorno sono aperte. Anche in cella dovrebbero tenere le protezioni”. Il direttore Orazio Sorrentini conferma le difficoltà: “Dobbiamo rispettare con rigore totale regole che non sono state dettate in maniera chiarissima. La direzione regionale ha dettato soltanto indicazioni operative tra le quali il trattamento dei cosiddetti “nuovi giunti”, che occupa uno spazio ridotto. Si deve pensare anche a operatori sanitari e poliziotti. L’isolamento vale per chi viene arrestato, per chi viene trasferito, per chi è stato in ospedale. Avere un detenuto per cella riduce di molto la capienza. E poi non possono prendere aria, né parlare con l’avvocato, dovremmo avere un cortile per ciascuno e 15 giorni sono lunghi perché il flusso è continuo”. Dai guai del sovraffollamento a quelli dell’isolamento, dunque. “Viviamo quanto vivevano negli ospedali cercando spazi per malati Covid. Mancano le stanze. Se ogni nuovo arrivato deve stare 15 giorni in una cella da solo, in un reparto “senza accessi promiscui”, non è facile”, dice Sorrentini. Due giorni fa un confronto con il direttore sanitario dell’Asst Valle Olona Paola Giuliani ha almeno permesso di definire regole sugli spostamenti per visite mediche: “È stato un confronto franco e diretto. Se il detenuto arriva in pronto soccorso, d’accordo. Ma se va per una visita programmata, non serve la quarantena. Vale per qualsiasi cittadino, deve valere anche per i reclusi”. Dal carcere, intanto, arriva una bella novità. Il cappellano don David Maria Riboldi ha avviato con la falegnameria interna la produzione di crocifissi da parete dalla forma particolare: “La croce si incastra in un cuore a metà, l’altra metà vive nelle famiglie dei detenuti. Rappresenta anche il fatto che il male può entrare nella vita, ma vi entra anche la luce della croce di Gesù - spiega - Sono in abete e noce o in abete e iroco, un legno africano, abbiamo centinaia di prenotazioni. Ora le croci sono già in tutta Italia, dal Milanese a Siracusa. Amici preti le comprano per gli oratori o per regalarne. Il cappellano della base di Grazzanise, nel Casertano, ne ha regalate sette ad altrettanti militari dell’aeronautica partiti per l’Islanda: le croci di Busto sono volate al Nord”. Ferrara. “Detenuto torturato”, chiesto il rinvio a giudizio per 3 agenti Ansa.it, 15 giugno 2020 Tre agenti di Polizia penitenziaria sono accusati a Ferrara del reato di tortura per aver fatto spogliare e picchiato in cella un detenuto. Per loro la Procura ferrarese ha chiesto il rinvio a giudizio e l’udienza preliminare è fissata per il 9 luglio. La vittima, riportano i quotidiani locali, è in carcere per omicidio. I fatti risalgono al 30 settembre, dopo di che l’uomo è stato trasferito a Reggio Emilia. Secondo il pm Isabella Cavallari, in occasione di una perquisizione, è stato oggetto di “trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”: è stato fatto denudare e inginocchiare e in quella posizione percosso, anche con un oggetto di metallo, quindi lasciato lì fino a quando non l’ha notato il medico del carcere. Due agenti sono accusati anche di falso e calunnia, per i rapporti sulla vicenda. Il detenuto ha avuto una prognosi di 15 giorni. Imputata anche un’infermiera del carcere, per false attestazioni. Milano. Il progetto “Cucinare al fresco” merita una medaglia Il Giorno, 15 giugno 2020 Una medaglia di bronzo di benemerenza è stata consegnata all’assistente capo della Polizia penitenziaria del carcere di Bollate, Roberto Cabras. A conferire il riconoscimento è stato Giuseppe Rizzani, delegato regionale del Sacro militare ordine costantiniano di San Giorgio. Motivo della premiazione: l’importante ruolo che anche gli agenti della Polizia penitenziaria hanno nella riuscita del progetto editoriale “Cucinare al fresco” che coinvolge alcuni detenuti degli istituti di pena di Bollate, Como, Varese, Alba e Milano Opera. “I meriti della riuscita non vanno solo ai redattori del progetto ma anche al corpo della Polizia penitenziaria che, direttamente e indirettamente, ha reso possibili la crescita e lo sviluppo dell’iniziativa, che permette ai detenuti anche di raccontare le loro emozioni e speranze”, commenta Arianna Augustoni, giornalista ideatrice del progetto che non si è fermato neppure in questi mesi di lockdown ma ha realizzato un numero dal titolo “Dolci evasioni”, 52 pagine con ricette di torte e dolci. “Cucinare al fresco” è un laboratorio nel quale i detenuti scrivono ricette utilizzando gli ingredienti e gli strumenti a loro disposizione. A oggi sono otto le pubblicazioni stampate in 100 copie e, per Natale, uscirà un volume edito dalla casa editrice L’Erudita. L’immobile Italia dei veti che rifiuta le decisioni di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 15 giugno 2020 È possibile che il vero significato politico degli Stati generali sia quello di far sapere che il governo Conte è pronto a dare qualcosa a tutte o quasi tutte le categorie esistenti. Non sappiamo se la televisione di Stato riuscirà a compensare o a neutralizzare, presso l’opinione pubblica, il giudizio prevalentemente negativo che sugli Stati generali hanno dato sia la stampa che i social. Ma forse non basta considerare questa iniziativa del governo Conte come una pura operazione mediatica. Forse c’è qualcosa di più. Forse bisogna distinguere la cornice dal quadro o la pelle del frutto dalla polpa. Cornice o pelle sono in questo caso rappresentati dalla sfilata delle autorità e personaggi illustri, esperti di chiara fama, eccetera, che si avvicenderanno ai microfoni di villa Pamphilj. Il quadro o la polpa potrebbero essere invece un’altra cosa, ossia un messaggio inviato alle categorie professionali del Paese: impiegati pubblici, artigiani, professionisti, insegnanti, magistrati, imprenditori dell’industria e dei servizi, eccetera. Insomma, è possibile che il vero significato politico degli Stati generali sia quello di “attivare” l’Italia corporativa, di far sapere che il governo è pronto a dare qualcosa a tutte o quasi tutte le categorie esistenti. Forse gli interventi che davvero conteranno non saranno quelli degli illustri personaggi di cui sopra ma quelli dei rappresentanti delle categorie/corporazioni. Da più parti si invoca un “piano” del governo per lo sviluppo. Si dice: basta con confusione e improvvisazioni, è ora che il governo dimostri di essere capace di sfruttare l’emergenza per prendere di petto gli storici mali del Paese. Il governo - si dice - deve usare la finestra di opportunità che si è aperta per riformare (nientepopodimeno che) la pubblica amministrazione e la giustizia (persino), rimettere in moto l’Italia delle infrastrutture, rimuovere gli ostacoli che impediscono un rapido ed efficace (di tipo tedesco) impiego dei soldi pubblici, ristrutturare la sanità, investire in istruzione (in capitale umano). Insomma, si chiede al governo di fare quello che (apparentemente) è il suo mestiere: darsi delle priorità, decidere, colpire gli interessi, grandi e piccoli, che, da tanto tempo, funzionano come un “tappo” che blocca e comprime le forze vitali del Paese. Lodevoli propositi, rispettabilissime richieste. Ma esse si scontrano con il fatto che un governo capace di fare le suddette cose non c’è. Ciò vale per il governo Conte come per qualsiasi altro governo. Non si considera che l’Italia è una Repubblica fondata non sul lavoro ma sul potere di veto. C’è sempre stata coerenza o sintonia fra l’esigenza di certe categorie professionali (per esempio, impiegati e funzionari pubblici) di non subire interventi del governo lesivi dei loro interessi e un assetto istituzionale fondato sulla dispersione anziché sulla concentrazione del potere di governo. Un tale assetto assicura la presenza di un gran numero di poteri di veto, assicura che qualunque iniziativa del governo potenzialmente lesiva degli interessi di categorie professionali dotate di una qualche rilevanza si scontrerà (dentro e fuori l’amministrazione, dentro e fuori il Parlamento, dentro e fuori la magistrature amministrativa e ordinaria) con veti diffusi ed efficaci e, quasi certamente, ne uscirà sconfitta. Nel duello fra “l’Italia della decisione” e “l’Italia dei veti” (dell’immobilismo assicurato dalla forza e dal numero dei poteri di veto), la seconda Italia è, da tanto tempo, molto più forte della prima. Non è un caso che tutte le volte che si è cercato di rafforzare l’Italia della decisione tramite riforme costituzionali, l’Italia dei veti sia riuscita a sconfiggere tali tentativi. Da ultimo è accaduto con il referendum costituzionale del 2016 (la riforma Renzi). L’Italia dei veti capì benissimo quale fosse il “succo” della riforma: dare più potere al governo ridimensionando almeno in parte quantità e vitalità dei poteri di veto. Capì, si mobilitò e vinse. Detto per inciso: così come si dice che il capolavoro del diavolo consista nel far credere agli umani che esso non esista, il capolavoro dell’Italia dei veti è stato quello di convincere la maggioranza dei giovani italiani che l’immobilismo convenisse anche a loro. È vero che in un Paese demograficamente in declino i giovani contano sempre meno. Ma è pur vero che è proprio la generazione più giovane (la più danneggiata dai “tappi” che bloccano lo sviluppo) quella che avrebbe il massimo interesse a schierarsi dalla parte dell’Italia della decisione. E invece no. L’Italia dei veti è riuscita a spingere la generazione più giovane a schierarsi contro i propri stessi interessi, a scegliere masochisticamente l’immobilismo. Quelli fra i giovani che non ci stanno, per lo più, se ne vanno da un “Paese per vecchi”. Se si concorda con quanto sopra detto allora bisogna anche convenire sul fatto che, in queste condizioni, non si può chiedere a un governo di fare ciò esso non ha la capacità istituzionale e politica di fare: darsi un progetto coerente e avere la forza di applicarlo superando le inevitabili resistenze degli interessi danneggiati. Dove non c’è quasi un interesse che non possa attivare un potere di veto a propria difesa, i governi, per lo più, non si distinguono per le loro maggiori o minori capacità riformatrici. Si distinguono soprattutto per il fatto di avere rapporti privilegiati con differenti categorie professionali e con le loro strutture di rappresentanza. Qui non vige il principio “Non disturbate il manovratore”. Qui vige il principio “Il manovratore non si permetta di disturbare i passeggeri qualunque cosa essi facciano”. Se si adotta questa prospettiva si arriva a comprendere che forse quella degli Stati generali è un’idea brillante. Il governo userà l’attenzione mediatica sull’evento per annunciare qualche decisione (come, ad esempio, la sospensione provvisoria della disciplina degli appalti) che avrebbe potuto prendere benissimo anche senza gli Stati generali. Con lo scopo di offrire al pubblico l’immagine di un Esecutivo “decisionista”. Soprattutto, gli Stati generali rassicureranno le diverse categorie sul fatto che tutti, anche se ovviamente in modo assai ineguale, parteciperanno alla Grande Bouffe (Europa permettendo), potranno contare su una porzione, piccola o grande, delle risorse di cui il governo dispone. Il Papa e l’appello per la Libia: tutti siamo responsabili per i migranti di Ester Palma Corriere della Sera, 15 giugno 2020 Nel giorno del Corpus domani, Francesco spiega: “L’Eucarestia guarisce la nostra memoria ferita e orfana e le nostre negatività. Non ha senso andare a messa e poi lamentarsi e criticare”. “Seguo con grande apprensione e anche con dolore la drammatica situazione in Libia, molto presente nelle mie preghiere in questi giorni. Per favore, esorto gli organismi internazionali e quanti hanno responsabilità politiche e militari a rilanciare con convinzione e risolutezza la ricerca di un cammino verso la cessazione delle violenze, che porti alla pace, alla stabilità e all’unità del Paese e perché la comunità internazionale si occupi dei migranti”. Dopo la recita dell’Angelus nel giorno del Corpus Domini, papa Francesco lancia un appello forte e vibrante per la Libia, aggiungendo poi a braccio: “Tutti abbiamo responsabilità nessuno si può sentire dispensato”. E ha invitato i fedeli in piazza: “Preghiamo per la Libia in silenzio tutti”, ha continuato il Pontefice rivolgendosi ai fedeli in piazza San Pietro, osservando un minuto di silenzio. Poco prima, nell’omelia della Messa in San Pietro, Francesco aveva detto: “In questa crisi serve una vicinanza reale, servono vere e proprie catene di solidarietà”. E ha aggiunto: “L’Eucaristia spegne in noi la fame di cose e accende il desiderio di servire. Ci rialza dalla nostra comoda sedentarietà, ci ricorda che non siamo solo bocche da sfamare, ma siamo anche le sue mani per sfamare il prossimo. È urgente ora prenderci cura di chi ha fame di cibo e dignità, di chi non lavora e fatica ad andare avanti. E farlo in modo concreto, non lasciando solo chi ci sta vicino. Ecco la forza dell’Eucaristia, che ci trasforma in portatori di Dio: portatori di gioia, non di negatività”. Nel giorno in cui la Chiesa celebra proprio l’Eucarestia, il Papa mette in guardia dalle lamentele e dal piangersi addosso. “Possiamo chiederci, noi che andiamo a Messa, che cosa portiamo al mondo? Le nostre tristezze, le nostre amarezze o la gioia del Signore? Facciamo la Comunione e poi andiamo avanti a lamentarci, a criticare e a piangerci addosso? Ma questo non migliora nulla, mentre la gioia del Signore cambia la vita”, riunitevi e come comunità, come popolo, come famiglia, celebrate l’Eucaristia per ricordarvi di me. Non possiamo farne a meno, è il memoriale di Dio. E guarisce la nostra memoria ferita. Guarisce anzitutto la nostra memoria orfana. Noi viviamo un’epoca di tanta orfanezza. Guarisce la memoria orfana. Tanti hanno la memoria segnata da mancanze di affetto e da delusioni cocenti, ricevute da chi avrebbe dovuto dare amore e invece ha reso orfano il cuore. Si vorrebbe tornare indietro e cambiare il passato, ma non si può. Dio, però, può guarire queste ferite, immettendo nella nostra memoria un amore più grande: il suo. L’Eucaristia ci porta l’amore fedele del Padre, che risana la nostra orfanezza. Ci dà l’amore di Gesù, che ha trasformato un sepolcro da punto di arrivo a punto di partenza e allo stesso modo può ribaltare le nostre vite. Ci infonde l’amore dello Spirito Santo, che consola, perché non lascia mai soli, e cura le ferite. Con l’Eucaristia il Signore guarisce anche la nostra memoria negativa, quella negatività che viene tante volte nel nostro cuore. Il Signore guarisce questa memoria negativa, che porta sempre a galla le cose che non vanno e ci lascia in testa la triste idea che non siamo buoni a nulla, che facciamo solo errori, che siamo “sbagliati”. “Il Signore sa che il male e i peccati non sono la nostra identità; sono malattie, infezioni. E viene a curarle con l’Eucaristia, che contiene gli anticorpi per la nostra memoria malata di negatività”. Così Papa Francesco nell’omelia della messa per il Corpus Domini. “Con Gesù possiamo immunizzarci dalla tristezza”, ha sottolineato il Pontefice. “Sempre avremo davanti agli occhi le nostre cadute, le fatiche, i problemi a casa e al lavoro, i sogni non realizzati. Ma il loro peso non ci schiaccerà perché, più in profondità, c’è Gesù che ci incoraggia col suo amore”. E ha concluso a braccio: “Con l’Eucaristia il Signore guarisce la nostra memoria negativa, quella negatività che viene tante volte nel nostro cuore. Il Signore guarisce questa negatività che porta sempre a galla le cose che non vanno e ci lascia in testa la triste idea che non siamo buoni a nulla, che facciamo solo errori, che siamo “sbagliati”. Gesù viene a dirci che non è così, anzi è contento di farsi intimo a noi e, ogni volta che lo riceviamo, ci ricorda che siamo preziosi: siamo gli invitati attesi al suo banchetto, i commensali che desidera. E non solo perché Lui è generoso, ma perché è davvero innamorato di noi: vede e ama il bello e il buono che siamo”. L’immigrato non ci fa più paura. Adesso gli italiani temono la crisi economica di Ilvo Diamanti La Repubblica, 15 giugno 2020 Da molti anni l’immigrazione è utilizzata come argomento polemico. Sul piano politico e mediatico. In grado di garantire consensi e audience al tempo stesso. Perché i media sono divenuti, ormai, il territorio della politica. Tanto più i “social media”. Che saltano mediatori e mediazioni. Gli immigrati funzionano perché evocano l’invasione. Danno un volto “inquietante” alla globalizzazione. Al mondo che “cade su di noi”. Tuttavia, si tratta di un’evidenza non del tutto evidente. Oggi meno che mai. Vale la pena, a questo fine, “giudicare” i dati più che i “pre-giudizi”. Infatti, oggi l’ampiezza della popolazione che vede negli immigrati un pericolo è intorno a un terzo (dati Demos). Molto. Ma molto meno di due anni fa, tra l’inverno 2017 e la primavera del 2018, quando la preoccupazione per gli immigrati ha raggiunto il livello più elevato dell’ultimo decennio: 41%. La coincidenza temporale non è casuale, perché si tratta del periodo (di campagna) elettorale. Precedente al voto “politico” del 2018. Quando l’immigrazione ha costituito un tema “polemico” importante. Il più importante. A prescindere dai “numeri”. Perché l’incidenza degli immigrati sulla popolazione in Italia resta limitato. Intorno all’8% (fonte Eurostat). Anche se, come ha rilevato Nando Pagnoncelli (nel saggio “La Penisola che non c’è”), gli italiani pensano che siano oltre il 30%. E i musulmani il 20%. Mentre le stime ufficiali indicano il 5%. Una distorsione cognitiva che asseconda le nostre “paure”. Negli ultimi 2 anni, però, il problema sembra essersi ridimensionato anche nella percezione dei cittadini. Soprattutto negli ultimi mesi. Quando, ha toccato un livello più ridotto rispetto al passato, anche recente. Per una ragione evidente. Nel 2020, infatti, le paure sono state “oscurate” dall’unica vera paura che ha impressionato la società. La nostra vita. Il coronavirus. Tuttavia, l’Osservatorio Europeo sulla (In) Sicurezza, realizzato da Demos e Fondazione Unipolis, attraverso sondaggi svolti nel corso del 2020, in 6 Paesi europei (oltre 6000 interviste), precisa ulteriormente questa immagine. In particolare, se facciamo riferimento alla prima serie di indagini, condotte in gennaio, alla vigilia dell’emergenza. In quel momento, l’immigrazione era considerata come il problema prioritario, e quindi più preoccupante, dal 9% degli italiani. Mentre le paure dei cittadini si concentravano anzitutto sui temi legati all’economia e al lavoro. In secondo luogo: sull’inefficienza e la corruzione politica. Quindi, sulla criminalità. Non solo, ma, nella percezione degli italiani, il ruolo dell’immigrazione, appare ancora più ridotto, se valutato su base europea. Fra i Paesi considerati, infatti, l’Italia è quello nel quale suscita meno preoccupazione. Molto meno rispetto alla Germania. Dove, peraltro, la quota di “immigrati” è più elevata di quella registrata in Italia. Così, l’impatto del Covid-19 ha sicuramente contribuito a relativizzare problemi e paure. La ricerca del nemico, diverso e “altro” da noi, da qualche mese, non funziona più come prima. Non genera lo stesso clima di paura e di sospetto di prima. Perché il pericolo, in questa fase, non proviene dall’Africa e dal Sud del Mondo. Trasportato da barconi carichi di disperati. Spinti dalla povertà. Raccolti, talora, da bande criminali. L’origine del Male viene da Oriente. Dalla Cina. Guardata con rispetto e un po’ di timore. Per l’influenza economica che esercita nei nostri confronti. L’origine del Male, invece, da qualche tempo si è trasferita da noi. Il virus ha preso casa in Lombardia, nel Veneto, in Emilia-Romagna, nelle Marche. Così, per quanto il contagio stia frenando, non siamo più noi a chiudere le frontiere verso l’Africa. Verso Sud. Oggi il Sud siamo noi. Gli untori dai quali difendersi. Ai quali chiudere le frontiere. Come ha fatto l’Austria. E se ieri ci guardavamo dagli stranieri, dagli “altri”, ora “gli altri siamo noi”. Non solo rispetto ai Paesi europei del Centro-Nord. Anche rispetto a noi stessi. Che camminiamo mascherati. Distanziati. Sospettosi, nei confronti di tutti coloro che incontriamo. Guai a stringersi la mano. Al massimo, ci diamo il gomito. Perché tutti e nessuno potrebbero - potremmo - essere portatori sani e asintomatici del Male. Anche per questo domani sarà più difficile ricostruire la società. Che significa ricostruire relazioni sociali, di prossimità, amicizia. Fiducia. Significa trasformare gli Altri in Noi. Mentre oggi gli Altri siamo Noi. Il razzismo invisibile della provincia di Paola Italiano La Stampa, 15 giugno 2020 La denuncia di chi ogni giorno fa i conti con l’intolleranza: “In periferia nessuno reagisce e ti senti più solo”. “Il problema non è tanto chi mi insulta apertamente. È chi mi dice: ma come parli bene l’italiano. E io sono italiano”. C’è un razzismo strisciante che si annida nelle parole e in piccoli gesti feroci. “La vecchietta che cambia strada quando mi vede. La freddezza dell’impiegata allo sportello che diventa cortese solo quando sente che parlo bene italiano”. Il mondo è sceso in piazza per George Floyd, lo ha fatto anche l’Italia: ma in provincia i flash mob sono arrivati una settimana dopo rispetto alle grandi città. Torino il 6 giugno, Alessandria il 12. Roma il 9 giugno, Vercelli il 14. Il ritardo racconta la fatica di trovare il coraggio di parlare perché la provincia è cattiva, è spietata. Il razzismo è ovunque, ma le grandi città offrono reti di relazioni più ampie, sostegni più solidi. In città organizzi una manifestazione e sai che ci sono gruppi, associazioni che si mobilitano. In provincia ti senti solo, certo più isolato. E anche il razzismo si manifesta in modo più subdolo, in diffidenze intangibili e ostilità latenti. Quelle di chi odia e non è neppure in grado di rendersene conto, che dice: “Io non sono razzista, però”. Non sei razzista, però: al pronto soccorso dici al ragazzo di colore “voi fingete di essere malati”, in coda alle poste gli fai una scenata, pensi di fargli un complimento se gli dici “sei bello per essere nero”. Episodi messi in fila dai ragazzi che hanno trovato il coraggio di raccontarsi e inginocchiarsi per 8 minuti e 46 secondi anche nelle piccole incantevoli piazze della provincia italiana, cartoline di bellezza dove tutto arriva sempre dopo. Anche i diritti. Egitto. Il caso Regeni e la dolorosa recita di Roma con il Cairo di Guido Rampoldi Il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2020 Per motivi di pubblica decenza sarebbe utile sottoporre parlamentari e giornalisti ad una misura preventiva: su questioni che animano il dibattito politico, chi in passato dimostrò convinzioni opposte a quelle che ora dichiara sia ammesso ad intervenire solo dopo rigorosa autocritica. Nel caso delle vendite di armi all’Egitto, per esempio, chi la bolla come vergognosa andrebbe chiamato a spiegare perché non manifestò il minimo disagio quando Renzi lodava al Sisi con un trasporto che Almirante non dimostrò per Pinochet. Essendo l’autocritica esclusa dalle prassi politica e giornalistica, in questo caso il risultato sarebbe una diminuzione degli schiamazzi e del tasso di ipocrisia in una vicenda dalla conclusione già scritta: l’Egitto avrà le fregate che ha comprato e il procuratore generale del Cairo, notorio complice di al Sisi, volerà a Roma per aggiungere alle indagini la solita fuffa. Nulla di nuovo: i nostri ultimi quattro governi si sono mossi tutti su questo stesso doppio binario. Per dimostrare che facevamo sul serio ritirammo l’ambasciatore al Cairo, così privandoci di uno strumento necessario per proteggere non solo i nostri interessi ma anche gli attivisti egiziani impegnati nella difesa dei diritti umani. Infine lo rimandammo in Egitto: ma senza smettere né di ‘esigerè la verità dal capo degli assassini, né di sussurrargli nell’orecchio che dovevamo fare la voce grossa per accontentare l’opinione pubblica. Ora scoppia lo scandalo delle due fregate che l’Egitto avrebbe comprato anche se avesse un governo democratico, per il semplice fatto che si è scoperto possessore di immensi giacimenti off-shore e ha bisogno di una marina per proteggerli. E la farsa ricomincia. Cosa avrebbe fatto un Paese serio? In assoluto silenzio, avrebbe aiutato i generali della fronda contro al Sisi, il dissenso, i suoi media; e avrebbe cercato in proprio verità e giustizia. Ma occorrerebbe una politica estera, politici decenti, efficaci servizi segreti, una società civile pensante. Mancando tutto questo, non rimane che recitare. Stati Uniti. Lo choc di Atlanta diventa rivolta, polemiche per un nuovo video di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 15 giugno 2020 Incendi dopo l’uccisione di un afroamericano. Non basta l’addio della comandante degli agenti. A poco a poco si aggiungono altri elementi sulla morte di Rayshard Brooks, 27 anni, ucciso da un agente ad Atlanta, venerdì 12 giugno. Erika Shields, a capo del dipartimento di polizia, si è dimessa senza neanche aspettare che venisse diffuso il video girato dalla body cam in dotazione a ogni pattuglia. Intorno alle 22 qualcuno chiama il 911, il numero delle emergenze: c’è qualcosa che non va nel parcheggio di una catena di fast food, Wendy’s, sull’Interstatale che porta all’aeroporto di Atlanta. Da questo momento la clip della polizia illumina la scena. Gli agenti arrivano sul posto: è un drive-in. Una fila di macchine è in attesa di ritirare burger e patatine. Ma una vettura bianca è ferma e la coda non scorre più. I due uomini in divisa picchiettano sul vetro, poi aprono la portiera. Dentro c’è qualcuno che si è appisolato. E un giovane afroamericano. Rayshard Brooks. Si scuote di soprassalto; sposta l’auto in un angolo dello spiazzo. Scende e si giustifica: “Ho bevuto un po’. È il compleanno di mia figlia, ma posso tornare a casa a piedi”. Gli misurano il tasso etilico. Gli agenti concludono che ci sono gli estremi per l’arresto. Provano ad ammanettare “il sospetto”. E da lì in poi comincia un’altra storia, questa volta documentata dal primo video diffuso su Twitter da Gerald Griggs, il vice presidente della National Association for the advancement of colored people di Atlanta. Rayshard si divincola, resiste, lotta. I tre finiscono a terra, avvinghiati. Un groviglio confuso, fino a quando un poliziotto impugna il taser, la pistola elettrica. Brooks riesce a strappargliela. Si rialza e scappa. Le ultime inquadrature sono drammatiche: il giovane si volta di tre quarti, punta il taser verso il poliziotto, forse fuori tiro, ma che evidentemente, si sente minacciato. L’agente getta via l’arma elettrica, impugna la pistola e mira al bersaglio grosso. Almeno tre colpi. Il fuggitivo crolla sull’asfalto. Poco dopo arriva l’ambulanza, il ferito viene portato in sala operatoria. Ma non sopravvive. Secondo l’avvocato della famiglia Brooks, i poliziotti prima di chiamare i soccorsi avrebbero pensato a recuperare i bossoli per occultare le prove. La notizia riaccende le proteste. La tensione sale. Gli attivisti bloccano l’autostrada. Ma non ci sono scontri, fino a quando un gruppo di giovani appicca un incendio nell’edificio di Wendy’s. Allora le forze dell’ordine lanciano qualche lacrimogeno. Le fiamme si alzano e puntano verso un distributore di benzina Texaco. Per almeno un paio d’ore il blocco della strada impedisce ai vigili del fuoco di accorrere. Finalmente la polizia di Atlanta e i rinforzi inviati dal governatore della Georgia riescono ad aprire un varco, la situazione torna sotto controllo. Nella notte dalla California arrivano due notizie inquietanti e ancora non chiare. A San Bernardino gli agenti hanno ucciso un uomo armato in un distributore di benzina. A Palmdale, la comunità chiede un’inchiesta indipendente sul caso di un afroamericano di 24 anni, Robert Fuller, trovato in un parco pubblico: impiccato a un albero.