Detenuti abbandonati a sé stessi, così la disperazione prende il sopravvento Comunicato Partito Radicale, 14 giugno 2020 Quanto sta accadendo nelle carceri è frutto dell’abbandono e dell’isolamento esasperato. E dell’amministrare le carceri senza conoscerle. Va preso atto che da quando nelle carceri gli agenti e i detenuti sono abbandonati a sé stessi e più isolati del solito la disperazione ha preso il sopravvento. È colpa grave l’aver sottovalutato tutto questo, esponendoli ad una esasperazione evitabile e da evitare. Sappiamo bene e per anni siamo riusciti a farlo comprendere al mondo penitenziario, che la violenza non paga. Né la violenza del cittadino contro chi rappresenta lo Stato, né quella ingiustificata di chi rappresenta lo Stato nei confronti del cittadino, specie se esercitata nei confronti di un detenuto, in quanto la detenzione ad opera dello Stato, dovrebbe essere massima garanzia di sicurezza. Per quanto riguarda quello che è accaduto e sta accadendo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, Vincenzo Palmieri del sindacato degli agenti Osapp ha dichiarato che “I colleghi si rifiutano di andare a fare servizio. Se sono indagati per tortura non possono entrare (durante la rivolta, ndr) altrimenti rischiano di aggravare la loro posizione a livello giudiziario”. Una giusta prudenza da parte degli indagati. Posto che gli indagati sono innocenti fino a sentenza definitiva, è stato quanto meno imprudente, per usare un eufemismo, lasciarli a contatto con chi li ha denunciati. Figli minorenni (o maggiorenni disabili), via libera a chiamate giornaliere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 giugno 2020 In Commissione Giustizia è stato approvato l’emendamento a firma del senatore Pd Franco Mirabelli che consentirà ai detenuti di poter passare dalla telefonata settimanale di dieci minuti ai propri familiari a quella quotidiana a beneficio di chi ha figli minorenni, o maggiorenni ma con disabilità, o familiari ricoverati. Entrando nel dettaglio l’autorizzazione prevista dall’articolo 39 del regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, potrà essere concessa, oltre i limiti stabiliti dal comma 2 del suddetto regolamento, in considerazione di motivi di urgenza o di particolare rilevanza, nonché in caso di trasferimento del detenuto. L’autorizzazione potrà essere concessa una volta al giorno se la stessa si svolga con figli minori o figli maggiorenni portatori di una disabilità grave e nei casi in cui si svolga con il coniuge, l’altra parte dell’unione civile, persona stabilmente convivente o legata all’internato da relazione stabilmente affettiva, con il padre, la madre, il fratello o la sorella del condannato qualora gli stessi siano ricoverati presso strutture ospedaliere. Quando si tratta di detenuti o internati per uno dei delitti previsti dal primo periodo del primo comma dell’articolo 4bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 l’autorizzazione non potrà però essere concessa più di una volta a settimana. Le disposizioni del presente comma non si applicano ai detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354. 2. All’articolo 39 del regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, il comma 3 cesserà di avere efficacia. Fino a quando questo emendamento non passerà, valgono però le regole attuali. I detenuti finora possono usufruire di un colloquio telefonico alla settimana, della durata massima di dieci minuti. I detenuti per i reati previsti dal primo periodo del primo comma dell’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, ovvero quelli ostativi, possono usufruire di soli due colloqui telefonici al mese. Può essere concesso un numero maggiore di colloqui telefonici in occasione del rientro dal permesso, oppure in considerazione di motivi di urgenza o di particolare rilevanza, se la corrispondenza telefonica si volge con prole di età inferiore a dieci anni, nonché in caso di trasferimento del detenuto. Il discorso dell’effettività è un tema molto discusso e più volte si è tentato di cambiare le regole a favore dei rapporti tra detenuti e i loro cari. Nella riforma originaria dell’ordinamento penitenziario c’era un decreto specifico, nato sotto l’impulso degli stati generali per l’esecuzione penale. Quest’ultimo aveva elaborato delle proposte, tra i quali proprio il supporto alle relazioni familiari. La restrizione del numero e della durata delle comunicazioni, infatti, non è di per sé necessaria per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza, per la prevenzione dei reati e per la protezione delle vittime. Per questo più volte si è parlato della necessità di “liberalizzare” i colloqui telefonici. L’approvazione definitiva in Senato dell’emendamento Mirabelli è prevista per martedì. Sarà il primo passo verso la fine delle restrizioni che sono solo una inutile afflizione in più. Celle aperte, altro che alta sicurezza di Marco Lillo Il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2020 In 13 penitenziari le celle dei detenuti in alta sicurezza furono spalancate nel 2015 (e ora si torna indietro). La lettera chiede ai direttori delle carceri di “regolarizzare” le sezioni dell’Alta sicurezza dei penitenziari. Perché le celle stanno aperte oltre le ore consentite e le regole vigenti per i mafiosi e i terroristi detenuti non sono rispettate. La lettera, visionata dal Fatto è stata spedita il 4 giugno scorso dal direttore del settore Alta Sicurezza delle carceri italiane, Caterina Malagoli, già magistrato antimafia in Sicilia, entrata al Dap nel 2018 e dal febbraio 2019 Direttrice dell’Ufficio V del Dap. La dottoressa è la responsabile di un circuito che conta 10 mila detenuti circa. Ci sono gli ex 41 bis (AS1) i terroristi (AS2) e i membri delle organizzazioni criminali (As3). Per fare qualche esempio, Massimo Carminati quando è uscito dal 41 bis (non essendo stato condannato per associazione mafiosa ma semplice) è entrato nel circuito. A Padova in As1 c’è Antonio Papalia, classe 1954, boss della ‘ndrangheta nel Nord Italia. A Frosinone c’è il boss della mafia catanese Giuseppe Mangion, classe 1959; a Benevento c’è il boss di Misilmeri Salvatore Sciarabba, classe 1950. Dopo le rivolte di marzo per il Covid e le centinaia di scarcerazioni da parte dei magistrati, dopo il terremoto ai vertici del Dap con le dimissioni di maggio del capo del Dap Francesco Basentini e del Direttore trattamento detenuti Giulio Romano, si scopre un altro elemento di preoccupazione sulla tenuta del sistema carcerario. La dottoressa Malagoli il 22 gennaio 2020 aveva chiesto ai direttori delle carceri quali fossero le modalità di custodia dei detenuti di Alta Sicurezza. Dopo i mesi del coronavirus, il 4 giugno scorso la direttrice torna alla carica: “Dai riscontri pervenuti si evince che ben 13 istituti penitenziari attuano la ‘custodia aperta’ nelle sezioni in Alta Sicurezza: Ancona, Benevento Bologna, Civitavecchia, Frosinone, Lanciano, Larino, Latina, Padova, Piacenza, Roma Rebibbia Femminile, San Gimignano (una sezione dedicata al Polo Scolastico) e Tempio Pausania”. Il punto, secondo la Malagoli, è che nulla di tutto ciò sarebbe stato autorizzato: “Rispetto ai 13 istituti, agli atti dell’ufficio risulta essere autorizzata in via sperimentale solo una Direzione ad adottare tale modalità custodiale”, cioè Tempio Pausania. La situazione sembra uscita dal controllo: “In alcuni casi si è appurata l’attuazione della custodia chiusa, ma con la possibilità da parte dei detenuti di muoversi liberamente ambito corridoio della sezione”. Malagoli nella lettera evidenzia “che la circolare n. 3663-6113 del 23 ottobre 2015 esclude per ovvi motivi legati alla particolare tipologia dei detenuti ascritti al circuito Alta Sicurezza “la possibilità di adottare la custodia aperta presso le sezioni dedicate al circuito dell’alta sicurezza”. La circolare del 2015 aveva previsto condizioni che secondo la Malagoli non sono rispettate perché “Eventuali eccezioni per prevedere l’attuazione della custodia aperta anche in alcune sezioni istituite presso le Case di reclusione dotate di circuito AS, dovranno essere portate all’attenzione della competente Direzione generale detenuti e trattamento, corredate da un progetto dettagliato che dia conto dell’osservazione preliminare effettuata per ciascun detenuto e dei contenuti e modalità concrete che si intendono adottare per successive valutazioni”. La Circolare del 2015 effettivamente già permetteva ai detenuti di alta sicurezza di star fuori dalla cella per 8 ore ogni giorno. La novità è che in 13 carceri i detenuti As1 usciti dal regime 41 bis, i terroristi dell’As2 e i criminali dell’As3 possono stare fuori cella anche più di 8 ore al giorno. Il Direttore del Dap, Santi Consolo, nella sua circolare del 2015, perseguiva il “graduale superamento del criterio di perimetrazione della vita penitenziaria all’interno della camera di pernottamento” e aggiungeva che “la possibilità di permanere al di fuori della camera di pernottamento per un minimo di otto ore, dal punto di vista delle aspettative europee, è auspicata, sebbene non vi sia disposizione normativa cogente in tal senso”. Già cinque anni fa, Consolo enunciava quindi l’apertura: “il tempo minimo da trascorrere fuori dalle camere detentive sia pari almeno a 8 ore giornaliere, salva l’esistenza di particolari esigenze di sicurezza che comportino necessarie restrizioni, quali l’applicazione del regime di sorveglianza particolare, dell’isolamento, in caso di sussistenza di specifici rischi di evasione o turbativa della sicurezza dell’istituto, ecc.”. Anche nella ‘custodia chiusa’ quindi i detenuti possono stare fuori dalla cella per almeno 8 ore. “Questo implica - proseguiva la vecchia circolare - che la custodia aperta debba prevedere necessariamente una permanenza all’esterno delle camere significativamente maggiore ma, soprattutto, il fatto che la quotidianità e i contenuti trattamentali dovranno svolgersi all’esterno della sezione, in luoghi comuni appositamente strutturati”. La politica di apertura delle celle era stata avviata già nella gestione del Direttore del Dap precedente, Giovanni Tamburino, e si è solo consolidata con la circolare suddetta del 2015 che ha sistematizzato le precedenti disposizioni. Questa politica di apertura delle sezioni, compresa l’alta sicurezza, secondo alcuni è però stata la causa dell’aumento degli ‘eventi critici’, cioè risse, violenze e danneggiamenti, all’interno delle carceri e potrebbe avere favorito anche le rivolte di marzo scorso. La cosiddetta “sorveglianza dinamica” è stata introdotta nel 2013 anche per ovviare agli spazi ristretti delle celle italiane. Questo sistema è in vigore anche all’estero però la struttura fisica dei penitenziari italiani e la scarsità di agenti della Polizia Penitenziaria ha prodotto una degenerazione del sistema nella sua applicazione. Nelle carceri italiane si è tradotta in una sorta di cessione del controllo ai detenuti. Gli agenti della Polizia Penitenziaria spesso escono e lasciano le sezioni di fatto in mano ai detenuti. La Polizia penitenziaria vigila solo con la video-sorveglianza da fuori. Ora la dottoressa Malagoli ha scoperto che in 13 istituti anche nell’Alta Sicurezza i detenuti stanno fuori dalla cella oltre le 8 ore in regime di “custodia aperta”. La dirigente nella lettera del 4 giugno ricorda ai direttori delle carceri e ai provveditori che “si deve evitare che i detenuti permangano all’ozio costretti a stazionare nei corridoi delle sezioni”. La lettera si conclude con un auspicio: “si chiede ai Direttori degli Istituti penitenziari di adeguare e regolarizzare le modalità custodiali nelle sezioni dedicate al circuito dell’Alta Sicurezza nel rispetto delle disposizioni contenute nella Circolare 3663-6113 del 23 ottobre 2015”. Gratteri: “La gestione allegra fa male a tutti, anche ai detenuti” di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2020 Rendere più rigoroso il regime carcerario di alta sicurezza. Negli anni si è andato allentando, con celle lasciate aperte. Ora i responsabili del Dap, il Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, vogliono tornare a un regime più severo. Tra i detenuti coinvolti c’è anche Antonio Papalia, uomo della ‘ndrangheta impiantata in Lombardia, che Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica a Catanzaro, conosce bene. Procuratore, è d’accordo con questo cambiamento? Se c’è una distinzione tra altra sicurezza e media sicurezza nelle carceri italiane, c’è un motivo. L’alta sicurezza è solo un gradino più sotto del carcere duro regolato dal 41 bis. Vi sono reclusi mafiosi che sono gregari e non promotori e altri criminali pericolosi, che hanno commesso reati gravi. Se il ministro ha in programma il ripristino delle regole, ben fa, sono d’accordo. E ben fa la nuova gestione del Dap. Non c’è il rischio di comprimere i diritti dei carcerati e di far venire meno la funzione rieducatrice della pena? Ma no, lasciare le celle aperte non c’entra nulla con la finalità rieducativa della pena. Al contrario, il fatto che fino a oggi non siano state seguite le regole, per rendere più aperta la detenzione, è un messaggio diseducativo ai detenuti. Una gestione allegra, a maglie larghe del carcere, in violazione dell’ordinamento penitenziario, è un incentivo alla non osservanza delle regole. Se chi è preposto al controllo non osserva le regole, è un pessimo educatore, dà un pessimo messaggio alla popolazione carceraria. È un periodo complicato per le carceri italiane. Ci sono state le rivolte, poi le scarcerazioni durante il periodo di lockdown, molte polemiche, qualche cambio ai vertici del Dap, ora il rientro in cella di alcuni dei detenuti che erano stati mandati agli arresti domiciliari. Che cosa sta succedendo? Per anni molti degli addetti ai lavori hanno fatto finta di non vedere e non sentire. Le rivolte sono state possibili anche perché le celle erano aperte, anche nei reparti di alta sicurezza. In questi sono reclusi non i capi, ma gli esecutori, che hanno una normale ammirazione nei confronti dei capi e sono garzoni e strumenti dei capi. Le rivolte nelle carceri sono state possibili e così devastanti proprio per le celle aperte e la promiscuità praticata negli istituti. È stato un momento di disorientamento che ora lo Stato sta superando o la crisi della gestione carceraria continua? Se siamo ancora al punto di discutere se chiudere o no le celle, vuol dire che siamo ancora in un momento di confusione. Ma vedo che qualche correzione si sta apportando. Io penso che la strada giusta sarebbe quella di porre, finalmente, il problema della nuova edilizia carceraria. È arrivato il momento di avviare la costruzione di nuove carceri. Nella fase post-coronavirus si stanno mettendo a disposizione molte risorse per l’economia, per le infrastrutture. Ci sono soldi che ieri non c’erano: ebbene, è questo il momento per costruire quattro nuove carceri in Italia, distribuite tra nord, centro e sud, per 20 mila posti. Sarebbe la fine del sovraffollamento carcerario. Potremmo cogliere ora l’occasione per risolvere il problema per i prossimi 20-30 anni. Basta un solo progetto da replicare quattro volte in quattro luoghi geografici diversi. Pensi che a New York c’è un carcere con 18 mila posti, a Miami di 7 mila. Sto indicando un esempio d’infrastruttura, non un regime carcerario, quello americano, da assumere come modello. In Italia abbiamo tanti piccoli istituti da 100, 150 posti, con costi fissi altissimi e pochi detenuti. Dovremmo costruire strutture più grandi ed efficienti, sempre garantendo la finalità rieducativa della pena. Risolveremmo il problema del sovraffollamento che sta tanto a cuore all’Europa, che si ricorda dell’Italia per il sovraffollamento, ma non per contrastare adeguatamente le organizzazioni mafiose presenti fuori dall’Italia. Dovremmo adottare per i detenuti lo stesso metodo di recupero che si usa per i tossicodipendenti, con ore di lavoro e sedute di psicoterapia. Invece in tante carceri italiane i detenuti stanno otto ore davanti al televisore. Il Csm dopo Palamara. Lo scandalo sono i 90 anni del Codice Rocco di Franco Corleone L’Espresso, 14 giugno 2020 Le intercettazioni telefoniche subite dal magistrato Palamara, ex capo della corrente Unicost, hanno innescato la rincorsa a una discussione stucchevole sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura e sulla necessità di una sua riforma. In realtà nessuno è capace di affrontare alla radice il nodo della giustizia in Italia, dei suoi rapporti con il potere e soprattutto delle ragioni dello scontro senza fine per la supremazia tra magistratura e politica. Tutto si riduce in maniera modesta a varie proposte di modifica del sistema elettorale del Csm, come se la legge elettorale potesse cancellare le pratiche di lottizzazione e di spartizione delle nomine dei Capi delle Procure. L’unica certezza è che come per il Parlamento il cambio della legge elettorale non migliora la qualità degli eletti e non annulla le pratiche perverse. Il vero scandalo è rappresentato dalla scelta, condannata da Leonardo Sciascia, di avere salvaguardato dopo la caduta del fascismo, il principio della continuità dello Stato. Scandalo ancora più enorme è rappresentato dalla conservazione del Codice Rocco. Il 19 ottobre di quest’anno ricorreranno il 90 anni dalla firma di Vittorio Emanuele III del Codice penale di Alfredo Rocco e voluto da Mussolini. Così per decenni la magistratura fu parte attiva della conservazione più dura in Italia e solo grazie alla presenza di gruppi alternativi, come Magistratura Democratica, poterono emergere i principi della Costituzione. La retorica contro le correnti nasconde forse la voglia di un ritorno alla casta, reazionaria e interessata ai privilegi propri e del regime. Qualcuno pensa che una soluzione taumaturgica sarebbe la scelta dei membri del Csm affidata al sorteggio. Un metodo infallibile per affidare scelte delicate al caso e non alla responsabilità. Di conseguenza anche le decisioni dei processi potrebbero essere affidate al metodo, rapido e infallibile della testa o croce. Ci si liberebbe anche della pratica garantista del giusto processo affermato solennemente dall’art. 111 della Costituzione e che si affermò con un duro confronto di idee nel 1999. Inchieste e accuse incrociate sulla pandemia, tutti alla ricerca di un responsabile politico di Tiziana Maiolo Il Riformista, 14 giugno 2020 Nelle mani della magistratura. La pandemia giudiziaria era prevedibile, l’abbiamo prevista oltre un mese fa, e ora è arrivata. Nelle mani dei pubblici ministeri di Bergamo per ora ci sono i massimi vertici del governo -Presidente del consiglio e due ministri - e della Regione Lombardia, il Presidente e un assessore. Tutti testimoni, naturalmente. “Persone informate dei fatti”, e i fatti sono i tanti morti uccisi da un virus sconosciuto e violento in Lombardia e in particolare nella bergamasca, dove si sarebbero dovuti chiudere come “zona rossa” i comuni di Nembro e Alzano, ma ci furono inspiegabili ritardi e il virus poté procedere indisturbato. La convocazione del Presidente del consiglio per oggi ha scatenato i soliti schieramenti da curva sud, o nord. Commentatori dei principali giornali ed esponenti politici non ci hanno risparmiato le proprie “verità”: chi doveva prendere l’iniziativa, in quei primi giorni di marzo, per delimitare i paesi della Val Seriana, come era stato già fatto dal governo per Codogno? Il direttore dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro, interrogato due giorni fa, ha ricordato di aver firmato il 3 marzo un verbale in cui si dava atto all’assessore della Regione Lombardia Giulio Gallera di aver chiesto la chiusura dei comuni di Nembro e Alzano. E ha ricordato il dissenso del presidente Conte e del ministro alla sanità Speranza, i quali tergiversavano. E preferirono successivamente dichiarare l’intera Lombardia come “zona arancione”. Anche la pm Maria Cristina Rota si è già sbilanciata, ritenendo che fosse responsabilità del governo prendere quella decisione, come dimostrato dalla presenza in quei giorni delle forze dell’ordine già schierate a delimitare il territorio. Ma è anche vero che qualche governatore di altre Regioni aveva forzato la mano. Si sono autodenunciati, ma solo per sostenere il governo, De Luca e Bonaccini. Dimenticando che altri, come il governatore delle Marche, che aveva chiuso di propria iniziativa le scuole, aveva subito le rimostranze del ministro Boccia. Forse anche il governatore della Lombardia avrebbe potuto agire di testa propria. O forse no. Ma si tratta, eventualmente, di responsabilità politiche. È incomprensibile il fatto che se ne occupi la magistratura. Non solo quella di Bergamo, anche a Milano ci sono diverse inchieste aperte. Finiranno in niente, crediamo. Anche perché il reato di “epidemia colposa” è pressoché indimostrabile, in quanto comporterebbe una condotta attiva, più che omissiva. È una questione non solo tecnica, che ben dovrebbero conoscere, per esempio, gli avvocati che stanno mettendo insieme comitati (che ormai spopolano su Facebook) di parenti di persone decedute per il virus, e che manifestano davanti alle procure chiedendo “verità”. Ma quale verità? Qui si apre un altro capitolo, quello del dolore che si fa rabbia, quello di un’elaborazione del lutto faticosa perché legata a qualcosa di tremendo, improvviso e incomprensibile piombato nelle case e nelle vite di troppe persone. Queste persone si mettono nelle mani di chi “ne sa di più” e magari promette loro di arrivare a qualche forma di risarcimento. Ma non sarà così, ed è straziante vedere persone che mostrano la foto dei loro cari che non ci sono più, come se si trattasse di dispersi di guerra. È inutile cercare le colpe e scatenare la caccia alle streghe per errori dovuti solo all’impreparazione davanti all’ignoto. E bisogna stare anche molto attenti. Perché per ora gli opposti schieramenti hanno preso di mira il mondo politico. Gli avvocati di sinistra dei comitati si affrettano a dichiarare che la deposizione di oggi di Conte è un “atto dovuto”, ma lasciano intendere che ben diverse sono le responsabilità della regione Lombardia. Matteo Salvini ha già condannato il governo con sentenza di cassazione e il quotidiano Libero ci dice che è “fallito il golpe anti-Fontana” e già prevede che (purtroppo) sarà difficile inquisire Conte. Senza domandarsi perché mai dovrebbe essere indagato e quali reati abbia commesso. Il rischio vero, mentre si cercano gli untori (sempre nel giardino del vicino), è che la novella pandemia giudiziaria rischia di travolgere, prima o poi, il personale sanitario. Nessuno lo vuole, per ora, e tutti si sgolano a negarlo. Ma sarà inevitabile, una volta partita la macchina giudiziaria. Perché nei tanti esposti contro ignoti c’è dentro un po’ di tutto. Ci sono le lamentazioni di tante cose che non hanno funzionato. Hai chiamato il 118 a non arrivava mai? Il medico di famiglia non è mai venuto a visitare tuo padre? Un parente è deceduto in casa senza poter essere ricoverato? Oppure è andato in ospedale per patologie diverse dal Coronavirus e lì si è infettato? Eccetera eccetera. La situazione rischia di diventare gravissima, anche perché in Italia, contrariamente a quel che accade per esempio in Francia o negli Stati Uniti, è prevista ancora la responsabilità dei medici per fatti colposi. Cosa che non accade per esempio per i magistrati. In attesa di una riforma che con questi chiari di luna non è neanche ipotizzabile, bisognerebbe prima di tutto ripescare quell’emendamento al decreto Cura Italia inutilmente presentato dal senatore Marcucci, capogruppo del Pd, per la creazione di una sorta di cordone protettivo per personale e strutture sanitarie, in modo che siano al riparo da denunce civili e penali. Una norma emergenziale al contrario, di tipo garantistico. In modo analogo si erano pronunciati anche Gustavo Zagreblesky, che ha proposto una causa di non punibilità che liberasse tutto il personale sanitario dalla possibilità di esser sottoposti a processo per la propria attività nel periodo del virus. E il sostituto procuratore generale di Bologna Walter Giovannini, in un’intervista al quotidiano La verità, aveva previsto la depenalizzazione dell’ipotesi colposa nella responsabilità del personale sanitario come norma generale e non solo emergenziale. Ma di tutto ciò non si parla. Si preferisce trastullarsi sul “chi doveva prendere l’iniziativa” per far fare un po’ di gogna mediatica all’avversario politico. La verità è che il nostro Paese con le sue istituzioni, nazionali, regionali e locali, ha compiuto un grande sforzo di fronte a un nemico sconosciuto e aggressivo, con una classe medica e infermieristica coraggiosa e professionale come poche al mondo. Per quale motivo ora dovremmo buttare tutto in vacca, affidando la sorte del dopo-virus ai pubblici ministeri, cioè alla categoria in questo momento più squalificata? Eppure è proprio ad alcuni di loro che vogliamo rivolgerci, alla pm Tiziana Siciliano di Milano come alla pm Maria Cristina Rota di Bergamo: perché non lasciate che sia la politica a risolvere i problemi politici e a stabilire le reciproche responsabilità? Così Mafia Capitale è stata smontata dalla Cassazione di Simona Musco Il Dubbio, 14 giugno 2020 La Cassazione fa a pezzi il teorema di “Mafia Capitale”. Distruggendo, in primis, il metodo con cui la Corte d’Appello, ribaltando la sentenza di primo grado, aveva affermato l’esistenza di un’associazione mafiosa facente capo a Salvatore Buzzi e all’ex Nar Massimo Carminati: una decisione che non solo ha preso applicando male - e non dimostrandoli - i principi fondanti del 416 bis, ma basandosi soprattutto sulle decisioni prese dalla stessa Cassazione in sede cautelare, determinate, scrivono oggi i giudici del Palazzaccio, da un quadro accusatorio rivelatosi infondato, nella sua parte fondamentale, alla prova del processo. Non c’era mafia perché non c’era metodo mafioso, non c’erano armi, non c’era intimidazione, solo corruzione e patti scellerati tra persone libere, che hanno deciso di svendere la propria funzione pubblica per convenienza reciproca. E negare che il “Mondo di mezzo” sia mafia, affermano i giudici, non significa negare totalmente l’esistenza della mafia nella Capitale, come qualcuno ha affermato dopo la sentenza: significa solo negare che ci fosse in questa indagine. Ciò che emerge è invece l’esistenza di due distinte associazioni per delinquere semplici: l’una dedita prevalentemente a reati di estorsione, l’altra impegnata in una continua attività di corruzione nei confronti di funzionari e politici gravitanti nell’amministrazione comunale romana. Per poter parlare di 416 bis, si legge nella sentenza, è necessario che il gruppo “abbia fatto un effettivo esercizio, un uso concreto della forza di intimidazione”. Non basta “la mera probabilità”, bisogna dimostrare che il gruppo quella forza la possegga e che l’abbia usata. È necessario che tale forza “derivi dall’associazione in sé e non dal prestigio criminale del singolo associato” e che tale capacità “produca assoggettamento omertoso”. E bisogna fornire una prova concreta di tali elementi. Tali principi non sono dunque stati applicati correttamente dalla Corte d’Appello scrive la Cassazione -, che ha ritenuto l’esistenza di un’unica associazione mafiosa. Ma per farlo non ha provveduto, come richiesto, a trovare le prove durante il processo, bensì si è limitata a rivedere e ricostruire strutturalmente i fatti attraverso una diversa valutazione delle prove rispetto a quanto fatto dal Tribunale, costruendo “una diversa “regola” di motivazione, facendo una non corretta applicazione della legge”. Soprattutto, si è richiamata alle decisioni della Cassazione in sede cautelare, “affermando apoditticamente la identità dei fatti”. Una valutazione “gravemente erronea”, in quanto il Palazzaccio, in sede cautelare, aveva confermato lo sfruttamento della forza d’intimidazione sulla base “di un determinato materiale indiziario”, che il Tribunale, “sulla scorta dell’istruttoria dibattimentale, che certo non è stata di mero completamento di prove formate in fase di indagine, ha smentito”. Insomma, le indagini avevano fornito un quadro di gravità poi negato dalle prove in aula. La Corte d’Appello avrebbe dovuto individuare correttamente gli elementi costitutivi della fattispecie prevista dall’articolo 416 bis, tema che “non attiene solo alla struttura della motivazione, ma, soprattutto bacchettano i giudici -, alla corretta applicazione della legge penale”. Invece vengono evocati, da un lato, “concetti giuridicamente estranei alla tipicità della fattispecie” e dall’altro vengono proposte “ricostruzioni di singole circostanze che non trovano neanche consequenzialità logica”. E ci si è limitati a valorizzare l’attività di Carminati, unico a cui è stata riconosciuta un’autentica carica criminale, “tanto da ritenere sottesa ad essa una riserva di violenza e ciò anche nei casi in cui le ipotizzate condotte di intimidazione sono state attribuite a Buzzi”. Le conclusioni sono pesanti: per la Cassazione “si è svuotato di valenza penale il requisito dell’assoggettamento mafioso”, mentre la realtà emersa è quella di “un sistema gravemente inquinato non dalla paura ma dal mercimonio della pubblica funzione”. Non ci sono prove “che i pubblici ufficiali coinvolti fossero stati collocati dalla criminalità mafiosa all’interno della pubblica amministrazione, né che essi abbiano venduto la propria funzione per paura”, ma è stato accertato un fenomeno diverso, “di collusione generalizzata, diffusa e sistemica”. Una grave compromissione della pubblica funzione “conseguente ad una scelta libera e consapevole, ancorché criminale, di un elevato numero di pubblici amministratori, di politici, di pubblici funzionari”. “Questa sentenza - ha commentato al Dubbio l’avvocato Cataldo Intrieri, difensore di Carlo Maria Guarany - demolisce tutti i principi su cui si basava questa indagine, secondo la quale si poteva prescindere dal metodo mafioso per poter parlare di mafia. Uno dei punti cruciali della sentenza era il fatto che in sede cautelare la Cassazione si fosse pronunciata sui ricorsi ritenendo che si potesse configurare l’associazione mafiosa e questo era considerato un caposaldo. Bene, ora ci dicono che quello che è stato raccontato all’inizio dell’indagine - ovvero gli elementi rifilati dalla procura e dalla stampa - non è emerso dal processo. E questo deve far riflettere”. “Il vero errore della Corte d’Appello - ha aggiunto Cesare Placanica, difensore di Carminati era di avere preso per buona la ricostruzione della fase cautelare. La vera lezione, per tutti, anche per l’opinione pubblica, è di non considerare oro colato le ordinanze cautelari, crocifiggendo dei cittadini, perché spesso, come in questo caso, sono smentite dai processi. Era evidente: il giudicato cautelare si fondava su elementi fattuali completamente smentiti dal processo. Non si può ripescare quel giudicato senza valutare che quei fatti non sono emersi in dibattimento. I provvedimenti cautelari sono di una fallacia incredibile, perché espressi senza contraddittorio. Per poter parlare di riserva di violenza dev’esserci stata prima la violenza. Ma qui non ce n’è mai stata traccia”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Caos nel carcere: detenuti barricati, agenti in rivolta di Adriana Pollice Il Manifesto, 14 giugno 2020 Penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. I carcerati denunciano “è un inferno”. Otto le guardie ferite. Carcere casertano di Santa Maria Capua Vetere, venerdì notte due detenuti di origine marocchina del padiglione Danubio, quello per reclusi definiti “problematici”, danno fuoco alla cella. Gli agenti penitenziari intervengono, l’incendio viene domato, i due vengono portati in infermeria ma scatta una colluttazione. Sei secondini si fanno refertare. La situazione è incandescente da marzo. La pandemia ha esasperato la condizione dei carcerati. Il 5 aprile un caso di positività proprio nella struttura casertana fece esplodere la protesta nel reparto Nilo, i detenuti volevano disinfettanti e mascherine. Il giorno dopo ci fu una perquisizione alle celle con agenti in assetto speciale. Secondo i reclusi fu una spedizione punitiva con pestaggi, rasature di capelli, uomini denudati e insultati. Giovedì la magistratura ha consegnati gli avvisi di garanzia a 57 agenti: tortura, violenza privata e abuso di autorità i reati contestati. Nelle celle venerdì si esultava, mentre gli agenti protestavano contro la procura. La notte il primo atto di ribellione dei due detenuti e poi, ieri mattina, al Danubio la protesta: in circa 40 hanno provato a barricarsi e ad assediare l’infermeria. Altri due secondini si sono fatti refertare. Su 8, 3 sono finiti in ospedale. Al Danubio sono soggetti al regime di sorveglianza particolare del 14 bis, alcuni sono arrivati da Foggia e Rieti dopo le proteste in carcere di marzo. Definiscono il trattamento a cui sono sottoposti “disumano”: senza supporto psicologico e nessuna cura medica, denunciano. Per affrontare la crisi sono arrivati agenti da fuori mentre un gruppo di circa 50 secondini protestava all’ingresso del carcere: “Ci hanno incriminato per tortura, ci rifiutiamo di entrare in servizio, i torturati siamo noi. Vogliamo squadre antisommossa”. L’arrivo del provveditore regionale Antonio Fullone, del vicecapo del Dap Roberto Tartaglia e del procuratore aggiunto, Alessandro Milita, ha riportato la calma. Leo Beneduci, segretario Osapp, ha postato sui social: “Inutile spiegare perché queste condizioni si verifichino e chi paga quello che altri organi determinano. Santa Maria Capua Vetere è nel caos. Al ministro della Giustizia Bonafede, assente, chiediamo risposte urgenti”. Il Capo del Dap, Bernardo Petralia, e Bonafede nel pomeriggio hanno telefonato agli agenti feriti. Le prima misure prese sono state 70 nuovi agenti negli istituti campani e “l’immediato trasferimento fuori regione dei detenuti coinvolti nei disordini”. La Lega cavalca le proteste: sui social ha pubblicato le foto degli agenti feriti con lo slogan “Bonafede bocciato”. A Santa Maria Capua Vetere nessuno vuole scontare la pena: la struttura è recente ma non c’è acqua potabile, la regione ha stanziato i fondi per i lavori ma il comune va a rilento. Nelle celle (200 persone più della capienza dichiarata) bisogna arrangiarsi con una bottiglia di minerale al giorno. A 500 metri c’è l’impianto di tritovagliatura dei rifiuti. “Ci sentiamo in una discarica pure noi” hanno raccontato dei detenuti che sono riusciti a ottenere il trasferimento a Bellizzi, Carinola e Poggioreale. Un migrante, per farsi trasferire, si è tagliato le vene. Al Danubio è finito anche un gruppo che era al Nilo: “Abbiamo protestato, ci hanno picchiati e siamo finiti in isolamento” hanno raccontato. “Questo posto è un inferno” ripetono: in servizio c’è un solo psicologo dell’Asl, da mesi non si vede un educatore o uno psicologo, non ci sono assistenti sociali in un luogo dove ci sono 200 detenuti in più, alcuni con problemi psichici. Al Danubio il 5 maggio un ragazzo di 28 anni algerino è morto per asfissia, si è suicidato con il fornelletto a gas: aveva problemi psicologici eppure era in cella da solo. “Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere i detenuti vedono solo il contenimento, mentre ci vuole l’accudimento, come accade anche a Poggioreale con tanti progetti - spiega il garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello -. Per la Campania uno dei temi centrali è la mancanza di educatori, psicologi, assistenti sociali e psichiatri. Quando non ci sono queste figure a fare da ponte le criticità vanno tutte su gli agenti. Infine, il 6 di aprile non c’è stata nessuna rivolta, i detenuti dormivano nelle celle quando sono arrivati i gruppi speciali. Lo stato di diritto vale per Caino e per Abele”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Detenuti contro agenti, il carcere delle violenze in ostaggio di Irene De Arcangelis e Raffaele Sardo La Repubblica, 14 giugno 2020 Dopo l’inchiesta sulle torture, i reclusi attaccano le guardie indagate: otto feriti. I primi segnali della rivolta arrivano in piena notte. Un detenuto incendia la sua cella, viene portato in infermeria e con altri due carcerati aggredisce due agenti della polizia penitenziaria. Di primo mattino la ribellione coinvolge l’intero reparto “Danubio” del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Cinquanta detenuti (tutti considerati “problematici” perché durante l’emergenza Covid, in altre carceri italiane, avevano partecipato ad altre proteste violente) aggrediscono altri sei baschi azzurri, li feriscono, li prendono a sgabellate, tre finiscono in ospedale. I detenuti prendono le chiavi del reparto, ne diventano padroni. Nel tardo pomeriggio, dopo le trattative del vice capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria Roberto Tartaglia con i rivoltosi, la rivolta si placa. Otto detenuti violenti saranno trasferiti nelle carceri di Avellino e Benevento, a Santa Maria Capua Vetere arriveranno settanta agenti di rinforzo. La rivolta di ieri è l’ultimo atto di una vicenda cominciata nell’aprile scorso ed esplosa giovedì. Ad aprile si era scoperto che un detenuto era positivo al Covid. Era scoppiata la rivolta nel reparto “Nilo” e il giorno dopo la polizia penitenziaria aveva effettuato perquisizioni radicali. Quelle perquisizioni sono state denunciate dai familiari dei detenuti, dall’associazione Antigone, dal garante dei detenuti Samuele Ciambriello. E tutto è finito in una inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere con 57 indagati. Quattro giorni fa 44 avvisi di garanzia sono stati notificati dai carabinieri agli agenti della penitenziaria - ipotesi di reato tortura, violenza privata e abuso di potere - davanti ai cancelli del carcere “Uccella” sotto gli occhi beffardi dei familiari dei detenuti. Una azione “spettacolare e umiliante per la categoria”, come hanno spiegato i sindacati della penitenziaria e “senza alcun rispetto della privacy”. Perciò gli indagati agenti hanno protestato salendo sul tetto del carcere mentre i detenuti festeggiamenti l’affronto subito dalla penitenziaria facendo esplodere i petardi. E sulla festa fatta in cella il procuratore generale della Repubblica Luigi Riello ha chiesto “una dettagliata e sollecita relazione al procuratore presso il tribunale di Santa Maria Capua Vetere e ai vertici regionali dell’arma dei carabinieri al fine di accertare ogni dettaglio dell’operazione e la veridicità o meno di quanto denunciato da alcuni esponenti sindacali della polizia penitenziaria”, relazione che non è stata ancora presentata. E ieri mattina durante la rivolta il reparto “Danubio” era fuori controllo. Gli agenti indagati sono andati via, non hanno voluto intervenire e per loro hanno parlato i sindacati: “Gli agenti - spiega Daniela Caputo, segretario nazionale dell’Associazione nazionale dirigenti e funzionari di Polizia penitenziaria - che per sedare le rivolte agli inizi di aprile nello stesso carcere, adesso si trovano indagati per tortura, insieme al loro comandante come avrebbero potuto intervenire? All’ennesima aggressione e all’ennesimo linciaggio mediatico i poliziotti penitenziari non ci stanno. Chiediamo al ministro della Giustizia e alle istituzioni di discutere in concreto quali siano i compiti del corpo di Polizia penitenziaria”. Pian piano la situazione è tornata alla normalità con i detenuti che sono stati ricondotti nelle celle. Il vice capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Roberto Tartaglia, ha visitato il “Danubio” dove si erano svolti i disordini, ha incontrato gli agenti, ascoltando le loro istanze. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Antigone riceve da mesi denunce per violenze sui detenuti di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2020 È del 14 aprile scorso l’esposto che la nostra associazione Antigone ha depositato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere contro agenti di polizia penitenziaria in servizio nel carcere della cittadina per tortura e percosse, nonché contro medici operanti nello stesso istituto per omissione di referto, falso e favoreggiamento. Lo stesso carcere in relazione al quale si apprende oggi che 44 agenti sono indagati per tortura per i presunti pestaggi del 6 di aprile. Più volte negli scorsi mesi ci sono state denunciate presunte violenze ai danni di detenuti da parte di esponenti della polizia penitenziaria, violenze che sarebbero avvenute in alcune carceri italiane nei giorni successivi le rivolte scoppiate durante l’emergenza sanitaria. Gli abusi sarebbero cominciati quando la calma era oramai tornata negli istituti coinvolti e niente dunque avrebbero avuto a che fare con il tentativo di fermare le proteste. Chi telefonava o scriveva all’associazione Antigone per riportarci la testimonianza di un parente detenuto con il quale aveva appena comunicato raccontava di vere e proprie ritorsioni, gravi abusi ai danni di persone in quel momento inermi e in certi casi anziane, che avrebbero voluto assumere il ruolo di punizioni nei confronti di chi aveva preso parte ai disordini. I nostri avvocati chiedevano di parlare al telefono con tutti i parenti che si facevano tramite di denunce tanto gravi. Ascoltavano, prendevano note, valutavano. Quando i racconti erano molteplici e coincidenti anche nei dettagli pur provenendo da fonti differenti, mandavano in Procura le carte come è giusto che sia. I primi giorni di aprile inviammo una mail all’allora Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Francesco Basentini per informarlo di due esposti che avevamo depositato fino a quel momento (altri ne seguiranno). Il primo riguardava le presunte torture avvenute nel primo reparto del carcere milanese di Opera, quando alcuni agenti avrebbero fatto irruzione nelle celle di vari detenuti - alcuni dei quali non sarebbero stati neanche coinvolti nelle rivolte precedenti e alcuni dei quali sarebbero stati malati o anziani - e li avrebbero colpiti con i manganelli sulle braccia, sulle mascelle e su altre parti del corpo, immobilizzandone alcuni e percuotendoli, dando loro dei calci nei testicoli. Un agente avrebbe riferito a un avvocato che “era solo volato qualche ceffone”. Il secondo esposto era relativo a presunte violenze nel carcere di Melfi, dove alcuni detenuti sarebbero stati denudati e picchiati (anche con manganelli), insultati, messi in isolamento, trasferiti in altri istituti con lunghi spostamenti durante i quali era loro impedito di andare in bagno, costretti a firmare fogli nei quali dichiaravano di essere accidentalmente caduti. Gli episodi di Santa Maria Capua Vetere sarebbero successivi a questi e risalirebbero al giorno seguente quello di una battitura delle sbarre con la quale alcuni detenuti volevano chiedere tutele sanitarie dopo la diffusione della notizia di una persona positiva al Covid-19. Il nostro esposto per la supposta ritorsione violenta da parte della polizia penitenziaria in tenuta antisommossa nei confronti di alcuni detenuti del reparto Nilo - circa 400 agenti avrebbero fatto ingresso nel reparto con volto coperto da caschi e guanti alle mani - è datato 14 aprile, mentre del 16 aprile è la nuova mail con la quale torniamo a informare Basentini. Fin dalle prime ore delle rivolte di marzo Antigone, attraverso un video-messaggio del proprio presidente pubblicato sulla pagina Facebook dell’associazione, ha chiesto alle persone detenute di interrompere immediatamente ogni forma di violenza, che mai può essere uno strumento di richiesta o di risoluzione dei conflitti. Se ci opponiamo alla violenza della protesta, ci opponiamo anche a quella messa in atto da istituzioni pubbliche che dovrebbero rappresentare lo Stato di tutti noi. Da più parti abbiamo tentato di far sapere delle denunce che ci avevano raggiunto. Si è parlato molto delle rivolte di marzo, con il loro carico di tragedia, e delle tre detenzioni domiciliari di detenuti in 41-bis. Non sembravano invece fare notizia brutali pestaggi ai danni di persone detenute. Grazie al lavoro della magistratura le indagini faranno la loro strada ed emergerà quanto è accaduto, di qualsiasi cosa si tratti. Che si sia contestato il reato di tortura - inserito nell’ordinamento italiano solamente nel luglio 2017, nonostante le annose sollecitazioni da parte degli organismi internazionali sui diritti umani - fa sperare che almeno non possa essere la prescrizione la via per chiudere la faccenda. L’emergenza sanitaria che ancora stiamo vivendo non deve farci abbassare la guardia rispetto alla necessità di conoscere la verità e di isolare gli eventuali colpevoli violenti. *Coordinatrice associazione Antigone Prato. 23enne suicida in carcere, il caso finisce in Procura Il Tirreno, 14 giugno 2020 Consegnato un memoriale. Si era impiccato in una cella del carcere della Dogala il 24 maggio scorso e, dopo tre giorni di agonia, è morto all’ospedale Santo Stefano. Lui era un detenuto di 23 anni, che era stato trovato privo di sensi da un agente, ma “incora in vita, seppure in gravissime condizioni. Questo caso, non certo la prima tragedia che si consuma tra le mura di un carcere, è ora sul tavolo della Procura di Prato. A passarlo è stata un’avvocatessa, Sara Mazzoncini. che ha raccolto un memoriale di quattro pagine da due detenuti vicini di cella nella settima sezione dell’istituto di pena di Maliseti. Secondo loro, da tempo avevano segnalato i problemi di questo giovane che aveva bisogno di supporto psicologico. E invece in quei giorni era stato lasciato, seppure temporaneamente, in cella da solo. I compagni di prigionia lamenterebbero, quindi, una sottovalutazione delle condizioni del detenuto. Entrambi sono già stati sentiti dal procuratore. Prato. I problemi del carcere della Dogaia di Sara Mazzoncini* linealibera.info, 14 giugno 2020 La precaria situazione generale del carcere di Prato era stata segnalata al Ministro fino dal settembre dello scorso anno, ma Bonafede, che aveva risposto ben cinque mesi dopo, a febbraio 2020, vantava “che nell’ultimo triennio a Prato non si era registrato nemmeno un suicidio”, perciò tutto andava bene. Ho depositato personalmente la nota il 5 giugno, direttamente presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Prato, informando anche il gruppo di lavoro al quale appartengo della locale Camera Penale, che si occupa proprio di carcere; sia il Consigliere comunale Lorenzo Tinagli, da sempre attento alle problematiche carcerarie. Ho anche trasmesso la stessa a mezzo Pec al Garante Fanfani” Occuparsi di esecuzione penale, in tempi di Coronavirus, non è stato semplice. Da un lato ho deciso di fermare i colloqui visivi in carcere, consapevole che, se qualche mio assistito si fosse ammalato e fossi stata io il tramite, non avrebbe sicuramente avuto facilità nell’accedere alle cure richieste. Dall’altro, sapevo che i miei assistiti avrebbero “sofferto” la mancanza anche del colloquio con il difensore, dopo che avevano subito il necessario blocco dei colloqui famiglia. Il pensiero prevalente, però, è stato quello di tutelare la loro salute: in microcelle con a disposizione meno di 3 mq a testa, il contagio sarebbe stato difficile da gestire negli istituti di pena. Dopo un primo difficoltoso inizio, i detenuti sono riusciti ad ottenere una telefonata a settimana con il difensore, oltre a quelle con la famiglia, ed è stato possibile svolgere colloqui in videochiamata Skype. Nel colloquio Skype del 25 maggio alcuni di loro, ristretti nella VII sezione (media sicurezza) erano scossi e preoccupati: un loro compagno aveva tentato il suicidio e versava in gravi condizioni all’Ospedale. Nei dieci minuti concessi per il colloquio difensore-assistito in modalità telematica, non ho compreso tutte le dinamiche della vicenda: forse perché ero troppo impegnata a cercare di tranquillizzarli, forse perché contemporaneamente mi stavo agitando anch’io. Tuttavia qualcosa in quella prima ricostruzione non tornava. Recuperando la lucidità ho detto loro di prendere carta e penna e scrivermi, di mettersi nelle loro celle e descrivermi ciò che era successo. Il 3 giugno sono tornata ai colloqui visivi e due dei miei assistiti avevano preparato una memoria di 4 pagine, che mi hanno chiesto di leggere e depositare presso la Procura, nonché di trasmettere al Garante regionale dottor Fanfani. Confrontandomi anche con la collega di studio Pamela Bonaiuti, che segue con me, da sempre, gli assistiti della VII sezione della casa circondariale “La Dogaia”, ho deciso di depositare la memoria così come era, di modo che ciò che vi era scritto rimanesse genuinamente riportato da chi l’aveva redatta. Ho depositato personalmente la nota il 5 giugno, direttamente presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Prato, informando anche il gruppo di lavoro al quale appartengo della locale Camera Penale, che si occupa proprio di carcere; sia il Consigliere comunale Lorenzo Tinagli, da sempre attento alle problematiche carcerarie. Ho anche trasmesso la stessa a mezzo Pec al Garante Fanfani. In quelle quattro pagine, purtroppo, si legge che i miei assistiti, come altri detenuti della VII sezione, avevano “segnalato” il ragazzo 23enne. “Segnalato” nel senso che avevano avvisato la Polizia Penitenziaria del fatto che soffriva la detenzione più di altri e che aveva dato segni di squilibrio, che forse aveva bisogno di un supporto psicologico proprio in quei giorni. Nel memoriale i miei assistiti raccontano anche cosa hanno visto e sentito al momento dell’arrivo dei soccorsi. I miei due assistiti si sono immediatamente messi a disposizione della Procura, per raccontare la loro versione dei fatti, e mi hanno riferito che sono stati entrambi sentiti dalla Polizia Penitenziaria, su delega del Procuratore, nella giornata del 9 giugno. Spero che si possa fare chiarezza su quanto successo, visto che nella memoria si legge che quel ragazzo, che aveva dato segni di cedimento psicologico, era purtroppo ristretto in cella da solo (i miei assistiti sono ristretti nella cella accanto a quella del 23enne uno, e l’altro a due celle di distanza). Il parlamentare Giachetti aveva posto un’interrogazione parlamentare al Ministro Bonafede già in data 24 settembre 2019, evidenziando varie criticità del carcere di Prato. Nella risposta del 25 febbraio 2020 il Ministro “vantava” che nell’ultimo triennio a Prato non si era registrato nemmeno un suicidio. Il parlamentare Giachetti, quindi, a seguito del tentato suicidio del 23enne, poi deceduto, ha presentato nuova interrogazione al Ministro della Giustizia. Spero che, finalmente, possa essere posta la giusta attenzione sulle numerose criticità dell’istituto “La Dogaia” di Prato, senza che tali criticità debbano essere pagate con ulteriori vite. *Avvocato, componente Gruppo di Lavoro Carcere della Camera Penale di Prato Crotone: Garante detenuti: “L’avvio dei lavori di pubblica utilità non è più rinviabile” laprovinciakr.it, 14 giugno 2020 “Urge l’avvio dei lavori di pubblica utilità per i detenuti di Crotone: un appuntamento non procrastinabile”. È quanto chiede in una nota il Garante comunale detenuti di Crotone, Federico Ferraro. “In seguito alle reiterate richieste di informazioni - scrive -, da parte dei detenuti e dei loro familiari, per l’avvio dei cosiddetti lavori di pubblica utilità, ex art 21 Ordinamento penitenziario, si rende necessario un appello alle istituzioni regionali e locali per la realizzazione del servizio, oramai non più procrastinabile per i detenuti della realtà geografica crotonese”. “Tale attività, prevista dalla normativa vigente - spiega l’avvocato Ferraro - consentirebbe, non solo un importante impiego di risorse umane per le attività socialmente utili (pulizia di aree e spazi pubblici, giardini e verde pubblico, interventi sul manto stradale, riordino degli archivi presso enti od uffici pubblici, etc.) attività ritenute fondamentali per detenuti ed ex detenuti od internati, al fine di acquisire abilità lavorative indispensabili per un concreto reinserimento socio lavorativo. A tal proposito la legge prevede infatti che “possono essere ammessi al lavoro all’esterno del carcere i condannati, internati ed imputati sin dall’inizio della detenzione per svolgere attività lavorativa”; ancora possono “prestare attività a titolo volontario e gratuito in progetti di pubblica utilità in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane, le unioni di comuni, le aziende sanitarie locali, o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato”; infine è previsto che si possa “prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito a sostegno delle vittime dei reati da loro commessi, comma 4-ter introdotte dalla legge n.94 del 9 agosto 2013 convertito nella legge n. 94/2014”. Come noto, il lavoro di pubblica utilità ha natura di sanzione sostitutiva e, recentemente sono stati sottoscritti alcuni protocolli tra il ministero della Giustizia, l’Anci e alcuni Tribunali di sorveglianza per favorire l’applicazione dell’art.21 come sopra”. “Più in generale - sottolinea il garante - è bene ricordare che, in riferimento al diritto al lavoro per condannati od internati, l’art. 15 dell’Ordinamento penitenziario, legge 26 luglio 1975 n. 354, individua proprio il lavoro come elemento di grande rilievo per un trattamento rieducativo disponendo che, eccettuati casi di impossibilità, al condannato e all’internato deve essere assicurata un’occupazione lavorativa. Dallo scorso luglio l’Ufficio del Garante comunale dei detenuti, di concerto con la Casa circondariale, è stato avviato un tavolo istituzionale aperto al reinserimento socio-lavorativo dei detenuti; ad oggi nessuna iniziativa o proposta ha ottenuto riscontro concreto per cui nessun detenuto a Crotone ha potuto svolgere lavori di utilità sociale o altri tipi di lavori esterni”. “Per quanto premesso - entra nel merito la nota - il Garante comunale dei diritti dei detenuti che di Crotone sollecita la presidente della Regione Calabria, Jole Santelli, le Istituzioni locali tutte e le realtà associative operanti sul nostro territorio a sostegno delle fasce deboli, a calendarizzare un incontro per avviare al più presto, anche per la città di Crotone, un piano di lavori di pubblica utilità. Solo così ci sarà una prima risposta istituzionale capace di attuare un reinserimento vero ed effettivo, per detenuti ed ex detenuti crotonesi. Tale intervento è reso oggigiorno ancora più urgente dalla situazione sociale ed economica, dagli effetti negativi prodotti dalla pandemia ancora in corso”, conclude il garante. Torino. Intervista a Valentina Noya, direttrice di LiberAzioni sul progetto Liberante.it vicini.to.it, 14 giugno 2020 Mi può spiegare il nome del sito? Come mai Liberante.it? Liberante è una locuzione comune nel gergo carcerario che designa comunemente la persona che ha ricevuto la notizia che finalmente otterrà la scarcerazione. Quando gli agenti di polizia penitenziaria convocano il detenuto per l’uscita chiamano “il liberante”. È una parola che per il vissuto dei detenuti dà il senso della concretezza del sollievo, vuol dire veramente “sto per uscire”. Infatti anche in altri casi in cui c’è la semi-libertà o la possibilità di uscire per lavorare, questa parola non viene utilizzata: il “liberante” è la persona che si trova proprio nella condizione di confine, che è ancora dentro ma sta per uscire. È stata scelta questa parola dunque per il suo alto livello di evocatività per i detenuti; un’altra opzione era “Torino a piede libero” perché volevamo porre l’accento anche sul tema della riappropriazione degli spazi pubblici che di fatto poi permane nel sottotitolo del sito. Liberante.it infatti ha un sottotitolo che è “città, diritti, opportunità” a cui teniamo molto perché il nostro intento è quello di sottolineare anche il valore civico di questo progetto che oltre agli ex detenuti, può aiutare tantissime altre marginalità della nostra società. Appunto per il fatto che il “liberante” è una persona che si trova al confine, in un periodo di transizione, ci sono delle attività e dei progetti sul sito che iniziano o possono iniziare già mentre il detenuto si trova ancora nell’Istituto? Sì, ci sono alcuni progetti che possono già iniziare in carcere, soprattutto dal punto di vista dell’istruzione. Non tutti sanno che all’interno del carcere si ha la possibilità di ottenere sia il diploma di terza media, qualora non lo si possedesse, sia il diploma di scuola superiore; in questo caso c’è un partenariato attivo con l’Istituto Professionale per i Servizi Socio Sanitari Giulio di via Bidone e i detenuti, che anche una volta scarcerati, hanno la possibilità di continuare ad essere seguiti. Come progetto in continuità tra il dentro e il fuori del carcere penso anche alle cooperative che svolgono corsi di formazione di vario tipo: dalla falegnameria all’editing, alla grafica come la cooperativa Eta Beta. Queste cooperative di fatto fungono anche da anello di congiunzione per reperire un impiego una volta usciti dal carcere. In questo senso si può citare anche la cooperativa Extraliberi che si occupa di Freedom, lo store di prodotti carcerari in via Milano che raccoglie anche i prodotti realizzati all’interno del carcere di Torino sia dal padiglione femminile che dalla sezione arcobaleno (sezione di recupero per persone con problematiche di tossicodipendenza che si occupa di serigrafia). Cosa può trovare nella sezione “Formazione e lavoro” un ex detenuto? La cooperativa Eta Beta collabora col Uiepe e il Centro per l’Impiego e quindi costituisce un ponte tra il dentro e il fuori. Il ruolo di cooperative come questa è quello di accompagnare anche proprio nella ricerca stessa del lavoro, venendo incontro alle esigenze e al margine di conoscenze dell’ex detenuto che spesso riscontra difficoltà nel trovare un impiego che non sia legato alla manualità. Attualmente la sezione “Formazione e lavoro” è quella più fragile: c’è un grosso lavoro che stiamo adoperando nelle retrovie anche con varie realtà imprenditoriali che sarebbero disponibili a fare dei contratti. Dal punto di vista lavorativo purtroppo la realtà è che talvolta subentra lo stigma: spesso un datore di lavoro se deve scegliere preferisce chi non ha un percorso di detenzione alle spalle. Stiamo anche cercando di sottoscrivere degli accordi di collaborazione in qualche modo tutelati attraverso l’ufficio della Garante per riuscire a offrire opportunità lavorative in più. Anche se il sito Liberante.it è appena nato, quali sono le idee per il futuro? Sicuramente quello che faremo sarà anche tornare a bussare ad alcune porte che ci avevano dato una disponibilità di massima ma con le quali non abbiamo ancora concluso degli accordi specifici e quindi non si trovano sul sito perché preferivano andare cauti rispetto al tema dell’emergenza. Nei prossimi mesi quindi, in maniera concomitante con la ripresa economica e sociale del nostro paese, cercheremo sicuramente di ampliare le diverse sezioni; quella di “Formazione e Lavoro” non nego che abbia bisogno di reggere tutto il sistema. Ciò di cui siamo sicuramente molto fieri è la sezione “Diritti e persona” perché in questa abbiamo creato delle partnership operative anche per quanto riguarda il nostro piccolo progetto di inclusione sociale e di emergenza che abbiamo portato avanti con la raccolta fondi. Questa sezione però implica mettere insieme tante realtà diverse che orbitano intorno al sistema penitenziario che sono appunto i detenuti, gli avvocati, i giudici e tutto quello che è il tessuto associativo intorno al tema della legalità: un mondo che dal punto di vista burocratico è estremamente complesso. Facilitare le pratiche rispetto al rientro in società è molto importante e il fatto che esistano delle associazioni in cui dei professionisti prestino anche dei servizi gratuiti è cruciale perché, molto spesso, il detenuto è accompagnato anche da una situazione socio-economica molto fragile. Siamo contenti anche della sezione “Servizi di prima necessità” ed “Emergenza Covid-19” perché abbiamo messo sul sito una bella rete di associazioni. Anche in “Cultura ed Eventi gratuiti “abbiamo prati sterminati da percorrere perché la nostra rete è molto più solida di quello che appare: abbiamo siglato solo alcuni accordi specifici ma ne implementeremo sicuramente degli altri che non nego possano poi offrire anche delle opportunità lavorative. Le case di quartiere ad esempio hanno dato la loro adesione formale come rete al progetto, però in questo periodo non avevano delle offerte lavorative concrete da strutturare, ma non è detto che in futuro non possano essere assunti degli ex detenuti ad esempio come cuochi. Come intende farsi conoscere questo progetto anche da chi non è più dentro la realtà carceraria ma ha comunque bisogno di una mano? Se lo vediamo da questo punto di vista dipende anche un po’ “dall’appartenenza sociale” del detenuto: ci sono alcuni casi estremamente gravi - motivo per cui è nato anche l’asse dei servizi di prima necessità - di persone senza una casa, persone marginali che sono restate tali anche in carcere e il cui destino uscendo è purtroppo quello di diventare fondamentalmente dei senza tetto. In questi casi si attivano reti diverse di prossimità. L’ufficio della Garante da parte sua è diventato negli ultimi anni un avamposto in cui spesso i detenuti, anche per passa parola, si recano per avere informazioni e cercare aiuto. Quello che abbiamo predisposto è sicuramente di far sì che il servizio civilisti o comunque il personale che c’è in ufficio possa informare del sito web anche solo fornendo una mini brochure che inviti la popolazione ex detenuta a cercarci su internet. In questo senso abbiamo molto bisogno di migliorare la possibilità di avere dei punti da segnalare dove ad esempio ci sia il wi-fi gratuito. Rispetto ai servizi di prima necessità riconosciamo che non sia l’ex detenuto senza tetto che va su internet, ma il nostro approccio è: mettiamo in rete queste conoscenze ed essendo un sito - anche se non ne ha l’aspetto - di un ufficio comunale, possa diventare per gli addetti al settore una mappatura di certi servizi come dormitori e mense per offrire una panoramica della disponibilità, della capienza e della posizione delle strutture. Per questo motivo vorremmo essere sempre più specifici dal punto di vista statistico e cercare di geolocalizzare meglio questa mappatura. Attualmente ci sono alcuni difetti sul tema degli elenchi e dell’ordine interno delle sezioni ma non è detto che sviluppando il sito, con la mole di categorie che si accumuleranno, si creino sempre nuove categorizzazioni semplificate in modo che Liberante.it continui ad essere un sito di facile accesso e utilizzo. Dal momento che avete già lavorato con il progetto LiberAzioni festival e siete dentro l’ambiente, qual è di solito la percentuale di ex detenuti che si affida a questi progetti? Quando eravamo in fase di costruzione di Liberante.it, ho iniziato a chiedere riscontro per il sito nelle sezioni dove lavoravamo che di fatto sono quelle dei semi liberi, del padiglione universitario e delle cooperative, quindi situazioni più agevolate. Sicuramente quello che ho compreso è che in altre sezioni più difficili c’è il senso di necessità di un progetto del genere per cui il riscontro è stato positivo: tutti coloro a cui abbiamo chiesto se fosse un progetto utile secondo loro e se avrebbero utilizzato una volta usciti il sito web, hanno risposto positivamente. Quello che sarà fondamentale in futuro sarà la comunicazione interna di persona: la nostra idea era, ancor prima di lanciare il sito all’esterno in società, poter entrare in carcere (cosa che ancora ci è proibita in quanto operatori volontari) per creare dei momenti di incontro con tutte le sezioni o coi rappresentanti delle sezioni, per raccontare il progetto e illustrarlo in maniera esaustiva. Bisogna comunque sottolineare che la popolazione che esce - per quanto in questo periodo si sia parlato a livello mediatico di molte scarcerazioni - non è aumentata rispetto alle statistiche. Dal carcere di Torino vengono scarcerate circa una cinquantina di persone ogni 3-4 mesi quindi stiamo parlando di numeri molto ridotti; con l’ufficio della Garante inoltre abbiamo la possibilità di monitorare e avere i dati sulle scarcerazioni: se sappiamo, ad esempio, che il mese prossimo verranno scarcerate un tot di persone, andremo a comunicare con i referenti e gli educatori delle sezioni da cui usciranno queste persone per far sì che rendano noto il sito o addirittura potremmo integrare una cartolina con il nostro sito web al kit in uscita. Le modalità possono essere varie, ma penso che valga molto il passa parola: noi attualmente stiamo per avviare un tirocinio di un detenuto volontario che è in affidamento e non ha l’obbligo di rientro in carcere, lavora e potrebbe aiutarci nello screening delle varie informazioni e dei dati che in futuro potremo inserire sul sito, in questo senso si cerca anche di affidarsi a chi ha vissuto l’esperienza carceraria. Il nostro intento è quello sempre di lavorare con i beneficiari e con l’utenza diretta, sennò non possiamo avere un riscontro chiaro. Ci sono vite per cui nessuno s’inginocchia di Alberto Negri Il Manifesto, 14 giugno 2020 Ci sono vite per cui nessuno si inginocchia. I migranti che affogano in mare, i palestinesi uccisi da Israele, i curdi massacrati da Erdogan. Eppure stanno sotto casa nostra. Ma non ci inginocchiamo neppure per Giulio Regeni, anzi vendiamo armi al dittatore egiziano Al Sisi che il nostro governo definisce persino un “alleato”. Una solenne stupidaggine, sottolineava ieri Tommaso Di Francesco su il manifesto, eppure questo premier non dovrebbe rischiare di apparire a cavallo ma con una doppia sella. Qui parliamo di stragi, di diritti negati, di terra rubata, di vite senza futuro. Iyad Hallaq, giovane autistico palestinese, la scorsa settimana è stato ucciso a bruciapelo a Gerusalemme: per gli arabi è la “normalità”, oltre 130, ci informa Nena News, sono stati uccisi così nel 2019. Nessuno dei responsabili è stato mai punito. Il premier canadese Justin Trudeau, che si era platealmente inginocchiato in tv per George Floyd, ora spalanca gli occhioni stupito davanti a un video del marzo scorso in cui i “suoi” poliziotti riempiono di botte un leader delle proteste dei nativi americani. Ma dove pensa di vivere il bel Trudeau? La lista è lunga, l’ipocrisia dilagante. Non è il momento per parlare di palestinesi, curdi, migranti africani e nemmeno di Regeni: sui media questo va di moda adesso, quindi se apri la tv, improvvisamente, vedi qualcuno, magari un potente, che si inginocchia. Mai che questi li ho visti dire una parola per i palestinesi o i curdi. Forse un giorno arriverà una fuggevole genuflessione. Abbiamo lo schiavismo davanti a noi e nessuno fa nulla: 53 morti tra donne e bambini nel peschereccio di migranti affondato il 4 giugno nelle acque tunisine. Nessuno che per loro si inginocchi né qui né negli Usa, che da decenni conducono guerre devastanti, mettono sanzioni, stritolano intere popolazioni e provocano milioni di morti e di profughi. Non è certo un male inginocchiarsi per un’altra causa - tutto il mondo ci riguarda - a patto che non diventi una sorta di moda (quante ne abbiamo viste) o peggio ancora un alibi che ci impedisce di vedere e di fare qualcosa per quanto accade a casa nostra. Oggi vorrebbero vietare alle Ong di salvare la gente in mare: è urgente ma non se ne occupa nessuno. Per i curdi del Rojava massacrati da Erdogan l’anno scorso ci fu una certa mobilitazione, a parole: proseguiamo a vendere armi alla Turchia, così come all’Egitto del generale Al Sisi i cui sgherri hanno massacrato Regeni e che dopo quattro anni non ha neppure imbastito un processo. Manco siamo capaci di ottenere giustizia per un nostro studente torturato e ucciso e in tv facciamo pure quelli solidali con la causa afro-americana? Diffiderei della solidarietà di un popolo come il nostro. Tutto questo mentre il premier israeliano Netanyahu ribadiva l’intenzione di annettere la Valle del Giordano, cioè di prendersi altra terra ai palestinesi. Che verranno ridotti a vivere in bantustan, territori frammentati non collegati tra loro e senza diritto di cittadinanza: si chiama apartheid e nessuno di quelli che si inginocchiano adesso dice mai una parola in proposito. Per fortuna la coalizione Black Lives Matter se ne è accorta e nella sua piattaforma prende di mira l’aiuto militare Usa a Israele che sta “perpetrando un genocidio e un apartheid” ed esprime sostegno alla campagna Bds, (Boicottaggio, Sanzioni e Disinvestimento) verso lo stato responsabile dell’occupazione illegale della Palestina. Quelli che si inginocchiano in tv lo sanno, oppure hanno avuto notizia della fresca sentenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo? Dice che le campagne a favore del boicottaggio dell’economia israeliana non costituiscono una manifestazione di antisemitismo ma rientrano nel legittimo esercizio della libertà di espressione. In tanti fanno finta di niente. Come ci spiegava due giorni fa Michele Giorgio, la Germania, il paese europeo più potente, che vanta relazioni speciali con Israele e primo luglio assumerà la presidenza mensile del Consiglio di sicurezza Onu e quella semestrale Ue, farà di tutto per scongiurare sanzioni contro lo stato ebraico per l’annessione “a pezzi” della Cisgiordania. E allora inginocchiamoci tutti contriti e solidali: anche nella lotta al razzismo il doppio standard è salvo. Stati Uniti. Si ribella all’arresto: un altro nero ucciso dagli agenti a Atlanta di Francesco Semprini La Stampa, 14 giugno 2020 Il ventisettenne Brooks fermato durante un controllo. Ruba il taser e la polizia gli spara mentre sta fuggendo. Il fermo, la colluttazione e i colpi di pistola. Un copione visto e rivisto, preludio dell’ennesima uccisione di un afroamericano da parte della polizia americana e delle conseguenti proteste che divampano di nuovo in un Paese infiammato da 14 giorni di manifestazioni per l’uccisione di George Floyd, il cittadino nero morto in seguito al violento arresto avvenuto alcune settimane fa a Minneapolis. Nel mezzo altri episodi, ma quello avvenuto nella notte tra venerdì e sabato ad Atlanta, in Georgia, è stato fatale. Alle 22.30 locali, la polizia interviene sulla segnalazione di un sospetto fermo all’interno di un veicolo in prossimità dello sportello di consegne di un fast food Wendy’s. “La vettura ostruiva il passaggio”, dicono gli inquirenti. L’uomo è Rayshard Brooks, 27 anni, afroamericano. Viene sottoposto al test per l’alcol, risulta positivo, scatta l’arresto. Nasce una colluttazione, gli agenti usano il taser, “ma non sortisce effetti”, spiega il vice capo Timothy Peek, del Atlanta Police Department. Anzi è Brooks a strappare una delle pistole a scariche elettriche per usarlo, a quel punto un altro poliziotto spara tre colpi di pistola. A nulla è valso il trasporto in ospedale e l’intervento, Brooks muore poco dopo. Il Georgia Bureau of Investigation ha sospeso gli agenti in attesa che l’inchiesta faccia luce. Nel frattempo si diffondono i video di alcuni testimoni e sul luogo dell’incidente si radunano decine di persone per chiedere giustizia. Proteste che si allargano al Canada dopo l’episodio di Fort McMurray, in Alberta, dove ad essere coinvolto è un nativo, Allan Adam, capo della comunità di Athabasca Chipewyan. La vicenda risale al 10 marzo ma il video, ripreso da una telecamera della polizia, è stato reso pubblico due giorni fa. Nel filmato di dodici minuti l’uomo viene preso a calci e pugni da un agente per una targa scaduta. Il premier Justin Trudeau definisce la vicenda “scioccante” e chiede che sia aperta “un’indagine indipendente”: “Sappiamo che non si tratta di un episodio isolato, molti canadesi neri o indigeni non si sentono al sicuro con la polizia. È inaccettabile, dobbiamo cambiare le cose”. Episodi che alimentano un clima già rovente. Un uomo bianco di 63 anni è stato arrestato in North Carolina per aver minacciato di dare fuoco a una chiesa frequentata da afroamericani in Virginia: rischia ora fino a 10 anni di carcere. Il presidente, nel frattempo, ha dovuto posticipare di 24 ore, al 20 giugno, il comizio di Tulsa in Oklahoma per la coincidenza con l’anniversario per l’abolizione della schiavitù negli Usa. Ieri si è recato ieri a West Point per la cerimonia di laurea dei cadetti. “Domani è il compleanno dell’esercito e anche il mio. Sarà un caso?”, ha detto davanti ai giovani ufficiali. Per il comandante in capo è stata l’occasione per ricucire i rapporti con i militari, dopo lo strappo consumato nei giorni scorsi con alcuni generali che non gli perdonano il pugno di ferro in risposta alle proteste. Germania. Morti “in custodia”, la politica ignora il problema di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 14 giugno 2020 Chi denuncia resta isolato. Un buco nero, i cui contorni sono ben descritti da Biplab Basu, dell’associazione Reach Out, iniziatore della “Campagna contro la violenza razzista della polizia” che ha contato i 138 “morti in custodia” dal 1993 al 2020. È morto il 12 gennaio 2019, senza video, proteste e l’hasthtag sui social. Eppure anche Aristeidis L. non riusciva a respirare quando quattro agenti gli hanno schiacciato il collo sul pavimento di un ascensore a Berlino. Legato mani e piedi, il 36enne greco è stato soffocato esattamente come George Floyd. Nella civilissima Germania dove “i giornalisti continuano a considerare le forze dell’ordine neutrali” come ricorda il quotidiano Taz che ha scoperchiato il caso insabbiato da un anno e mezzo. Di fatto, chi accusa pubblicamente la polizia rimane isolato: lo sanno bene la segretaria Spd, Saskia Esken, che sei mesi fa osò chiedere lumi sulla gestione del Capodanno a Lipsia, e la leader dei Verdi, Simone Peter, che nel 2016 pretese spiegazioni sull’operato degli agenti dopo la “notte del terrore” di Colonia. Poco importa se dalla Riunificazione a oggi sono ben 269 le persone uccise con arma da fuoco dalla polizia tedesca; ancora meno se - come nel caso di Aristeidis - non risulta lo straccio di un’indagine e tantomeno punizioni ai responsabili. “L’accusa non interrogò neppure i poliziotti che erano nell’ascensore con lui” ricorda la Taz. Risultato: inchiesta archiviata prima ancora di essere aperta. Succede a Berlino, dove il governo locale è stato costretto a varare la legge anti-discriminazione contro gli abusi in divisa (contrari Cdu e liberali) e i Verdi propongono di cancellare la parola “razza” dalla Legge Fondamentale, equivalente della Costituzione. E accade quindici anni dopo il clamoroso caso di Oury Jalloh, richiedente asilo della Sierra Leone, bruciato vivo nella cella della stazione di polizia di Dessau senza che nessuno muovesse un dito. L’ennesimo fatto acclarato, di quelli che non diventano mai notizia “per lo scarso interesse dei media” nonostante la campagna non-stop degli attivisti dei Diritti umani. Un problema ignorato dalla grande politica della cancelliera Angela Merkel, ma anche dalla maggioranza silenziosa, bianca, cattolica e protestante, che fatica a schierarsi apertamente con il movimento che oggi scandisce “Black Lives Matters” ad Alexanderplatz come di fronte all’ambasciata Usa. Un buco nero, i cui contorni sono ben descritti da Biplab Basu, 68 anni, dell’associazione Reach Out, iniziatore della “Campagna contro la violenza razzista della polizia” che ha contato i 138 “morti in custodia” dal 1993 al 2020. “Le statistiche ufficiali non esistono, in realtà siamo convinti che le vittime siano molte di più ma non possiamo controllare perché si tratta di situazioni in cui le persone sono alla mercé dei funzionari statali, come ad esempio nei veicoli o nelle stazioni di polizia e nei centri per rifugiati. Ciò che succede qui rimane a porte chiuse”. Ed è difficile denunciare visto che “la maggior parte dei tedeschi crede ancora alla narrazione della polizia “amica” ed è convinta che se gli agenti hanno premuto il grilletto ci deve essere stato un valido motivo. Finché non ci allontaneremo da questa idea non ci potranno mai essere indagini approfondite sulla violenza degli agenti” conclude Basu. Croazia. Torture e umiliazioni contro richiedenti asilo: polizia sotto accusa di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 giugno 2020 Amnesty International ha denunciato che alla fine di maggio un gruppo di migranti e richiedenti asilo è stato torturato dagli agenti della polizia di frontiera croata e sottoposto poi a vari atti di derisione e umiliazione. L’organizzazione per i diritti umani ha raccolto le testimonianze di sei dei 16 richiedenti asilo di origini pachistane e afgane, fermati dalla polizia croata nella notte tra il 26 e il 27 maggio nella zona del parco nazionale dei laghi di Plitvice. Una decina di agenti in uniforme nera e passamontagna identici a quelli indossati dalla polizia speciale croata ha inizialmente sparato in aria. Poi gli agenti hanno attaccato gli uomini scalciandoli e colpendoli coi manganelli e coi calci delle pistole. Infine hanno spalmato ketchup, maionese e zucchero, trovati in uno degli zaini, sulle teste sanguinanti, sui capelli, sulle mani e sui pantaloni dei feriti. Alla fine di queste crudeltà, il gruppo di richiedenti asilo è stato spedito a piedi verso la frontiera con la Bosnia. Chi non riusciva a camminare autonomamente è stato assistito dagli altri. Amnesty International ha parlato anche con le organizzazioni di volontariato che hanno soccorso i feriti, 10 in tutto, e con i medici che li hanno curati. Ecco la testimonianza di Amir, proveniente dal Pakistan, che ha riportato una frattura al braccio e il naso rotto, punti di sutura sulla nuca e vistose contusioni su tutto il volto e alle braccia: “Li supplicavamo di smettere e di avere pietà. Eravamo già legati, impossibilitati a muoverci e umiliati, non c’era motivo di continuare a picchiarci e torturarci. Ci facevano foto con i loro telefonini e cantavano e ridevano”. E quella di Tariq, che adesso ha entrambe le braccia e una gamba ingessati, vistosi tagli, ecchimosi al volto e alla testa e un forte dolore all’addome. Adesso deve utilizzare una sedia a rotelle e ci vorranno mesi prima che possa riprendere a muoversi autonomamente: “Quando ci hanno preso non ci hanno dato la possibilità di dire assolutamente nulla. Hanno iniziato semplicemente a colpirci. Mentre ero a terra, mi hanno colpito alla testa con la parte posteriore della pistola e ho iniziato a perdere sangue. Cercavo di proteggermi la testa dai colpi, ma hanno iniziato a darmi calci e colpirmi alle braccia con dei bastoni di metallo. Per tutta la notte ho perso e ripreso conoscenza”. Negli ultimi tre anni la polizia croata di frontiera è stata accusata di aver aggredito uomini, donne e adolescenti che cercano di entrare nel paese, distruggendone gli effetti personali e i telefoni prima di respingerli in Bosnia. A volte, alle persone vengono tolti abiti e scarpe e sono costrette a camminare per ore nella neve e in fiumi ghiacciati. I respingimenti violenti alle frontiere croate avvengono con regolarità dalla fine del 2017. Il Consiglio danese per i rifugiati ha registrato quasi 7000 casi di espulsioni forzate e rinvii illegittimi in Bosnia ed Erzegovina nel 2019, la maggior parte dei quali è stata accompagnata da violenze e intimidazioni ad opera della polizia croata. Solo nell’aprile di quest’anno i respingimenti sono stati 1600. A metà maggio, il Guardian aveva dato la notizia di un gruppo di uomini costretti ad attraversare la frontiera croata dopo essere stati picchiati e con una croce arancione dipinta sulla testa. Anche in quest’ultimo caso, le autorità di Zagabria hanno affermato di non saperne nulla, di non poter ritenere i propri uomini capaci di comportamenti del genere e che comunque verrà aperta un’inchiesta. L’Unione europea, nel frattempo, resta a guardare. Coronavirus e povertà la doppia crisi fa esplodere il Libano di Francesca Caferri La Repubblica, 14 giugno 2020 La paralisi generata dal Covid19 porta sull’orlo dell’abisso il già fragilissimo Libano. Per il terzo giorno di seguito ieri migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro la crisi economica e l’inazione del governo: lo stallo si protrae da mesi ma è stato esacerbato dal lockdown e dal conseguente blocco di tutte le attività. Mentre venerdì le manifestazioni erano state violente, con incendi nelle strade, banche prese d’assalto e numerosi scontri fra polizia e manifestanti, ieri la protesta è stata per lo più pacifica: ma non per questo meno pericolosa per il futuro di questo Paese che, a detta degli analisti, sta vivendo la crisi peggiore dalla fine della guerra civile nel 1990. A monte della rabbia, c’è la drammatica situazione economica, esemplificata dal declino della valuta locale: la lira libanese, che per due decenni è rimasta ancorata al dollaro con un cambio fissato a 1.500 lire per biglietto verde, ha perso il 70% del valore in pochi mesi, con un’accelerazione rapidissima negli ultimi giorni. Venerdì il cambio era arrivato a 6000 lire per dollaro: ieri il discorso con cui il primo ministro Hassan Diab ha cercato di calmare la folla lo ha riportato intorno a 4000, ma questo non basta a un Paese in cui la metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà, una persona su tre è disoccupata e anche chi lavora - essendo pagato in valuta locale - ha visto il suo tenore di vita precipitare in pochi mesi. “No al governo della spartizione, sì a un governo a interim con poteri eccezionali”, si leggeva sugli appelli alla mobilitazione lanciati nei giorni scorsi sui social network: ma al di là della frustrazione per la situazione e per la paralisi del governo è difficile anche i manifestanti individuare chi possa portare il Libano fuori dalla crisi. Venerdì in piazza si sono viste bruciare le immagini di Hassan Nasrallah, leader degli sciiti di Hezbollah, che sostengono Diab: nei mesi scorsi la stessa fine avevano fatto quelle di Saad Hariri, sunnita, che guidava il precedente esecutivo. “Gli eventi di ottobre e i mesi che ne sono seguiti hanno inferto un colpo durissimo alla legittimità già minima delle elites politiche libanesi - scriveva nei giorni scorsi in un report l’Intemational Crisis Group - non hanno colto la profondità della crisi che in modo tardivo, pensando di poter cavalcare la tempesta con discorsi retorici e promettendo riforme. I partiti libanesi sono così concentrati sul tentativo di mantenere fette di potere che non sono stati in grado di vedere che le fondamenta del potere politico stavano precipitando. Anche se i segni della crisi erano evidenti ben prima di ottobre, hanno impiegato sei mesi dopo l’inizio delle proteste per dar vita a un piano che traghetti il Libano fuori dalla calamità”. Un piano che dovrebbe passare per un prestito del Fondo monetario internazionale ma che resta lontano dal diventare realtà. Così lontano che dietro le quinte le agenzie Onu stanno preparando piani di emergenza per sfamare i libanesi e il milione e mezzo di profughi siriani da anni in Libano. A complicare il quadro c’è poi proprio la Siria: venerdì a Tripoli i manifestanti hanno bloccato camion di aiuti per Paese in guerra al grido di “i libanesi ne hanno più bisogno”.