La follia di una legge senza grazia e perdono di Andrea Pugiotto Il Riformista, 13 giugno 2020 C’è la logica evangelica alla base degli atti di clemenza, quella della parabola del figliol prodigo. Ma la clemenza legislativa ha smarrito da tempo questa sua origine. E il Parlamento l’ha resa impraticabile per rispondere alla sete di giustizialismo. 1. Riformare una Costituzione per sua natura destinata a durare nel tempo è impresa difficile quanto scriverne una nuova: ciò rende le sue modifiche strutturali evento raro, spesso destinato al fallimento (citofonare Berlusconi e Renzi). Più utile è porre mano a singole disposizioni, se incoerenti con l’ordito costituzionale. Tale è il suo art. 79 che disciplina l’approvazione di amnistia e indulto, già oggetto di sciagurata revisione nel 1992. Un caso esemplare di riforma sbagliata da riformare di nuovo. 2. L’attuale art. 79 richiede per una legge di clemenza la “maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale”. E un mostruoso procedimento rafforzato. Le sue soglie superano quelle richieste per leggi costituzionali, così da risultare più agevole modificarne l’art. 79 che approvare un’amnistia o un indulto. Sono quorum che regalano, gratis, paralizzanti veti incrociati: basta che un terzo dei votanti si sfili o minacci di farlo, e il ricatto avrà successo. Risultato? A parte l’indulto del 2006, da trent’anni l’Italia non conosce provvedimenti di clemenza È un copione andato in scena anche in pieno lockdown. Per disinnescare in tempo la bomba epidemiologica di carceri sovraffollati, serviva un calibrato indulto. Non lo si è preso neppure in considerazione (preferendo scaricare oneri e responsabilità sulla magistratura di sorveglianza). Invocarlo, peraltro, sarebbe stato tecnicamente vano: la maggioranza dolomitica necessaria, calcolandosi sugli aventi diritto al voto, era preclusa in partenza per ragioni sanitarie, prima ancora che politiche, in un Parlamento che ha scelto di lavorare a ranghi ridotti. 3. Amnistia e indulto, dunque, non si possono né si debbono concedere. Eppure rientrano tra gli stormenti di politica criminale che la Costituzione repubblicana mette a disposizione del legislatore. Perché, allora, questo tabù? Contro di essi pesano radicate riserve ideologiche, cioè pregiudizi. Nell’ordine il loro abuso in passato, quando tra il 1953 e il 1990 vennero approvati - in media - ogni triennio. L’essere una cura palliativa per problemi strutturali, destinati a riproporsi. L’enfasi sulla paura collettiva per la messa in libertà di detenuti (che non hanno finito di scontare la pena) e di imputati (che l’hanno fatta franca). La retorica della vittimizzazione secondaria di chi ha subito il reato. La preoccupazione di non mostrare uno Stato debole, preferendolo tutto chiacchiere e distintivo. Soprattutto, essere contrari a un atto di clemenza è molto popolare, assicura facile consenso e garantisce dividendi elettorali. Scritta in piena Tangentopoli da un Parlamento assediato dal risentimento popolare, la formulazione ostativa dell’art. 79 fu (anche) una risposta a tali pulsioni giustizialiste. Qui, però, demagogia e intransigenza fanno a pugni con il ripristino della legalità. Quando costringe gli imputati in un limbo processuale infinito, e i condannati in carceri inumani o degradanti, lo Stato viola la sua stessa Costituzione e i suoi obblighi internazionali in materia di diritti umani. A ciò deve porre obbligatoriamente riparo, e presto, esercitando tutte le sue prerogative. Tra queste, la Costituzione annovera anche la clemenza quale strumento di deflazione giudiziaria e carceraria. Il vero problema, allora, è come restituirle agibilità politica e parlamentare. Il che ripropone la necessità di mettere nuovamente mano al suo art. 79. Ci prova ora il disegno di legge costituzionale n. 2456, presentato alla Camera il 2 aprile scorso, per iniziativa di quattro spiriti liberi: i deputati Magi +Europa), Giachetti e Migliore (Iv), Bruno Bossio (Pd). La premessa da cui muove la riforma è che amnistia e indulta rientrino nell’orizzonte costituzionale di un diritto punitivo rieducativo e mai contrario al senso di umanità. Le leggi di clemenza, infatti, agiscono sempre sulla punibilità, estinguendola: dunque, partecipano della duplice finalità cui la pena deve sempre guardare, da quando nasce “fino a quando in concreto si estingue” (come insegna la Corte costituzionale). Come contenerle entro questo perimetro? Condizionandone l’approvazione a “situazioni straordinarie” o “ragioni eccezionali”. Le prime rimandano a eventi imprevedibili, le seconde a valutazioni collegate all’indirizzo di politica criminale della maggioranza parlamentare. In presenza dell’uno o dell’altro presupposto, debitamente motivato nel preambolo della legge, le Camere approvano l’atto di clemenza secondo l’iter legislativo ordinario, garanzia di massima pubblicità della loro deliberazione. Sulla coerenza tra presupposti motivati in preambolo, contenuto normativo e finalità costituzionalmente orientata, diventa così possibile un duplice controllo di legalità per linee interne alla legge: a monte, da parte del Quirinale in sede di promulgazione: a valle, da parte della Corte costituzionale. Controlli oggi solo teoricamente possibili, ma mai efficacemente esercitabili. Entro questa cornice, si ipotizza un abbassamento ragionevole dell’attuale quorum deliberativo alla “maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera nella [sola] votazione finale”. 4. Ci sono ottimi motivi per sostenere il cammino parlamentare di una simile riforma. Dei tanti che si possono squadernare, ne illustro solo alcuni. Il primo è il disvelamento dell’ipocrisia che l’attuale art. 79 cela: la sua rigidità normativa, infatti, è solo apparentemente virtuosa. In realtà, fu il prezzo pagato all’approvazione della legge di amnistia e indulto del 1990, che estingueva reati riguardanti (anche) comportamenti politici e di partito: quel parlamento, “vergognandosene un po’, se ne assolse firmando un impegno a non farlo più in futuro” (Adriano Sofri). Questo è il contesto rimosso della revisione costituzionale intervenuta nel 1992. Un falso movimento che va invece denunciato, perché da cattive coscienze nascono solo cattive regole che impediscono buone pratiche. Al contrario, la proposta di legge n. 2456 trasforma l’art. 79 da norma sterile, perché interamente difensiva, a norma feconda, perché capace di modellare amnistia e indulto in strumenti di buon governo. 5. Farisaica è anche la granitica contrarietà a leggi di clemenza. È facile dimostrarlo. Quelle misure che - anche nell’attuale legislatura - prendono il nome di rottamazione delle cartelle esattoriali, voluntary disclosure, pace fiscale, saldo e stralcio, altro non sono che condoni fiscali, cioè sospensione per il passato della legge penale, dunque strumenti di impunità retroattiva. Ogni condono altro non è che un atto di clemenza atipica, una “oscena amnistia”, per la concessione della quale però ci si serve della legge ordinaria (approvata a maggioranza semplice) senza temere né il dissenso della pubblica opinione, né la crisi di governo, né la vergogna che pure dovrebbe accompagnare l’ipocrisia di chi, a parole, è incondizionatamente contrario ad atti di clemenza La proposta di legge n. 2456 ha anche il merito di squarciare il velo che copre questa doppia morale. 6. Altra ragione a suo favore è nel valorizzare la natura emancipante degli strumenti di clemenza, rispetto alla consueta rappresentazione patibolare del diritto punitivo. Un diritto penale esclusivamente retributivo e vendicativo, applicato in modo meccanico e impersonale, mostra un’arcaica origine veterotestamentaria La logica degli atti di clemenza è invece quella evangelica, spiegata da Luca con la parabola del figliol prodigo: celebrando l’evento del figlio ritrovato, il padre spezza “l’imperialismo folle di una Legge che non conosce né eccezioni, né grazia, né perdono”, consapevole che “la Legge è fatta per gli uomini”, mai viceversa (il copyright è di Massimo Recalcati). Vale in psicanalisi, vale nel diritto. La clemenza legislativa ha smarrito da tempo questa sua autentica matrice. Condannata come rifugio del potere arbitrario, oggi è disprezzata dalla doxa dominante, per la quale l’indulto è un insulto e l’amnistia un’amnesia. La clemenza è stata uccisa dalla sua storia, passata e presente: abusata allora, cancellata ora. Questo circolo vizioso è finalmente spezzato dalla proposta di legge n. 2456, capace di sottrarre amnistia e indulto alla falsa alternativa tra bulimia e anoressia (perché, entrambi, sono comportamenti patologici). 7. È una facile previsione: l’iniziativa legislativa in esame sarà accusata di colpire a morte la certezza della pena. Ma chi pensa questo ha una mente che mente. La certezza della pena, oggi, è (fra)intesa come indefettibilità della detenzione in carcere, fino all’ultimo giorno: perché, per i più, pena vuol dire sanzione ma, prima ancora, sofferenza. Nasce da qui lo stigma verso leggi di clemenza, accusate di inaccettabile perdonismo. Tutto verosimile, ma non vero. Perché non è questo il modo in cui la Costituzione intende la certezza della pena Costituzionalmente, la pena è cena quando è predeterminata dalla legge a evitare che sia il frutto, ex post, dell’arbitrio del potente. Adoperarla come dava contro una riforma dell’art. 79 che rende praticabili leggi di clemenza significa essere ignoranti, nel senso etimologico di chi non sa ciò di cui pure parla Significa aver letto non la Costituzione, ma gli editoriali del Fatto Quotidiano, confondendo questi con quella. 8. Da ultimo, riformare di nuovo l’art. 79 restituirà potere e responsabilità a un Parlamento sempre più a bordo vasca, marginalizzato dal governo e dai suoi comitati tecnico-scientifici. Su questo obiettivo possono convergere trasversalmente deputati e senatori che conservino ancora coscienza del proprio molo, rivendicandolo orgogliosamente. Torneranno, poi, a dividersi sul se, quando e come deliberare una legge di clemenza. Ma, prima, andrà revocata quella cessione unilaterale di sovranità fatta nel 1992, che molto assomiglia ad una resa indecorosa alle piazze popolate da cappi, gogne e tricoteuses. Csm e scarcerazioni. “Dl Bonafede: troppo carico sui giudici” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2020 Arrivano critiche dal Csm al decreto anti-scarcerazioni dei mafiosi, per rischio Covid, voluto dal ministro Bonafede. La Sesta commissione ha redatto un parere, in plenum mercoledì per il voto, in cui si dice che “Il sistema di rivalutazioni” delle scarcerazioni “per la serrata tempistica con la quale essi devono intervenire (entro 15 giorni, ndr) e per la complessità degli accertamenti da svolgere periodicamente (ogni mese, ndr) determinerà un notevole aggravio del lavoro della magistratura di sorveglianza”. Quindi, la Sesta fa proprie le conclusioni della Commissione mista sui problemi della Sorveglianza la quale ha osservato “come la magistratura di sorveglianza, dapprima investita del compito di risolvere il cronico problema del sovraffollamento delle carceri, con il dl che le ha offerto ridotti strumenti/argomenti per valutare i presupposti dell’applicazione di misure alternative (in tempo di Covid, fino al 30 giugno, ndr) venga ora investita del compito di offrire una supplenza rispetto al problema del reperimento di strutture interne al circuito penitenziario”. A dire il vero il decreto legge dà il potere al Dap di indicare ai giudici strutture sanitarie del circuito carcerario disponibili. Cosa che sta facendo, come nel caso del boss Bonura e tanti altri, a cui sono stati così revocati i domiciliari. La dirigente del Dap: “Avvertii i miei superiori su quella Circolare del 21 marzo” di Marco Lillo e Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2020 “Rischiavano di uscire detenuti pericolosi”. Continua l’indagine della Commissione antimafia sulle scarcerazioni durante l’emergenza coronavirus. Palazzo San Macuto vuole capire come è nata quella nota del Dap e se ha avuto come fine proprio la concessione dei domiciliari ai detenuti pericolosi. Caterina Malagoli, direttrice dell’ufficio Alta Sicurezza del Dap: “Non fui informata, ne sono venuta a conoscenza in modo casuale ma dissi subito ai miei superiori che quel documento avrebbe creato grossi problemi, molte polemiche. Romano mi rispose che aveva documentato tutto ed era stata condivisa”. Romano è il dg Trattamento detenuti del Dap e sta emergendo come il protagonista di questa storia. La mail al medico: “Sto spiegando al Ministero l’importanza di una norma che faciliti la detenzione domiciliare”. La direttrice dell’ufficio Alta Sicurezza, cioè quello che si occupa dei detenuti più pericolosi, non venne consultata prima che la Direzione generale detenuti del Dap inviasse ai penitenziari l’ormai nota circolare del 21 marzo scorso. Fu firmata di sabato dalla funzionaria di turno, Assunta Borzacchiello, per il Direttore Trattamento, Giulio Romano, in quel momento in telelavoro da casa. “Ne sono venuta a conoscenza solo dopo che era stata emanata. E anche in modo casuale, nel senso che non mi è stata notificata”, ha raccontato la dottoressa Caterina Malagoli, per anni pm a Palermo e dal 2018 al Dap, durante la sua audizione davanti alla commissione Antimafia. L’organo guidato da Nicola Morra sta continuando la sua indagine sulle 223 scarcerazioni concesse a detenuti appartenenti a organizzazioni criminali come Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, durante l’emergenza coronavirus. È questo, infatti, il numero esatto dei carcerati in regime di Alta sicurezza e 41bis che hanno ottenuto i domiciliari, come hanno detto alla Commissione prima il ministro Bonafede e ieri la stessa Malagoli, e non dunque quello più che doppio divulgato all’inizio. “Sfollare le carceri” - Numeri a parte, Palazzo San Macuto vuole capire come è nata quella nota del Dap e se ha avuto come fine proprio la concessione dei domiciliari ai detenuti. “Giulio Romano - ha raccontato Malagoli - mi disse che quella nota era stata redatta proprio per il problema del contagio del Covid e per sfollare gli istituti penitenziari. Che era un’esigenza anche del comitato della salute penitenziaria che consigliava di promuovere e favorire in tempi brevi delle linee guida per sfollare le carceri”. Malagoli in sostanza conferma quanto aveva già fatto intendere il dottor Giulio Starnini, il dirigente dell’Unità Medicina Protetta dell’ospedale Belcolle (Viterbo) sentito mercoledì scorso. La nota del sabato 21 marzo non era stata pensata per effettuare un mero monitoraggio dei detenuti a rischio Covid-19 ma per propiziare quell’effetto sfolla-carceri che avrebbe coinvolto anche carcerati più pericolosi, come spiegarono al fattoquotidiano.it alcune fonti interne all’ambiente penitenziario in quei giorni. Cosa che poi è effettivamente successa in seguito alla circolare per effetto dei provvedimenti autonomi dei magistrati. Chi è il dottor Giulio Romano - Giulio Romano emerge sempre più come il protagonista di questa storia. Magistrato di grande esperienza, già membro del Csm nella consiliatura 2006-2010, ricordato come estensore della sentenza di condanna disciplinare contro l’allora pm Luigi De Magistris e per essere l’unico membro togato ad essersi astenuto quando il Csm ha votato contro la riforma-bavaglio delle intercettazioni di Angelino Alfano nel 2009. A sorpresa Romano, nell’era del Governo Pd-M5s, con Alfonso Bonafede ministro della Giustizia e Francesco Basentini a capo del Dap, è divenuto il direttore generale dell’ufficio Detenuti. Il Cura Italia escludeva mafiosi - Romano edita materialmente la circolare sul suo computer e la invia poi per la firma materiale ad Assunta Borzacchiello, capa del Cerimoniale: è lei la sola dirigente di turno in ufficio il 21 marzo, sabato appunto. Il dettaglio non è secondario: come vedremo, infatti, quella nota viene concepita, preparata e diffusa nel week end di lockdown. Grazie alle audizioni della Commissione Antimafia si comincia a capire meglio come sono andate le cose. Tutto inizia solo 24 ore dopo che il governo ha già varato alcune norme per alleggerire la pressione nelle carceri. Il 17 marzo con il decreto Cura Italia, infatti, l’esecutivo incentiva la concessione dei domiciliari ai detenuti per reati minori e con meno di 18 mesi ancora da scontare. Quelle norme - secondo i dati del ministero della Giustizia - liberano le carceri sovraffollate di circa 6mila detenuti. Gli altri, quelli con pene più pesanti e considerati pericolosi, sono stati volutamente esclusi da quei benefici dal guardasigilli Alfonso Bonafede. Più di 200 detenuti in carcere per reati della categoria più grave, però, riusciranno comunque a tornare a casa, seppure molti di essi solo per un paio di mesi. L’indagine dell’Antimafia - Da qui cominciano una serie di interrogativi che la commissione Antimafia sta ponendo durante le sue audizioni. Perché quella circolare viene diffusa durante il fine settimana? Che urgenza c’era visto che per limitare il contagio nei penitenziari l’esecutivo si era già mosso quattro giorni prima? Il Dap ha sempre smentito che quella nota avesse a che vedere con le scarcerazioni dei mafiosi ordinate dai tribunali di Sorveglianza. Già il 21 di aprile l’amministrazione penitenziaria diffonde un comunicato stampa in cui quel documento viene definita come un semplice “monitoraggio”. Il ministro Bonafede alla Camera il 7 maggio disse tra gli applausi dei M5S: “La Costituzione non lascia spazio a ipotesi in cui la circolare di un direttore generale di un dipartimento di un Ministero possa dettare la decisione di un magistrato. Le scarcerazioni richiamate sono decisioni giurisdizionali di natura discrezionale impugnabili (…) La citata circolare del 21 marzo 2020 si limitava a prevedere la trasmissione all’autorità giudiziaria - da parte delle direzioni - dei nominativi dei detenuti che si trovassero in particolari condizioni di salute; nient’altro”. E in effetti è quello che c’è scritto nella circolare. Mercoledì scorso, però, la Commissione Antimafia ha acquisito un carteggio che dimostra come invece l’intento del direttore generale Detenuti Romano era proprio favorire la detenzione domiciliare dei detenuti esclusi dal primo decreto, il Cura Italia, evidentemente considerato riduttivo. La mail: “Facilitare detenzione domiciliari detenuti” - Il giorno dopo l’emanazione del decreto Cura Italia che prevedeva all’articolo 123 la detenzione domiciliare per chi doveva scontare meno di un anno e mezzo di pena salvo i soggetti pericolosi indicati, Romano si muove al ministero di Giustizia per allargare anche ai detenuti esclusi la possibilità di andare a casa. Lo si scopre leggendo le mail tra Romano e il dottor Starnini. Alle 8 e 39 di mattina del 18 marzo, Romano scrive al dottore del Dap: “Dottore per cortesia giorni fa mi ha inviato per le vie brevi un elenco di malattie in ragione delle quali i detenuti sono particolarmente esposti a rischi in caso di contagio Covid, sto spiegando al Ministero l’importanza di una norma che faciliti la detenzione domiciliare per detta categoria di detenuti. Tuttavia vogliono, per approfondire il tema, qualcosa di più formale ed ufficiale. Potrebbe inviarmi una nota ad hoc in cui si elencano in modo formale/ufficiale le dette patologie? Grazie e scusi”. Starnini il 19 marzo risponde con una mail ufficiale: “Si chiede di valutare l’opportunità dell’applicazione di misure alternative alla detenzione per i soggetti affetti dalle seguenti patologie…”. Segue un elenco di patologie gravi come l’Hiv o il diabete scompensato o l’insufficienza renale ma in coda c’è anche una condizione che non è una patologia: “Soggetti di età superiore ai 70 anni”. Il dettaglio: liberi gli over 70 - Mercoledì durante l’audizione in Commissione Antimafia l’ex presidente del Senato ed ex procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso ha incalzato Starnini sul punto: “Lei quando inserisce il termine di 70 anni sa che non c’è un detenuto comune sopra i settanta anni. Solo i detenuti pericolosi stanno in carcere sopra i settanta anni e secondo il Cura Italia non dovevano uscire. Il Governo si era posto il problema e li aveva esclusi. Chi le ha chiesto di dare quegli elementi (…) non dico per finalità di altro genere ma per diminuire la presenza in carcere?”. E Starnini ha risposto che era stato il direttore generale Romano. “Io il limite d’età l’ho contestato subito - ha detto ieri la dottoressa Malagoli - Io conosco chi sono i detenuti, ho i numeri. Al 41bis, soprattutto tra i siciliani di Cosa nostra, la maggior parte è gente ultrasettantenne”. Le “interlocuzioni col ministero” - Leggendo con attenzione le mail del 18 marzo e 19 marzo è chiaro l’intento perseguito da Romano con la cooperazione di Starnini: “Una norma che faciliti la detenzione domiciliare” ovvero “l’applicazione di misure alternative alla detenzione”. Inoltre dalla mail del 18 marzo è chiaro che il magistrato chiede al medico la lista delle patologie (e dell’età) suddetta per ottenere dal ‘ministero’ una norma di legge che favorisse la detenzione domiciliare dei detenuti esclusi dall’articolo 123 del decreto 17 marzo, appena entrato in vigore. Nella mail Romano non spiega a Starnini chi fosse l’interlocutore del ‘ministero’ a cui doveva spiegare l’utilità della scarcerazione dei detenuti per reati gravi. Il dottor Starnini ha spiegato a Morra che non si era permesso di chiederlo al direttore generale. Il presidente della Commissione ha annunciato l’intenzione di porre quella domanda a Romano quando sarà audito a San Macuto. Una cosa è certa: a chiunque fosse riferita l’interlocuzione con il ministero, il direttore Romano non ottenne la norma che voleva. Mentre quell’elenco di patologie stilato da Starnini finirà citato in apertura della circolare inviata dal Dap ai penitenziari. Anzi, forse proprio per lo stop del ministero a una nuova norma Romano scrisse la nota-circolare del 21 marzo. Non quindi per realizzare un neutro ‘monitoraggio’ dei detenuti a rischio ma proprio per realizzare lo scopo iniziale cioè la detenzione domiciliare, preclusa per via normativa e per questo perseguita per la via amministrativa. Ora, sempre grazie alle audizioni della Commissione Antimafia, si scopre che Romano non celava agli uffici questo suo intendimento. L’accusa della dirigente: “Quella circolare era pericolosa” - Già a marzo Caterina Malagoli, ex procuratrice antimafia prima a Palermo e poi in Dna, dal 2018 al ministero e da febbraio 2019 dirigente dell’Ufficio V Alta Sicurezza del Dap, aveva avvertito i suoi superiori del rischio rappresentato da quella circolare (che però tecnicamente è una nota). I suoi superiori sono il direttore generale Romano e l’ex capo del Dap, Francesco Basentini, che si è dimesso l’1 maggio scorso proprio a causa delle polemiche provocate dalle scarcerazioni. “Io non ho condiviso, ne ho avuto conoscenza casualmente dopo la sua emanazione, sono rimasta stupita e ho comunicato le mie perplessità: il proposito era buono ma per me bisognava fare dei distinguo sui detenuti in alta sicurezza, dissi che rischiavano di uscire persone pericolose per questa cosa. Ma Romano riteneva non sarebbe accaduto perché c’è un magistrato di sorveglianza che valuta la pericolosità del soggetto. Lui riteneva che non ci fosse il pericolo, per me invece sì. Romano disse che l’avevano valutata. Ne parlava in senso positivo per deflazionare il carcere, per il problema di affollamento e i rischi del contagio. A Basentini ho mostrato la stessa critica: gli dissi che la circolare era pericolosa”, è l’atto d’accusa di Malagoli. Insomma la direttrice dell’ufficio Alta sicurezza, cioè l’ufficio che ha competenza su 10mila detenuti per reati gravi, in testa gli ex detenuti all’isolamento del 41bis e poi la criminalità organizzata e i terroristi nonché i collaboratori di giustizia, racconta di aver avvertito per tempo i suoi superiori, prima che venisse concesso di lasciare il carcere a boss del livello di Francesco Bonura, Vincenzo Iannazzo e Pasquale Zagaria. L’ex pm di Palermo sostiene di essersi lamentata più volte col dg Romano: “Io ho chiesto anche di revocarla perché poi ci fu quella che io chiamo la tragedia, ossia l’uscita dal carcere di alcuni soggetti. Se l’avessero condivisa con me io avrei suggerito degli accorgimenti per evitare l’applicazione a detenuti pericolosi. Quando feci questo appunto, Romano disse che la vita e il diritto alla salute vale per tutti i detenuti, e secondo lui non si poteva distinguere tra detenuti di serie A e B. Io, però, dissi che in ogni caso questa circolare, secondo me, avrebbe creato grossi problemi, molte polemiche. Romano mi rispose che aveva documentato tutto ed era stata condivisa”. Condivisa con chi? “Mi disse - continua la dirigente del Dap - che c’era stata una videoconferenza il venerdì e si era deciso che la circolare andava bene”. Malagoli ignora i riferimenti con i quali Romano ha condiviso la stesura della nota, ma ne critica modi e tempi di diffusione. “Ho contestato l’urgenza di fare quella circolare in poco tempo e Romano mi ha detto che era da un po’ che ne discutevano, poi si sono convinti. Non conosco gli altri soggetti con cui ne parlava, sicuramente Basentini ma non conosco gli altri”. Sarà Giulio Romano in persona a riferire i nomi dei suoi interlocutori durante l’audizione a San Macuto prevista per la prossima settimana. Il contesto, le rivolte, la denuncia dei Radicali - Il presidente della Commissione Nicola Morra sembra molto interessato a capire perché Giulio Romano si è mosso per ampliare la platea dei detenuti scarcerati ai domiciliari dopo il Decreto Cura-Italia. “Se il giorno prima è stata emanata una norma, io qui leggo il tentativo per altra via, forse amministrativa, di far ciò che il legislatore non aveva concesso”, ha commentato durante l’audizione di Malagoli il presidente di San Macuto. Il clima in quei giorni era rovente. Dopo le rivolte dell’7-9 marzo e dopo il decreto del 17 marzo che svuotava le carceri dei detenuti a fine pena, infatti, il 19 marzo i Radicali avevano presentato una denuncia in tutte le Procure italiane contro il ministro Bonafede e il direttore del Dap Basentini per procurata epidemia colposa mediante omissione. Forse il Dap in quella fase critica potrebbe avere temuto conseguenze, non solo giudiziarie ma anche di ordine pubblico, in caso di un aumento dei contagi e delle morti tra i detenuti. Le dimissioni congelate di Romano - Durante la sua audizione Romano sarà probabilmente interpellato su un altro passaggio: il suo incarico al Dap. Il magistrato, infatti, si è dimesso il 23 maggio scorso e il Csm ha già approvato il suo rientro in ruolo. Al momento però è ancora al suo posto nell’ufficio di direttore generale detenuti al Dap. “Romano - ha spiegato Malagoli - è ancora in servizio, ha dato le dimissioni ma credo che sia autorizzato a restare fino a fine giugno. Io credo che il dottore Romano - ha chiosato Malagoli - non voglia lasciare l’ufficio abbandonato in questo momento drammatico e gli abbiano accordato di rimanere finché non verrà sostituito”. Giustizia e politica, il nodo irrisolto di Claudio Tito La Repubblica, 13 giugno 2020 Vedere entrare e uscire dei magistrati dagli uffici della presidenza del Consiglio non è mai una bella scena. E purtroppo il nostro Paese è stato abituato negli ultimi venti anni ad assistere non raramente a queste procedure. Ma la domanda che ogni volta bisogna porsi è molto semplice: perché accade? Siamo in presenza di un mal funzionamento delle Istituzioni? Di uno squilibrio? Di un dialogo improprio? Il compito delle procure, e della magistratura nel suo complesso, è quello di accertare l’esistenza o meno di illeciti. Tutte le azioni e i comportamenti volti in questa direzione non possono che rientrare nella fisiologia di uno Stato di diritto. Le indagini non possono prevedere campi extra-penali. Non esiste un terreno di immunità odi impunità a favore di qualcuno. Anche perché, come si è potuto constatare negli ultimi 25 anni di vita repubblicana, purtroppo le illegalità hanno riguardato anche chi occupava altissimi ruoli di responsabilità politica. I pm, ad esempio, hanno varcato il portone di Palazzo Chigi già nel 2002 e nel 2011 per sentire, sempre come testimone, l’allora capo del governo Silvio Berlusconi. La legittimità dell’inchiesta sulla mancata istituzione della “zona rossa” nei comuni di Alzano e Nembro è dunque fuori discussione. E del resto, questa volta, il nostro Paese non costituisce una solitaria eccezione. Anche in Francia è stata avviata una inchiesta analoga. Che tocca direttamente il governo francese. Non il presidente della Repubblica Macron che gode invece di una immunità piena. La “visita” a Roma dei pubblici ministeri di Bergamo fa però emergere un altro aspetto. Una caratteristica tutta italiana. La costante debolezza della politica. La permanente inconsistenza delle leadership. Incapaci di spiegare all’opinione pubblica, o meglio di persuaderla delle scelte compiute persino in occasione della più grave emergenza dalla fine della Seconda Guerra mondiale. Si tratta, peraltro, di una fragilità che viene da lontano. La classe dirigente di questo Paese troppo spesso ha mostrato le sue lacune e le sue immoralità. Ha prodotto un vuoto, materiale e di consenso. E quel vuoto è stato spesso riempito e sostituito da altri poteri. A volte dalla finanza e dall’economia. Molte altre volte dal potere giudiziario. In una sorta di sussidiarietà delle Istituzioni. Un’abitudine che si è consolidata negli anni. Ed anzi è stata rafforzata dal partito che due anni fa ha ottenuto alle elezioni oltre il 30 per cento dei voti e che ora rappresenta il soggetto prevalente nell’esecutivo. Il Movimento 5Stelle ha infatti sistematicamente agito per trattenere la politica nel perimetro ancillare della propaganda e della giustizia sistematica. Anzi, ha trovato legittimazione nell’alimentare l’esigenza di questa supplenza. Salvo poi, come hanno dimostrato alcune delle ultime vicende, ritrovarsi vittima di quella stessa operazione. Il rifiuto di elevare i partiti a elemento coessenziale alla democrazia produce questi risultati. Considerare la parola Movimento come una sorta di passepartout in grado di evitare le debolezze umane della Cosa Pubblica non fa altro che precarizzare l’equilibrio di un sistema. Perché è solo una parola, e non una soluzione. È propaganda e non sostanza. È questo il vero nodo irrisolto che sta riemergendo. Il punto non è se i pm bergamaschi abbiano agito con correttezza - su questo non c’è il minimo dubbio -, è il contesto nel quale si muovono che reclama delle risposte. Perché, nel caso Alzano-Nembro, il confine tra politica e giustizia rischia di essere sottilissimo. È infatti evidente che abbiamo vissuto, e in parte stiamo ancora vivendo, uno stato di eccezione. La pandemia presenta di per sé una connotazione straordinaria. È forzatamente accompagnata da una discrezionalità nella valutazione dei fatti e da una variabilità delle situazioni. Un solo canone non bastava e non basta per trovare una via d’uscita. Perché ogni provvedimento conteneva un fattore fondamentale nel funzionamento di una democrazia: il rapporto tra autorità e libertà. Magistratura, per guarire servono riforme radicali di Gian Carlo Caselli Corriere della Sera, 13 giugno 2020 Il “caso Palamara” ha portato alla luce un vergognoso groviglio di trattative, accordi e baratti per la scelta dei capi degli uffici giudiziari. In crisi sono soprattutto le correnti. L’inchiesta di Perugia sul “caso Palamara” ha squadernato un vergognoso groviglio di trattative, accordi e baratti per la scelta dei capi degli uffici giudiziari. Di qui un crollo di credibilità e affidabilità senza precedenti che ha investito la magistratura tutta (anche la parte incolpevole, che rimane a mio avviso assolutamente preponderante). In crisi da precipizio sono soprattutto le correnti. Nate come veicoli di dibattito e orientamento culturale (pubblico e trasparente), esse hanno svolto una funzione assai utile per incrinare l’estraneità dei giudici rispetto alla società civile e per cercare di introdurre in un corpo tradizionalmente burocratico il rifiuto del conformismo (inteso come gerarchia, logica di carriera, giurisprudenza imposta dall’alto, passività culturale: tutti fattori di subalternità alla politica). Malauguratamente (per di più mentre si intensificavano gli attacchi all’indipendente esercizio della giurisdizione da parte di coloro che il controllo di legalità gli dà l’orticaria), le correnti hanno subito una pessima involuzione: da luogo di confronto fra culture e idee sono diventate - quale più quale meno - cordate di potere per il conferimento clientelare di incarichi e la nomina di dirigenti. Vari fattori, distribuiti nel tempo, hanno contribuito a questa involuzione. Innanzitutto l’abolizione delle Preture con le relative Procure, che ha ridotto di circa la metà il numero dei posti direttivi o semi-direttivi complessivamente a disposizione; riduzione (poi accentuata dall’accorpamento di vari tribunali) che ha spinto molti - per fortuna con rilevanti eccezioni - a considerare l’appartenenza a una corrente come aggancio comodo per sgomitare contro la “concorrenza”. Un ruolo importante ha poi avuto la controriforma dell’ordinamento giudiziario voluta nel 2002 dal ministro ing. Roberto Castelli, con un sistema elettorale del Csm basato su un meccanismo di candidature individuali che invece di ridurre il potere delle correnti lo ha aumentato in misura esponenziale. Ancora: di fatto la legge 150 del 2005 (modificata nel 2007), ha finito per disegnare un nuovo tipo di carriera - gerarchico/arrivista - brodo di coltura di ulteriori appetiti. Va detto inoltre che spazi sconfinati in favore di coloro che amano praticare il suk si sono aperti per il combinato effetto della inadeguatezza del criterio gerontocratico e della difficoltà di ancorare la scelta dei dirigenti ad altri parametri (attitudini e quant’altro) di almeno relativa oggettivazione. Infine, ricordiamo l’eclissi della questione morale che ha colpito il Paese e della quale (più o meno inconsapevolmente) ha risentito anche una parte dei magistrati, posto che essi non vivono di certo in compartimenti stagni. Ora come ora, per guarire c’è bisogno di riforme radicali tanto quanto occorre ossigeno per i malati gravi di Covid-19. Sia per il Csm che per la nomina dei direttivi. Sul primo versante, una buona soluzione potrebbe essere la previsione di un collegio elettorale per ogni distretto di Corte d’appello, con “primarie” prima della vera e propria elezione (imprescindibile per l’articolo 104 della Costituzione). Primarie da effettuarsi in ciascun collegio con la partecipazione, oltre che dei magistrati ordinari, di quelli onorari, di tutto il personale amministrativo e di adeguate rappresentanze dell’avvocatura e dell’università. Lo strapotere delle correnti potrebbe così trovare un freno consistente. Quanto ai direttivi, mi sembra saggia e praticabile la proposta del presidente della Corte d’appello di Brescia Claudio Castelli (Questione giustizia, 9 giugno 2020): “Se si debbono valutare le capacità organizzative ed i risultati ottenuti sul campo”; posto che “il Csm ma neppure i Consigli giudiziari hanno queste competenze, perché la valutazione è una scienza”; ci si potrebbe avvalere di un “Organo consultivo” formato da “tecnici esterni”, in particolare di estrazione universitaria, incaricati di una vera “istruttoria”. Senza mai dimenticare che anche le migliori leggi hanno sempre bisogno di gambe robuste per camminare. Nel caso nostro, le gambe sono un profondo rinnovamento culturale dell’Anm e della magistratura in generale, capace di rigenerare i valori oggi appannati. Flick: “Da ministro proposi riforma giustizia ma fui bloccato dalle correnti” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 13 giugno 2020 Giovanni Maria Flick, giurista di discendenza italo-tedesca e formazione gesuita a Torino, ha fatto il magistrato al tribunale di Roma e insegnato come ordinario Diritto Penale alla Luiss. È stato chiamato da Romano Prodi nel 1996 come Ministro di grazia e giustizia nell’esperienza del primo governo centrosinistra della Seconda repubblica. Una stagione di riforme alle quali darà il suo contributo: a sua firma una serie di pacchetti-leggi, come allora si chiamavano, tra cui l’istituzione di un singolo giudice per i reati di entità minore che prima richiedevano l’impiego di tre magistrati e la chiusura di due penitenziari, non più utilizzabili. È stato il trentaduesimo Presidente della Corte Costituzionale. Ha avuto tre infarti ma sulle grandi scelte di campo del diritto è subito pronto ad alzare la voce. Che anni erano quelli del suo Ministero, per la giustizia, rispetto a oggi? Una esperienza estremamente stimolante nella quale ho però incontrato tante difficoltà. E la prima di queste fu l’atteggiamento non collaborativo da parte delle correnti della magistratura, che fu ostile a tutte le iniziative messe in atto per riorganizzarla. Il mio obiettivo principale era allora quello di non fare piccole riforme, ma riformarla globalmente. Ma le resistenze furono tante. Molte. Ho avuto poi da parte dei magistrati, andandomene, sentori di rimpianto. Ho fatto quel che potevo, per affrontare un tema mai toccato prima come quello della riorganizzazione del sistema giudiziario, cercando di coniugare efficienza e salvaguardia dei valori fondamentali in modo da avere un risultato ragionevolmente soddisfacente. Il Csm dei suoi anni com’era? Avevo un ottimo rapporto con il Csm che era allora presieduto da Capotosti. Quel rapporto ottimo è poi è proseguito quando ci siamo trovati con lui in Corte costituzionale. Che effetto le fa leggere oggi delle intercettazioni? Un gran senso di pena. Perplessità rispetto all’incredibile tonfo che la magistratura ha fatto nella fiducia presso l’opinione pubblica. Magistratura da un lato dilaniata da faide interne tra le correnti e dall’altro quasi sempre sopra le righe, almeno una parte di essa, nel rapporto con la politica e nella gestione del proprio lavoro. Non c’erano le avvisaglie di quello che sarebbe poi successo? Direi di no. Anche se la situazione allora non era molto allegra, la magistratura aveva la sua indipendenza, la sua autonomia, il suo spazio di sovranità. Non che andasse tutto bene, intendiamoci. Ma c’era una cultura della costruzione del sistema che oggi non vedo più. C’era la sensazione che si stesse andando avanti verso il futuro. Oggi non c’è più molto ottimismo. Com’è cambiato il pianeta carcere? La situazione carceri era molto problematica ma c’era l’idea che il carcere andava affrontato nel quadro di un disegno più ampio, in cui era importante il recupero della posizione del detenuto, in ossequio all’art. 27 della Costituzione. Erano state introdotte da non molto le misure alternative e ci si contava molto: non semplicemente per sfollare il carcere ma nella prospettiva del trattamento e della rieducazione del detenuto. Non c’era un sovraffollamento cronico come quello che si sta verificando adesso. Era forse meno difficile la situazione, e non c’era lo strapotere della criminalità organizzata e forse c’era una maggior attenzione dell’opinione pubblica rispetto alle degenerazioni. Attenzione che si è poi allentata. Com’era la gestione del Ministero, degli uffici e del Dap? Io ho cambiato tutti i direttori generali e in particolare, malgrado le difficoltà del clima correntizio, c’era un’aria nuova; sto pensando al futuro presidente della Cassazione, Ernesto Lupo. E sto pensando a Giorgio Lattanzi, futuro presidente della Corte Costituzionale. E sto pensando soprattutto a Sandro Margara, direttore degli affari penitenziari. Perfino i detenuti lo rispettavano. E quando sono stato mandato a casa con il governo Prodi, è stato mandato a casa anche Margara che con grande umiltà è tornato a fare il giudice di sorveglianza a Firenze. Ha dato tantissimo al sistema della giustizia in Italia. Eppure quando è morto, nel congedo da lui, eravamo in quattro gatti. E il Ministero in particolare brillò per assenza. Ci sono servitori dello Stato che finiscono dimenticati. Amnistia e indulto possono essere soluzioni? Personalmente sono convinto che non servano. Sono misure-tampone, non affrontano strutturalmente i problemi ma solo i profili di emergenza. Non è quello il sistema per risolvere il sovraffollamento. Ma questo apre la via a un altro tipo di riflessione: ai miei tempi la pena doveva essere l’extrema ratio. Oggi è la prassi. Mettere in carcere le persone o minacciare di mettercele è diventata la prassi, una regola normale soprattutto nei confronti di certe forme di diversità che danno fastidio alla società: i migranti irregolari e i tossicodipendenti ad esempio. Qui c’è un fatto di civiltà giuridica. E forse anche solo di civiltà e basta. Allora in via Arenula si era cominciato a capire l’importanza di una statistica a spanne nella quale si sottolineava la necessità di tener conto del tasso di recidiva di chi ritorna in carcere: il 70% circa, contro il 30% di chi sconta la pena con gli arresti domiciliari. Esiste oggi una enfatizzazione progressiva che ha portato alle premesse per una sorta di diritto penale del diverso, l’anticamera del diritto penale del nemico. Deformazioni del trattamento particolare, 41bis, norme sul carcere duro, divieto di pene alternative per chi non collabora con le autorità giudiziarie… Problemi sociali molto diversi, ma gestire tutto al medesimo modo mi sembra sbagliato dal punto di vista concettuale. Siamo in una fase in cui si afferma la cultura del sospetto, il non dover aspettare la sentenza… Una fase che mi trova totalmente in disaccordo. Totalmente, alla luce del principio della presunzione costituzionale di non colpevolezza sino alla sentenza definitiva. Temo che alcuni valori costituzionali estremamente importanti ed in equilibro tra loro, vengano sacrificati a favore di altri. Penso ad esempio al rapporto tra salute e sicurezza: si finisce, in un modo o nell’altro, per far prevalere le esigenze della sicurezza a discapito della salute. Vede una deriva nell’uso delle intercettazioni? Nella Costituzione la comunicazione prevede due grandi branche: il diritto di comunicare con tutti e la libertà di manifestare loro il proprio pensiero, e il diritto di comunicare solo con qualcuno (articoli 21 e 15 della Costituzione). Quest’ultimo diritto è stato dimenticato pressoché completamente. Il controllo della comunicazione finisce per essere utilizzato per un pregiudizio, anche per un pregiudizio penale, per una valutazione sulla vita della persona che prescinde dai fatti in indagine. Non è una cosa che si possa condividere. Credo che sia un problema; progressivamente si sono scolorati i passaggi, i vari step di controllo della magistratura. Parlo della responsabilità deontologica della magistratura, non sanzionata dalla legge ma da un codice etico che non ho mai visto applicato, se non a parole; e della responsabilità del giornalista che ha seguito un analogo deterioramento attraverso una cogestione della comunicazione con alcuni protagonisti della giustizia. Una deriva lontana dall’essere auto-controllata. Trovo in termini generali preoccupante il fatto che il diritto penale sia diventato non più una extrema ratio ma venga utilizzato, sventolato come placebo per la sicurezza sociale davanti all’opinione pubblica. Questo crea un circolo vizioso tra le attese dell’opinione pubblica, giustificate e comprensibili, e quello che si pretende dal magistrato; e ciò senza contare le anticipazioni di giudizio formulate o favorite attraverso la spinta mediatica. La bozza di riforma del Csm la convince? In realtà si parla troppo a questo proposito di riforma generale del sistema giudiziario. Quando non si sa come affrontare il merito delle questioni, ci si perde nei tecnicismi e nell’abbondanza degli obbiettivi. Comodi per perdere tempo e collocare i problemi in una massa di prospettive, di modo che non si risolva nulla. Non è ottimista. Ho solo speranze, che mi sono abituato a non coltivare troppo. Qual è la sua ipotesi? Sono molto perplesso sul sorteggio per la composizione del CSM, e vedo anche dei problemi di costituzionalità. Ma a mali estremi mi chiedo se non si debba finire per ricorrere a rimedi altrettanto estremi come il ricorso al sorteggio. L’ultima legge sull’elezione del Csm, oggi in vigore, era ben fatta; è stata distorta completamente nella sua applicazione. Come diceva Giolitti un tempo: le leggi per gli amici si interpretano, per gli altri si applicano. Da dove partire per la riforma? La prima cosa da fare è rompere il legame perverso che lega le correnti e le candidature. Se il numero dei candidati è pari al numero dei posti da eleggere, ecco un sistema che per quanto perfetto, non funziona più. Quale sia la strada migliore, non sono in grado di dirlo. Penso anche al rapporto incestuoso che c’è tra politica e magistratura per la scelta dei membri laici del Csm. Sono pienamente d’accordo con chi sostiene che l’indicazione dei membri laici deve riguardare professori universitari, giuristi, magistrati, avvocati con anzianità, che non possono e non devono essere politici. Devono essere giuristi esperti, portatori della loro esperienza, non politici esperti. Altrimenti creiamo un doppione nel rapporto rafforzato tra politica e magistratura che non funziona. Non credo che ci vorrebbe molto per intervenire su questi punti specifici, senza doverli o volerli annegare in un mare di proposte che finiscono per essere utopistiche. Manca la volontà. Non voglio dare giudizi politici. Posso solo dire che la giustizia dei miei tempi era diversa (anche se quei tempi erano anche loro diversi da quelli di oggi). Oggi non c’è più una visione globale, anche se si parla di riforme epocali a costo zero. In questo momento mi fa paura immaginare grandi riforme costituzionali: alla luce dell’esperienza passata e del modo con cui si è decisa la riduzione del numero dei parlamentari ho paura di certe riforme che rischiano di peggiorare la materia trattata. Pm senza limiti di spesa, inquisiti costretti a pagare migliaia di euro per difendersi di Riccardo Polidoro* Il Riformista, 13 giugno 2020 La pubblicazione del bilancio sociale della Procura della Repubblica di Napoli induce ad alcune riflessioni sulle ragioni della lentezza e inefficienza della macchina giudiziaria. Premesso che è stata fatta un’apprezzabile operazione di trasparenza, con la quale il più grande ufficio inquirente d’Italia ha comunicato gli esiti dell’attività svolta, va innanzitutto evidenziato l’enorme sproporzione tra le risorse assegnate per le attività d’indagine e quelle destinate agli altri uffici giudiziari. Indagare è un obbligo, ma anche giudicare in tempi ragionevoli e con mezzi adeguati lo è. Tale dovere e onere, però, non preoccupa affatto il Ministero che fornisce alle Procure strumenti tecnologici all’avanguardia per penetrare nella vita privata degli indagati, mentre nei Palazzi di Giustizia mancano il personale e i mezzi per svolgere, in maniera dignitosa e con le dovute garanzie, i processi. Con un esempio, che non sembri blasfemo, ma che può rendere l’idea di quanto in concreto avviene, si potrebbe paragonare il Ministro della Giustizia a un imprenditore che investe il capitale e gran parte delle risorse a reperire le materie prime per iniziare la lavorazione del prodotto, ma non si preoccupa affatto di vedere il manufatto finito o, comunque, se pur finito, non si interessa della sua qualità. Indagini complesse, tanto lunghe quanto costose, producono fascicoli di migliaia di pagine e, ove ci sono intercettazioni, migliaia di file audio. La chiusura delle indagini rappresenta il momento in cui l’avvocato può prendere visione degli atti, attività che va esaurita in venti giorni, a fronte di investigazioni durate diversi anni. Tale evidente sproporzione di tempo a disposizione tra l’”accusa” e la “difesa” - che si riduce maggiormente (soli dieci giorni) se si deve impugnare un’ordinanza di misura cautelare - ha un’aggravante non indifferente, cioè la copia degli atti. Attività per la quale è necessario altro tempo e il pagamento dei diritti di cancelleria. Spesa questa, affatto irrisoria, che va sostenuta dall’indagato/imputato che, pur se assolto, non verrà rimborsato di alcunché. Ove condannato, invece, dovrà pagare le cosiddette “spese di giustizia” in cui sono comprese, tra le altre, quelle sostenute dalla Procura. Il cosiddetto “patrocinio a spese dello Stato” copre una fascia del tutto esigua di popolazione, quella con un reddito annuo imponibile non superiore a 11.493,82 euro e consente di rivolgersi non a tutti gli avvocati, ma solo a legali iscritti nell’apposito albo. Più aumentano le spese delle indagini, dunque, più sarà onerosa la difesa. L’attuale emergenza sanitaria ha evidenziato le croniche deficienze del sistema Giustizia, ancorato a procedure medioevali. Per fare un esempio, ma ce ne sarebbero tantissimi, le cancellerie inviano al difensore, a mezzo pec, l’avviso di deposito di un atto e non l’atto stesso. Per averlo sarà necessario recarsi in cancelleria, depositare istanza, pagare i diritti e, dopo alcuni giorni, tornare per ottenere la copia. In un mondo online, quello penale è da tempo fermo e il flusso di risorse va in un’unica direzione, l’unica che interessa davvero, per la falsa immagine di una giustizia efficiente. Nella “riservatezza” di uno studio televisivo è importante che le intercettazioni - atti che dovrebbero essere coperti da segreto istruttorio - siano di qualità, poco importa se poi non ci saranno le risorse per celebrare il giusto processo, perché manca ovvero non funziona la strumentazione necessaria nelle aule. Il tempo della notizia è quello delle indagini; l’altro, quello del processo, non interessa. Ancora meno se vi sarà una sentenza di assoluzione. Nel mondo giudiziario, dunque, esiste un gigante, con rilevanti risorse, a cui deve essere assegnato uno spazio proprio, che non interferisca con le altre componenti dell’ordinamento. Solo separandolo dal resto ne verrà individuato il reale potere che sarà circoscritto alle sue funzioni e non invaderà altri spazi, come le cronache di questi giorni - e non solo - hanno dimostrato. *Associazione Carcere Possibile Onlus Quando la giustizia si amministra in tv di Argia Di Donato* Il Riformista, 13 giugno 2020 È difficile dimostrare la verità quando si è colpevoli prima ancora di essere processati. Sembra inverosimile, ma nell’epoca dei media e dell’informazione, della cultura e del sapere a “portata di tutti”, la maggior parte dei membri della collettività resta assopita, fuorviata e - per certi aspetti - manipolata. E ciò appare ancora più evidente quando si parla di giustizia, dell’importanza e della funzione del processo, dei tempi e del ruolo delle parti processuali: giudici, avvocati, imputati e testimoni, protagonisti della vicenda giudiziaria improntata alla ricerca della verità dei fatti. Lo spazio sacro del processo, la sua celebrazione in determinate forme, il ruolo ben definito di ogni parte, assolve alla funzione principale della tutela delle garanzie fondamentali che fanno di un sistema sociale la visione puntuale e razionale della prima esigenza collettiva: “definire” il cerchio e riparare ai torti subiti, “consegnando consolazione” per chi ha subito una perdita e “rieducando” il reo affinché possa reintegrarsi nel sistema. Eppure, ad oggi, la funzione del processo e con essa le garanzie che tutela, sono messe seriamente in pericolo da un legislatore miope che tenta di “chiudere il cerchio” attraverso pratiche grossolane e incomprensibili. La delicata questione delle intercettazioni, per esempio, e l’udienza penale da remoto rappresentano angolazioni di visioni distorte di chi vuole eliminare ogni forma di tutela a garanzia dell’imputato, paradossalmente colpevole ancora prima di essere processato. Chi non conosce la celebre pratica del capro espiatorio sul quale scaricare tutte le colpe della collettività? Ai giorni nostri questa pratica risponde all’esigenza di scaricare semplicemente aggressività e rabbia sull’altro. Sembra che la sete di una falsa giustizia sia la vera protagonista indiscussa al centro del dibattito politico che risente a sua volta di un’opinione pubblica spietata, fi glia di una comunicazione “orientata”. La spettacolarizzazione del processo penale - alimentata da una deriva giustizialista - portando al centro della scena mediatica l’imputato quale reo ancor prima della sentenza di condanna, ha per molti aspetti minato le garanzie a tutela dei diritti fondamentali, esasperando il conflitto tra diritti contrapposti: le istanze di imparzialità del giudizio oscillano tra il diritto di cronaca giudiziaria e l’insieme di altrettanti diritti di pari se non superiore dignità (vita privata, riservatezza, presunzione di innocenza). Assistiamo quindi a un processo penale sdoppiato che procede su binari affiancati: da un lato quello celebrato nei tribunali, improntato sulla ricerca della verità, e dall’altro quello “esposto” attraverso i media, svolto nei talk-show e sui social alla ricerca del colpevole a tutti i costi. La presunzione di innocenza, su cui si fonda il sistema processuale delle moderne democrazie, è un diritto fondamentale e un principio irrinunciabile che va protetto ad ogni costo. E sarebbe appena il caso di riflettere seriamente sulla possibilità di una previsione compensatoria o risarcitoria tanto per l’innocente quanto per il reo, entrambi vittime della spettacolarizzazione della propria vicenda processuale, lesiva di qualsivoglia diritto in ragione di un giudizio parallelo svincolato dall’esigenza di accertamento processuale. *Avvocato e direttrice di Juris News Ci vorrà un Dpcm di Conte per riportare subito i cancellieri in tribunale di Errico Novi Il Dubbio, 13 giugno 2020 Non basterà una circolare: ci vorrà un Dpcm del premier Conte, per riportare i cancellieri in tribunale. A ricordarlo è la lettera rivolta dall’Ordine degli avvocati di Torino al guardasigilli Bonafede e alla ministra della Pa Dadone (di cui si dà conto in altro servizio, ndr). Proprio la associazione più rappresentativa degli stessi cancellieri, l’Adgi, preconizza addirittura la necessità di un decreto legge. Non si dovrebbe arrivare a tanto. Ma, come dire, non è ancora fatta. Sembrava così, grazie all’emendamento al dl Intercettazioni che ha fissato al 30 giugno la fine del lockdown dei diritti, e che è stato approvato giovedì pomeriggio. Nelle ultime ore il dipartimento Organizzazione giudiziaria di via Arenula, a quanto si apprende, avrebbe già definito il regolamento, sotto forma di circolare appunto, per rimodulare il lavoro del personale della Giustizia. Così il ministero guidato da Bonafede intende farsi trovare pronto alla data del 30. Ma si dovrà applicare fino in fondo la disciplina tuttora vigente, inserita nel decreto Cura Italia all’articolo 87, secondo cui “fino alla cessazione dello stato di emergenza da Covid, ovvero fino a una data antecedente stabilita con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione, il lavoro agile è la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni”. Se si vuole una “data antecedente” a quella attualmente prevista per la fine dello stato d’emergenza, che com’è noto è il 31 luglio, seve un Dpcm, c’è poco da fare. L’emendamento di Andrea Ostellari (Lega) e Alberto Balboni (Fratelli d’Italia) approvato giovedì in commissione Giustizia al Senato nella conversione del dl Intercettazioni ha anticipato dal 31 luglio al 30 giugno la fine della fase 2, in cui i Tribunali possono continuare a rinviare quasi tutte le udienze. Ma consentire, dal 1° luglio, lo svolgimento dell’attività in Aula potrebbe essere completamente inutile, se i palazzi di giustizia fossero un deserto interrotto qua e là da qualche sparuto cancelliere. Il ministro Bonafede e i due sottosegretari alla Giustizia, Giorgis e Ferraresi, hanno anche valutato una riduzione di almeno una settimana della sospensione feriale del mese di agosto. Ipotesi da approfondire nelle prossime ore. Altro lavoro per via Arenula, dopo quello svolto sul dl Intercettazioni a Palazzo Madama, a partire dalle proposte dell’opposizione di centrodestra. La capogruppo m5s in commissione Grazia D’Angelo ha riconosciuto come si sia “stabilito che la fase 2 nei tribunali si concluda il 30 giugno” dopo “un confronto in commissione e con il parere favorevole del governo”. Va detto che su alcuni profili del provvedimento c’è stata tensione. Forza Italia ha lasciato i lavori e dato appuntamento a tutti per martedì prossimo, quando inizierà la discussione in Aula (voto previsto per mercoledì) per aver “registrato la pregiudiziale posizione della maggioranza nel non considerare emendamenti dell’opposizione, anche quando formulati per una migliore tecnica del decreto legge”. Ad esempio rispetto alla necessità di “garantire la partecipazione della difesa al procedimento introdotto davanti ad un magistrato di Sorveglianza”. Un passaggio in cui il senatore Caliendo è convinto si sia creato un pasticcio, col rischio di decadenza della revoca dei domiciliari “ove l’esame del Tribunale non intervenga in 30 giorni”. Secondo la relatrice 5Stelle Bruna Piarulli, in realtà, si è rafforzata “la procedura prevista per la concessione degli arresti domiciliari”. E certamente si è esteso “l’uso dei droni alle attività della Polizia Penitenziaria”. In tal modo, secondo la senatrice, sarà possibile “migliorare la sicurezza e la sorveglianza nelle carceri”. Ancora, la stessa Piarulli e il relatore dem Franco Mirabelli precisano di aver limitato, con un’altra modifica, al solo “garante nazionale” la possibilità di “avere colloqui riservati con i detenuti al 41bis”. Insomma, la giustizia torna materia incandescente, persino nei dettagli della sua legislazione. Tra i quali, almeno, il vicepresidente della commissione Mattia Crucioli, anche lui del Movimento 5 Stelle, ha voluto prevedere con un ulteriore emendamento che, quando si deve modificare la disciplina del processo amministrativo telematico con decreto del presidente del Consiglio di Stato, gli interlocutori da sentire, oltre a Palazzo Chigi, sono “il Consiglio nazionale forense, il Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa” e “le associazioni specialistiche maggiormente rappresentative”. Anche l’Unaa e la Siaa, dunque. Almeno in questo caso, si è fatta certamente chiarezza. Violenza sulle donne, nel lockdown meno denunce. Le linee guida del Csm di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 13 giugno 2020 Il documento stilato da undici magistrati per disporre di “buone prassi operative per la migliore tutela delle donne maltrattate e dei loro figli minori”. Il Csm ha emanato un documento che dispone le linee guida per le violenze su donne e bambini in tempo di Covid. Stilato su indicazione della commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio da undici magistrati che si occupano di questo tema, il provvedimento spiega come regolarsi vista l’emergenza sanitaria, “buone prassi operative - si legge - per la migliore tutela delle donne maltrattate e dei loro figli minori”. Si parte dai numeri: le denunce in tema di violenza domestica e di genere durante il lockdown sono calate mediamente del 50%, seppur con differenze geografiche (in alcune zone si è arrivati al 70). E questo, secondo i magistrati e i centri Antiviolenza, è dovuto a “una tendenza a non denunciare”. Col passare del tempo, però, sono progressivamente risalite le querele per maltrattamenti e si sono abbassate, invece, quelle per stalking. E il Csm non ha dubbi che questa sia la naturale conseguenza delle restrizioni di mobilità legate al Covid. A gravare, secondo il Consiglio, sulla situazione anche la “difficoltà ad avere punti di riferimento agili per depositare le denunce e le querele urgenti”. Insomma, un quadro preoccupante al quale l’organo di autogoverno ha cercato di proporre soluzioni. Innanzitutto la fase delle indagini: gli uffici che più hanno sofferto e soffrono l’emergenza sanitaria sono procure e gip. Le prime si sono divise tra chi ha ritenuto sospesa la normativa di urgenza e chi, invece (la stragrande maggioranza) ha continuato a lavorare coi tempi pre-coronavirus. Sta di fatto che tutti gli uffici hanno dato priorità a questi reati, garantendo che fossero trattati velocemente e questo ha riguardato anche l’ascolto delle persone offese. Così anche le comunicazioni: il Csm suggerisce di “favorire modalità che prevedano il diritto del difensore della persona denunciante ad essere informato con tempestività”. Problematico, stando al documento, anche l’allontanamento della casa familiare perché spesso l’indagato non ha altro posto dove andare, ma la scelta da prediligere è sempre quella di allontanare il violento e non la vittima. Ridotte, per forza di cose le misure cautelari in carcere e l’obbligo di firma, mentre non decolla una delle misure che sarebbe più idonea: l’applicazione del braccialetto elettronico che, però, eccezione fatta per Palermo, è risorsa assai scarsa. Quanto al dibattimento, palazzo dei Marescialli raccomanda udienze dedicate, un approccio “empatico, sereno e naturale” da parte del giudice e una corsia dedicata per i processi di questo tipo. Le linee guida si rivolgono anche ai centri Antiviolenza e ai tribunali civili e per i minorenni che devono garantire tempestività, efficienza dei servizi sociali e sicurezza sanitaria quando i piccoli devono incontrare i genitori. Thyssen, il pg di Torino: “Per manager tedeschi il carcere è inevitabile e imminente” di Federica Cravero La Repubblica, 13 giugno 2020 “Il tribunale di Essen ha riconosciuto l’efficacia della sentenza torinese”. Non riusciranno a evitare il carcere i due manager tedeschi condannati in Italia per la strage degli operai alla Thyssen Krupp di corso Regina Margherita a Torino. Dovrebbe essere dunque questione di ore, o al massimo di giorni, prima che la magistratura tedesca emani l’ordine di esecuzione della pena per Harald Espenhahn e Gerald Priegnitz. Nei giorni scorsi avevano suscitato grande indignazione in Italia le notizie circolate secondo cui i due dirigenti della multinazionale avrebbero potuto evitare il carcere chiedendo preventivamente la semilibertà. Tuttavia a fare chiarezza è intervenuto Eurojust - l’organo di collegamento delle magistrature europee, interpellato dal procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo - che ha precisato che non esiste possibilità di fare un ulteriore ricorso dopo la sentenza prima del tribunale di Essen e poi della corte d’appello di Hamm che a gennaio ha reso definitiva la condanna a cinque anni. Eurojust ha anche confermato che non esistono strade alternative al carcere e che in cella i due manager dovranno andare, non appena l’ordine di esecuzione - che è rimasto fermo a causa del lockdown per il Covid-19 - sarà emanato. Solo più avanti potranno accedere a benefici come la libertà vigilata. “Il tribunale di Essen ha riconosciuto l’efficacia della sentenza torinese - ha spiegato Saluzzo - e quindi i dirigenti tedeschi andranno certamente in carcere. Sconteranno una pena di cinque anni, il massimo previsto dalla giustizia tedesca per l’omicidio colposo. La libertà vigilata è prevista solo dopo aver scontato metà della pena in carcere, mentre dopo i due terzi esistono delle misure alternative alla detenzione”. L’odissea giudiziaria per i morti della Thyssen aveva impegnato anche i vari ministri della giustizia in un dialogo serrato con gli omologhi tedeschi. Tuttavia a distanza di oltre 12 anni dalla tragedia giustizia non è ancora stata fatta. Mentre i condannati italiani hanno già scontato la parte di pena in cella, per quelli tedeschi non è ancora neanche iniziato il periodo di detenzione, rallentato da ritardi infiniti per traduzioni e per l’allineamento della legge italiana a quella tedesca, che fissa il massimo della pena per l’omicidio colposo a cinque anni nonostante i due fossero condannati a 9 anni e 8 mesi e 6 anni e 3 mesi. “La giustizia che volevamo noi non è questa, la vera giustizia ce la darà Dio”. Rosina Platì, mamma di Giuseppe De Masi, uno dei sette operai morti nel rogo della Thyssen, commenta così la notizia che i due manager tedeschi condannati per la tragedia del 2007 andranno in carcere. “Li vogliamo vedere in carcere davvero. Troppe volte ci hanno dato questa notizia e non sono mai entrati”, aggiunge la donna, “Intanto scontino la pena loro inflitta. La vita dei nostri ragazzi non vale pochi anni di carcere, sono ancora arrabbiata...”. “Finalmente una buona notizia. Da una parte il no alla semilibertà, dall’altra, forse, la fine di una vicenda che dura 12 anni e mezzo - ha detto Antonio Boccuzzi, ex deputato, unico sopravvissuto al rogo della Thyssen che nel 2007 provocò la morte di sette operai - È una ferita che oltre a non chiudersi si infetta continuamente. Vedere queste persone condannate condurre la loro vita normale, dà un senso di ingiustizia profonda. Assurdo è l’aggettivo giusto per questa vicenda”. Consulta: “Troppo poche 24 ore per presentare reclamo sui permessi premio” Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2020 Corte costituzionale - Sentenza 12 giugno 2020 n. 113. Il termine di 24 ore previsto per presentare reclamo contro il provvedimento sui permessi premio è troppo breve. Lo ha stabilito oggi la Consulta con la sentenza n. 113 del 2020. Secondo i giudici delle leggi, si legge nel comunicato ufficiale, un solo giorno di tempo lede il diritto di difesa del detenuto e rappresenta anche un ostacolo alla funzione rieducativa della pena, alla quale i permessi premio sono funzionali. La Corte ha così accolto la questione sollevata dalla Cassazione su una norma dell’Ordinamento penitenziario, giudicando irragionevole un identico termine per il reclamo sia contro i provvedimenti sui permessi di necessità - legati a situazioni di imminente pericolo di vita di familiari o altri gravi eventi eccezionali - sia contro quelli riguardanti i permessi premio, sebbene siano diversi presupposti e finalità. Sullo stesso tema la Consulta nel 1996 con la sentenza n. 235 si era fermata a dichiarare l’inammissibilità delle questioni prospettate, non riuscendo a rintracciare nell’ordinamento una soluzione costituzionalmente obbligata che risolvesse la, pur riscontrata, eccessiva brevità del termine in esame. In quell’occasione la Corte aveva invitato il legislatore a “provvedere, quanto più rapidamente, alla fissazione di un nuovo termine che contemperi la tutela del diritto di difesa con le esigenze di speditezza della procedura”. Dopo ventiquattro anni da quel monito, rimasto inascoltato, la Corte ha ribadito la contrarietà alla Costituzione di un termine così stretto, che rende difficile al detenuto far valere efficacemente le proprie ragioni, anche per l’oggettiva difficoltà di ottenere in così poco tempo l’assistenza tecnica di un difensore e questa volta ha individuato nella disciplina generale del reclamo contro le decisioni del magistrato di sorveglianza, introdotta nel 2013, un preciso punto di riferimento per eliminare il vulnus riscontrato. Questa disciplina infatti prevede oggi un tempo di quindici giorni per il reclamo al Tribunale di sorveglianza, che la Corte ha dunque esteso anche al reclamo contro i provvedimenti concernenti i permessi premio proposti da parte del detenuto o del pubblico ministero. Al legislatore resta però, hanno precisato i giudici costituzionali, la possibilità di individuare un altro termine, se ritenuto più congruo, purché in linea con i principi di legittimità. La Corte ha così dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-ter, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede, mediante rinvio al precedente art. 30-bis, che il provvedimento relativo ai permessi premio è soggetto a reclamo al tribunale di sorveglianza entro ventiquattro ore dalla sua comunicazione, anziché prevedere a tal fine il termine di quindici giorni”. Leso il diritto di difesa se c’è solo un giorno per il reclamo a un permesso negato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 giugno 2020 La Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 30ter, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede, mediante rinvio al precedente art. 30- bis, che il provvedimento relativo ai permessi premio è soggetto a reclamo al tribunale di sorveglianza entro ventiquattro ore dalla sua comunicazione, anziché prevedere a tal fine il termine di quindici giorni. Questa è la decisione in merito all’ordinanza del 13 novembre 2019 dove la Cassazione, sezione prima penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 27 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 30bis, comma 3, in relazione al successivo art. 30ter, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), “nella parte in cui prevede che il termine per proporre reclamo avverso il provvedimento del Magistrato di sorveglianza in tema di permesso premio è pari a 24 ore”. Cosa era accaduto? Un detenuto aveva fatto ricorso per un rigetto alla sua richiesta del permesso premio, ma è stato dichiarato inammissibile. Il motivo? Il provvedimento di rigetto era stato comunicato il 13 novembre 2018 alle ore 8.16 e il reclamo era stato depositato il giorno successivo alle ore 8.44. Dunque ha sforato le 24 ore, quindi fuori tempo massimo come prevede l’articolo dell’ordinamento penitenziario. Il detenuto ha quindi fatto ricorso in Cassazione. Tra le argomentazioni c’è quella che il tribunale di Sorveglianza non ha svolto alcun accertamento in ordine alla possibilità del reclamante di presentare il reclamo in orario antecedente a quello delle ore 8,44 del giorno successivo a quello di notifica: se le celle sono chiuse fino alle ore 9,00 del mattino, orario dal quale iniziano le varie attività socio- ricreative, rieducative e lavorative, prima di quell’orario è impossibile uscire dalla cella e accedere a qualsivoglia altro locale dell’istituto senza apposita autorizzazione, quindi anche presentare reclamo. La Corte suprema ha ritenuto la questione non manifestamente infondata. Nella sua ordinanza di rimessione, la Cassazione rilevato vari punti di incostituzionalità, tra le quali quelle in tema di violazione del diritto di difesa: viene sottolineato che bisogna considerare lo squilibrio che si realizza tra le opportunità di impugnazione riservate alla parte pubblica e al detenuto. Violerebbe anche l’articolo 24 della Costituzione laddove il termine di ventiquattro ore per la proposizione del reclamo si rivelerebbe incapace di assicurare alla parte, che intenda fare reclamo, di un tempo utile per articolare la sua difesa tecnica da sottoporre al Tribunale di sorveglianza con l’assistenza di un avvocato. Sempre la Cassazione ha osservato che per evitare il rischio di una pronuncia di inammissibilità il detenuto necessita dell’assistenza di un difensore. Da un lato il sistema consente all’interessato di richiedere l’intervento e l’assistenza della difesa tecnica, ma dall’altro non gli pone le condizioni - causa il breve arco temporale - per esercitarla. La Consulta ha ritenuto fondata la questione di incostituzionalità. Secondo la Corte costituzionale presieduta dalla giudice Marta Cartabia di cui Francesco Viganò è il relatore, un solo giorno di tempo lede il diritto di difesa del detenuto e rappresenta anche un ostacolo alla funzione rieducativa della pena, alla quale i permessi premio sono funzionali. La Corte ha così accolto la questione sollevata dalla Cassazione su una norma dell’Ordinamento penitenziario, giudicando irragionevole un identico termine per il reclamo sia contro i provvedimenti sui permessi di necessità - legati a situazioni di imminente pericolo di vita di familiari o altri gravi eventi eccezionali - sia contro quelli riguardanti i permessi premio, sebbene siano diverse le finalità. Mafia capitale, lezioni dalla Cassazione di Claudio Cerasa Il Foglio, 13 giugno 2020 Espandere in modo illimitato il 41bis non è d’aiuto per combattere la mafia. Le motivazioni della sentenza con cui la Cassazione ha condannato per “due distinte associazioni a delinquere” gli imputati del processo frettolosamente denominato dalla stampa come “Mafia capitale”, ma ha “escluso il carattere mafioso dell’associazione contestata agli imputati” presenta vari punti di interesse. In una nota la Cassazione afferma che “la Corte, senza affatto negare che sul territorio del comune di Roma possano esistere fenomeni criminali mafiosi… ha spiegato che i risultati probatori hanno portato a negare l’esistenza di una associazione per delinquere di stampo mafioso”. Non c’è stato “l’utilizzo del metodo mafioso né l’esistenza del conseguente assoggettamento omertoso ed è escluso che l’associazione possedesse una propria e autonoma ‘fama’ criminale mafiosa”. È rilevante la tipizzazione richiesta per considerare mafiosa un’associazione per delinquere, perché in realtà su questo argomento non esisteva una giurisprudenza coerente, e ora la sentenza della Cassazione ne crea la base. Il che crea un precedente che non potrà essere trascurato. Questo non significa che i reati commessi non siano considerati gravi e anche preoccupanti: si parla di “un fenomeno di collusione generalizzata”, della “svalutazione del pubblico interesse sacrificato a logiche di accaparramento”, ma l’inquinamento del sistema derivava “non dalla paura, ma dal mercimonio della pubblica funzione”. Insomma si è trattato di “forme di corruzione sistematica, non precedute da alcun metodo intimidativo mafioso”. Non gettare tutto nel calderone della mafia serve a individuare la specificità di reati che potranno essere perseguiti in modo più penetrante, quindi la sconfessione della campagna di stampa non rappresenta un arretramento della giustizia, ma, al contrario, un perfezionamento degli strumenti culturali necessari per esercitarla. Quelli che sono delusi, che parleranno di cedimento e di eccesso di clemenza, non capiscono che la forza dello stato di diritto non consiste nell’espansione illimitata dell’area di applicazione del 41bis, ma, nella capacità di perseguire i reati identificandone la specificità, come ha fatto lodevolmente in questo caso la Cassazione. Campania. Ciambriello incontra i garanti territoriali: “confronto su criticità pianeta carcere” istituzioni24.it, 13 giugno 2020 Il Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, ha convocato presso il suo ufficio il Garante comunale di Napoli Pietro Ioia e quello provinciale di Avellino Carlo Mele. Lo scopo della riunione è stato quello di avviare un confronto periodico tra i vari Garanti con l’obiettivo di confrontarsi e mettere a tema le diverse problematiche che attraversano il pianeta carcere nei diversi territori della Regione con l’intento di far emergere le eventuali criticità presenti nel sistema e di condividere le buone prassi individuate. Al termine di questo incontro è stato redatto il seguente documento, dal quale sono emersi i seguenti punti critici: • Pur comprendendo la difficoltà a stabilire, anche a seguito dell’emergenza Covid19, un contatto organico con l’Ufficio di Sorveglianza è evidente una forte criticità, che si manifesta ovvero la carenza di psichiatri all’interno degli istituti di pena. • Si è rilevato che con l’aumento di trattazione dei numeri dei processi penali e il conseguente accesso dei testimoni, impedire agli avvocati di accedere alle cancellerie degli uffici di sorveglianza continua a rappresentare una “paralisi” dell’attività giudiziaria, ed in particolare di tutta l’attività connessa alla fase esecutiva. Così come la decisione di non consentire una ripresa all’interno degli Istituti penitenziari, del personale specializzato (educatori, psicologi, volontari etc.) non garantisce una effettiva ripresa dell’attività propedeutica per la valutazione dei presupposti necessari per la corretta trattazione delle udienze dinanzi il Tribunale di Sorveglianza e/o il Magistrato di Sorveglianza. • La necessità di fare il punto sull’ormai cronica penuria delle figure professionali in ambito trattamentale nella direzione di un loro potenziamento (basti pensare che allo stato, su oltre settemila detenuti vi sono circa 65 FGP (funzionari giuridico pedagogici) sugli Istituti penitenziari per gli adulti. • L’importanza del “lavoro all’esterno” e in particolare quello di “pubblica utilità”. Nello specifico è emerso, da parte di tutti i convenuti, il potenziale di sviluppo di questo tipo di misura alternativo al carcere che in Campania è scarsamente utilizzato (solo 133 persone su una popolazione di 7872 detenuti presta servizio in imprese o in cooperative esterne agli Istituti di pena). Per quanto attiene il cosiddetto lavoro di pubblica utilità sono state registrate numerose richieste da parte di svariate amministrazioni a cui non sfugge di certo la ricaduta positiva nei diversi territori. Al riguardo è stato rilevato che spesso le Amministrazioni pubbliche, pur essendo fortemente interessate all’utilizzo di questo strumento legislativo (lavori di pubblica utilità), lamentano una scarsità di risorse finanziarie anche solo per coprire la modesta somma (poche centinaia di euro) che serve ad assicurare i soggetti detenuti coinvolti nei lavori esterni al carcere. • sollevare la questione dei trasferimenti territoriali, affermando congiuntamente che non è ben chiaro nelle nuove disposizioni se il Ministro sia preoccupato di riattivare e con quali modalità,le procedure di trasferimento dei detenuti che destano, soprattutto in questo particolare momento storico, molta preoccupazione. Molte le doglianze su questo specifico punto da parte delle persone ristrette che nella maggior parte dei casi non hanno la possibilità di effettuare colloqui con familiari. • Tutti i presenti, Ciambriello, Ioia e Mele si sono dichiarati a favore della permanenza dei dispositivi tecnologici (pc tablet per skype e whatapp) utilizzati durante il periodo di sospensione dei colloqui dettato dall’emergenza Covid, ritenendo quest’ultimi un importante strumento di comunicazione non solo nei confronti dei propri familiari, ma anche e soprattutto rispetto all’utilizzo didattico, formativo. Fattori, quest’ultimi che vanno a rinforzare il trattamento di risocializzazione della persona ristretta. Napoli. Nel distretto partenopeo è record di riparazioni per l’ingiusta detenzione di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 13 giugno 2020 In prigione da innocenti, Napoli maglia nera in Italia. Basta una somma di denaro a ripagare una persona che sia stata sbattuta in carcere ingiustamente? Basta qualche migliaio di euro a risarcire chi ha sopportato la privazione della libertà, il sequestro dei beni, magari il fallimento dell’impresa e il discredito agli occhi dell’opinione pubblica? Certamente no, ma intanto la riparazione per l’ingiusta detenzione sembra l’unica “rivincita” concessa a chi sia stato arrestato e poi completamente assolto da ogni accusa. Ma quello stesso istituto giuridico rivela almeno due tendenze: quella a un uso troppo largo della custodia cautelare e quella del mancato controllo dei magistrati sull’operato dei colleghi. Anche nel distretto di Corte d’Appello di Napoli, da anni ai vertici della classifica dei casi di ingiusta detenzione. La conferma arriva dall’ultima relazione predisposta dal Ministero della Giustizia. Nel 2018 le decisioni di accoglimento delle domande di riparazione sono state ben 92. In 54 casi l’istanza è stata accolta perché il richiedente era finito in carcere o ai domiciliari, salvo poi prosciolto in primo grado o assolto in appello o in Cassazione. In altre 38 circostanze, invece, la misura cautelare era illegittima. Per Napoli è un triste record: al secondo posto della classifica dei distretti di Corte d’Appello con più domande di riparazione accolte c’è Reggio Calabria con “soli” 65 casi, poi Roma con 62. Tutto normale? Certo che no. Un numero così alto di riparazioni dimostra che qualche magistrato non ha fatto bene il proprio lavoro. O perché non ha esercitato l’azione penale in modo corretto o perché non ha verificato che le misure cautelari fossero state adottate nel rispetto della legge. In entrambe le ipotesi, qualcuno è stato arrestato ingiustamente con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano patrimoniale e personale. “I casi di riparazione dovrebbero essere eccezionali, invece sono troppi - sottolinea Alfonso Furgiuele, avvocato e docente di Procedura penale dell’università Federico II - È grave che le persone vengano private della libertà con tanta leggerezza”. Ma quanto sborsa lo Stato per risarcire i cittadini ingiustamente detenuti? Nel 2018, la somma ha superato i 33 milioni di euro per 895 ordinanze di accoglimento e un importo medio di circa 37mila euro. A Napoli i pagamenti sono stati 113 per un ammontare complessivo di due milioni e 400mila euro. Il dato è allarmante sebbene, in questo caso, il distretto di Corte d’appello partenopeo si piazzi alle spalle di Catanzaro, Roma, Catania e Bari. “La riparazione è stata progressivamente svalutata - aggiunge Furgiuele - Le cifre riconosciute sono ridicole rispetto ai danni causati dall’ingiusta detenzione. E a questi, in molti casi, si aggiunge quello del sequestro che può durare svariati anni e spesso, quando ha ad oggetto un’azienda, porta gli imprenditori al fallimento. Così anche la riparazione diventa inutile”. A questo punto la domanda sorge spontanea: il magistrato che abbia ingiustamente spedito in carcere o ai domiciliari un indagato a quali conseguenze va incontro? I dati dell’Ispettorato del Ministero della Giustizia ci parlano di sole 41 azioni disciplinari promosse in tutta Italia, undici delle quali conclusesi con l’assoluzione. Eppure, in alcuni casi, i magistrati che dispongono ingiustamente la carcerazione sono gli stessi che spendono milioni di soldi pubblici per le indagini. “Se c’è stata una responsabilità anche colposa nell’applicazione di una misura cautelare, un magistrato deve risarcire il danno - conclude Furgiuele - così come trovo necessario un controllo più serio anche a livello disciplinare: la libertà personale non può essere calpestata”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Carcere possibile Onlus: “pestaggi, sia accertata la verità” Il Riformista, 13 giugno 2020 Pensare che un uomo debba essere privato della propria libertà personale (a prescindere dagli errori commessi) è sempre un po’ innaturale; ma l’idea che un uomo (rinchiuso in una cella e senza alcuna possibilità di reale difesa) debba essere insultato, picchiato e privato della propria dignità è inaccettabile. Il Carcere Possibile Onlus, il 23 aprile scorso, ha presentato un esposto alla Procura di Santa Maria Capua Vetere chiedendo l’accertamento della verità; perché se i pestaggi del 6 Aprile, raccontati da alcuni detenuti ristetti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, fossero effettivamente avvenuti, e se, dunque, appartenenti al Corpo della Polizia Penitenziaria abusarono del proprio potere per sopraffare degli uomini indifesi (spogliandoli, picchiandoli, umiliandoli) è giusto che (al pari dei detenuti con i quali si sono ‘confrontati’) subiscano la giusta condanna. La condanna, però, segue il processo; non lo precede e non potrebbe mai precederlo in uno stato di diritto in cui si sostiene che tutti sono ‘non colpevoli’ fino alla sentenza passata in giudicato e nel quale la pena non ha carattere punitivo ma rieducativo. Vogliamo che sia accertata la verità e che sia fatta giustizia, ma manifestiamo tutto il nostro disappunto sul modo in cui gli avvisi di conclusione delle indagini sono stati notificati agli indagati. Una modalità gravemente irrispettosa non solo della dignità e del decoro dei singoli agenti, ma anche dell’intero corpo della Polizia Penitenziaria di cui è stata inutilmente offesa l’immagine e delegittimata la funzione. Presunti soprusi non si combattono con altri soprusi e inutili spettacolarizzazioni. La legge assicura che “la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente, della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico” (art. 111 Cost.). Si auspica che questo nobile e fondamentale principio, richiamato anche dal Procuratore Riello nella nota indirizzata alla Procura di Santa Maria Capua Vetere, trovi d’ora in poi - contrariamente a quanto accaduto sino ad oggi - costante ed effettiva applicazione per assicurare il rispetto della privacy e della dignità di ciascun soggetto indagato. Torino. Detenuti e detenute, un pezzo di comunità. La relazione della Garante di Claudio Raffaelli comune.torino.it, 13 giugno 2020 Con il mandato ormai verso la scadenza, la Garante per le persone private della libertà personale, Monica Cristina Gallo, ha presentato la relazione annuale d’attività alla Conferenza dei capigruppo, riunita insieme alla commissione Legalità in presenza della sindaca Chiara Appendino. Una riunione in videoconferenza ma piuttosto partecipata, con un picco di quasi 120 persone collegate. In apertura dell’incontro, il presidente del Consiglio comunale Francesco Sicari e la presidente della commissione Legalità, Carlotta Tevere, hanno ringraziato la Garante per il suo impegno nel contribuire a tutelare i diritti e la dignità di persone che, seppure dietro le sbarre, costituiscono una parte della nostra comunità. Monica Cristina Gallo è partita dal dato dell’affollamento del carcere Lorusso e Cutugno, che nel 2019 è giunto alla soglia delle 1500 persone detenute, a fronte di una capienza stabilita di 1065. Oltre alla riduzione degli spazi, questo ha comportato anche maggiori difficoltà nell’accesso alle cure mediche, soprattutto per quanto riguarda dermatologia, oculistica e gastroenterologia. Il rapporto pazienti-medici è arrivato a 300:1, mentre ogni funzionario pedagogico ha dovuto seguire 120 persone. Si sono anche verificati presunti casi di trattamenti degradanti, ha sottolineato la Garante, segnalati per tutelare tutti coloro che operano correttamente e che sono al vaglio della magistratura. Altra nota dolente, quelle che la Garante ha definito come gravissime lesioni strutturali, in particolare dovute a infiltrazioni d’acqua: non mancano, nel comprensorio carcerario, spazi fatiscenti. Diversa, per inciso, è la situazione nell’istituto minorile, il Ferrante Aporti, dove gli spazi sono più armonici e curati e i detenuti si sono quasi dimezzati (da 48 a 28). Gli ultimi mesi, caratterizzati dall’emergenza sanitaria, hanno visto alleggerirsi la situazione relativa all’affollamento, con l’adozione di misure alternative al carcere per una parte dei detenuti (77 dei quali sono risultati positivi al Covid-19). I dati aggiornati a martedì 9 giugno scorso, infatti, forniscono la cifra di 1312 (erano 1460 a marzo) ma il numero, è stato sottolineato, crescerà per i rientri in carcere al termine delle misure temporanee, oltre che per prevedibili nuovi ingressi. La pandemia, però, ha anche accentuato l’isolamento dell’universo carcerario rispetto al mondo esterno, con la sospensione di molte attività, come quelle didattiche che solo con la fase 2 stanno riprendendo in minima misura. Eppure, si è voluto evidenziare, occorre ripartire e farlo cominciando dai temi dello studio, della formazione e del lavoro, il che rappresenta anche un valido investimento sulla sicurezza della comunità nel suo insieme. Senza dimenticare l’opportunità di proseguire nei colloqui telematici adottati in fase epidemica, che rappresentano una possibilità di più agevole contatto con familiari lontani o molto anziani, nonché la necessità di un maggiore accesso alle misure alternative. In questo senso, Garante e autorità carcerarie agiscono in piena collaborazione. E ancora, la relazione della Garante ha preannunciato il rapporto “Tutto chiuso”, incentrato sull’emergenza sanitaria nei luoghi di reclusione e tuttora in fase di elaborazione. Ma oltre al penitenziario Lorusso e Cutugno ed al Ferrante Aporti, esiste un terzo luogo di reclusione, nella nostra città, il CPR di corso Brunelleschi, il Centro di Permanenza per il Rimpatrio, sovente caratterizzato da tensioni. Ne ha parlato, durante l’incontro, Carolina Di Luciano, collaboratrice della Garante. Al momento della visita effettuata il 25 maggio scorso, vi si trovano 62 persone, in buona parte di nazionalità marocchina, a fronte di una capienza pari a 171 posti. Non si sono registrati casi accertati di Covid-19. Per l’associazione Amici del Museo Nazionale del Cinema, Valentina Noya ha presentato il sito web www.liberante.it, realizzato su incarico dell’Ufficio della Garante, uno strumento di informazione e orientamento per accompagnare le persone in uscita dal carcere nel loro percorso di reinserimento. Infine, la sindaca Chiara Appendino ha espresso tutto il suo apprezzamento per le attività della Garante e per chi dimostra quotidianamente come la nostra città sappia essere vicina alle condizioni chi sta scontando oppure ha già scontato la propria pena e deve seguire percorsi di reinserimento. Percorsi che, per quanto difficili, portano a risultati positivi anche se purtroppo, ha commentato la sindaca, spesso hanno più risalto i casi di recidività rispetto ai percorsi andati a buon fine. Giarre (Ct). Perché nessuno resti indietro, gli esami di Stato all’Icatt di Wilma Greco* epale.ec.europa.eu, 13 giugno 2020 “Se si perdono loro, gli ultimi, la scuola non è più scuola”. Sempre attuali le parole di don Milani, un gigante dei nostri tempi quanto a passione, impegno e capacità di “andare oltre”, con lo sguardo e con il cuore. Le sue parole sembrano scritte oggi, a commento dei dati provenienti dagli Istituti Penitenziari, dove tra tante difficoltà dovute alla pandemia, in qualche modo la scuola ha continuato ad esserci, così come ha saputo e potuto fare: tra “svolazzanti” lezioni fotocopiate, ma anche con la teledidattica e in videoconferenza con i docenti. Il 25 maggio è partito l’ambizioso progetto di “La Scuola in TV - Istruzione degli adulti”. Un percorso didattico di 30 puntate organizzato sui quattro assi culturali dei linguaggi, matematico, storico-sociale e scientifico-tecnologico, in onda su Rai Scuola (canale 146) e rivolto agli adulti iscritti ai Cpia, inclusi gli studenti delle sezioni carcerarie. Non sappiamo tuttavia quanti detenuti abbiano avuto effettivamente accesso al canale. Le esperienze di DAD raccolte raccontano storie diversificate, ma una cosa emerge: laddove l’accesso alla rete è stato possibile, si è rilevato un’indubbia risorsa. Ora l’auspicio è che le esperienze e le tecnologie in uso in questi mesi, siano utilizzate anche da settembre e a pandemia finita, per implementare e ampliare l’offerta formativa e rendere ordinario quello che oggi è straordinario. Arrivano intanto le prime buone notizie dall’Icatt (Istituto a Custodia Attenuata) di Giarre, alle pendici dell’Etna: i corsisti ristretti del Cpia Catania 2 hanno discusso in videoconferenza con il supporto della LIM in sincrono l’elaborato in Power Point, valevole come esame finale del percorso di istruzione di 1º livello - 1º periodo didattico. Un passo in avanti sulla strada dell’inclusione e della scuola per tutti, tanto più che a compierlo sono stati studenti ristretti, per definizione condannati alla marginalità sociale. Lo hanno comunicato la direttrice dell’Istituto penitenziario dott.ssa Mormina e il capo area trattamento, dott.ssa Romano, esprimendo pieno compiacimento per una sinergia tra scuola e carcere, senza la quale ogni sforzo di rieducazione rimarrebbe sulla carta. *Ambasciatrice Epale Sicilia Ragusa. I detenuti donano mascherine agli anziani nelle case di cura sicilymag.it, 13 giugno 2020 Il progetto “Chiamate alle Arti” ha coinvolto anche i detenuti della casa circondariale di Ragusa che, da destinatari iniziali delle mascherine realizzate dai cittadini volontari partecipanti al progetto, sono diventati loro stessi realizzatori. Abbattere ogni confine fisico, accorciare le distanze nel nome della solidarietà. Accade persino all’interno di una casa circondariale. A Ragusa il progetto Chiamate alle Arti continua nel suo scopo: creare un legame, seppur a distanza, tra chi vuole mettere a disposizione il proprio tempo e la propria manualità nel cucire mascherine da donare e chi ne ha bisogno, come gli anziani nelle case di cura, le associazioni socio-sanitarie, le forze dell’ordine. Uno scambio fisico, ma soprattutto di buoni sentimenti che ha coinvolto anche i detenuti della casa circondariale di Ragusa che, da destinatari iniziali delle mascherine realizzate dai cittadini volontari partecipanti al progetto, sono diventati loro stessi realizzatori. Dopo settimane di “taglio e cucito”, adesso l’impegno dei detenuti si concretizza: le mascherine realizzate sono state infatti donate agli anziani delle case di cura - la consegna è avvenuta tramite don Giorgio Occhipinti dell’Ufficio per la Pastorale della Salute di Ragusa, tra i sostenitori di Chiamata alle Arti. Grande emozione tra i detenuti che in queste settimane hanno lavorato con dedizione ed entusiasmo, anche grazie alla generosità del negozio Triumph di Corallo di Ragusa che ha donato alla casa circondariale iblea una macchina da cucire Singer proprio per permettere ai detenuti di realizzare le mascherine. I tessuti sono stati invece recuperati nei magazzini dello stesso istituto penitenziario. Molto soddisfatti i promotori dell’iniziativa: l’associazione di comico-terapia Ci Ridiamo Sù di Ragusa, Sergio Firrincieli e ovviamente i vertici dell’istituto penitenziario, il comandante responsabile dell’Area Sicurezza della Penitenziaria, dirigente aggiunto Chiara Morales, la direttrice del carcere Giovanna Maltese e tutto il personale. Emozionati anche i destinatari di questa bella iniziativa di solidarietà, gli anziani delle case di cura, che grazie all’altruismo e alla buona volontà di detenuti generosi e operosi hanno a disposizione gratuitamente le mascherine. Insomma la solidarietà mostra ancora una volta di saper superare ogni confine fisico, ogni pregiudizio. Un messaggio importante che ha suscitato l’interesse dell’emittente radiofonica Radio Vaticana che ha dedicato uno spazio al progetto: “Siamo di fronte a una comunità che fa sentire la sua voce - ha commentato Fabio Ferrito presidente di Ci Ridiamo Su, durante la trasmissione I Cellanti - Chiamata alle Arti ci sta mettendo davanti a uno scambio umano meraviglioso soprattutto per noi che lo riceviamo, ci sta dando la possibilità di vedere mani veloci, occhi frizzanti, cuori generosi: tutta la comunità sta partecipando con interesse, con passione, arrivando a produrre finora migliaia di mascherine. La partecipazione dei detenuti ci ha insegnato quanta umanità e quanta disponibilità può esserci anche in un istituto penitenziario all’interno del quale il progetto è divenuto un modo per i detenuti, che si sentono come un ponte tra il mondo fuori e il mondo dentro, per far sentire la loro voce”. L’iniziativa è svolta in collaborazione con l’Ufficio per la Pastorale della Salute e con la Diocesi di Ragusa e da subito ha trovato l’adesione di diversi partner: Consorzio Revisioni Avir, Officine Avir, Gemini Service, Centro Copigrafico Eliosprint, Legnami Guastella, Farmacia Nicosia, Decor Iblea, 2G Ricami, Gi.St.El. Plast, Iblea Oggetti, Siet, Panificio Distefano, Triumph, Luca Tumino Art’s e MediaLive. Brindisi. L’Associazione Culturale a Sud dona Dpi e libri al carcere brindisireport.it, 13 giugno 2020 Solidarietà nel carcere di Brindisi: donati Dpi e libri a detenuti e agenti. Una delegazione dell’Associazione Culturale a Sud ha consegnato stamani un carico di mascherine, prodotti sanificanti e libri. La solidarietà varca le mura della casa circondariale di Brindisi. L’Associazione Culturale a Sud, con sede a Torre Santa Susanna, presieduta dall’avvocato Raffaele Missere, ha donato stamani (venerdì 12 giugno) dispositivi di protezione individuale e libri alla direttrice della casa circondariale di Brindisi, Annamaria Dello Preite, e al dirigente di polizia penitenziaria, Rosa Ciraci. Una delegazione dell’associazione costituita dagli avvocati Serena Lucia Missere e Gianfredi Perrucci, da Matteo Varratta e Anna Maria Ursini ha portato in dono un carico di mascherine, prodotti sanificanti sia per gli interni che gli esterni e libri destinati alla biblioteca della struttura detentiva, nell’ambito di un progetto a larga scala rivolto sia ai detenuti che agli agenti. “Le mura del carcere - dichiara l’avvocato Serena Lucia Missere - non debbono fermare la solidarietà. Non possiamo dimenticare i detenuti e ancor meno l’impegno della polizia penitenziaria. Dobbiamo impegnarci a mandare un messaggio forte e chiaro di un mondo pronto a riaccogliere e dare nuove possibilità a chi ha sbagliato. Dobbiamo avere il massimo rispetto di quei servitori dello stato che sono impegnati in rieducazione e controllo spesso in situazioni non ottimali”. l La cosa più difficile? “Stare accanto ai più deboli, senza poter essere fisicamente vicini” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 13 giugno 2020 La portavoce del Terzo Settore Claudia Fiaschi ospite di CivilWeekLab spiega: “Siamo abituati a inventare soluzioni nelle difficoltà. Il Terzo settore è un pezzo cardine, non solo da usare nelle emergenze”. La cosa più difficile? “Essere riusciti a garantire servizi di prossimità, insomma continuare a essere accanto ai più deboli aiutandoli concretamente, senza poter essere fisicamente vicini. Ma il Terzo settore ci è abituato, a inventare soluzioni nelle difficoltà. E direi che anche in questa emergenza ha risposto con la prontezza di sempre”. Così Claudia Fiaschi, portavoce del Forum nazionale del Terzo settore, alla ripresa della diretta streaming di Civil Week Lab dalla Sala Buzzati del Corriere della Sera. Tema: “Il Terzo settore alla prova del Covid” partendo dalla seconda parola-chiave della giornata individuata nel termine “solidarietà”. Tradotto, si tratta del lavoro delle migliaia di volontari, ma non solo, che in questo mesi hanno continuato a essere attivi come - e in molti casi più - di prima del Covid: un esempio fra i tanti, ricordato in diretta durante l’intervento di Claudia Fiaschi, l’ospedale costruito in Fiera a Bergamo esclusivamente da volontari. “A volte - ha sottolineato la portavoce del Forum - manca consapevolezza del ruolo che il Terzo settore ha non tanto o non solo nelle situazioni di emergenza ma nella quotidianità. C’è una grande differenza tra realtà che sono già conosciute dentro la comunità e chi invece arriva all’ultimo momento, appunto sull’onda di una emergenza improvvisa. Ed è questa la rete che va sostenuta”. La difficoltà del Terzo settore in questi mesi è stata ricordata più volte nei mesi scorsi: da un lato essere chiamato a portare avanti i servizi di sempre, con posti di lavoro da mantenere e fasce deboli da assistere, e dall’altro aver visto letteralmente crollare i fondi sui quali sopravvivere. Tutti o quasi dirottati sul fronte sanitario dell’emergenza. “Il nostro Paese - ha ripetuto Claudia Fiaschi - ha bisogno di ricordare che questo è un pezzo cardine, non solo da utilizzare nelle emergenze. Ora è chiaro che l’impatto economico è stato importante: molti enti hanno dovuto rivedere proprio modo di lavorare, una parte di Terzo settore si è dovuto fermare. Ma si guarda avanti, come sempre”. Al Sud i problemi sociali sono stati superiori a quelli di tipo sanitario. Come ha ricordato Carlo Borgomeo, presidente di Fondazione Con il Sud: “La distanza tra l’impegno straordinario del Terzo settore e il fatto che nessuno ha pensato ai problemi del Terzo settore è stata evidente, non tanto per la fase dell’emergenza ma per il dopo: non si capisce ancora che il Terzo settore ha un ruolo decisivo nella costruzione del capitale sociale, ma viene trattato come quello che dà una mano, che interviene quando c’è bisogno”. Anche se in questa circostanza una sorpresa positiva c’è stata: “Per la prima volta infatti - ha detto Borgomeo - che il Ministero dello Sviluppo e non del Welfare ha destinato fondi al Terzo settore. Però questa volta c’è stata una risposta, è la prima volta che il Ministero della Sviluppo - non del Welfare - ha destinato risorse al Terzo settore. Un tema che riguarda l’intero Paese e non solo il Sud, naturalmente, ma che vede il Sud pagare un prezzo maggiore perché le politiche sul meridione sono state sempre solo quantitative, cioè basate solo sul mettere soldi, senza considerare per cosa. Senza considerare che non è la crescita a determinare lo sviluppo: è il sociale”. Migrante muore bruciato nella sua baracca di Gianmario Leone Il Manifesto, 13 giugno 2020 Nel ghetto di Borgo Mezzanone (Foggia). L’uomo, 37 anni, era originario del Ciad. È morto all’alba di ieri, carbonizzato all’interno della sua baracca: si chiamava Mohamed Ben Ali, bracciante di 37 anni originario del Chad, ed era uno dei tanti invisibili che da anni vivono nel ghetto di Borgo Mezzanone, frazione del comune di Manfredonia in provincia di Foggia. Nel quale insistono decine di baracche costruite con mezzi di fortuna, legno, plastica, lamiere, sorte accanto alla pista che un tempo costituiva una base dell’aeronautica militare, ormai dismessa. Ad accorgersi dell’incendio i vigili del fuoco presenti con una sede distaccata all’interno del Cara di Borgo Mezzanone aperto nel 2005, nato nel 1999 come roulottopoli all’epoca dell’emergenza dei profughi provenienti dal Kosovo. Giunti sul luogo e domato l’incendio, soltanto in un secondo momento si sono accorti della presenza del corpo carbonizzato del giovane originario del Ciad. Pare che Mohamed, che si faceva chiamare da tutti Bayfall, fosse molto conosciuto all’interno del ghetto, perché oltre ad avere un carattere solare, era gentile e sorridente con tutti, come hobby amava fare le treccine ai capelli dei suoi amici, oltre a vendere braccialetti ed altra piccola bigiotteria per sostentarsi. Una morte atroce, beffarda, per chi già è ridotto a vivere da anni una vita di sfruttamento e schiavitù. Una situazione atavica che riguarda migliaia di braccianti in tutta Italia ed in particolare nelle regioni del Sud. Mohamed è infatti la quinta vittima da rogo soltanto nell’ultimo anno e mezzo. Era già capitato lo scorso 4 febbraio quando a causa dello scoppio di una bombola di gas divampò un incendio che provocò la morte di una donna africana di trent’anni che riportò ustioni sul 90% del corpo. Un episodio analogo si verificò ad aprile dello scorso anno quando un rogo causo il decesso di un gambiano di 26 anni. Ancora prima il primo novembre 2018 in un altro devastante incendio perse la vita un altro giovane africano, sempre originario del Gambia. Ma l’elenco sarebbe potuto essere molto più lungo, visto che gli incendi all’interno del ghetto sono quasi all’ordine del giorno. Mancando oltre all’acqua corrente anche un allaccio per il gas e l’energia elettrica, l’utilizzo di candele (quello che forse ha causato il rogo di ieri), di stufe o fornelli elettrici è spesso causa di roghi improvvisi all’interno delle baracche. La Regione Puglia, dopo aver provveduto allo sgombero umanitario del “Gran Ghetto” ubicato tra Rignano Garganico e San Severo nel marzo del 2017, lo scorso anno ha avviato insieme alla prefettura di Foggia un capillare abbattimento delle baracche del ghetto di Borgo Mezzanone. Attraverso il Piano triennale per le politiche migratorie approvato nel 2018, sono sorte a San Severo una struttura abitativa presso l’azienda agricola di proprietà regionale “Fortore” gestita dall’associazione “Ghetto Out - Casa Sankara”, dove risiedono 400 ospiti: altri centocinquanta risiedono presso la struttura “L’Arena”. Sempre due anni fa la Giunta regionale deliberò la realizzazione di tre foresterie per i braccianti stagionali: due in Provincia di Foggia, ad Apricena e San Severo, capaci di ospitare ognuna 400 lavoratori, la terza in Provincia di Lecce, a Nardò, in grado di accogliere 200 braccianti immigrati. Ciò nonostante, il Gran Ghetto di Rignano Garganico e quello di Borgo Mezzanone sono tornati in poco tempo a ripopolarsi. A Borgo Mezzanone da anni ‘vivono’ oltre un migliaio di braccianti stagionali, sfruttati dai caporali e da aziende agricole locali nella raccolta di frutta e ortaggi. Ma demolire e abbattere, come dimostrato più volte nel recente passato, non serve a nulla se non si provvede a dare a questi braccianti una degna sistemazione abitativa. Che segue di pari passo quella riguardante il trasporto sui luoghi di lavoro: nell’agosto del 2018, in due distinti incidenti stradali verificatisi l’uno a pochi giorni dall’altro, morirono 16 braccianti. Quanto avvenuto all’alba di ieri “è frutto di una condizione inaccettabile, come lo è vivere in alloggi di fortuna, in baraccopoli e ghetti. Al di là dell’indignazione e della rabbia per quanto accaduto, crediamo che si tratti di una ennesima morte annunciata di cui esistono i responsabili” ha commentato Davide Fiatti, segretario nazionale Flai Cgil. “I ghetti vanno chiusi e trovate soluzioni abitative dignitose per i lavoratori stranieri che hanno diritto a un salario secondo contratto e di vivere in condizioni di sicurezza. Borgo Mezzanone, come altri non-luoghi, non sono degni di un paese civile, che non solo ha il dovere dell’accoglienza ma anche del rispetto delle persone. Persone di cui alcuni si accorgono solo quando mancano le braccia per lavorare nei campi. Si applichi veramente la legge 199 - conclude Fiatti - e si mettano in atto tutte le misure, straordinarie e non, per evitare il ripetersi di simili situazioni”. Egitto. Giulio Regeni, le ipocrisie dei governi di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 13 giugno 2020 Lo chiamano “caso Regeni”. Una espressione odiosa e distaccata. Giulio Regeni era un giovane ricercatore di 28 anni - impegnato sulla questione dei sindacati indipendenti egiziani - sequestrato negli ultimi giorni di gennaio del 2016, torturato e ucciso barbaramente dai servizi segreti del generale golpista Al Sisi - prese il potere nell’estate del 2013 con un golpe sanguinoso che il Nobel per la letteratura Orhan Pamuk definì “come quello di Pinochet”. Il regime militare del Cairo, dove denuncia Amnesty International ogni giorno spariscono due oppositori (v. anche l’ultima vicenda di Zaky) si è caratterizzato per depistaggi e falsità per allontanare la verità evidente sul barbaro omicidio: la responsabilità diretta di Al Sisi. Ma c’è un’altra responsabilità che non va taciuta: quella dei governi italiani che si sono succeduti in questi anni. A partire dal presidente del Consiglio Matteo Renzi che sdoganò il golpista diventato presidente egiziano, andando al Cairo e invitandolo come “uomo nuovo del Medio Oriente” in Italia; un Matteo Renzi, costretto ad impegnarsi per la verità da un vasto movimento che ha sempre visto in prima fila la famiglia Regeni; ma che in realtà fece tutto il possibile per far passare Al Sisi come “innocente” con abili interviste ad autorevoli giornali. Gentiloni era ministro degli esteri, ma non lesinò promesse, anche quando diventò presidente del Consiglio. Che, dentro una grande puzza di petrolio, promesse sono rimaste. Ereditate e peggiorate quanto a fumosità e contraddizioni poi dal governo giallo-bruno M5s e Lega. La crisi su un delitto così vergognoso è alla fine passata nelle mani del Conte bis, soprattutto in quelle del signor “voglio i pieni poteri” Matteo Salvini quando era in carica al Viminale ma di fatto guidava anche il ministero degli esteri. La sua linea sostanziale è stata sprezzante e contro ogni principio di legittimità istituzionale e democratica, convinto che “i rapporti con l’Egitto erano più importanti” della verità su Regeni e che tutt’al più questa verità riguardava la famiglia, non la democrazia italiana e l’ambasciatore in Egitto, per lui “paese sicuro”, non si toccava nonostante le richieste della famiglia Regeni. La famiglia di Giulio Regeni Smentito allora dal neo-eletto presidente della Camera Roberto Fico, che a più riprese incontrò la famiglia Regeni, e per il quale invece la vicenda era dirimente per l’Italia. Quando, nell’estate del 2019 Salvini ha subito un tracollo di credibilità per effetto delle vicende legate allatragedia dei migranti e si è consumata la rottura con i grillini, ecco che tutto è passato alla nuova, inedita compagine del Conte 2. Paradossalmente sostenuto da Matteo Renzi, dal Pd, due forze che hanno precise responsabilità in merito, ma anche dal M5s che a più riprese ha dichiarato la questione della verità su Regeni una prova del nove del governo, e dalla piccola pattuglia di LeU che su questo è stata sempre chiara, ottenendo anche l’istituzione di una commissione necessaria ad hoc presieduta da Palazzotto. Perché nel frattempo la faccia tosta del regime militare di Al Sisi, aumentava, e appariva evidente - e denunciata dagli indagatori italiani - la non collaborazione egiziana nelle indagini per la ricerca dei responsabili dell’omicidio. Nel frattempo fino ad oggi, chiacchiere a parte, l’export di armi e sistemi d’arma all’Egitto del regime di Al Sisi è cresciuto nell’arco di due-tre anni: se nel 2016 era di 7,1 milioni di euro, passava nel 2017 a 7, 4 milioni, per diventare 69 milioni nel 2018, balzando e centuplicando nel 2019 a ben 871,7 milioni di euro di affari. In modo parallelo e proporzionale alla repressione interna del “paese sicuro”, che ha 60mila prigionieri politici e che sotto Al Sisi ha aumentato a dismisura il ricorso alla pena capitale: dal 2016 al 2019 almeno 2.400 condannati a morte. E arriviamo ai nostri giorni nei quali la vendita di due navi da guerra all’Egitto, solo 48 ore fa veniva dichiarata dal ministro degli esteri Di Maio “questione aperta” con tanto di rassicurazione alla famiglia Regeni, alle parole del presidente Conte che l’ha invece rivendicata nel Consiglio dei ministri che l’ha approvata, perché Al Sisi sarebbe “nostro alleato strategico”. Alleato? Ma se è nostro nemico almeno sul fronte per noi caldissimo della Libia dove sostiene l’offensiva del generale della Cirenaica Haftar, mentre noi sosteniamo, pure in armi, il “nostro” sindaco di Tripoli Serraj; e nemico perché a capo di un regime dittatoriale e sanguinario. Sotteso alla fastidiosa puzza di petrolio, ecco allora che avviene un consapevole dietrofront governativo proprio sulle stesse posizioni che furono di Salvini: “L’Egitto è più importante e la verità riguarda la famiglia”. Tanti sono i silenzi e le irresoluzioni di questo governo Conte 2 che pure ha attraversato la stagione inedita quanto drammatica della pandemia e che è stato finora in equilibro tra arroganza confindustriale e nuova disperazione sociale. A cominciare dai nefasti decreti sicurezza che rimangono, alla condizione dei lavoratori immigrati abbandonati nei ghetti, ai limiti verso la disperazione dei profughi sempre ricondotti alla legittimità della “guardia costiera libica”, al “rischioso” ius soli per la cui giustizia tutto è rimandato. Ma stavolta questo silenzio va rotto. Davvero non ha niente da dire quella vasta realtà di deputati del M5s che sulla verità per Giulio Regeni hanno alzato la voce anche quando governavano insieme a Salvini? E la pattuglia di LeU che su questo ha sempre dichiarato la sua indisponibilità ad ogni omissis di Stato, non ha nulla non solo da dire, ma da fare per farsi ascoltare, per cercare di rendere coerente il più possibile l’adesione al governo? Un’ultima domanda al presidente Conte: ma davvero per la ripresa dopo la pandemia l’Italia, che invece pretende ora un governo di indirizzo sociale, deve continuare a primeggiare nel mercato delle armi? Egitto. Regeni, lo sfogo dei genitori: “Traditi dallo Stato italiano: il fuoco amico fa male” di Claudio Bozza Corriere della Sera, 13 giugno 2020 Il padre e la madre del ricercatore ucciso e l’affare da 1,2 miliardi firmato con il Cairo: dobbiamo lottare contro il nostro Stato per avere verità. Da Fico unica telefonata di solidarietà. “Dopo 4 anni e mezzo di menzogne e depistaggi. Lo Stato italiano ci ha tradito. Siamo stati traditi dal fuoco amico, non dall’Egitto. E da cittadino uno non si aspetta di dover lottare contro il proprio Stato per ottenere verità e giustizia”. Sono durissime le parole di Claudio e Paola Regeni, genitori di Giulio, barbaramente ucciso in Egitto, all’indomani del via libera di Palazzo Chigi alla vendita di due navi da guerra al governo di Al-Sisi. Il padre e la madre del giovane ricercatore friulano, intervistati a “Propaganda live” su La7, dicono che “la vendita di armi all’Egitto è un tradimento per tutti gli italiani e coloro che credono nella giustizia”. E poi: “Chiediamo che i cinque ufficiali della national security vengano consegnati all’Italia per essere processati: finché non otterremo questo ci sentiremo traditi”. La madre di Giulio ha poi rivelato di aver ricevuto, ieri, una chiamata dal presidente della Camera Roberto Fico (M5S), i cui parlamentari di riferimento stanno pressando il governo: “Abbiamo fiducia in Fico: ci ha ribadito che sta con noi e ci ha chiesto come stiamo. È l’unico uomo di Stato che ci ha chiamato, perché ha pensato che noi possiamo anche stare male”. Zoro, conduttore di Propaganda live, durante la trasmissione ha poi intervistato ironicamente un vaso (“Il Vaso degli Esteri”, alludendo al ministro degli Esteri Luigi Di Maio), che ha risposto con la voce dell’ex premier Enrico Letta: “È stata una brutta figura dell’Italia”, ha detto. Giovedì sera, con la tensione in maggioranza arrivata a livelli tali da mettere a repentaglio un affare da quasi 10 miliardi tra Fincantieri e Leonardo, Giuseppe Conte è stato costretto a un blitz in Consiglio dei ministri. A Palazzo Chigi, a poche ore dall’inizio degli Stati generali, il premier ha riferito sulla vicenda ai componenti del governo, per poi ufficializzare il via libera per la vendita agli egiziani della Spartaco Schergat e della Emilio Bianchi, due navi militari commissionate per la nostra Marina militare e poi dirottate verso l’Egitto in cambio di 1,2 miliardi di dollari. Ascoltando la relazione di Conte, nessuno dei ministri si sarebbe opposto all’operazione. Unica eccezione il ministro della Salute Roberto Speranza, esponente della sinistra di Leu, che, pur non presente alla riunione, ha ribadito la netta contrarietà. Se da un lato il blitz di Conte ha chiuso “economicamente” la vicenda, dall’altro ha acuito la frattura politica all’interno dei due principali alleati di governo: Pd e M5S. Il ministro Dario Franceschini, capo delegazione dei dem nell’esecutivo, per provare a contenere il danno ha chiesto a Conte una “iniziativa pubblica” per garantire che l’Italia andrà avanti nella ricerca della verità sulla morte di Giulio. Critica la posizione di Lia Quartapelle, capogruppo del Pd in commissione Esteri: “Il governo deve chiarire quali sono le linee della nostra politica nei confronti dell’Egitto - spiega. Con le missioni internazionali stiamo aumentando il sostegno alla guardia costiera libica del governo di Tripoli, mentre vendendo le navi all’Egitto rafforziamo la capacità navale del Cairo, che combatte il governo di Tripoli”. Mentre l’ordine del giorno di Matteo Orfini, altro dem critico, ha già raccolto 500 firme per chiedere al partito di fermare la vendita delle due navi da guerra. Afghanistan. Crimini di guerra, Trump contro la Cpi: “Non può giudicarci” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 13 giugno 2020 Gli Stati Uniti attaccano la Corte penale internazionale e annunciano sanzioni contro i suoi funzionari. Ieri, in una nota ufficiale, la Casa Bianca ha reso noto che sono autorizzate “sanzioni economiche contro i funzionari della Corte penale internazionale (Cpi) direttamente coinvolti in qualsiasi sforzo per indagare o processare personale americano senza il consenso degli Usa”. Inoltre vengono inasprite le restrizioni riguardo i visti di funzionari della stessa Corte e il provvedimento viene esteso ai loro familiari. Gli Usa hanno deciso di percorrere questa strada dopo che all’inizio dello scorso marzo la Cpi aveva dato il via libera ad un’inchiesta su presunti crimini di guerra commessi in Afghanistan a partire dal 2003. Le indagini erano state affidate al giudice polacco Piotr Józef Hofmanski ma nel mirino di Trump c’è forse un’avversaria più tenace e politicamente “pericolosa”. Si tratta della giurista gambiana Fatou Bensouda che già nel 2017 aveva tentato di indagare sulle violazioni in Afghanistan da parte dell’esercito statunitense per vedere però respinte le sue intenzioni due anni dopo. La richiesta è stata nuovamente portata in appello quest’anno e i giudici hanno ribaltato le precedenti decisioni. Il caso in esame infatti riguarda accuse molto gravi, si parla di veri e propri crimini di guerra commessi dalle forze di sicurezza nazionali afghane, dai combattenti talebani e appunto anche dalle forze statunitensi. Secondo il procuratore Bensouda alcuni membri delle agenzie militari e di intelligence Usa “hanno commesso atti di tortura, trattamento crudele, oltraggi sulla dignità personale, stupro e violenza sessuale contro i detenuti legati al conflitto, principalmente nel 2003- 2004”. Per tutto questo è stata promessa un’indagine indipendente e imparziale che stabilisca la verità. Evidentemente ciò è intollerabile per Washington. In realtà gli Stati Uniti affermano che la Cpi non ha nessuna giurisdizione sui militari americani e che il paese non fa parte dello Statuto di Roma cioè il trattato internazionale, firmato nel 1998 da 139 stati, (entrato in vigore nel 2002) con il quale si istituiva la Corte stessa. Per questo motivo alla Bensouda è già stato negato il visto d’ingresso e il suo lavoro è finito sotto la lente d’ingrandimento del segretario di Stato Mike Pompeo il quale ha dichiarato recentemente che “il lavoro della Corte è un attacco allo stato di diritto americano”. Una linea peraltro sostenuta anche dall’amministrazione di George W. Bush nei primi anni 2000. La Cpi ha reagito duramente alle sanzioni Usa affermando in un comunicato che questo “rappresenta anche un attacco contro gli interessi delle vittime di crimini di atrocità, per molti dei quali la Corte rappresenta l’ultima speranza di giustizia”. Per i giudici internazionali il mondo è davanti ad “un tentativo inaccettabile d’interferire con lo stato di diritto e con i procedimenti della Corte”. Ma lo scontro non si gioca solo attraverso i codici perché si sta creando una divaricazione anche a livello geopolitico tra gli Usa e altre nazioni occidentali. I primi ad applaudire ai provvedimenti di Trump sono stati gli israeliani mentre per il capo della politica estera europea, Josep Borrell, l’atteggiamento americano è “una questione che desta grave preoccupazione”, una linea sposata anche dalle Nazioni Unite e dal relatore speciale sulla tortura Nils Melzer: “Che processo doloroso, guardare una nazione grande e stimolante trasformarsi in uno stato canaglia”. Siria. Le vedove dell’Isis diventano sarte Redattore Sociale, 13 giugno 2020 Un progetto, supportato da Arci Firenze, tutto al femminile, nel campo profughi Roj. Saranno le donne vedove o parenti degli ex combattenti dell’Isis ad essere coinvolte nella costruzione della società democratica nel nordest della Siria. Arci Firenze torna in Rojava con un innovativo progetto, tutto al femminile, nel campo profughi Roj. L’ambizioso obiettivo del progetto è quello di contribuire a promuovere una cultura di Pace e convivenza democratica nel Cantone di Jazira nel Nord della Siria, attraverso il coinvolgimento lavorativo, culturale e ricreativo delle familiari dei combattenti dell’ISIS nella costruzione del Confederalismo Democratico. Saranno le donne vedove o parenti degli ex combattenti dell’ISIS ad essere coinvolte nella costruzione della società democratica nel nordest della Siria, attraverso varie attività che condivideranno con il Congresso del movimento delle donne della Siria del Nord e dell’Est (Kongreya Star). “Nell’ideare questo progetto - spiega Manfredi Lo Sauro, responsabile per le politiche di solidarietà internazionale di Arci Firenze - abbiamo ritenuto che solo attraverso il diretto coinvolgimento di queste donne nell’ideazione e nell’organizzazione della loro nuova vita le si potrà sottrarre all’ideologia jihadista e solo attraverso il cambiamento del loro modo di pensare si potrà garantire un futuro pacifico e dignitoso sia per loro che per tutta la popolazione della Regione”. Le azioni del progetto - Il progetto “Campo profughi Roj. Un futuro comune di Pace” si pone così tre obiettivi specifici: costituire una cooperativa di sartoria per le donne parenti degli ex combattenti dell’ISIS, l’attivazione di un corso di salute femminile e l’allestimento di uno spazio culturale ed un centro sportivo all’interno del campo profughi Roj. I due corsi di sartoria professionale coinvolgeranno circa 50 donne ciascuno e forniranno la base sociale, oltre a 39 donne già formate in precedenza, per lo sviluppo lavorativo di una Cooperativa che darà lavoro e una nuova prospettiva di vita alle beneficiarie del progetto. Il corso di salute femminile, che coinvolgerà 50 donne per un semestre, verrà realizzato grazie alla collaborazione con Heyva Sor a Kurdistanê - Rojava e comprenderà le nozioni fondamentali della ginecologia, dell’ostetricia, di igiene e di tutte quelle discipline mediche che siano ritenute importanti dalle beneficiarie per garantire una maggiore consapevolezza dei propri bisogni e diritti. L’allestimento del centro culturale per donne e bambini e bambine rappresenterà invece uno spazio fisico dove le varie donne del campo profughi Roj possano conoscersi e raccontare il proprio vissuto, mettendo in comune le difficili esperienze personali, per poter superare le differenze e lavorare per la loro emancipazione e il loro benessere. Una parte molto importante di questo centro sarà lo spazio dedicato alla crescita culturale e ludica dei più piccoli, per consegnargli uno sguardo positivo nel loro contesto difficile e sottrarli all’influsso dell’ideologia jihadista salafita. Il campo profughi ospiterà inoltre uno spazio per praticare sport. “Dopo la costruzione della Biblioteca di Kobane torniamo in Siria del Nord con un nuovo progetto che coinvolgerà direttamente oltre 150 donne - spiegano Arci Firenze e Uiki Onlus - Lavorando con loro ed anche con i bambini e le bambine il progetto rappresenta un’opera di grande importanza per quel territorio e non solo, sottraendo potenziali miliziani e combattenti ai gruppi jihadisti e favorendo invece i valori alla base del Confederalismo democratico che noi da sempre soteniamo”. Il Comitato Arci di Firenze ha inoltre lanciato un’iniziativa in più per sostenere il crowdfunding “Dalla parte dei curdi” su produzionidalbasso.com, promosso da Arci Nazionale e Uiki onlus. Mascherine lavabili con il logo Arci “Resistenza Virale” sono state prodotte e saranno in vendita a 5 euro presso la sede Arci di Piazza dei Ciompi a Firenze. Con l’acquisto delle mascherine si supporterà la raccolta fondi per far fronte all’emergenza covid in Rojava, aiutando a far arrivare dispositivi di protezione alla popolazione del nord della Siria. Per prenotare le mascherine si può chiamare il numero 055262970. San Salvador. La giustizia giusta di Almudena Bernabéu di Paolo Lepri Corriere della Sera, 13 giugno 2020 L’avvocatessa spagnola è riuscita a portare sul banco degli imputati a Madrid il militare salvadoregno che ordinò la strage dei sei gesuiti nel 1989. Il suo gruppo si chiama “Guernica”, perché “è un nome che ricorda la resistenza civile contro le atrocità”. Se l’ex viceministro della sicurezza pubblica salvadoregna Inocente Montano, che ordinò il massacro dei sei gesuiti compiuto il 16 novembre 1989 nell’Università Centroamericana, è sul banco degli imputati a Madrid - mascherina azzurra e maglione a righe orizzontali bianche e grigie - il merito è soprattutto di una persona: Almudena Bernabéu, direttrice di “Guernica Group”, un’organizzazione di avvocati impegnata nella giustizia transnazionale. È stata lei ad ottenere che il mandante di quella strage, arrestato negli Stati Uniti per violazione delle norme sull’immigrazione, venisse estradato in Spagna nel 2017. Nei giorni scorsi è iniziato il processo. L’avvocatessa di Alicante, 48 anni, lo seguirà in streaming da San Francisco (dove vive e lavora), un po’ dispiaciuta per il venire meno, come ha detto a El País, del “potere simbolico e di risarcimento che si crea per le vittime con l’arrivo dell’imputato in aula”. Sono passati oltre trent’anni ma non è facile dimenticare la barbarie di un attacco che aveva l’obiettivo di sabotare i negoziati di pace e che fu pianificato per attribuirne la responsabilità ai guerriglieri dell’Fmln. Ma gli assassini non riuscirono nel loro intento. L’uccisione dei sei religiosi - cinque spagnoli e un salvadoregno, strappati dai loro letti nella notte e colpiti ripetutamente nel cortile dell’università insieme alla cuoca e alla figlia sedicenne della donna - scatenò un’ondata di proteste nel mondo e divenne una delle ragioni alla base della decisione statunitense di revocare il sostegno al regime militare del Paese centroamericano. Almudena Bernabéu ricorda oggi che i provvedimenti di amnistia approvati nel Salvador hanno impedito che altri responsabili venissero perseguiti. “È stato un crimine - ha detto al Guardian - che fa capire cosa significhi l’impunità”. Trai casi di cui si è occupata, Almudena Bernabéu ha svolto un ruolo determinante nella condanna dell’ex dittatore guatemalteco Efraín Ríos Montt per il genocidio degli indigeni maya. Il suo gruppo si chiama “Guernica” per un omaggio al gesuita Jon de Cortina, scampato tanto ai bombardamenti del 1937 contro la città basca quanto alla strage in Salvador. “Questo nome ricorda - ha osservato - il valore della resistenza civile contro le atrocità”. E, aggiungiamo, la memoria indelebile del passato. Stati Uniti. Le canzoni della prigione di Folsom di Stefano Bocconetti Il Manifesto, 13 giugno 2020 Nove detenuti della nuova prigione di Folsom, nota anche per il celebre brano di Johnny Cash, hanno composto le tredici canzoni raccolte in un album dalla cantautrice canadese Zoe Boekbinder. Il ricavato delle vendite alle associazioni per i diritti in carcere. Nove persone per rappresentarne altre due milioni. Tanti quanti sono i detenuti nelle prigioni americane, il 25 % della popolazione carceraria nel mondo. Nove persone per tredici testi. Li ha raccolti Zoe Boekbinder, una giovane cantautrice, nata in Canada ma vissuta da piccola coi genitori in un caravan lungo le highway statunitensi, prima di fermarsi in Louisiana. Ha girato ovunque, è stata per un po’ anche in California. Qui, mentre suonava col fratello nelle prime band, sei anni fa, ha deciso di fare la volontaria alla New Folsom Prison, a Sacramento. Il nuovo penitenziario bianco ed anonimo che sorge proprio accanto a quello immortalato da Johnny Cash. Ha fatto la volontaria, ha suonato in carcere, ha insegnato ai detenuti - è un istituto solo maschile - a scrivere poesie e canzoni. La direzione però le ha sempre negato il permesso di portare un registratore, ha sempre negato il permesso di poter incidere qualcosa dentro il New Folsom Prison. Lei non si è persa d’animo. Ha raccolto i testi scritti da quelle nove persone, quelli che frequentavano il suo corso. Poi, fuori, ha messo insieme un vero e proprio collettivo di musicisti, The Prison Music Project, ed ha trovato una produttrice: la sua amica Ani Di Franco. Sei anni di lavoro, e all’inizio di giugno la Righteous Babe Records - appunto la casa discografica della Di Franco - ha fatto uscire “Long Time Gone”. Tredici brani, perché alcuni detenuti hanno scritto più di un testo. Un album certo non omogeneo, proprio perché quelle parole - e quei suoni - spaziano dai sogni alle denunce, dai desideri alla resa. Dalla poesia alla rabbia. Tanta rabbia, soprattutto rabbia; per un sistema che “manda dietro le sbarre chi non ha nulla, per un sistema che ti costringe ad arrangiarti per sopravvivere e poi ti rende schiavo”. C’è così il brano rappato da Abram Banks, che potrebbe essere un manifesto delle rivolte di questi giorni; o c’è la rassegnazione di “Monster”, cantata dalla stessa Boekbinder, sopra un tappeto di chitarre e violini che acuisce l’atmosfera cupa. C’è il blues del Delta, “Coffin Song”, interpretato da Doc Gattis. E c’è l’urlo disperato di “I Can’t Breathe” - sì, si chiama proprio così il brano ed è stato scritto dopo l’assassinio di Eric Garner -: è recitato, non cantato. Recitato da Sincere e Baby Shell Dog, gli speudonimi di due detenuti che nel frattempo sono riusciti ad uscire dall’inferno. Una poesia ritmata da un battito monocorde e da un sibilo in sottofondo, che diventa lamento. E ancora, fra gli altri, c’è l’atmosfera rarefatta di “Nowhere But Barstow and Prison” interpretata da Ani Di Franco. E c’è poi “Midnight Deal”, forse il brano più intrigante: dove le chitarre elettriche, guidate dalla voce “sporca” di Zoe Boekbinder, diventano via via più incalzanti. Dirompenti. Taglienti. Fin quasi a segare quelle sbarre. Il ricavato delle vendite di “Long Time Gone” andrà interamente alle associazioni a sostegno dei carcerati.