Quando lo Stato rompe il muro carcerario di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 12 giugno 2020 Ogni qualvolta c’è un’inchiesta per pestaggi o abusi nei confronti di persone private della libertà tendiamo a sorprenderci positivamente. Non c’è mai da esultare quando parte un’inchiesta penale, anche quando questa riguarda episodi come quelli avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Dovrebbe invece essere normale che a fronte di un reato grave, come maltrattamenti o tortura, la macchina investigativa e giudiziaria dello Stato non si fermi davanti ai cancelli delle prigioni. E tortura, sembra, sia una delle fattispecie di reato imputate ai quarantaquattro agenti di Polizia Penitenziaria, per le violenze e i pestaggi subiti immediatamente dopo le proteste nate nella fase più dura del lockdown. L’inchiesta ci rassicura rispetto a uno Stato che non rinuncia, nel nome dello spirito di corpo, a indagare dentro le proprie istituzioni. Il presente, però, è anche quello tutto sommato prevedibile dell’ex ministro degli Interni che porta la sua solidarietà pregiudiziale a favore di persone indagate per tortura. Matteo Salvini ripete un ritornello che aveva già cantato qualche tempo fa davanti al carcere di San Gimignano, quando portò la sua vicinanza politica ad alcuni poliziotti penitenziari, anche lì sotto indagine, per tortura. Salvini si sta contrapponendo a giudici e Carabinieri pur di difendere presunti torturatori. Usa argomenti e parole inesatte volendo derubricare le violenze a reazioni necessarie per bloccare le proteste dei detenuti. Solo che tra le une e le altre trascorsero circa 24 ore. Dopo le proteste e le rivolte di marzo-aprile, fortunatamente in poche carceri, sarebbe scattata una vendetta punitiva contro i detenuti. Ciò pare sia accaduto anche a Santa Maria Capua Vetere. Antigone presentò allora tre esposti - uno riguardava l’istituto campano - per violenze e torture, avvertendo sempre per tempo l’amministrazione penitenziaria. Trovammo da subito un pezzo di Stato - istituzioni di garanzia, magistrato di sorveglianza - in prima fila nella protezione della legalità intra-muraria. L’inchiesta anche in questo senso ci conforta. Nel futuro, in primo luogo bisogna, proteggere tutti coloro che hanno avuto il coraggio della denuncia dal rischio di rappresaglie e in secondo luogo sperare che si rompa quel muro di omertà che, in luoghi chiusi e sottratti agli sguardi, rende difficile l’accertamento dei fatti. Infine, tre osservazioni 1) Qualora l’inchiesta vada avanti ci auguriamo che il ministero della Giustizia chieda di costituirsi parte civile e lo facciano anche le organizzazioni sindacali rappresentative della Polizia penitenziaria. 2) Le affermazioni di Salvini che esprime solidarietà a presunti torturatori dovrebbero interrogare i gestori di Facebook. Per qualcosa di simile Twitter ha bacchettato Trump negli Usa. 3) in Italia finalmente esiste il crimine di tortura e i giudici lo imputano anche a esponenti delle forze dell’ordine. Così il coronavirus è rimasto fuori dal carcere di Simone Lonati* e Carlo Melzi d’Eril** lavoce.info, 12 giugno 2020 Nelle carceri italiane la diffusione del coronavirus è stata contenuta. Anche prima dei provvedimenti del governo, i magistrati di sorveglianza hanno utilizzato norme già presenti nel nostro ordinamento per garantire la salute di detenuti e personale. L’emergenza sanitaria ha sollevato la questione della tenuta del sistema penitenziario del nostro paese. Un sistema malato da tempo e che all’arrivo della pandemia era caratterizzato da un tasso di affollamento pari al 120,2 per cento - secondo i dati ufficiali, considerati sottostimati rispetto a quelli reali. In una situazione già di per sé compromessa, è intervenuta la minaccia di un virus contro cui le uniche armi a disposizione sono il distanziamento sociale e una corretta igiene personale. A leggere alcuni dei dati pubblicati in questi giorni da Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, la preoccupazione che il carcere potesse rappresentare il luogo ideale per l’esplosione di focolai di contagio, al pari di quanto successo nelle residenze sanitarie assistenziali, era più che fondata. Basti guardare, ad esempio, al tasso di affollamento negli istituti penitenziari situati nelle regioni più colpite dal virus: il 140,7 per cento in Lombardia, il 135,8 per cento in Veneto, il 130,3 per cento in Emilia Romagna. Oppure, alle inadeguate condizioni igieniche in cui è costretta a vivere una popolazione detenuta composta per il 25 per cento da over 50 e per il 67,5 per cento da persone con almeno una patologia: celle senza acqua calda (dato rilevato in 45 carceri su 98 tra quelle visitate dall’associazione nel 2019), con servizi sanitari a vista in cella (in 8 istituti su 98) e con l’accesso alla luce del giorno e all’aerazione degli ambienti ridotto, se non del tutto compromesso, dalla presenza di schermature alle finestre (in 29 penitenziari su 98). Eppure, le carceri italiane non hanno (finora) rappresentato focolai di diffusione del virus. Anzi, i dati fotografano un numero di contagi in linea, se non inferiore, rispetto a quelli di altri paesi europei: in Italia fino al 15 maggio i detenuti positivi erano 119 e gli operatori penitenziari 162, contro i 410 contagi tra detenuti e agenti in Francia all’8 maggio e 378 positività nelle carceri spagnole al 12 maggio. D’altronde, la maggior parte dei paesi europei ha avuto il merito di prevedere il potenziale impatto devastante che il virus avrebbe potuto causare all’interno delle carceri, riuscendo a limitarne la diffusione. Due i principali fronti sui quali si è agito: interruzione dei contatti con l’esterno tramite il divieto di colloqui con i famigliari; scarcerazione di detenuti particolarmente anziani e con patologie pregresse, di quelli con un minimo residuo di pena da scontare e di quelli reclusi per reati minori o non violenti. Al contrario, proprio laddove non si è intervenuti con decisione, si riscontrano i numeri di contagio più alti: il Regno Unito, dove al 12 maggio erano stati rilasciati soltanto 88 carcerati, detiene il triste record europeo del maggior numero di contagi all’interno degli istituti penitenziari, con 837 positivi e 29 morti tra detenuti e personale penitenziario. Per non parlare poi degli Stati Uniti, dove è stato scarcerato solo l’1,8 per cento della popolazione detenuta (meno di un decimo rispetto a quanto fatto in Italia e in Francia) e dove al 5 maggio i detenuti e gli operatori penitenziari risultati positivi al virus erano rispettivamente 21 mila e 9 mila, con ben 319 decessi segnalati. Il ruolo della magistratura di sorveglianza I dati raccolti da Antigone ci raccontano, tuttavia, qualcosa di più. Dimostrano come il contenimento della diffusione dell’epidemia nelle carceri del nostro paese sia solo in parte dipeso dalla legislazione d’emergenza adottata dal governo a fine marzo, con l’emanazione degli articoli 123 e 124 del decreto “cura Italia” (poi convertito con legge n. 27 del 24 aprile 2020) e l’applicazione di iter più snelli per l’accesso alla misura della detenzione domiciliare previsto dalla legge 199/2010 per chi doveva scontare una pena residua inferiore ai 18 mesi, assieme alla concessione di permessi premio per chi già si trovasse in semilibertà, con durata sino al 30 giugno 2020. Fin dalla fine di febbraio un ruolo preponderante, infatti, è stato svolto dalla magistratura di sorveglianza. Nella consapevolezza del potenziale impatto che il diffondersi del contagio avrebbe prodotto all’interno degli istituti penitenziari, i giudici hanno adottato una serie di provvedimenti facendo ricorso a strumenti già esistenti nel nostro sistema giuridico: in particolare gli istituti dell’affidamento in prova, della detenzione domiciliare previsti dagli articoli 47 e 47-ter della legge sull’ordinamento penitenziario e il differimento della pena ai sensi dell’articolo 147 codice penale. Nello specifico: da fine febbraio al 19 marzo, pur in assenza degli interventi emergenziali del governo, il numero di detenuti è calato di 1.811 unità, con una media di 95 persone in meno al giorno; dal 19 marzo al 16 aprile, anche a seguito dell’entrata in vigore del decreto legge “cura Italia”, si è registrato un calo di 4.421 detenuti, 158 persone in meno al giorno; infine, dal 16 aprile in poi, con lo scoppio delle polemiche sulle “scarcerazioni facili”, si è avuto un rallentamento delle uscite, con una media di 77 persone in meno al giorno. In un sistema in cui il tasso di occupazione delle nostre carceri rimane a tutt’oggi pari al 107 per cento con alcune situazioni drammatiche a livello locale, come ad esempio negli istituti penitenziari di Latina (179,2 per cento) o di Taranto (187,6 per cento), la crisi sanitaria ha quindi messo in luce l’importanza del clima culturale in cui gli operatori del diritto si trovano a lavorare. Senza attendere gli strumenti predisposti per l’emergenza, i magistrati di sorveglianza sono stati in grado di ricorrere alle disposizioni normative già presenti nel nostro ordinamento giuridico, dimostrando come attraverso un utilizzo costituzionalmente orientato di alcuni istituti ordinari sia comunque possibile contribuire a costruire un sistema carcerario in cui siano garantite la salute dei detenuti e l’umanità del trattamento al quale sono sottoposti. E forse, se analogo sforzo di adesione alla lettera delle disposizioni e alla ratio dei principi fosse speso nella richiesta e nella applicazione della misura cautelare della custodia in carcere, anche il problema del sovraffollamento potrebbe essere in buona parte risolto. *Assistant Professor di Procedura penale e Procedura penale europea presso l’Università Commerciale Luigi Bocconi **Dottore di ricerca in procedura penale e avvocato in Milano Costi, dolore e inefficacia: le carceri italiane non funzionano, serve un altro modello di Sergio Abis* linkiesta.it, 12 giugno 2020 Esistono alternative agli istituti pensati solo per rinchiudere. Non si ricorda mai abbastanza che la prigione deve portare anche al recupero del condannato. Qual è, allora, la ratio della Casa circondariale, della galera? Qual è il senso della detenzione anche al di là dell’articolo 27 della Costituzione repubblicana che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”? Qual è la convenienza della società, della collettività dei cittadini, nel tenere in gattabuia una gran massa di esseri umani, spendendo cifre iperboliche, con la certezza che ne usciranno, nella migliore delle ipotesi (poco probabile), esattamente come ci sono entrati, pronti a riprendere il crimine? Non sarebbe più logico, o meno stupido, spendere meno e rieducare i detenuti, come mostra di saper fare questo bizzarro posto ricco di ulivi e bellezza, diminuendo il numero di delinquenti a spasso a tutto vantaggio della tanto invocata sicurezza? E tutto ciò senza le ubbie buoniste dei radical chic, sempre pronti al perdonismo esaspera­to, o dei soliti preti d’assalto con il Vangelo in mano: solo sana, italica, fondata concretezza. Soldi, insomma. Mi pare di udirlo, il demagogo di turno, che tra un tweet e un post su Facebook, una foto su Instagram e un messaggio su Telegram, tuona alla televisione: è ora di fi­nirla con la pacchia delle carceri, che ci costano 135 euro al giorno per detenuto e prevedono anche la televisione a colori in cella! Da ora in poi spenderemo la metà, perché chi sbaglia paga! Bene, sono d’accordo: spendiamo la metà, abbondiamo e facciamoli anche lavorare, così imparano. Altro che oziare tutto il santo giorno in branda tra una partita a carte e una visita alla sala hobby per far finta di dipingere un quadro. E niente televisione in camera: chi si credono di essere? Il signor demagogo si preoccupa se, come corollario, riusciamo anche a far sì che diventino persone migliori, o questo non è rilevante? Non è interessato? Fa nulla, lo siamo noi. Mandateli in questo posto, previa verifica delle loro reali intenzioni (perché anche se il posto è bello, o forse proprio perché è così bello, non è facile entrarci, bisogna dotarsi di volontà forte), e avrete ciò che aspettate: qui lavorano, pagano il proprio mantenimento, non mangiano a ufo come in carcere; osservano regole ferree di comportamento in tema di rapporti umani, non sono li­beri di andare dove credono e la televisione, solo una per tutti, è concessa per pochi minuti al giorno, nella sala comune; e poi presto a letto e presto in piedi perché si lavo­ra, ergo sveglia alle sei e mezzo. Tanto è duro, questo carcere così bello, che certuni rinunciano e preferiscono le sbarre, la cella, a dimostrazione che per uscire dalla collana senza fine di carcerazioni e delitti ci vuole una forte volon­tà, una gran convinzione ma, soprattutto, un’opportunità. Certo, se poi si desidera ardentemente che il detenuto soffra - violando la Costituzione che lo vieta, detto per inciso - allora è un altro paio di maniche. Spendiamo e spandiamo pure, facciamoli soffrire. E poco importa se saranno soldi buttati via e se, a fine pena, avremo ottenuto il prestigioso risultato di rimettere in giro delinquenti provetti che causeranno danni alla comunità, insicurezza e altre spese, tra forze dell’ordine impegnate a catturarli e carceri che dovranno, posto che si riesca ad acciuffarli, tenerli segregati ancora una volta. In attesa della successiva, come un’infinita partita a Monopoli in cui il passaggio dal via venga ogni tanto interrotto da una sosta in prigione, poi si riprende come prima. Su questo poco si può fare. Se è la vendetta, l’odio, la rabbia a guidare le azioni dei cittadini, allora non c’è ragionamento che tenga, il livore cancella tutto e tutto abbatte. Eppure anche per questo possiamo provare a suggerire domande scomode. Ad esempio: siamo poi così sicuri che la sofferenza che riteniamo di imporre ai detenuti colpisca i delinquenti più pericolosi? Quelli che hanno, più di altri, causato sofferenza alle persone che altra ne chiedono in cambio? O non sarà che, come nella nostra società di cui ci di­chiariamo tanto orgogliosi da invocare vendetta contro coloro che ne violano le leggi, è in fondo sempre il debole che finisce per pagare il prezzo più elevato? L’ultimo, il reietto? *Tratto da “Chi sbaglia paga”, di Sergio Abis, Chiarelettere, 2020. Teniamo alta l’attenzione sul problema delle carceri di Angelica Stramazzi L’Occidentale, 12 giugno 2020 Uscire dal guado si può. Ecco la strategia. Parlare di carcere in Italia non è cosa agevole. Esattamente dieci anni fa, l’Occidentale poneva tale questione all’attenzione di istituzioni e decisori pubblici, con l’obiettivo primario di eliminare storture e inefficienze del nostro sistema giudiziario. Le proposte avanzate erano diverse e tutte degne di essere prese in considerazione, ma - ci teniamo a dirlo - in pochi si sono presi la briga di leggerle e trasformarle in realtà, con il risultato che oggi il sistema carcerario è al collasso. Durante i mesi di lockdown, sempre da queste colonne abbiamo raccontato ciò che accadeva negli istituti di pena italiani, narrando con dovizia di particolari la situazione in cui versavano i detenuti. Nel periodo di maggior diffusione del virus infatti, a causa delle misure restrittive imposte dal governo e nello specifico dal ministro della Giustizia, si sono verificati in diversi istituti carcerari episodi di violenza. Si è trattato di casi in cui i detenuti sono ricorsi all’uso della forza per protestare contro il divieto di vedere i propri familiari, misura questa imposta per limitare i contagi da Covid-19. Non è tutto. Oltre a tali vicende, si è registrato un aumento del numero dei sucidi: alcuni detenuti hanno abusato di farmaci o psicofarmaci fino a togliersi la vita. Nella prefazione al libro di Annalisa Chirico, “Condannati preventivi”, Vittorio Feltri ha scritto che “il più alto tasso di suicidi non si registra fra gli ammalati terminali, ma fra i detenuti, specialmente quelli in custodia cautelare. Il dato dovrebbe insegnare qualcosa, invece passa inosservato, perché un uomo in galera non è più un uomo, come nei campi di sterminio di triste e tragica memoria”. La diffusione del Coronavirus però ha fatto sì che detenuti e detenute ricorressero alla solidarietà per aiutarsi gli uni con gli altri, dando una mano anche ai più bisognosi. I nostri lettori ricorderanno il racconto dell’episodio dei detenuti di Bollate che, in piena pandemia, hanno raccolto generi di prima necessità da donare al Banco Alimentare. Insomma, il carcere non è solo distruzione e violenza, ma se visto con gli occhi di chi sa apprezzare anche i piccoli gesti, può diventare un serbatoio di speranza e civiltà. Ultimamente di carcere ha parlato anche l’associazione Azienda Italia che, nel proprio piano strategico “Italia 2050”, prevede un punto specifico sul tema. In buona sostanza, per i cofondatori la pena detentiva non deve mai generare una perdita di dignità nei confronti dell’individuo che la subisce; per evitare che questo si verifichi, occorre trasformare le carceri in istituti in grado di produrre lavoro e rieducare i soggetti reclusi. “Come associazione - ha precisato al nostro giornale Andrea Minazzi, vice presidente e segretario di Azienda Italia - tocchiamo tutto ciò che è socioeconomia e uno dei grandi problemi oggi sono le carceri; noi dobbiamo intervenire e restituire dignità alle persone che non possono essere rinchiuse in dei buchi come bestie. Quando queste persone scontano la pena, nessuno pensa al reinserimento sociale ma si pensa a svuotare le carceri. Oggi il carcere ha un costo enorme senza garantire dignità alle persone che vi sono recluse”. E se Azienda Italia mira anche al coinvolgimento di soggetti privati per far sì che dal carcere possano nascere opportunità di lavoro per i detenuti, non va dimenticato l’apporto dei volontari all’interno degli istituti detentivi. Il detenuto, se da un lato è una persona che ha sbagliato e per questo sta scontando una pena, dall’altro è un individuo che ha bisogno di ascolto, solidarietà e accoglienza. Ben vengano quindi proposte come quelle avanzate da Azienda Italia: solamente cooperando tutti insieme potremo delineare un futuro migliore. Anche all’interno delle carceri italiane. I detenuti potranno telefonare ai figli anche tutti i giorni Corriere della Sera, 12 giugno 2020 Una telefonata al giorno non accorcia la pena né allunga la vita, ma può renderle migliori: è stato approvato ieri in commissione l’emendamento all’articolo 39 dell’ordinamento penitenziario che consentirà ai detenuti di poter passare dalla telefonata settimanale di dieci minuti ai propri familiari a quella quotidiana almeno a beneficio di chi ha figli minorenni, o maggiorenni ma con disabilità, o familiari ricoverati. Un beneficio che esclude i detenuti sottoposti all’articolo 41bis o condannati per reati associativi connessi al 4bis, ma che può davvero significare molto per migliaia di altri. L’approvazione definitiva in Senato è prevista per martedì. L’emendamento, che ha come primo firmatario il senatore pd Franco Mirabelli, nasce da un incontro con i detenuti del reparto La Nave di San Vittore che avevano presentato questa richiesta a un gruppo di parlamentari di maggioranza e opposizione. La telefonata quotidiana era diventata nei mesi scorsi, almeno a San Vittore, una prassi per compensare le limitazioni ai colloqui legate al Covid. “Queste norme - ha detto Mirabelli - contribuiranno a rendere più degna la vita dei detenuti in Italia”. Covid e scarcerazione dei boss. Giulio Starnini audito in Commissione antimafia di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 12 giugno 2020 Il direttore dell’Unità di Medicina protetta dell’ospedale Belcolle di Viterbo, Giulio Starnini, è l’autore dell’elenco di malattie poi finito nell’ormai famosa nota del Dap ai penitenziari il 21 marzo scorso. La commissione di Nicola Morra vuole chiarire cosa è successo nelle settimane di febbraio e marzo al vertice del Dap, ancora diretto da Francesco Basentini. L’ex pm di Potenza si è dimesso tra le polemiche l’1 maggio, e la stessa cosa ha fatto Romano alcuni giorni dopo. L’ex direttore generale dell’Ufficio Detenuti e Trattamento viene citato più volte nell’audizione del direttore dell’Unità di Medicina protetta dell’ospedale Belcolle di Viterbo, Giulio Starnini. È l’autore dell’elenco di malattie poi finito nell’ormai famosa nota del Dap ai penitenziari il 21 marzo scorso. Da quel momento i giudici cominciarono a concedere i domiciliari a una serie di boss mafiosi. “Dottore, per cortesia giorni fa mi ha inviato per le vie brevi un elenco di malattie per le quali i detenuti sono particolarmente esposti in caso di contagio. Sto spiegando al ministero l’importanza di una norma che faciliti la detenzione domiciliare per detta categoria di detenuti. Tuttavia vogliono per approfondire il tema qualcosa di più formale e ufficiale”. È il 18 marzo del 2020 e l’allora direttore generale Detenuti del Dipartimento amministrazione penitenziaria, Giulio Romano, scrive al direttore dell’Unità di Medicina protetta dell’ospedale Belcolle di Viterbo, Giulio Starnini. L’elenco delle malattie, altro non è che la lista delle patologie che espongono al rischio contagio del coronavirus i detenuti. Solo che in quell’elenco finisce anche una determinata condizione che patologia non è: avere più di 70 anni. Quell’elenco di patologie stilato da Starnini, infatti, tre giorni dopo finirà nell’ormai nota circolare del Dap, che sarà citata più volte nei provvedimenti dei giudici di Sorveglianza con i quali saranno concessi gli arresti domiciliari a decine di appartenenti alla ‘ndrangheta, a Cosa nostra e alla Camorra. Boss che erano reclusi al 41bis e soprattutto in regime di Alta sicurezza. Un’emergenza, quella delle scarcerazioni dei mafiosi, che nel frattempo è stata limitata dai nuovi vertici del Dap: il capo Dino Petralia e il vicecapo Roberto Tartaglia sono riusciti - anche grazie al decreto del ministro Alfonso Bonafede - a riportare in carcere la maggior parte dei pericolosi boss usciti durante l’epidemia. Il Fatto quotidiano ha raccontato quali fossero i pericoli legati a quella nota dell’Amministrazione penitenziaria e le clamorose scarcerazioni ordinate dai giudici di Sorveglianza nei mesi successivi. Un mese dopo la diffusione di quella circolare, i vertici della gestione carceraria hanno definito quel documento come un semplice monitoraggio della situazione epidemiologica in carcere. Un modo per vigilare sulle condizioni dei detenuti. L’Antimafia non la pensa così. La commissione di Nicola Morra vuole chiarire cosa è successo in quelle settimane di febbraio e marzo al vertice del Dap, in quel momento diretto da Francesco Basentini. L’ex pm di Potenza si è dimesso tra le polemiche l’1 maggio, e la stessa cosa ha fatto Romano alcuni giorni dopo. Proprio per ricostruire quelle settimane di caos, l’organo parlamentare di palazzo San Macuto sta audendo medici, investigatori ed ex dirigenti del Dap. “L’intenzione è procedere la prossima settimana alle audizioni di Nino Di Matteo, Sebastiano Ardita, ma anche di Romano”, ha annunciato il presidente della commissione Morra, prima di sentire Starnini. “C’era concreto timore da parte mia e anche di Montesanti (direttore dell’Ufficio Servizi sanitari del Dap) e di Romano che una pandemia del genere, oltre a compromettere la salute della popolazione detenuta e degli agenti della penitenziaria, potesse compromettere ancora di più la salute pubblica”, ha detto il medico, riferendosi alla sua consulenza sui detenuti a rischio contagio. Occorre ricostruire il contesto. Dopo le rivolte nelle carceri dei primi giorni di marzo e l’esplosione dell’emergenza coronavirus in tutto il Paese, il governo aveva varato alcune norme, contenute all’interno del Cura Italia, per limitare l’affollamento dei penitenziari concedendo gli arresti domiciliari ai detenuti condannati per reati minori e con meno di 18 mesi di pena residua da scontare. Da quei benefici, però, erano esclusi i condannati per mafia, terrorismo e altri gravi reati. Il 21 marzo - quindi cinque giorni dopo l’approvazione del Cura Italia - ecco la circolare del Dap che chiede a tutti penitenziari di comunicare i nomi dei detenuti che hanno più di 70 anni e che sono affetti da alcune patologie. Quei nomi dovevano essere girati “con solerzia all’autorità giudiziaria, per eventuali determinazioni di competenza”. Le determinazioni di competenza si sarebbero manifestate dopo pochi giorni: centinaia di scarcerazioni, anche di mafiosi al 41bis come Francesco Bonura o Pasquale Zagaria. La nota del Dap, infatti, non fa alcun riferimento alla situazione giudiziaria dei detenuti. Si limita ad elencare dieci condizioni, “cui è possibile riconnettere un elevato rischio di complicanze”: nove sono patologie, l’ultima è avere un’età “superiore ai 70 anni”. “Quando lei inserisce il requisito sopra i 70 anni, lei sa già che non usciranno i detenuti comuni, perché i detenuti comuni con più di 70 in carcere non ci stanno?”, ha chiesto il senatore Pietro Grasso di Leu a Starnini. “I 70enni sono compresi nelle categorie a rischio. L’età non è una patologia, questo è chiaro”, ha risposto il medico, che ha negato di aver “mai immaginato possibili risvolti né avevo pensato ai detenuti mafiosi”. Per quella consulenza, ha continuato, “ho seguito semplicemente le raccomandazioni nazionali sui rischi nelle comunità chiuse”. Anzi Starnini sostiene di non sapere nulla neanche dell’esistenza della circolare: “L’ho appreso dalla tv, poi l’ho letta solo in seguito”. Il medico, secondo quanto ha ricostruito, ha semplicemente messo nero su bianco quelle dieci condizioni che possono esporre i detenuti a un maggior rischio di contagio. “Di fare quell’atto me lo ha chiesto il direttore generale”, ha chiarito. Poi ha spiegato di aver “fatto una prima nota informale in cui elencavo solamente patologie e l’età. Poi il direttore generale mi ha chiesto di formalizzarla e scriverla in maniera tale sulla base di quelle richieste di contatti al ministero che io ignoro. L’ho fatta come mi è stata richiesta dal direttore generale”. Il direttore generale è sempre Romano, che il 18 marzo - con una mail che è stata letta a Palazzo San Macuto dal presidente Morra durante l’audizione del medico dell’ospedale Belcolle - chiede a Starnini di ufficializzare i requisiti necessari alla scarcerazione per sottoporli al ministero. Tre giorni dopo ecco che il Dap diffonde la circolare preparata da Romano. Quel documento, però, viene firmato da Assunta Borzacchiello, dirigente del Cerimoniale che ha già spiegato all’Antimafia di averlo sottoscritto solo perché di turno al Dap: il 21 marzo, infatti, era un sabato e Romano non era in ufficio. Resta inevasa una domanda: con chi al ministero della giustizia Romano sembra aver concordato passo passo il contenuto di quel documento? “Non mi sono mai azzardato a domandare chi fosse a rappresentare il ministero”, ha chiarito Starnini. A questo punto l’Antimafia chiederà direttamente al magistrato, ormai ex direttore generale del trattamento detenuti del Dap, chi fossero i suoi interlocutori in via Arenula. Anche in carcere si torna a celebrare la messa di Gigliola Alfaro agensir.it, 12 giugno 2020 Don Grimaldi: “Nel lockdown i cappellani sono stati un ponte con il mondo fuori”. Dal 1° giugno, come prevede una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), sono state autorizzate le celebrazioni eucaristiche con la partecipazione dei detenuti. “Sono ripartite le messe anche se timidamente per la difficoltà di gestire questi momenti liturgici nell’emergenza - racconta don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane -. Già precedentemente, qualche direzione aveva dato il permesso per delle messe sempre nel rispetto delle norme di sicurezza”, ma “per il momento entrano solo i cappellani, i diaconi e le religiose”. Don Raffaele, viene regolamentata la partecipazione alle celebrazioni, come nelle chiese all’esterno? Certamente, oltre al rispetto di tutte le misure di protezione e sicurezza, il numero dei detenuti che può partecipare alla messa dipende dalla capienza delle cappelle nelle singole carceri. Per agevolare la partecipazione si stanno celebrando messe negli spazi aperti, come i campetti o i luoghi di passeggio. Al momento, in carcere i volontari non possono ancora entrare? No, se non quelli che svolgono progetti o specifiche attività. Io auspico che a fine mese sia concesso ai volontari di tornare in carcere, come ho chiesto espressamente al Dap. Nel periodo della pandemia, senza il supporto dei volontari e con la difficoltà per gli stessi cappellani a entrare nelle sezioni, i detenuti hanno vissuto un maggior disagio. Le sofferenze che abbiamo condiviso tutti durante il lockdown nel carcere sono state amplificate. Soprattutto pensiamo a quei detenuti, che sono poveri, stranieri, senza fissa dimora, senza famiglia. Il mio augurio è che quanto prima possano riprendere, con le dovute precauzioni e in sicurezza, quelle attività che fanno sì che il carcere sia un ambiente di un possibile riscatto e dove c’è l’opportunità di crescere in questo tempo di prova. Perciò, spero che quanto prima possa ritornare in carcere ad operare il mondo del volontariato che, insieme con cappellani e religiosi, dà un grande supporto ai detenuti. Ci sono volontari ben preparati, motivati, che fanno tanto bene. Cosa hanno potuto fare i cappellani durante i periodi più bui dell’epidemia in Italia? In tutto il periodo di blocco i cappellani hanno cercato di essere, comunque, come potevano, vicini agli operatori. In effetti, quello che i cappellani hanno potuto concretamente fare è dipeso dalle direzioni delle carceri. In alcune realtà, dove si è scelta una linea più rigida per contrastare l’emergenza, i cappellani hanno potuto fare poco, nel senso che non potevano incontrarsi con i detenuti né entrare nelle direzioni. Si è trattato, comunque, di un metodo adottato anche per ridurre le possibilità di contagio, insieme ad altre misure di protezione prese. Ed effettivamente i numeri dei casi sono stati molto bassi. Se il contagio si fosse diffuso nelle carceri sarebbe stata una rovina. D’altra parte, basti pensare, proprio all’inizio della pandemia in Italia, alle manifestazioni incontrollabili di violenza nelle nostre carceri. Laddove l’ambiente era più tranquillo e la direzione ha permesso di fare di più, i cappellani hanno potuto avere anche qualche colloquio personale con i detenuti per sostenerli umanamente, moralmente, spiritualmente. Poi, attraverso gli operatori del carcere, venivano informati delle necessità materiali dei detenuti, soprattutto dei più bisognosi, che non avevano la possibilità di ricevere pacchi dalle famiglie. I cappellani hanno provveduto a fornire indumenti e prodotti per l’igiene personale. L’emergenza ha visto un grande impegno da parte dei cappellani e io li ringrazio per tutto quello che hanno fatto in questo momento di grave difficoltà. Le carceri italiane cronicamente soffrono per il sovraffollamento, un problema ancora più serio con l’emergenza coronavirus… Paradossalmente, chi avrebbe potuto usufruire dei domiciliari in questa occasione, avendone i requisiti, spesso non ha potuto farlo perché ad esempio era senza domicilio. Alcune associazioni hanno preso a cuore casi come questi e hanno offerto un domicilio dove stare, ovviamente però sono stati casi limitati. La maggior parte non ha potuto usufruire dei benefici previsti. Come hanno vissuto i detenuti la sospensione dei colloqui con i familiari durante la fase 1 dell’emergenza? Nel periodo del lockdown le direzioni si sono attrezzate con tablet per permettere le videochiamate. I detenuti hanno potuto rivedere così le loro case: per certi aspetti, quindi, è stato anche positivo. La pandemia in tanti ambienti ci ha mostrato un modo nuovo di lavorare: ora sono ripresi i colloqui con i familiari, ovviamente con le dovute precauzioni, ma se nelle carceri si usassero più spesso questi nuovi strumenti di comunicazione sarebbe ideale perché si faciliterebbero i rapporti con i familiari che abitano lontano o che non hanno i mezzi economici per affrontare il viaggio e, quindi, non facilmente possono andare a trovare i loro congiunti detenuti. Quali sono oggi le maggiori richieste da parte dei detenuti? Dai più poveri vengono richieste di beni materiali, perché mancano di tutto. Poi, in generale, viene chiesto un supporto psicologico e morale. In questo periodo i cappellani hanno fatto da ponte con i familiari per rassicurarli delle condizioni di salute dei loro congiunti chiusi in carcere. Nel lockdown siamo stati tutti in “prigione”, anche se nelle nostre case: questo ha potuto in un certo senso aprire di più alla comprensione di quanto si vive in carcere? Il confinamento in casa ha permesso a molte persone di confrontarsi con la vita dei detenuti. Spero, perciò, che quello che abbiamo vissuto come “tempo sospeso” non sia dimenticato in fretta, ma abbia toccato in profondità il cuore di tutti quanti noi, percependo la sofferenza di tanti detenuti e aprendoci maggiormente alla solidarietà. Questo, credo, riguarderà, però, soprattutto le persone più sensibili e non chi è chiuso nel proprio egoismo e bada solo ai propri interessi. “Bambinisenzasbarre”, la onlus per i diritti dei minori con genitori detenuti di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 12 giugno 2020 In Italia ogni anno sono 100.000 i bambini e le bambine con un genitore in stato di detenzione. C’è chi lavora per favorire il dialogo, creando momenti di incontro e condivisione. La Onlus Bambinisenzasbarre lavora per il diritto al legame familiare. Tutti i bambini e le bambine hanno diritto di coltivare i rapporti con la propria famiglia, anche se uno dei genitori si trova in carcere. In Italia, ogni anno 100.000 minori hanno un genitore detenuto e rischiano l’interruzione del legame familiare. Il fenomeno è associato spesso all’abbandono scolastico, al disagio sociale, all’illegalità, alla detenzione. Si stima, infatti, che senza un’adeguata tutela della relazione con il genitore il 30% dei figli di detenuti sia a rischio di diventare detenuto a sua volta. La Onlus Bambinisenzasbarre opera nelle carceri dal 2002 per tutelare il diritto sancito dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia al mantenimento del rapporto con i genitori detenuti. Lo fa attraverso la creazione di percorsi e spazi all’interno e fuori dal carcere. Gli spazi gialli. Sono spazi dedicati a bambini e bambine che vanno a trovare il genitore detenuto e sono presenti in vari istituti di Lombardia, Piemonte, Toscana, Liguria, Campania, Puglia e Sicilia. Lo Spazio Giallo è un luogo fisico dove i minori attendono l’incontro con il genitore insieme ad operatori formati, dove possono giocare, disegnare ed esprimere le proprie emozioni. Gli operatori accompagnano le famiglie nell’esperienza della detenzione ed aiutano a processare le sensazioni legate al momento difficile che stanno vivendo, rompendo i tabù sul carcere spesso presenti nel mondo “libero”. La partita con papà. Al di fuori degli Spazi Gialli, Bambinisenzasbarre offre consulenze psicopedagogiche per i genitori, sotto forma di intervento singolo o tramite i “gruppi di parola”, nei quali i detenuti possono confrontare le proprie esperienze. Un progetto importante che avvicina genitori e figli è La partita con papà, inaugurato nel 2015 e con svolgimento a cadenza annuale. Questo evento rappresenta per molti detenuti e minori un raro momento di umanità, quasi di normalità, in cui si può condividere la passione per lo sport, parlare, scambiare un sorriso o una carezza. Il telefono giallo per comunicare oltre le sbarre. L’insorgenza del Covid-19 ha inciso duramente sulle relazioni e sui contatti umani delle persone detenute. In questo periodo, Bambinisenzasbarre ha potenziato il servizio di supporto telefonico “Telefono giallo”. Uno strumento di ascolto, supporto psicologico e risposte specialistiche a domande difficili: “Come aiuto mio figlio a trascorrere questo lungo periodo di separazione dal genitore detenuto? Come dico a mio figlio che non può vedere il genitore detenuto per un tempo indefinito?” Bambinisenzasbarre è parte della Rete europea per i figli dei genitori detenuti, e di Relais Italia, rete di collegamento a livello nazionale di interventi, servizi e ricerca a sostegno della genitorialità in detenzione. Stop alle ferie nei tribunali, la giustizia riparte dopo il Covid di Liana Milella La Repubblica, 12 giugno 2020 Udienze dal “vivo” dal primo luglio, ma il Guardasigilli Bonafede vuole bloccare o almeno ridurre le vacanze estive. Caso Zagaria (che comunque resta ai domiciliari): per superare la Consulta, il giudice che rivaluta le sentenze subito in udienza. Il dopo Covid, per la giustizia, è destinato a passare anche per lo stop parziale o integrale alle ferie per magistrati e avvocati. Quei tradizionali 30 giorni (erano 45 prima del taglio dell’ex premier Renzi) che ad agosto fanno abbassare le saracinesche delle aule rinviando tutto a settembre. A questo stanno lavorando il Guardasigilli Alfonso Bonafede e il sottosegretario Andrea Giorgis, dopo la maratona che, per due giorni, ha tenuto il governo, relatore il Dem Franco Mirabelli, incollato al banco della commissione Giustizia del Senato. Lì sono arrivate le dure proteste degli avvocati che - ormai ridotti, a loro dire, all’indigenza economica e schiacciati dalle proteste dei clienti - hanno chiesto di far ripartire subito i processi. L’hanno spuntata, perché una mossa del governo, dopo emendamenti del centrodestra, ha anticipato dal 30 luglio al primo luglio la “ripartenza” di tutte le udienze, civili e penali. Ma questo potrebbe non bastare, ed ecco allora il blocco delle ferie. Ma c’è anche dell’altro nel decreto legge che dopo 48 ore di forcing disperato è stato chiuso al Senato e andrà subito in aula perché poi deve essere convertito prima della fine del mese con il passaggio alla Camera. Una sorta di decreto omnibus sulla giustizia, perché dentro c’è il via libera alla legge Orlando sulle intercettazioni dal primo settembre, ci sono i colloqui telefonici per i detenuti, ma c’è anche una soluzione per superare i ricorsi dei giudici (finora Spoleto e Sassari) alla Consulta contro l’obbligo di rivalutare ogni mese i via libera ai domiciliari (vedi caso Zagaria). Subito i processi in voce, ma salvando quelli “da remoto” - Troppe proteste degli avvocati, ormai incontenibili in tutta Italia. Tant’è che se ne fa portavoce anche il Pd con un’interrogazione a Bonafede della vice presidente della Camera Anna Rossomando (avvocato penalista di Torino) con Valeria Valente (anche lei avvocato dem amministrativista di Napoli). “Bisogna ripartire subito” dicono entrambe. E il Guardasigilli annuncia in aula rispondendo che è già deciso, si riaprono i battenti il primo luglio anziché alla fine del mese. Ma proprio nelle stesse ore, appena la notizia si diffonde, ecco le preoccupazioni di chi ha già organizzato il lavoro in periferia. Da Brescia, dov’è presidente della Corte di appello, Claudio Castelli non nasconde l’allarme: “Attenzione però, non buttiamo a mare la programmazione già fatta, perché sortiremmo il risultato di perdere e dover rinviare anche tutte le udienze in calendario”. Un input che, evidentemente, arriva sul tavolo della commissione Giustizia di palazzo Madama febbrilmente al lavorato per chiudere un mega decreto in cui convergono le misure anti scarcerazioni, ma anche il definitivo via libera alle intercettazioni. Nasce da qui il compromesso, si riparte effettivamente il primo luglio, ma - come spiega Giorgis - “in modo da evitare l’effetto paradosso per cui l’anticipazione evita di obbligare i giudici a ripetere alcuni atti già compiuti, a riprogrammare le udienze già fissate, per cui fino alla conversione del decreto, fino alla fine di giugno, sarò possibile continuare a utilizzare tutte le disposizioni telematiche e da remoto”. Com’è scritto nel testo “restano validi gli atti e i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici” realizzati fino a quel momento. Via libera alla legge sulle intercettazioni - Stavolta non si torna più indietro. La legge Orlando sulle intercettazioni, che classifica come “irrilevanti” quelle che non contengono effettivamente prove per dimostrare la colpevolezza o l’innocenza di un imputato, entrerà definitivamente in vigore il primo settembre. Dopo oltre due anni di congelamento si inaugurano gli armadi riservati gestiti dal capo della Procura dove finiranno tutti gli ascolti “irrilevanti” ai fini della prova che non saranno neppure trascritti integralmente, ma di cui esisterà solo un brogliaccio. Più telefonate per i detenuti - Con un emendamento del capogruppo dem Mirabelli, aumenteranno fino a una al giorno le telefonate che un detenuto potrà fare alla sua famiglia qualora “si svolga con figli minori o figli maggiorenni portatori di una disabilità grave e nei casi in cui si svolga con il coniuge, l’altra parte dell’unione civile, persona stabilmente convivente o legata all’internato da relazione stabilmente affettiva, con il padre, la madre, il fratello o la sorella del condannato qualora gli stessi siano ricoverati presso strutture ospedaliere”. Nessun aumento invece se il detenuto si trova al 41bis. Potrà chiamare una volta a settimana se è in regime di 41bis, cioè tutti i boss in una condizione di sorveglianza per impedire contatti e rapporti con l’organizzazione criminale cui appartenevano. Telefonini nelle celle? Punizione severa - Una pena da uno a 4 anni per chiunque introduca in una cella, o metta a disposizione di un detenuto un telefono cellulare. La pena passa da due a 5 anni se il reato “è commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio ovvero da un soggetto che esercita la professione forense”. Il caso Zagaria e la Consulta - Ma c’è un’altra questione di grande attualità nel decreto sulla giustizia, quella del rimedio escogitato da Bonafede per far fronte alle scarcerazioni frutto della circolare Dap del 21 marzo. Secondo lo stesso Dap sarebbero 220 i mafiosi messi fuori dalle prigioni e mandati ai domiciliari. La soluzione ministeriale era quella di obbligare giudici e tribunali di sorveglianza a rivalutare la decisione dopo 15 giorni e poi mensilmente in relazione alla mutata situazione ambientale e alle disponibilità di strutture da parte del dap. Ma due magistrati, il 29 maggio il giudice di sorveglianza di Spoleto Fabio Gianfilippi, e il 9 giugno il presidente del tribunale di sorveglianza di Sassari Riccardo De Vito per il boss Pasquale Zagaria, si sono rivolti alla Consulta contestando la norma di Bonafede perché limiterebbe la libertà del giudice nel valutare la situazione del detenuto. Adesso arriva una modifica della norma, nel senso che il giudice di sorveglianza, appena ha compiuta la sua rivalutazione del caso, quindi rispettando le scadenze temporali date dallo stesso decreto (15 giorni e un mese), deve inviare subito gli atti per fissare un’udienza davanti al tribunale di sorveglianza coinvolgendo le parti. Il tribunale avrà trenta giorni di tempo, in contraddittorio con la difesa, per decidere. Un caso però che potrebbe risolvere quello di Spoleto, ma non quello di Sassari dove a pronunciarsi è già stato un tribunale di sorveglianza. La circolare del 21 marzo? Un atto “pericoloso” - Ma proprio sulle scarcerazioni di 220 mafiosi va avanti l’indagine della commissione parlamentare Antimafia presieduta da Nicola Morra. Ieri si è svolta l’audizione di Caterina Malagoli, capo dell’ufficio V del Dap e responsabile dei detenuti al 41bis e in alta sicurezza. Parole molto pesanti le sue, sulla circolare del 21 marzo diretta ai provveditori e ai direttori con l’indicazione di segnalare “con solerzia” ai magistrati i detenuti con patologie e over 70. Una circolare definita “pericolosa” da un magistrato che racconta di essere stata pm a Palermo nella Direzione distrettuale antimafia, e ammette che “mi ha dato fastidio vedere in detenzione domiciliare uno condannato da me”. Quella di Malagoli è una testimonianza shock. Lei non viene avvisata della circolare firmata di sabato dalla funzionaria di turno Assunta Borzacchiello su specifica richiesta dell’ex capo dei detenuti del Dap Giulio Romano, nonostante siano destinati a uscire internati delle sue sezioni. Ne apprende casualmente l’esistenza martedì 24. Va da Romano e chiede di “revocarla” perché, aggiunge “avremo dei problemi”. Malagoli non nasconde la collera per non essere stata avvisata. Romano le dice che “la circolare era condivisa”. “Io non so con chi - chiosa Malagoli - ho capito con il capo del Dap (l’ex direttore dimissionato Francesco Basentini, ndr), ma non so con chi altro”. Romano comunque le disse che “sulla circolare ci avevano pensato su, il venerdì c’era stato il via libera, c’era stata la condivisione, loro ci hanno pensata per una settimana”. Spiega che, nonostante le dimissioni, Romano è ancora al suo posto, fino alla fine di giugno. Finisce l’emergenza, i tribunali riaprono a partire dal 1° luglio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 giugno 2020 Riapertura dei tribunali dal 1° luglio. Si conclude, con un mese di anticipo, la fase 2 e si apre una complessa fase 3, nel tentativo di raggiungere un faticoso ritorno alla normalità. La commissione Giustizia del Senato ha approvato ieri sera un emendamento Lega-Fratelli d’Italia al decreto legge Giustizia sul quale il Governo ha dato parere positivo che conclude in anticipo di un mese la fase dell’emergenza sanitaria. Con qualche cautela, come sottolinea il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis (Pd), raccogliendo le preoccupazioni espresse dall’Anm: “abbiamo comunque deciso di tenere validi tutti gli atti e l’attività giudiziaria svolta nel frattempo, per evitare che la retrodatazione possa vanificare quanto è già stato svolto o anche solo programmato, per esempio, tenendo conto del maggiore spazio lasciato oggi alla possibilità di svolgimento da remoto dei procedimenti”. Lo stesso ministro Alfonso Bonafede, intervenendo al Senato in risposta a un’interrogazione, aveva precisato poco prima che “con l’inizio della fase 2, il Ministero ha dato avvio al graduale e progressivo ampliamento delle attività giurisdizionali amministrative. Adesso, grazie al mutamento del contesto sanitario, è giunto il momento di un ritorno alla normalità per la giustizia. In particolare, è imminente l’emanazione di una circolare che riequilibri il rapporto tra lavoro in presenza e lavoro da remoto del personale amministrativo, e in generale miri a garantire, per quanto possibile, la regolare celebrazione delle udienze in condizioni di sicurezza già a partire dal 1° luglio 2020”. Cauta la reazione dell’Anm, per la quale si tratta di “un segnale estremamente positivo alla luce del miglioramento delle condizioni epidemiologiche e del diverso impatto locale della pandemia. Questa nuova situazione consente un ripensamento delle stesse norme organizzative nella prospettiva dell’auspicabile ritorno all’attività ordinaria in tempi brevissimi. Va necessariamente sottolineato che il funzionamento regolare degli uffici giudiziari implica la piena capacità di lavoro anche del personale amministrativo, e di tutti i collaboratori, in condizioni organizzative e di sicurezza che non dipendono certamente dalla potestà organizzativa dei soli dirigenti degli uffici giudiziari”. Favorevole, ovviamente, l’avvocatura, che da tempo sottolineava la necessità di un ritorno a condizioni diverse di svolgimento dei processi. Per la presidente del Cnf, Maria Masi “la ripartenza della giustizia dal 30 giugno sarebbe sicuramente un bel segnale per gli avvocati e per i cittadini che attendono da mesi di veder riconosciuti i propri diritti, tenuto conto che le esigenze di natura sanitaria sono, al momento, ridotte e affievolite. Sarà nostra cura - prosegue Maria Masi - monitorare l’iter e l’approvazione del provvedimento allo studio del Parlamento e vigilare affinché la macchina della giustizia riparta con la più ampia e continuativa presenza dei cancellieri in tribunale: come più volte sottolineato, questa condizione è necessaria e funzionale all’attività giurisdizionale stessa”. Intanto prende ufficialmente il via il processo penale telematico. È stato infatti pubblicato il decreto ministeriale che permette il deposito telematico di memorie e istanze delle difese presso il pubblico ministero che abbia concluso le indagini preliminari. Grazie a questo provvedimento, sottolinea il ministero, l’ufficio che ha avanzato richiesta per l’attivazione del deposito digitale potrà per la prima volta in Italia ricevere, con valore legale, per via telematica le memorie e le istanze successive alla conclusione delle indagini preliminari e gli avvocati potranno operare tali depositi senza produrre e depositare ulteriormente il cartaceo. Il primo ufficio a chiedere l’attivazione è stata la Procura di Napoli. Il deposito telematico degli atti, che al momento è facoltativo, avrà valore legale a partire dal 25 giugno prossimo. Incrocio crisi-giustizia con i rischi in stile 1992: settembre sarà decisivo di Francesco Verderami Corriere della Sera, 12 giugno 2020 Le conseguenze del virus sull’economia si sommano alle difficoltà della politica alle prese anche con le inchieste giudiziarie: Il rischio di rivedere antichi scenari. Quando l’altro ieri ha sentito alzarsi il coro, la sua prima reazione è stata: “Con chi ce l’hanno?”. Perché davvero Conte non immaginava di essere il destinatario di quel “buffone-buffone”, a testimonianza dello scarto che c’è tra i sondaggi che si leggono sulla carta e il Paese reale che si sente nelle piazze. Ed è scontato che l’abbia presa malissimo, più interessante è come d’istinto il premier abbia confidato di non voler accettare la parte che gli stanno ritagliando: quella del “capro espiatorio”. Al fondo di questa reazione c’è una parte di verità. Da quando è finito il lockdown, infatti, basta spostarsi di qualche metro, da Palazzo Chigi a Montecitorio, per assistere quotidianamente a manifestazioni di protesta e ascoltare il grido “ladri-ladri” che saluta i deputati ogni qualvolta escono dalla Camera. È un epiteto bipartisan, rivolto a chi c’era prima e a chi è arrivato dopo, siccome non risparmia i grillini che ormai riempiono la “scatoletta di tonno”. Solo che chi c’era prima ha memoria del passato, e non a caso uno dei maggiorenti dem dice che “questa situazione ricorda il 1992”. La differenza è che allora andò in scena lo scontro tra pezzi diversi del sistema. Ora è il sistema intero che va in pezzi. E dopo la crisi sanitaria, nel pieno della crisi economica e con i primi segni di una temuta crisi sociale, mancava solo un ingrediente per ricostruire quel clima: l’azione della magistratura. Rispetto al passato tuttavia non si avverte una reazione della politica, perché - come ammette un autorevole esponente dei Cinque Stelle - “non ce ne rendiamo conto”. Sia chiaro, le inchieste giudiziarie sulla gestione dell’emergenza da Covid-19 che iniziano a spandersi nel Paese come il virus, non sono i prodromi di una banale spallata al presidente del Consiglio di turno, rischiano piuttosto di minare il Palazzo nelle sue fondamenta. I protagonisti della Terza Repubblica sembrano però esserne inconsapevoli, intenti come sono a difendere il proprio particulare: Conte è concentrato a organizzare la sua Woodstock economica a villa Pamphili; il centrodestra è impegnato in un estenuante conclave per la candidatura di un paio di governatori manco dovesse scegliere un Papa; il Pd si divide tra chi vede nel premier una risorsa per il futuro e chi teme invece che li porti a fondo; mentre il gestore pro-tempore di M5S, Crimi, lavora alacremente al progetto di riforma della governance Rai. Sono i tic del potere, di chi sta al governo e di chi aspetta all’opposizione. Nel Paese intanto si registra una singolare coincidenza tra i drammatici dati economici dell’Istat e quelli elaborati dalle società di sondaggi sul “partito del non voto”, che fluttua oggi intorno al 40% ed è largamente la prima forza politica nazionale. Non è dato sapere quale sia il messaggio contenuto in quel numero, ma ci sarà un motivo se il viceministro dem all’Interno Mauri non si stanca di ripetere che “l’autunno si preannuncia complicato dal punto di vista sociale”: “Le ripercussioni economiche e finanziarie, già evidenti, dopo l’estate potrebbero essere ancor piu’ consistenti”. “Non vorrei fare la Cassandra”, ha esordito Renzi parlando con un rappresentante di governo pd: “Ma se in Lombardia, nel Lazio e in Emilia Romagna si comincia con le inchieste, e le inchieste arrivano fino a palazzo Chigi, non se ne esce più”. Da tempo il leader di Iv ha proposto una commissione parlamentare d’inchiesta per mantenere in una dimensione politica l’analisi sulla gestione dell’emergenza sanitaria in Italia: “È chiaro che la spallata al premier non arriverà per via giudiziaria, ma è altrettanto chiaro che c’è ormai un problema di sistema, tra la debolezza dei partiti e le contraddizioni della magistratura. Fossi in Conte - ha concluso a bruciapelo - approfitterei del posto che si sta per liberare alla Corte Costituzionale”. A settembre scade il mandato alla Consulta della presidente Cartabia. A settembre si terranno le Regionali che oggi ingessano ogni manovra politica. A settembre si vedrà. Magistratopoli, così sono nate le correnti che hanno cancellato il merito di Giuseppe Di Federico Il Riformista, 12 giugno 2020 Le confessioni televisive di Palamara sulle disfunzioni generate dal c.d “correntismo” e la lettura delle intercettazioni che ne documentano la diffusione non dicono nulla che le ricerche sul Csm non conoscessero da più di 40 anni. Peraltro già all’inizio di questo secolo, e ricorrentemente nel corso del suo lungo mandato, il Presidente Napolitano aveva condannato pubblicamente e con parole durissime, quel fenomeno, anche per i suoi collegamenti con la politica, sollecitandone l’abbandono. Nei suoi discorsi in Consiglio ha, infatti, definito le modalità decisorie del Csm come “malsani bilanciamenti tra le correnti” e frutto di “pratiche spartitorie rispondenti a interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici”. Il fenomeno dell’influenza delle correnti sui processi decisori del Csm è stato, peraltro, ripetutamente e duramente criticato dalle stesse correnti della magistratura. È quindi una condanna unanime del fenomeno cui non si è dato rimedio anche perché manca la volontà di individuarne le principali cause e di adottare soluzioni efficaci. Varie sono le ragioni del cosiddetto “correntismo” e del perché esso sia da vari decenni una componente rilevante e, a mio avviso, ineliminabile delle modalità decisorie del Csm. La principale ragione deriva dal fatto che al momento di decidere tra le domande, a volte numerose, di trasferimento a funzioni direttive e/o a sedi più gradite, la documentazione ufficiale sui singoli candidati spesso non fornisce ai consiglieri del Csm informazioni utili o sufficienti a scegliere chi tra i concorrenti sia il più meritevole. Ciò dipende in larga misura dal fatto che a partire dagli anni 60 il Csm ha, in vario modo, smantellato tutte le preesistenti e competitive valutazioni di professionalità e ha dato a tutti i magistrati valutazioni positive sulla base dell’anzianità, valutazioni positive che, occorre ricordarlo determinano anche il passaggio da una classe stipendiale a quella di volta in volta più elevata. Le valutazioni negative, di regola solo momentanee, hanno variato tra lo 0,9 e lo 0.5%. Questo è avvenuto nonostante l’articolo 105 della nostra Costituzione preveda espressamente che il Csm debba effettuare le promozioni dei magistrati. Il Csm non ne ha tenuto conto ed ha smesso di farle da cinquanta anni circa. Da allora lo stesso termine “promozioni” non appare più nelle decisioni e nei verbali del Csm. Negli altri paesi dell’Europa continentale ove, come da noi, i magistrati rimangono in servizio per circa 40 anni (ad esempio Germania e Francia), si ritiene necessario, per garantire qualità ed efficienza della giustizia, che i magistrati vengano sottoposti periodicamente a sostantive e selettive valutazioni della professionalità nel corso della lunga permanenza in servizio e solo un numero limitato di loro raggiunge i vertici della carriera. Le graduatorie di merito generate da quelle valutazioni limitano drasticamente la discrezionalità nella assegnazione degli incarichi e nei trasferimenti. Da noi, invece, l’assenza di sostantive valutazioni e di graduatorie di merito rendono formalmente quasi tutti i nostri magistrati altamente qualificati e di grande diligenza. L’unica graduatoria di merito rimasta è quella basata sugli esami di ingresso in magistratura. Di necessità, quindi, le scelte del Csm sono molto spesso caratterizzate da ampi margini di discrezionalità, e non potrebbero non esserlo. Una discrezionalità che ha generato e consolidato nel tempo il cosiddetto correntismo e le disfunzioni ad esso direttamente collegate sotto almeno tre profili. In primo luogo perché l’assenza di valutazioni di professionalità attendibili e prive di graduatoria di merito da un canto fa molto spesso dipendere il successo dei candidati dall’efficacia con cui vengono appoggiati dai rappresentanti della propria corrente che siedono in Consiglio, dall’altro perché spinge i magistrati a considerare l’appartenenza alle varie correnti come condizione necessaria per ottenere decisioni consiliari a loro favorevoli. In secondo luogo perché le decisioni discrezionali, frutto di appoggi correntizi, sono spesso sorrette, nel dibattito consiliare che le precede, da motivazioni insufficienti e contraddittorie. Cosa che ha generato un numero crescente di ricorsi al giudice amministrativo contro le decisioni del Csm: nei tre anni per cui ho dati certi (ero componente del Consiglio) i ricorsi sono stati complessivamente 777. Sono ricorsi che spesso hanno successo e costringono il Csm a modificare le sue decisioni, il che è sovente accaduto anche con riferimento a incarichi giudiziari apicali (come quelli di Presidente e di Presidente aggiunto della Corte di cassazione, di due presidenti titolari di sezione e del procuratore generale aggiunto della Corte stessa). È un fenomeno che non si verifica in nessun altro paese europeo in cui, come da noi, si prevedono ricorsi al giudice amministrativo (ad esempio in Francia e Germania). In terzo luogo perché l’assenza di elementi di valutazione su cui basare con relativa certezza le proprie decisioni è particolarmente gravosa per i consiglieri laici, i quali per avere informazioni più attendibili sui candidati in lizza non possono che rivolgersi ai consiglieri togati, e finire quindi di necessità coinvolti essi stessi nella morsa del correntismo. Le proposte di riforma avanzate dal Ministro Bonafede non sono certamente in grado di restringere la discrezionalità con cui il Csm gestisce il personale di magistratura e le sue aspirazioni. Né a tal fine egli potrebbe proporre di adottare le stesse soluzioni in vigore nei paesi democratici dell’Europa continentale che non conoscono il correntismo. Proponendo cioè di adottare anche da noi severi vagli di professionalità, graduatorie di merito, e promozioni limitate dal numero di vacanze che si creano ai livelli superiori della giurisdizione. Si tratta di innovazioni per varie ragioni impraticabili anche se giuridicamente possibili (la Costituzione prevede infatti che il Csm effettui le promozioni dei magistrati). Per comprendere l’impraticabilità di una tale proposta basti pensare al solo fatto che il Csm, utilizzando i suoi poteri discrezionali per promuovere i magistrati in base all’anzianità (cosa non prevista da nessuna legge), ha tra l’altro anche consentito a tutti i magistrati italiani di raggiungere i più elevati livelli della retribuzione (più di 8000 euro netti al mese). Toccare questi privilegi in un sistema in cui la magistratura ha da decenni acquisito un incontrastato controllo sulla legislazione che la riguarda è assolutamente impensabile. Aggiungo tre postille. La prima: nel corso delle mie ricerche sui sistemi giudiziari di altri paesi sono riuscito ad avere informazioni precise sui livelli salariali, ma non in Italia. Non quando ero consigliere del Csm, e neppure successivamente facendo presentare da un parlamentare, l’On. Lehner, una dettagliata interrogazione. La cifra che ho indicato dianzi per le retribuzioni nette negli ultimi anni della carriera l’ho dedotta dalla pubblicazione nel 2008 della busta paga mensile di 7.673 euro netti del Presidente della Corte d’appello di Milano. La cifra un po più elevata da me dianzi indicata (8000 euro) tiene con molta cautela conto del fatto che dal 2008 ad oggi i magistrati hanno ottenuto 4 adeguamenti salariali. La seconda postilla: una verifica sull’efficacia delle valutazioni sostanziali della professionalità e delle graduatorie di merito come strumento per ridurre la discrezionalità delle scelte fatte dal Csm e con essa anche il correntismo può essere fatta con riferimento ai difficili esami per le promozioni in Appello e Cassazione che si sono tenute fino al 1977, in contemporanea con le promozioni generalizzate effettuate dal Csm a partire dal 1968. Gli 80 vincitori di questi difficili concorsi che avevano sopravanzato i colleghi nella graduatoria del “ruolo della magistratura” fino ad un massimo di 2962 posizioni, hanno sempre visto soddisfatte le loro richieste di incarichi da parte del Csm e nessun ricorso è mai stato presentato contro le loro nomine, nonostante essi abbiano monopolizzato per molti anni le posizioni di vertice sia al livello distrettuale che della Corte di cassazione, cioè le posizioni direttive più ambite. Quel monopolio è caduto solo all’inizio di questo secolo (con la nomina di Nicola Marvulli alla Presidenza della Corte di Cassazione nel 2001 e di Mario delli Priscoli a Procuratore generale della Corte stessa nel 2006), e sono subito iniziati i ricorsi anche per quelle posizioni. Terza postilla: nella sua determinazione di promuovere tutti i magistrati sino al vertice della carriera il Csm ha sistematicamente valutato positivamente anche la professionalità di magistrati che non hanno svolto funzioni giudiziarie per molti anni, a volte decenni. Con ciò stesso il Csm ha di fatto deciso che neppure l’esperienza giudiziaria è necessaria per valutare positivamente la professionalità dei nostri magistrati. Lo scrivo da molti anni, ma la cosa sembra non interessare nessuno. Il depistaggio su Borsellino: tante anomalie nelle indagini, ma nessun reato dei pm di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 12 giugno 2020 Messina, chiesta l’archiviazione per i magistrati Palma e Petralia. Responsabilità penali da parte dei magistrati che le condussero non ce ne sono, ma le inchieste che portarono alla falsa verità giudiziaria sulla strage di via D’Amelio (sette innocenti condannati all’ergastolo per la morte del giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, a causa delle bugie del finto pentito Vincenzo Scarantino) furono caratterizzate da “anomalie tecnico-giuridiche e valutative” che non trovano spiegazioni convincenti. Dopo due anni di lavoro la Procura di Messina ha chiesto l’archiviazione del fascicolo a carico degli ex pubblici ministeri di Caltanissetta che dal 1992 portarono avanti indagini e processi basati sulle dichiarazioni del presunto “collaboratore di giustizia”; dovendosi limitare “esclusivamente all’accertamento di condotte aventi rilevanza penale” ha alzato bandiera bianca. Ogni altra valutazione “esula” dai compiti del pool guidato dal procuratore Maurizio De Lucia, tuttavia dalle oltre 160 pagine della richiesta di archiviazione traspare il rammarico e una certa incredulità per come “il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana” (così lo definirono i giudici di Caltanissetta che inviarono gli atti a Messina per indagare sui magistrati) abbia potuto resistere per oltre 16 anni, fino al pentimento (ritenuto autentico, e dopo 12 anni non sono arrivate smentite) del mafioso vero (a differenza di Scarantino) Gaspare Spatuzza. Una storia per la quale sono alla sbarra, a Caltanissetta, tre poliziotti che fecero parte del gruppo investigativo guidato dall’ex questore Arnaldo la Barbera (morto nel 2002), che si conferma torbida anche dagli atti raccolti dai pm di Messina. Di indizi sulla inattendibilità di Scarantino ce n’erano molti, ma nessuno degli inquirenti di allora ascoltati (sia i due indagati, Annamaria Palma e Carmelo Petralia, che i testimoni, da Ilda Boccassini a Nino Di Matteo e altri) ha saputo spiegare come non si riuscì a evitare il depistaggio. Persino la lettera dell’ottobre 1994 in cui Boccassini e il suo collega Roberto Saieva misero in dubbio la credibilità di quello strano pentito diventa un mistero, con gli altri pm che dicono di non averla mai ricevuta. “Io non ho tanti elementi sul dopo, però il fatto che Scarantino mentisse in maniera grossolana era percepibile dal primo o secondo interrogatorio”, ha ribadito Boccassini. A smentire il falso pentito furono ex boss di ben diverso calibro sedutisi davanti a lui; ora s’è scoperto che pure a Francesco Marino Mannoia, nel ricordo del suo avvocato di allora, “bastò un minuto di colloquio appartato con Scarantino, e disse che non era uomo d’onore”; eppure di questa conclusione del pentito “vero” non c’è traccia nel verbale di confronto ufficiale. E ci sono una ventina colloqui investigativi di poliziotti con Scarantino, regolarmente autorizzati dai magistrati, da cui presumibilmente è scaturita la falsa verità che ha resistito per tanto tempo. “Stranisce tra l’altro - denuncia la Procura di Messina - che le autorizzazioni siano state rilasciate dagli stessi magistrati con cui, proprio in quel periodo, Scarantino rendeva le dichiarazioni “collaborative” a mezzo interrogatorio. In questo senso, generiche e poco convincenti appaiono le risposte fornite da costoro circa le motivazioni a sostegno delle autorizzazioni rilasciate”. Tra le “anomalie” ci sono anche i “contatti informali (dei magistrati, ndr) con il collaboratore ed i suoi familiari”, che non hanno trovato adeguate giustificazioni. E che ancora oggi consentono al falso pentito e alla ex moglie di lanciare accuse o insinuazioni che però si sono rivelate false, o non hanno trovato conferme. Contribuendo a intossicare ulteriormente la vicenda. Nella quale non mancano i servizi segreti, con l’annotazione del Sisde che anticipò la “pista Scarantino” e l’irrituale coinvolgimento richiesto dall’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, morto nel 2017. Ma tra i danni maggiori provocati dal depistaggio c’è quello raccontato da Fiammetta Borsellino, una delle figlie di Paolo, quando ha testimoniato la risposta avuta nell’incontro con Giuseppe Graviano, uno degli assassini di suo padre a cui aveva chiesto un contributo di verità: “A un certo punto, l’ha buttata sui magistrati, della serie: “Perché viene da me a chiedere le cose? Non l’ha visto che hanno fatto i depistatori?”. Uno dei grandi danni che hanno fatto queste persone è stato anche quello di fornire un alibi per non parlare, l’alibi perfetto per deresponsabilizzarsi di tutto”. “Serviamo la Costituzione, per questo noi magistrati dobbiamo essere antifascisti” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 12 giugno 2020 L’appello firmato da circa 500 magistrati a sostegno del pm della Capitale Eugenio Albamonte, finito in questi giorni al centro delle polemiche per il sequestro dello stabile di via Napoleone III, da anni occupato abusivamente e divenuto la sede romana di CasaPound. “Dobbiamo essere e siamo antifascisti e sarebbe giusto indignarsi se non lo fossimo: la Costituzione, cui abbiamo giurato fedeltà nel giorno in cui abbiamo iniziato a svolgere il nostro lavoro, vieta la ricostituzione del partito fascista. Esercitiamo le nostre funzioni senza pregiudizi e lasciando le nostre idee fuori dalle decisioni. Il nostro dovere primario è garantire libertà e diritti dei cittadini; quelle libertà e quei diritti che il fascismo calpestò creando un ordine giudiziario asservito alla volontà del regime”. Sono questi alcuni dei passaggi principali dell’appello firmato da circa 500 magistrati a sostegno, senza però citarlo, del pm della Capitale Eugenio Albamonte, finito in questi giorni al centro delle polemiche per il sequestro dello stabile di via Napoleone III, da anni occupato abusivamente e divenuto la sede romana di Casa-Pound. Albamonte, ex presidente dell’Anm e attuale segretario di Area, il cartello delle toghe progressiste, aveva ipotizzato a carico del movimento di estrema destra, oltre al reato di occupazione abusiva, anche quello di associazione per delinquere finalizzata all’istigazione all’odio razziale. L’indagine era nata a seguito di un esposto presentato dall’Anpi e dall’Agenzia del demanio, proprietaria dell’immobile. Erano stati iscritti sul registro degli indagati, oltre agli occupanti, alcuni militanti di CasaPound, fra cui Gianluca Iannone, Andrea Antonini e Simone Di Stefano. Il gip Zsuzsa Mendola, però, ha disposto lo sgombero e il sequestro preventivo dell’immobile per il solo reato di occupazione abusiva. “Non sussistono elementi - scrive il giudice - che consentono di ricondurre la sussistenza del delitto di partecipazione ad una associazione (CasaPound, ndr). Nonché di accertare se le condotte poste in essere siano espressive di ideologie o sentimenti razzisti o discriminatori, ovvero se sussista lo scopo dell’incitamento alla discriminazione”. I dirigenti di CasaPound, ricevuto il provvedimento del pm, avevano fatto notare che Albamonte, tempo addietro, aveva pubblicato su Fb dei post a favore dell’Anpi, manifestando così un “potenziale conflitto d’interessi”. “Siamo un movimento politico legalmente riconosciuto, non un’associazione a delinquere. Diamo sostegno a famiglie italiane discriminate nelle graduatorie per la casa popolare”, è stata la difesa dei vertici di CasaPound. Lo “scudo penale” per Covid fissa i confini della responsabilità per il datore di lavoro di Cesare Damiano* Il Dubbio, 12 giugno 2020 L’equiparazione dell’infezione da Covid-19 contratta in occasione di lavoro o in itinere ad infortunio sul lavoro ha determinato la possibile applicazione delle tutele Inail a favore del lavoratore colpito dall’infezione o dei suoi familiari in caso di decesso. Si tratta di un tema molto delicato intorno al quale, già all’indomani dell’entrata in vigore della relativa disposizione nel cosiddetto “Cura Italia”, si è sviluppato un intenso dibattito circa il pericolo di ampliamento della sfera di responsabilità penale e civile dei datori di lavoro; un allargamento che si temeva rendesse, di fatto, ancor più difficile fare fronte alla ripresa delle attività nella cosiddetta “Fase 2” ormai pienamente in corso. Il Legislatore ha così ritenuto opportuno intervenire con una norma interpretativa che fornisca un supporto alle imprese nell’attuazione dei protocolli anti- contagio, il cui rispetto è cruciale per la tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro in questa fase di convivenza con il virus. Ci riferiamo in particolare, questa è la novità, alla Legge n. 40/ 2020 di conversione, con modifiche, del D. L. n. 23/ 2020 (cosiddetto Decreto Liquidità) con cui è stato previsto l’inserimento dell’articolo 29 bis, riguardante gli obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da Covid-19. In buona sostanza, si è chiaramente previsto che, ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, i datori di lavoro pubblici e privati debbano adempiere all’obbligo prevenzionistico di cui all’articolo 2087 del Codice Civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri Protocolli e Linee guida, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. È stato altresì precisato che, qualora non trovino applicazione le richiamate prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. A ben guardare la previsione - impropriamente definita “scudo penale”, ma della cui utilità non può comunque dubitarsi - non fa altro che fissare in modo chiaro ed inequivocabile i confini della responsabilità del datore di lavoro a fronte del rischio di contagio da Covid-19, dando un perimetro molto specifico all’obbligo di sicurezza, ma senza incidere sui presupposti soggettivi ed oggettivi di detta responsabilità che, per la verità, non erano stati minimamente modificati dalla equiparazione del Covid-19 ad infortunio sul lavoro. Parimenti, la norma appena citata non incide in alcun modo sui presupposti per il riconoscimento delle tutele Inail ai lavoratori in caso di contagio. Giova infatti ricordare che in merito alle categorie di lavoratori interessati dal provvedimento, come chiarito dalla circolare n. 13 del 3 aprile 2020, l’ambito della tutela Inail riguarda gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico. Per tali operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale, considerata l’alta probabilità che gli stessi vengano a contatto con il nuovo coronavirus. Di analoga presunzione semplice si avvalgono poi coloro che svolgono altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico. In via esemplificativa, ma non esaustiva, sono stati indicati: lavoratori che operano in front- office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi. Diversamente, per tutti gli altri lavoratori generalmente destinatari della tutela assicurativa Inail, non vige un regime probatorio agevolato, essendo in ogni caso il lavoratore tenuto a dimostrare - quantomeno con elementi anamnestici e clinici - la certa correlazione al lavoro della infezione; una prova comunque difficile da ottenere, data la multifattorialità e le limitate conoscenze scientifiche circa la ezipatogonesi del virus. Non esiste alcun automatismo giuridico nel riconoscimento dell’infortunio da Covid-19 da parte dell’Inail poiché l’Istituto, ai fini della tutela infortunistica, deve comunque valutare le circostanze e le modalità dell’attività lavorativa, da cui sia possibile trarre elementi gravi per giungere ad una diagnosi di alta probabilità, se non di certezza, dell’origine lavorativa della infezione. Tale iter, peraltro, vale sia per i lavoratori assistiti da presunzione semplice che per coloro che non beneficino di tale alleggerimento probatorio, non potendosi in ogni caso - le due categorie di lavoratori considerate - mai avvalere di una presunzione assoluta. Un’ultima riflessione deve poi essere fatta in relazione all’azione di regresso da parte dell’Inail: per essere esercitata nei confronti dei soggetti ritenuti civilmente responsabili è necessario che il fatto costituisca un reato perseguibile d’ufficio. Ne consegue che, in sede penale o civile, l’attivazione dell’azione di regresso non possa basarsi sul semplice riconoscimento dell’infezione da Covid-19. *Componente cda Inail - già Ministro del Lavoro Debiti tributari: la compensazione non è pagamento, no alla non punibilità di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 12 giugno 2020 La sopravvenuta posizione creditoria verso l’erario e quindi una possibile compensazione legale non consente di fruire della causa di non punibilità per estinzione del debito tributario, in quanto la normativa penale fa riferimento al pagamento del debito. A fornire questa interpretazione è la Corte di Cassazione con la sentenza 17806/2020. Il rappresentante legale di una srl veniva condannato per omesso versamento dell’Iva risultante dalla dichiarazione annuale per alcuni milioni di euro. In corso di giudizio rilevava l’applicazione della causa di esclusione del reato prevista dall’articolo 13 del Dlgs 74/2000 in conseguenza della compensazione di diritto delle rispettive poste debitorie del contribuente e dell’Erario. Evidenziava che non poteva costituire un ostacolo alla non punibilità il superamento del limite temporale della dichiarazione di apertura del dibattimento previsto dalla legge, in quanto l’udienza era intervenuta prima della introduzione della norma (Dlgs 158/2015). A seguito della conferma della condanna, proponeva ricorso per Cassazione eccependo tra l’altro che il giudice di appello non avesse correttamente applicato il disposto del citato articolo 13 in quanto avrebbe dovuto dichiarare la estinzione del debito erariale in conseguenza dell’applicazione della causa di esclusione della punibilità. In base alla predetta norma ricorre la non punibilità anche per il reato di omesso versamento Iva se il contribuente, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, abbia estinto con integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito di procedure conciliative e di adesione, nonché con ravvedimento operoso, i debiti tributari. Secondo la difesa era irrilevante che la compensazione fosse maturata in corso di giudizio, attesa l’introduzione successiva della norma di favore ad opera del Dlgs 158/2015. La Suprema Corte ha respinto il ricorso. Secondo i giudici di legittimità la doglianza difensiva muove da un presupposto implicito, dato per scontato, secondo cui la “compensazione di diritto” del debito Iva con crediti del contribuente, sarebbe idonea ad integrare la nozione di “integrale pagamento” dei debiti tributari. Tale aspetto, risulterebbe ovviamente prevalente rispetto alla tardività o meno del pagamento. La sentenza invece rileva che l’articolo 13 fa espresso riferimento al “pagamento”, in esso includendo anche ipotesi specifiche derivanti da istituti di natura conciliativa, ma non consente di includervi l’ipotesi della compensazione legale che rientra, per espressa qualificazione del codice civile, tra i “modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento”, ovvero, in altri termini, diversi proprio dal pagamento. Da qui il rigetto del ricorso. Dalla sentenza sembra emergere che l’imputato avesse solo maturato un credito verso l’erario invocando una compensazione legale. Va da sé che se avesse assolto il debito tributario compensando effettivamente tale credito e quindi osservando le vigenti regole fiscali verosimilmente le conclusioni della Corte sarebbero state differenti. Escluso il falso grossolano per la contraffazione dell’atto del notaio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 12 giugno 2020 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 11 giugno 2020 n. 17939. Scatta il reato di contraffazione delle impronte di una pubblica autenticazione o certificazione per chi riproduce il falso sigillo del notaio. Al ricorrente era stata contestata anche la falsificazione di un atto comunale nel quale si attestava l’avvenuto pagamento di una cartella di Equitalia per multe automobilistiche. Un’attitudine a “mentire” di cui aveva fatto le spese soprattutto il padre del ricorrente, proprietario anche dell’auto oggetto di sanzioni amministrativa. Il genitore era stato vittima di un doppio “raggiro”. Il primo falso riguardava, infatti, un atto di compravendita di un’abitazione acquistata per lui e per la madre, in cambio di una cospicua somma chiesta ai genitori. Con l’atto di proprietà in mano il padre recedeva da un accordo per l’acquisto di un altro immobile e ne prendeva uno in affitto, rassicurato dalla promessa del figlio di accollarsi le spese, in attesa che fosse disponibile la nuova casa. Dopo una serie di, inutili, solleciti per il pagamento del canone il padre del ricorrente era stato sfrattato e costretto a rivolgersi ai servizi sociali. Prima però aveva sottoposto il rogito dell’abitazione ai due notai interessati. Entrambi i professionisti disconoscevano le loro firme e rivelavano la falsità degli atti. Inutile per la difesa invocare la non punibilità per la grossolanità dei falsi, compresi i finti pagamenti della cartella di Equitalia mostrata dal ricorrente al padre, come proprietario dell’auto, per rassicurarlo. La Cassazione (sentenza 17939) respinge il ricorso contro la condanna per la violazione dell’articolo 469 del Codice penale. La Suprema corte ricorda che la non punibilità per grossolanità è possibile solo quando il falso è evidente “a occhio” e riconoscibile da chiunque. Nel caso specifico a scoprire i falsi erano stati degli esperti: i notai e la polizia locale. Gli stessi notai avevano però affermato che l’atto somigliava ad un originale. Emilia Romagna. Le carceri riaprono dopo le rivolte, i sindacati della Penitenziaria protestano dire.it, 12 giugno 2020 Condizioni di lavoro ritenute inadeguate dalle sigle dei lavoratori, che lamentano i problemi cronici degli istituti, con l’aggiunta dei danni causati - come a Modena - dalle rivolte di marzo. Sovraffollamento, carenza di personale, strutture da rivedere: i problemi “storici” delle carceri si acuiscono e si accavallano con i nuovi problemi dovuti all’emergenza coronavirus. E ora i sindacati di Polizia penitenziaria insorgono. Questa mattina hanno infatti manifestato sotto la sede del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, nell’ambito di una mobilitazione promossa da Sappe, Osapp, Sinappe, Cgil, Cisl, Uil di categoria, Uspp e Cnpp proprio per denunciare la situazione delle carceri e la mancanza di relazioni sindacali. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la proposta, da parte dell’amministrazione penitenziaria, di aprire nuovi padiglioni nei vari istituti emiliano-romagnoli, ma senza consultare i sindacati. Non sono piaciuti “atti unilaterali come l’apertura di un nuovo padiglione a Parma, senza che ci sia un effettivo coinvolgimento rispetto alle ricadute complessive dell’istituto, con un aumento dei carichi di lavoro e quindi anche con una riduzione della sicurezza di agenti e detenuti - attacca Stefania Bollati, della segreteria regionale Fp-Cgil - a Reggio Emilia relazioni sindacali ai minimi termini, carenza di organico e apertura lo stesso di sezioni. A Forlì una mancata organizzazione del personale da parte di una dirigenza con cui abbiamo difficoltà”. Infine, a Bologna, dove permangono “problemi legati a tutto quello che è stato conseguente alle sommosse, così come a Modena, dove anche lì si vogliono aprire nuove sezioni nonostante le situazioni di difficoltà dal punto di vista dell’edilizia”. Le scorie delle rivolte nelle carceri e dell’emergenza sanitaria, dunque in Emilia-Romagna si sommano a una carenza di organico pari a “circa il 20% di quella che dovrebbe essere l’attuale dotazione: mancano più di 400 unità, in un contesto di sovraffollamento che, dati del garante dei detenuti, di più di 1.000 persone”. Senza contare le difficoltà dovute alla gestione delle misure contro il Covid: “Un corretto distanziamento sociale all’interno degli istituti penitenziari non sempre si puo’ ottenere durante la giornata”. A fronte di questi problemi, però, i sindacati denunciano una “assenza totale dell’amministrazione centrale e periferica”, quando invece “ci aspettavamo un riconoscimento per tutti i colleghi che hanno dato veramente l’anima”, rincara la dose Antonio Fellone, segretario nazionale Sinappe. “Forse qualcuno ha dimenticato che il corpo di Polizia penitenziaria ha fatto due battaglie non una: abbiamo vissuto il Covid-19 ma soprattutto le tantissime rivolte negli istituti penitenziari, a Bologna a Modena sono stati distrutti dei reparti interi- prosegue Fellone- e oggi cosa fa l’amministrazione? Ci convoca per proporci l’apertura di nuovi padiglioni. Signori miei, ci sono istituti distrutti. C’è Modena che ha tre-quattro padiglioni fuori uso e ci propongono nuovi padiglioni a Parma e in altri istituti”. Secondo il sindacalista, prima di aprire nuovi padiglioni “uno: serve personale di cui l’Emilia-Romagna ha una fortissima carenza; due: cerchiamo di mettere a posto gli istituti che sono in grandissime difficoltà. Volevo ricordare che ci sono stati dei morti e solo grazie alla grande professionalità dei poliziotti coinvolti tutto è tornato alla normalità”. Abruzzo. “La Rems di Barete simile a una struttura detentiva” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 giugno 2020 La denuncia del presidente di “180 amici per la tutela della salute mentale”. Alessandro Sirolli: “la regione Abruzzo ha interrotto il confronto, rinviando la costituzione del tavolo permanente magistratura psichiatria. La residenza abruzzese per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) di Barete assomiglia sempre di più ad una struttura detentiva anziché sanitaria. La denuncia parte da Alessandro Sirolli, già direttore del Centro diurno psichiatrico della Asl dell’Aquila, presidente dell’Associazione 180 amici per la tutela della salute mentale, promotrice del Comitato nazionale Stop Opg, e co-referente per l’Abruzzo dell’Osservatorio nazionale sulle Rems. “Alla Rems di Barete - denuncia Sirolli - sono state rilevate gravi criticità, ma complice l’emergenza Coronavirus la Regione Abruzzo ha interrotto il confronto senza più convocare gli incontri previsti e rinviando la costituzione del tavolo permanente magistratura- psichiatria su cui l’assessore alla Salute Nicoletta Verì si era impegnata”. Sirolli nell’ottobre scorso ha partecipato alla visita ispettiva, insieme al direttore generale della Asl Roberto Testa, al direttore del Dipartimento Salute mentale, Alessandro Rossi, al magistrato di sorveglianza Bianca Maria Serafini, e alla responsabile del Tribunale del Malato, Paola Federici, che ha confermato alcune criticità riportate in una relazione in cui si afferma che la Rems “ha assunto ormai un aspetto sempre più detentivo e sempre meno una definizione sanitaria riabilitativa. Il clima che si è instaurato di paura diffuso sta sempre più determinando chiusure preoccupanti e separazioni tra curanti e curandi”. Nella relazione di parla anche di “eventi critici che hanno modificato il buon andamento della Rems constatato nei precedenti report di ottobre 2016 e dicembre 2018” e si ricorda come dall’apertura, nel maggio del 2017, ci sono state 8 aggressioni tra pazienti e 21 agli operatori. A quella visita sono seguiti “diversi tentativi di confronto con il Dipartimento di Salute mentale e col direttore generale della Asl, perché come Comitato e come Osservatorio abbiamo dato da sempre disponibilità alla collaborazione perché la Rems tornasse ad essere una struttura tra le più virtuose d’Italia così com’è stato nei primi due anni di vita, dal 2016 al 2018”. Sirolli evidenzia come ci siano anche problemi dovuti alla precarietà del personale e a una formazione inadeguata e alla mancanza di progetti terapeutici e riabilitativi da parte dei Centri per la Salute mentale. “Speriamo che si torni a ragionare insieme e ad ascoltare le nostre proposte”, chiosa Sirolli rivolto a Regione e Asl. Le Rems, in generale, sono tuttora monitorate dall’autorità del garante nazione delle persone private della libertà. Nell’ultimo bollettino ha dedicato un lungo capitolo su queste strutture. Ha soprattutto sottolineato il pericolo di chi vorrebbe portare nelle Rems non solo gli internati, ma anche tutte le persone detenute che hanno maturato disagi comportamentali, psicologici o cognitivi, ricostruendo così una sorta di manicomio diffuso. Non solo. Per il Garante è più sottile, invece, il tema sollevato da chi, pone la questione dell’insufficienza dei posti nelle Rems e ne chiede la costituzione di nuove. In realtà, precisa il Garante, “l’assegnazione alla Rems deve essere anche essa una misura residuale all’interno di un percorso che veda nella presa in carico esterna il punto di forza”. Napoli. Il mistero di Diego, morto “suicida” a Poggioreale di Rossella Grasso Il Riformista, 12 giugno 2020 Il fratello: “Lo hanno ucciso, voglio la verità”. “Mio fratello Diego se ha visto il mare tre volte nella sua vita è pure assai. Il resto lo ha passato in carcere a scontare i reati commessi ma non meritava di pagare anche con la vita”. Christian Cinque è il fratello di Diego, morto a 29 anni in carcere. Subito il caso fu archiviato come suicidio, uno dei tanti che si susseguono nelle carceri. Ma Christian non ci ha creduto nemmeno per un istante. Diego stava scontando una pena di 7 anni per rapina. Arrestato a luglio 2016, sarebbe tornato in libertà a marzo 2023, una pena breve che non avrebbe comunque giustificato la voglia di un suicidio da parte di Diego, giovane, con una compagna con cui aveva un rapporto molto sereno e una figlia di 1 anno e mezzo per cui stravedeva e non vedeva l’ora di riabbracciare. “Io sentivo spesso mio fratello ed era sereno - racconta Christian - certo a volte mi ha parlato di qualche lite con gli altri detenuti ma sono situazioni a cui un ragazzo come lui era abituato”. Christian ricorda con dolore quando quella mattina del 16 ottobre 2018 trovarono suo fratello impiccato nel bagno vicino alla sua cella. “Mi telefonarono alcuni detenuti suoi compagni di cella - dice - mi precipitai al carcere di Poggioreale e mi dissero che era vero: mio fratello era ancora appeso al soffitto con un laccio per le scarpe. Mi dissero subito che era stato un suicidio ma io non ci ho mai creduto. Era un ragazzo abituato al carcere e non ne era turbato. Poi quando vidi il corpo senza vita diceva chiaramente che non si era ammazzato da solo”. Subito fu chiesta l’archiviazione come morte determinata da “asfissia acuta meccanica violenta da impiccamento suicidario tipico”. Complice anche la circostanza del ritrovamento del corpo chiuso in bagno dall’interno con una corda tesa a bloccare la porta e uno sgabello rovesciato. Ma alcune incongruenze tra cui la ricostruzione dei compagni di cella di quella mattina portarono il giudice per le indagini preliminari a rigettarla e riaprire il caso. A confermare i sospetti di Christian è stato soprattutto l’esame del medico da lui ingaggiato per un’autopsia di parte. Sul collo di Diego c’erano due diversi segni, un primo più doppio, simile a un lenzuolo, e un secondo stretto come un laccio di scarpe che però non sembrava essere stato stretto attorno al collo di una persona viva. E ancora colpi di percosse e le analisi agli occhi che denunciavano che Diego era passato dal sonno alla morte. Poi il sangue condensatosi sulla schiena segno di un corpo morto supino e non appeso per il collo. “No, mio fratello non si è suicidato - dice Christian che non si dà pace - non lo so cosa sia successo. Credo nella giustizia e non credo sia stata opera della polizia penitenziaria. Ma chiunque sia stato io merito di conoscere la verità”. “Sono due anni che il carcere di Poggioreale teneva ancora gli effetti personali di mio fratello - racconta Christian - Quando morì mi dissero che queste cose erano sotto sequestro. Sono recentemente andato a ritirare il suo borsone, l’ho preso, ho ingenuamente firmato senza controllarne il contenuto e sono andato a casa. Con grande dispiacere l’ho aperto e l’ho trovato quasi vuoto. Non sono importanti le cose, i vestiti o gli oggetti, erano gli ultimi ricordi affettivi che abbiamo di lui. Ci hanno portato via anche quelli. Voglio solo giustizia”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Pestaggi e tortura, indagati 57 agenti penitenziari di Adriana Pollice Il Manifesto, 12 giugno 2020 I detenuti avevano protestato per ottenere le mascherine. Salvini si è presentato nella struttura per cavalcare la protesta degli agenti: “Ci vogliono le pistole elettriche”. L’operazione è iniziata ieri mattina alle 7: 57 agenti di polizia penitenziari, tra i quali il comandante Gaetano Manganelli, tutti in servizio al carcere di Santa Maria Capua Vetere, hanno ricevuto un avviso di garanzia: la procura, guidata da Maria Antonietta Troncone, contesta i reati di tortura, violenza privata, abuso di autorità. Sono anche stati sequestrati i telefoni cellulari degli agenti. Alcuni di loro hanno protestato con le stesse modalità dei detenuti: sono saliti sul tetto del carcere. L’indagine è partita dalle denunce del garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, e dell’associazione Antigone. I familiari dei reclusi hanno raccontato di pestaggi e ripetute umiliazioni subite dai carcerati dopo le proteste del 5 aprile. Nei dossier ci sono le testimonianze, foto e registrazioni di conversazioni telefoniche. Nel carcere, infatti, i colloqui in presenza erano bloccati per la pandemia ma si poteva comunicare tramite videochiamata. Il 5 aprile uno dei detenuti del reparto Nilo, addetto alla distribuzione della spesa, finì in isolamento con la febbre alta per sospetto (poi confermato) Covid-19. La notizia alimentò la paura del contagio fino a sfociare in una protesta: circa 150 detenuti organizzarono la tradizionale battitura delle sbarre. Nella terza sezione del reparto Nilo arrivano a barricarsi dietro una barriera di brande, chiedendo la distribuzione di dispositivi di protezione. Il giorno dopo il magistrato di Sorveglianza tenne un colloquio che riportò la calma: accertò infatti che gli atti di insubordinazione non avevano assunto i connotati di una rivolta. Una volta andato via, tra le 15 e le 16, agenti sarebbero entrati nel reparto in tenuta antisommossa, con i volti coperti dai caschi, e avrebbero proceduto ai pestaggi. Gli agenti invece sostengono di aver evitato una sommossa che era in preparazione, sequestrando mazze e pentole d’olio. Ieri hanno contestato la modalità in cui sono stati consegnati gli avvisi di garanzia, all’esterno del carcere davanti i familiari dei detenuti che arrivavano per i colloqui. “Ho regole da far rispettare e i detenuti le devono rispettare. Non rappresento più la legalità” ha protestato uno dei poliziotti salito sul tetto all’indirizzo del procuratore aggiunto Alessandro Milita. “Perché questa eccessiva spettacolarizzazione? - ha aggiunto un collega -, noi cercavamo solo si riportare la calma tra i detenuti”. E la Fp Cgil: “La magistratura accerti i fatti ma la situazione è fuori controllo a Santa Maria Capua Vetere, l’amministrazione è responsabile della sicurezza e dell’incolumità del personale e dei detenuti. I lavoratori sono stati lasciati soli”. Matteo Salvini si è precipitato ieri pomeriggio nel penitenziario casertano per fare propaganda: “Ho chiuso l’ufficio e sono venuto qui - ha arringato - è una giornata di lutto per l’Italia. Le rivolte non le tranquillizzi con le margherite. Le pistole elettriche e la videosorveglianza prima arrivano meglio è”. E Giorgia Meloni, da Roma: “In Italia arrivano vergognosamente gli avvisi di garanzia alla polizia penitenziaria. E cosa grave, il compito di notificarli viene affidato ad un altro corpo dello Stato, i Carabinieri”. Nessuno ricorda cosa è successo ai detenuti. I detenuti temevano che il Covid si diffondesse, erano in una struttura sovraffollata, il Dap aveva diffuso una direttiva: i sospetti affetti da coronavirus dovevano rimanere in isolamento nella cella con gli altri, la porta blindata chiusa ma con il personale che portava i pasti. Tutte misure inadatte a fermare il contagio. Il 6 aprile, raccontano, sarebbe partito il primo pestaggio. Quindi sarebbero stati trascinati in corridoio dagli agenti che continuavano a colpirli, costringendoli alla fuga verso le scale fino all’area del passeggio. “Ad alcuni caduti in terra sarebbero stati dati altri colpi - spiega Luigi Romano, presidente di Antigone Campania. Ad altri sarebbe stato chiesto di uscire dalle celle per una perquisizione. Una volta denudati, sarebbero stati insultati e pestati. Vari detenuti sarebbero stati costretti a radersi barba e capelli. A operazione finita alcuni sarebbero stati messi in isolamento, altri trasferiti in altri istituti. Nei giorni seguenti molte telefonate non sarebbero state consentite. A chi invece era consentito chiamare sarebbero state rivolte minacce nel caso in cui avessero raccontato. Diversi medici avrebbero omesso dai referti i segni delle violenze. Se tutto questo sarà accertato dalla magistratura, allora dovremo dedurre che è stata un’azione organizzata”. Trauma cranico, costole e denti rotti, segni di percosse: i detenuti lo hanno raccontato ai familiari ma non solo, alcuni sono poi usciti in permesso, sul corpo avevano ancora segni e tumefazioni. Antigone, con il suo avvocato Simona Filippi, ha chiesto alla procura di indagare ai sensi dell’art. 613bis, che punisce gli episodi di tortura. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Ieri sul tetto sono saliti gli agenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 giugno 2020 Manifestavano perché 44 sono stati iscritti nel registro degli indagati. La decisione della Procura per i presunti pestaggi del 6 aprile dopo la protesta del giorno precedente dei detenuti per un sospetto caso di Covid. Attimi di tensione ieri. nel carcere campano di Santa Maria Capua Vetere. Qualcuno è salito sul tetto, urlando contro, a detta loro, gli abusi da parte delle autorità. Perquisizione, blocco delle entrate, disagi vari. No, non parliamo dei detenuti. Questa volta a creare tensione sono gli agenti penitenziari stessi che hanno subito delle perquisizioni da parte dei carabinieri. Alcuni agenti hanno raccontato di essere stati bloccati nelle auto prima dell’ingresso e di essere stati identificati “senza rispetto per il ruolo”. Il motivo? La procura di Santa Maria Capua Vetere ha iscritto nel registro degli indagati 44 agenti penitenziari in servizio nel carcere sammaritano in una inchiesta avviata dopo presunte violenze all’interno dell’istituto in seguito a una rivolta. Ma cosa sarebbe accaduto? La ricostruzione degli eventi è stata recentemente riportata dall’avvocato di Antigone Simona Filippi nell’ultima relazione. Il 5 aprile, a seguito del diffondersi della notizia che tra i detenuti del reparto “Nilo” ci fosse un caso positivo al “Covid 19” (l’addetto alla spesa, il così detto “spesino”), alcuni detenuti hanno iniziato una protesta. In particolare, i detenuti del III piano del Reparto “Nilo” hanno occupato la sezione, bloccando il cancello con le brande e barricandosi dentro. Dalle segnalazioni pervenute non è stato possibile approfondire con quali modalità i detenuti abbiano realizzato la protesta ma è invece emerso, quale dato certo, che nel corso della stessa serata del 5 aprile, anche grazie all’intervento del direttore e del Garante regionale Samuele Ciambriello, la protesta è rientrata. La mattina seguente - il 6 aprile - anche il Magistrato di sorveglianza si recava presso l’istituto per un confronto pacifico con i detenuti. La protesta era oramai rientrata già dalla sera precedente. Sempre nella giornata del 6 aprile, ma intorno alle ore 15, agenti di polizia in tenuta antisommossa, con il volto coperto da caschi e i guanti alle mani, avrebbero posto in essere una seria e articolata azione di violenza contro molti detenuti. Secondo la ricostruzione, alcuni agenti sarebbero entrati nelle celle e, cogliendo i detenuti di sorpresa, li avrebbero violentemente insultati e picchiati con schiaffi, pugni, calci e a colpi di manganello. I detenuti sarebbero poi stati trascinati fuori dalle celle, nel corridoio, dove sarebbero stati ancora pestati e, per sfuggire ai colpi, costretti a correre, passando dalle scale, fino all’area di “passeggio”. Chi cadeva a terra durante la corsa pare abbia subito ulteriori violenze. Altri agenti, invece, avrebbero invitato i detenuti ad uscire dalle loro celle per effettuare la perquisizione e, dopo aver fatto levare loro gli indumenti, li avrebbero percossi violentemente con calci, pugni e con colpi di manganello. Dopo il pestaggio, diversi detenuti sarebbero stati costretti a radersi barba e capelli. Alcuni detenuti picchiati sarebbero poi stati posti in isolamento, altri sarebbero stati trasferiti in altri istituti. Dalla ricostruzione dei fatti emerge che le violenze sarebbero avvenute in un momento temporalmente distante da quello delle proteste. Il garante locale di Napoli Pietro Ioia aveva raccolto la testimonianza di un detenuto che ha vissuto in prima persona il presunto pestaggio e che era poi andato in detenzione domiciliare. Il Dubbio l’aveva sentito e riportato la testimonianza sulle pagine del giornale. Le immagini delle telecamere della videosorveglianza sono state già acquisite, probabilmente qualcosa dovrebbe essere emerso se la procura ha inviato gli avvisi di garanzia a ben 44 agenti. Ma cosa sia accaduto veramente solo la giustizia potrà stabilirlo. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Le telefonate a casa: “Ci massacrano con il manganello” di Piero Rossano Corriere del Mezzogiorno, 12 giugno 2020 I racconti dei detenuti ai loro familiari. Decine di denunce a polizia e carabinieri. “C’hann accis. Song venute dint ‘e cell a quatt, cinque ‘e loro”. La voce dall’altro capo del telefono è quella di una persona che denuncia al suo interlocutore, la moglie a casa, una inusuale difficoltà nell’esprimersi. A parlare con molta sofferenza è un detenuto della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere e l’audio, registrato, finisce in una chat di familiari di detenuti. Assieme a numerosi altri. È la sera del 9 aprile. “Amo’ che stai dicenn? Perciò non ti ho sentito per tre giorni? E chi è stat?” incalza la donna. Renato, è così che chiama suo marito, aggiunge: “‘E casc blu”. I caschi blu. Non quelli dell’Onu: il blu è il colore d’ordinanza dei berretti del corpo della polizia penitenziaria. Al carcere di Santa Maria Capua Vetere, in quei giorni di tensione dopo le proteste e le intemperanze scoppiate a seguito della sospensione dei colloqui tra detenuti e familiari d’inizio marzo, sono stati distaccati altri agenti provenienti da Secondigliano. In tenuta anti-sommossa. Sono particolari che emergono dalle denunce di mogli, figli, sorelle di ospiti del penitenziario che si sono rivolti a carabinieri e polizia per segnalare presunti abusi e maltrattamenti ai danni dei loro congiunti. “‘E casc blu” sono una definizione ricorrente nelle telefonate. “So trasut ch’e manganiell, hann arruvutate tutt cose e c’hann menato pè senza niente”, riferisce un altro detenuto in una telefonata. I primi episodi denunciati dai carcerati fanno riferimento alle perquisizioni operate dagli agenti di polizia penitenziaria nel pomeriggio di lunedì 6 aprile. Siamo ad un mese esatto dalle disposizioni governative sulla sospensione dei colloqui tra detenuti, familiari e avvocati. Anche la provincia di Caserta è attraversata in quelle settimane dal timore dell’avanzata del Coronavirus. La gente è chiusa in casa, tutte le attività sono ferme. Scendono in strada per alcune mattinate di seguito i familiari degli ospiti del carcere. All’esterno della struttura protestano mogli, figlie, genitori di detenuti (più tardi il Dap fornirà cellulari che gli ospiti potranno utilizzare a turno per parlare con casa) e qualche avvocato. Nei giorni precedenti si era avuta notizia di qualche protesta all’interno della casa circondariale. Tutto era partito con la “battitura” di pentolame, avvenuta anche in altre carceri d’Italia. Ma la tensione era crescente. Da qui la richiesta della direzione di ottenere rinforzi. Quel lunedì gli agenti hanno l’ordine di entrare nelle celle per operare perquisizioni. “Il timore - raccontano alcuni legali - è che potessero essere state nascoste armi rudimentali da utilizzare in una eventuale rivolta”. Solo che dal racconto delle vittime dei presunti pestaggi si desume che dev’essere accaduto qualcosa visto che la polizia penitenziaria ha ritenuto, sempre secondo i resoconti, di utilizzare le maniere forti. “Ci hanno rasato i capelli a zero, ci hanno tolto pure la barba. Ma dopo che ci avevano scassat ‘a capa cu ‘e manganielle”, racconta sempre al telefono Ciro E. alla moglie Flavia A. un paio di giorni dopo. “Nun putimm fa’ cchiù videochiamate, sulo telefonate pecché stamme tutti rutti”. Il giorno dopo, siamo al 9 di aprile, la donna varca l’ingresso della stazione dei carabinieri di Afragola e denuncia i fatti. Nel suo esposto si legge il termine “tortura”. Le denunce delle presunte violenze si moltiplicano. Il 14 di aprile Rosa E. si porta presso il Commissariato di polizia di Secondigliano. Al sovrintendente capo seduto davanti al pc spiega di essere la figlia di Raffaele E. e che dopo che in carcere si era diffusa la voce di contagi ed erano sorte nuove tensioni tra gli ospiti, il giorno 6 il padre era rimasto vittima di un pestaggio della polizia in cella. L’agente che raccoglie la denuncia chiede alla donna: “Da parte di chi?”. Lei risponde: “Dei caschi blu”. Di nuovo: “Successivamente ha ricevuto cure mediche?”. La risposta della donna è affermativa. “Amo’, aggia letto ‘ncopp ‘a internet che è succies ‘o burdello”, recita un altro audio di conversazione tra una signora e il marito in carcere. “Sì. E a me mi fa male tutto”. Segue un pianto di donna. Seguono due mesi d’indagine. Ieri i primi sviluppi. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Salvini corre a portare solidarietà agli agenti di Angelo Agrippa Corriere del Mezzogiorno, 12 giugno 2020 Il blitz del leader della Lega: “È un giorno di lutto per l’Italia, qui premiano i delinquenti e accusano chi ripristina l’ordine”. Lo aspettano contenendo a stento la rabbia, si sentono mortificati dalle modalità con le quali i carabinieri in mattinata li hanno attesi all’ingresso del carcere di Santa Maria Capua Vetere - dinanzi ai parenti dei detenuti in coda per i colloqui - prima di prestare servizio, per identificarli uno ad uno, notificare loro gli avvisi di garanzia e sequestrargli i cellulari. Matteo Salvini viene accolto da una folla acclamante di baschi azzurri come se fosse atterrato l’angelo giustiziere: “Ho lasciato i miei impegni d’ufficio - riferisce appena apre lo sportello dell’auto - e la registrazione di Porta a Porta per venire qui e portare la mia solidarietà agli agenti penitenziari. Oggi è una giornata di lutto per l’Italia”. Dentro la struttura - raccontano i sindacati - due magistrati continuano ad interrogare gli ufficiali della polizia penitenziaria per fare chiarezza sui presunti pestaggi del 6 aprile scorso. Gli agenti circondano Salvini. Gli chiedono di passare alle dipendenze del ministero dell’Interno ed invocano a gran voce le dimissioni del Guardasigilli Alfonso Bonafede. “Non hanno pagato nulla i delinquenti che hanno distrutto le carceri e ferito i poliziotti. A pagare per tortura dovrebbero essere i poliziotti che hanno riportato in cella i delinquenti? È una follia - commenta indignato il leader della Lega -. Se uno su mille sbaglia, paga. Ma non esiste che vengano perquisiti gli agenti davanti ai parenti dei detenuti. Non vedo l’ora che nelle carceri tornino a valere il diritto, la legge, l’ordine, la disciplina, dove i buoni sono quelli in divisa, mentre gli altri devono solo obbedire”. È un’onda urlante di decine di agenti ad accompagnare l’ex ministro. Con Salvini, poi, anche il consigliere regionale Gianpiero Zinzi e l’ex rettore dell’Università di Salerno Aurelio Tommasetti con il leader dei giovani leghisti Nicholas Esposito. L’ex ministro sa quale spartito tirar fuori in queste circostanze e dice ciò che gli agenti vogliono sentirsi dire: “È una schifezza senza precedenti il metodo usato per notificare gli avvisi di garanzia - accusa -. Se ci sono state rivolte con coltelli e olio bollente, difficilmente le plachi con le margherite. Vorrei vedere il garante dei detenuti con cento delinquenti che fanno casino come si difende. Qualche agente mi ha pure riferito che risulta indagato pur non essendo stato presente il 5 o il 6 aprile sul posto di lavoro. Come ha fatto a torturare qualcuno a distanza? Chi sbaglia deve pagare, ma costringere 50 persone domani a venire sul posto di lavoro ed essere derisi, aggrediti e sbeffeggiati da spacciatori e camorristi è demenziale. Anzi, prima arrivano pistole elettriche e videosorveglianza e meglio è”. A contestare l’ex ministro dell’Interno, sia i 5 stelle, che hanno definito “un atto di sciacallaggio” la sua visita, sia il sindaco di Benevento ed ex ministro della Giustizia, Clemente Mastella, secondo il quale il leader leghista avrebbe dovuto risparmiarsi “la sceneggiata” nel penitenziario casertano: “L’incursione di Salvini è politicamente immorale e incita all’antagonismo tra forze di polizia”. A distanza interviene la presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni: “In una nazione normale lo Stato, all’indomani delle rivolte nelle carceri, organizzate dalla criminalità organizzata, avrebbe agito tempestivamente e punito in maniera esemplare i responsabili. In Italia invece arrivano incredibilmente e vergognosamente gli avvisi di garanzia alla Polizia penitenziaria. E cosa grave, il compito di notificarli viene affidato ad un altro corpo dello Stato, i Carabinieri”. Rincara la dose il deputato di FdI Edmondo Cirielli: “Grazie a Bonafede, i delinquenti organizzano le rivolte nelle prigioni e i poliziotti penitenziari vengono indagati. Totale solidarietà agli agenti”. Il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, attende le risultanze delle indagini: “Intendo mantenere il più stretto riserbo sull’inchiesta - precisa. Abbiamo lavorato con massima scrupolosità e nel rispetto della nostra funzione di tutela e garanzia, segnalando alla magistratura episodi e denunce su cui è necessario, a garanzia di tutti, che si faccia chiarezza. Ciò nell’ambito del ruolo istituzionale che ricopro che mi impone di svolgere con terzietà e imparzialità la mia funzione di garante delle persone ristrette”. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria fa sapere che ha seguito e segue “con grande attenzione quanto accaduto. I fatti vanno considerati col massimo rispetto verso l’operato della magistratura cui competono compiti e funzioni di accertamento dei reati”. Mentre si assicura che si farà “massima chiarezza in tempi brevi” e che si “intende rivolgere un rispettoso riconoscimento al corpo della Polizia penitenziaria e a ogni singolo operatore che in esso e per esso svolge quotidianamente, con convinzione, dedizione e sacrificio, un compito non facile e al servizio del Paese”. Pavia. “Pestati in carcere”, la denuncia dei detenuti di Maria Fiore La Provincia Pavese, 12 giugno 2020 Gli episodi si sarebbero verificati dopo la rivolta dell’8 marzo per lo stop ai colloqui. Esposto già presentato alla procura. Oltre ai danni materiali, la rivolta di marzo nel carcere di Torre del Gallo rischia di avere anche strascichi giudiziari. E non solo per i detenuti che hanno partecipato alla ribellione, incendiando materassi e distruggendo arredi prima di salire sul tetto della struttura. Un esposto in procura degli stessi detenuti punta l’indice contro alcune guardie della polizia penitenziaria. “Il giorno successivo alla rivolta mi hanno denudato e picchiato”, accusa un recluso in tre pagine di denuncia. Nel documento, che indica testimoni e fa nomi e cognomi, si ricostruisce la sua versione, che dovrà ora essere vagliata da un magistrato. Altri detenuti stanno preparando altri esposti. Il presunto pestaggio sarebbe avvenuto il giorno successivo alla rivolta. Un detenuto di 47 anni spiega di essere stato sorpreso dall’incendio mentre si trovava all’interno della sua cella. “Abbiamo avuto paura di morire intrappolati, per il fuoco o per il fumo - si legge nella denuncia. Dopo 15 minuti vediamo delle persone in corridoio, non sono agenti. Ci aprono la porta e siamo salvi. Il panico è generale. Molti detenuti raggiungono il tetto”. La rivolta dura diverse ore e solo dopo le due di notte nel carcere si ritorna alla calma. I rivoltosi scendono dal tetto e ritornano nelle celle. Ma al mattino, secondo il detenuto, accade qualcosa di strano. “Arrivano in sezione 35 agenti, sono muniti di manganelli e cominciano a percuotere con violenza le porte metalliche delle celle - è la denuncia. Alcuni aprono le celle una alla volta e cominciano a picchiare i detenuti, altri vengono portati nella saletta di ricreazione, di fronte alla mia cella”. Anche il detenuto, secondo la sua versione, viene prelevato. “Vengo prima aggredito verbalmente, mi dicono che sono saliti sul tetto ma non è vero - si legge - poi mi viene ordinato di spogliarmi e di fare piegamenti sulle gambe. A un certo punto uno ordina lo stop e un altro mi colpisce con due pugni”. Secondo la denuncia del detenuto il presunto pestaggio sarebbe continuato in saletta. “Altri agenti mi circondano e prendono a manganellarmi, finisco a terra tra gli insulti - si legge. Mi riparo contro il muro”. Una volta in cella, “trovo la stanza devastata, la spesa non c’è più”, si legge nella denuncia. Accuse gravi, tutte da verificare. Nessuna dichiarazione dai vertici del carcere e dalla direttrice, Stefania D’Agostino. Per Gian Luigi Madonia, segretario regionale dell’Uspp, “i fatti accaduti tra il 7 e il 9 marzo hanno rappresentato una situazione ormai fortemente compromessa delle carceri italiane ma il personale ha gestito egregiamente la delicatissima criticità. Sui presunti pestaggi non mi esprimo, c’è piena fiducia nell’autorità giudiziaria”. - Palermo. Colloqui tra detenuti e difensori, protocollo per il carcere Pagliarelli di Antonella Barone gnewsonline.it, 12 giugno 2020 Un protocollo per regolamentare i colloqui tra i detenuti e i loro difensori, fino al termine dell’emergenza sanitaria da Covid-19, è stato firmato ieri dalla direttrice della casa circondariale di Palermo “Pagliarelli - Antonio Lorusso”, Francesca Vazzana, e dal presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo, Giovanni Immordino. Un accordo reso opportuno dalla persistenza, nonostante le graduali riaperture, di alcune sacche epidemiche nel panorama globale e nazionale che, sia pure circoscritte ad aree limitate impongono - viene spiegato nel documento - di “mantenere e adottare, se necessario, nuove precauzioni, volte a tutelare la salute pubblica, contenendo il pericolo di contagio”. Gli articoli del protocollo definiscono nel dettaglio gli impegni dei firmatari, che potranno essere integrati da nuove modalità di contatto tra difensori e detenuti, in caso sopraggiungano nuove esigenze di gestione della pandemia. Gli avvocati saranno tenuti a utilizzare una casella di posta elettronica messa a disposizione dall’istituto per prenotare i colloqui con i loro assistiti e dovranno, salvo circostanze particolari, rispettarne i tempi di durata prestabiliti. I legali saranno tenuti, inoltre, a sottoporsi alla misurazione della temperatura corporea nella zona dedicata alla fase di triage, nonché all’uso di mascherina, di guanti e, in aggiunta, di visiera protettiva. La direzione si impegna a mettere a disposizione degli avvocati un’ulteriore sala d’attesa mentre, in alternativa al colloquio, si conferma l’opportunità di svolgere l’attività legale tramite collegamento attraverso un’utenza telefonica fissa. La sottoscrizione del protocollo d’intesa, condiviso anche dal presidente della Camera Penale di Palermo, Fabio Ferrara, rappresenta un valido strumento per raggiungere l’obiettivo comune - sottolinea la direzione della casa circondariale - “di migliorare lo svolgimento del diritto di difesa nel rispetto delle misure atte a prevenire il contagio”. Napoli. Valeria Parrella: “Nisida insegna ai ragazzi che è possibile fidarsi degli adulti” di Biagio Castaldo Il Riformista, 12 giugno 2020 Intervista alla finalista del Premio Strega. “In carcere, del presente non si parla e il futuro non si immagina”, scrive Valeria Parrella nel suo ultimo romanzo, “Almarina”, edito da Einaudi, nel quale riflette sulla condizione umana in sosta sulla soglia del carcere di Nisida, la responsabilità di chi sta fuori e la livella del giudizio dal di dentro. Finalista al Premio Strega e candidata al Premio Napoli, Valeria Parrella è, tra gli altri, l’autrice di un manuale tradotto in sei lingue sui diritti dei detenuti e oggi, sulle colonne de Il Riformista, ribadisce il principio di responsabilità sociale e di misericordia nei confronti dei carcerati. “Nisida è un’isola e nessuno lo sa. Nisida è un classico esempio di stupidità”, cantava con ritmo reggae Edoardo Bennato negli anni Ottanta. Eppure Nisida esiste, non come atollo in mezzo al mare, bensì come un affronto agli occhi di Posillipo, il promontorio che gli antichi greci denominarono “tregua dal dolore”, per l’incantevole vista sul golfo di Napoli. Una delle più ricercate Leggende napoletane di Matilde Serao narra la storia di Posillipo, un giovane innamorato di un’indifferente e malvagia ninfa di nome Nisida, la cui riluttanza all’amore lo portò a metter fine alle sue sofferenze, perdendo la vita in mare. Il castigo del fato arrivò però puntuale: Posillipo fu mutato in “un poggio che si bagna nel mare”, dal quale potrà guardare la sua amata isola di “pietra levigata, dura e glaciale” per l’eternità, ma solo da lontano. Nisida ha ereditato l’asprezza della sua fanciulla, è l’isola della pena e dell’espiazione, un sopruso che acuisce di senso la privazione della bellezza. Da “isoletta delle capre”, dove riparò Ulisse, poco lontano dal Paese dei ciclopi, è divenuta lazzaretto per gli appestati, prima che un ponte di pietra la rendesse una costola di Napoli, annettendola alla Bagnoli delle ex acciaierie. Oggi è una colonia giovanile, sulla quale un istituto di pena per minorenni ospita in media 45 tra ragazze e ragazzi, accusati di furto, estorsione, spaccio e omicidio; il confino tra le sue celle è anche negazione del mare e del nome, spesso sostituito con la grammatica dei codici della Legge che li ha puniti. Valeria Parella, conosciamo la sua militanza politica e l’impegno nelle carceri napoletane, da Poggioreale a Nisida, attenta ai diritti dei detenuti e in difesa delle minoranze etniche e di genere. Quanto di Almarina lei ha visto in prima persona? Io a Nisida ci sono entrata per un laboratorio di Scrittura creativa per quattro anni di seguito. Non ero mai stata in un carcere minorile e subito ho opposto a questo una grande resistenza, perché già le carceri per adulti lasciano un senso di frustrazione profondissimo. Sono fatte male, sono inadeguate, sovraffollate e perché la carcerazione è ingiusta, così come viene attuata. La certezza della pena è un fondamento costituzionale, ma ugualmente lo deve essere il rispetto della detenzione. A Nisida quindi ci sono entrata molto malvolentieri. Il mio libro è un pretesto per raccontare questa resistenza a varcarne i cancelli: nell’entravi e nell’uscirvi, perché uscire da un luogo in cui ci sono persone che hanno l’età dei tuoi figli e che quella sera non dormiranno in una casa, quella è un’attestazione di crudeltà fortissima. Attraverso la figura di Elisabetta Maiorano, ha potuto declinare il tema, centrale in Almarina, del principio di responsabilità sociale nei confronti dei detenuti. Una responsabilità, e non un senso di colpa, che investe tutti noi, che siamo i veri colpevoli della Storia. Ma in che modo potremmo dirci realmente responsabili? Uno degli assunti del mio libro e di cui sono più sicura è che ovunque ci sia un minore colpevole, da un’altra parte c’è un adulto colpevole. Tutte le figure che circondano un minore detenuto sono importanti, Nisida per questo è un ottimo carcere minorile. Qui il senso rieducativo significa aiutare questi ragazzi a capire che ce la possono fare, che sono persone, che sono degni e che possono trovare una strada. Mi viene quindi da chiedermi, ma in maniera retorica, non è forse nei quartieri a rischio, quando hai una madre che si prostituisce o un padre agli arresti domiciliari o un fratello che spaccia, non è forse anche lì che c’è una mancanza di libertà? Nel suo romanzo scrive: “Bisogna avere misericordia dei detenuti”, un’idea che rimanda subito alle meditazioni del Papa recitate durante la Via Crucis dello scorso Venerdì Santo, e nelle quali il carcere viene definito come “il luogo in cui si continuano a seppellire uomini vivi”. Dov’è dunque la misericordia degli uomini che permettono il fine pena mai o le stipate condizioni di detenzione, anche in piena pandemia? Il fine pena mai equivale a una condanna a morte. Credo che sia contro i diritti dell’uomo e del cittadino. La mia è una posizione politica, non da giurisperita, ma tutte le posizioni che possano convergere verso l’abolizione dell’ergastolo sono fondamentali per lo sviluppo di una società degna di questo nome. Mi spaventa un’Italia in cui è possibile l’ergastolo, ho più fiducia in un Paese in cui non ci sia il senso della vendetta nella pena. La protagonista di Almarina, un’immigrata romena, si trova a Nisida per aver rubato un telefonino, dopo essere stata violentata e aver attraversato i Balcani. Se come ha detto “il carcere è un punto limite, come Lampedusa”, potremmo dedurne che Almarina sia solo un archetipo delle tante Almarine contemporanee, approdate sulle coste del nostro Paese… Credo che il carcere sia un limes, nel senso latino del termine, cioè un luogo oltre il quale sei in un modo, e prima del quale sei in un altro. Nel mondo contemporaneo e in Occidente, il carcere è uno dei pochissimi luoghi nei quali esperire, in pochi metri e dopo aver passato una procedura di ingresso, una condizione di sospensione della libertà e dei diritti. Questa cosa, che è sì archetipica, ci rende tutti responsabili. Prevenzione ed educazione sono le parole chiave per il processo di reinserimento del giovane carcerato nella società. E a Nisida, la scuola è l’unico spazio senza sbarre, l’istruzione è dunque l’unico luogo deputato alla libertà. Che ruolo ha effettivamente la rieducazione culturale per il futuro di questi ragazzi? Nisida insegna una cosa ai ragazzi, e cioè che è possibile fidarsi degli adulti. Questo non è poco, specie se per tutto il resto della tua vita è sempre andato al contrario. Noi stessi siamo i primi a far fatica a fidarci degli altri. La paura è infatti per il dopo, per il reinserimento. Lo Stato così come riesce a manifestarsi nella sua parte migliore in un buon carcere, come quello di Nisida, ugualmente dovrebbe concludere il suo compito con un buon percorso di reinserimento nella società. Spesso questi percorsi attraversano strade volontaristiche, ma quello che non c’è è un programma fatto bene. Non vedo al Sud, ma in realtà in tutta Italia, dei programmi specifici, che abbiano una pregnanza. Antonio Gramsci compare nel suo libro già nella citazione posta in esergo. Le Lettere dal carcere sono state per Gramsci, come scrive a sua cognata Tania, “il solo legame con il mondo per rompere la mia segregazione e il mio isolamento”. La forma epistolare, che lei ha sperimentato in classe con i detenuti di Nisida, ha avuto la stessa funzione? Per me Gramsci è un padre politico e un padre letterario. Ho portato Gramsci veramente a Nisida, perché nel laboratorio di scrittura creativa, una volta, ho chiesto ai ragazzi di scrivere una lettera di invio e una lettera di ritorno. In prima battuta, i ragazzi scrissero veramente male, non perché fossero sgrammaticati, ma perché avevo come l’impressione che loro avessero scritto il peggio di quello che sono, che fossero più ricchi di quelle pagine costruite, fatte per accontentarmi. Così portai l’epistolario di Gramsci e leggemmo le lettere a Giuliano. Dissi loro: “L’occhio di uno scrittore è un occhio che non ha bisogno di vedere per sapere, vedete quanto altruismo c’è in queste lettere?”. I ragazzi capirono perfettamente. Le lettere che scrissero dopo erano bellissime. È questo che fanno i grandi padri, i grandi esempi. Spoleto (Pg). La preghiera dietro le sbarre. “Speranza oltre ogni male” di Francesco Carlini Avvenire, 12 giugno 2020 Dallo scorso 1° giugno nelle carceri italiane è nuovamente possibile celebrare le Messe dopo il periodo di restrizione a causa del coronavirus. In quello di Spoleto (provincia di Perugia) ieri sono ripresi ufficialmente i momenti di preghiera. Dall’11° piano della torre del carcere l’arcivescovo di Spoleto-Norcia, Renato Boccardo, assieme al cappellano don Eugenio Bartoli, ha presieduto la liturgia della Parola trasmessa in filo diffusione in tutta l’area del penitenziario. I detenuti erano dietro le sbarre delle finestre delle celle con lo sguardo all’insù verso la torre per partecipare. Nel carcere di Spoleto si trovano 430 detenuti. Dall’inizio della pandemia sono stati eseguiti tre cicli di tamponi, sempre tutti negativi. “È stato un periodo molto penoso e duro”, ha detto il direttore Giuseppe Mazzini. “I detenuti sono stati limitati nella possibilità di parlare con i loro congiunti e sono state interdette le visite personali. Ma con un grande sforzo dell’amministrazione penitenziaria abbiamo cercato di lenire queste ferite favorendo colloqui coni familiari tramite Skype”. E i reclusi di Spoleto hanno manifestato la loro solidarietà al lutto e alla sofferenza di tante persone realizzando un telo di grandi dimensioni sistemato nell’alta torre con scritto: “L’Italia chiamò. Solidarietà e speranza non hanno barriere. Uniti andrà tutto bene”. Girolamo, siciliano di Siracusa, da 28 anni in carcere (23 dei quali a Spoleto) afferma: “Abbiamo capito che la situazione era dura nel vedere le immagini dei camion dei militari portare via i morti dal Nord Italia. Abbiamo pianto e sofferto con tutto il Paese, perché noi siamo un “mondo” che è parte integrante del mondo che sta al di là di questi muri”. Anche per Vincenzo di Napoli, fine pena mai, il tempo del Covid-19 “è stato difficile. Dobbiamo però ringraziare la direzione che ci ha dato la possibilità di sentire con frequenza i nostri familiari. E ringraziamo soprattutto Dio che ci dà speranza per il futuro”. L’arcivescovo Boccardo ha detto ai detenuti, al personale della polizia penitenziaria, a quello amministrativo e sanitario: “Sono qui per un momento di preghiera comune, per celebrare il messaggio di libertà dall’assalto del virus che speriamo si completi sempre di più, ma soprattutto per ricordarci quella libertà interiore che nessuno può limitare. Abbiamo bisogno tutti, sia voi che abitate qui sia noi, di liberarci da ciò che ci impedisce di camminare con passo spedito sulla via della verità e del bene. Venire qui è un segno per avviarci insieme alla ricerca della libertà che permette di allontanare da noi ogni forma di male e guardare con speranza al futuro. Come Chiesa, cari amici detenuti, vi siamo vicini, vi diciamo la nostra solidarietà e vi assicuriamo quella compagnia fatta di piccoli segni e gesti che possono alleviare anche la sofferenza dovuta alla lontananza dalla propria famiglia”. Dopo la benedizione dell’arcivescovo, un piccolo coro di reclusi ha eseguito tre brani (l’Inno d’Italia, Azzurro di Adriano Celentano e Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno). È stato l’omaggio dei detenuti ai sanitari italiani, rappresentati dai medici e infermieri che svolgono servizio nel carcere di Spoleto. Ed ora nella casa di reclusione riprenderanno, nel rispetto delle norme di distanziamento, le celebrazioni eucaristiche. “Siamo certi- dice il direttore Mazzini - che il ritorno della dimensione spirituale favorirà la pace del cuore e dell’anima e quindi anche quella dei corpi dei detenuti”. La solitudine che può far male e il temuto boom delle dipendenze di Monica Virgili Corriere della Sera, 12 giugno 2020 Attacchi di panico, depressione, ansia: si cominciano a vedere gli effetti della mancanza di relazioni sociali ed emergono i disturbi che erano “congelati” nella prima fase. Questo è un isolamento strano. “Coinvolge tutti, quindi ci rende uguali davanti a un nemico invisibile ma ci costringe a essere più soli e con il pensiero costante al virus” riflette Giancarlo Cerveri, direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda Socio Sanitaria di Lodi. Quello dell’ex prima zona rossa d’Italia è un osservatorio privilegiato: qui sono iniziate le quarantene e qui ora se ne cominciano a vedere gli effetti, con un po’ di anticipo sul resto del Paese. “Stanno emergendo con forza tutti quei i disturbi che sembravano scomparsi nella prima fase, ma che l’emergenza aveva solo “congelato” dice lo psichiatra. “Con il passare delle settimane si è esaurita la paura di avvicinarsi all’ospedale e infatti in parallelo è aumentata la richiesta di aiuto per superare attacchi di panico, disturbi d’ansia, depressione”. Problemi amplificati - La quarantena fa male “Di sicuro ha amplificato i problemi già presenti soprattutto nelle persone più fragili. Abbiamo visto la recrudescenza di sintomi nelle persone già in cura e purtroppo anche un aumento dei tentativi di suicidio. Ma anche senza, fortunatamente, arrivare a questi estremi, le enormi sollecitazioni emotive, i lutti, le preoccupazioni per la salute e per le conseguenze economiche dell’epidemia, hanno alzato il livello dell’ansia e dei disturbi collegati. In molte persone l’inattività di queste settimane ha portato a ribaltare le abitudini quotidiane e quindi gli orari di veglia e riposo con conseguenti difficoltà di sonno. La perdita di controllo per esempio sull’alimentazione favorisce i disturbi come anoressia e bulimia. Poi vediamo altri segnali preoccupanti nelle persone a rischio dipendenza”. Consumo di alcol e stupefacenti - Per esempio? “Sta aumentando in modo significativo il consumo casalingo di alcol. Un grosso problema, anche perché con il più complicato accesso ai servizi territoriali è difficile seguire chi già stava cercando di uscire dalla dipendenza. Lo stesso ragionamento vale anche per chi fa uso di sostanze stupefacenti. Situazioni che, insieme alla convivenza forzata e alle situazioni critiche, possono tra l’altro favorire le violenze domestiche. E poi c’è la dipendenza da internet, riceviamo richieste di aiuto da parte di genitori con figli adolescenti che restano svegli e connessi tutta la notte per poi dormire il giorno”. Fobia sociale - Però ci sono persone che sembrano contente di stare a casa in quarantena? “Chi soffre di una fobia sociale non uscendo e non incontrando nessuno non si espone alle tensioni abituali e quindi può vedere migliorati i propri sintomi. Si tratta di persone, per esempio, con forme di autismo lieve ad alto funzionamento o che hanno una personalità con ridotta necessità di interazione con gli altri. In questa situazione possono facilmente sentirsi in equilibrio, persino un po’ euforici, ma non devono esagerare con l’autoreclusione, appena sarà possibile dovranno sforzarsi di riprendere le attività sociali e il lavoro”. Per i familiari è sbagliato assecondarli? “Sì, isolarsi non può essere la regola, a lungo andare inoltre corrono il rischio di veder peggiorare la loro condizione. Essere sollevati dallo stress quotidiano che nasce dall’interazione con gli altri può anche dare un sollievo momentaneo ma certo non risolve i problemi”. Psicosi e schizofrenia - L’isolamento può essere una terapia nei casi di malattie mentali? “Nelle fasi acute di patologie come psicosi o schizofrenia può essere necessario diminuire il livello di sollecitazioni anche attraverso l’isolamento transitorio del paziente da stimolazioni ambientali eccessive. Non è una cura in sé, ma solo uno strumento che ci consente di metterlo in condizione di recepire le opportune terapie”. Effetti futuri - C’è da aspettarsi un aumento dei disturbi mentali già nei prossimi mesi? “Sempre difficile fare previsioni in medicina. Dopo l’11 settembre del 2001, quando la minaccia terroristica era al massimo, si pensava ci sarebbe stato un forte aumento delle richieste di sostegno psichiatrico che invece non si verificò. Quella era una situazione diversa, un trauma enorme ma che si concluse in fretta. In questo caso non sappiamo prevedere i tempi dell’epidemia né quali saranno gli effetti sociali. Con la riapertura delle attività per alcune persone sarà cambiato tutto, non sarà possibile il ritorno alla vita di prima e questo non si sa che conseguenze potrà avere sulla loro psiche”. Migranti. Naufragio in Tunisia, nessun superstite è strage di donne di Carlo Lania Il Manifesto, 12 giugno 2020 La Marina tunisina recupera 48 salme, tra le quali anche quelle di due bambini. Le ong: “Basta morti, serve una missione europea”. Una strage di donne. Più passano i giorni e più assume le dimensioni di una immane tragedia il naufragio del barcone carico di migranti affondato sei giorni fa davanti alle coste tunisine. Delle 53 persone che si trovavano a bordo, la maggior parte delle quali migranti subsahariani, nessuna sarebbe sopravvissuta. Le autorità tunisine ieri hanno comunicato di avere recuperato 48 cadaveri, ma c’è chi parla di 52 salme. E la maggior parte dei corpi appartiene a donne e ragazze - una delle quali incinta - che cercavano di raggiungere l’Italia. Molti, anche se il numero rimane per ora imprecisato, anche i bambini che si trovavano sul vecchio peschereccio partito dalla città di Sfax nella notte tra il 4 e i 5 giugno scorsi. “Questo naufragio ci colpisce anche perché ha causato la morte di molte donne, ragazze subsahariane partite dalla Tunisia e alcune di loro probabilmente potenziali vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale o domestico” commenta Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Si deve probabilmente alle cattive condizioni meteorologiche l’ultimo naufragio del Mediterraneo. I problemi il barcone, che aveva a bordo molte più persone di quante avrebbe potuto portarne, sarebbero cominciati non molto dopo la partenza, quando si trovava nello specchio di mare compreso tra El Louza e Kraten, al largo delle isole Kerkannah. Le partenze dalle coste tunisine hanno avuto un ulteriore incremento a partire dall’inizio dell’anno, più 156% rispetto al 2019 secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (ieri un gruppo di 49 tunisini, a bordo di un barcone di circa 15 metri, è approdato a Lampedusa). E a partire, oltre a tunisini, sono migranti provenienti dall’area subsahariana tra i quali molte donne, in particolare ivoriane, 260 delle quali registrate nel nostro Paese dal primo gennaio al 31 maggio. Per tutti la mèta è sempre l’Europa, con l’Italia, e in particolare l’isola di Lampedusa, come primo approdo. Viaggi che troppo spesso si trasformano in tragedie. Sempre l’Oim parla di almeno 157 persone morte dall’inizio dell’anno nel tentativo di attraversare il Mediterraneo centrale, che si conferma come la rotta più pericolosa del mondo. Dopo mesi, da pochi giorni le navi delle ong hanno ripreso a pattugliare il mare pronte a soccorrere le imbarcazioni dei migranti in difficoltà. È così per la nave Sea Watch dell’omonima ong tedesca, seguita dalla Mare Jonio della piattaforma Mediterranea, mentre è in procinto di partire la Ocean Viking della francese Sos Mediterranée. Una flotta di soccorritori privati che colmano il vuoto lasciato dall’Unione europea. “Siamo stanchi di contare i morti nella grande fossa comune che il Mediterraneo è diventato”, ha ricordava ieri Valeria Carlini, portavoce del Cir, il Consiglio italiano per i rifugiati tornando ancora una volta a chiedere che “venga ripristinata una missione di ricerca e soccorso che coinvolga i paesi dell’Unione europea”. Anche perché abbiamo di fronte un’estate durante la quale è sicura una ripresa in massa delle partenze. “La fuga via mare sembra ancora essere l’unica soluzione per le persone intrappolate in Libia”, sottolinea Medici senza frontiere ricordando come nel Paese nordafricano oltre alle organizzazioni criminali, a spingere i migranti a prendere il mare ci sono anche la guerra e la pandemia di coronavirus. “Pur riconoscendo l’importanza delle azioni di salvataggio condotte da vari attori della società civile, l’Oim ribadisce la richiesta di rafforzare il ruolo degli Stati nelle operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo, il cui attraversamento rimane il più mortale nel mondo”, è invece l’appello dell’organismo dell’Onu. Appello al quale in serata si è associata anche Emma Bonino: “Altre persone morte nel silenzio generale”, ha detto la senatrice di +Europa. “Erano su una barca, non ci sono foto e nemmeno video. Lontano dagli occhi, invisibili al cuore. Nessun superstite. Tra i morti anche donne e bambini di 2-3 anni. Di quante altre morti dobbiamo leggere per capire che si tratta di esseri umani?”. Migranti. Non rassegniamoci alla strage infinita nel Mediterraneo di Filippo Miraglia Il Manifesto, 12 giugno 2020 Ancora una strage in mare. Morti di frontiera, soprattutto donne e bambini. I più deboli tra gli ultimi. Vittime annunciate di politiche ciniche, che impediscono a chi fugge dall’inferno libico di mettersi in salvo. L’Europa dov’è? Dov’è l’Italia della Costituzione? I governi dell’Unione europea si organizzano da anni per fermare rifugiati, profughi e migranti lontano dai nostri confini. Sono impegnati a esternalizzare le frontiere. A criminalizzare chi salva vite umane. A investire in risorse e strumentazione per controllare, fermare, respingere. Poco importa se muoiono in tanti o sono sottoposti a violenze terribili una volta riportati indietro dalle milizie libiche travestite da guardia costiera e finanziate con i soldi per la cooperazione allo sviluppo. Molti sono venduti come schiavi soldati, come denunciato su queste pagine. Noi non vogliamo arrenderci all’idea di un Mediterraneo ormai enorme cimitero per decine di migliaia di persone, che la comunità internazionale contabilizza come fossero numeri e non esseri umani. Proprio perché ci ostiniamo a voler cambiare questo stato di cose, anche quest’anno abbiamo organizzato un’edizione - online, festivalsabir.it, a causa del coronavirus - del Festival Sabir. Sabir era la lingua franca parlata nei porti del Mediterraneo fino all’inizio del secolo scorso. E proprio un lessico comune per uno spazio condiviso è ciò che vogliamo contribuire a costruire con il nostro Festival diffuso delle Culture Mediterranee. Insieme a Caritas italiana, Cgil e Acli, in collaborazione con Asgi, Carta di Roma e a Buon Diritto, col sostegno di Unhcr e Unar, col patrocinio degli enti locali, l’Arci ha promosso in questi anni un evento che punta alla costruzione di un’alternativa mediterranea. Decine di migliaia di persone hanno già partecipato nei giorni scorsi agli eventi web, che si concludono oggi. Reti internazionali, giornalisti, militanti dei diritti umani, rappresentanti delle istituzioni, hanno portato il loro contributo per realizzare una alternativa possibile. Proprio l’emergenza sanitaria globale ha reso chiaro quanto le rappresentazioni distorte del fenomeno migratorio siano frutto di scelte strumentali, motivate da interessi di partito, non da reali interessi pubblici. A quale logica risponde la decisione del governo di ostacolare ancora una volta l’attività delle oramai pochissime navi delle Ong che operano salvataggio in mare, dichiarando i porti italiani non sicuri per le navi che battono bandiera straniera, prevedendo trasferimenti su navi del nostro Paese (le navi “quarantena”) che, costituendo territorio italiano, hanno la responsabilità delle dell’accoglienza delle persone salvate? Il razzismo che i provvedimenti legislativi e amministrativi contro l’immigrazione contribuiscono a produrre, è stato affrontato nei dibattiti del Festival per ribadire che rappresenta un problema non solo per le vittime, ma per la nostra democrazia. Ma Sabir è anche uno spazio di denuncia e di vertenza, luogo di elaborazione e condivisione di campagne e iniziative della società civile di tutto il Mediterraneo. In quest’ambito, proprio l’attività di monitoraggio e contrasto dell’esternalizzazione delle frontiere è uno dei focus principali fin dalla nascita del Festival. Così come lo è la lotta al caporalato e per la dignità dei lavoratori e delle lavoratrici, riproposta in alcuni appuntamenti sulla regolarizzazione appena avviata con contraddizioni e limiti. L’accoglienza e l’accesso alla procedura asilo, sempre più ostacolata dagli Stati, che intanto continuano a ignorare politiche d’ingresso legale e sicuro per ricerca di lavoro o di protezione, è anch’esso tema di riflessione e impegno per tutte le organizzazioni presenti a Sabir. Infine, una partecipata assemblea internazionale presenterà un documento di proposte delle reti di società civile ai parlamentari europei, con l’obiettivo creare una sede stabile di confronto tra quanti di loro sono disponibili a impegnarsi su questo terreno e l’associazionismo, per individuare alternative praticabili subito. A concludere le giornate del Festival i Dialoghi di Sabir, con ospiti e volti noti, che approfondiranno temi di grande attualità, per uscire dalla crisi globale con un cambiamento reale. Svizzera. Covid-19 e carcere, test (finora) superato di Andrea Manna La Regione, 12 giugno 2020 “L’emergenza Covid-19 è stata un test importante per il nuovo assetto della medicina carceraria”: un test “che è stato finora superato efficacemente”. Lo afferma, nero su bianco, la commissione del Gran Consiglio che vigila sulle condizioni detentive in Ticino sottolineando che “nessuno” dei reclusi nelle Strutture carcerarie cantonali (Scc) “ha contratto sinora l’infezione e ciò è stato possibile grazie alle misure restrittive per proteggere la salute sia dei detenuti sia del personale che la Direzione ha introdotto”. Il rapporto d’attività (maggio 2019-maggio 2020) della commissione presieduta dalla socialista Gina La Mantia - gli altri membri sono i liberali radicali Fabio Schnellmann e Giorgio Galusero, il popolare democratico Luca Pagani, la leghista Maruska Ortelli, Claudia Crivelli Barella dei Verdi e la democentrista Lara Filippini - sarà discusso dal parlamento durante la seduta che si aprirà lunedì 22, l’ultima prima della pausa estiva, e che si terrà ancora al Palacongressi di Lugano. Mercoledì al Penitenziario cantonale 41 persone erano rinchiuse nel carcere giudiziario della Farera (detenzione preventiva); 128 nella sezione penale, destinata a coloro che scontano una condanna e 28 in quella aperta. Il rapporto commissionale è datato 5 giugno, ma la situazione è immutata. “Per il momento nessun contagio fra i detenuti”, conferma il direttore delle Strutture carcerarie ticinesi Stefano Laffranchini, interpellato ieri dalla ‘Regionè. Strutture nelle quali - scrive la commissione parlamentare, ricordando che il nuovo assetto organizzativo della medicina carceraria, approvato nel dicembre 2017 dal Consiglio di Stato, coinvolge Ente ospedaliero cantonale e Organizzazione sociopsichiatrica - sono state applicate “le misure raccomandate dalle autorità sanitarie che in un contesto di reclusione possono risultare più gravose”. Tra queste “il rispetto della distanza sociale, niente strette di mano, riduzione al minimo indispensabile dei contatti fra detenuti e personale, disinfettanti per le mani ovunque, controllo dello stato di salute dei detenuti, divieto d’accesso al carcere ai visitatori, ma anche ai funzionari che accusano sintomi influenzali”. E a proposito di funzionari, hanno potuto nel frattempo riprendere a lavorare cinque agenti di custodia che erano risultati positivi al coronavirus. “Già all’inizio dell’epidemia - spiega Laffranchini - sono state adottate delle misure anche per il personale ovviamente: come ad esempio l’obbligo di indossare la mascherina, la misurazione della temperatura corporea all’entrata e la disinfezione delle mani: questi cinque collaboratori, responsabilmente e nel rispetto delle direttive, al primo sintomo sono rimasti a casa”. Ciò che “ha impedito che il contagio si propagasse fra i colleghi e i detenuti”, evidenzia il direttore delle Strutture carcerarie cantonali. Per quanto riguarda gli aspetti sanitari la guardia resta alta nelle prigioni ticinesi. “Dobbiamo rimanere vigili, così come si è fatto nella prima fase della pandemia, quella acuta”, dice Laffranchini. Le strutture carcerarie, si legge nel rapporto della Commissione di sorveglianza delle condizioni di detenzione, “sono pronte dal profilo sia logistico, sia procedurale, sia medico a gestire l’epidemia nel caso in cui si diffondesse”. Egitto. Fornitura di navi da guerra italiane, Conte conferma l’ok di Cristiana Mangani Il Messaggero, 12 giugno 2020 I dem: ora modifiche al decreto sicurezza. La conferma è arrivata con l’informativa di ieri fatta in Cdm dal premier Conte: la vendita delle due fregate all’Egitto è cosa fatta. Anche perché - spiegano fonti di governo - “la questione non passa dall’approvazione in Consiglio dei ministri, l’autorizzazione spetta all’Uama, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento”. E quindi quella valutazione politica della quale si è parlato negli ultimi giorni non è considerata necessaria. Conte ha parlato anche di Libia, un altro tema molto caldo, dove il ministero della Difesa sta mandando avanti la richiesta arrivata dal presidente di Tripoli Fayez al Serraj, che ha sollecitato al governo italiano l’invio di sminatori sul suo territorio, visto che le forze del generale Khalifa Haftar sono state respinte dalla zona e hanno lasciato delle mine ovunque. L’ipotesi più probabile resta quella dell’utilizzo dei contractor già presenti sul territorio, anche perché il genio militare, generalmente, viene utilizzato in altri casi. Nella giornata di ieri, poi, in più occasioni è stato ribadito, sia dalla ministra Luciana Lamorgese che dal Pd, la necessità di calendarizzare le modifiche al salviniano decreto sicurezza sui migranti, che aspetta da tempo una rimodulazione in base alle modifiche richieste dal presidente della Repubblica. Così come aveva annunciato, dunque, il premier ha voluto riferire riguardo alla commessa miliardaria con l’Egitto. Le due Fremm che Fincantieri consegnerà a Il Cairo non appena (la Spartaco Schergat e la Emilio Bianchi) vogliono dire un affare di circa 1,2 miliardi di euro. Senza contare che le due unità navali verranno, comunque, rimpiazzate nei ranghi della Marina militare e - secondo il settimanale The Arab weekly - rappresentano solo l’inizio di un affare che prevede la vendita all’Egitto di altre fregate, pattugliatori, aerei da combattimento e da addestramento. Le due già in partenza più altre quattro, oltre a 20 pattugliatori d’altura, 24 caccia Eurofighter Typhoon e numerosi velivoli da addestramento M-346 di Leonardo, più un satellite da osservazione, per un valore complessivo di 10,7 miliardi di dollari. Una importante operazione economica, tutta da verificare, che ha provocato diverse reazioni, a cominciare da quella della famiglia di Giulio Regeni, che è ancora in attesa di conoscere la verità sulla morte del figlio. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha assicurato che il lavoro per avere giustizia “è incessante”. Libia. Quattro fosse comuni a sud di Tripoli, Haftar principale sospetto di Roberto Prinzi Il Manifesto, 12 giugno 2020 Decine i cadaveri, ammanettati e con segni di tortura. Sarraj non sfigura: l’Onu lo accusa di saccheggi, arresti e uccisioni. Una nave della missione Ue Irini intercetta un cargo turco, ma non può perquisirlo. I dettagli sono ancora pochi, ma il quadro che emerge è chiarissimo: a Tarhuna (65 chilometri a sud di Tripoli) c’è stata una mattanza di civili. Ieri le forze alleate al Governo di accordo nazionale (Gna) di Tripoli hanno scoperto almeno quattro fosse comuni in città. In una di queste, sarebbero stati recuperati finora più di 15 cadaveri (tra cui quello di una 12enne) ammanettati e con segni di tortura. I sospetti sono caduti inevitabilmente sull’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl) del generale Haftar: erano i suoi uomini a controllare la zona prima di ritirarsi lo scorso 5 giugno. Ma se l’Eln si è macchiato di crimini orribili in Libia (tra cui raid indiscriminati in zone residenziali), le milizie che sostengono il governo tripolino non sfigurano in quanto a barbarie: la missione Onu nel paese nordafricano (Unsmil) le ha accusate lunedì di uccisioni extragiudiziali, arresti di massa, saccheggi sia a Tarhouna che nella vicina Asabia. Il massacro di civili a Tarhuna non terminerebbe però con la scoperta delle fosse comuni: la scorsa settimana l’Onu si è detta pronta a collaborare con il governo di Tripoli per investigare sui decessi di 106 persone scoperti in un ospedale cittadino. Ma in Libia si uccide barbaramente anche da altre parti: ad Ain Zara e Wadi Rabea (sud di Tripoli), sette persone sono state uccise dall’esplosione di alcune mine forse piazzate dall’Enl prima di abbandonare le sue posizioni dalle aree meridionali della capitale. Le mine sono sempre più armi letali nel paese: secondo un rapporto del ministero della Giustizia del Gna, hanno finora causato 34 morti e 50 feriti. E poi c’è la guerra che continua senza soluzione di continuità tra Tripoli e l’Enl. Da alcuni giorni il centro degli scontri è la città costiera di Sirte dove solo tra il 5 e l’8 giugno l’Usmil ha registrato l’uccisione di 19 civili (12 i feriti) a causa di attacchi aerei e missili Grad. Al momento la situazione è di stallo: dopo essere avanzate, le forze del governo di al-Sarraj sono state rallentate dalla controffensiva di Haftar. In questo clima di conflitto permanente, lascia più di qualche perplessità l’annuncio ottimista di ieri dell’Unsmil secondo cui Tripoli e Tobruk “sono pienamente impegnate nella terza tornata di colloqui della Commissione militare congiunta formato 5+5 (formata da cinque funzionari militari di entrambe le parti in conflitto, ndr)”. L’Onu parla di “incontri produttivi”: parole che, di fronte allo sfacelo libico, sanno di scherno. Ai massacri scoperti e alla guerra, si aggiungono infatti le tensioni internazionali e interne. Ieri c’è stato il primo contatto ravvicinato tra una nave della missione europea Irini e quella cargo turca Cirkin, sospettata di trasportare armi al Gna e scortata fino a Misurata da tre fregate di Ankara. “Quando Irini ha voluto verificare il carico, in linea con le procedure abituali, la risposta è stata negativa”, ha detto rassegnato il portavoce della Commissione europea Peter Stano. La vicenda, conclusasi senza scontri, evidenzia però come sarà difficile e pericoloso imporre un embargo di armi in Libia come l’Europa promette di fare con Irini, mostrando allo stesso tempo come i turchi facciano già ciò che vogliono sull’altra sponda del Mediterraneo. Ieri almeno tre aerei cargo militari sono volati dalla Turchia in direzione di Misurata. Nuove armi per dare ulteriore sostegno all’alleato di Tripoli per la sua campagna di “liberazione” che, ufficialmente, dovrebbe terminare dopo aver ripreso Sirte e la base aerea di al-Jufra. Dopo ore di tensione, è tornata ieri la normalità pure nel complesso gasifero di Mellitah: un gruppo armato di Zuara aveva minacciato di fermare l’esportazione di gas verso l’Italia chiedendo il pagamento degli stipendi e l’ottenimento di posti di lavoro presso l’impianto dove opera l’Eni. La protesta, rientrata dopo alcune rassicurazioni da parte di Tripoli, non è stata un caso isolato: da giorni in più parti della Libia si ripetono scene pressoché simili. Immagini emblematiche di uno Stato alla deriva dove a dettare legge sono vari gruppi armati e dove chi li dovrebbe fermare (Gna) conta poco a prescindere dai “suoi” successi militari. Turchia. Poteri e pistole alle guardie di quartiere, la polizia di Erdogan di Chiara Cruciati Il Manifesto, 12 giugno 2020 Il parlamento turco approva la legge che dà al corpo paramilitare nuovi spazi di azione. Rissa tra deputati, le opposizioni di Hdp e Chp: sono forze fedeli solo all’Akp e al presidente. Camicia marrone chiaro, capello scuro, sul petto cucito un distintivo di stoffa con una stella sormontata dalla parola bekci, guardia in lingua turca ottomana. È la divisa delle “aquile della notte”, le guardie di quartiere, forza dell’ordine estranea al corpo ufficiale di polizia che ora Ankara dota di poteri speciali. Di epoca ottomana, erano state abolite nel 2008, troppo controverse e violente: dopo un risicato addestramento di 40 giorni a cui si accedeva con la licenza media e infimo rispetto a quello seguito dai futuri poliziotti, venivano dispiegate di notte, al fianco il manganello. A farne le spese i quartieri più poveri, più pattugliati, in particolare a maggioranza curda o alevita. Il presidente Erdogan li ha ritirate fuori dal cappello approfittando delle paure riemerse nella pancia dell’opinione pubblica con l’ennesimo golpe (o meglio tentato) nel luglio 2016. Sono tornate sulle strade l’anno dopo, nel 2017. Ieri un nuovo salto di qualità: il parlamento turco ha votato a favore dei 18 articoli del disegno di legge presentato dall’Akp, il partito di Erdogan, che dota le guardie di quartiere di poteri speciali, nella pratica identici a quelli della polizia. Con alle spalle, secondo la nuova legge, non più 40 giorni di addestramento ma sei mesi, una catena di comando affatto limpida e nessun obbligo di chiedere prima autorizzazioni per arresti e perquisizioni. Potranno fermare cittadini, chiedere loro di identificarsi, portare con sé armi da fuoco e detenere un sospetto. E aumenteranno di numero: dalle attuali 21mila a quasi 30mila, in aggiunta a 261mila poliziotti. Un +7,9% rispetto all’anno precedente: tantissimi, un agente ogni 314 abitanti, rapporto che scende a 1 a 281 con le guardie notturne e a 1 a 209 con la gendarmeria, polizia militare che conta 100mila effettivi sotto il diretto controllo del ministero dell’Interno. La reazione delle opposizioni è stata dura, in parlamento si è tramutata in rissa, nella consapevolezza che i bekci altro non saranno che l’ennesimo braccio armato della tentacolare macchina del controllo sociale che l’Akp - con il sostegno indefesso degli alleati nazionalisti dell’Mhp - ha instaurato in Turchia. Dietro alla legge sta il solerte ministro degli Interni, Suleyman Soylu, vice presidente dell’Akp, noto repressore e secondo molti perfetto rappresentante dello “Stato profondo” turco: è lui ad aver ordinato decine e decine di commissariamenti dei comuni curdi e i letali coprifuoco nel sud est della Turchia e ad aver imbastito e poi gestito la lotta al “terrorismo”. Potente e intelligente, tanto da essere indicato come unico vero rivale allo strapotere del presidente Erdogan. È da febbraio che in Turchia va avanti la battaglia politica intorno alle guardie di quartiere. Nelle scorse settimane, e di nuovo ieri in occasione del voto finale, le opposizioni - il partito repubblicano Chp e quello di sinistra filo-curdo Hdp - hanno immaginato il probabilissimo futuro: ulteriori violazioni dei diritti umani e abusi sui cittadini, in particolare sulle comunità invise al progetto di turchizzazione erdoganiano. Ma soprattutto la creazione di un corpo paramilitare, fedele al presidente e capace di stringere ancora di più il pugno autoritario del governo Akp-Mhp. Lunedì si leggeva sul Guardian che buona parte delle attuali guardie sono giovani uomini legati all’Akp. “Questa legge non protegge le persone o il quartiere. È una legge per proteggere lo Stato dal popolo”, ha detto in parlamento Omer Faruk Gergerlioglu, deputato dell’Hdp.