Un altro alt al decreto Bonafede: generiche le indicazioni del Dap di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 giugno 2020 Sono, per ora, tre le ordinanze che mandano il decreto Bonafede “anti scarcerazioni” al vaglio della Corte costituzionale. Abbiamo parlato della questione sollevata sia dal magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, sia dal tribunale di Sassari, da parte della presidente Ida Soro e del magistrato Riccardo De Vito. La terza è quella sollevata dalla dottoressa Donatella Ventra, magistrato di sorveglianza di Avellino. In questo caso non solo si solleva la questione di legittimità costituzionale ma si stigmatizza il tenore della nota del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) che desta al magistrato una certa perplessità perché, di fatto, non si fa realmente carico di offrire una reale disponibilità per la detenuta settantaseienne che soffre di innumerevoli patologie. Quindi lascia al magistrato l’arduo compito di chiedere e verificare dove ci sia disponibilità effettiva e compatibile con la complessità del quadro patologico della detenuta. Il tutto, poi, da decidere entro tempi brevissimi, ovvero 15 giorni come prevede il decreto legge Bonafede. In effetti la nota del Dap, riportata nell’ordinanza, è generica. Nei fatti non indica un luogo preciso. Precisando che non è a conoscenza dell’attuale condizione clinica della detenuta, in caso di ripristino dell’esecuzione della pena in carcere “di associare la predetta in un istituto penitenziario con ampia offerta sanitaria, quale ad esempio la casa circondariale di Messina”, precisando però che, allo stato, “non sono disponibili Sai (centro clinico, ndr) con degenza femminile”. Poi il Dap spiega che esistono reparti di medicina protetta, a cosa servono, fino a stilare un lungo elenco di tutti i reparti di medicina presenti nel territorio nazionale. In sostanza la nota del Dap non dà alcuna certezza. Il magistrato di sorveglianza aveva concesso il 20 maggio la detenzione domiciliare “umanitaria” per motivi di salute alla detenuta Anna Ascione, con fine pena al 25 settembre del 2021. Visto che rientra nella categoria dei reati contemplati da nuovo decreto legge, acquisito il parere del Procuratore Distrettuale Antimafia (Dda) del luogo in cui è stato commesso il reato e del Procuratore Nazionale Antimafia e antiterrorismo per i condannati ed internati già sottoposti al regime del 41bis, il magistrato è costretto a valutare la permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria entro il temine di 15 giorni dall’adozione del provvedimento e successivamente con cadenza mensile. Detto, fatto. In osservanza delle nuove disposizioni, il magistrato di sorveglianza ha aperto l’istruttoria. La Dda di Napoli ha dato parere negativo alla detenzione domiciliare e il Dap ha mandato quella nota che, ribadiamo, ha destato perplessità al magistrato visto che scarica la responsabilità a quest’ultimo per la ricerca di una struttura adeguata. Nell’ordinanza che solleva questione di legittimità costituzionale, il magistrato spiega che “considerato il tenore negativo della Dda e la risposta del Dap, a questo punto deporrebbe nel senso di una revoca della detenzione domiciliare con ripristino del regime detentivo ordinario e conseguentemente, la collocazione della Ascione in uno dei tanti reparti di medicina protetta indicati”. Ma il tutto entro i 15 giorni. Rimane la questione dei tempi stringenti. A ciò si aggiunge anche l’altra questione sollevata già dal magistrato di sorveglianza Fabio Gianfilippi: la mancata garanzia alla difesa del detenuto. Prima il provvedimento provvisorio di concessione prevedeva espressamente che la posizione del detenuto sarebbe stata valutata, ed eventualmente confermata, dinanzi al tribunale di sorveglianza in pieno contraddittorio delle parti. Ora ciò non avviene. “La partecipazione della difesa tecnica - scrive il magistrato Ventra nell’ordinanza - è limitata alla formulazione dell’istanza iniziale con allegazione di documentazione sanitaria di parte; ne è stato previsto nel DL in argomento un diritto dell’interessato di prendere visione degli atti contenuti nel fascicolo della rivalutazione ed eventualmente controdedurre nel merito delle risultanze istruttorie”. Il decreto Bonafede non tutela la salute dei detenuti e lede l’autonomia dei magistrati di Angela Stella Il Dubbio, 11 giugno 2020 Per la terza volta il decreto “Bonafede” relativo alle scarcerazioni viene inviato dinanzi alla Corte Costituzionale. Il 26 maggio e il 3 giugno erano stati rispettivamente i magistrati di sorveglianza di Spoleto e Avellino - Fabio Gianfilippi e Donatella Ventra - a sollevare questioni di legittimità costituzionale. Ora è toccato al Tribunale di Sorveglianza di Sassari - presidente Ida Soro, estensore Riccardo De Vito - chiamare in causa la Consulta su uno dei casi più dibattuti: la concessione dei domiciliari per motivi di salute a Pasquale Zagaria. Secondo i magistrati di Sassari gli articoli 2 e 5 del decreto legge 29/2020 violano gli articoli 3, 27 comma 3, 32, 102 comma 1, 104 comma 1 della Costituzione. Ventisei le pagine che giustificano questa decisione su un decreto fortemente voluto dal ministro della Giustizia per rispondere, in maniera affrettata, alle polemiche suscitate dalle “scarcerazioni” durante l’emergenza sanitaria da Covid-19; polemiche sollevate nei salotti televisivi, in primis quello di Massimo Giletti, dalla quasi totalità dei partiti politici, capofila Movimento 5 Stelle, seguito da Lega e Fratelli d’Italia, e nel tribunale dei social. Secondo il dl, in merito alle “scarcerazioni” di detenuti condannati per reati di grave allarme sociale, il tribunale o il magistrato di sorveglianza deve rivalutare costantemente se esistano ancora i motivi per mantenere la detenzione domiciliare o il differimento della pena. A Zagaria, precedentemente detenuto in regime di 41bis presso il carcere di Sassari, era stata concessa a fine aprile la detenzione domiciliare in quanto il suo stato di salute, gravemente compromesso da un tumore alla vescica, era incompatibile con la reclusione. È bene precisare che la richiesta di differimento della pena era stata posta dai legali di Zagaria alla fine del 2019, quindi ben prima dell’emergenza da coronavirus. L’emergenza Covid non è stata la causa della scarcerazione, come molti sostengono dicendo “con la scusa della pandemia, Zagaria torna a fare il boss”, ma ha rappresentato bensì un fattore impeditivo alla cura all’interno del carcere. Ora vediamo le motivazioni del provvedimento depositato ieri. La prima: gli articoli 2 e 5 del dl 29/2020 violerebbero l’articolo 104 comma 1 (“La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”) perché “l’obbligo di rivalutazione della detenzione domiciliare” previsto dal dl “immediatamente, entro quindici giorni e poi a cadenza mensile invade la sfera di competenza riservata all’autorità giudiziaria e viola il principio di separazione dei poteri”. Il quadro normativo in vigore prima del dl 29/2020 riservava invece esclusivamente all’autorità giudiziaria il potere di stabilire un termine di durata della detenzione domiciliare - nel caso di Zagaria 5 mesi - da rivalutare successivamente. Detto più semplicemente: il decreto “Bonafede” toglie spazio alla valutazione discrezionale del magistrato, violando il principio della separazione dei poteri tra politica (legislativo) e magistratura (giurisdizione), come ribadito dagli organi rappresentativi della magistratura di sorveglianza all’indomani della emanazione del decreto stesso. Inoltre, il restringimento temporale della valutazione dello stato di salute di Zagaria “non consente di avere contezza dell’evoluzione del quadro clinico” dell’uomo. Attualmente Zagaria è ricoverato in ospedale per complicazioni dovute ad un intervento subìto il 30 maggio e si è in attesa dei risultati di un esame istologico. Con tale quadro clinico in continua mutazione ogni compiuta valutazione si rende assai complicata, compresa quella di idoneità delle strutture di medicina protetta indicate dal Dap (Viterbo e Milano). Seconda motivazione: il decreto “Bonafede” metterebbe a repentaglio il diritto alla salute (articolo 32) e quello di umanizzazione della pena (articolo 27) in quanto “con il suo portato di notifiche, adempimenti burocratici, necessità di interazione con la difesa” può “interferire con una serena e congrua attenzione alla progettazione e realizzazione del percorso terapeutico che il detenuto ha avviato”. Ora, in base al provvedimento depositato ieri, Zagaria resterà in detenzione domiciliare e proseguirà il suo percorso di cura. A ciò si erano opposte la Procura Nazionale e quella distrettuale Antimafia. La decisione della Corte Costituzionale potrebbe arrivare tra mesi o addirittura tra un anno. Non significa che l’uomo attenderà la decisione a casa perché la rivalutazione della sua condizione di salute è prevista per settembre di quest’anno, come deciso dal provvedimento adottato dal magistrato di sorveglianza lo scorso 23 aprile. Erano stati gli stessi legali di Zagaria, gli avvocati Lisa Vaira e Andrea Imperato, a richiedere la conferma della detenzione domiciliare e la deduzione di diverse questioni di legittimità costituzionale, alcune delle quali appunto accolte. Al Riformista esprimono soddisfazione: “Il Tribunale di Sorveglianza di Sassari anche in questo caso ha dimostrato attenzione ai diritti costituzionali della persona: il diritto alla salute, inteso non solo come diritto alle cure, ma anche ad una qualità, stabilità e continuità delle terapie, il diritto alla umanità della pena e a non subire trattamenti inumani e degradanti, comprese quelle sofferenze psicofisiche ulteriori ed eccessive, che si aggiungono alla detenzione in sé. Diritti pretermessi dal dl 29/2020 che, oltre ad aver illegittimamente invaso l’ambito di autonomia della magistratura, imponendo alla stessa di rivalutare in tempi brevi e con una istruttoria serrata e circoscritta ai pareri delle procure e del Dap, tendenti solo alla reincarcerazione, impedisce una verifica esaustiva delle condizioni di salute attuali e della evoluzione della malattia, che invece deve prevalere”. Processi somari di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 11 giugno 2020 Avete presente il cosiddetto caso Bonafede-Dap-scarcerazioni? E due mesi di “Non è l’Arena, è Salvini” sul ministro, su Basentini e sui loro parenti vivi o morti fino al sesto grado? E i processi al Guardasigilli & C. nel question time, nella mozione di sfiducia e in inutili audizioni in quella parodia di commissione Antimafia ridotta a succursale di casa Giletti (ma senza Salvini, latitante da due anni per non rispondere sui rapporti con Siri e Arata, socio occulto di Nicastri amico di Messina Denaro)? Bene, buttate pure tutto nel cestino. Erano tutte balle, fuffa, armi di distrazione di massa per colpire il ministro che ha bloccato la prescrizione e affibbiargli la colpa delle scarcerazioni di 350 mafiosi e malavitosi (50 già tornati dentro), che ovviamente sono responsabilità esclusiva dei giudici di sorveglianza che le hanno firmate. Basta leggere l’ordinanza di quello di Sassari che ha riesaminato, alla luce del decreto anti-scarcerazioni, gli arresti domiciliari da lui stesso concessi a Pasquale Zagaria il 23 aprile in piena pandemia. E li ha confermati, sollevando questione di legittimità costituzionale contro il decreto. È Riccardo De Vito, presidente di Magistratura democratica, che ha un’idea del carcere opposta alla nostra. Ma ha il merito di rivendicare le sue decisioni e convinzioni senza incolpare gli altri né inventare scuse. Viva la faccia. Da tre mesi chi vuole liberarsi di Bonafede starnazza che le scarcerazioni sono colpa sua, dell’ex capo del Dap Basentini e di una circolare del 21 marzo che avrebbe dato la stura al “liberi tutti”. Circolare che non parla mai di scarcerazioni: si limita a chiedere i nomi dei detenuti affetti da patologie che li espongano a conseguenze letali in caso di contagio per metterli in sicurezza (con isolamenti, esami, precauzioni varie: non certo per scarcerarli, visto che si rischia il Covid molto più fuori che dentro). Dunque le scarcerazioni con la circolare non c’entrano nulla, anche se molti giudici se ne sono fatti scudo per dare sfogo ai loro uzzoli decarceratori. Non è il caso di De Vito che, già nell’ordinanza che mandava a casa (a Brescia, epicentro del Covid) il camorrista Zagaria, chiariva di averlo fatto in base al Codice penale e all’Ordinamento penitenziario. Certo, aveva chiesto al Dap di indicare un centro di cura penitenziario e il Dap, con un’imperdonabile gestione burocratica (giustamente pagata da Basentini con le dimissioni), non aveva risposto in tempo. Ma il giudice chiariva che Zagaria l’avrebbe scarcerato lo stesso, perché riteneva le sue condizioni di salute (neoplasia vescicale, da poco operata con postumi gravi) incompatibili con cure in qualunque struttura penitenziaria. E ora lo ripete con ancor maggiore nettezza nell’ordinanza che conferma i domiciliari. Zagaria deve restare a casa nel Bresciano e curarsi nell’ospedale del posto: non per le mancate risposte del Dap, che nel frattempo ha indicato strutture alternative (nell’ospedale Belcolle di Viterbo) a quelle che prima erano inutilizzabili in Sardegna (occupate da casi di Covid e ora di nuovo disponibili); ma perché non il Dap, non Basentini, non la circolare, non Bonafede, ma il giudice, nella sua insindacabile “discrezionalità”, ha deciso che la “patologia grave non è fronteggiabile con strumenti diagnostici-terapeutici in ambiente carcerario”; e perché la “Corte d’appello di Napoli in data 22.1.2015” ha definito Zagaria “non più pericoloso”. E l’ha mandato a casa in base al “bilanciamento discrezionale tra diritto alla salute e sicurezza sociale”, visto che il detenuto non può ricevere “adeguate cure mediche in ambito carcerario”. Punto. Chiunque sia il ministro o il capo del Dap, con o senza il decreto, il giudice di Sassari non cambia idea. Solo alla “scadenza del termine individuato” (5 mesi) da lui, e non di quello indicato nel decreto (“immediatamente”), opererà la “rivalutazione della persistenza delle ragioni del differimento e della detenzione domiciliare” in base “all’evoluzione della patologia”. Né quando adottò il provvedimento, né ora il giudice si lascia influenzare dalla “comunicazione del Dap in ordine alla disponibilità delle strutture protette”, dai pareri della Dna e delle Dda “favorevoli al ripristino della detenzione”. Né dal nuovo decreto, che ritiene incostituzionale perché “sconfina nella sfera di competenza riservata all’autorità giudiziaria”, cioè a lui. Cosa sarebbe accaduto se il Dap gli avesse risposto per tempo, prima del 23 aprile? “L’idoneità dei reparti di medicina protetta tempestivamente comunicati dal Dap avrebbe dovuto essere valutata da questo tribunale con riferimento all’intervento diagnostico che lo Stato non era riuscito ad assicurare” con l’intervento chirurgico. Ma non sarebbe bastata neppure allora a evitare la scarcerazione: infatti neanche ora è “possibile valutare l’idoneità delle strutture indicate a evitare il pregiudizio per la salute del detenuto”. Ciò sarà possibile solo in caso di “guarigione e idoneità delle cure”. Cioè non ora, neppure in presenza di strutture penitenziarie: “una rivalutazione improvvisa... prevalentemente indirizzata al ripristino della detenzione, comporta una violazione del diritto alla salute”. Chissà se i mitomani in Parlamento, in Antimafia, nei giornali e nei tele-pollai leggeranno l’ordinanza e la pianteranno. Ma c’è da dubitarne: non c’è peggior mitomane di chi non vuol capire. Basta minori dietro le sbarre con le madri. Una speranza dal Decreto giustizia Vita, 11 giugno 2020 In discussione in queste ore un emendamento di Cittadinanzattiva per case famiglie protette per detenute con figli minorenni. “Una soluzione per un problema di cui si parla poco e che chiede soluzioni urgenti. Nonostante le buone leggi ed una giurisprudenza favorevole, la presenza di bambini nelle carceri, assieme alle madri detenute, rappresenta un paradosso gravissimo ed irrisolto”, commenta Laura Liberto, coordinatrice di Giustizia per i diritti. Ci sono ancora bambini ristretti assieme a madri detenute e che si trovano costretti a trascorrere i loro primi anni di vita all’interno degli istituti penitenziari. Oggi un passo importante e significativo può essere fatto per dare una risposta a questo problema: tra gli emendamenti al “Decreto giustizia” in discussione alla Commissione Giustizia del Senato ce n’è uno promosso da Cittadinanzattiva che recepisce una parte importante delle proposte dell’organizzazione. Si tratta di una disposizione finalizzata a favorire la rapida individuazione e realizzazione di nuove case famiglia protette per detenute con figli minorenni, ove promuovere percorsi di reinserimento, grazie ad apposite convenzioni tra il ministero della Giustizia e gli enti locali. La proposta di emendamento vede come prime firmatarie le senatrici Cirinnà, Valente e Rossomando. Una proposta che rappresenterebbe una prima soluzione concreta, sia nell’emergenza che al di là di essa, per consentire percorsi del tutto alternativi alla detenzione nel circuito penitenziario di bambini e delle loro madri. “Questa è una questione che non desta interesse nel dibattito pubblico, ma riveste un obiettivo valore perché ha direttamente a che vedere con la tutela di soggetti particolarmente vulnerabili”, commenta Laura Liberto, coordinatrice di Giustizia per i diritti di Cittadinanzattiva. “Si tratta di piccoli numeri”, continua Liberto, “nei momenti di massima capienza le presenze hanno sfiorato la sessantina, nelle ultime settimane sono ridotti a poche unità, ma con il rischio che rientrino in carcere una volta superata la fase emergenziale. Nella maggior parte dei casi, si tratta di donne e bambini provenienti da contesti di grande marginalità e disagio sociale. Nonostante le buone leggi ed una giurisprudenza favorevole, la presenza di bambini nelle carceri, assieme alle madri detenute, rappresenta un paradosso gravissimo ed irrisolto. Le diposizioni in materia, infatti, restano spesso inattuate per una serie di limitazioni, di natura sia giuridica che economica, tra cui la mancanza sul territorio di case famiglia dedicate ad ospitare i piccoli con le loro madri”. Durante l’emergenza sanitaria che negli scorsi mesi ha pesantemente interessato anche gli istituti penitenziari, la nostra organizzazione - si legge in una nota di Cittadinanzattiva - ha più volte richiamato l’attenzione delle istituzioni su questa situazione, sollecitando il Governo ad adottare misure volte a mettere in sicurezza i bambini presenti nelle strutture di pena, assieme alle loro madri, anzitutto per scongiurare il pericolo, anche solo potenziale, di una loro esposizione al contagio. Non solo. “Non ci siamo limitati a richiedere l’adozione di provvedimenti provvisori”, conclude Liberto, “ma le nostre proposte sono tese a predisporre soluzioni definitive e durevoli ed a cogliere l’occasione per evitare che i bambini, una volta superata la fase dell’emergenza, tornino a fare ingresso in carcere. Ci auguriamo, quindi, che la proposta trovi la più ampia condivisione nell’iter parlamentare di conversione del Decreto Legge e che si cominci, così, a restituire necessaria centralità alla tutela della salute psicofisica dei bambini, al di sopra di ogni altra ragione”. Csm e riforma penale, prescrizione e carcere: tutti gli scogli di Bonafede di Giulia Merlo Il Dubbio, 11 giugno 2020 Grande è la confusione sotto il cielo di via Arenula. Tutt’altro che archiviata la crisi della riapertura dei tribunali post-covid, sulla scrivania che fu di Togliatti si affastellano pratiche su pratiche, tutte pronte ad esplodere e potenzialmente dirompenti. La prima, la più corposa, rimane la riforma del Csm. L’organo di autogoverno della magistratura al centro dello scandalo Palamara aspetta da un anno una legge che lo riformi (soprattutto dopo l’ultima ondata di intercettazioni pubblicate sul rapporto tra toghe e politica) ma di rinvio in rinvio la bozza voluta dal ministro Alfonso Bonafede non è ancora stata resa nota. Voci dalle riunioni confermano che contenga la modifica del sistema elettorale, il blocco delle porte girevoli tra ruoli politici e scranni di tribunale e la divisione della commissione disciplinare da quella che valuta gli avanzamenti di carriera. Punto nodale, però, che ha inchiodato al palo il testo, è l’impuntatura del ministro a voler mettere mano al regime delle ineleggibilità dei consiglieri laici: Bonafede e i 5 Stelle vorrebbero vietare che parlamentari e membri del governo possano venire eletti, Pd e Italia Viva hanno posto un veto su una pregiudizialità che rischia di screditare il lavoro quantomeno degli ultimi due vicepresidenti (entrambi parlamentari dem). Come se non bastasse, il ministero della Giustizia ha per le mani anche le due grandi riforme della giustizia penale e di quella civile: quest’ultima diventata oggetto di riflessioni da parte del think thank di Carlo Cottarelli, ma anche della task force di Colao voluta dal premier Conte e soprattutto dell’Unione europea, che ha vincolato i fondi del Recovery Fund a una velocizzazione della giustizia civile. La seconda, la riforma del penale, è stata oggetto di aspri scontri tra avvocati e magistrati e infiniti tavoli di confronto voluti dal ministro. Fino a che ieri la presidente della commissione Giustizia della camera, la grillina Francesca Businarolo, ha annunciato: “L’Ufficio di presidenza ha deciso oggi che la prossima settimana verrà incardinato l’esame della delega sul processo penale. Sono certa che ci sarà ampia interlocuzione e collaborazione da parte di tutti i gruppi nel comune intento di portare a termine una riforma essenziale per la giustizia italiana”. Proprio perché si tratta di una legge delega, la vera luce della riforma si vedrà quando il governo la tradurrà in atto avente forza di legge, ma già la sua approvazione fisserebbe paletti ben precisi, per quanto ancora non del tutto fissati. Proprio il macrocosmo legislativo del penale, però, contiene in sé quella che potrebbe tornare ad essere la spina nel fianco del ministro: la legge sullo stop alla prescrizione voluta da Bonafede anche a costo di provocare una quasi crisi di governo potrebbe tornare all’ordine del giorno. Italia Viva, che aveva votato contro ed era anche scesa in piazza, non si è ancora data per vinta: lo stesso Matteo Renzi ha richiamato più volte il tema, riportandolo sul tavolo del governo come “una discussione mai conclusa”. Né è un mistero che nelle riunioni per salvare Bonafede dalla mozione di sfiducia i renziani abbiano chiesto in cambio proprio questo: il ripristino della prescrizione. Loro hanno mantenuto la loro parte di accordo e ora puntano a incassare la contropartita. E, per dare una scossa al governo, Italia Viva si è astenuta in commissione Giustizia al Senato sull’emendamento al Dl Giustizia presentato da FI, che ha riproposto il “Lodo Annibali” per chiedere lo stop della riforma della prescrizione. L’emendamento è stato comunque respinto anche se per un solo voto, ma l’avviso ai naviganti è stato lanciato. Infine, a completare l’assedio di Bonafede, è intervenuto anche il Pd. In particolare il vicesegretario ed ex Guardasigilli Andrea Orlando ha ripescato la sua riforma del sistema penitenziario dal binario morto su cui era stata avviata. Come se la questione delle carceri (e del suo sistema di misure alternative) non fosse sufficientemente calda e fonte di qualche grattacapo per il ministro grillino, Orlando ha detto chiaro e tondo al manifesto che “L’auspicio è che si riprenda il lavoro sulla giustizia che avevo promosso, perché ho la presunzione di pensare che quel metodo andrebbe adottato in molti campi e quel risultato non vada disperso. Credo che oggi ci siano le condizioni adatte per riprendere il filo di quel discorso”. Quali siano queste nuove condizioni, Orlando lo chiarisce parlando di un risveglio nei 5 Stelle: “Credo che nel M5S ci siano sensibilità che fin qui non hanno prevalso”. Una frase sibillina, che però non suggerisce certo sonni tranquilli per Bonafede, che da Guardasigilli del Conte I archiviò proprio il lavoro di Orlando. Riforma del Csm, quante ombre dietro i soliti buoni propositi di Giorgio Spangher Il Riformista, 11 giugno 2020 Dal mantenimento dentro il Consiglio della sezione disciplinare al problema dei fuori ruolo, sono diverse le criticità e i nodi irrisolti di una proposta destinata a un percorso lungo e accidentato. Alcuni burattinai cadranno nell’oblio, ma la sensazione è che, anche con le nuove regole, i protagonisti dei condizionamenti sul potere giudiziario continueranno a operare. Tra i tanti annunci si segnala anche quello - ennesimo - della riforma della giustizia, questa volta sotto il profilo di quella ordinamentale. Sono vari gli aspetti considerati nella proposta di legge delega che doveva già approdare al Consiglio dei Ministri questa settimana e di cui si stanno perdendo le tracce. Si tratta, peraltro, della riproposizione - riveduta e corretta - di quanto già elaborato sotto il precedente Governo, ora stralciato per rispondere all’emergenza del Palamara 2, dopo che sono state dimenticate le premesse legate all’urgenza di dare una risposta al Palamara 1. Si sprecano i buoni propositi, le promesse di autoriforma sia della magistratura, sia della politica. Si notano già i primi distinguo. Il processo sarà lungo e accidentato nella speranza dei protagonisti e dei comprimari della questione “giustizia” che altre emergenze possono obliterare quanto è emerso e con esso la necessità di una riforma oggi ritenuta non rinviabile. Non sono poche, anche sui profili ispirati da lodevoli intenti, le riserve che il disegno di legge presenta. Bisognerà vedere, nel momento elettorale dell’autunno per il parlamento dell’Associazione magistrati, come si posizioneranno - in termini di rapporti di forza - le “correnti” e i vari gruppi. Sotto quest’ultimo profilo, non può non segnalarsi che al tradizionale aggregarsi culturale, le correnti - sul modello di alcuni partiti - si stanno strutturando attorno a leadership individuali, con conseguenze non secondarie in punto di cristallizzazione dell’aggregazione, prima caratterizzata - pur in presenza di persone che avevano rilievo nelle singole correnti - da strutture maggiormente dinamiche. Il risultato elettorale inevitabilmente indicherà chi sarà l’interlocutore della riforma con il Governo e il Parlamento, ma soprattutto quanto peseranno le varie aggregazioni nel riformato sistema elettorale per il Consiglio Superiore della Magistratura. Il dato assicurerà rilievo rispetto alla capacità delle correnti di gestire, sia il primo, ma soprattutto il secondo turno elettorale con possibilità di coordinare gli elettorati. Un profilo di criticità della riforma è costituito dal mantenimento dentro il Consiglio della sezione disciplinare, seppur temperato dalla partecipazione esclusiva dei consiglieri e la divisione in due sezioni. Appare difficile che i componenti si sottraggano alle logiche del Consiglio alle quali la composizione di due togati e di un laico non sarà in grado di sottrarsi, anche se è vero che rispetto all’attuale situazione cambia non poco la possibilità di un giudizio di responsabilità dell’accusato: oggi nella composizione a 6 (due laici e quattro togati) ci vogliono quattro voti per un giudizio di colpevolezza. La proposta (Ermini) di collocare all’esterno l’organo disciplinare richiederebbe tempi lunghi e forse una modifica costituzionale. Il rischio è che più si alza il tiro, più si rinvia la riforma che è già in ritardo, scontando tutti i rinvii già maturati. Riserve, in materia di modello elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura sembrerebbero emergere anche in relazione alla mancata presenza di quote di genere e per l’accorpamento di giudici e pubblici ministeri, nei collegi e nell’elettorato attivo e passivo. In tal modo la riforma esclude - allo stato - qualsiasi elemento legato alla introducibilità attualmente all’esame del Parlamento della separazione delle carriere. La riforma non affronta neppure il problema dei magistrati fuori ruolo che pur rappresentano al pari della nomina dei direttivi e dei semi-direttivi un problema di non secondario rilievo. Parimenti la riforma non affronta la questione della composizione dei magistrati segretati, da sempre distribuiti secondo logiche ispirate alla proporzionalità della composizione consiliare, con esclusione non solo di componenti laici, ma anche riconducibili ad una possibile loro indicazione. Si tratta di un ulteriore strumento attraverso il quale le correnti alimentano il proselitismo e costruiscono le carriere dei magistrati negli spazi destinati alla magistratura. Al tema del rapporto con la politica, sicuramente e significativamente toccato dal fuori ruolo, al quale si è accennato, la riforma dedica solo due aspetti. Il primo attiene alla partecipazione dei magistrati alla competizione elettorale ed al rientro nei ruoli dopo l’esaurimento della vicenda politica, e quello delle condizioni per la nomina a componente laico del Consiglio Superiore della Magistratura. L’esclusione - molto opportuna - di membri del Parlamento che hanno la possibilità di diventare vicepresidenti del Consiglio Superiore della Magistratura - come è emerso nelle più recenti vicende (Rognoni, Vietti, Mancino, Legnini, Ermini) - dopo un passato diversamente caratterizzato è già stata avversata da alcune forze politiche. Sarà un significativo banco di prova della tenuta della riforma. Non si può negare che anche la componente laica, si connoti per “visioni” politiche e ideologiche riconducibili a specifiche aree della rappresentanza parlamentare da cui riceve il consenso ancorché a maggioranza altamente qualificata. Sarebbe ipocrita altresì negare che le nomine non siano legate alle maggioranze e minoranze parlamentari ed all’interno di queste ai rapporti di forza delle sue componenti. Si tratterebbe, tuttavia, di un rapporto maggiormente mediato rispetto a quello di un parlamentare che transita da uno status ad un altro. Al di là delle (buone?) intenzioni, si ha la sensazione che, pur dovendo assistere all’oblio di alcuni burattinai, i protagonisti dei condizionamenti sul potere giudiziario, continueranno ad operare anche con le nuove regole, evitando soltanto le patologie troppo evidenti. La riforma non affronta - e forse non poteva farlo - altri aspetti che le intercettazioni hanno evidenziato: i rapporti tra magistrati e giornalisti e le implicazioni dell’ideologia dei magistrati nell’esercizio dell’attività giudiziaria. Si dice che oggi la fiducia dei cittadini nella giustizia, sia crollata: non c’è da meravigliarsi. Piuttosto stupisce che, pur essendo quanto emerso, perfettamente conosciuto, la fiducia potesse considerarsi elevata. Magistratopoli, ora anche molti giudici chiedono la separazione delle carriere di Alberto Cisterna Il Riformista, 11 giugno 2020 Canto XIX, Inferno, VIII cerchio, terza bolgia: i simoniaci stanno conficcati a testa in giù in buchi infuocati della roccia; ne fuoriescono le gambe dell’ultimo peccatore, lambite dalle fiamme. Uno dei canti più belli della Divina Commedia si apre con la nota apostrofe di Dante contro Simon Mago e i suoi seguaci, i simoniaci appunto, colpevoli di aver fatto commercio delle cose sacre. A spanne la reazione di una parte dei magistrati italiani allo tsunami che si è abbattuto su di loro potrebbe essere declinata con i versi del Sommo. Lo sdegno per un mercimonio di favori e di posti sarebbe da addossare a un pugno di infedeli faccendieri, di contagiati dal mal di potere, di dannati della carriera, di apostati della purezza della corporazione. Per carità, è un sentimento, in alcuni casi, anche sincero, profondamente giustificato dai disagi e dai sacrifici che tantissime toghe affrontano ogni giorno nel gestire una macchina lenta, farraginosa, vetusta. Non è di questo sdegno, però che occorre discutere, anche perché, francamente, appare il più delle volte incanalato in una gara, a tempo largamente scaduto, a chi si mostra più indignato, o più sorpreso, a tratti imbarazzante. Lo si era già visto l’anno scorso questo sdegno a scandalo (mezzo-scandalo, invero) appena esploso e nulla era cambiato. Anzi a confrontare certe nomine recenti con certe telefonate intercettate si ha il sospetto che operazioni pianificate da tempo continuino ad andare in porto a dispetto di ogni denuncia e di ogni rassicurazione e malgrado il nocchiero sia stato appeso all’albero maestro. Evidentemente l’abbrivio del transatlantico correntizio è piuttosto lungo e lo stop impresso al vapore non ha ancora fermato le macchine. Comunque, poiché il principio di buona fede e la presunzione d’innocenza rappresentano i cardini del diritto, mettiamo da parte come buone le dichiarazioni che vorrebbero rassicurare un Paese in gran parte sbigottito dagli avvenimenti e prendiamo in esame la situazione. La magistratura italiana ha dissipato, in un tempo non breve, un patrimonio enorme di credibilità e una reputazione immensa. Si trattava di risorse cospicue, frutto dello straordinario intersecarsi di un assetto costituzionale della giustizia ampiamente di favore (come in nessun’altra nazione) verso la magistratura e di un impegno talvolta eroico sul versante del terrorismo, della corruzione e della mafia. Se si volge lo sguardo al modello di giurisdizione tracciato in Costituzione ci si accorge che l’avvocatura non è neppure menzionata e che tutto l’indispensabile apparato di servizio ha solo un fugace cenno nella parte relativa alle competenze del Ministro. Un impianto appena ritoccato nel 1999 con la riforma sul giusto processo, ma senza alcuno spostamento del baricentro costituzionale dall’asse delle toghe e dal loro ordinamento. Un epicentro mai messo in discussione. Una totale identificazione tra toghe e giurisdizione che coinvolge anche il pubblico ministero. Un monolite, si ripete, senza eguali nelle democrazie occidentali e non solo. In questo monopolio costituzionale la funzione di regolazione della corporazione spettava al Csm, a sua volta un insolito monarca assoluto a base elettiva con pochissime regole esterne e un controllo - a tratti asfissiante - sui comportamenti dei singoli magistrati, sull’organizzazione degli uffici, sul funzionamento del processo, sugli incarichi e su molto altro. Tutto questo, sarebbe inutile nasconderlo, è andato in frantumi e proprio nel suo ganglio più vitale. Il corpo del re è apparso nudo, lacerato e purulento. La caduta di prestigio dell’Organo di autogoverno - che tanto aveva impensierito il Quirinale lo scorso anno nella stagione delle dimissioni di alcuni dei consiglieri coinvolti - rischia ora di travolgere la magistratura italiana che, come potere pulviscolare e diffuso, non è in grado di reggere le spinte disgregatrici che la investono in tutti i settori. Un potere sostanzialmente acefalo costituirebbe una rottura della Costituzione e non è possibile fare a meno di un centro di imputazione della funzione giudiziaria. Il Csm è indefettibile. Tuttavia, i magistrati, lasciati a sé stessi, non hanno dato buona prova nella gestione dell’amplissima autonomia e indipendenza che il Costituente aveva loro affidato nel 1947. Quando l’autogoverno ha iniziato a volgersi verso il malgoverno (questa è la percezione diffusa anche tra le toghe) è chiaro che si sono messi in discussione i pilastri della terra su cui dovrebbe essere edificata la casa della giustizia. Occorre comunque aggirarsi con discernimento tra le molte ipotesi di riforma. A esempio, silenziosamente e con circospezione, guadagna consenso tra i giudici l’idea di una separazione delle proprie carriere da quelle dei pubblici ministeri; intesa non più quale strumento per il riequilibrio delle parti processuali innanzi alle corti, ma come via per liberarsi di quella che è apparsa la zavorra più malmostosa e greve delle vicende recenti: la corsa per capeggiare le procure. Non si può dimenticare che tutto è nato dalla successione alla guida della più importante procura della Repubblica del paese e che la maggior parte dei soggetti invischiati, sino ai livelli apicali, fossero appartenenti agli organi requirenti. Il protagonista dell’affaire lo ha dichiarato pubblicamente in un’intervista televisiva: il problema della lotta per gli incarichi riguarda quasi esclusivamente le procure della Repubblica che hanno la disponibilità della polizia giudiziaria. Parola in più, parola in meno. La sensazione è quella che porzioni, purtroppo non marginali, della magistratura inquirente abbiano delimitato una terra infida e pericolosa che il Csm non è riuscito a governare con la necessaria risolutezza e fermezza. Si insinua, in più di un giudice e a mezza voce, la tentazione che sarebbe meglio liberarsi degli scomodi “colleghi” per evitare che colino a picco l’intera corporazione. Magari dando loro un proprio Csm in cui azzuffarsi e regolare i conti dei propri conflitti senza coinvolgere la terzietà e imparzialità dei giudici, presidio irrinunciabile del patto sociale, da tenere al riparo da ogni sospetto. La giustizia riparte il 30 giugno di Errico Novi Il Dubbio, 11 giugno 2020 È ufficiale: la giustizia riapre il 30 giugno. Salvo ripensamenti, o addirittura tentativi di anticipare i tempi, da parte del governo. Che oggi però ha ufficialmente dato parere favorevole a un emendamento con cui Fratelli d’Italia fissa quella data. In calce all’iniziativa, proposta durante l’esame del decreto Intercettazioni, c’è la firma di Alberto Balboni, senatore del partito di Giorgia Meloni. Il via libera è arrivato da Vittorio Ferraresi, sottosegretario alla Giustizia. Si può dire che la partita è chiusa, insomma. Ma per dimostrarlo, è necessaria l’assistenza di un avvocato. E l’avvocato in questione è proprio Alberto Balboni, del Foro di Ferrara. È senatore, alla quarta legislatura, di quelli che potrebbero scrivere la teoria e la tecnica dell’attività parlamentare, ma è pur sempre innanzitutto un avvocato. “Si metta nei panni di un presidente di Tribunale”, dice il parlamentare di Fratelli d’Italia al Dubbio, “si trova davanti l’articolo 83 del Cura Italia, giusto? Vi trova scritto che dipende tutto da lui. Tutto. Riaprire o no le aule di giustizia, consentire lo svolgimento delle udienze o rinviarle, adottare cautele o riprendere l’attività. Lei che farebbe, al suo posto?”. Loro, i magistrati, ricorda Balboni, “hanno chiuso tutto. Si son detti: “E chi me lo fa fare di rischiare? Come sono perseguibili i titolari delle aziende con casi di contagio da Covid, così sarei perseguibile io”. Perciò hanno bloccato l’attività nei tribunali. L’errore, madornale, commesso dal governo”, osserva ancora Balboni, “è stato scaricare su di loro la responsabilità”. Ecco, in poche parole, perché si è paralizzata la giustizia. Ci voleva un avvocato, prima che senatore, per trovare la soluzione: un emendamento piccolo piccolo, di mezza riga, al decreto Intercettazioni, in discussione a Palazzo Madama, nella commissione Giustizia di cui Balboni fa parte: “Al comma 1, sopprimere la lettera i)”. Tutto qui? “Tutto qui”. All’articolo 3, comma 1, lettera i) del mitologico decreto Intercettazioni dello scorso 30 aprile (quello che in realtà ha soprattutto limitato le udienze da remoto) c’è scritto che la fine della fase 2 della giustizia è procrastinata dal 30 giugno al 31 luglio. “Significa essere rimandati a settembre”, ricorda Balboni, “visto che ad agosto c’è la sospensione feriale”. Ciò detto, e dato atto al senatore di FdI della sua lucida prontezza di riflessi, va anche ricordato che il contenuto della norma, semplicissimo, era stato condiviso in anticipo, ieri mattina, dal sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, del Movimento 5 Stelle. A “Uno Mattina”, su Rai 1, Ferraresi aveva ricordato l’incontro di venerdì scorso a via Arenula fra il guardasigilli Alfonso Bonafede, il Cnf, l’Ocf, l’Aiga, l’Ucpi e l’Unione Camere civili: “Dopo quel confronto con l’avvocatura e con l’Anm, si è convenuto che la situazione consente di tornare a una attività regolare. E così, all’interno dei provvedimenti sulla giustizia all’esame del Parlamento, sarà prevista la ripresa dal 30 giugno”. Ferraresi aveva ben chiaro che di lì a poco avrebbe dato, a nome dell’intero governo, parere favorevole all’emendamento Balboni, sottoscritto anche da altri due senatori di FdI, Ciriani e Rauti. Non solo: nella seduta dell’organismo di Palazzo Madama presieduto dal leghista Andrea Ostellari, si esprimono a favore della proposta anche i due relatori: Franco Mirabelli, capogruppo dem nella commissione, e la 5 Stelle Angela Piarulli. Più esplicito e ufficiale di così, il via libera non potrebbe essere. Il decreto scadrebbe il 29 giugno, quindi sulla data non sussistono equivoci. “Devo ammettere”, dice ancora Balboni, “che la scelta del governo mi ha un po’ colto di sorpresa. Non credevo che avrebbero dato l’ok”. In realtà proprio il Cnf e l’Ocf avevano prefigurato a Bonafede, nell’incontro di venerdì, una opzione tranchant come quella poi proposta da FdI. Il ministro non l’aveva esclusa. Aveva comunque prospettato un intervento in grado di lasciare ai capi degli uffici giudiziari il potere di fermare l’attività solo qualora l’Autorità sanitaria avesse segnalato nuovi focolai. Ora però l’avvocatura chiederà di rendere immediatamente residuale il ricorso allo smart working per il personale amministrativo (due giorni orsono lo ha fatto con una dettagliata lettera al guardasigilli anche l’Ordine forense di Torino) e di anticipare la data del 30 con l’unica soluzione possibile: un decreto. Anche perché, come ricorda il presidente dell’Ami, l’Associazione avvocati matrimonialisti, Ettore Grassani, “la paralisi della giustizia come conseguenza della pandemia sta comprimendo in maniera pericolosa i diritti di migliaia di famiglie che attendono i provvedimenti di separazione”. Si calcola, spiega Grassani, “che ci siano almeno 25mila coppie che avevano depositato il ricorso poco prima del lockdown e che sono attualmente ancora sotto lo stesso tetto. Parliamo di separazioni giudiziali e consensuali. Questo alimenta le violenze intrafamiliari. Un sistema lento diventa egli stesso complice della violenza”. Prima si riapre e meglio è. Ma almeno, ora è certo che non si andrà oltre il 30 giugno. Il diritto penale totale di Ermes Antonucci Il Foglio Quotidiano, 11 giugno 2020 Il complesso delle norme adottate per contrastare la pandemia e i negativi effetti economico-sociali della stessa hanno suscitato gli interessi dei giuristi, in particolare dei costituzionalisti e dei penalisti. Così, è stato rilevato il problema del bilanciamento fra il valore della salute individuale e collettiva e altri valori di primario rilievo (libertà individuale, libertà di iniziativa economica, ecc.); nel contempo si sono studiate le tipologie di sanzioni reputate idonee ad assicurare il rispetto delle regole. In queste righe intendo soffermarmi su un altro aspetto. Pandemia e norme collegate determineranno fra breve una espansione ulteriore del diritto penale (che già avevo definito “totale” in un mio recente lavoro) e correlativamente dei poteri della magistratura inquirente. Vedo tre vie di espansione. La prima concerne l’elevato livello di contagio e di mortalità che si è verificato: il che induce a ricercare anomalie nello sviluppo causale dei fatti e quindi a ricercare negligenze nell’attività di operatori sanitari. Ma non solo: gli inquirenti sono interessati anche a vagliare l’organizzazione della struttura sanitaria al fine di accertare eventuali mancanze organizzative. Con possibilità di risalire molto in alto nella scala gerarchica burocratica, fino anche ai vertici governativi. Del resto è nota già oggi l’indagine della procura di Bergamo volta a accertare quale sia l’istituzione competente a delimitare le zone rosse. Come spesso capita, al tempo degli applausi e dei riconoscimenti subentra il tempo della conflittualità. “E probabilmente avremmo evitato il lockdown italiano”. Insomma, nel mirino del comitato dei famigliari delle vittime del coronavirus sembrano esserci soprattutto i politici e ieri, in curiosa coincidenza con la manifestazione, è giunta la notizia che sulla mancata istituzione della zona rossa ad Alzano e Nembro la procura di Bergamo interrogherà come persone informate dei fatti il premier Giuseppe Conte, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e il ministro della Salute Roberto Speranza, dopo aver ascoltato nei giorni scorsi il governatore della Lombardia Attilio Fontana e l’assessore Giulio Gallera. Il problema è che, se si escludono ipotetiche condotte dolose (ma quale politico vorrebbe ammazzare i propri elettori?), le eventuali responsabilità degli amministratori locali e nazionali andrebbero valutate nella loro sede naturale, vale a dire le urne elettorali, di certo non dalle procure. In questo senso appare a dir poco imbarazzante la soddisfazione espressa da Matteo Salvini alla notizia dell’iniziativa della procura di Bergamo: “Dopo tante menzogne e attacchi vergognosi, giustizia è fatta: chi ha sbagliato deve pagare!”. A parte che non si capisce quale giustizia sia stata “fatta” (se si esclude la giustizia mediatica tanto cara a Salvini), ma ciò che più sorprende è che in questo modo pure il leader della Lega finisce per attribuire ai pm il compito di sindacare le scelte della politica. Come dimostrare, poi, a livello processuale il nesso tra le decisioni adottate dalla classe politica e i decessi per Covid-19? Insomma, nulla esclude che alla fine, una volta aperte le inchieste giudiziarie e sull’onda di pulsioni giustizialiste, a dover rispondere dei numerosi decessi causati dalla pandemia siano proprio i medici, i dirigenti delle strutture sanitarie e gli operatori del settore. È per queste ragioni che le associazioni di categoria hanno chiesto da tempo l’introduzione di uno scudo penale. “Nessuno di noi ha mai chiesto scudi giuridici per situazioni di colpa grave, e quindi di palese negligenza e incapacità. Ma qui ci siamo ritrovati in un’emergenza pandemica, con carenza di strutture, tecnologie, attrezzature e personale specialistico”, dichiara al Foglio Antonino Giarratano, vicepresidente della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione, terapia intensiva (Siaarti). “In Lombardia - aggiunge Giarratano - molti nostri colleghi non sono tornati a casa per settimane. In alcuni ospedali si sono ritrovati ad avere in terapia intensiva in una notte venticinque pazienti con dodici posti e quindi a decidere a chi dare il ventilatore migliore. In alcuni casi i chirurghi e gli infermieri di psichiatria sono stati messi a seguire i pazienti ventilati perché non c’era personale specializzato. È chiaro quindi che in condizioni di pandemia e di emergenza non può trovare spazio il concetto di responsabilità diretta degli operatori sanitari applicato in condizioni normali. Se non ci sono mascherine, ventilatori, posti letto, infermieri e neanche linee guida, la colpa non può essere attribuita all’operatore sanitario”. Si rende quindi necessaria l’introduzione di uno scudo giuridico: “Se la colpa grave non fosse contestualizzata alle condizioni emergenziali in cui abbiamo lavorato, di fatto saremmo tutti colpevoli, e questo sarebbe improponibile. La legislazione attualmente vigente sulla colpa professionale deve quindi essere modificata affinché si tengano in considerazione le condizioni speciali che si sono verificate nel corso della pandemia”, conclude Giarratano. Diritti in pericolo, ma per la Corte non c’è fretta di Massimo Villone Il Manifesto, 11 giugno 2020 Reato di diffamazione. La Corte costituzionale ci informa che le questioni sollevate sulla legittimità costituzionale della pena detentiva per la diffamazione a mezzo stampa richiedono un complesso bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione della persona. Ci sta dicendo che il bilanciamento in atto, come stabilito dalla norma, non è accettabile. La Corte costituzionale ci informa con un comunicato del 9 giugno che le questioni sollevate sulla legittimità costituzionale della pena detentiva per la diffamazione a mezzo stampa richiedono un complesso bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione della persona, che spetta in primo luogo al legislatore. Essendo pendenti in Parlamento vari progetti di legge in materia, la Corte, nel rispetto della leale collaborazione istituzionale, ha rinviato la trattazione all’udienza pubblica del 22 giugno 2021. Restano sospesi i procedimenti penali nell’ambito dei quali sono state sollevate le questioni di legittimità. La Corte ci sta dicendo che il bilanciamento in atto, come stabilito dalla norma, non è accettabile. Se non fosse così, avrebbe dovuto dichiarare l’infondatezza della questione. Invece, ci dice che è fondata. Preannuncia quindi una sentenza di illegittimità, cui però non intende giungere immediatamente, perché il principio di leale collaborazione impone il rinvio. È l’applicazione del modello Cappato. La Corte concesse tempo al legislatore perché intervenisse. Il Parlamento rimase inerte, e la Corte si pronunciò poi con la sentenza 242/2019. Bisogna essere molto cauti sull’applicazione di un principio di leale collaborazione tra Corte e Parlamento. Forse, in materia di diritti e di libertà non se ne dovrebbe nemmeno parlare. Perché da un lato c’è chi li può attaccare, ed è il legislatore; dall’altro chi ha il dovere di difenderli, ed è la Corte. Sono due soggetti fisiologicamente antagonisti. Qui siamo pericolosamente vicini a scenari in cui la Corte viene meno al proprio specifico ruolo. La Corte tiene a sottolineare che nel tempo concesso al Parlamento i processi da cui sono partite le ordinanze di rimessione rimangono sospesi. Ovvio. Ma la cosa riguarda solo quei processi. La normativa di cui si dubita rimane vigente e applicabile, e produce i suoi effetti. Cosa può accadere? Supponiamo che per una identica fattispecie siano coinvolte altre parti in altro giudizio davanti ad altro giudice. I difensori, essendo avvertiti della posizione della Corte, presentano le stesse eccezioni che la Corte ha oggi considerato. Ma il secondo giudice non è tenuto a comportarsi come il primo, e a sollevare la questione davanti alla Corte costituzionale. Potrebbe bene ritenere l’eccezione infondata, respingerla, procedere con la decisione, e magari con la condanna. Una disparità di trattamento e un danno probabilmente recuperabili in successive fasi di giudizio, ma indiscutibili. E che dire poi del chilling effect, dell’effetto deterrente che la perdurante vigenza della normativa comunque produce, nell’anno di tempo concesso al Parlamento per intervenire, alla libertà del giornalista e al suo diritto di informare, nonché al diritto dei cittadini di essere informati? Quanti articoli, commenti, analisi, inchieste possono risultare edulcorati, smussati, o magari ricondotti a chiacchiere da salotto? Sappiamo per certo che per quell’anno un danno ci sarà. E non dobbiamo dimenticare che alla intimidazione del giornalista sono finalizzate anche le richieste di risarcimenti stellari. In materia di diritti e libertà il principio di leale collaborazione produce danni. Ci sono alternative? Sì. Nella vasta panoplia della tipologia di sentenze della Corte certamente si trova il modo di colpire la illegittimità misurando con prudenza il danno (ma quale?) inferto al bilanciamento operato dal legislatore. Meglio allora evitare i minuetti istituzionali. Affermiamo piuttosto il principio che ognuno faccia il suo mestiere. Il Parlamento, che legifera secondo la lettura di maggioranza degli interessi del paese. Il Capo dello Stato, che verifica eventuali “manifeste incostituzionalità” nel promulgare o emanare. E la Corte che assicura la conformità alla Costituzione. In specie, vogliamo essere garantiti da un ringhioso guardiano di diritti e di libertà. E vogliamo che sia particolarmente sensibile al punto che la libertà di manifestazione del pensiero ed in specie quella di stampa sono coessenziali alla democrazia. La Corte dovrebbe sapere che nel World Press Freedom Index 2020 siamo solo quarantunesimi, con i paesi del Nord Europa ai primi posti. Ci piace dire che siamo la patria del diritto. Forse. Ma non siamo la patria dei diritti e delle libertà. Raffaele Cutolo resta in carcere: “Ha ancora troppo carisma ed è un simbolo per i seguaci” di Gigi Di Fiore Il Mattino, 11 giugno 2020 Una vita in carcere, vero luogo della sua crescita criminale. Raffaele Cutolo vi è rinchiuso dal 1963, tranne due parentesi: la prima nel 1970 per la scarcerazione in applicazione della legge Valpreda e la seconda dopo un’evasione durata 15 mesi tra il 1978 e il 1979. In carcere “o prufessore” ha fondato la sua Nuova camorra organizzata, la struttura mafiosa piramidale della Campania, in carcere ha tessuto alleanze, ha manovrato la liberazione dalle Br dell’assessore regionale Ciro Cirillo nel 1981. In carcere ha ottenuto con la fecondazione artificiale di avere una figlia poco più di 12 anni fa. E in carcere, al 41bis, Cutolo deve restare a 78 anni perché “ha ancora carisma e resta un simbolo”. Parola del Tribunale di sorveglianza di Bologna, presieduto da Antonietta Fiorillo, che ha respinto il ricorso degli avvocati che, seguendo le possibilità concesse dal decreto Cura Italia per l’emergenza coronavirus, chiedevano gli arresti domiciliari per l’ex capo della Nco. Avranno sicuramente influito le polemiche sulle troppe scarcerazioni di boss mafiosi nell’emergenza dell’epidemia, ma la decisione su Cutolo fa di più: sostiene l’attualità della posizione criminale di Cutolo. È vero che la Nco, la sua organizzazione, il suo disegno criminale non esistono più e sono storia ormai anche giudiziaria. È vero che don Raffaele è in isolamento e non vuole neanche utilizzare l’ora di aria per la “socializzazione” ma i giudici scrivono, dando un’interpretazione sulla figura del “camorrista” per antonomasia nella storia mafiosa campana del dopoguerra, che “la presenza di Raffaele Cutolo potrebbe rafforzare i gruppi criminali che si rifanno tuttora alla Nco, gruppi rispetto ai quali Cutolo ha mantenuto pienamente il carisma”. Nella guerra con i gruppi contrapposti della Nuova famiglia, agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso la Nco venne sconfitta con centinaia di morti ammazzati. Ma sicuramente Cutolo ha mantenuto per boss e aspiranti boss il suo alone di rispetto criminale, anche per non aver mai voluto diventare collaboratore di giustizia nonostante le offerte di più magistrati. Un rispetto che, agli arresti domiciliari, potrebbe diventare un pericolo “nonostante l’età e la perdurante detenzione”. Insomma, fa capire la decisione dei giudici di Bologna, anche se non possono essere dimostrati collegamenti concreti con clan attivi sul territorio campano, il carisma di Cutolo ne farebbe fuori dal carcere un simbolo di riferimento. La decisione su Cutolo è stata diversa da quella dei giudici di Sassari per Pasquale Zagaria, fratello di Michele boss dei Casalesi, che ha invece ottenuto gli arresti domiciliari per motivi di salute. Su questo aspetto, i magistrati del Tribunale di sorveglianza di Bologna scrivono che il carcere di Parma può assicurare tutte le cure e l’assistenza necessarie a Cutolo, che soffre di insufficienza respiratoria. Un carcere dove non ci sono stati casi di coronavirus e aggiunge il Tribunale di sorveglianza: “La detenzione di Cutolo non si svolge con quella quota di afflittività tale da comportare una sofferenza che eccede il livello che, inevitabilmente, deriva dalla legittima esecuzione della pena”. E viene ricordato il piano assistenziale personalizzato realizzato a Parma, con un letto con le sponde e materasso antidecubito oltre a un treppiede per gli spostamenti, la bombola per l’ossigeno, la presenza di visite quotidiane di medici e infermieri, oltre a un detenuto lavorante che tiene pulita la camera dove Cutolo è da solo. Nessuna malattia grave, né presupposti di urgenza che giustificherebbero gli arresti domiciliari, come aveva già scritto un mese fa Cristina Ferrari, magistrato di sorveglianza, nel provvedimento che avevo preceduto la decisione di Bologna. “Polmonite bilaterale” era la diagnosi dei medici per Cutolo a fine marzo, ma con tampone negativo al Covid-19. Anche se rifiuta ulteriori accertamenti medici, con “assistenza e cura costanti”, “‘o prufessore” continuerà a scontare i suoi ergastoli in carcere. Intercettazioni, l’ok all’ascolto salva la misura cautelare di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 giugno 2020 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 9 giugno 2020 n. 17493. Non c’è violazione del diritto di difesa per il mancato rilascio della copia delle intercettazioni telefoniche, se il pm ha autorizzato, l’ascolto nella sala della procura. Possibilità della quale l’indagato non aveva usufruito. La Corte di cassazione, con la sentenza 17493, accoglie il ricorso del pubblico ministero contro la decisione di annullare l’ordinanza, con la quale il gip aveva disposto gli arresti domiciliari, nei confronti di un indagato per traffico di stupefacenti. Una misura nulla, secondo il Tribunale del riesame, perché la difesa non aveva avuto copia delle intercettazioni telefoniche, alla base dei gravi indizi di colpevolezza. Registrazioni dunque inutilizzabili. Non è d’accordo il procuratore ricorrente. Il pm, pur non consegnando le copie, aveva autorizzato l’ascolto delle registrazioni nell’Ufficio della procura, dedicato proprio a questo. Un via libera che era stato ignorato. Inoltre era arrivato, anche se circa dieci giorni dopo l’applicazione della misura cautelare, anche l’ok al rilascio integrale delle copie. Il pm fa presente che la norma che ha previsto espressamente il rilascio delle copie (Dl 53/19) non è ancora in vigore. Dopo vari slittamenti, l’operatività della norma è, infatti, ora prevista per settembre 2020. Tuttavia la pubblica accusa ricorda che il diritto alla copia era stato già affermato dalla Corte costituzionale e dalla Cassazione. La Consulta ha lasciato però aperta la questione sui modi per accedere alle registrazioni. Tema affrontato dalle sezioni unite della Cassazione (sentenza 20300/2010), che hanno affermato la nullità, di ordine generale a regime intermedio, dell’ordinanza di custodia cautelare in caso di mancato accesso del difensore - prima del loro deposito - alla registrazione delle conversazioni, trascritte, per sommi capi, nei brogliacci dalla polizia giudiziaria. Nel caso esaminato però, una via d’accesso, non sfruttata, c’era stata. L’indagato aveva il diritto di ascoltare le registrazioni per confrontarle con il contenuto dei brogliacci. La Cassazione è d’accordo con il pm. Ha sbagliato il tribunale ad annullare l’ordinanza senza valutare le “aperture” della procura, prima all’ascolto poi al rilascio integrale delle copie. E anche a sottovalutare il comportamento tenuto dal legale dell’indagato, che non aveva utilizzato né l’opportunità dell’ascolto né il diritto al rilascio di tutte le copie, non avendo prodotto l’autorizzazione al Tribunale del riesame per le valutazioni di merito. La Suprema corte ricorda che la difesa deve dimostrare, nel caso chieda la nullità, la tempestività della sua richiesta e il ritardo della procura. I giudici di legittimità annullano, con rinvio, l’ordinanza impugnata. Stupefacenti: no alla convalida dell’arresto in attesa delle indagini di laboratorio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 giugno 2020 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 10 giugno 2020 n.17838. No alla convalida dell’arresto per chi coltiva marijuana, prima di aver effettuato le analisi di laboratorio, anche se l’ipotesi di accusa è di uso non esclusivamente personale. È, infatti, possibile la denuncia a piede libero se la sostanza è stata sequestrata e non c’è dunque pericolo di dispersione né di cessione a terzi. La Corte di cassazione, con la sentenza 17838, respinge il ricorso del Pubblico ministero contro la scelta di non convalidare l’arresto, fatto dalla polizia giudiziaria, e disporre i domiciliari. L’arresto dell’indagato era scattato all’esito di una perquisizione domiciliare, con l’accusa di detenzione e coltivazione illecita di 635 grammi di marijuana, suddivisa in involucri, oltre 135 grammi di inflorescenze e 350 piantine, presumibilmente destinate ad essere cedute. Il giudice riteneva di non convalidare la misura restrittiva adottata sulla base di un sospetto sulla qualità illecita delle piante e del loro possibile prodotto, considerando sufficiente una misura cautelare reale in attesa delle indagini tecniche. Una decisione non condivisa dalla pubblica accusa. Per il Pm c’erano tutti gli elementi, seri e obiettivi, per considerare obbligatorio l’arresto: detenzione di marijuana e coltivazione non autorizzata di cannabis. La contestazione riguardava inoltre la detenzione di sostanza stupefacente, già essiccata e impacchettata, e di inflorescenze che, pur se considerate diretta derivazione delle precedenti coltivazioni, confermavano la complessiva illiceità, vista la destinazione, almeno parziale a terzi, dimostrata dal frazionamento e dal confezionamento. La Cassazione non è d’accordo. Anche considerando pacifica la coltivazione e la suddivisione in pacchetti, i giudici di legittimità valorizzano il fatto che l’indagato avesse mostrato ai carabinieri i documenti di acquisto delle sementi e le annotazioni sullo sviluppo delle piante. La denuncia a piede libero, in attesa delle indagini di laboratorio da “incrociare” con i documenti prodotti dalla difesa, non presentava controindicazioni, visto che il tutto era stato posto sotto sequestro. Imprese, rischio 231 escluso se in regola con i protocolli di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 giugno 2020 Devono essere esclusi profili di responsabilità, anche in chiave 231, per l’impresa che ha adottato e costantemente aggiornato le misure anti-contagio prescritte dalle Autorità pubbliche. Lo puntualizza Confindustria, corroborando queste conclusioni con riferimenti di varia natura (risposte del ministero del Lavoro, circolari Inail, modifiche normative in atto), nel position paper dell’Area affari legislativi che fornisce le prime indicazioni operative sulla responsabilità amministrativa delle società ai tempi del Covid-19. Il testo propone una ricognizione dei rischi indiretti e diretti da ascrivere all’epidemia in corso. Tra i primi, quelli dovuti alle particolari modalità organizzative e di lavoro alle quali hanno dovuto fare ricorso le imprese, che potrebbero avere aumentato il pericolo su alcuni reati. Tra questi: ? ricettazione, riciclaggio e auto-riciclaggio: le difficoltà in termini di disponibilità di risorse finanziarie, che può essere stata acuita dall’emergenza sanitaria, può aver determinato una maggior esposizione al rischio di condotte illecite riconducibili ai reati di ricettazione e riciclaggio; ? reati di criminalità organizzata: l’emergenza può aver determinato difficoltà finanziarie e questo può astrattamente esporre le imprese a un maggior rischio di infiltrazioni criminali, ad esempio per il reperimento di finanziamenti o per il ricorso a subappalti a basso costo. Per questa categoria di rischi l’aggiornamento del Modello 231 non può essere ritenuto conseguenza automatica dell’emergenza. Infatti, i rischi a titolo indiretto sono riconducibili a fattispecie di reato già incluse nella disciplina 231 prima dell’emergenza e “connotate dal carattere della tendenziale trasversalità alle diverse categorie di imprese, sotto il profilo sia dimensionale, sia merceologico”. Ma i rischi sono anche diretti e più strettamente collegati al contagio. Rischi che coinvolgono tutte le categorie d’imprese e tutta la collettività, ma che mutuati nel contesto della responsabilità amministrativa delle imprese non conduce, nella valutazione di Confindustria, a un approccio diverso nella sostanza rispetto a quello dei rischi indiretti. Infatti, si sostiene, anche prima dell’emergenza, i reati in materia di salute e sicurezza erano previsti come fattispecie presupposto della responsabilità amministrativa degli enti. Il riferimento è, in particolare, ai reati di lesioni personali colpose e omicidio colposo commessi in violazione delle norme antinfortunistiche. Al netto di situazioni specifiche, in ogni caso, l’esposizione dei lavoratori al rischio da contagio nei luoghi di lavoro ha la conseguenza comunque per l’imprenditore di dovere predisporre tutto il panel di misure che tutelino i dipendenti sulla base dell’articolo 2087 del Codice civile. Datori di lavoro che però non possono, per ovvie ragioni, essere in possesso delle conoscenze tecniche adeguate per valutare il rischio. Centrale così il ruolo delle Autorità pubbliche e dei relativi protocolli. Così, il margine di valutazione e determinazione dei datori di lavoro appare limitato “alla sola attuazione scrupolosa delle misure che le Autorità, anche in raccordo coi rappresentanti delle imprese, hanno adottato e continueranno ad adottare, nonché alla vigilanza volta ad assicurare che i lavoratori si adeguino a tali misure”. Per l’organismo di vigilanza diventa determinante allora il controllo costante e puntuale sulle misure attuate dal datore di lavoro per assicurare il rispetto delle prescrizioni dei protocolli. Controllo che passa anche attraverso il rafforzamento dei flussi di informazioni dal datore di lavoro, ma più in particolare dalle funzioni aziendali coinvolte (risorse umane, legali, medico competente) sul monitoraggio del quadro normativo e sul costante aggiornamento delle misure. Una esperienza al Due Palazzi di Padova di Paola Capitani* Ristretti Orizzonti, 11 giugno 2020 Il venerdì santo di aprile 2020 vedo in televisione la messa solitaria di Papà a Francesco celebrata nella vuota piazza San Pietro. I soli presenti alcuni detenuti e familiari del Carcere Due Palazzi di Padova che immediatamente mi riportano ad una esperienza unica da me vissuta proprio in quella struttura! Dal 2004 al 2008 ho svolto una interessante attività didattica al Carcere 2 Palazzi di Padova. Una collega mi ha proposto come formatrice per detenuti interessati alla redazione del servizio stampa del Carcere e alla gestione dell’informazione nei suoi vari aspetti. L’impatto abbastanza forte nell’entrare, senza alcun oggetto personale, senza cellulare, documento compresi, nei lunghi corridoi delimitati da sbarre e cancelli dietro le quali si affacciavano uomini di varie razze ed età. Una improvvisa situazione di anonimato. Poi da sola (avevo circa 55 anni) con una ventina di uomini dai 20 ai 70 anni che avevano alle spalle condanne disparate: stupri, omicidi, bancarotta, spaccio di droga, rapine, violenze di vario genere. Due erano della famosa banda della “uno bianca” di Bologna. Eppure mai in quelle ore da sola con loro ho avuto paura, nonostante che l’agente di custodia fosse nel corridoio a oltre 20 metri dalla nostra aula. Spesso addirittura redarguivo i miei alunni con frasi tipo “ragazzi attenti” o “mi state ascoltando?”. Talvolta ho anche azzardato frasi del tipo: “andiamo a farci una pizza” tanto per creare una atmosfera rilassata. Tra i ricordi più emozionanti quello del detenuto, appena rilasciato, seduto su una panca in ingresso, con un sacco nero di plastica (quello della nettezza), con i suoi effetti personali, che non sapeva dove andare, dopo esser stato per oltre venti anni in carcere. Il giovane detenuto rilasciato mentre facevo lezione: doveva lasciare subito il carcere e i suoi compagni lo abbracciavano con visibile emozione, con lacrime agli occhi e pacche sulle spalle! Il detenuto che mi ha toccato per sentire se provava ancora un effetto o una emozione dopo tanti anni di reclusione. Il giovane delicato e timido che seguiva con attenzione le mie lezioni, seduto al primo banco, e prendendo appunti con diligente interesse. Chiedendo spiegazioni circa la sua condanna viene fuori che aveva ucciso il padre. Il detenuto con una faccia da delinquente era invece un famoso avvocato accusato di truffe varie. Infine il detenuto che mi ha raccontato con dovizia di particolari l’omicidio di un giovane al quale aveva cercato di portare soccorso. Nessuno mi ha mai impaurito o creato problemi, solo non volevo sapere chi era colpevole di stupro: non sarei stata capace di avere un oggettivo distaccato comportamento. A distanza di anni conservo un ricordo particolare di quella esperienza e soprattutto il monito a non giudicare mai. Spesso tiriamo delle conclusioni su aspetti esteriori o su comportamenti occasionali usando prevenzione e suggestione che non sono mai dei buoni strumenti. La libertà la si apprezza sempre quando ci viene tolta e spesso il male non è solo dalla parte dei detenuti. Purtroppo il personale che vive quotidianamente con loro (agenti di custodia o personale sociosanitario) talvolta non riesce a vincere turbe e difficoltà caratteriali che in tali condizioni hanno un buon foraggio. Le condizioni di sovraffollamento peggiorano le condizioni sia dei detenuti che del personale che vive “dentro” la struttura diventando miccia per disordini e pericoli. Il bene e il male sono due facce dell’individuo e purtroppo violenze e orrende sopraffazioni vivono spesso dentro le pareti domestiche e sono effettuate dai “conviventi” o “familiari”, apparentemente sono individui al di sopra di ogni sospetto, come la cronaca ci sottolinea ogni giorno. Il giornale edito dal Due Palazzi si chiama “Ristretti Orizzonti”, ma spesso con loro sono riuscita a vedere ben oltre i confini della realtà, che normalmente vivevo e vivo, insegnandomi e ricordandomi che il punto di vista cambia a seconda da dove stiamo guardando. Pino De Sario, professionista esperto, formatore e psicologo, durante un corso di formazione destinato a donne sposate e con figli (tutte con simili problemi esistenziali di rapporti familiari e di convivenze), ci ha sempre sottolineato che bisogna guardare ogni evento, rapporto, emozione da diversi punti di vista. L’esempio calzante era la sua immagine che aveva di noi, sedute in cerchio, a seconda che lui fosse seduto, in piedi o sopra uno sgabello!! L a situazione era sempre la stessa ma cambiava radicalmente il punto di vista! Oggi in pieno Covid19, nonostante gli slogan “andrà tutto bene”, “ce la faremo”, “saremo diversi”, vediamo i disastri relazionali che il distanziamento provoca! Io adoro andare in treno anche perché socializzo facilmente e ho un fornito campionario di “compagni di viaggio” e anche un “amore” conosciuto appunto in treno. Oggi non si parla più sia per il distanziamento che per le mascherine che impediscono o rendono difficile sia la pronuncia che l’ascolto! Siamo esseri socievoli e ridotti in segregazioni forzate non solo dimezziamo o annulliamo la comunicazione con gli altri ma siamo prede di paurose chiusure mentali o peggio ancora emotive! Riflettiamo attentamente e cerchiamo di reagire con consapevolezza e raziocinio, ma soprattutto col sentimento che spesso vince la ragione più dotta. *Associazione Giullari Senza Fissa Dimora Onlus Pesaro. Volontariato e vita carceraria al tempo del coronavirus di Anna Giuffrida annagiuffrida.wordpress.com, 11 giugno 2020 “Ho detto ai volontari, ed io per primo ho fatto così, di cercare di mantenere con i detenuti con cui c’è un rapporto umano e di interscambio con le famiglie un contatto per lettera, in via epistolare. Perché una lettera ricevuta da un detenuto all’interno del carcere, per di più in un momento di clausura totale come questo, è capace di rasserenare un’intera giornata. Ha un effetto, la lettera che arriva da fuori, che noi non possiamo immaginare, presi dalle nostre attività”. A raccontare uno spaccato di vita in carcere e di volontariato in regime di emergenza sanitaria è Pierpaolo Bellucci, presidente dell’Associazione Isaia - Volontari col carcere che opera nella Casa Circondariale di Villa Fastiggi a Pesaro. Una presenza, quella dei volontari in carcere, che insieme ad altre figure è fondamentale per la rieducazione dei detenuti. Come dimostrano i dati raccolti dall’Osservatorio dell’Associazione Antigone contenuti nell’ultimo Rapporto sulle condizioni detentive: “i volontari sono circa 1 ogni 13 detenuti; si può quindi dire che rappresentino una parte molto importante fra le figure che frequentano le carceri italiane”. Un supporto, soprattutto umano, interrotto a causa dell’emergenza Covid-19 e che sarà tra le ultime attività ad essere riattivate dopo la quarantena. “Noi facciamo prevalentemente colloqui di sostegno umano ai detenuti, svolgiamo servizi di carattere pratico, come la gestione del magazzino di vestiario, ma anche corsi di ricamo, corsi professionalizzanti come meccanico per biciclette. E poi facciamo attività extra-carcere, andando nelle scuole e portando testimonianze ai ragazzi di che cosa è il carcere - spiega Pierpaolo Bellucci - A fine febbraio, quando c’è stato il restringimento prima delle attività di volontariato e poi anche dei colloqui, non siamo più potuti entrare, e adesso siamo in attesa di disposizioni. Dal 25 maggio sono ripresi i colloqui con le famiglie e anche con le cosiddette ‘terze personè, persone cioè non familiari che hanno rapporti consolidati con il singolo detenuto. Come nel mio caso, che seguo un detenuto con una pena molto lunga che sta facendo un percorso di università, e in questo periodo ho avuto modo di dargli alcune indicazioni sulla prosecuzione delle attività anche per via telematica”. L’esigenza di mantenere un supporto rieducativo e legale durante questo periodo di emergenza sanitaria ha aperto infatti il sistema carcerario alla tecnologia e all’uso di smartphone forniti dal carcere, permettendo così di mantenere i contatti soprattutto con gli avvocati e in alcuni casi con le famiglie. “Ad aprile, noi come volontari avevamo dato disponibilità alla nostra casa circondariale, qualora l’avessero ritenuto possibile e utile, di fare colloqui online. Dopo di che non abbiamo avuto riscontri. Capisco però questa ritrosità dell’amministrazione penitenziaria - precisa Bellucci - Chi conosce il target della popolazione detenuta e delle loro famiglie sa bene che si collocano tra quelli poco forniti a livello tecnologico e alfabetizzati, e poi c’è una larga fetta di popolazione straniera. La tecnologia deve essere bidirezionale, deve esserci da una parte e dall’altra, perché se poi non riesci ad instaurare un dialogo telematico con la famiglia crei nervosismi, problemi. Quindi non è semplice dire “da domani facciamo i colloqui su Skype”. Durante i mesi della quarantena è stato necessario ridisegnare la realtà delle carceri e la quotidianità dei detenuti. Uno degli aspetti positivi è stata la riduzione del tasso di affollamento, una condizione da mantenere come si legge dai dati del Rapporto Antigone sul periodo del Coronavirus: “A fine febbraio 2020 i detenuti erano 61.230 a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 posti”, popolazione che al 15 maggio è scesa a 52.679. E, come spiega sempre il rapporto, ridurre il tasso di affollamento significa rendere il carcere un luogo più salubre. Condizione necessaria in tempo di pandemia soprattutto in un luogo detentivo, chiuso, come raccontano alcune segnalazioni di familiari di detenuti fatte nel tentativo di superare quel senso di isolamento nell’isolamento, e raccolte dall’Associazione Antigone. “Nel carcere di mio marito hanno messo il disinfettante nei corridoi, ma le mascherine le hanno vietate”. “Nel pacco io una gliel’ho messa, ma gli agenti all’ufficio preposto non erano certi che avrebbe potuto utilizzarla”. “Il mio compagno mi scrive: “siamo sempre chiusi in 10 mq in 2 o 3 persone h24. Non ci fanno fare l’ora d’aria…non riesco più a dormire se non per 2 massimo 3 ore a notte… ho paura per questo virus e non mi sento al sicuro”. Un disagio che per settimane ha rischiato di tradursi in una pena aggiuntiva, per detenuti e famiglie. Come lo è stata l’impossibilità di svolgere il lavoro in ore diurne per tanti detenuti in semilibertà, che rinunciando alle attività rieducative hanno vissuto una vita carceraria a metà. “La pena è da una parte sanzione, da una parte rieducazione. D’altronde, al di là dei decreti del ministero della Giustizia di affidamento ai domiciliari dei detenuti che hanno solo un anno e mezzo di pena residua, in caso di un possibile contagio interno al carcere, che sarebbe chiaramente proveniente da fuori, non ci sono alternative, non sai come fare. Quindi non si può correre il rischio di un contagio, almeno finché l’Istituto Superiore di Sanità non si esprima sul fatto che la pandemia è finita - puntualizza Pierpaolo Bellucci, spiegando le ragioni del mantenimento di questa residua quarantena del carcere - Dopo di che c’è anche una situazione di rispetto dei diritti dei detenuti, come ad esempio poter incontrare i propri familiari, che ha spinto poi le amministrazioni penitenziarie ad anticipare di qualche giorno almeno la ripresa dei colloqui. Dopo di che, sono un diritto costituzionale anche le attività rieducative di volontariato, ma penso che se la situazione volge al meglio possano riprendere nell’arco dell’estate. Resta comunque necessario trovare una mediazione tra la pandemia, che in un contesto come il carcere sarebbe esplosiva, e i diritti fondamentali dei detenuti”. I colloqui, ripresi ormai in tutti gli istituti penitenziari, con la riapertura degli spostamenti tra le Regioni dallo scorso 3 giugno sono tornati accessibili a tutti i detenuti delle carceri italiane, a prescindere dalla residenza. Un passo in più verso la normalizzazione post-Covid che deve riguardare anche le comunità di detenuti, come supporto alla loro rieducazione. In attesa della ripresa delle attività in carcere di educatori, psicologi e volontari, anche il sistema carcerario può dirsi cambiato dal periodo dell’emergenza sanitaria. In meglio? “Io penso che il Coronavirus sia stato un’opportunità, perché alcune barriere le ha buttate giù. In diverse carceri sono stati possibili diversi colloqui su alcune piattaforme, almeno con gli avvocati. E questa cosa prima non si faceva, mentre adesso in tante carceri si fa. Ho visto poi che in alcuni casi nelle aree educative, aree pedagogiche, gli educatori hanno cercato di svolgere un numero maggiore di pratiche online attraverso le mail, hanno cioè cercato di acquietare gli animi fornendo dei servizi che magari prima erano affidati solo al detenuto, che si attivava con la propria famiglia. E poi una delle cose positive di questa situazione è che il problema annoso del sovraffollamento delle carceri è stato parzialmente risolto, e la classica situazione della ‘terza branda’ simbolo del sovraffollamento in tanti casi non c’è più”, dice il presidente dell’Associazione Isaia Bellucci. E proiettandosi sulla ripartenza, anche per loro, delle attività di volontariato prosegue: “Nei prossimi giorni avremo una riunione, a livello territoriale marchigiano ed emiliano-romagnolo, nella quale ci daranno qualche prospettiva. Ci diranno sicuramente che dovremo avere alcune attenzioni, mascherine e guanti, e che dovremo mantenere un certo tipo di distanza. Per il resto, noi solitamente luglio e agosto ci fermiamo. Quest’anno ci siamo fermati a marzo, aprile e maggio, quindi quando ci daranno l’ok per rientrare tireremo avanti senza altre soste. Fino a giugno dell’anno prossimo”. Brescia. Coronavirus: un solo contagio tra i detenuti. Sos spazi: Verziano bis è un miraggio Corriere della Sera, 11 giugno 2020 Con il Covid e i distanziamenti servono più stanze ma l’ampliamento è in forte ritardo. Il sovraffollamento, male endemico delle carceri italiane, resta anche a Brescia - 262 detenuti a Canton Mombello contro un massimo di 186 e 85 a Verziano a fronte di una capienza regolamentare di 71 posti - ma grazie alle pene alternative decise nell’era Covid l’emergenza non è così pressante come negli altri anni (basti pensare che nella casa circondariale in centro città spesso si superavano i 400 ospiti). Le due carceri bresciane però sono state gestite molto bene, visto che si è registrato un solo contagiato tra i detenuti (a Verziano) e quattro tra i dipendenti. Certo va registrata la drammatica scomparsa del medico Salvatore Ingiulla. Questa l’estrema sintesi della situazione attuale fatta ieri dal garante dei detenuti, Luisa Ravagnani, alla commissione comunale servizi alla persona e sanità, alla quale ha letto la sua ultima relazione. Non ha toccato il tema del nuovo carcere di Verziano, che la città attende da anni. Non è di sua competenza anche se - ammette - è spesso incalzata da detenuti e agenti che chiedono quando partiranno i lavori. Già, perché nell’era Covid e la necessità di avere un maggior distanziamento interpersonale gli spazi diventano più angusti. “Non ci sono spazi sufficienti per la didattica a distanza”, spiega il garante. Servirebbe come il pane l’ampliamento da 16 milioni della struttura di Verziano: la gara del progetto è partita ancora due anni fa. Progetto che nasce monco, visto che per realizzare nuove strutture sportive, spazi per le attività lavorative dei carcerati (molto importanti perché ora, anche a causa dell’assenza di spazi, sono pochissime) e casermaggio degli agenti servirebbero altri 15 milioni. Per realizzare questo secondo lotto servono però i 70 mila metri quadri appartenenti ad una azienda agricola di Verziano; la Loggia voleva entrarne in possesso cedendo in cambio palazzo Salvi Bonoris. Tre anni di trattative, poi saltate per volontà dell’amministrazione comunale che - forte della vittoria in Cassazione sulla correttezza dei tagli al Pgt - ha ritenuto di non dover più compensare in alcun modo il taglio ai diritti edificatori ottenuti da quegli agricoltori dalla Giunta Paroli: 25mila mq di aree lottizzabili in cambio appunto dei terreni per il carcere. La giunta Del Bono proponeva la permuta con il palazzo in centro. Ora non più. Spetta al ministero decidere se comprare quei 70mila mq di terreni od espropriarli. Una complicazione che non facilita lo snellimento dell’iter pachidermico. Del nuovo carcere probabilmente si potrebbe fare a meno se si spingesse più su misure alternative per chi ha buona condotta o pene residuali limitate (la metà dei detenuti sta scontando condanne inferiori ai 3 anni) e se ci fossero alloggi sociali dove far vivere i detenuti in libertà vigilata. “Sul tema alloggi dobbiamo vedere se ci sono situazioni di housing disponibili sapendo che è un bene molto scarso” replica l’assessore ai servizi sociali Marco Fenaroli. Intanto anche le carceri bresciane, a causa del Covid, hanno perso circa il 12% della loro popolazione. “In Italia a fine dicembre contenevano 60 mila detenuti, oggi siamo a 52.520 - ricorda Ravagnani - una diminuzione importante non sufficiente: per essere a norma si dovrebbero avere 47mila detenuti”. Dei numeri di Brescia si è già detto ma sono doverose due precisazioni in più: il 43% dei detenuti a Canton Mombello (112 su 262) sono stranieri (il 28% a Verziano). Una percentuale così alta anche perché, viste le loro problematiche di inserimento sociale, “molto spesso non riescono ad usufruire di misure alternative” ricorda il garante. Ma se con l’avvio del lockdown in altri istituti penitenziari italiani sono scoppiate rivolte violente a Brescia non si è vissuto alcuno scontro, grazie alla strategia preventiva basata sul dialogo ed il rispetto reciproco tra agenti di polizia penitenziaria e detenuti. Non sarà un caso se su 334 colloqui fatti nel 2019 con i detenuti il garante non ha mai registrato denunce di violenze. Unico punto contestato della relazione - da parte di Davide Giori (Lega) e Paola Vilardi (FI) - è quello riguardante il giudizio di “irresponsabilità” riguardo alle parole del centrodestra sul decreto svuota carceri. “Ho riportato le parole del garante nazionale Palma ma non era mia intenzione fare una critica politica. Le stralcerò”. Pavia. La denuncia choc di un detenuto: “Umiliato e pestato dagli agenti” di Nicoletta Pisanu Il Giorno, 11 giugno 2020 L’esposto è stato depositato in Procura: sarebbero diversi i casi di violenze in carcere dopo la rivolta di marzo. Un detenuto del carcere di Pavia ha denunciato di essere stato picchiato e umiliato da alcuni agenti di polizia penitenziaria. L’atto è stato depositato lunedì alla Procura di Pavia. Non è l’unico caso: un altro detenuto sta predisponendo in questi giorni la propria denuncia, anche altri si sarebbero rivolti ai loro legali per la stessa vicenda. L’episodio si sarebbe verificato lunedì 9 marzo, all’indomani della rivolta della sera precedente durante la quale erano stati appiccati incendi all’interno del carcere e circa trenta detenuti si erano asserragliati sul tetto fino a notte fonda. Il motivo della protesta, le limitazioni imposte a causa dell’epidemia. Il denunciante, un italiano di 47 anni, ha segnalato alle autorità che l’indomani mattina circa 35 agenti avrebbero iniziato a picchiare i detenuti: l’uomo ha spiegato che vedendo la situazione aveva indossato più indumenti per attutire eventuali colpi. Ha riferito poi di essere stato accusato di essere salito sul tetto durante la rivolta, ma lui afferma di non esserci andato. Ha quindi denunciato di esser stato obbligato a spogliarsi e fare alcuni piegamenti nudo per poi venir picchiato. Una situazione che si è ripetuta per due volte, secondo il denunciante. Il detenuto ha segnalato che al suo rientro in cella ha trovato la spesa gettata nel gabinetto e che per alcuni giorni non ha potuto far la doccia né disporre dell’ora d’aria. Nella denuncia è riportato anche che non avrebbe potuto accedere all’infermeria e di aver avviato uno sciopero della fame. Gianluigi Madonia, segretario regionale del sindacato Uspp, ha spiegato che le rivolte verificatesi in Italia tra il 7 e il 9 marzo hanno evidenziato le difficoltà in cui opera la polizia penitenziaria, in un “sistema messo in ginocchio anche dall’emergenza sanitaria, a nostro parere gestita in modo forse troppo approssimativo da parte dell’amministrazione in senso lato. Il personale ha gestito la delicatissima criticità, i cui episodi in taluni casi, purtroppo, hanno pure comportato morti ed evasioni”. Sui presunti pestaggi, Madonia commenta: “Ho fiducia nell’autorità giudiziaria, che farà luce sulle vicende e giustizia su fatti concreti e non semplici percezioni”. La direzione di Torre del Gallo è stata contattata, ma ha preferito non rilasciare commenti. Varese. Mascherine donate e in produzione al Carcere dei Miogni varesenews.it, 11 giugno 2020 Consegnate 500 mascherine donate dall’associazione Sol.Id: il Garante regionale dei detenuti Carlo Lio promette anche due macchine da cucire. Accade nel migliore dei casi che una donazione ne chiami un’altra. Così è successo nella mattinata di oggi, mercoledì 10 giugno, quando il garante regionale dei detenuti Carlo Lio ha consegnato al carcere di Varese 500 mascherine e 40 flaconi di gel igienizzante donati dall’associazione Sol.Id, che negli ultimi mesi ha regalato mascherine a penitenziari e ospedali di tutta Italia. Ad accogliere il gesto di generosità anche il prefetto Dario Caputo, il questore Giovanni Pepè e l’assessora alle pari opportunità Rossella Dimaggio, invitati dal direttore del carcere cittadino, Carla Santandrea, a visitare il laboratorio istituito il mese scorso all’interno del penitenziario per la produzione di mascherine utilizzate dal personale carcerario, dai detenuti e dai visitatori. “Il laboratorio è stato realizzato un mese fa grazie alla donazione, da parte di una azienda, di alcune grandi bobine del tessuto con cui vengono realizzate le mascherine chirurgiche”, racconta la dirigente del Carcere. Da qui l’idea di produrne autonomamente, all’interno della casa circondariale grazie a quattro detenuti volontari, due macchine da cucire e un “arnese” autoprodotto per realizzare le piegature del tessuto. Visitando il piccolo laboratorio il garante dei detenuti ha proposto di donare altre due macchine da cucire ai Miogni, per sostenere l’iniziativa e permettere che il laboratorio possa coinvolgere più persone. Le mascherine prodotte in carcere vengono utilizzate dai detenuti (61 al momento, una ventina in meno rispetto all’inizio della pandemia, nonostante qualche nuovo ingresso nelle ultime settimane), dagli agenti di polizia penitenziaria (80 persone in tutto) dal restante personale e anche, eventualmente dai visitatori, riammessi nella struttura due settimane fa. “Ma con regole molto più restrittive - precisa la direttrice del carcere - solo un familiare per detenuto, massimo 3 visitatori all’ora e colloqui rigidamente separati da plexiglass”. “Fortunatamente non ci sono state particolari tensioni a causa delle restrizioni per il Covid19 - prosegue la Santandrea - abbiamo sempre condiviso ogni nuova misura con i detenuti, spiegando necessità e protocolli, incluso il tampone e la quarantena obbligatori, in una zona ben determinata del carcere per i nuovi ingressi”. Settimana prossima nel carcere dei Miogni si tornerà anche a dire messa, mentre Lio assicura che renderà telematico lo sportello del garante dei detenuti, sfruttando la stessa piattaforma online con cui in questi mesi i detenuti hanno potuto mantenere i contatti con i loro familiari, in maniera che il servizio sia più immediato e di più facile accesso. Omofobia, la Cei contro il ddl: “Rischio di derive liberticide” di Ester Palma Corriere della Sera, 11 giugno 2020 I vescovi italiani esprimono “preoccupazione, non serve una nuova legge”: “Sanzionare ad esempio chi crede solo nella famiglia tradizionale significherebbe introdurre il reato di opinione”. I vescovi italiani scendono in campo contro il ddl sull’omofobia all’attenzione del Parlamento: “Non serve una nuova legge. Anzi, l’eventuale introduzione di ulteriori norme incriminatrici rischierebbe di aprire a derive liberticide”. Per i vescovi “esistono già adeguati presidi con cui prevenire e reprimere ogni comportamento violento o persecutorio”. E “questa consapevolezza ci porta a guardare con preoccupazione alle proposte di legge attualmente in corso di esame presso la Commissione Giustizia della Camera dei deputati contro i reati di omotransfobia”. La Presidenza della Cei sottolinea che “le discriminazioni, comprese quelle basate sull’orientamento sessuale, costituiscono una violazione della dignità umana, che, in quanto tale, deve essere sempre rispettata nelle parole, nelle azioni e nelle legislazioni. Trattamenti pregiudizievoli, minacce, aggressioni, lesioni, atti di bullismo, stalking... sono altrettante forme di attentato alla sacralità della vita umana e vanno perciò contrastate senza mezzi termini”. Nella sua nota la Conferenza Episcopale Italiana ricorda che nell’ordinamento giuridico nazionale “esistono già adeguati presidi con cui prevenire e reprimere ogni comportamento violento o persecutorio”. E aggiunge: “Per questi ambiti non solo non si riscontra alcun vuoto normativo, ma nemmeno lacune che giustifichino l’urgenza di nuove disposizioni. Quindi con una nuova legge si finirebbe col colpire l’espressione di una legittima opinione, più che sanzionare la discriminazione”. La Presidenza della Cei parla di “introduzione del reato di opinione”: “Questo per esempio significherebbe sottoporre a procedimento penale chi ritiene che la famiglia esiga per essere tale un papà e una mamma, e non la duplicazione della stessa figura. Ciò limita di fatto la libertà personale, le scelte educative, il modo di pensare e di essere, l’esercizio di critica e di dissenso. Crediamo fermamente che, oltre ad applicare in maniera oculata le disposizioni già in vigore, si debba innanzitutto promuovere l’impegno educativo nella direzione di una seria prevenzione, che contribuisca a scongiurare e contrastare ogni offesa alla persona. Su questo non servono polemiche o scomuniche reciproche, ma disponibilità a un confronto autentico e intellettualmente onesto”. “Nella misura in cui tale dialogo avviene nella libertà - conclude la nota Cei - ne trarranno beneficio tanto il rispetto della persona quanto la democraticità del Paese”. Replica subito il relatore del ddl, Alessandro Zan, Pd: “Sorprendono le critiche della Cei alla legge, il cui testo unificato ancora non è stato depositato. Lo ripeto: non verrà esteso all’orientamento sessuale e all’identità di genere il reato di “propaganda di idee” come oggi è previsto dall’art. 604 bis del codice penale per l’odio etnico e razziale. Dunque nessuna limitazione della libertà di espressione o censura o bavaglio. Il testo interviene sui reati di istigazione a commettere atti discriminatori o violenti e sul compimento di quei medesimi atti per condotte motivate dal genere, dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere. E estende ai reati comuni commessi per le stesse ragioni l’aggravante prevista dall’articolo 604-ter”. Aggiunge l’ex presidente della Camera Laura Boldrini: “Si tratta di misure a tutela dei diritti delle persone seguendo il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione e le indicazioni del Parlamento europeo su questa materia, che risalgono al 2006 ma sono rimaste finora fuori dal nostro ordinamento”. Interviene anche Gabriele Piazzoni, segretario generale di Arcigay: “Addolora ma non sorprende ritrovare la Cei sulle barricate di chi contrasta ogni ipotesi di legge per tutelare dall’odio e dalla violenza le persone lgbti, specie giovani. Lo spauracchio della legge liberticida o del reato di opinione, del tutto infondato, impallidisce dinanzi alla quotidianità martellante dell’odio e della violenza di origine omotransfobica”. Sull’altro fronte il senatore della Lega Simone Pillon, vicepresidente della commissione parlamentare Infanzia e adolescenza: “Il Governo e il Parlamento tengano conto della preoccupazione dei vescovi sulla deriva liberticida in corso. Già oggi il codice penale punisce atti di violenza e discriminazione. È molto pericoloso e discriminatorio limitare la libertà di tutti per privilegiare le ideologie di pochi”. E aggiunge l’eurodeputata della Lega Simona Baldassarre: “Questo governo non legittimato dal voto si sta preparando ad approvare un ddl che andrà a minare pericolosamente la libertà di pensiero e di opinione e instaurerà in Italia un sistema dittatoriale che andrà a perseguire tutti coloro che manifesteranno un’opinione, etica o religiosa, diversa dal “pensiero unico”. Occorre una mobilitazione popolare per dire no ad una deriva ideologica e progressista che ha l’intenzione di affermare pratiche come la maternità surrogata, l’educazione gender nelle scuole, l’aborto e l’eutanasia”. I vescovi bocciano la legge anti omofobia: “È liberticida, meglio educare e prevenire” di Giacomo Losi Il Dubbio, 11 giugno 2020 La Cei si schiera: “non si può punire chi difende la famiglia”. C’è chi pensa che sia una legge che tutela la dignità delle persone omosessuali e chi è convinto a che invece limiti il diritto di parola e di pensiero. Insomma, il progetto di legge contro l’omotransfobia, diventa un caso, soprattutto dopo la presa di posizione dei vescovi italiani che ieri, con una nota dal titolo “I vescovi contro ogni discriminazione”, hanno fatto sapere senza mezzi termini che “non serve una nuova legge”. I vescovi citano Francesco - “nulla si guadagna con la violenza e tanto si perde”, disse il Papa - e spiegano: “Le discriminazioni - comprese quelle basate sull’orientamento sessuale - costituiscono una violazione della dignità umana, che - in quanto tale - deve essere sempre rispettata nelle parole, nelle azioni e nelle legislazioni. Trattamenti pregiudizievoli, minacce, aggressioni, lesioni, atti di bullismo, stalking... sono altrettante forme di attentato alla sacralità della vita umana e vanno perciò contrastate senza mezzi termini”. Ma, aggiungono, “un esame obiettivo delle disposizioni a tutela della persona, contenute nell’ordinamento giuridico del nostro Paese, fa concludere che esistono già adeguati presidi con cui prevenire e reprimere ogni comportamento violento o persecutorio”. Per questo, continuano, guardano “con preoccupazione alle proposte di legge attualmente in corso di esame presso la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati contro i reati di omotransfobia: anche per questi ambiti non solo non si riscontra alcun vuoto normativo, ma nemmeno lacune che giustifichino l’urgenza di nuove disposizioni. Anzi, un’eventuale introduzione di ulteriori norme incriminatrici rischierebbe di aprire a derive liberticide, per cui - più che sanzionare la discriminazione - si finirebbe col colpire l’espressione di una legittima opinione, come insegna l’esperienza degli ordinamenti di altre Nazioni al cui interno norme simili sono già state introdotte”. Al centro della preoccupazione dei vescovi c’è il timore che la difesa della cosiddetta “famiglia tradizionale”, diventi pretesto punitivo: “Per esempio - spiegano - sottoporre a procedimento penale chi ritiene che la famiglia esiga per essere tale un papà e una mamma - e non la duplicazione della stessa figura - significherebbe introdurre un reato di opinione. Ciò limita di fatto la libertà personale, le scelte educative, il modo di pensare e di essere, l’esercizio di critica e di dissenso”. Ma cosa dice la legge? È il deputato del Pd Alessandro Zan, e relatore del ddl contro l’omotransfobia, a spiegarlo: “Sorprendono le critiche della presidenza Cei alla legge contro l’omotransfobia, il cui testo unificato ancora non è stato depositato e su cui stiamo ancora lavorando. Lo ripeto per l’ennesima volta a scanso di fraintendimenti - dice Zan -: non verrà esteso all’orientamento sessuale e all’identità di genere il reato di “propaganda di idee” come oggi è previsto dall’artico- lo 604 bis del codice penale per l’odio etnico e razziale. Dunque nessuna limitazione della libertà di espressione o censura o bavaglio come ho sentito dire in questi giorni a sproposito”. E poi: “Il testo base, che tra pochi giorni verrà adottato in commissione Giustizia della Camera, interviene - spiega l’esponente Dem - sui reati di istigazione a commettere atti discriminatori o violenti e sul compimento di quei medesimi atti per condotte motivate dal genere, dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere. E estende ai reati comuni commessi per le stesse ragioni l’aggravante prevista dall’articolo 604ter. Nulla di più, ma neanche nulla di meno. Non si tratta dunque di una legge contro la libertà di opinione, ma di una legge che protegge la dignità delle persone”. Sulla linea dei vescovi si schiera il senatore leghista, e animatore dei Family day, Simone Pillon: “Non serve nessuna legge. Il Governo e il Parlamento tengano conto della preoccupazione dei vescovi sulla deriva liberticida in corso. Già oggi il codice penale punisce atti di violenza e discriminazione. È molto pericoloso e discriminatorio limitare la libertà di tutti per privilegiare le ideologie di pochi”. Dalla parte opposta della barricata si schiera invece la deputata dem Laura Boldrini: “La legge contro l’omotransfobia - che si sta discutendo in commissione Giustizia alla Camera - ha per obiettivo non le opinioni e la libertà di espressione, come afferma erroneamente la nota della Cei, ma gli atti discriminatori o violenti e l’istigazione a commettere questi reati come condotte motivate dal genere, dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere. Si tratta - prosegue Boldrini - di misure che puntano a tutelare i diritti delle persone seguendo il principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione e le indicazioni del Parlamento europeo su questa materia, che risalgono al 2006 ma sono rimaste finora fuori dal nostro ordinamento”. “Regolarizziamo i migranti che erano in Italia a marzo” di Karima Moual La Repubblica, 11 giugno 2020 Gli emendamenti di Pd e 5S per salvare la sanatoria. Se la sanatoria per la regolarizzazione dei migranti irregolari sembra essere partita male, arrivano in soccorso gli emendamenti come quelli di Laura Boldrini, Lorenzo Fioramonti, Gennaro Migliore, Riccardo Magi. Obiettivo? Provare a migliorarla. Il recapito di sole 9.500 richieste dal primo giugno (data di apertura) rispetto all’aspettativa di una platea di più di 220mi1a candidati, evidentemente ha fatto scattare l’allarme. Anche se, a dirla tutta, le prime avvisaglie di un possibile buco nell’acqua, alla prima lettura del testo della sanatoria furono già segnalati da diverse associazioni, studiosi del fenomeno migratorio, professori e avvocati che si sono riunite nel gruppo di riflessione e inclusione “Grei 250”, e fin dall’inizio facevano emergere quelle che erano vere e proprie falle nell’articolo 103 del Decreto Rilancio, sulla regolarizzazione dei migranti. Il dito è stato puntato da subito su almeno 5 punti che hanno contribuito a produrre gli emendamenti che andranno in discussione nella commissione per cercare di dare una spinta a una sanatoria che rischia di diventare solo un miraggio. Il primo: la data del 31 ottobre 2019, indicata come il limite della scadenza del permesso di soggiorno del candidato. Chi avesse un permesso di soggiorno scaduto prima di tale data, è tagliato automaticamente fuori e non ha diritto di presentare domanda di regolarizzazione. La proposta del gruppo Grei recepita dall’emendamento Boldriní insieme ad altre è che la regolarizzazione possa essere valida per chiunque fosse in Italia in condizioni di irregolarità prima dell’8 marzo 2020. Secondo punto è la limitazione che si è fatta sulle occupazioni, accettando solo i lavoratori agricoli e gli operatori nei servizi alla persona come colf e badanti. Perché discriminare il lavoro? Non è meglio estendere la regolarizzazione a tutti i settori lavorativi? Anche questo viene inserito tra gli emendamenti insieme a un terzo: permettere anche ai richiedenti asilo ancora in attesa di una risposta, di accedere anche loro a un permesso di soggiorno per lavoro senza dover rinunciare alla loro attesa per richiesta di asilo come invece gli si chiede. Attendere e decidere in un secondo momento e non perdere l’opportunità. Perché l’esito della loro richiesta non è certo e quindi nel frattempo devono anche loro avere la possibilità di rientrare in una finestra di legalità lavorativa. Quarta richiesta rientrata negli emendamenti, è che il termine per la presentazione delle domande sia ampliato: non soltanto fino al 15 luglio ma fino al 31 agosto, per dare più tempo visti i rallentamenti negli uffici per l’emergenza Covid-19. E poi, a chi chiede un permesso di soggiorno per ricerca di lavoro, si chiede di dimostrare di aver lavorato in quel settore che sta cercando, ma come si può chiedere - si domandano gli avvocati che seguono le procedure - a un lavoratore in nero di dimostrare qualcosa che di fatto è stato svolto in maniera clandestina? Altro nodo da sciogliere insieme a tanti altri che si sono tradotti in emendamenti. Ora c’è solo da attendere perché le tante proposte per migliorare la sanatoria sono arrivate anche da deputati 5 Stelle come Doriana Sarli e Paolo Lattanzio, per capire se nella maggioranza riuscirà finalmente a fare quel passo avanti sull’immigrazione, dimenticando i tempi del Conte I firmato Matteo Salvini. Il caso Regeni agita il governo. Pd e M5S divisi sulle navi all’Egitto di Claudio Bozza Corriere della Sera, 11 giugno 2020 Sul tavolo del governo c’è da tutelare un affare, tra Fincantieri e Leonardo, che vale tra i 9 e gli 11 miliardi di euro. Di questo pacchetto fa parte la vendita, dall’Italia all’Egitto, di due fregate militari (Spartaco Schergat ed Emilio Bianchi) che erano state costruite per la nostra Marina, tanto che a febbraio il ministro della Difesa ha dovuto firmare un parere tecnico di rinuncia, nell’ambito di un ampio accordo siglato tra il premier Conte ed il presidente egiziano Al-Sisi. La notizia giunge a quattro mesi esatti dall’arresto dell’attivista egiziano e studente a Bologna Patrick Zaki. E tra gli effetti innescati c’è anche la durissima reazione dei genitori di Giulio Regeni, il giovane ricercatore trovato ucciso in Egitto il 3 febbraio 2016: “Questo governo ci ha traditi - hanno detto a la Repubblica-. Le navi e le armi che venderemo ad Al-Sisi serviranno a perpetuare le violazioni dei diritti umani”. Le due versioni - Lo sfogo dei genitori di Regeni causa importanti ripercussioni politiche nella maggioranza, in particolare all’interno del M5S, visto che la partita è gestita operativamente dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro e dall’omologo degli Esteri Manlio Di Stefano. La sofferenza è particolarmente forte tra i grillini dell’ala più a sinistra, che fa riferimento al presidente della Camera Roberto Fico e che ha sempre più peso nel Movimento. Mentre il capo politico Vito Crimi va nella direzione opposta: “Non stiamo regalando le navi ma le stiamo vendendo - spiega - l’Egitto le ha chieste a vari paesi e noi abbiamo la possibilità di fornirle, di fatto è una manovra di tipo economica”. Ulteriore benzina sul fuoco tra i grillini, tanto che il ministro degli Esteri prova a gestire la polemica: “È bene precisare - scandisce rispondendo a una interrogazione di Leu - che la procedura autorizzativa alla conclusione delle trattative per le fregate Fremm è tuttora in corso”. Mentre una fonte qualificata del governo confida al Corriere che “la partita è chiusa, non è possibile tornare indietro”. Di Maio aggiunge poi che l’Egitto resta “uno degli interlocutori fondamentali nel Mediterraneo”, mentre “le istituzioni italiane continuano a esigere la verità dalle autorità egiziane”. Gli “atlantisti” del Pd - La tensione, a fine giornata, diventa ancora più alta. E il premier Conte risponde alla convocazione d’urgenza della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Regeni: “Andrò assolutamente, appena possibile, anche se mi dicono che non è usuale che un presidente del Consiglio riferisca” in una tale sede. È un passaggio assai delicato da gestire per il capo del governo, che oltre ai problemi in maggioranza non può permettersi ulteriori tensioni in vista degli Stati generali per la ripartenza post Covid. Ma è bufera anche nel Pd. C’è l’ala “atlantista”, con i deputati Alberto Pagani e Carmelo Miceli, che difende l’operazione Fremm, definendola “una collaborazione politica e militare con il principale Paese del Nord Africa, che può aiutarci a garantire stabilità nel Mediterraneo”. Mentre l’anima di sinistra, con Lia Quartapelle evidenzia i rischi dell’operazione: “L’Egitto non è un nostro alleato: abbiamo interessi diversi, con gli egiziani che fanno parte di un’asse reazionaria e che in Libia sostengono il governo di Haftar”. Regeni, ciò che non è stato fatto di Luigi Manconi La Repubblica, 11 giugno 2020 È molto difficile valutare se il fatto (la vendita di due fregate della Fincantieri al regime di Al Sisi) sia più o meno grave del non fatto: un’azione politico-diplomatica capace di perseguire la verità sull’assassinio di Giulio Regeni. In altre parole, è arduo dire se lo scambio commerciale con l’Egitto, proseguito indisturbato in tutti questi anni, sia più o meno riprovevole, sotto il profilo politico e morale, dell’inerzia che continua a segnare l’atteggiamento del nostro Paese nei confronti di un regime al quale la Procura di Roma attribuisce responsabilità dirette nell’omicidio di un nostro connazionale. Perché è questo che sembra sfuggire alla gran parte della classe politica e allo stesso governo: quando un cittadino italiano subisce la sorte che è toccata a Giulio Regeni e le indagini della nostra magistratura arrivano a individuare con nome e cognome i membri del servizio segreto interno sospettati del crimine, è in gioco la nostra sovranità nazionale. La capacità, cioè, dello Stato Italiano di tutelare l’incolumità dei propri cittadini, che si trovino in territori amministrati da governi considerati “amici”. Rispetto a questo oltraggio alla dignità dell’Italia, la reazione dei governi succedutisi da quel 25 gennaio 2016, quando Regeni venne rapito al Cairo, è stata ispirata dalla pusillanimità. Le ragioni sono numerose: se sorvoliamo per un momento su quelle più strettamente di natura economico-commerciale, emerge con evidenza il peso avuto dal ruolo geo-strategico svolto dall’Egitto in quella regione del mondo. Prima, come baluardo nei confronti della minaccia rappresentata dallo stato islamico, poi come presidio di stabilità (sappiamo quanto precario) nei confronti della precipitazione della crisi libica. Questa la funzione assegnata al regime di Al Sisi dai Paesi occidentali, e dall’Italia tra essi. Il nostro Paese, come afflitto da un complesso d’inferiorità, ha eseguito il suo compito con uno sbalorditivo eccesso di zelo. In questi quattro anni, non è stata svolta alcuna seria attività di pressione nei confronti dell’Egitto sul piano economico, commerciale, turistico, culturale. Non un solo atto significativo, che comunicasse il senso di una crisi aperta tra i due Paesi, da risolvere attraverso un’autentica cooperazione giudiziaria, capace di far procedere le indagini e la ricerca della verità. Il richiamo a Roma dell’Ambasciatore italiano al Cairo, l’8 aprile del 2016, rimase l’unica iniziativa diplomatica destinata a segnalare una questione irrisolta e una ferita non rimarginata. Ma sembrò, anche quello, un gesto inerziale, una procedura solo formale, il segno di una controversia sostanzialmente innocua. E così, alla vigilia del ferragosto del 2017, l’Ambasciatore italiano ritornò al Cairo, perché - si disse - potesse seguire meglio e sollecitare più efficacemente l’attività della magistratura egiziana. Ma, da quel torrido 14 agosto a oggi, nulla, proprio nulla, si è ottenuto: se non risposte equivoche che suonavano beffarde, vere e proprie menzogne e una strategia del rinvio, della dilazione, del differimento, destinata a un solo scopo: l’oblio sull’assassinio di Regeni. Per ottenere questo, le relazioni tra Egitto e Italia andavano normalizzate e ricondotte all’ordinarietà della più convenzionale prassi diplomatica. Se gli esecutivi di centrosinistra si erano rivelati rinunciatari, il primo governo Conte non riuscì a nascondere una certa euforia nel rinsaldare il rapporto con “l’amico Al Sisi”: nel corso dell’agosto del 2018, furono ben quattro gli incontri tra i più importanti rappresentanti del governo italiano e il despota egiziano. Dai precedenti “buoni rapporti” a un’invereconda promiscuità, tuttora in atto. È in questo quadro di routine politico-diplomatica che avviene la compravendita delle due navi militari. E il riferimento a Giulio Regeni da parte del presidente del Consiglio, nell’atto di comunicare l’avvenuto accordo commerciale, risulta offensivo non solo per i familiari della vittima, dal momento che sullo sfondo c’è una grande questione di etica pubblica. E l’impegno a “proseguire nella collaborazione giudiziaria tra i due Paesi” - dopo che quella cooperazione si è rivelata, e da tempo, fallimentare - ha un sinistro suono postumo. Di Maio: “Sulle fregate trattativa in corso”. Ma così vince al-Sisi di Chiara Cruciati Il Manifesto, 11 giugno 2020 Interrogazione di LeU al ministro: normalizzazione irragionevole. La legge 185/90 vieta la vendita. Il titolare degli Esteri: “Valutiamo caso per caso”. Palazzotto al manifesto: “Conte spieghi cosa ha detto ad al-Sisi”. Rivedere la vendita delle due fregate Fremm Fincantieri all’Egitto. È la richiesta mossa ieri alla Camera dal deputato di LeU Nicola Fratoianni, firmatario con il collega Federico Fornaro dell’interrogazione parlamentare al ministro degli Esteri Luigi Di Maio. “Una scelta di dignità e buon senso”, dice Fratoianni dal suo scranno, che ponga fine a “una normalizzazione irragionevole”. Cita la legge 185 del 1990, violata da ogni governo: il divieto di vendere armi ed equipaggiamento militare a paesi in guerra o violatori dei diritti umani. Che l’Egitto sia uno di questi non c’è dubbio alcuno, dalla repressione interna che ha imprigionato 60mila persone per motivi politici alla chiusura di ong, media, siti di informazione. Passando per l’incarcerazione dello studente Patrick Zaki, lo scorso 7 febbraio, e l’uccisione - per mano dei servizi segreti interni - del ricercatore italiano Giulio Regeni. Di Maio risponde e cita entrambi. Ma non mette in dubbio la vendita. Dopotutto martedì sera il suo successore a capo politico del M5S, Vito Crimi, aveva dato prova di scarsa consapevolezza politica: “Non vendere le fregate all’Egitto non avrebbe portato nessun valore aggiunto nel percorso per raggiungere la verità sulla morte di Giulio Regeni”, la dichiarazione a Canale Nove di Crimi, secondo cui si tratta solo di “una manovra economica”. Strano modo di intendere il concetto di pressioni politiche su un soggetto da cui si vuole ottenere qualcosa: business as usual, magari il dittatore si mostrerà magnanimo. Nell’interrogazione LeU riprende i dati delle autorizzazioni all’export militare all’Egitto, con il boom del 2019 (871,7 milioni di euro) e che oggi con le due fregate e il resto del pacchetto di navi, pattugliatori d’altura, caccia e un satellite di osservazione potrebbe toccare quota 11 miliardi. La trattativa “è tuttora in corso”, dice il ministro degli Esteri. Colui che a fine agosto 2018 da ministro dello sviluppo economico volò dal presidente egiziano al-Sisi, prodigandosi in promesse sulla verità per Regeni ma senza congelare i rapporti economici con il Cairo. “Il rilascio delle autorizzazioni è subordinato all’applicazione rigorosa” della legge, ha detto ieri, il governo esamina le richieste “caso per caso”. Smentito il via libera che il premier Conte avrebbe dato ad al-Sisi appena due giorni fa? Non proprio: è possibile che quel via libera sia stato anticipato in via amichevole e che si sia prossimi alla luce verde ufficiale. In ogni caso, aggiunge Di Maio citando Libia e terrorismo, “l’Egitto resta uno degli interlocutori fondamentali nel quadrante Mediterraneo”, affermazione che fa da stampella al lungo lavoro politico imbastito da al-Sisi fin dal 2013, quando con un golpe si fece presidente: Il Cairo è fondamentale, tanto da permettere di ignorare la palese natura autoritaria e repressiva del regime instaurato in questi anni. Suona dunque vuoto l’ennesimo impegno a parole “sull’incessante richiesta di progressi significativi nelle indagini sul caso del barbaro omicidio di Giulio Regeni”, dopo che l’infaticabile Procura di Roma ne ha individuato - nonostante i continui boicottaggi egiziani - alcuni dei responsabili, tutti membri di quel servizio di sicurezza che ha trasformato l’Egitto in un’enorme prigione. Sulla questione delle fregate è intervenuta martedì la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni che ha annunciato l’audizione del premier Conte. Che ieri ha fatto sapere di avere “urgenza di riferire, anche se mi dicono che non è usuale che un presidente del Consiglio riferisca in una commissione d’inchiesta”: “Appena possibile andrò”. “Ritengo profondamente sbagliato dal punto di vista politico ed etico autorizzare una vendita di armamenti così imponente verso l’Egitto - spiega al manifesto il presidente della Commissione, Erasmo Palazzotto - Una scelta di questo tipo è molto più di una normalizzazione dei rapporti bilaterali: 9 miliardi di armi significa fare dell’Egitto un nostro partner strategico nel Mediterraneo, quando negli ultimi quattro anni ha negato ogni forma di collaborazione per individuare i responsabili della morte di Regeni. Come Commissione, l’unica questione che ci interessa con l’audizione del presidente del consiglio è conoscere il contenuto della conversazione avuta con il presidente Al-Sisi, se ci sono novità che hanno portato il governo a cambiare linea e a normalizzare i rapporti con l’Egitto”. “Il compito della commissione non è esercitare pressioni sul governo e incidere sulle scelte di politica estera, questo attiene al parlamento e alle forze politiche - continua Palazzotto - La nostra convocazione è legata alla necessità di acquisire tutte le informazioni necessarie a comprendere e valutare l’azione del governo”. Ed è partita ormai da giorni la campagna social #StopArmiEgitto di Rete Disarmo, Rete della pace e Amnesty. La richiesta è “bloccare qualsiasi ipotesi di nuove forniture militari all’Egitto”. Tantissime le adesioni.