Per il carcere non c’è mai pace, è sempre un’emergenza di Giuliano Pisapia Il Foglio, 10 giugno 2020 Rivolte in decine di carceri con oltre dieci morti, cambi con polemica al vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, provvedimenti “svuota carceri” e decreti per far tornare in cella decine di persone appena scarcerate o poste ai domiciliari. Per il carcere non c’è mai pace, è sempre un’emergenza, e come tale diventa occasione di scontro, quasi sempre ideologico, cioè a prescindere dai dati di fatto ed è quello che è accaduto anche quest’anno, il 2020 della pandemia. Uno scontro in cui è facile identificare gli sconfitti, il primo è l’articolo 27 della Costituzione quando, nella sua seconda parte recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Tra gli sconfitti ci sono anche i tanti operatori dell’amministrazione che si impegnano con grande dedizione, spesso in condizioni difficilissime, gli assistenti sociali, i medici carcerari e le stesse guardie, mal pagate e mal organizzate, che sono costrette a lavorare in condizioni inaccettabili. E i detenuti, quasi per la metà, va ricordato, in attesa di giudizio definitivo, che vivono in una situazione che tranne pochi e virtuosi casi certo non si può definire “tendente alla rieducazione”. Sono trascorsi oltre 30 anni da quando è stata approvata la legge 663/86 che porta il nome di Mario Gozzini, cattolico eletto come indipendente nelle liste del Pci, ispiratore di una legge che segnò un punto di svolta per le carceri italiane. A larghissima maggioranza, il Parlamento, con il voto contrario solo del Msi, introdusse l’affidamento in prova al servizio sociale, permessi premio, la detenzione domiciliare, il regime di semilibertà, oltre a altri provvedimenti che estesero il concetto di pena oltre una mera “carcerizzazione”. L’obiettivo era proprio quello di riempire di contenuti, davvero e per la prima volta, l’articolo 27 della Costituzione. C’è un prima e un dopo legge Gozzini, e nel dopo c’è stato l’impegno ad attuarla concretamente e quello di difenderla dai tentativi di svuotamento, di tornare alla situazione precedente in cui l’unica modalità di espiazione della pena era il carcere ignorando un dato di fatto fondamentale: quando i detenuti sono messi nella condizione di costruirsi un percorso di reinserimento la loro recidiva, cioè il loro ritorno a delinquere, è molto inferiore rispetto a chi sconta l’intera pena in carcere. Una migliore gestione della politica carceraria significa meno reati, una società più sicura. Impegnarsi su questo fronte non è solo “giusto” dal punto di vista costituzionale ma anche efficace per una maggiore tutela della collettività. E oggi, di fronte alla situazione in cui ci troviamo, cosa possiamo fare? I livelli su cui si può intervenire sono due, uno legislativo e uno “gestionale”. Dal punto di vista legislativo non torno sulle controriforme approvate dal Parlamento quale quella della prescrizione e sulla riforma, tanto annunciata quanto ancora misteriosa, del processo penale e non posso ignorare che vi sono troppi impegni ancora non mantenuti. Basti pensare all’abolizione dei decreti “insicurezza”, allo Ius soli (invero Ius culturae), alla depenalizzazione, a un rafforzamento dei riti alternativi. Riforme che inciderebbero positivamente sui tempi dei processi penali e sul reinserimento sociale dei detenuti, facendoci ritornare allo spirito della “Gozzini”. Né si dica che, in questa situazione economica e sociale, altre sono le priorità, dal momento che queste sono riforme che non inciderebbero dal punto di vista economico e che una giustizia celere ed efficiente, oltre che garantita e garantista, avrebbe risvolti positivi sulla credibilità internazionale del nostro paese visto che le condanne delle corti europee sui tempi della nostra giustizia ormai non si contano più. In questi anni ci sono stati molti interventi sul processo penale, interventi disomogenei e magari dettati da esigenze “ad personam”, quando invece sarebbe stato necessario un intervento più complessivo e armonico. Non sono mancate le proposte; è mancato il contesto politico-parlamentare per trasformarle in leggi. Sono riforme lunghe da approvare e difficili da attuare. Non c’è quindi tempo da perdere per evitare che anche questa sia una legislatura perduta, come è appunto accaduto troppo spesso in passato. Quanto alla gestione del nostro sistema carcerario credo comunque si possa fare molto anche con le norme vigenti. Ci sono casi di “successo” nelle nostre carceri che potrebbero e dovrebbero essere prese ad esempio. Penso al carcere Due Palazzi di Padova, dove il rispetto della dignità umana e la rieducazione del condannato si applicano attraverso i tanti laboratori offerti e i diversi percorsi di formazione. Ricordo la struttura circondariale di Sondrio e l’esperienza della Cooperativa Ippogrifo con il marchio “Pastificio 1908”, senza dimenticare l’esperienza del carcere di Bollate che in questi anni ha avuto molti riconoscimenti. Sperimentazioni, tutte concordate con il ministero, che hanno contribuito a creare un clima più sereno e ad aiutare i detenuti a tornare nella società con dignità avendo imparato una professione. Modernizzare il nostro sistema carcerario rappresenta una sfida gigantesca, una sfida che si deve affrontare anche a piccoli passi quotidiani perché l’obiettivo è rendere la nostra società più giusta e più sicura. Lo scopo è riabilitare di Mario Panizza L’Osservatore Romano, 10 giugno 2020 Strutture carcerarie inadeguate impediscono il reinserimento nella società. Le difficoltà fanno sempre emergere, e con evidenza, le situazioni di squilibrio e, quando coinvolgono un soggetto debole le necessità di tutela aumentano, richiedendo una cura che, se non assicurata, manifesta un disagio che, facilmente, da individuale diventa sociale. La protesta, scoppiata nelle carceri a seguito della pandemia e protrattasi per diversi giorni con esplosioni di violenza, indica il grado di inadeguatezza di un sistema penitenziario alquanto precario che si appoggia su una struttura edilizia fortemente insufficiente e, quindi, molto pericolosa. In Italia, ma anche in molti altri Paesi, soprattutto dell’America latina, la mancanza di spazio individuale ha accresciuto il rischio del contagio e, con esso, la paura, provocando vere e proprie rivolte. Il problema è dato dal sovraffollamento che, già intollerabile in condizioni di normalità, diventa del tutto insostenibile quando subentra l’emergenza. Gli investimenti dello Stato nell’edilizia carceraria non sono stati quasi mai ai primi posti, preceduti da interventi solo apparentemente più urgenti e significativi. Alla base di questa logica risiede la convinzione, magari non pronunciata, che possano essere poste in secondo piano le condizioni di abitabilità di un recluso, dimenticando che in questo modo chi ha commesso il reato è sempre più allontanato da un auspicabile recupero. Il carcere è invece tutt’altro: ha una funzione sociale positiva; deve svolgere il compito della riabilitazione. Dostoevskij sosteneva che il grado di incivilimento di una società si misura proprio sullo stato delle prigioni. Una riflessione sugli edifici carcerari e le trasformazioni che questi hanno avuto nei secoli porta alla luce, tranne qualche eccezione, un sistema in grave crisi, la cui soluzione non può certamente essere rinviata. Questa carenza di investimenti non è tuttavia isolata; coinvolge anche altre strutture pubbliche, proprio quelle che mostrano, soprattutto in questo periodo, le maggiori difficoltà di esercizio nel contrastare pericoli inattesi: la scuola, l’università, i trasporti, ma soprattutto l’edilizia sanitaria, servizi pubblici che, non sostenuti adeguatamente, sprofondano in una condizione strutturale molto fragile. Ospedali e prigioni presentano, dal punto di vista della valutazione architettonica, alcune affinità. L’edilizia penitenziaria, al pari di quella ospedaliera, è un tipo che presuppone una preparazione professionale specialistica. Alle competenze legate al campo dell’architettura si devono affiancare conoscenze giuridiche, psicologiche e sociologiche connesse alla detenzione. Sulla spinta dell’idea di attribuire alla privazione della libertà un carattere riabilitativo il progetto di un edificio carcerario deve mettere insieme un grande numero di tasselli: bisogna riflettere infatti sugli spazi individuali e quelli collettivi; garantire la sicurezza e la dignità dei detenuti, ma anche di coloro che prestano servizio all’interno degli impianti; prevedere spazi comuni dedicati alla formazione e alla socialità; valutare i vari tipi di pena; promuovere, laddove possibile, forme di reclusione che offrano anche possibilità di uscita. Nel Medioevo cominciano a delinearsi edifici precisati dal punto di vista funzionale; nel Rinascimento compaiono numerosi trattati sull’argomento, ma è solo a partire dalla metà del XVII secolo che si può parlare più propriamente di storia dell’architettura penitenziaria. Sono gli anni in cui la costruzione a Roma da parte dello Stato Pontificio delle Carceri Nuove e, nel secolo successivo, del carcere di San Michele - il primo istituto per minorenni - fissa la nascita delle prigioni moderne, intese come luogo fisico, destinato alla detenzione, nel quale è definitivamente separata la funzione penitenziaria da quella giudiziaria. Il San Michele è un esempio ancora molto attuale: non solo per le soluzioni strutturali e funzionali, capaci di garantire sicurezza, vivibilità, visibilità, ma soprattutto per l’offerta di spazi proporzionati ai giovani detenuti, adeguati al programma correttivo e di rieducazione. Opera di Carlo Fontana (1704), fa parte di un complesso che comprendeva, prima delle ristrutturazioni recenti, vari edifici destinati all’assistenza oltre che alla reclusione. Il carcere per i minori si presenta come un corpo triplo con le celle individuali che affacciano sulle pareti esterne e un lungo ambiente centrale, destinato alle attività lavorative in comune. Non manca quindi una cultura che inquadri il problema penitenziario all’interno della scelta riabilitativa: a partire dal XVIII secolo, la revisione dei metodi punitivi favorisce infatti un’edilizia con l’intento di “umanizzare” il periodo di reclusione. È solo a metà del 1800, a seguito di una serie di regolamenti specifici, che si moltiplicano le soluzioni tipologiche che, nel corso del secolo successivo, promuovono una sostanziale modifica del modo di vivere del recluso. La legge che nel 1975 riforma, in Italia, l’ordinamento penitenziario punta a migliorare le condizioni di detenzione, con programmi tesi alla riabilitazione e al reinserimento nella società. Questa svolta tenta di allontanare la dilagante sensazione di “disumanità” delle prigioni e, in questa prospettiva, assume una nuova fisionomia la questione della qualità architettonica. Il soddisfacimento dei bisogni psico-fisici dell’individuo e la complessità delle relazioni interpersonali guidano l’idea tipologica che solo la continuità spaziale e organizzativa tra il “dentro” e il “fuori” può favorire la riabilitazione del detenuto. Dei tanti principi rieducativi che, ormai da secoli, sottendono il sistema penitenziario nel suo complesso, la gran parte è stata però disattesa. Tra gli esempi virtuosi si ricorda il carcere di Halden, in Norvegia, progettato dall’architetto danese Erik Møller e inaugurato nel 2010. L’edificio, lineare e minimalista, immerso in un bosco, che si integra perfettamente nel contesto circostante, ha le celle, rigorosamente senza sbarre per permettere un maggior afflusso della luce, dotate di frigorifero e televisore. Gli spazi comuni, attrezzati per favorire le attività fisiche e ricreative, hanno lo scopo dichiarato di portare al reinserimento nella società. Degni di nota sono anche alcuni esempi olandesi - il Maasberg Juvenile Detention, lo Stadsgevangenis e il Bijlmerbajes - che propongono un complesso edilizio, articolato in più parti, inserite all’interno di un ambiente molto verde. L’interazione tra i detenuti e l’esterno è il principio base su cui si fondano le scelte progettuali: gli edifici aperti e le trasparenze dei corpi rendono infatti il senso di un continuo dialogo. Anche in Italia alcune iniziative, impostate sul coinvolgimento dell’istituzione penitenziaria e di altre strutture sia pubbliche che private, hanno favorito rapporti interessanti. Buoni risultati ha dato l’attività del “teatro in carcere”, così come il progetto architettonico, il Giardino degli Incontri nel carcere di Sollicciano, opera di Giovanni Michelucci che ha realizzato, sia pure tra molte difficoltà, un padiglione, dotato di una vasta area verde, destinato ai colloqui con le famiglie. Gli studi sullo sviluppo dell’edilizia carceraria sono pertanto sostenuti, e in non pochi casi, dalla progressiva ricerca di una cura estetica e funzionale, tesa alla riabilitazione e al recupero della distanza tra il recluso e il mondo esterno. Questo principio spesso viene dimenticato, posto in secondo piano. Dovrebbe invece rappresentare l’obiettivo primario, da porre costantemente in evidenza per far comprendere al detenuto che la permanenza coatta non deve essere intesa come l’espiazione di una pena, ma un percorso per ritrovare l’equilibrio con sé stesso e con il mondo esterno. Il rischio di non raggiungere l’obiettivo sperato è sempre in agguato, però lo spazio per il recupero sociale deve essere sempre lasciato aperto. A Medellín, la capitale del narcotraffico in Colombia, le aree di maggiore criminalità, non lontane da distretti di polizia e reclusori, sono state bonificate attraverso un programma che prevedeva al loro interno biblioteche e centri sociali. Ma non è quanto già ipotizzava Platone, quando prevedeva la collocazione di uno dei tre tipi di carcere, descritti nei suoi dialoghi, proprio nei pressi di una delle parti più vitali e frequentate della città, il mercato? Andrea Orlando: “Carcere, la riforma è possibile. I 5 Stelle sono cambiati” di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 giugno 2020 Il numero due del Pd torna a riproporre la revisione del sistema di esecuzione penale preparata quando era ministro di Giustizia. La pandemia, il lockdown, le rivolte nelle carceri, le cosiddette “scarcerazioni” dei boss mafiosi e perfino le accuse del guru dell’antimafia Nino Di Matteo al ministro Bonafede devono aver prodotto un shock salutare dentro il M5S, se il numero due del Pd, Andrea Orlando, intravede ora qualche possibilità di riproporre la riforma del sistema dell’esecuzione penale messa a punto quando era ministro di Giustizia, e finita in un cassetto come tributo del Pd al populismo penale grillino. Orlando, nella discussione sulla ripresa post Covid e sull’uso del recovery fund non si sente parlare di giustizia ed esecuzione della pena. Eppure è uno dei nodi chiave, anche per far ripartire l’economia... Spero proprio che nella riflessione sul post Covid trovi posto anche la società invisibile, quella privata della libertà, per problematiche psichiche o per reclusione in carcere. L’auspicio è che si riprenda il lavoro sulla giustizia che avevo promosso, perché ho la presunzione di pensare che quel metodo andrebbe adottato in molti campi e quel risultato non vada disperso. È solo un auspicio o vede possibilità concrete? Credo che oggi ci siano le condizioni adatte per riprendere il filo di quel discorso. Che cosa è cambiato rispetto a quando quella riforma è stata sacrificata sull’altare del populismo penale grillino? Intanto ho la pretesa di pensare che qualcosa quel lavoro abbia prodotto: qualche innovazione normativa e regolamentare, ma soprattutto un cambio di approccio nell’esecuzione penale. Ma al di là di questa magra consolazione, la dinamica è quella: la paura dell’aggressione populista. Allora, non tanto da parte di Renzi ma del governo Gentiloni. Di nuovo, oggi, c’è un piccolo “cigno nero” nel racconto populista: la posizione ultra restrittiva del capo del Dap e la rimozione del pericolo Covid ha prodotto un paradosso. Alla fine, dal carcere sono usciti i detenuti più pericolosi, mentre quelli che potevano affrontare un percorso di recupero forse non hanno neppure ottenuto pene alternative. Questo dovrebbe far riflettere: il carcero-centrismo e l’idea iper-securitaria dell’esecuzione penale, ispirata da pene esemplari e simboliche per tutti, non garantisce sicurezza e produce questi stupidi paradossi. Questa vicenda ha fatto emergere la necessità di una esecuzione della pena personalizzata, come era previsto nella riforma, cioè che tenga conto delle condizioni oggettive e soggettive del detenuto. Ma sul terreno del garantismo non sarà che forse trovate più alleati in Forza Italia che nel M5S? Francamente non credo: nel passaggio tra le due legislature (Renzi e Gentiloni, ndr), nelle commissioni provvisorie, Fi avrebbe potuto dare il consenso per rendere definitivo il decreto legislativo di riforma, e invece lavorò in asse con la Lega per bloccarlo. Su questi temi si misura l’autenticità del garantismo: quello nazionale è perlopiù legato al censo e quindi poco interessato al carcere. Il che non significa che non si debba ritentare di nuovo, sperando in posizioni diverse, in un campo e nell’altro. Credo che nel M5S ci siano sensibilità che fin qui non hanno prevalso. Bisogna riaprire la discussione: non sulla certezza della pena ma sugli effetti che essa produce, sulla sua utilità. Perché la pena non sia solo un esorcismo sociale. A proposito del “cigno nero” nel racconto populista: cosa pensa dei magistrati di sorveglianza che hanno “scarcerato” i detenuti più a rischio di vita, durante la Fase 1, e lo stop impresso dal decreto Bonafede? Ho letto questa vicenda come un’incapacità di dirigere l’amministrazione penitenziaria. Durante l’epidemia, la magistratura di sorveglianza ha svolto un ruolo di supplenza. Andrebbe ringraziata, perché non è responsabile il giudice che scarcera il boss ma chi non è stato in grado di creare le condizioni perché ciò non avvenisse. Il vero problema è il sovraffollamento. Se non ci fosse stato il Covid saremmo nuovamente in una condizione di rischio condanna della Corte di Strasburgo. Il decreto Bonafede ha invece solo invitato i giudici a riconsiderare le misure alla luce dei provvedimenti assunti nel frattempo. Non altera i rapporti di forza tra poteri dello Stato. La domanda da farsi è perché queste misure non siano state prese prima. Il sovraffollamento però è rimasto. Non è che adesso salterà fuori un piano di edilizia carceraria da finanziare con il recovery fund? Mi auguro vivamente di no. La questione oggi è rendere pienamente disponibili le celle attuali, prevedere luoghi dove poter assegnare i domiciliari a chi non ha un domicilio stabile, e immaginare altri luoghi di detenzione attenuata, che non ci sono e sono necessari in un sistema graduale di esecuzione della pena. In molti, e non i solo i Radicali, credono che l’amnistia e l’indulto siano l’unico modo per uscirne e ricominciare nel solco del rispetto dei diritti umani. Se non è il caso in un’emergenza come questa, quando lo è? Sono contrario, perché credo che questi provvedimenti indeboliscano la rivendicazione di una riforma organica. Non c’è mai stata una riforma dopo un provvedimento di clemenza. Ora la riforma c’è e prevede l’istituzione di “valvole” intelligenti per il sistema. Non va sprecata. Luigi Manconi: “Scarcerare chi sconta una pena inferiore ai 18 mesi” di Carmine Perrone settesere.it, 10 giugno 2020 La pandemia di Covid-19 ci ha costretti in uno stato di reclusione forzata. Il lockdown ha alienato le persone dalla vita sociale, privandole di azioni quotidiane. In molti hanno paragonato questo avvenimento agli arresti domiciliari, cosa ben differente. Infatti il distanziamento fisico è stato decretato per tutelare la popolazione, mentre la misura cautelare di restrizione della libertà è presa nei confronti di chi deve scontare una determinata pena, per avere infranto le leggi. Si dice che il grado di civiltà di un paese si possa misurare in base alle sue carceri. In tal caso l’Italia non sarebbe propriamente ai primi posti. Secondo l’ultima rilevazione del ministero della giustizia, datata 29 febbraio 2020, i detenuti sono 61.230, ma la capienza regolamentare delle carceri potrebbe ospitarne 50.931. A fronte di dati così drammatici, come ha reagito il sistema carcerario italiano alle nuove norme di sicurezza, che prevedono condizioni di convivenza impensabili in spazi così ristretti? A detta di Luigi Manconi, politico e sociologo italiano, impegnato da sempre nella tutela dei diritti umani e civili, fondatore dell’associazione A buon diritto ed ex presidente della Commissione dei diritti umani al Senato, la principale misura di prevenzione dal coronavirus, ovvero il distanziamento fisico, è irrealizzabile all’interno delle carceri. Questo non solo perché in gran parte delle celle italiane è impossibile garantire la distanza indicata dalle norme sanitarie tra un detenuto e l’altro, ma anche perché tutta l’organizzazione delle carceri è un’organizzazione che si fonda sulla prossimità, su rapporti molto stretti e diretti. Gli spazi dove i detenuti, i poliziotti penitenziari e il personale amministrativo si muovono sono ridotti e tutte le pratiche avvengono in ambiti ravvicinati. Inoltre vi è una scarsissima disponibilità dei presidi sanitari essenziali come mascherine e guanti. Pensa Manconi che l’emergenza Covid-19 possa aver intaccato l’attuazione dell’articolo 27 della Costituzione e in particolare il diritto del detenuto all’istruzione? “I fini della pena e la rieducazione del condannato sono stati sempre eseguiti in maniera parziale e maldestra. Nella situazione che stiamo vivendo la messa in pratica di alcuni diritti incontra numerose difficoltà, rendendo i principi irrinunciabili della Costituzione ammaccati, sgualciti e poco tutelati”. Lei ha dedicato un libro, intitolato “Abolire il carcere”, alle misure alternative di detenzione. Il sistema carcerario italiano quali potrebbe adottare durante questa emergenza e in seguito? “Ad oggi, andrebbe fatto ciò che tutte le persone competenti, senza eccezione alcuna, hanno raccomandato invano al ministro della giustizia. Ovvero, scarcerare immediatamente coloro che hanno da scontare una pena inferiore ai 18 mesi. Parliamo di detenuti che entro un anno e mezzo usciranno dal carcere, tanto vale liberarli adesso per facilitare la messa in pratica delle norme di sicurezza. I calcoli infatti ci dicono che solamente con questo provvedimento si potrebbero liberare 11.500 posti, cifra che corrisponde pressappoco al numero di detenuti eccedenti la regolare capienza delle carceri, il vero sovraffollamento. Facendo ciò si avrebbe una riduzione del sovraffollamento, si ridurrebbero i rischi del contagio e si dimostrerebbe inoltre che il concetto di pena non deve essere ridotto a quell’idea miserabile che la reclusione sia soltanto una cella chiusa. Vi sono modi estremamente differenti di pagare il proprio debito con la società, senza per forza essere chiusi in una cella e diventare vittime di una condizione patogena, che radicalizza l’estraneità del detenuto, rendendolo aggressivo e limitando la sua possibilità di emancipazione”. Mascherine chirurgiche prodotte in carcere, l’occasione per conoscere un’altra economia di Eleonora Maglia Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2020 Con la firma del protocollo per la produzione di mascherine chirurgiche all’interno degli istituti penitenziari, ha avuto avvio il Progetto Ricuciamo, un’iniziativa di inclusione lavorativa del Ministero della Giustizia e del Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 che coinvolge 320 detenuti di Bollate, Rebibbia e Salerno nella realizzazione da 400.000 a 800.000 dispositivi destinati alle necessità delle case circondariali. Ricuciamo si inserisce tra i molti progetti di economia carceraria (laboratori o simulatori di impresa spesso attivati dall’impulso di cooperative sociali) presenti in Italia che riguardano diversi settori economici (alimentare con Banda biscotti, Fatti di un’altra pasta o agricolo con Vale la pena) e che hanno l’obiettivo di rendere la detenzione negli istituti carcerari un momento di acquisizione di nuove competenze utili a fine pena per una vita dignitosa e produttiva che contenga i rischi di recidive. Le rilevazioni empiriche e la letteratura scientifica sul tema mostrano infatti che punizioni più severe non implicano una sensibilità maggiore alla minaccia di una sanzione futura ma, piuttosto, la reazione opposta perché l’esperienza della punizione tende a neutralizzare la risposta comportamentale alla deterrenza generale (Drago et al., 2007). Diffondere l’esistenza e gli effetti positivi dei progetti di economia carceraria potrebbe essere particolarmente opportuno posto che, culturalmente, permane una certa convinzione diffusa secondo cui la detenzione è l’unica e la sola possibilità, anche se ciò aumenta il rischio di recidiva, quando, invece, le misure alternative migliorano la possibilità di reinserimento, soprattutto ove si riesca ad attivare reti sociali (Saracino, 2018). L’attività lavorativa svolta in carcere, infatti, previene l’esasperazione di equilibri mentali e relazionali e contrasta la restrizione delle capacità fisiche, inoltre la scansione tra momenti di lavoro e di riposo, avvicinando il mondo dei liberi a quello dei reclusi, normalizza (Lunghi, 2012). In generale interventi che migliorano la qualità della vita negli istituti di pena si rendono necessari visti i dati sul sovrappopolamento carcerario - giudicato sistemico e strutturale (Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, 2013) - e sulla diffusione di forme di protesta. Secondo il XVI Rapporto sulle condizioni detentive pubblicato a maggio da Antigone ad esempio nel 2019 il tasso di suicidi nelle carceri è pari a 8,7 su 10.000 individui, contro un’equivalente nel Paese di 0,65; inoltre in Italia vi sono istituti penitenziali in cui gli atti di autolesionismo raggiungono quota di 110,43 ogni 100 detenuti (come il caso di Campobasso). Per garantire visibilità agli esperimenti di economia carceraria e agevolarne l’acquisto dei prodotti realizzati dai detenuti, all’interno del portale del Ministero della Giustizia è stata creata la “Vetrina dei prodotti dal carcere”, con opzioni di query per prodotto e per istituto penitenziario che ha avviato l’impresa. Inoltre, nel 2018, è stato realizzato il Festival dell’Economia Carceraria, per promuovere l’inclusione e l’aggregazione tra attività intra ed extra murarie, grazie al racconto diretto di storie e vissuti che ne consentano una conoscenza diretta e suggeriscano una riflessione personale e sociale. In più, per riunire queste e tutte le altre eccellenze dell’economia carceraria italiana e facilitarne la fruizione, è stato anche realizzato a Torino, Freed-home creativi dentro, un concept store dedicato, ubicato in uno spazio di proprietà del Comune e sostenuto da Compagnia San Paolo, in cui convergono le produzioni di 45 istituti di pena e che dà offre una localizzazione stabile dopo le esperienze dei temporary store realizzate in occasione di fiere dedicate al consumo critico o delle principali festività. Vacilla il decreto anti-boss di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 giugno 2020 Il Tribunale di sorveglianza di Sassari ha sollevato la questione di illegittimità alla Corte costituzionale. Pasquale Zagaria resta in detenzione domiciliare a Brescia. Anche il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ha già interessato la Consulta. “La frequentissima rivalutazione della sussistenza dei presupposti della detenzione domiciliare, peraltro, caratterizzata da una marcata tensione al ripristino della detenzione, incide di per sé su entrambi i diritti costituzionalmente garantiti, tra loro strettamente connessi: salute e umanità della pena”. È questo è il focus dell’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Sassari con la quale si contesta la legittimità costituzionale del decreto Bonafede. Parliamo dell’ordinanza che invia gli atti alla Consulta per quanto riguarda il caso Pasquale Zagaria, che aveva ottenuto il beneficio della detenzione domiciliare in provincia di Brescia. Sono, per il momento, due i casi che arrivano alla Corte costituzionale, sollevando problemi di legittimità del decreto Bonafede nato su spinta delle polemiche relative alle “scarcerazioni” (termine non corretto, perché si tratta di detenzione domiciliare per motivi di salute) di circa 500 detenuti che si sono macchiati di reati per mafia. Qualche settimana fa la questione era stata sollevata dal magistrato di sorveglianza di Spoleto Fabio Gianfilippi. Ora è la volta del tribunale di sorveglianza di Sassari, ordinanza a firma dei magistrati Ida Aurelia Soro e Riccardo De Vito. Sono diversi i profili di dubbia legittimità costituzionale rilevata. L’obbligo di rivalutazione della detenzione domiciliare, entro quindici giorni e poi a cadenza mensile, ad avviso del tribunale di Sassari “invade la sfera di competenza riservata all’autorità giudiziaria e viola il principio di separazione dei poteri, tanto più in quanto applicata retroattivamente ai provvedimenti già adottati dal tribunale a decorrere dal 23 febbraio”. Il problema temporale non è da poco. Aver imposto una ferrea scansione temporale crea diversi problemi. Quali? È sempre il tribunale di sorveglianza a spiegarlo nell’ordinanza. Il perimetro temporale ristretto e la conseguente impossibilità di un’adeguata istruttoria sulle condizioni di salute “impediscono - scrivono i giudici - di mettere a frutto lo spiraglio letterale contenuto nel penultimo periodo dell’articolo 2 del decreto Bonafede, laddove si precisa che l’autorità giudiziaria - il magistrato o il tribunale di sorveglianza - provvede valutando, oltre ai motivi legati all’emergenza sanitaria, la “disponibilità di altre strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta idonei ad evitare il pregiudizio per la salute del detenuto o dell’internato”. Nel caso di Zagaria c’è un esempio pratico. Nella vicenda che ha condotto alla sua detenzione domiciliare, l’emergenza da Covid 19 viene in rilievo, in un secondo momento, non quale causa della scarcerazione in ragione della maggiore vulnerabilità del paziente in caso di eventuale contrazione della malattia, ma principalmente quale fattore impeditivo della cura in ambito intramurario di una patologia tumorale: una neoplasia vescicale, classificabile come carcinoma papillifero di basso e focalmente di alto grado. La pandemia ha assunto rilevanza - unitamente alla mancata individuazione di un istituto penitenziario dotato di centro clinico o prossimo a struttura ospedaliera idonea - perché ha determinato l’impossibilità di curare la patologia del paziente in ambito intramurario. A seguito del decreto Bonafede il Dap ha individuato una struttura per loro adatta e per questo, entro 15 giorni, l’ufficio di sorveglianza si è ritrovato costretto a dover valutare. Tuttavia, ad oggi, il quadro clinico è in attesa della definizione correlata dagli esiti dell’esame istologico. Allo stato, scrivono sempre i giudici, “non essendo stabilizzato il quadro clinico e diagnostico, l’ufficio di sorveglianza non può valutare l’idoneità delle strutture indicate dal Dap”. In sostanza il decreto Bonafede non permette di realizzare serenamente il bilanciamento tra esigenze di tutela della collettività e principio di umanità della pena. Ovvero, a causa dell’imposizione temporale, il decreto Bonafede non permette al giudice di “valutare compiutamente l’intera situazione”. Il decreto, secondo l’ufficio di sorveglianza di Sassari, rompe quel delicato equilibrio tra diritto alla salute e umanizzazione della pena da un lato ed esigenze di sicurezza della collettività dall’altro. Il condannato malato, già ammesso a una misura domiciliare idonea a garantirgli il diritto di potersi curare per un certo intervallo temporale, viene improvvisamente a trovarsi sottoposto a una reiterata e continua verifica della permanenza dei presupposti della misura stessa. Sempre nel caso specifico, Pasquale Zagaria nel frattempo ha avuto un malore ed è stato ricoverato. Ha intrapreso un percorso terapeutico e ancora non è chiaro tutto l’esame diagnostico. Come può la magistratura di sorveglianza - a maggior ragione dopo il ricovero per malore - valutare pienamente l’idoneità della struttura indicata dal Dap? È costituzionalmente legittimo che un decreto legge lo imponga? Ora di tutto questo se ne occuperà la Consulta grazie all’ordinanza del tribunale di Sassari a firma della presidente Ida Soro e del magistrato Riccardo De Vito. Cafiero de Raho: “Ora la parola alla Consulta, guai a far rientrare i boss sul territorio” di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 10 giugno 2020 I legali del camorrista Pasquale Zagaria hanno sollevato questione di legittimità costituzionale contro il decreto legge Bonafede. E adesso la parola passa alla Consulta. “No, non ce lo aspettavamo, anche se questa considerazione resta poco significativa - spiega al “Mattino” il Procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho. Ora tocca ai giudici costituzionali, che dovranno decidere sul bilanciamento di due diritti fondamentali: quello alla salute e quello della sicurezza dei cittadini”. Presidente, ma se l’emergenza è superata e siamo ormai nella “fase 3”, perché Zagaria con altri pericolosi mafiosi e terroristi che hanno beneficiato dei domiciliari non possono rientrare in carcere? “Zagaria beneficia della detenzione domiciliare per cinque mesi. Ma in linea di principio - e più in generale - appare chiaro che nel momento in cui il detenuto, posto in detenzione domiciliare, può essere curato in strutture penitenziarie o in reparti di medicina protetta, e quindi in sedi adeguate e sotto la protezione della Polizia penitenziaria, allora viene meno quel presupposto della necessità di restare a casa”. Come si è arrivati a sollevare un giudizio di legittimità costituzionale sul decreto che poneva argini alla concessione dei domiciliari per pericolosissimi detenuti? “Vi si è arrivati ritenendo che esista, come deve essere, un preponderante diritto alla salute, rispetto al quale la valutazione del giudice non può essere condizionata, soprattutto quando ha proiettato la previsione della detenzione in relazione alla durata del percorso terapeutico. I giudici di Sorveglianza di Sassari hanno trasferito la questione alla Corte Costituzionale; perché da un lato hanno ritenuto che le nuove disposizioni confliggano con l’intangibilità delle manifestazioni della giurisdizione dall’altro determinino un regime differenziato peri detenuti per reati di mafia e terrorismo, pur essendo la salute un diritto proprio di tutti i detenuti. In realtà ci sarebbe anche da notare che laddove viene evidenziata la disponibilità di luoghi di cura adeguati il diritto alla salute è rispettato e garantito e, al tempo stesso, è tutelata la sicurezza dei cittadini”. Di fronte a questa nuova situazione la Direzione nazionale antimafia dovrà esprimere un parere sul caso che investe ora la Consulta? “No. Noi in questa procedura non abbiamo alcun tipo di interlocuzione. Gli interessi pubblici saranno rappresentati dalla Avvocatura dello Stato. Un parere lo esprimeremo solo quando arriverà il momento della valutazione del ritorno in carcere al 41bis di Pasquale Zagaria. Naturalmente siamo consapevoli che questa decisione sarà fondamentale perché costituirà un precedente. Continuiamo a ritenere che ogni scarcerazione di mafiosi sia un grave danno per tutti”. Furti, incidenti, droghe, risse: per i processi sui reati diffusi rischio prescrizione causa Covid di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2020 I rinvii per le misure di contenimento del Covid-19 rischiano di colpire soprattutto le cause che riguardano gli illeciti ritenuti meno gravi ma di maggiore allarme sociale. Il periodo di lockdown e la lenta ripresa dell’attività giudiziaria allungherà i tempi dei processi che riguardano soprattutto i reati ritenuti meno gravi, ma che provocano un maggiore allarme sociale: le cause in materia di droga, furti, risse e incidenti stradali sono quelle che più stanno risentendo dei rinvii e per cui l’arretrato rischia di aumentare. Si tratta di un settore della giustizia già in sofferenza prima dell’epidemia: in 10 anni, dal 2010 al 2019, le cause pendenti del rito monocratico (in cui la decisione spetta a un solo giudice) sono cresciute del 42 per cento. Una situazione che può diventare esplosiva per l’impatto delle misure di contenimento del Covid-19. E, con l’allungarsi dei tempi, cresce il rischio di prescrizione. Monocratico in sofferenza - In controtendenza rispetto alla riduzione dell’arretrato in primo grado (-5,7% dal 2010 al 2019), nel rito monocratico le pendenze sono continuamente aumentate. Il giudice monocratico si occupa dei reati meno gravi, che però sono quelli che fanno registrare il maggior numero di nuovi processi: nel 2018 sono stati 342.585 contro i 14.514 del collegiale, in base ai dati del ministero della Giustizia. Si tratta di reati che, come il traffico di droga, gli incidenti stradali o i furti, toccano da vicino la vita delle persone e incidono sulla percezione collettiva della capacità del sistema di far fronte alla domanda di giustizia. Le difficoltà si concentrano nelle grandi sedi. A Napoli i processi arretrati sono circa 32mila, a Roma nel 2018, secondo i dati ministeriali, poco più di 21mila. In alcuni tribunali l’aumento delle pendenze è stato esponenziale: a Salerno dal 2009 al 2018 sono salite quasi del 130%, mentre a Palermo del 123 per cento. “Dal 2009 le iscrizioni sono raddoppiate: l’organico invece è rimasto lo stesso (nel monocratico circa 20 giudici) mentre in procura i sostituti sono quasi 40”, dice il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale. A Roma, viceversa, l’arretrato in dieci anni è sceso (-22,7%) proprio grazie a un accordo fra Tribunale e Procura. “Nel 2017 - spiega il presidente vicario, Antonino La Malfa - abbiamo avviato un intervento congiunto: la Procura ha ridotto le iscrizioni, ricorrendo di più ad archiviazioni e decreti penali, mentre il Tribunale ha aumentato le udienze di prima comparizione e processi”. L’impatto del Covid-19 - Su questa situazione si è abbattuta l’epidemia. Nella fase 1, da marzo all’11 maggio, sono state sospese le udienze penali, con poche eccezioni (convalide di arresto e processi con detenuti, su loro richiesta). Nella fase 2, dal 12 maggio al 31 luglio, l’attività è ripresa, ma resta lontana dai ritmi usuali: l’obbligo di evitare assembramenti restringe l’uso delle aule e i processi da remoto sono limitati dai paletti messi dal decreto 28/2020. Ad aggravare la situazione l’impossibilità per il personale amministrativo che lavora a remoto di accedere ai registri di cognizione. “Devono tornare negli uffici, perché a casa non possono fare nulla ed è assurdo che anche in Regioni dove i contagi sono al minimo tutto resti chiuso”, accusa il presidente dell’Unione camere penali Gian Domenico Caiazza. Nel diluvio di rinvii, i più colpiti sono i procedimenti di competenza del tribunale monocratico. “Va data priorità ai processi che riguardano i delitti più gravi, come dispone l’articolo 132-bis delle disposizioni di attuazione al Codice di procedura penale”, spiega il coordinatore del settore penale del Tribunale di Milano, Marco Tremolada: “Anche noi - conferma - cercheremo di recuperare prima i processi del tribunale collegiale di quelli del monocratico”. A Milano i rinvii sono fissati a distanza di 15 giorni: si spera di riuscire a celebrare le udienze prima dell’autunno e nei prossimi giorni saranno riviste le linee guida per ampliare le cause da trattare. Anche al Tribunale di Napoli, spiega la presidente, Elisabetta Garzo, i limiti sono stati allentati: “Da oggi ogni giudice monocratico può trattare fino a 10 processi, anziché 5. Ma sul ruolo ce ne sono almeno il doppio. L’obiettivo è ampliare ancora, anche prima del 31 luglio, se i dati sul contagio restano positivi”. Finora, a Napoli sono stati rinviati circa 10mila procedimenti del tribunale monocratico nella fase 1 e già 8.000 nella fase 2. I tempi più lunghi dei processi potrebbero far crescere le prescrizioni. “Il rischio di aumento esiste - ammette La Malfa -. Già oggi la procura produce più processi di quanti il tribunale ne riesca a smaltire. Per alleggerire il monocratico bisognerebbe depenalizzazione alcuni reati, come quelli fiscali, che andrebbero, invece, contrastati sul piano amministrativo”. Giudici monocratici in affanno. In autunno caos rinvii e nuove cause di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2020 Durante l’emergenza sanitaria si sono celebrati solo pochi giudizi: dopo la sospensione feriale si prospetta un aumento del carico di lavoro straordinario. Le cause presso il Tribunale monocratico hanno subito un drastico stop a causa del Covid. Infatti, durante l’emergenza sanitaria si sono celebrati solo pochi giudizi a carico di detenuti, mentre la maggior parte dei processi monocratici riguarda persone libere. La conseguenza è il rischio implosione del sistema: in autunno i processi rinviati si sovrapporranno a quelli che devono iniziare. In concreto, vuole dire un aumento del carico di lavoro dei Tribunali monocratici straordinario. Ma di cosa si occupa il Tribunale monocratico? Le competenze tra Tribunale collegiale e monocratico si ripartiscono in base al titolo e alla gravità dei reati coinvolti. Quelli che appartengono alla cognizione del Tribunale collegiale sono individuati dall’articolo 33-bis del Codice di procedura penale, mentre la norma successiva attribuisce al monocratico un’estesa competenza residuale, che riguarda tutti gli altri reati puniti nel massimo con pena fino a 10 anni, con una sola attribuzione puntuale, cioè i delitti in materia di stupefacenti in cui non sia contestata una delle aggravanti per i casi di maggiore allarme sociale e caratura criminale. Quest’ampia formulazione fa sì che la maggior parte dei reati siano giudicati dal Tribunale monocratico. Furti, infortuni sul lavoro, colpe mediche, incidenti stradali con morti o feriti, abusi edilizi, molti reati fiscali, in materia di tutela dei beni culturali, contravvenzioni ambientali, guida sotto l’effetto di alcol o droghe, doping, scommesse clandestine: sono solo pochi esempi. I processi davanti al Tribunale collegiale e al monocratico si svolgono nello stesso modo, tranne che per i reati per cui il Pm può esercitare l’azione penale con citazione diretta a giudizio; in tal caso si salta l’udienza preliminare. Ciò avviene per questi reati: ? delitti puniti con la reclusione non superiore nel massimo a 4 anni o con la multa, sola o congiunta alla detenzione; ? violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale; ? oltraggio aggravato a un magistrato in udienza; ? violazione aggravata di sigilli apposti per disposizione di legge, o per ordine dell’autorità; ? rissa aggravata, con l’esclusione dei casi in cui uno dei contendenti sia rimasto ucciso o ferito gravemente; ? lesioni personali stradali gravi e gravissime; ? furto aggravato nei casi previsti dall’articolo 625 del Codice penale; ? ricettazione. Nei processi con citazione diretta a giudizio ha un ruolo fondamentale la magistratura onoraria: le funzioni dell’accusa vengono infatti completamente appaltate ai vice procuratori onorari, ovvero dei laureati in legge che svolgono un tirocinio presso le Procure ordinarie ma non sono sottoposti ad alcun esame di Stato. Minore è invece il numero dei magistrati onorari che svolgono le funzioni di giudice. Il principio dell’impersonalità dell’ufficio del pubblico ministero comporta che, quasi sempre, non sia lo stesso vice procuratore onorario a trattare tutte le udienze di un processo; tale circostanza, insieme al gran numero di cause con citazione diretta che si celebrano quotidianamente, assegna un onere rafforzato al giudice nella ricostruzione del fatto e nell’individuazione delle responsabilità. È perciò essenziale che il processo si celebri dall’inizio alla fine di fronte allo stesso giudice: non è possibile che la sentenza venga emessa da un magistrato diverso da quello che ha vissuto il dibattimento. Un principio che, invece, la bozza di riforma del processo penale approvata dal Governo a metà febbraio, prima dell’inizio dell’epidemia, metteva in discussione nel solco della sentenza 41736/2019 della Cassazione a Sezioni unite. Dalla Consulta palla alle Camere sul carcere per il giornalista che diffama di Liana Milella La Repubblica, 10 giugno 2020 Come per il caso Cappato, la Corte ravvisa una incostituzionalità nelle norme in vigore sulla stampa, ma non le boccia, visto che al Senato sono in corsa due disegni di legge. Per il carcere ai giornalisti esattamente come per il caso Cappato e il fine vita. La Consulta, dopo quattro ore di camera di consiglio, ripropone il modello che usò due anni fa per affrontare il caso del suicidio di Dj Fabo. “Nel rispetto della leale collaborazione istituzionale” con il Parlamento, la Corte costituzionale dà alla politica un anno di tempo per decidere se è ancora possibile mantenere norme - l’articolo 13 della legge sulla stampa del 1948 e l’articolo 595 del codice penale sulla diffamazione - che prevedono, rispettivamente, la possibilità di finire in cella per sei, o per tre anni, per aver scritto una cronaca “diffamante” verso una persona. Appuntamento, dunque, al 22 giugno del 2021, quando la Corte verificherà se il Parlamento ha osservato il suo invito. Sappiamo come finì per il caso Cappato, le Camere si baloccarono la questione del fine vita, e la Consulta, esattamente allo scadere del tempo concesso, decise da sola dando di fatto il via libera all’aiuto al suicidio. Vedremo, stavolta, se i due progetti di legge attualmente in commissione Giustizia al Senato - il ddl di Primo di Nicola di M5S sulle querele temerarie; il ddl di Giacomo Caliendo di Forza Italia sulla diffamazione - raggiungeranno l’obiettivo di eliminare il carcere per i giornalisti, come l’articolo 10 della Convenzione dei diritti umani di Strasburgo stabilisce e come la stessa Cedu ha ribadito in più decisioni che riguardano la stampa italiana (vedi casi Sallusti e Belpietro). Ma non c’è solo questo nella nota stampa della Consulta che dà conto della decisione presa dopo la relazione del giudice Francesco Viganò sulle due questioni sollevate, rispettivamente, dai tribunali di Bari e di Salerno, che in entrambi i casi lamentavano, nella previsione del carcere per i giornalisti, la violazione non solo delle norme Cedu, ma anche di numerosi articoli della nostra Costituzione, soprattutto il 21 che garantisce la stampa da pressioni e censure. Secondo la Consulta i quesiti posti - e che ieri hanno visto presenti durante l’udienza pubblica, anche se non ammessi alla discussione come amici curiae, i vertici dell’Ordine dei giornalisti e della Federazione nazionale della stampa - richiedono “una complessa operazione di bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione della persona, diritti entrambi di importanza centrale nell’ordinamento costituzionale”. Secondo la Corte di tratta di “una rimodulazione di questo bilanciamento, ormai urgente alla luce delle indicazioni della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che spetta in primo luogo al legislatore”. Opposta la tesi dell’Avvocatura dello Stato che invece ha difeso le norme attuali in quanto, cancellando una pena forte per la diffamazione, si finirebbe per creare una disparità di trattamento con la diffamazione “non” a mezzo stampa. E ciò significherebbe dare un enorme potere, nonché una sorta di “arma” in mano ai giornalisti. Nasce invece dall’obiettiva constatazione che in Parlamento già esistono due disegni di legge in fase di avanzata discussione, la “decisione” di “non decidere” nel merito, ma di concedere alle Camere e alla politica ben 12 mesi di tempo per uscire dal guado di una legge sulla diffamazione che - bisogna ricordarlo - attraversa le varie legislatura dal lontano 2013. Non è certo un caso se, anche stavolta, i progetti di legge di Di Nicola e di Caliendo sono stati presentati da tempo. Il 20 settembre 2018 quello di Caliendo, il 2 ottobre dello stesso anno quello di Di Nicola. Stanno per compiersi i due anni e i due testi sono ancora là, al Senato, al primo vaglio parlamentare. Un’intesa è stata raggiunta sul testo di Di Nicola che, sulle querele temerarie, recita così: “Nei casi di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, delle testate giornalistiche online o della radiotelevisione, in cui risulta la malafede o la colpa grave di chi agisce in sede di giudizio civile per il risarcimento del danno, il giudice, con la sentenza che rigetta la domanda, condanna l’attore, anche al pagamento di una somma, determinata in via equitativa, non inferiore ad un quarto di quella oggetto della domanda risarcitoria”. Il minuscolo ddl di un solo articolo - due anni per un articolo... - dopo infinite mediazioni “è pronto per andare in aula, probabilmente a fine giugno”, come dice a Repubblica il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi. Ma è sul testo di Caliendo invece - che riguarda tutta la complessa questione della diffamazione a mezzo stampa, delle rettifiche anche sui siti online, e la responsabilità non solo dei cronisti ma anche dei direttori - che la trattativa è ancora in corso, anche se molti emendamenti sono già pronti. D’altra parte, per la Consulta, non c’era altra via da seguire, perché una decisione autonoma, sulla costituzionalità o meno sia dell’articolo 13 della legge sulla stampa, sia sull’articolo 595 del codice penale sulla diffamazione, sarebbe suonato come un vero e proprio schiaffo al Parlamento. Certo non nella linea della “collaborazione istituzionale”, che ha preso il posto del vecchio “monito alle Camere”, ancora meno stringente dei 12 mesi, già inaugurata dall’ex presidente Giorgio Lattanzi, e proseguito adesso con l’attuale presidente Marta Cartabia. Un anno per rivedere la legge sul carcere ai giornalisti. Verna: prima storica vittoria di Errico Novi Il Dubbio, 10 giugno 2020 La Corte costituzionale: “il Parlamento riequilibri le norme”. I giudici sospendono i procedimenti in cui si è sollevata la questione e danno la parola alle Camere. Come il caso Cappato: “Un anno di tempo per intervenire con una nuova disciplina della pena detentiva prevista in caso di diffamazione a mezzo stampa”. Un anno dato dalla Corte costituzionale al Parlamento per cambiare le norme e accantonare l’ipotesi del carcere ai giornalisti, come già sembrano intenzionati a fare sia le Camere sia lo stesso governo. “Una prima storica vittoria”, esulta, interpellato dal Dubbio, il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Verna. Secondo il giudice delle leggi, dunque, il legislatore deve fare in fretta. Trovare una soluzione. Complessiva, che ridefinisca il quadro delle sanzioni per il cronista responsabile di diffamazione. Ci sono analogie, molte, con la questione del fine vita, del reato di aiuto al suicidio, sul quale alla fine la Consulta ha dovuto intervenire per depenalizzare condotte come quella di Cappato nella tragica vicenda di Dj Fabo. Anche su una così delicata materia la Corte aveva dato al Parlamento un anno esatto per riconsiderare la disciplina. In quel caso l’anno è stato sprecato, la legge non è arrivata, e c’è stata una “supplenza” della Corte costituzionale. “Stavolta”, dice Verna, “mi sembra che ci siano le condizioni per approvare una legge complessiva, che intervenga anche sulle querele temerarie e altri aspetti”. E in effetti, nel comunicato del proprio ufficio stampa, Palazzo della Consulta inserisce un passaggio dal significato chiaro: “Poiché sono attualmente pendenti in Parlamento vari progetti di legge in materia”, la Corte, “nel rispetto della leale collaborazione istituzionale, ha deciso di rinviare la trattazione delle questioni all’udienza pubblica del 22 giugno 2021, per consentire alle Camere di intervenire con una nuova disciplina”. Sono proprio il riferimento ai “vari progetti di legge” all’esame del Parlamento, in particolare del Senato, a legittimare l’esultanza di Verna. Si tratta di proposte che tendono non solo all’abolizione della pena detentiva per il cronista, ma anche alla penalizzazione di chi avanzi una querela “al solo fine di intimidire l’autore dell’articolo”, che sarebbe condannato a pagare una sanzione pari ad almeno un quarto della somma reclamata per la presunta diffamazione. Nel comunicato, la Corte ricorda che le questioni esaminate ieri sono state sollevate dai “Tribunali di Salerno e di Bari”. Quei giudici avevano ritenuto non manifestamente infondate le riserve sulla legittimità costituzionale della pena detentiva prevista in caso di diffamazione a mezzo stampa, “con riferimento, in particolare, all’articolo 21 della Costituzione e all’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. La Corte, fa sapere l’ufficio stampa “in attesa del deposito dell’ordinanza previsto nelle prossime settimane”, ha rilevato che “la soluzione delle questioni richiede una complessa operazione di bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione della persona, diritti entrambi di importanza centrale nell’ordinamento costituzionale”. Al di là delle connotazioni specifiche, che saranno desumibili solo dalla lettura dell’ordinanza “è importantissimo”, nota Verna, “che la Corte abbia detto: così certamente non va. Non solo, perché il riferimento alla necessità di un complesso bilanciamento chiama in causa tanti altri aspetti. Oltre a quello delle querele temerarie anche quello, per esempio, di una pena per il giornalista eventualmente responsabile che, seppur solo pecuniaria, sia ragionevolmente commisurata alle tasche del condannato. E qui”, riflette a caldo il presidente dell’Ordine dei giornalisti, non a caso proveniente da una rara formazione giuridica, “è tutt’altro che irrilevante il riferimento alla Corte di Stasburgo”. Riferimento in effetti esplicito, perché la nota di Palazzo della Consulta ricorda come “una rimodulazione” del “bilanciamento” fra libertà di stampa e tutela della reputazione, sia “ormai urgente alla luce delle indicazioni della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”. Non certo irrilevante - osserva ancora un presidente dei giornalisti che con il collegio difensivo guidato da Giuseppe Vitiello si è battuto anche perché l’Ordine fosse legittimato a intervenire nella causa - “è anche il passaggio in virtù del quale, in attesa delle iniziative parlamentari e della futura sentenza costituzionale, restano sospesi i procedimenti penali nell’ambito dei quali sono state sollevate le questioni di legittimità appena discusse. Un sollievo”, ricorda Verna, “che si potrà riverberare evidentemente anche sulle vicende processuali di tanti altri colleghi. E di cui, finalmente, noi giornalisti possiamo gioire. Tutti”. Non c’è bancarotta solo se la distrazione non va a incidere sulle ragioni creditorie di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2020 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 9 giugno 2020 n. 17620. Il reato di bancarotta patrimoniale resta escluso se con valutazione ex ante i benefici indiretti per la fallita si dimostrino idonei a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi, sì da rendere l’operazione incapace di incidere sulle ragioni dei creditori della società. I fatti. Nel caso concreto il reato sussiste. È quanto chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 17620/20. Nel caso di specie la Corte d’appello di Milano ha confermato la pronuncia del Tribunale della stessa città che aveva dichiarato un soggetto colpevole di bancarotta distrattiva fraudolenta per i reati commessi nella qualità di amministratore unico. Il tutto per aver versato senza causa in favore del consolato della Namibia la somma di 176.734, 50 euro mediante bonifici dai conti correnti sociali. La Cassazione, in funzione di questa operazione, ha ritenuto la colpevolezza dell’imputato. I Supremi giudici, infatti, hanno richiamato la giurisprudenza secondo cui in tema di bancarotta fraudolenta, la prova della distrazione e dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione da parte dell’amministrazione della destinazione dei beni richiamati. Questo orientamento si fonda sulla considerazione che nel nostro ordinamento l’imprenditore assume una posizione di garanzia nei confronti dei creditori i quali confidano nel patrimonio dell’impresa per l’adempimento delle obbligazioni sociali. La responsabilità dell’imprenditore. Da qui la diretta responsabilità dell’imprenditore, quale gestore di tale patrimonio per la sua conservazione ai fini dell’integrità della garanzia. Della sentenza della Consulta non beneficia chi ha già subìto la revoca della patente di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2020 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 9 giugno 2020 n. 17506. L’incostituzionalità dichiarata recentemente dalla Consulta per la revoca automatica della patente a chi causa lesioni stradali ai sensi della legge sull’omicidio stradale non incide su chi ha già subìto la revoca. La Corte di cassazione, con la sentenza 17506, respinge il ricorso teso ad ottenere la sostituzione della revoca con la meno afflittiva sospensione. Una richiesta che la difesa riteneva dovesse essere accolta in virtù della sentenza 88/2019 con la quale la Corte costituzionale aveva dichiarato il contrasto con la Carta dell’articolo 222, quarto comma 2, quarto periodo, del Codice della strada per la parte in cui non prevede un margine di valutazione per il giudice tra la sospensione e la revoca, in caso di omicidio stradale o lesioni personali stradali gravi o gravissime, in assenza di circostanze aggravanti. Ma il verdetto con il quale la Consulta ha bocciato l’automatismo, non ha “effetto retroattivo”, se la revoca è stata disposta con sentenza di condanna o di pena patteggiata, divenuta irrevocabile prima della pubblicazione della decisione. La Suprema corte precisa che dalla sentenza della Consulta non deriva nessuna attrazione in ambito penale della sanzione accessoria della revoca, ma solo l’attribuzione al giudice della cognizione della facoltà di scegliere tra revoca e sospensione. Lombardia. Fondi per dare case ai detenuti: la Regione dice no, è scontro Il Giorno, 10 giugno 2020 La Giunta non si avvarrà di 900mila euro per inserire chi è a fine pena. Pizzul (Pd): mancanza totale di rispetto- È scontro tra il capogruppo lombardo del Pd, Fabio Pizzul, e l’assessore regionale Silvia Piani sui fondi per il reinserimento sociale dei detenuti a fine pena che la Regione ha deciso di non utilizzare e sui quali ieri in Consiglio comunale è stata presentata un’interrogazione a firma della consigliera Elisabetta Strada. Da qui parte Pizzul: “A fronte della disponibilità di 900.000 euro della Cassa Ammende per azioni di reinserimento sociale di detenuti a fine pena, in particolare con interventi di housing sociale, che Regione Lombardia avrebbe semplicemente dovuto destinare alle associazioni che già si impegnano in questo settore, l’assessore Piani ha dichiarato di aver deciso di non accettarli per rispetto delle vittime di reato e per non favorire la scarcerazione di detenuti potenzialmente pericolosi. Dichiarazioni che dimostrano una totale mancanza di rispetto per quanto avviene nel mondo carcerario, per gli operatori del settore e per il lavoro delle realtà del privato sociale che potrebbero essere destinatarie delle risorse di Cassa Ammende. Alla Piani è bene ricordare che la pena si può scontare anche fuori dal carcere e questo significa contribuire a far sì che chi finisce di scontare la pena non torni a delinquere”. L’assessore non ci sta: “Si è ritenuto, senza venir meno alla prosecuzione del percorso già attivato con l’amministrazione penitenziaria e il terzo Settore di non procedere alla presentazione di proposte progettuali a valere sul bilancio della Cassa delle Ammende per il reperimento di alloggi gratuiti per i detenuti per l’uscita anticipata dal carcere, valutando che tali risorse avrebbero potuto ben più efficacemente essere erogate per migliorare gli standard sanitari e di sicurezza all’interno degli istituti penitenziari”. Brescia. Carceri e Covid, mancano spazi di Pietro Gorlani Corriere della Sera, 10 giugno 2020 I decreti governativi hanno alleggerito del 12 per cento il numero dei reclusi ma è urgente una nuova struttura Con il Covid ed i distanziamenti servono più stanze ma l’ampliamento è in forte ritardo. Nell’era Covid e del distanziamento personale nelle carceri bresciane “mancano spazi per la didattica a distanza”, dice il garante dei detenuti. Mai come ora servirebbe l’ampliamento di Verziano, atteso da troppi anni. Il sovraffollamento, male endemico delle carceri italiane, resta anche a Brescia - 262 detenuti a Canton Mombello contro un massimo di 186 e 85 a Verziano a fronte di una capienza regolamentare di 71 posti - ma grazie alle pene alternative decise nell’era Covid l’emergenza non è così pressante come negli altri anni (basti pensare che nella casa circondariale in centro città spesso si superavano i 400 ospiti). Le due carceri bresciane però sono state gestite molto bene, visto che si è registrato un solo contagiato tra i detenuti (a Verziano) e quattro tra i dipendenti. Certo va registrata la drammatica scomparsa del medico Salvatore Ingiulla. Questa l’estrema sintesi della situazione attuale fatta ieri dal garante dei detenuti, Luisa Ravagnani, alla commissione comunale servizi alla persona e sanità, alla quale ha letto la sua ultima relazione. Non ha toccato il tema del nuovo carcere di Verziano, che la città attende da anni. Non è di sua competenza anche se - ammette - è spesso incalzata da detenuti e agenti che chiedono quando partiranno i lavori. Già, perché nell’era Covid e la necessità di avere un maggior distanziamento interpersonale gli spazi diventano più angusti. “Non ci sono spazi sufficienti per la didattica a distanza”, spiega il garante. Servirebbe come il pane l’ampliamento da 16 milioni della struttura di Verziano: la gara del progetto è partita ancora due anni fa. Progetto che nasce monco, visto che per realizzare nuove strutture sportive, spazi per le attività lavorative dei carcerati (molto importanti perché ora, anche a causa dell’assenza di spazi, sono pochissime) e casermaggio degli agenti servirebbero altri 15 milioni. Per realizzare questo secondo lotto servono però i 70 mila metri quadri appartenenti ad una azienda agricola di Verziano; la Loggia voleva entrarne in possesso cedendo in cambio palazzo Salvi Bonoris. Tre anni di trattative, poi saltate per volontà dell’amministrazione comunale che - forte della vittoria in Cassazione sulla correttezza dei tagli al Pgt - ha ritenuto di non dover più compensare in alcun modo il taglio ai diritti edificatori ottenuti da quegli agricoltori dalla Giunta Paroli: 25mila mq di aree lottizzabili in cambio appunto dei terreni per il carcere. La giunta Del Bono proponeva la permuta con il palazzo in centro. Ora non più. Spetta al ministero decidere se comprare quei 70mila mq di terreni od espropriarli. Una complicazione che non facilita lo snellimento dell’iter pachidermico. Del nuovo carcere probabilmente si potrebbe fare a meno se si spingesse più su misure alternative per chi ha buona condotta o pene residuali limitate (la metà dei detenuti sta scontando condanne inferiori ai 3 anni) e se ci fossero alloggi sociali dove far vivere i detenuti in libertà vigilata. “Sul tema alloggi dobbiamo vedere se ci sono situazioni di housing disponibili sapendo che è un bene molto scarso” replica l’assessore ai servizi sociali Marco Fenaroli. Intanto anche le carceri bresciane, a causa del Covid, hanno perso circa il 12% della loro popolazione. “In Italia a fine dicembre contenevano 60 mila detenuti, oggi siamo a 52.520 - ricorda Ravagnani - una diminuzione importante non sufficiente: per essere a norma si dovrebbero avere 47mila detenuti”. Dei numeri di Brescia si è già detto ma sono doverose due precisazioni in più: il 43% dei detenuti a Canton Mombello (112 su 262) sono stranieri (il 28% a Verziano). Una percentuale così alta anche perché, viste le loro problematiche di inserimento sociale, “molto spesso non riescono ad usufruire di misure alternative” ricorda il garante. Ma se con l’avvio del lockdown in altri istituti penitenziari italiani sono scoppiate rivolte violente a Brescia non si è vissuto alcuno scontro, grazie alla strategia preventiva basata sul dialogo ed il rispetto reciproco tra agenti di polizia penitenziaria e detenuti. Non sarà un caso se su 334 colloqui fatti nel 2019 con i detenuti il garante non ha mai registrato denunce di violenze. Unico punto contestato della relazione - da parte di Davide Giori (Lega) e Paola Vilardi (Fi) - è quello riguardante il giudizio di “irresponsabilità” riguardo alle parole del centrodestra sul decreto svuota carceri. “Ho riportato le parole del garante nazionale Palma ma non era mia intenzione fare una critica politica. Le stralcerò”. Ferrara. I penalisti contro il presidente del Tribunale: “Ci tratta da uscieri” Il Dubbio, 10 giugno 2020 “Avvocati di presidio”, recita la direttiva, che secondo la Camera penale ferrarese svilisce la professione: “Si affida all’avvocato - recita una nota - un compito che dovrebbe, invece, svolgere un cancelliere”. Avvocati “uscieri”. Si potrebbe definire così il ruolo attribuito dal presidente del Tribunale di Ferrara agli avvocati, chiamati ad avvisare, volta per volta, le persone interessate al processo e farle entrare in aula. “Avvocati di presidio”, recita la direttiva, che secondo la Camera penale ferrarese svilisce la professione: “Si affida all’avvocato - recita una nota - un compito che dovrebbe, invece, svolgere un cancelliere”. Il tutto mentre il personale di cancelleria si trova ancora in buona parte impegnato in attività di smart working che, come evidenziato da più parti, non consente comunque di poter espletare il lavoro al meglio, dal momento che da remoto il personale non ha accesso ai fascicoli, per questioni di sicurezza. La soluzione trovata dal Tribunale per consentire di fare i processi, in assenza di personale, è dunque questa: mettere gli avvocati “alla porta” e far loro dirigere il traffico delle udienze. Un’attività “pure comprensibile nelle intenzioni”, affermano gli avvocati, ma comunque inaccettabile. “Il vero problema - afferma ancora l’avvocatura ferrarese - sta proprio nell’aver previsto il lavoro da casa senza conoscere effettivamente quale sia il reale dato di efficienza e produttività dello stesso. Senza, in sostanza, che vi sia un monitoraggio periodico. Ora, a queste condizioni - continua la nota -, si confida ancora una volta nel buon cuore dell’avvocato affinché le udienze in presenza possano riprendere. Ci si affida, è bene ricordarlo, a quella categoria che da tutti i provvedimenti governativi è tra le poche, se non l’unica, a essere rimasta priva di tutele. Non si comprende, inoltre, come la disponibilità in udienza sia prestata unilateralmente da parte dell’avvocato”. Da qui, dunque, la contrarietà della Camera penale “a una prospettiva così come indicata nelle linee guida e si rende, comunque, sin da subito disponibile a un confronto al fine di trovare una soluzione che non svilisca il ruolo dell’avvocatura”. Biella. Casa protetta per detenuti, la preoccupazione dei residenti laprovinciadibiella.it, 10 giugno 2020 “Speriamo non diventi una “succursale” del carcere”. Coinvolti in questo esperimento sociale senza essere stati consultati. “Ci fidiamo della capacità di valutazione della magistratura, ma non vogliamo rischiare di ritrovarci a confinare con una succursale del carcere”. La notizia della scarcerazione di una decina di detenuti, nell’ambito di quanto previsto dal decreto “Cura Italia”, ha destato preoccupazione tra le persone che vivono vicino a una delle case protette della Caritas destinate a ospitare chi ha ottenuto i domiciliari ma non ha una fissa dimora. “Una di queste strutture - spiegano in una lettera alcuni residenti - è situata nel nostro rione e di protetto ha ben poco, perché incuneata fra altre case in un rione popolato prevalentemente da anziani e con molte vie d’uscita”. “Non mettiamo certo in discussione le disposizioni governative, anche se l’epidemia di Covid-19 sta regredendo e anche se il carcere si sta rivelando uno dei posti più sicuri come riportato anche nel vostro articolo - si legge ancora - e vogliamo fidarci della capacità di valutazione della magistratura. Però essendo contigui con questa struttura e apprendendo dal vostro articolo che il progetto può continuare non vorremmo poi confinare con una “succursale del carcere”. Attualmente sono una decina, non di più, le persone interessate da questo progetto voluto dal Governo Conte e sancito dal decreto “Cura Italia”, nel caso specifico, pensato per rendere meno complessa la situazione nelle carceri italiane durante l’emergenza sanitaria. Tra i detenuti biellesi coinvolti dal provvedimento, inoltre, nessuno ha condanne gravi né tanto meno legate a reati di mafia, come avvenuto altrove con non poche polemiche politiche. In questo caso si tratta di persone condannate per reati contro il patrimonio e pure di lieve entità. Per quelle senza una casa, verranno messe a disposizione alcune strutture protette della Caritas, una delle quali, appunto, si trova accanto alle abitazioni delle persone che hanno scritto la lettera. I vicini avrebbero voluto perlomeno essere messi a conoscenza della situazione con il giusto anticipo: “Riteniamo che non sia stato corretto - è infatti la conclusione - coinvolgerci in questo esperimento sociale senza essere stati consultati per tempo”. Latina. Anastasia visita il carcere: tutti i detenuti sottoposti a tampone Covid e negativi latinacorriere.it, 10 giugno 2020 Il Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà, Stefano Anastasia, con la dirigente Rosina Sartori, ieri ha visitato il carcere di Latina e incontrato la direttrice Nadia Fontana, il responsabile sanitario del carcere, Ciurleo, il personale e ha potuto interloquire con alcuni detenuti sulle loro condizioni di detenzione. Per i colloqui con i familiari, che dal 19 maggio sono nuovamente consentiti, sono state attrezzate due sale per un totale di 6 postazioni, scarsamente richieste per le limitazioni imposte alle loro modalità di svolgimento, continuano però i colloqui sostitutivi tramite smart phone e skipe. Per quanto riguarda le criticità è stato messo in luce come nella sezione maschile vi è un alto tasso d’affollamento determinato dal frequente ricorso alla custodia cautelare da parte degli uffici giudiziari territoriali anche in periodo d’emergenza Covid. Nel reparto femminile invece, pesano le restrizioni dovute al regime di alta sicurezza e la chiusura delle stanze detentive al di fuori delle ore garantite per l’aria e la socialità. Attualmente nel carcere vi sono 117 uomini e 30 donne, per un totale di 147 persone su 77 posti regolamentari, con un sovraffollamento tra i più alti in Italia del 190%. In questo periodo tutti i detenuti sono stati sottoposti a tampone e sono risultati negativi. I nuovi ingressi sono collocati nella sezione nuovi giunti sottoposti anche loro a tampone. Roma. Edward lascia la prigione, ma senza la sua mamma di Stefano Anastasia Il Riformista, 10 giugno 2020 Rebibbia, sarà scarcerato l’ultimo bambino. Finisce così la storia dell’isolamento del bimbo di 2 anni nel nido dell’istituto romano. Andrà in una casa famiglia. La madre Naza resterà in cella. Si è presa cura di lui con amore, ma per il tribunale non è idonea. Contano solo le sue condanne, anche se non ha mai commesso reati violenti. Anche Edward alla fine ce la farà: uscirà dalla Sezione nido del carcere femminile di Rebibbia, lasciandola vuota e inutilizzata, speriamo per un tempo non brevissimo. Purtroppo, però, Edward non uscirà con la mamma, che invece resterà lì. Edward andrà, da solo, in una casa famiglia. Il Tribunale per i minori ha deciso così, valutando la madre (e il padre) inidonei alla potestà genitoriale, probabilmente per quella lunga lista di precedenti e condanne che Naza si porta dietro e che le ha impedito di accedere alla detenzione domiciliare. E nulla conta che nessuna di esse sia per reati contro la persona, né - tantomeno - reati violenti. E nulla conta che Naza curasse amorevolmente Edward in carcere, come i suoi dodici fratelli e sorelle lasciati già prima fuori da lì. Conta solo una lunga storia di devianza e di sopravvivenza, al di fuori delle regole e del diritto penale. Così andrà a finire la storia dell’isolamento di Edward, 2 anni, nel carcere di Rebibbia femminile. Ciò detto, mano a mano, uno a uno, i bambini fino a ieri ospitati nella sezione Nido del carcere femminile di Rebibbia sono usciti. E si tratta di un evento straordinario. Da che io ricordi (e ho l’età, più che la memoria, per ricordare tempi abbastanza lontani) non era mai accaduto negli ultimi trent’anni. C’è voluta la minaccia del Covid-19 perché fossero adottati tutti gli strumenti già presenti nell’ordinamento per consentire a (quasi) tutte le mamme di Rebibbia di avere alternative alla detenzione in carcere. Il 31 gennaio a Rebibbia c’erano 15 donne con 15 bambini, a fine febbraio 13, a marzo 10, ad aprile 4, il 31 maggio solo 2: Edward e un suo coetaneo, destinato a seguire la madre in un programma di protezione per collaboratori di giustizia. Naturalmente, va dato merito a molte e molti di questo straordinario risultato, a partire dalla direzione e dagli operatori dell’Istituto penitenziario, fino ai magistrati competenti, di sorveglianza e non. Ma un riconoscimento speciale va all’associazione A Roma insieme e al consorzio che anima la Casa di Leda, la prima casa-famiglia protetta per detenute madri e figli minori voluta - prima ancora che dalle istituzioni competenti - da Leda Colombini, che di A Roma insieme è stata fondatrice e animatrice, al termine di una vita dedicata con passione alle libertà e alla giustizia sociale. In una situazione di emergenza, dunque, c’è stata una risposta all’altezza delle necessità, e di questo bisogna rendere merito a tutti gli attori coinvolti. Ciò detto, la necessità è che nessun bambino sia più costretto in carcere, e non solo in questo difficile momento di emergenza. I bambini nella primissima infanzia non possono essere privati della relazione materna così come della possibilità di crescere in un ambiente libero e possibilmente ricco di stimoli. Dunque, il problema è come consolidare questo risultato momentaneo, estenderlo al territorio nazionale e farlo corrispondere alle durevoli necessità dei bambini e delle bambine. Qualcosa, certo, si potrà ancora fare, sul piano normativo, dopo i ripetuti interventi delle leggi del 1998, del 2001 e del 2011, in particolare in casi come quelli che hanno impedito a Naza di uscire dal carcere con il figlio: siamo proprio sicuri che qualsiasi pericolo di recidiva possa bastare a interrompere la relazione tra madre e figlio, ovvero a costringere il bambino a fare ingresso in carcere? Ma molto va fatto anche sul piano amministrativo. A nove anni dalla loro previsione, sono solo due le case-famiglia protette sul territorio nazionale quella di Roma e una a Milano. La legge del 2011 ne affidava l’individuazione agli enti locali, sulla base delle caratteristiche definite dal Ministero della Giustizia. Purtroppo, però, nulla diceva dei mezzi per realizzarle. A Roma si è provveduto con la destinazione, da parte della Giunta Marino, di un immobile confiscato alla criminalità organizzata a un consorzio destinato a gestirla grazie al contributo della Fondazione Poste, prima, della Regione Lazio dallo scorso anno. Casa di Leda, che può ospitare sei donne con i propri figli, costa circa 150mila euro fanno. Negli ultimi trent’anni. mediamente in carcere ci sono state tra le 40 e le 60 madri con figli. Dunque, per far fronte alle necessità di accoglienza delle madri detenute, basterebbero dieci case e un milione e cinquecentomila euro l’anno da destinare a un fondo speciale a beneficio degli Enti territoriali che si assumessero la responsabilità di realizzarle. Oltre a storiche associazioni come A Roma Insieme e Bambinisenzasbarre, anche Cittadinanzattiva sta lavorando in questo senso, e sia la Regione Piemonte che l’Emilia-Romagna sono pronte a fare la loro parte. Si può fare, si faccia! Resterà, poi, la parte più difficile, che è quella della cultura, dell’effettivo riconoscimento della prevalenza dell’interesse del minore di fronte alla pretesa punitiva o cautelare dello Stato. In questi primi quattro anni di attività, Casa di Leda si è riempita solo con il Covid-19 e all’epoca della tragica morte a Rebibbia di due bambini a opera della loro madre in uno stato di alterazione mentale. Solo due drammatiche emergenze hanno reso evidente l’intollerabilità della detenzione in carcere degli infanti. Questo, ahinoi, è un problema di testa: il “mai più” deve essere tale che sbarri la strada a ogni prudente giustificazione, che finirà per motivarne altre e poi altre e poi altre, nella spirale senza fine che ha reso vani ben tre interventi legislativi e innumerevoli impegni politici. Questa è la parte più difficile, ma questa spetta a ciascuno e ciascuna di noi, giorno dopo giorno, senza soluzione di continuità. Sassari. La libertà di studiare in carcere di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna, 10 giugno 2020 Il Pup sassarese all’avanguardia in Italia: il 3 giugno a Tempio-Nuchis la prima laurea a distanza. L’università come strumento di inclusione e di promozione sociale. E forse il carcere è l’ambiente dove il fenomeno emerge in tutta la sua evidenza, perché i risultati non sono mai casuali e ogni percorso richiede sacrifici che si sommano a quelli che una persona in regime di detenzione deve già fare nella vita di tutti i giorni. Il lockdown che ha tenuto chiusi in casa gli studenti, lontani dalle facoltà, negli istituti penitenziaria ha cambiato poco dal punto di vista della logistica. Ma ha registrato un dato importante: l’attività non si è mai interrotta (e poteva succedere, perché l’efficacia del collegamento non è mai scontata) e anzi il 3 giugno è stata celebrata la prima laurea a distanza del Polo universitario penitenziario dell’Università di Sassari. La commissione nella sede sassarese dell’ateneo e il candidato nel carcere di Tempio-Nuchis e la connessione telematica ha consentito lo svolgimento di una sessione di laurea in Scienze della Politica e dell’Amministrazione. Il candidato ha discusso una tesi sulla nascita ed evoluzione del movimento femminista. “Questa laurea è un traguardo non solo per lo studente - afferma il delegato rettorale per il Polo Universitario Penitenziario Emmanuele Farris - ma per tutte le persone dell’Università di Sassari e dell’amministrazione penitenziaria che hanno reso possibile tutto ciò. Gli istituti penitenziari che afferiscono al nostro Pup (Alghero, Nuoro, Sassari e Tempio) sono stati tra i primi in Italia a reagire positivamente in seguito alle restrizioni derivanti dalla pandemia. La Casa di reclusione di Tempio Pausania è stato l’unico istituto penitenziario italiano ad avere tutti gli indicatori sulla didattica universitaria a posto già ad aprile. Da maggio, i quattro istituti garantiscono collegamenti a distanza (iniziando dal carcere di Alghero che ha fatto da apripista nel contesto regionale), esami sia scritti sia orali, fornitura regolare dei materiali di studio e comunicazioni costanti tra docenti e studenti. Questo è merito di un lavoro continuo tra Università, Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e Direzioni penitenziarie”, continua Farris. La laurea discussa a Nuchis nei giorni scorsi, è stato il punto di partenza di un nuovo percorso del Pup dell’Università di Sassari, che mira a migliorare la qualità dei suoi servizi portando direttamente in carcere le risorse informatiche dell’ateneo, il sistema di gestione delle carriere studenti, le piattaforme e i materiali e-learning. Una distanza reale che si riduce grazie proprio all’istruzione, alla cultura e alla formazione. “L’aspetto umano rimarrà sempre centrale nel processo di apprendimento - dicono i docenti che hanno seguito lo studente fino alla laurea - per noi al centro c’è e ci sarà sempre la persona”. Parecchi i progetti in ballo. Con il finanziamento premiale ottenuto dal Ministero nel 2018, l’Università di Sassari, in collaborazione con il Dap e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, sta cofinanziando la realizzazione di un’aula didattica informatizzata in ciascun istituto penitenziario. Ci saranno altrettanti tutor grazie al finanziamento erogato al Pup dalla Fondazione di Sardegna. Un percorso ambizioso, solo in parte rallentato dalla pandemia, ma che negli intenti dell’Università e dell’amministrazione penitenziaria oggi appare più strategico e innovativo che mai. “Gli studenti detenuti del futuro - spiega il Rettore Massimo Carpinelli che ha fortemente sostenuto il progetto - studieranno in un contesto molto più tecnologico dell’attuale. L’esperienza pandemica ci ha insegnato che le tecnologie aiutano a resistere alle difficoltà, e noi speriamo che le conquiste della didattica a distanza e della dematerializzazione, che hanno reso possibile la discussione di questa tesi di laurea, diventino un punto fermo e irrinunciabile della didattica universitaria rivolta a categorie di studenti con esigenze speciali come sono i detenuti”. Frosinone. Donazione dei detenuti alla Protezione Civile tg24.info, 10 giugno 2020 Un gruppo di detenuti della casa circondariale “Pagliei” di Frosinone ha effettuato una donazione a favore della Protezione civile, “allo scopo di contribuire, per spirito di solidarietà, alle esigenze dei più bisognosi in questo periodo di emergenza sanitaria”, si legge nella nota a firma della direttrice dell’istituto, dr.ssa Anna Del Villano. “Con la presente - scrivono i donatori - vi informiamo che i detenuti della casa circondariale di Frosinone hanno partecipato in modo sensibile ad effettuare una piccola donazione, del tutto volontaria, affinché la somma da noi raccolta possa essere messa a disposizione per i più bisognosi o per ricerche, affinché il nostro piccolo e sentito aiuto possa contribuire ad andare ad affrontare quelle che sono le più disparate esigenze che in questo momento necessitano le strutture di assistenza sanitaria della provincia di Frosinone. Nella speranza che a breve tutto torni alla normalità”. La protezione civile del Comune di Frosinone, coordinata da Marco Spaziani con il supporto del responsabile dei volontari, Massimiliano Potenti, ha dunque inviato la nota, relativa alla donazione effettuata dai detenuti, alla segreteria del Capo Dipartimento, Angelo Borrelli che, appena qualche giorno dopo, ha voluto sottolineare “l’apprezzabile iniziativa dei detenuti della Casa Circondariale di voler destinare una donazione in denaro, a favore del Dipartimento della protezione civile, quale contributo per fronteggiare l’evoluzione dell’emergenza Covid-19. Il contributo devoluto sarà finalizzato all’acquisto di materiale sanitario medicale, per dotare le nostre strutture sanitarie di tutto ciò che è necessario per la salvaguardia delle vite umane”. Dall’inizio dell’emergenza sanitaria, la macchina comunale, coordinata dal sindaco, Nicola Ottaviani, ha attivato l’erogazione di servizi specifici e mirati, per attenuare i disagi connessi alla diffusione del Covid-19, mettendo in campo una serie di misure che potessero offrire supporto a tutti i cittadini. Allo scopo di rendere il più agevole possibile la fruizione dei nuovi servizi, sia a favore delle persone direttamente colpite dal contagio, sia dei nuclei familiari che hanno dovuto affrontare nuove problematiche di carattere socio-sanitario, sono state attivate anche linee telefoniche dedicate e unità di personale e di volontari sempre reperibili: dal 31 gennaio (data della prima attivazione del Centro Operativo Comunale) ad oggi, sono stati impiegati 416 volontari, tra le donne e gli uomini del gruppo Comunale di Protezione civile, con attività di presidio del territorio, informative, di supporto, assistenza e consegna medicinali e generi di prima necessità. Cosenza. Scoprire orizzonti dove si vedono solo confini di Francesca Romana de Angelis L’Osservatore Romano, 10 giugno 2020 Iniziativa solidale dei detenuti nella Casa circondariale Cosmai di Cosenza. Tante e belle sono le storie che arrivano dall’Italia solidale in questo momento così difficile per l’emergenza sanitaria. Alcune di queste storie arrivano dalle carceri e conoscerle fa bene al cuore di tutti.”Noi dentro, voi state a casa” recitava uno striscione di detenuti a Piazza Armerina. Parole che trasformano l’isolamento carcerario in un’esperienza che permette di comprendere meglio le sofferenze di un Paese costretto a difendersi, rinunciando ai ritmi consueti della vita per restare protetto al chiuso. “Insieme ce la faremo”, questo il messaggio dei detenuti del carcere di Ragusa. Un invito alla fiducia e alla speranza da parte di chi, conoscendo bene le angustie della separatezza, in qualche modo torna a sentirsi parte, e parte attiva, della società civile. “Chi è stato in esilio porta sempre dentro di sé l’esilio” scriveva il grande poeta spagnolo Pedro Salinas e non c’è esilio più doloroso del carcere. In un momento in cui la sospensione dei colloqui visivi con i familiari aggiunge un’ulteriore restrizione, ecco che i detenuti scelgono di venire in aiuto di quanti sono in difficoltà. In tanti istituti penitenziari italiani si sono attivate forme di solidarietà in un modo spontaneo e con un’altissima partecipazione, raccolte di fondi dove qualsiasi cifra, anche piccolissima, vale un tesoro. Nella Casa circondariale Sergio Cosmai di Cosenza i detenuti hanno fatto qualcosa di più, grazie a una rete solidale che ha visto protagonisti istituzioni e volontari. Tutto nasce dall’amministrazione comunale di Rende che, per fronteggiare la povertà alimentare legata alla pandemia, decide di offrire pasti caldi alle persone e alle famiglie più bisognose e ai senzatetto. Con il passare dei giorni l’iniziativa cresce e diventa uno straordinario progetto che porta il nome di CuciniAmo e che Marcello Manna, sindaco di Rende, riassume in queste belle parole: “Vedere orizzonti dove vengono segnati confini”. Da questo momento a cucinare saranno anche i detenuti del carcere di Cosenza. Questo grazie alla sensibilità dell’assessore alle politiche sociali Annamaria Artese, della direttrice del carcere Maria Luisa Mendicino, della dirigente scolastica Concetta Nicoletti e dei docenti Andrea Caroprese e Pietro Paolo Marigliano dell’Istituto Cosentino - Todaro, dell’associazione La Terra di Piero con lo chef Francesco Chiariello e tutta la squadra di volontari. A partire da maggio i detenuti, che all’interno del carcere frequentano le cinque classi della sede distaccata dell’Istituto alberghiero rendese, iniziano a preparare i pasti per i più bisognosi. Non è stato semplice dar vita a questo progetto, reso possibile dalla determinazione di chi ha creduto nel senso profondo dell’iniziativa: un’amministrazione virtuosa, i rappresentanti delle istituzioni che vivono quotidianamente il loro impegno con la pienezza di una vocazione, i volontari con la loro anima generosa e inclusiva. E gli studenti detenuti, che hanno risposto a questa opportunità con entusiasmo. Lo stesso entusiasmo con cui vivono il rapporto con la scuola, sentita come un’occasione per dare senso al tempo e come un’idea di libertà e di futuro. In questa fase di didattica a distanza i docenti, non potendo recarsi personalmente nell’istituto penitenziario né fare lezioni on line, hanno preparato per gli allievi dispense cartacee con le ricette e i procedimenti da seguire. Il comune fornisce le materie prime e ogni mattina alle 8, dal lunedì al sabato, si aprono i laboratori di cucina e i detenuti si mettono ai fornelli, due per volta accompagnati da uno studente più grande che svolge la funzione di tutor. Tutto deve essere pronto per le 12 quando arrivano i volontari che provvedono a ritirare i pasti per poi distribuirli. In questo generoso impegno dei detenuti non c’è solo slancio del cuore, c’è tanto di più. È un gesto il loro che ribalta il consueto meccanismo della solidarietà: da chi ha a chi non ha. In questo caso sono due sofferenze a incontrarsi: di chi, avendo sbagliato, si trova a scontare una pena nel chiuso di una cella e di chi non riesce più a vivere e in qualche caso neanche a sopravvivere non potendo sfamare sé stesso e la sua famiglia. È un gesto il loro che va oltre il privarsi di qualcosa per donarlo a un altro. In quelle vaschette monoporzione dai profumi invitanti - gnocchi alla sorrentina, lasagne, cannelloni, arrosto di tacchino, cotolette e così via - ci sono lavoro, fatica, fantasia ma soprattutto c’è l’emozione di essere d’aiuto agli altri. “Nessun uomo è inutile se allevia il peso di qualcun altro” diceva Gandhi. Preparare pasti caldi è accudire, è portare conforto, è abbracciare le sofferenze altrui dimenticando le proprie, è riprogettarsi in una dimensione di reciprocità - il pensare a qualcuno e l’essere pensato da qualcuno - è riscoprire la meravigliosa sensazione di essere utili, una sensazione che quando non c’è manca tanto. Lo sanno bene gli anziani che, pur liberi nel mondo, quando la avvertono sprofondano in abissi di malinconia. C’è un detto: tutti sono necessari, nessuno è indispensabile. Per una volta la saggezza popolare sbaglia. Ci sono persone indispensabili, come i due docenti, Caroprese e Marigliano, che hanno messo a disposizione professionalità e partecipazione per, sono parole loro, “stringersi a un paese che soffre senza limiti né sbarre perché la solidarietà va oltre. E la cucina, che è convivialità e condivisione, rappresenta un ottimo portale di connessione tra dentro e fuori”. Ci sono persone indispensabili come i rappresentanti delle istituzioni e i volontari che con questa iniziativa hanno scritto la pagina bellissima di una storia a più voci. Quanto ai detenuti della Casa circondariale di Cosenza a loro deve andare il grazie di tutti. Grazie perché con questo gesto solidale rendono onore a chi un tempo fu direttore di questo carcere e oggi gli dà il nome. Era il 1985 quando Sergio Cosmai, al servizio dello Stato nella difesa della legalità e delle istituzioni democratiche, cadeva vittima del fuoco della ‘ndrangheta mentre con la sua Fiat 500 si recava a prendere alla scuola materna la sua bambina. Aveva appena 36 anni Sergio Cosmai e lasciava, oltre la figlia, una giovanissima vedova allora in attesa del secondogenito che sarebbe nato un mese dopo la sua morte. “Se allevierò il dolore di una vita / o guarirò una pena / o aiuterò un pettirosso caduto / a rientrare nel nido / non avrò vissuto invano” scriveva Emily Dickinson. Grazie ai detenuti per una scelta di umanità che è una lezione di vita capace di parlare a tutti, dentro e fuori nel mondo. Grazie per non aver perduto nella reclusione il senso della vicinanza e della condivisione. Il dolore spesso isola, esclude, indurisce e c’è bisogno di tanta forza e di tanta speranza per mantenere il cuore vivo e prossimo alle sofferenze degli altri. Grazie per un gesto che non solo va incontro a un bisogno, ma abbatte muri e spalanca finestre. Grazie per averci ricordato che quando tutto sembra perduto c’è sempre da qualche parte un filo d’acqua che scorre, una nuvola che asseconda il vento, una stella che colora d’argento il cielo, una parola che scalda il cuore a riportarci dentro la vita. Grazie, detenuti della Casa circondariale di Cosenza, di essere dalla parte del bene. La giustizia non è vendetta: la rivoluzione si fa col perdono di Mons. Vincenzo Paglia* Il Riformista, 10 giugno 2020 Risse, accuse, sospetti: il Paese sprofonda nel rancore. Il Covid ci ha ricordato che siamo tutti fallibili. Non basteranno accuse e sentenze, però, a riconciliare il Paese. La pena passiva e inumana ripaga l’odio con l’odio. Ma a sanare le ferite, a sottrarci alla barbarie, sarà la pietas. In queste settimane siamo stati capaci di altruismo e rispetto delle regole: tutelando noi stessi abbiamo tutelato anche gli altri. Una prova dura per tutti noi che ha smentito il più forte luogo comune che ci descrive come un popolo di egoisti e anarchici. Siamo stati capaci di compiere un passo avanti! Il problema è ora la capacità di imboccare strade nuove, sicuramente difficili e piene di conseguenze civili positive. Vorrei fermare l’attenzione su una dimensione che richiede una riflessione e soprattutto una decisione più audace. Può sembrare una domanda peregrina. In realtà è parte essenziale di un nuovo umanesimo da realizzare. Ed anche, di un cristianesimo davvero evangelico da vivere. Insomma, diventiamo capaci di perdonare? Guardando alle “risse” che punteggiano la vita politica, pane quotidiano per i media che sulle “risse” aumentano (o credono di aumentare) gli indici di ascolto; guardando alle “risse” a volte tra le nostre Regioni; oppure alle “risse” europee tra Paesi “virtuosi” e altri no, per finire ai litigi in famiglia e magari anche nella vita quotidiana in strada (tra auto, scooter, pedoni, ciclisti…). Ebbene possiamo immaginare una società avviata sulla strada del “perdono”, abbandonando quella tristissima consuetudine al conflitto permanente, alla vendetta illimitata? Non è un tema (solo) religioso; è un tema politico e sociale di ampia portata. Insomma, di vero umanesimo. E per questo diventa anche economico: si risparmierebbe molto in quantità di tempo personale, di tempi della giustizia, se ci fosse maggiore capacità di dialogo, ascolto, “perdono”. Perché l’altro comunque è una persona fallibile. E a ben guardare me stesso, sono fallibile anch’io allo stesso modo. Perdono e giustizia sono inestricabilmente collegati. Anzi rappresentano l’uno l’altra faccia della medaglia dell’altra. La giustizia è l’aspirazione di tutti noi, auspicando una società dove situazioni e persone vengano valutate in maniera equa ed imparziale. Questo è davvero un processo lungo: coinvolge le leggi - sempre migliorabili - e le istituzioni da queste scaturite - migliorabili sempre anche loro - e infine coinvolge le persone il cui compito è applicare e discernere. È un tema attualissimo nell’Italia di oggi: ha a che fare con le risorse da investire per snellire i tempi dei processi e per fornire risposte rapide ai problemi del cittadino, migliorando la “qualità” della sua vita. La giustizia in questo senso è un cantiere sempre aperto; non basta mai e tutti abbiamo il compito di fare qualcosa per includere tutti gli uomini e tutte le donne in un “grande disegno” di giustizia: uomini e donne di ogni età, ceto, condizione sociale, italiani o nati non in Italia. Per diventare cittadini a pieno titolo. La giustizia da sola non basta. Ci vuole un “di più” per contrassegnarci come paese davvero “civile”. È necessaria la capacità di “perdonare”. Dico subito - per evitare equivoci - che questo discorso è ben differente dal propugnare un universale “buonismo”. Le regole vanno rispettate e fatte rispettare ovunque e per tutti. Non ci debbono essere “moratorie” o “zone franche” esenti. Questo sarebbe davvero il Paese dell’anarchia e della discrezionalità. No! Penso piuttosto al perdono come stato d’animo di persone che conoscono prima di tutto i loro limiti e dunque accettano i limiti degli altri, attribuendo prima di tutto buone intenzioni, fino a prova contraria. Altro equivoco da scardinare: il perdono - sconfina nella cristiana caritas, cioè amore per l’altro, il primo comandamento di Gesù: amerai il prossimo tuo come te stesso - non è devozionismo o, peggio, segno di debolezza; è un atteggiamento politico. Di più: rivoluzionario. Chi conosce la caritas - diceva Dostoevskij - sa spingersi sino agli estremi territori della pietà e della compassione: è disposto a perdersi, pur di salvare una sola scintilla umana dalla rovina. Farsi prossimo agli uomini e donne mezzi morti del mondo contemporaneo significa scardinare quella egolatria che sta portando all’imbarbarimento della vita dei singoli e delle società. Il perdono ci fa cambiare l’ordine dei santi del calendario: togliamo san Narciso dal primo posto! Il perdono non significa cancellare le responsabilità dei colpevoli e neppure far finta che non sia successo nulla. Il perdono suppone la consapevolezza del male compiuto e lo sdegno per quanto è accaduto, accompagnato dalla decisione di sradicarlo in radice. L’esercizio del perdono, sia chiederlo sia concederlo, è un atto di maturità spirituale e sociale. Il perdono è un atto di grande spessore culturale: ognuno, perdonando, sa che il confine tra azione giusta e azione sbagliata è (anche) all’interno della coscienza, della consapevolezza; è radicato nelle universali debolezze, nelle paure, soprattutto la paura di scoprirci fragili e indifesi e deboli. Proprio all’indomani di una esperienza forte come il lockdown sappiamo tutti molto bene quanto siamo fragili. Lo abbiamo sperimentato con gli anziani morti nelle “case di riposo” dove non sono stati tutelati. Lo sanno le famiglie degli anziani, le famiglie dei 34mila morti di Coronavirus in Italia. Ognuno chiede giustizia e dovrà venire ascoltato. Dopo la giustizia, dopo le sentenze (speriamo rapide ed eque!) cosa accadrà? Ognuno dovrà fare i conti con i propri sentimenti, e pensare al futuro con speranza e fiducia. Il perdono non cancella le responsabilità del male compiuto. Non giustifica il male. Anzi pretende di sradicarlo ripristinando la giustizia. La giustizia riparativa, di cui si parla sempre di più in anni recenti, mira esattamente a introdurre anche nel diritto penale questa logica. Essa intende promuovere la rinuncia all’idea di una pena subita passivamente dal condannato con il solo fine di rendere manifesta la gravità dell’illecito. Attuando per di più uno spirito di vendetta. In tal modo si valorizza la capacità della sanzione di esprimere, riaffermandoli, valori antitetici a quelli contraddetti dal fatto criminoso e quindi ricomporre sul terreno dei rapporti intersoggettivi - e non appagando supposti bisogni di ritorsione - la frattura rappresentata dal fatto criminoso. È importante ricordare san Giovanni Paolo II: nel messaggio per la Giornata mondiale della pace del 2002 collegava l’educazione alla legalità alla convivenza pacifica nella società. Parlava in proposito di fragilità della giustizia umana. “Poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com’è ai limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e in certo senso completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati. Ciò vale tanto nelle tensioni che coinvolgono i singoli quanto in quelle di portata più generale e internazionale”. Come il Papa suggerisce, è strettissimo il legame tra giustizia e perdono. Per sanare in profondità le ferite che lacerano la convivenza tra gli uomini sono necessari ambedue: sia la giustizia sia il perdono. E allora chiediamoci: la nostra è una società capace di perdono? Chiediamoci ancora: sono capace di perdono? Non sarebbe più vivibile una società in grado di prendersi carico di tutte le persone e dei loro problemi, individuando risposte istituzionali da dare - attraverso il concreto e fattivo esercizio responsabile della giustizia - e capace di prendersi carico dei bisogni delle persone a partire dai più deboli e fragili? Il perdono non si impone; si propone. È sincero quando scaturisce da un’esigenza interiore e intima di ricomporre una frattura e non una vendetta. Allo stesso tempo deve esistere una educazione alla capacità di perdonare. Ed è un grandissimo spazio di azione per le professioni che impattano sulla società civile. È un compito per la Chiesa che deve instancabilmente proporre la coniugazione di misericordia e giustizia, senza dare spazio a coperture di persone o di interessi. È uno spazio grande per la vita politica che potrebbe davvero testimoniare una capacità alta di guardare all’interesse di tutto il Paese e dunque di tutti noi. Soprattutto è un compito per ognuno di noi: trovare - riflettendo - lo spazio per sentirci vicini, non rivali, non antagonisti, ma tutti esseri umani, arricchiti dalla diversità. *Presidente della Pontificia accademia per la Vita Migranti. Perché i decreti sicurezza sono un problema per il Pd (e il M5S traccheggia) di David Allegranti Il Foglio, 10 giugno 2020 Al governo non c’è più Matteo Salvini da quasi un anno, ma i decreti sicurezza - quelli contro cui il Pd si scagliava con forza quando era all’opposizione - sono sempre lì. “Giuste le manifestazioni in questi giorni anche in Italia contro il razzismo, che esprimono un malessere che noi dobbiamo rappresentare, giusto inginocchiarsi in aula, ma i decreti sicurezza? E lo ius soli?”, si chiede il deputato Matteo Orfini, che fin dal primo giorno del secondo governo Conte ha chiesto l’abolizione dei provvedimenti di punta dell’era salviniana, la cui esistenza non permette ad Amnesty International di vedere una “significativa discontinuità nelle politiche sui diritti umani in Italia, in particolare quelle relative a migranti, richiedenti asilo e rifugiati”, ha detto nei giorni scorsi Emanuele Russo, presidente di Amnesty Italia. “Il governo aveva detto che li modificherà non che li abolirà. Ma sono ormai mesi che attendiamo. Sono cose che andavano fatte all’inizio”, dice ancora Orfini al Foglio. Poi è arrivata l’emergenza sanitaria e tutto s’è bloccato. Come il percorso sullo ius soli. Tre proposte di legge - una di Orfini, le altre due di Laura Boldrini e Renata Polverini - sono bloccate in commissione affari costituzionali, adesso il presidente Giuseppe Brescia dovrebbe unificare i testi, ma c’è da ricalendarizzare la discussione. Il problema è che al M5s ius soli e decreti sicurezza interessano poco. D’altronde, sono provvedimenti votati quando erano al governo con la Lega. “Il motivo per cui non si riescono a cambiare è perché il presidente del Consiglio non vuole”, dice Orfini, ricordando però che anche il Pd durante la pandemia è riuscito a produrre “un triste decreto per la chiusura dei porti a firma Paola De Micheli, vice segretario del Pd”. I rimasugli salviniani nel governo Conte sono diventati un problema per la segreteria di Nicola Zingaretti, che adesso viene incalzata da tutte le componenti del Pd: “Esiste un nostro impegno preciso ad intervenire sui decreti Salvini”, dice al Foglio Andrea Romano, portavoce di Base riformista: “Un impegno che abbiamo assunto proprio perché avevamo visto giusto quando ci eravamo battuti contro le scelte scellerate di Salvini al Viminale: quei decreti hanno moltiplicato l’insicurezza degli italiani, spingendo molti migranti verso l’invisibilità, e hanno fatto un gran favore alla criminalità organizzata. È un impegno che rispetteremo”. Insomma questi decreti sicurezza si cambiano o no? “Yes we can. Ma queste cose vanno costruite seriamente, non solo annunciate o auspicate. Per raggiungere davvero gli obiettivi”, dice al Foglio il responsabile Giustizia del Pd Walter Verini. Certo, adesso bisogna passare ai fatti. Annunci sulla disarticolazione dei provvedimenti salviniani ne sono stati fatti molti e, come osserva Carmelo Palma, componente della direzione di Più Europa, “non è stata sbagliata la scelta dei deputati del Pd che si sono inginocchiati in aula, aderendo a una forma di protesta nonviolenta che ha coinvolto anche parlamentari statunitensi e che pone il problema di un sempre più evidente ‘rigurgito’ razzista nel cuore delle democrazie occidentali, e non solo di quella americana”. Ad essere sbagliato, semmai, osserva ancora Palma, “è che quegli stessi parlamentari accettino che il monumento più evidente e scandaloso al razzismo legale in Italia, cioè i decreti sicurezza, imposti ai tempi del Conte I dal ministro Salvini, continuino a rappresentare un valore non negoziabile anche per il governo Conte II, con tutto il corollario di decreti e provvedimenti di ostacolo all’attività di soccorso in mare da parte delle Ong”. La questione è inevitabilmente sentita, dopo le manifestazioni di questi giorni. “Ho scritto sui social che vanno aboliti i decreti Salvini e va approvato lo Ius soli (mi sta bene anche il più moderato Ius culturae). Ovviamente c’è chi replica che non è il momento. Ma allora non è mai il momento. Preferisco mi si dica guarda non ce ne fotte niente”, dice in un tweet l’europarlamentare Pierfrancesco Majorino. “Le piazze italiane del Black Lives Matter chiedono una risposta al razzismo anche da noi”, aggiunge la deputata del Pd Giuditta Pini. “Come Pd dobbiamo abolire la Bossi-Fini, i decreti sicurezza e avviare l’iter per l’approvazione dello Ius culturae. Non bastano i segnali, serve la politica”. In effetti, con gli spiragli, le aperture, i segnali incrociati e gli ammiccamenti la maggioranza di governo ha già dato parecchio. Ora resta da capire se il Pd sia oppure no ostaggio del M5s, sovente scambiato da Zingaretti per progressista. Dalle torture alle capre: la storia del migrante che ora rischia un rimpatrio-beffa dire.it, 10 giugno 2020 Kwabena è un giovane ghanese di 28 anni che lavora per l’Università di Bologna: ora che è perfettamente integrato per i giudici deve andarsene. Arrivato a Bologna dopo la fuga, le carceri libiche, la traversata via mare e lo sbarco a Lampedusa, Kwabena gestisce il caprile dell’Università di Bologna. Gode della protezione umanitaria, ma la Corte d’appello ha ribaltato la sentenza. Ora si aspetta la Cassazione. “Kwabena è uno di noi. Lui è spettacolare, ce lo teniamo stretto”. A parlare è Arcangelo Gentile, ordinario della facoltà di veterinaria dell’Università di Bologna e presidente di Vet for Africa, circolo affiliato alle Acli di Bologna con sede a Ozzano, progetto nato a partire dall’esperienza di solidarietà che dal 2003 alcuni studenti di medicina veterinaria dell’Ateneo bolognese stanno portando avanti ad Hanga, un piccolo villaggio del sud della Tanzania. La nuova vita di Kwabena - Kwabena, invece, è un ragazzo di origine ghanese di 28 anni, fuggito dal suo paese e arrivato in Italia nel 2016, dopo quattro anni nelle carceri libiche tra torture e violenze. Poi il viaggio in mare, lo sbarco a Lampedusa e il trasferimento nel capoluogo emiliano. Kwabena ed Ebrima - un coetaneo originario del Gambia - furono scelti per un tirocinio formativo proprio al Dipartimento di veterinaria: il loro compito era occuparsi del caprile, imparare un mestiere e trovare un impiego. Ebrima, oggi, un lavoro ce l’ha, assunto a tempo pieno da un allevatore con più di cento capre. Kwabena, invece, è rimasto: un contratto da operaio agricolo a tempo parziale e 30, 35 capre (ma il mese scorso sono state molte di più, considerati i 16 parti gemellari) che lui accudisce con passione e professionalità. “Con gli orari si autogestisce: munge la mattina e il pomeriggio, si organizza lui il lavoro come meglio crede. È stato lui a seguire anche i parti: è assolutamente autonomo, ci contatta solo in caso di capre ammalate o parti difficili”. Kwabena vive in una casa poco distante dal caprile messa a disposizione da un convento delle vicinanze: “Si prende cura anche dei fiori delle suore, dicono che non hanno mai avuto un giardino così bello e rigoglioso - sorride Gentile, che aggiunge - lui è sempre disponibile, non si tira indietro di fronte a nulla. Chiunque si rivolga a lui per un aiuto, non resterà deluso: è fortemente versatile, ha tanta buona volontà”. Alla stalla non è mai mancato un giorno, nemmeno nel periodo del lockdown, “fase che ha vissuto molto male. Era seriamente preoccupato, ma i suoi timori non gli hanno impedito di continuare a svolgere il suo lavoro. Bicicletta, mascherina, guanti e cappellino: non si separa mai dai dispositivi di protezione individuale”. La protezione internazionale prima riconosciuta e poi annullata - Kwabena nel 2017 si è visto riconoscere, dal Tribunale di Bologna, il diritto alla protezione umanitaria, ma l’Avvocatura di Stato ha fatto ricorso, e la Corte d’appello ha annullato la prima sentenza (le motivazioni alla base della sua richiesta di protezione internazionale sono state giudicate non sufficienti per l’ottenimento della misura). Il giovane, insieme con il suo avvocato, presenterà ricorso in Cassazione: “Senza entrare nel merito di una decisione dello Stato, posso solo dire che Kwabena è un esempio di integrazione perfettamente riuscita. Lui e gli studenti si vivono tutti i giorni, i ragazzi gli vogliono molto bene. L’hanno scorso dovevamo andare a Lisbona per un convegno, sono stati loro a proporci di portarlo con noi e di farlo intervenire nelle vesti di relatore. È stato un successo: siamo andati a mangiare granchi e ad ascoltare il fado, non poteva credere ai suoi occhi e alle sue orecchie. Lui è sempre con noi, è parte integrante del gruppo”. La speranza, oggi, è quella che a Kwabena sia confermata la protezione internazionale: “Quando tutti i documenti saranno in regola, vorremmo tanto fargli un regalo. Vorremmo potesse tornare a casa a salutare sua madre: un viaggio in terra natia, per poi rientrare da noi con tanto entusiasmo e, magari, una ritrovata serenità. Lui sogna un futuro migliore, noi vogliamo aiutarlo”. Vendita di armi all’Egitto, la Commissione d’inchiesta su Giulio Regeni convoca Conte di Chiara Cruciati Il Manifesto, 10 giugno 2020 Lo annuncia il presidente Erasmo Palazzotto. La famiglia: “Offesi e indignati”. Reazioni anche da Pd e M5S, ma non c’è stato governo italiano che non abbia venduto armi ad al-Sisi. La notizia la rende nota il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, Erasmo Palazzotto (LeU): “Alla luce degli ultimi rilevanti sviluppi in ordine alle relazioni bilaterali italo-egiziane, l’Ufficio di Presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, ha deliberato all’unanimità di procedere ad audire urgentemente il presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte”. Gli ultimi sviluppi: lunedì l’Italia avrebbe dato il via libera - in una telefonata di Conte al presidente egiziano al-Sisi - alla vendita di due fregate Fremm di Fincantieri (Spartaco Schergat e Emilio Bianchi, 1,2 miliardi di euro) al regime egiziano. Una luce verde che ha provocato la reazione dei genitori di Giulio, Paola Deffendi e Claudio Regeni, che si sono detti “offesi e indignati”, “traditi”. E che segue anni di profittevole business per l’industria bellica italiana con l’Egitto della repressione: nel 2019 è stato registrato un boom di autorizzazioni alla vendita, 871 milioni di euro. Ora, con le fregate e il resto del pacchetto (caccia e velivoli da addestramento) che coinvolgerebbe anche Leonardo, quel boom è uno sbiadito ricordo: si parla di cifre che oscillano tra i 9 e gli 11 miliardi di euro. Conte, aggiunge Palazzotto, deve “urgentemente” riferire sugli sviluppi del caso Regeni. Inesistenti, visto lo stallo voluto e radicato dal regime egiziano. Reazioni arrivano dal Pd: Laura Boldrini cita l’arresto di Patrick Zaki e Lia Quartapelle definisce la vendita pericolosa visto il coinvolgimento egiziano nel caos libico. Gianluca Ferrara (M5S) parla di fatto grave e della necessità di risolvere il caso per poter normalizzare i rapporti. Che sono però già normalissimi. Senza dimenticare quello che il Cairo fa agli egiziani, sottoposti a una repressione brutale e tentacolare. A cui ogni governo italiano, dal 2013 a oggi, ha venduto armi. Razzismo e cannabis negli Stati Uniti. Arresti a gogo di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 10 giugno 2020 A vedere le tragiche immagini dell’agonia di George Floyd è impossibile che non tornino alla mente le ultime parole di Federico Aldrovandi. George Floyd era “ubriaco e non in sé”, Federico Aldrovandi un drogato morto per una dose: etichettati e stigmatizzati, perché la vittima copra le responsabilità di coloro che dovevano custodire quei corpi in nome dello Stato. Floyd aveva però un’aggravante, era nero. Perché essere nero, a guardare le statistiche, pare essere già indizio di colpevolezza per la polizia americana. Di quale reato preciso si vedrà dopo la perquisizione. Si chiama “profiling”, ed è quella pratica delle forze dell’ordine, volta a selezionare le persone da fermare a seconda dell’appartenenza etnica. Così i neri (ma anche ispanici, asiatici e nativi americani) hanno molte più probabilità di essere fermati, sottoposti a perquisizione e quindi arrestati. Succede anche in Italia, basta incrociare una qualsiasi perquisizione in una stazione. La prima causa di arresto negli Stati Uniti è la droga. Basta il possesso, negli Usa come in Italia, per poter procedere per via penale o amministrativa. L’Fbi stima che nel 2018 vi siano stati 1.657.282 arresti per droghe, il 16% del totale. La gran parte per cannabis, nonostante in 11 stati sia legale per tutti gli usi (per uso terapeutico in 32) e che a partire dagli anni 70 sia stata depenalizzata in altri 27. Eppure gli arresti per marijuana negli Stati Uniti, sono tornati recentemente a crescere, uno ogni 48 secondi. Per farsi un’idea di quello che davvero succede sulle strade americane è fondamentale andare a leggersi il rapporto A Tale of Two Countries: Racially Targeted Arrests in the Era of Marijuana Reform rilasciato dall’American Civil Liberties Union (Aclu). Viene offerta un’analisi in profondità, contea per contea, concentrata sugli arresti per cannabis. Gli arresti per marijuana costituiscono “il 43% di tutti gli arresti per droga, più di qualsiasi altra droga”. Nove su 10 casi sono per semplice possesso, e l’impatto personale può essere devastante. In molti Stati può cambiare la vita: “…i genitori possono perdere i loro figli; i beneficiari di prestazioni pubbliche, disabili o con basso reddito, possono perdere l’assistenza sanitaria; gli immigrati possono affrontare la deportazione; le famiglie possono essere sfrattate dalle case popolari; trovare un lavoro può essere difficile e assolutamente impossibile in alcuni casi”. Nonostante che la prevalenza d’uso della cannabis sia sostanzialmente uguale fra comunità nere e bianche, un nero ha 3,6 volte più possibilità di un bianco di essere arrestato per possesso di marijuana. Ovviamente la frequenza degli arresti diminuisce negli stati dove è legale (ma neanche in tutti), ma permangono le differenze etniche. Nel Minnesota la disparità etnica è maggiore della media: 5 volte e mezzo. Nella contea di Hennepin, dove è morto George Floyd, il rapporto è ancora più alto: rispetto a un bianco arrestato, 7 sono i neri finiti in manette. Infine secondo uno studio pubblicato da Pnas nel 2019, 1 uomo nero su 1000 si può aspettare di essere ucciso dalla Polizia, il doppio di probabilità di un bianco. Negli Stati uniti una pallottola sparata dalla polizia è la prima causa di morte per i giovani maschi neri. “A causa del razzismo nel nostro sistema di giustizia penale, le comunità di neri, ispanici e sud asiatici affrontano in modo sproporzionato queste ripercussioni dannose”, conclude il rapporto di Aclu. “La profilazione etnica da parte delle forze dell’ordine è direttamente responsabile di queste disparità. I reati minori - incluso il possesso di marijuana - vengono applicati in modo aggressivo nelle comunità di colore mentre questi stessi reati vengono applicati raramente nelle comunità più ricche, prevalentemente bianche”. Negli Usa il dibattito sulla riforma della polizia entra nelle presidenziali di Marina Catucci Il Manifesto, 10 giugno 2020 Il dibattito negli Stati uniti sui provvedimenti necessari per difendere la comunità afroamericana dagli abusi della polizia, sta vedendo il confronto tra due linee di pensiero politico e due schieramenti; chi vede come risolutoria una riforma della polizia, e chi pensa non sia sufficiente, e che alla polizia debbano essere concessi meno fondi economici in modo da depotenziata e demilitarizzarla. Quest’ultima non è una richiesta nuova, esiste da anni, ma è diventata più popolare dopo la morte di George Floyd. Alcune città come New York e Los Angeles l’hanno adottata in questi giorni, ma a livello nazionale la situazione è molto più complessa. Nonostante Trump affermi che Biden sia favorevole a togliere fondi alla polizia, in realtà l’ex presidente è un convinto sostenitore della linea delle riforme. Il suo partito ha annunciato una proposta di legge per introdurre alcune di queste riforme applicabili a livello federale, ma nonostante questa non sia la linea più radicale sembra difficile che la legge possa essere approvata al Senato, dove i Repubblicani hanno la maggioranza e nessun dubbio sul fatto che la polizia vada benissimo così com’è ora. La proposta dei democratici è sostenuta alla Camera da oltre 200 deputati ed è stata definito dalla stampa Usa “uno dei tentativi più completi per cambiare il modo in cui i poliziotti svolgono il loro lavoro”. Tra i sostenitori di questa riforma ci sono senatori e deputati del gruppo che riunisce la maggior parte dei parlamentari afroamericani, il Congressional Black Caucus, e tra i firmatari della legge ci sono gli ex candidati afroamericani alle primarie democratiche, la senatrice della California Kamala Harris e il senatore del New Jersey Cory Booker. I repubblicani del Senato hanno già avvertito di non voler votare per una legge federale che andrebbe quindi a depotenziare le amministrazioni locali a cui devono rispondere i corpi di polizia, ma anche in caso dovessero esserci i numeri è altamente improbabile che Trump apponga la sua firma alla legge. Le imprese Usa contro il razzismo: svolta o marketing? di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 10 giugno 2020 Dai colossi della rete a Nike, Amazon e CitiGroup: i grandi gruppi che sostengono le proteste sono criticate sui social: molti accusati di “solidarietà di facciata” o “ipocrita”. Il sostegno di molte grandi imprese Usa a Black Lives Matter è uno degli indicatori concreti di un cambio di passo dell’America sulla questione razziale o è solo solidarietà ipocrita se non, addirittura, una cinica strategia di marketing? Dopo gli iniziali apprezzamenti, le prese di posizione a favore della protesta di giganti come Amazon, Nike, Netflix, Google, i grandi magazzini Target e Nordstrom, Facebook, le banche CitiGroup e Goldman Sachs, sono finite nel mirino delle reti sociali: a volte questi gruppi sono stati criticati perché sono intervenuti solo a parole, senza fare nulla di concreto, senza mettere mano al portafoglio. In altri casi le imprese sono state accusate di volersi rifare una verginità: un colpo di spugna su un passato di tolleranza per la segregazione. Amazon dona 10 milioni agli organismi per la difesa dei diritti civili e il suo capo Jeff Bezos il suo sostegno a Black Lives Matter. Cosa che è costata al gigante di Seattle la perdita di molti clienti di destra. Poi, però, sono arrivate anche le critiche dei movimenti progressisti contro un gruppo accusato di trattare con durezza (e con poche protezioni anti Covid) i dipendenti dei suoi centri di smistamento, in buona parte afroamericani e di aver venduto sulla sua piattaforma anche prodotti razzisti. Amazon, poi, ha adottato una tecnologia di sorveglianza basata sul riconoscimento facciale che mette in pericolo la privacy dei cittadini: sistemi che la società ha messo a disposizione delle polizie, estendendo, così, il loro potere di controllo sui cittadini. CitiGroup e Google sono, invece, accusate di ipocrisia perché hanno finanziato più volte, e anche in questo scorcio del 2020, campagne elettorali di candidati ai quali le pagelle delle associazioni per i diritti civili avevano dato i voti più negativi. Quanto a Target, che ora sostiene le organizzazioni degli afroamericani, era da tempo invisa ai neri per i suoi accordi con la polizia di Minneapolis - quella della quale è stato chiesto lo scioglimento dopo l’uccisione di George Floyd - alla quale il gruppo (che ha sede nella città del Minnesota) aveva fornito i mezzi per creare un sistema di sorveglianza del centro della città con videocamere e anche un nuovo sistema basato su immagini ad alta risoluzione. Fa sollevare qualche sopracciglio anche l’impegno contro il razzismo vantato da Mark Zuckerberg, e non solo perché il fondatore di Facebook è alle prese con la rivolta dei suoi stessi dipendenti per non aver obiettato (a differenza di Twitter) alla pubblicazione di post nei quali il presidente Trump tratta i manifestanti da teppisti (thugs) e usa un linguaggio violento minacciando: se ci sono saccheggi, noi spariamo. Chi ha la memoria più lunga ricorda, ad esempio, che per anni Facebook ha consentito agli agenti immobiliari che pubblicizzavano appartamenti in vendita sulla sua piattaforma, di escludere gli utenti di colore dalla ricezione di questi messaggi. In un sistema economico dominato da un capitalismo spesso spietato, è facile trovare capi d’accusa contro le imprese: da Spotify che avrebbe penalizzato molti artisti di colore, pagando pochissimo per lo streaming della loro musica, alla Goldman Sachs, banca ora paladina dell’impegno contro il razzismo, ma accusata in passato di discriminare i dipendenti di colore. Rimane il fatto che, ipocriti o no, questi gruppi prendono posizione e, così facendo, si alienano la simpatia di una parte dei loro utenti. Ma qui gli esperti di marketing parlano di “decisioni calcolate”: si è già visto in passato che, quando c’è una disputa, un’impresa raccoglie risultati migliori se prende posizione sui valori, dandosi un’identità pubblica, anche a costo di scontentare molti, piuttosto che apparire passivi o, addirittura, complici. Vale per questioni di razza, orientamento sessuale, abusi sulle donne. Le aziende si tengono, invece, alla larga su questioni più politiche come aborto, impeachment, droga. E anche la pandemia. Schiavi-soldato dal mare alla guerra di Libia di Sarita Fratini Il Manifesto, 10 giugno 2020 Nel corso del 2020 sono scomparsi 1.715 rifugiati: catturati dalla Guardia costiera di Tripoli finanziata dall’Italia, vengono portati nel lager di Triq al Sikka dove diventano braccia per il conflitto per le milizie di al-Sarraj. L’Onu ha segnalato la recente scomparsa di più di 1.700 rifugiati nel sistema dei lager libici. Ha eseguito un rapido calcolo: nei primi cinque mesi del 2020, 3.150 persone in fuga dalla Libia sono state catturate in mare. Sono state tutte sbarcate nel porto di Tripoli. Ma solo 1.400 si trovano nei lager libici sotto il controllo del Governo di accordo nazionale (Gna). 1.715 rifugiati respinti in Libia dal mare e presi in custodia nel 2020 dalla cosiddetta Guardia costiera libica risultano spariti nel nulla. In questi mesi tutti i gruppi di attivisti che si occupano di Libia hanno ricevuto appelli e segnalazioni da parte dei parenti degli scomparsi. Molte più di quanto ne ricevono di solito. In diversi casi c’è stata un’ultima chiamata dal mare, con il telefono satellitare, che avvisava dell’imminente arrivo di una motovedetta della Guardia costiera. Poi più nulla. Fin qui niente di anomalo: la prima cosa che i libici fanno quando intercettano un gommone è requisire il telefono satellitare. Ma poi nessuno dei passeggeri ha mai più contattato i parenti a casa. Questo no, non è normale. I rifugiati deportati in Libia riescono sempre a far pervenire un messaggio a casa. Dove sono finite 1.715 persone scomparse? Nel mondo di oggi, iperconnesso, sembra impossibile perdere le tracce di qualcuno. E forse lo è. Ma può capitare che un rifugiato catturato e deportato in Libia riesca a tenere nascosto un telefono, riesca a scappare, riesca a riprendere il mare, arrivare in Europa, raccontare la sua storia e quella dei suoi compagni e riesca addirittura a connettersi con chi può dar voce a questa storia. L’odissea che leggete è la storia di un racket di schiavi-soldato di cui possiamo ricostruire con estrema precisione le tappe e addirittura geolocalizzarle su una mappa. Eccole. Mar Mediterraneo. Un gommone è poco più di un puntino, visto dal cielo. Ma l’aereo della missione Frontex lo individua. Di default Frontex, come faceva anche la missione Sophia, comunica le coordinate in contemporanea a tre MRCC: italiano, maltese e libico. Rispondono sempre e solo i libici, per la precisione la Guardia costiera addestrata e finanziata dal governo italiano. I loro modi sono spesso brutali (nel giugno 2019, secondo testimoni, la motovedetta Ubari regalata dall’Italia alla Libia affondò un gommone a colpi di fucile con i passeggeri ancora a bordo e poi li narcotizzò). Porto di Tripoli. Lo sbarco. Si viene ammassati su pullman o camionette. Spesso si perdono parenti e amici nel caos. Lager di Triq al Sikka. Famoso nel mondo per le torture indicibili che vi avvengono. Famoso in Italia perché finanziato nel 2017 e nel 2018 con fondi pubblici attraverso i bandi dell’Aics. “Bando offensivo e vergognoso”, forse l’ultimo profetico consiglio che Alessandro Leogrande diede proprio qui su il manifesto. È a Triq Al Sikka che nel 2020 spariscono le persone. Non tutte, solo alcune. Viene fatta una selezione fisica: i più alti, i più forti vengono scelti per la guerra e separati dagli altri È il centro di reclutamento degli schiavi-soldato, ceduti dalle guardie alle terribili milizie che combattono per al-Sarraj (Gna). Tra tutte quella che oggi impiega il maggior numero di schiavi-soldato, ci dicono, è la Rada Special Forces, l’efferata polizia islamista del ministero dell’Interno libico. Il sistema di reclutamento attuale è complesso ed è frutto di una sofisticata evoluzione. Già nel gennaio 2020 l’Unhcr temeva che i migranti venissero utilizzati come schiavi-soldato. Non era una paura infondata: circolavano già da tempo scioccanti testimonianze dal lager di Tajoura, altro campo finanziato nel 2018 da progetti italiani, su reclutamenti forzati avvenuti nei primi mesi del 2019. Il campo è un deposito di armi da guerra e i rifugiati catturati in mare vengono lì utilizzati anche come scudi umani. Tutti ricordano i bombardamenti, soprattutto l’ultimo, che lasciò al mondo l’immagine di cento cadaveri. Era il 2 luglio 2019 e i sopravvissuti, compresi i bambini, sono ancora in Libia. Il campo di Tajoura è ancora aperto ed è ancora un deposito di armi da guerra. Il sistema di Tajoura, come lo descrivono testimonianze del 2019, era semplice, rozzo: chi rifiutava di combattere veniva ucciso. Peter (nome di fantasia) ha rifiutato e ha ricevuto un colpo di pistola alla testa dalle guardie del campo, davanti a numerosi testimoni. Il disinteresse del mondo garantiva totale impunità agli assassini. Poi qualcuno ha iniziato a interessarsene e la Corte penale internazionale dell’Aia ha cominciato a indagare. Alla fine del 2019 i libici cambiano strategia: abbassano il profilo. Era necessario. Ma anche rendere sistemica la guerra forzata, perché c’era sempre più bisogno di soldati. Nel 2020, in Libia, gli schiavi-soldati sono persone che ufficialmente non esistono. Prima si fanno sparire, poi si fanno combattere. Carne da macello, spedita in prima linea, sfruttata finché si muove, seppellita e sostituita rapidamente quando muore. Nessun nome. Nessuna memoria. “Eravamo in quindici. Siamo tornati in sette. I cadaveri sono rimasti per strada. I nomi dei morti non li so, non li conoscevo”. Questo è il racconto di una giornata tipo di guerra forzata, fatto da Mark (nome di fantasia) un mese dopo essere scappato. Johan invece non parla più, da mesi, urla soltanto, dopo la fuga dalla milizia la sua mente si è come spenta. Il mare è il punto di cattura perfetto: i parenti degli scomparsi, non ricevendo più loro notizie, credono che siano affogati. Uomini invisibili, senza nome, dal mare vengono deportati a Triq al Sikka e da lì smistati alle milizie o in alcuni luoghi “serbatoio”, in attesa di essere utilizzati più avanti, quando servirà. Ne abbiamo una mappa precisissima, le coordinate (32.84675,13.1051699 e 32.8375379,13.0658247). I lager segreti della zona ovest di Tripoli, vicini tra loro e sconosciuti, pare, a Unhcr e Iom. Uno è in una ex fabbrica di tabacco, l’altro è un chilometro più a ovest. Sono luoghi di breve transito, all’interno dei quali sono state viste anche delle donne, di cui non conosciamo la sorte. Poi c’è il Tribunale di Tripoli. È quasi la tappa più incredibile: i rifugiati catturati in mare vengono “processati” per il reato di immigrazione clandestina (anche se dalla Libia stavano uscendo). In Libia si svolge un processo ufficiale, con un giudice, ma bisogna usare le virgolette: non vi è alcun avvocato difensore. Ce lo conferma anche il legale di uno dei processati, che non è mai stato convocato o informato. Altro luogo, il carcere di El Jadida. È qui, nel più grande istituto di pena di Tripoli, che i rifugiati scontano la loro pena, che è sempre di tre o sei mesi. Una volta transitati per questi luoghi serbatoio, i rifugiati vengono ricondotti in un hangar del lager di Triq al Sikka (dove nell’ultimo anno è stato vietato l’uso dei telefoni) e da lì prontamente ceduti alle milizie, probabilmente per sostituire schiavi-soldato deceduti. Dalle milizie di al-Sarraj, oggi, si esce solo cadavere. Quasi sempre. Paul (nome di fantasia) è uscito vivo, perché è riuscito a fuggire dalla guerra forzata e dall’inferno libico. Appena in salvo, ha raccontato la sua storia e quella dei tanti compagni che sono ancora nelle mani delle milizie. In questo mondo iperconnesso è riuscito a rintracciare i parenti e gli amici di tante persone scomparse in mare, informandoli che i loro cari sono ancora vivi. Paul è riuscito a rintracciare e a informare anche noi, nella lista delle persone care di uno dei 1.715 rifugiati scomparsi nel corso del 2020. Recentemente il ministro degli esteri italiano Luigi Di Maio ha dichiarato: “È necessario che il trasferimento di armi e mercenari verso la Libia cessi”. Si riferiva ai mercenari sudanesi che combattono a fianco delle forze di Haftar. Non una parola, invece, sugli schiavi-soldato utilizzati dal Governo di accordo nazionale e sul fatto, gravissimo, che è proprio il governo italiano, con gli accordi Italia-Libia e il sostegno economico alla cosiddetta Guardia costiera, a fornire schiavi-soldato all’esercito libico di al-Sarraj. In questi giorni a Tripoli si è smesso di combattere, ma gli schiavi-soldato non sono stati liberati. In Italia, lunedì scorso, la deputata di LeU Rossella Muroni ha presentato alla Camera un’interrogazione in cui chiede di far luce sulla sparizione dei migranti in mare e sul racket dei reclutamenti forzati. Ma soprattutto chiede la liberazione e la messa in sicurezza degli schiavi-soldato che sono a Triq al Sikka e presso le milizie, che vengano ascoltati come testimoni di reiterati e atroci crimini di guerra.