Sale ancora numero detenuti, quasi 61mila a fine 2019 Vita, 9 gennaio 2020 Secondo gli ultimi dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aggiornati al 31 dicembre 2019, nelle carceri italiane ci sono 60.769 detenuti contro una capienza regolamentare degli istituti di 50.688 posti. In calo gli stranieri: sono 19,9 mila. Oltre 2,6 mila le donne. l numero dei detenuti nelle carceri italiane è in continua crescita: al 31 dicembre 2019 nei penitenziari di tutto il paese risultano 60.769 detenuti, mentre al 31 dicembre del 2018 erano 59.655. Un dato che negli ultimi mesi del 2019 ha visto delle oscillazioni importanti, arrivando a superare anche quota 61 mila a fine novembre scorso. L’ultimo dato reso noto dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), inoltre, è il più alto tra quelli registrati al 31 dicembre negli ultimi sei anni. Dopo il picco degli oltre 67 mila detenuti registrato il 31 dicembre 2010, la presenza in carcere è diminuita fino a raggiungere gli oltre 53 mila nel 2014 e i poco più di 52 mila nel 2015. Dal 2016 in poi, però, il dato è tornato a crescere senza sosta fino ad oggi. Una crescita che ha riguardato anche la capienza regolamentare degli istituti dichiarata dal Dap: dai 43 mila posti del 2008 si è arrivati ai 50,6 mila posti disponibili, ovvero 10 mila in meno rispetto al numero dei detenuti presenti negli istituti di pena. In controtendenza rispetto al dato generale delle presenze in carcere è il dato che riguarda la popolazione detenuta straniera: al 31 dicembre 2019 i detenuti stranieri sono circa 19,9 mila, contro i 20,2 mila circa del 31 dicembre 2018. Un dato, quello di fine 2019, che segna un ritorno al 2017, ma risulta più alto di circa 2 mila unità rispetto agli anni 2014 e 2015. La percentuale di popolazione straniera in carcere invece passa dal 33,95 per cento di fine 2018 al 32,7 per cento di fine 2019. Rispetto al totale dei detenuti, le percentuali del 2019 confermano il trend degli ultimi 10 anni: la percentuale di stranieri in carcere rispetto al totale, infatti, è diminuita passando da oltre il 37 per cento alle percentuali odierne. In crescita la presenza di donne in carcere: al 31 dicembre 2019 sono 2.663, contro le 2.576 presenze del 31 dicembre 2018. Un dato in costante crescita dal 2015 ad oggi. Allarme terrorismo: innalzato il livello di allerta nelle carceri ansa.it, 9 gennaio 2020 L’iniziativa è stata presa in considerazione dell’attuale scenario internazionale. Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini, ha inviato ieri una nota ai direttori e ai comandanti degli istituti penitenziari per elevare il livello di allerta e di sensibilità nei confronti di un possibile innalzamento della minaccia terroristica. L’iniziativa è stata presa in considerazione dell’attuale scenario internazionale e della recente crisi dei rapporti fra Stati Uniti e Iran a seguito dell’uccisione del generale Soleimani. In particolare, Basentini ha chiesto di “intensificare l’attività di osservazione volta all’individuazione di eventuali segnali di criticità in ordine a tali fatti”. Massima attenzione dovrà essere riservata a “possibili esternazioni, da parte della popolazione detenuta, di sentimenti anti-occidentali o comunque anti-americani”, che saranno subito segnalate alle competenti articolazioni centrali e territoriali dell’Amministrazione. I reparti di Polizia Penitenziaria degli istituti innalzeranno inoltre il livello di vigilanza e la sicurezza interna ed esterna di ogni struttura, così come saranno potenziati anche i servizi di traduzione e piantonamento dei detenuti all’esterno delle carceri. La minaccia terroristica di matrice internazionale è ormai da tempo accostata alla considerazione che le carceri possano costituire un bacino di reclutamento importante, agevolato oltre che dal massiccio affollamento degli istituti penitenziari anche dalla mancanza di punti di riferimento esterni. A ciò si aggiungono, come riscontrato più volte dal monitoraggio che viene svolto quotidianamente dagli uomini del Nucleo Investigativo Centrale della Polizia Penitenziaria, le condizioni di disagio e vulnerabilità che possono incidere in maniera preponderante su “suggestioni” derivanti dalla propaganda jihadista. L’Italia ha alzato l’attenzione sugli obiettivi sensibili presenti sul nostro territorio collegati ai Paesi in questo momento più coinvolti nell’escalation della crisi in Medio Oriente. Il Dipartimento di Pubblica Sicurezza, dopo l’uccisione del generale Soleimani, ha diramato una circolare in cui si chiede agli apparati di sicurezza di alzare il livello del monitoraggio su tutto ciò che riguarda gli interessi di Stati Uniti e Iran, in primo luogo, e di Israele e Iraq. Nella circolare si fa riferimento sia all’uccisione del capo dei Pasdaran sia alle manifestazioni di protesta davanti all’ambasciata Usa a Baghdad che l’hanno preceduta, sia alle “recenti dichiarazioni dell’amministrazione statunitense sull’impegno in quell’area”. Per questo, si sottolinea nel documento, “si rende necessario sensibilizzare... le misure di vigilanza e sicurezza a protezione degli obiettivi diplomatico-consolari, religiosi, commerciali scolastici, turistici, culturali e ricreativi statunitensi, nonché di ogni altro ritenuto a rischio per la circostanza, compresi quelli riferibili ad Iraq e Iran”. A prefetti e questori il Dipartimento chiede inoltre di “implementare le attività di vigilanza a carattere generale, osservazione e controllo coordinato del territorio” - con l’obiettivo di “predisporre tempestivamente ogni misura finalizzata a prevenire il compimento di illegalità e garantire la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica” - e di “intensificare adeguatamente l’attività informativa”, in modo da disporre di un “costante e sempre attuale” flusso di informazioni. Infine, la circolare ricorda a tutti gli operatori impegnati sul territorio di attenersi alla direttiva sulle misure di autotutela. Prescrizione, oggi o mai più di Errico Novi Il Dubbio, 9 gennaio 2020 Ultimo vertice: Zingaretti attende “un compromesso” dal premier. L’ipotesi: limitare la norma alle condanne. “Aspettiamo il compromesso che il premier si è impegnato a produrre”. Sono le parole con cui Zingaretti prepara il vertice di oggi pomeriggio sulla prescrizione. Servirà un’intesa, favorita anche da Conte, altrimenti i dem andranno per la loro strada. La sola modifica sostanziale che il guardasigilli Bonafede potrebbe essere disposto a concedere limiterebbe gli effetti della riforma alle sentenze di condanna. Un rebus, complicato dal passo avanti compiuto ieri dalla legge Costa, che invece cancellerebbe la norma del M5s: scaduto il termine per gli emendamenti, solo i grillini, e non il Pd, ne hanno presentato uno abrogativo del testo forzista. “Sono quattro volte che ci vediamo... stavolta una risposta dovrà pure arrivare”. A sentire un parlamentare di maggioranza impegnato nella super partita della giustizia, il vertice di oggi sulla prescrizione non avrà tempi supplementari. O si trova un accordo oppure ognuno per la propria strada, a costo di collisioni fatali. Appuntamento anticipato: ore 18.30 a Palazzo Chigi. Da Giuseppe Conte, Nicola Zingaretti dichiara di attendere con “fiducia un compromesso, che il premier si è incaricato di produrre”. Saranno il capo del governo o il guardasigilli Bonafede a compiere la prima mossa. Il Pd dovrà dire se vede la puntata, rilancia o lascia il tavolo da poker. Tutto chiaro? Quasi. L’esito del match di stasera è imprevedibile. Rischia di generare altri enigmi persino in caso di rottura. Potrebbe trasfigurare la legge Costa in una sorta di campo di battaglia esteso: il testo del deputato di FI, che sopprime la prescrizione di Bonafede, arriverà in aula tra poche settimane; ieri è scaduto il termine degli emendamenti, Maurizio Lupi ne ha proposto uno che acquisisce fotostaticamente la proposta di legge del Pd (ritorno alla riforma Orlando con sospensioni appena più lunghe) e un altro azzurro, Zanettin, introduce la variante della prescrizione grillina congelata per un anno. Le armi sono cariche e i dem già stasera potrebbero cominciare a minacciarne seriamente l’uso. A meno che. A meno che il guardasigilli non sparigli e dica sì alla proposta di Federico Conte, il deputato e penalista che rappresenta Leu in commissione Giustizia a Montecitorio. Si tratta di un’idea semplice: limitare la riforma Bonafede della prescrizione alle sole sentenze di condanna. “Liberare almeno le sentenze di assoluzione dall’incubo del processo eterno e concentrare tutti gli sforzi per garantire, a chi è condannato, delle fasi d’appello e di legittimità le più celeri possibili”, come Conte ha detto in un’intervista al Dubbio. È un’ipotesi stracarica di sospette incostituzionalità, forse non meno della stessa norma Bonafede. È però un compromesso politico. Brutto, sporco e cattivo quanto si vuole. Ma alla precedente riunione, il 19 dicembre, il ministo ha ascoltato “con attenzione” il deputato di Leu spiegare le ragioni del “lodo”. Certo, Bonafede quella volta ha anche detto che “si rischia una discriminazione incostituzionale rispetto a chi in primo grado è assolto”. Eppure si tratta della sola opzione che potrebbe arrivare a concedere e che non sia già stata incenerita dal Pd. Le altre - dalla corsia preferenziale per gli appelli a quella per i risarcimenti ex legge Pinto- non seducono il partito di Zingaretti. Proprio il segretario ha ribadito ieri che “in un Paese civile bisogna avere dei tempi di processo certi” e umani”. Evita toni pre-bellici e, almeno per ora, non si spinge fino a benedire il referendum abrogativo prefigurato dall’Unione Camere penali. Le operazioni militari anti- Bonafede si tradurrebbero in minacce di votare la legge Costa. Non tanto in commissione Giustizia (il testo arriverebbe in aula anche senza un voto favorevole, basta che non passi l’emendamento soppressivo dei deputati 5 Stelle) quanto appunto nell’emiciclo di Montecitorio. Ci sarebbe un’ulteriore, suggestiva variabile: visto che FI proverà a incastrare i dem con l’emendamento Lupi (eletto da Noi con l’Italia ma dal cuore azzurro) che recepisce proprio la controriforma della prescrizione targata Pd, i democratici potrebbero anche votargli contro, ma nel frattempo chiedere l’abbinamento del loro testo (identico all’emendamento Lupi) in modo da metterlo sulla rampa di lancio per l’aula, anziché sottoporlo allo stillicidio d’un altro paio di mesi di audizioni. Sull’abbinamento, però, dal partito di Zingaretti arrivano solo smentite. “Sembrava un’ipotesi realistica, poi però non si è visto”, spiega lo stesso Zanettin. Anche Conte di Leu potrebbe chiedere di abbinare alla legge Costa la sua proposta “extended”, che arretra il blocca-prescrizione addirittura al rinvio a giudizio ma introduce la prescrizione della fase processuale se i tempi diventano parossistici. In tutto questo c’è Italia viva, player finora considerato decisivo. In realtà, se pure in aula i renziani votassero la legge Costa, non avrebbero la certezza di mettere 5 Stelle e Pd in minoranza. Ma ci andrebbero vicino, e se nel frattempo l’Emilia-Romagna sarà caduta tra le braccia di Salvini, sarà difficile che ogni singolo parlamentare del democratico risponda delle proprie azioni. Prescrizione, legge Costa unica chance per bloccare barbarie della riforma Bonafede di Stefano Parisi Il Riformista, 9 gennaio 2020 Con l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio è stato dato un ulteriore colpo allo Stato di Diritto. La sua reintroduzione è un imperativo assoluto che va oltre il bisogno contingente di mantenere in vita un Governo. Le forze che si auto-definiscono democratiche oggi possono approvare la proposta di legge di Enrico Costa. Se non lo facessero e, con strani escamotage, dovessero ulteriormente assecondare questa barbarie giuridica, sarebbero definitivamente complici del populismo penale eversivo. I valori della democrazia liberale non sono negoziabili. E invece… La Lega ha votato a favore di quella norma Bonafede, ha tradito gli elettori del centro destra, assumendosi l’impegno di far approvare entro la fine del 2019 una riforma della giustizia in grado di ridurre i tempi dei processi. Una gigantesca presa in giro perché non si riducono i tempi dei processi per legge (ma con una semplificazione normativa e con una riorganizzazione degli uffici giudiziari e, soprattutto, mantenendo il deterrente della prescrizione) e perché non si riforma il processo penale in sei mesi. Il Pd ha indebolito per primo l’istituto della prescrizione con il suo Ministro Orlando proprio per inseguire sul terreno giustizialista il Movimento 5 Stelle e, una volta al governo con loro, ha lasciato che la norma entrasse in vigore senza batter ciglio. Negli ultimi 25 anni abbiamo assistito alla demolizione dello Stato di diritto e delle garanzie costituzionali per opera di una politica debole, ricattata e impaurita dalla pressione mediatico giudiziaria messa in atto da una parte della magistratura in accordo con i principali organi di stampa. È iniziato tutto con Tangentopoli e con l’abolizione dell’immunità parlamentare. Da allora, ad ogni fatto di cronaca, la politica ha reagito inasprendo le misure detentive e abdicando al proprio ruolo a favore di una magistratura sempre più pervasiva, sempre più politicizzata. Da allora c’è in atto una precisa strategia tesa a sovvertire il nostro ordine democratico per opera di una potentissima burocrazia alleata a deboli interessi economici che hanno visto, nella demolizione del sistema dei partiti, l’opportunità di prendere le redini del paese senza dover essere sottoposti a nessun controllo, a nessuna verifica democratica, a nessuna responsabilità. Oggi, infatti, in Italia le principali decisioni in capo economico, sociale, etico vengono assunte dalle differenti magistrature che puntualmente sostituiscono la debole e impaurita classe politica. La magistratura entra, ormai da anni, persino nella selezione della classe dirigente politica, senza attendere l’esito definitivo del giudizio, ma intervenendo brutalmente, per prassi, già nelle fasi preliminari di un’indagine e, dal 2012 per legge, sovvertendo la volontà popolare con la sospensione degli amministratori già dopo il primo grado di giudizio. Oggi quella burocrazia eversiva ha un suo partito, i 5 Stelle. Il primo partito italiano alle ultime elezioni. È il partito che, da 10 anni a questa parte, detta a tutti i partiti l’agenda del proprio disegno di smobilitare la democrazia liberale e lo Stato di Diritto. Dai vitalizi, al vincolo di mandato, dall’abolizione sostanziale di qualunque possibile finanziamento legale dei partiti, alle norme sul traffico d’influenza, dall’assimilazione dei reati di corruzione a quelli per mafia, dalla riduzione del numero dei parlamentari come atto di pura propaganda, allo “spazza corrotti”. Tutti i partiti si sono accodati, subalterni e ricattati, all’iniziativa del Movimento 5 Stelle. Quel che più è grave è che nel paese ormai è diffusa una cultura antidemocratica, giustizialista, e ed è stato abbandonato il presidio dei nostri valori democratici. Il processo non è più luogo di accertamento del fatto e delle responsabilità ma strumento di lotta sociale e repressione. È la fine della presunzione di innocenza: è l’imputato a dover dimostrare la propria innocenza e non la pubblica accusa la eventuale sua colpevolezza. Siamo indifferenti di fronte all’abuso reiterato della carcerazione preventiva e delle misure cautelari, con magistrati che teorizzano tali misure quali unico modo per far infliggere la pena prima del, troppo lento e incerto, accertamento della verità. Oggi è necessario ricostruire una casa politica che sia in grado di difendere e riaffermare i valori dello Stato di Diritto e della democrazia liberale. È in gioco la nostra libertà. Ecco perché la nuova legge sulla prescrizione non aiuta la giustizia ma anzi la ingolfa di più di Guido Salvini* Il Dubbio, 9 gennaio 2020 La nuova legge sulla prescrizione non è un aiuto alla giustizia. Sono norme quasi del tutto inutili che nascondono forse non una catastrofe ma danni probabili e rilevanti. Proviamo a rifletterci seriamente non dal punto di vista di chi promuove una legge per ottenere un successo politico a breve termine ma da quello di chi in un grande Tribunale come quello di Milano fascicoli di tutti i tipi li maneggia e non ne parla solamente. C’è prima di tutto e tale resterà un grossa categoria di fascicoli, quasi la metà del totale delle prescrizioni, che si estinguono per il decorso del tempo. Sono quelli che si chiudono già nella fase delle indagini preliminari con un decreto di archiviazione appunto per prescrizione o muoiono subito dopo il rinvio a giudizio comunque prima che intervenga il blocco introdotto dalle nuove norme. In questi casi in realtà la prescrizione non c’entra nulla, è solo una via d’uscita tecnica per chiudere fascicoli già scartati. Sono semplicemente fascicoli abbandonati che i Pubblici Ministeri hanno deciso di non trattare, tengono negli armadi per anni e tirano fuori quando sono ormai moribondi. Riguardano quasi sempre piccoli reati, truffe, furti lievi, qualche falso in atto pubblico, danneggiamenti, contrasti di vario tipo tra privati e altri casi che comunque non danno lustro. Qui si pone il problema non della prescrizione ma di uno degli aspetti dell’obbligatorietà (finta) dell’azione penale e della sua discrezionalità (vera) e in molti casi della loro possibile trasformazione in illeciti civili o amministrativi. Ma questa è tutta un’altra storia. All’altro estremo ci sono invece i reati di grande allarme sociale e chi conosce poco del meccanismo dei processi può essere portato a pensare che in questi casi le nuove norme possano essere molto utili. Ma così non è. Infatti, e solo Gherardo Colombo tra i tanti che negli ultimi giorni hanno commentato le nuove norme ha colto nel segno fornendo degli esempi chiari, per questi reati i termini di prescrizione sono ormai molto lunghi e ben difficilmente gli imputati possono raggiungere quel traguardo. Non solo gli omicidi ma anche quasi tutti i reati di corruzione e contro la Pubblica amministrazione, i reati sessuali, i reati ambientali, i reati stradali e addirittura i furti pluriaggravati, nelle abitazioni ad esempio, hanno ormai termini di prescrizione così alti da rendere molto improbabile che tali processi possano estinguersi. Se questo avviene in qualche raro caso ciò è dovuto alla patologia di qualche ufficio giudiziario in ordine alla quale vi sono altri strumenti, disciplinari e ispettivi ad esempio, con i quali intervenire. Non c’era bisogno di una legge. Resta poi in mezzo la fascia di reati su cui la nuova legge inciderà davvero. Sono, tra i più comuni, il piccolo spaccio di droga, ricettazioni, lesioni e maltrattamenti semplici, quelli che si estinguevano in otto anni termine che con una certa frequenza veniva superato dopo la sentenza di primo grado e che ora non si prescriveranno più. I numeri comunque non erano elevati e negli ultimi anni, anche in flessione e vi è da chiedersi che senso abbia poterli concludere d’ora in poi in un termine di tempo indefinito. Questo innanzitutto è molto ingiusto per chi in primo grado è stato assolto visto che in questi casi il proseguimento del processo in appello è richiesto dell’accusa e la sua pendenza non può restare a lungo come una spada di Damocle sull’assolto. Ma in generale la mancanza di un termine, e quello di otto anni non era poi così poco, rischia già di per sé di essere produttiva di ogni genere di ritardi. Pensiamo al fatto che sino ad ora l’avvicinarsi della prescrizione era uno sprone per i magistrati e i cancellieri ad accelerare in ogni modo il loro lavoro. Da oggi in poi questo sprone non ci sarà più e se manca un termine, nel nostro come in tutti i lavori, il meccanismo rallenta. Proviamo a pensare, per fare un paragone, al termine per il deposito delle sentenze. I giudici devono scriverle entro 15, 30 al massimo 90 giorni e se sforano troppe volte questo termine obbligato rischiano anche un procedimento disciplinare. Nessuno ha mai pensato di abolire il termine per la motivazione delle sentenze perché avrebbe immediatamente l’effetto psicologico di ritardarne la scrittura. Ci sarebbero sentenze depositate dopo un anno. Qualcosa del genere potrà avvenire per i processi. Sparito ogni termine la loro definizione rallenterà sino concludersi in tempi che non saranno più ragionevoli. Inoltre dato il rischio che i processi per i reati medi, gli unici ad essere colpiti dalla nuova legge, possano concludersi non più in 8 anni ma in 10, 12 o 15 è prevedibile un altro effetto perverso. Si tratta infatti dei reati per i quali sono previste normalmente in fase esecutiva misure non detentive come l’affidamento ai Servizi sociali o altre pene alternative. Che senso può avere l’affidare qualcuno ai Servizi sociali una dozzina di anni dopo la commissione del reato? Evidentemente nessuno. In concreto, lo sanno tutti coloro che maneggiano davvero i fascicoli, dopo molti anni il condannato o si è rimesso in regola e ha intrapreso una vita normale, e quindi una sanzione postuma rischia solo di danneggiarla oppure ha intrapreso una carriera criminale, ha già altri processi in corso e le misure di reinserimento per fatti vecchissimi non hanno più senso. In fin dei conti l’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado o non serve o rischia di fare danni alla macchina della giustizia. Si poteva pensare semmai ad altre modifiche come la riduzione dei giudici nei processi d’appello da tre a uno, quantomeno nei processi che erano già stati celebrati in primo grado da un solo giudice, il GUP o il giudice monocratico. In questo modo si potrebbe utilizzare meglio le forze disponibili e forse ridurre senza troppi danni le prescrizioni che si verificano appunto per la maggior parte nell’imbuto del processo d’appello. In alternativa si poteva sperimentare lo svolgimento del processo d’appello, con il consenso delle parti, in camera di consiglio evitando la celebrazione di dibattimenti in aula molto spesso inutili. Serviva in Parlamento più inventiva e meno propaganda. Ma forse sarebbe stato chiedere troppo. *Gip preso il Tribunale di Milano La vera emergenza è da sempre la “Giustizia giusta” di Valter Vecellio Il Dubbio, 9 gennaio 2020 Sembra che qualcuno, finalmente, si stia rendendo conto che la vera, grande, emergenza di questo paese - che pure di emergenze ne ha tante - è costituita dalla Giustizia. Sembra che molti si rendano conto che la cosiddetta riforma sulla prescrizione, fortissimamente voluta dall’attuale ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, dal Movimento 5 Stelle, e da alcuni eterogenei settori della magistratura e del giornalismo, è un’offesa, un oltraggio alla civiltà giuridica, alla stessa Costituzione. Par di vederlo il povero Cesare Beccaria, chissà quante volte si è rivoltato nella tomba; e quanto mai esatta l’amara definizione di Leonardo Sciascia: “Italia, paese culla del diritto, ma ormai la sua bara”. Accade così di vedere mobilitati personaggi fino a oggi a tutto interessati e preoccupati, ma non alla Giustizia; scendono anche in piazza, manifestano. Ricordo bene la loro irridente espressione quando li si invitava a riunioni per individuare strumenti per far fronte a questa emergenza; per quanto tempo il Partito Radicale, quello Nonviolento, Transnazionale, Transpartito, e gli avvocati sono stati lasciati soli… non muovevano un dito, nel senso letterale. Marco Pannella veniva guardato con sufficienza, una sorta di nonno un poco tocco, con quella sua mono- mania: quotidianamente ricordava l’urgenza e la gravità della questione giustizia. Ora ci dicono e ci spiegano quello che da sempre sappiamo e abbiamo cercato di dire e spiegare. D’accordo: “Meglio tardi che mai”. A patto di ammettere, di capire, che la questione della prescrizione è l’ultimo anello di una catena infinita. La giustizia giusta per cui si sono battuti Pannella, Sciascia, Enzo Tortora, richiede riforme di grande respiro: responsabilità civile del magistrato; separazione delle carriere; abolizione dell’obbligatorietà penale; robusta delegificazione. Sono le cose che auspicava, tra gli altri, Giovanni Falcone: che non a caso, prima di essere ucciso dalla Cosa Nostra, ha avuto tra i suoi più implacabili avversari, tanti suoi colleghi. Poi alcune proposte sagge e giuste di recente elencate dal giudice emerito della Corte Costituzionale Sabino Cassese: i tempi del processo, tutti e tre i gradi, in un solo anno; sanzionare in via amministrativa tutto ciò che non ha vera rilevanza criminale. L’accusa affidata a persone che abbiano equilibrio e procedano con cautela, senza maxi- retate, pubblicità, gestione delle ricadute mediatiche, comunichino riservatamente (come vuole la Costituzione) le accuse agli interessati. Questo è. Altrimenti è solo fuffa. Riforma giustizia tributaria: magistrati e commercialisti contro la proposta di Conte di Rosaria Amato La Repubblica, 9 gennaio 2020 Con l’addio al secondo grado di giudizio più facile un ruolo forte della Corte dei conti. Cinque progetti di legge e due commissioni parlamentari al lavoro per la riforma della giustizia tributaria. Una quadra difficile da trovare soprattutto da quando nel dibattito è entrato il presidente del Consiglio Conte, annunciando prima nel discorso di fine anno e poi nell’intervista a Repubblica del 6 gennaio che la giustizia tributaria “va ridotta a soli due gradi di giudizio”. L’affermazione è contestata da magistrati, avvocati e commercialisti, che, senza negare le ragioni della riforma (la revisione dell’attuale sistema sarebbe dovuta avvenire a 5 anni dall’entrata in vigore della Costituzione) rivendicano il diritto del cittadino ad avere un giudice imparziale e due gradi di giudizio di merito. E nelle parole di Conte leggono un assist alla Corte dei conti, che in un comunicato del 24 ottobre si candidava come giudice per la “salvaguardia degli interessi dell’Erario e del Fisco”. “La riforma deve essere gestita nell’ambito del giusto processo - dice Daniela Gobbi, presidente dell’Associazione Magistrati Tributari. Non è chiaro se si vuole abrogare il secondo grado di merito, che costituisce un importante filtro per la Cassazione: l’80% delle cause si fermano lì. In questo modo si intaserebbe la Cassazione, prolungando i tempi della giustizia. Oppure se si vuole trasferire la competenza alla Corte dei conti: ma la materia tributaria non è materia contabile, ci sono in gioco diritti fondamentali, il giudice deve valutare le questioni di diritto nella loro interezza”. Forte anche di un andamento decrescente dell’arretrato negli ultimi sette anni (i ricorsi pendenti sono scesi dagli oltre 720 mila del 2011 ai 373.685 di fine 2018), l’Amt ha scritto a Conte per chiedere un incontro. Contro le affermazioni del premier anche l’Uncat (l’associazione degli avvocati tributaristi), e il Consiglio nazionale dei commercialisti. “Si tratta di un grado di giudizio assolutamente necessario nell’ambito della giurisdizione tributaria”, dice il presidente del Consiglio Nazionale dei commercialisti Massimo Miani, sottolineando che l’abrogazione “si risolverebbe in un unicum nel nostro sistema processuale, oltre a limitare, del tutto ingiustificatamente, il diritto di difesa dei contribuenti”. La Corte dei conti non si esprime. Ma l’Associazione Magistrati della Corte dei conti sì, contestando “talune affermazioni tese a etichettare la Corte quale garante dell’Erario anziché del contribuente”: “Siamo garanti solo ed esclusivamente della corretta applicazione della legge”, rivendica il presidente dell’Associazione, Luigi Caso, ricordando che la Corte svolge già funzioni a tutela del cittadino, come nel giudizio sulle pensioni. Neanche al Senato, dove le commissioni Finanze e Giustizia sono al lavoro per unificare i 5 progetti di legge (4 già depositati, ai quali, a breve, si aggiungerà quello del M5S), hanno preso bene la sortita di Conte: “Bisogna rispettare l’autonomia del Parlamento: siamo in una fase di costruzione e di ascolto, poi ci sarà la redazione di un testo unificato che cercherà di mettere insieme le istanze principali”, dice Andrea Ostellari (Lega), presidente della commissione Giustizia. “La riforma deve portare con sé certezza del diritto, dei tempi, delle competenze - dice Luciano D’Alfonso, capogruppo Pd in commissione Finanze. Fondamentale sarà disporre anche per il processo tributario di una magistratura “dedicata” riconosciuta come tale”. Vendetta del Csm: mancata promozione di Spadaro, vittima sacrificale dell’inchiesta Bibbiano di Giovanni Altoprati Il Riformista, 9 gennaio 2020 Giuseppe Spadaro, attuale presidente del Tribunale dei minorenni di Bologna, pagherà per tutti: sarà lui la vittima sacrificale dell’inchiesta “Angeli e demoni”. Con un ribaltone di fine anno, il Csm ha stroncato la sua aspirazione di andare a dirigere la Procura dei minorenni di Roma. Per lui un solo voto su cinque, quello della togata di Magistratura indipendente Loredana Micciché. Eppure a luglio la strada per Roma sembrava spianata: a suo favore si era espresso addirittura Piercamillo Davigo. Strano destino, dunque, per l’ufficio giudiziario bolognese e per il suo presidente, sempre elogiato durante ogni ispezione ministeriale, soprattutto per aver innalzato la produttività eliminando arretrato, nonostante carenza di personale amministrativo e sottodimensionamento dell’organico dei giudici. Durante la sua presidenza sono stati anche emessi provvedimenti innovativi, ad esempio in materia di stepchild adoption. Un modello, insomma, nel complesso mondo della giustizia minorile. Fino a quest’estate quando esplode, appunto, l’inchiesta “Angeli e demoni” e Spadaro finisce sotto i riflettori dei mass media per i presunti allontanamenti illegittimi dei bambini di Bibbiano. Nato 55 anni fa in Calabria, magistrato dal 1990 e dal 2013 a Bologna, Spadaro per il Csm è un giudice con “un vero e proprio amore per la funzione”. “Senza dubbio - si poteva leggere nel parere redatto per la sua domanda - il magistrato più idoneo, per attitudini e merito” ad occupare il posto a Roma. Scoppiato lo scandalo, lui ed il suo ufficio si dichiarano le “prime vittime” degli assistenti sociali coinvolti nell’inchiesta. All’inizio dell’estate il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede avvia un’indagine amministrativa sul Tribunale dei minorenni di Bologna. L’11 novembre il Guardasigilli richiede una nuova d’indagine “sui rapporti tra giudici e operatori che potrebbero aver determinato situazioni d’incompatibilità, e sulle misure adottate dal presidente”. Il supplemento d’ispezione è motivato dal fatto che nelle intercettazioni di “Angeli e demoni” erano emersi rapporti di vicinanza tra uno dei giudici bolognesi e gli psicologi Claudio Foti e Nadia Bolognini, al centro delle indagini. Il 27 agosto Spadaro aveva comunque sostituito il magistrato in questione. Ma oltre all’ispezione ministeriale, Spadaro deve fronteggiare l’Ordine degli avvocati di Reggio Emilia che aveva inviato a Bonafede e al Csm un rapporto sulle presunte inadempienze del Tribunale bolognese. Ci sono procedure di sospensione della potestà genitoriale, e addirittura di adottabilità dei bambini, “in cui da oltre un anno non vengono fissate le udienze”. Si evidenzia “il sistematico, mancato reperimento dei fascicoli in cancelleria e negli uffici dei magistrati” e lo “smarrimento di fascicoli”. La presidente dell’Ordine, Celestina Tinelli, ha sostenuto che spesso “gli avvocati non possono nemmeno partecipare alle udienze”. Il 14 novembre Spadaro si presenta allora davanti alla Commissione d’inchiesta sugli affidi minorili, varata dalla Regione Emilia-Romagna. “Mi hanno chiamato sequestratore di bambini”, ricorda, raccontando le offese e le minacce ricevute sui social media. “Siamo tra i migliori in Italia”, aggiunge con orgoglio, illustrando i numeri del suo ufficio. Un dato, però, insospettisce la Commissione: tra il 2018 e 2019 i Servizi sociali avevano chiesto al Tribunale 100 allontanamenti e i suoi giudici ne avevano respinti ben 85. Come mai gli assistenti sociali avevano chiesto allontanamenti infondati nell’85 per cento dei casi? E come mai, davanti a questi errori, i giudici non avevano preso provvedimenti? Spadaro risponde: “Perché i Servizi sociali non chiedevano 100 allontanamenti, altrimenti sarebbe stato un dato estremamente allarmante e io stesso sarei andato in Procura a segnalarlo”. Gli assistenti sociali avevano presentato 100 “segnalazioni di potenziale pregiudizio”, cioè relazioni assai meno definitive. E non così preoccupanti. Tutto chiarito? Affatto: per l’opinione pubblica e per il Csm ormai è lui il colpevole. Lo Stato del nostro dolore di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2020 Da Patrizia Aldrovandi a Ilaria Cucchi, da Rudra Bianzino a Domenica Ferrulli. Combattono per la verità in casi controversi dove, sul banco degli imputati, siedono poliziotti e carabinieri. Una lotta in cui rabbia e sofferenza si intrecciano senza fine. La stanza del figlio non l’ha mai chiusa. E, in questi anni, lei ha continuato a portarvi la vita da fuori. E i suoi pensieri. Il cane, il gatto. Gli amici. Nel tempo, all’odore di Federico si è mescolata prima l’incredulità e la rabbia, poi la determinazione. Mista a un dolore che “non passa mai e a quel vulcano che continua a bruciare sempre”. Nella stanza del figlio, ogni tanto, lei conduce anche le lacrime. Insieme alla ricerca di un nuovo equilibrio. Qui tutto continua a restare sospeso tra il letto, l’armadio, la scrivania. Ed è “con tutto questo dentro, che ho seguito ogni passaggio del caso Cucchi. Direttamente sulla mia pelle”, sospira Patrizia Moretti Aldrovandi. La pelle di una mamma, che da quattordici anni piange il figlio, Federico, morto a diciott’anni, al rientro da una festa. Morto dopo un fermo di polizia e un violento pestaggio: 54 lesioni sul corpo. Come fu per Stefano Cucchi. “Ma oggi è già diverso da allora, oggi qualche passo avanti è stato fatto rispetto a quel giorno”. L’attimo che ha travolto tutto ha una data: è il 25 settembre 2005. Quel giorno, lei e il marito, Lino, arrivano all’obitorio di Ferrara. Erano stati chiamati che il sole era già alto da ore. In quel momento, davanti al corpo gonfio, tumefatto e insanguinato di Federico, comincia la battaglia di Patrizia. Che è stata la stessa lotta, innanzitutto di comprensione, di Ilaria Cucchi, di Lucia Uva, di Domenica Ferrulli, di Rudra Bianzino. O ancora di Luciana Rasman. O, se pur in un contesto differente, di Heidi Giuliani, mamma di Carlo, ucciso durante i disordini del G8 di Genova. Storie diverse, ma anche simili, di madri, di sorelle, di figli, di individui che erano nelle mani dello Stato e che, nelle mani dello Stato, sono morti. Famiglie al cui dolore si è aggiunto l’affronto dei pestaggi. “Per me, come sarà anni dopo per l’aria Cucchi, tutto è cambiato con la foto di quel corpo”, premette Patrizia Moretti. E stata “durissima, ma mostrare quell’immagine è stata una scelta quasi obbligata”, ammette. Nella voce è ancora intatto il travaglio di quei giorni. “All’inizio, non volevo farlo, non volevo esporre il corpo di Federico, ma quel ritratto parlava. Raccontava quello che aveva subito. E noi abbiamo toccato con mano che, se non hai il sostegno dell’opinione pubblica, tutto viene facilmente archiviato, dimenticato”. Allora, esaurite le parole, Patrizia stampa le fotografie, le mostra nelle piazze di Ferrara, le porta ai cronisti. E ottiene che “i giornali locali allentino il freno” davanti a quei genitori che gridano per il figlio, il figlio morto dopo una festa con gli amici a Bologna, dopo un fermo di polizia e dopo “un’asfissia da posizione”: con il torace schiacciato a terra dalle ginocchia degli agenti. Sulla stampa, da quel momento in poi, le “brevi” cominciano a diventare trafiletti, poi articoli. La storia diventa così un caso nazionale, anche grazie all’eco del blog che Patrizia, da antesignana, decide di aprire per far conoscere quello che è accaduto a Federico e alla sua famiglia. Scrive lo studioso Marco Belpoliti: “Appena le fotografie si accoppiano alle parole producono un effetto di certezza”. Le domande che rischiavano di restare insolute, “una volta abbracciate dall’opinione pubblica, vengono invece acquisite anche dalla giustizia. Nel nostro caso, infatti, le indagini hanno avuto un’accelerazione in una seconda fase”, ricostruisce Patrizia Moretti. Una fase terminata nel 2009 con la condanna a tre anni e mezzo di carcere, per eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi, di quattro poliziotti. La Cassazione conferma tutto, ma, a causa dell’indulto, gli agenti escono di prigione dopo sei mesi. Dopo un anno, sono di nuovo al lavoro. Contemporaneamente, comincia il secondo processo per i depistaggi. “E questo è il principale punto di contatto con il caso Cucchi e il filo conduttore con altri analoghi. Ed è anche il punto su cui è più urgente intervenire, per un cambiamento”, scandisce Patrizia mentre scorre il tempo coni pensieri. Va indietro, ai giorni della loro battaglia, mediatica e giudiziaria, e va avanti, a quelli più recenti della determinazione di l’aria Cucchi. Quest’ultima ha ascoltato il 14 novembre 2019 il presidente della Corte emettere, in primo grado, condanne a dodici anni per due carabinieri per omicidio preterintenzionale: è il secondo processo celebrato per la morte del fratello. Il dibattimento sui depistaggi si era aperto invece due giorni prima. Tra le parti civili, ci sono anche l’Arma dei carabinieri e i ministeri della Difesa e dell’Interno. “Io ho sentito, invece, quell’assenza. Noi abbiamo provato un grande senso di isolamento e di abbandono. Da questa percezione nasce la scelta della lotta pubblica come unica soluzione”, constata Patrizia Moretti. Il baciamano di un maresciallo alla sorella di Stefano Cucchi, nell’aula bunker di Rebibbia, è stato “un gesto estemporaneo, piaciuto” anche a Patrizia, che, ugualmente, ricorda di aver ricevuto “attestati di solidarietà da agenti, ma anche da capi della Polizia e da ministri dell’Interno. Ma poi, basta. Le azioni successive le stiamo ancora aspettando”, allarga le braccia. Ed è qui, in questo snodo del processo di elaborazione del lutto, che si concentra maggiormente la sua rabbia. Al pensiero di quei poliziotti, “nelle cui mani è morto mio figlio”, che sono rientrati al lavoro “come se nulla fosse: la condanna non prevedeva l’interdizione dai pubblici uffici e nessun procedimento disciplinare interno è stato mai avviato”. Anni dopo, per il caso Cucchi, anche su questo fronte, le conseguenze sono state diverse: l’Arma ha iniziato un iter che potrebbe portare fino alla destituzione dei militari. E già prima, un altro muro era caduto, quello dell’omertà che spesso silenziava molti misfatti consumati all’interno dei corpi militari. Una regola non scritta, protratta nel tempo, ma alla fine infranta. “Per la morte di Federico, nessuno ha mai raccontato qualcosa di diverso da quanto concordato a tavolino”, ricorda riferendosi al processo per i depistaggi. Processo che si è concluso in Cassazione con otto mesi di carcere per uno degli agenti e l’annullamento per prescrizione per un altro. Invece, contro i carabinieri condannati per la morte di Stefano Cucchi sono state messe a verbale soprattutto le accuse di altri carabinieri. Che c’erano, che all’inizio hanno taciuto, ma che alla fine hanno rotto la consegna del silenzio. E denunciato. Questo - stando all’accusa della Procura di Roma - nonostante i tentativi dei graduati di tacere la verità, di modificare la ricostruzione dei fatti. E “l’Arma che si è costituita parte civile e che ha preso le distanze dai reati è un segnale positivo di un’evoluzione, di un percorso culturale in atto”, dice Patrizia. Perché, ne è convinta, questa trasformazione dovrebbe iniziare proprio “nelle caserme, fuori dai riflettori”. Superando anche alcuni tabù. A cominciare dal fatto che “come mi hanno raccontato molti poliziotti, non è ben visto il ricorso a un supporto psicologico, necessario per gestire l’uso della forza”. Con Ilaria, Patrizia ha condiviso molte cose, oltre allo stesso avvocato, Fabio Anselmo. “Me la presentò la prima volta che venne a Ferrara a parlargli”. E con lei, come con altri, si è creata una rete. “Ci siamo incontrati in occasioni pubbliche, abbiamo condiviso le nostre storie. E sono nate anche amicizie, come quella con Lucia Uva”, la sorella di Giuseppe, morto a 43 anni nel 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto in caserma a Varese. I due carabinieri e i sei poliziotti coinvolti sono stati però assolti, in via definitiva dalla Cassazione, dall’accusa di omicidio preterintenzionale e sequestro. È soprattutto nei momenti più attesi e difficili che il loro reciproco sostegno diventa anche pubblica vicinanza. Così Lucia Uva, per la sentenza d’appello, ha voluto essere in Tribunale a Milano, al fianco di Domenica Ferrulli, la figlia di Michele, il manovale morto d’infarto, dopo un fermo nel 2011. Anche a lei è toccato ascoltare, con sconcerto, la voce del giudice far cadere le accuse per i quattro poliziotti processati. “Avevamo pensato di trasformare questa rete in un’associazione, ma alla fine sono stata io a sottrarmi”, quasi si scusa Patrizia, che è la mamma di Federico, ma anche di Stefano. “Non ce la faccio più, ormai scoppio solo a piangere, ho avuto bisogno di sottrarmi alla sfera pubblica. Un tempo, la battaglia all’esterno mi ha dato forza, ora ho bisogno della mia dimensione privata”. Di attraversare l’aria sospesa della stanza del figlio. Mettere Pietrostefani in galera oggi sarebbe solo una vendetta di Frank Cimini Il Riformista, 9 gennaio 2020 È persino inevitabile. Puntualmente ogni tot di tempo emerge il disastro che è stato fatto non arrivando a una soluzione politica per i cosiddetti “anni di piombo”. Ci troviamo di nuovo in uno di questi momenti perché nei mesi scorsi, sollecitato dalle autorità francesi a loro volta un po’ stufe delle insistenze italiane, il nostro Parlamento aveva ratificato la convenzione di Dublino 1996: in materia di estradizioni non prevale più la legge del Paese che riceve la richiesta ma quella dello Stato che presenta la richiesta. Quindi non conta più che i fatti di 40 anni fa per la Francia sono prescritti. In Italia non lo sono ancora e quindi 14 persone che a Parigi e dintorni si erano rifatte una vita rischiano adesso fortemente di essere imbarcate su un aereo e arrivare a Fiumicino per finire magari immortalati dagli iPhone di qualche ministro della Repubblica, come era accaduto a Cesare Battisti. E la “nuova” fase era iniziata proprio con la consegna dalla Bolivia all’Italia, in violazione di regole e trattati internazionali, dell’ex militante dei Pac. Perché il presidente Mattarella, quello che insieme al suo predecessore Napolitano non si era fatto scrupolo di graziare quattro agenti della Cia condannati per il sequestro e le torture ai danni di Abu Omar, prometteva: “E adesso gli altri”. Così le autorità nostrane tornavano alla carica con i cugini di oltralpe. Riunioni e incontri a livello di servizi segreti e di polizia fino all’esplicito “consiglio” francese: ratificate Dublino 1996 e la risolviamo finalmente. I grandi giornali si accorgevano in ritardo della novità giuridica e con determinazione andavano all’attacco. Ora è il turno di Repubblica, un quotidiano che è sempre stato tra i più ostili a una soluzione politica dal momento che fu tra i tifosi più accaniti dello stato di eccezione praticato senza dichiararlo formalmente. Repubblica ha avviato una vera e propria campagna affinché questi settantenni, alcuni dei quali vicini agli ottanta, tornino “a saldare i loro conti” con la giustizia dell’emergenza. Della madre di tutte le emergenze. Iniziò allora la fine dello stato di diritto proseguita poi con i professionisti dell’antimafia di sciasciana memoria e la farsa di Mani pulite. Una soluzione politica per quei fatti che ora tornano di moda appare purtroppo sempre più lontana, molto di più di quando poteva essere trovata. Il clima politico non è favorevole. Anzi. Ma che giustizia è mettere in galera, tanto per fare, un nome Giorgio Pietrostefani a quasi 50 anni dal delitto Calabresi per il quale è stato condannato? È la vendetta di una politica che non ha mai voluto fare i conti con il passato per evitare che emergessero anche le sue responsabilità e quelle dello Stato davanti a una sovversione interna la cui risoluzione fu interamente delegata alla magistratura. Furono approvate leggi premiali imposte dalle toghe che fanno danni ancora oggi e che sono paradossalmente servite ai magistrati per aumentare il loro potere di casta nei confronti della politica. Ma il sistema paese sembra pronto a celebrare il ritorno in Italia e l’ingresso nelle celle di 14 anziani alcuni malandati di salute come una vittoria della democrazia. Non scatta il reato se l’uso della banca dati non autorizzato dall’autore è inconsapevole di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2020 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 8 gennaio 2020 n. 220. Non scatta il plagio della banca dati a carico di chi utilizza indirizzi email senza avere la consapevolezza della loro illecita provenienza. Va provato dunque l’elemento psicologico del comportamento che costituisce reato ai sensi della legge sul diritto di autore in particolare per aver posto in essere la condotta penalmente rilevante descritta dall’articolo 171-bis della legge 633/1941, cioè l’uso di un data base senza l’assenso del suo autore. La Corte di cassazione con la sentenza n. 220 di ieri affronta un caso di cronaca che riguardava una nota società vittima del trafugamento di dati relativi a decine di milioni di utenti cui indirizzava comunicazioni elettroniche commerciali e servizi personalizzati. Un’attività di cosiddetto direct email marketing, cioè l’invio online di messaggi pubblicitari effettuato verso una lista preselezionata di utenti. La vicenda - In pochi mesi, alcuni dipendenti della società, che aveva ovviamente un diritto di esclusiva sul proprio data base ritenuto “trafugato”, avevano dato vita a una nuova società operante nello stesso settore di mercato e che con un esiguo capitale subito annoverava nella propria banca dati un numero considerevole di indirizzi di posta elettronica praticamente al pari dell’azienda da cui provenivano. L’elemento psicologico - Nel caso affrontato dalla sentenza si esclude la responsabilità per il reato di abusivo utilizzo della banca dati in violazione del diritto di autore, di una ex dipendente che risulta sicuramente coinvolta nella creazione dell’azienda concorrente e che aveva insistito affinché l’amministratore di sistema della vecchia società accettasse di dimettersi per essere assunto da parte del nuovo soggetto. L’ex dipendente ed ex amministratore di sistema in effetti era stato imputato in base all’articolo 615 -ter del Codice penale per l’accesso abusivo al data base dell’azienda di provenienza, ma ciò non vale a dimostrare che chi lo aveva spinto al passaggio fosse cosciente del trafugamento. Niente arresto se il dirigente responsabile che ha inquinato vive all’estero di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 9 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 8 gennaio 2019 n. 235. La misura cautelare personale degli arresti domiciliari sussiste solo in presenza di un pericolo concreto e attuale. La vicenda. La Cassazione - con sentenza n. 235/2020 - ha precisato che il responsabile del distretto meridionale di Eni spa, avesse per diversi anni concorso all’inquinamento da idrocarburi del centro Olio Val d’Agri e per questo condannato. L’imputato, però, ha presentato ricorso facendo presente che al momento era stato trasferito in Turkmenistan e che, quindi, non potesse rappresentare un pericolo attuale per attuare la misura cautelare. In particolare la Cassazione ha evidenziato come gli arresti non potessero certamente esser inflitti in considerazione della possibilità che in futuro al ricorrente potessero essere affidati incarichi sul territorio nazionale, analoghi a quelli nell’esercizio dei quali è stata realizzata la condotta contestata. Una motivazione errata. A tal proposito i Supremi giudici hanno puntualizzato che si trattava chiaramente di motivazione del tutto congetturale, fondata su un’ipotesi di cui non sono indicate le ragioni per le quali l’assegnazione dell’imputato ad altro incarico in altra società del gruppo Eni, operante nel Turkmenistan, consentisse di ritenere attuale il pericolo di reiterazione di condotte analoghe, che presupponessero poteri gestionali in imprese operanti e nel medesimo settore. Emilia Romagna. Nelle carceri pochi educatori, sovraffollamento e autolesionismo crescente altarimini.it, 9 gennaio 2020 è allarme nelle carceri regionali. La casa circondariale “Casetti” di Rimini si piazza a livello regionale fra i migliori istituti penitenziari per presenza di educatori e tasso di sovraffollamento, ma la situazione emiliano-romagnola preoccupa ovunque e ha suscitato l’attenzione della Conferenza regionale volontariato e giustizia presieduta da Paola Cigarini, che nell’ultimo incontro di metà dicembre ha fatto il punto con i rappresentanti di alcune delle associazioni che operano nelle carceri regionali. Sovraffollamento, pochi educatori, sempre più casi di autolesionismo e disagio psichico, assistenza medica o psichiatrica depotenziata, alternanza o assenza di direttori e comandanti di polizia penitenziaria sono fra i problemi rilevati più urgenti, talvolta alternati talvolta compresenti nello stesso carcere. Stando ai dati pubblicati nel sito dell’associazione Antigone, Ravenna è l’istituto messo peggio con 88 persone detenute invece che 49 e quindi un tasso di sovraffollamento del 179,6 per cento, seguito da Bologna con 870 detenuti invece di 500 (174 per cento), Ferrara con 364 detenuti invece che 244 (149 per cento), Modena con 544 detenuti invece di 369 (147,4 per cento), Reggio Emilia con 435 detenuti invece di 297 (146,5 per cento), Parma con 638 invece di 456 (139,9 per cento), Piacenza con 510 detenuti invece di 395 (129,1 per cento), Rimini con 151 detenuti invece di 118 (128 per cento) Forlì con 169 detenuti invece di 144 (117,4 per cento). L’unico carcere che ha un rapporto inverso è Castelfranco Emilia con 87 reclusi su 221 posti disponibili è un’occupazione della struttura del 39 per cento. Allarmanti anche i dati sulla presenza in istituto degli educatori, figura fondamentale per l’applicazione dell’articolo 27 della Costituzione che recita “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Rimini sarebbe l’unico carcere in regione con un numero di educatori pari a quanto previsto dall’ordinamento penitenziario, ovvero almeno uno ogni cento detenuti: ce ne sarebbero 5 a garantire il percorso di ricostruzione sociale della persona reclusa. Ma il caso più preoccupante che viene denunciato dalla Crvg è quello di Bologna, dove su 12 educatori previsti in pianta organica alla Dozza ne sono presenti soltanto 5. All’ultima riunione della Crvg hanno preso parte rappresentanti del volontariato operativo nelle carceri di Bologna, Parma, Piacenza, Modena, Rimini e Reggio Emilia: i presenti hanno deciso di lanciare l’allarme sull’attuale sistema dell’esecuzione della pena nella regione Emilia-Romagna, invocando risposte di tipo politico, economico e amministrativo. Sardegna. Mancano camere in ospedale per i detenuti e gli agenti penitenziari protestano di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 gennaio 2020 Varie sigle della polizia penitenziaria hanno indetto una protesta davanti al San Martino, l’ospedale di Oristano, per denunciare la mancanza di camere adeguate per i detenuti malati. Una quarantina sono stati i rappresentanti sindacali che hanno deciso di aderire alla manifestazione, andata in scena sotto il palazzo della direzione della Assl di Oristano, in via Carducci. I sindacalisti hanno denunciato la grave situazione che vivono i degenti e gli stessi operatori, costretti a scortare e piantonare i detenuti, molti dei quali reclusi nelle sezioni di alta sicurezza, nei reparti del San Martino. I sindacati hanno ricordato che esiste un finanziamento già dal 2016 per la ristrutturazione del presidio ospedaliero e nel quale era previsto anche la realizzazione delle camere di sicurezza. Una delegazione di sindacalisti, accompagnati dai consiglieri regionali Annalisa Mele e Emanuele C’era, ha poi incontrato il direttore della Assl di Oristano, Mariano Meloni. Il manager della Assl ha spiegato, durante l’incontro con le organizzazioni sindacali, di aver individuato, nel reparto di Ortopedia del San Martino, i locali idonei dove realizzare le camere di sicurezza. Locali attualmente occupati dai pazienti talassemici. “Stiamo lavorando per individuare una rapida soluzione - ha detto Mariano Meloni per risolvere entrambi i problemi”. Il problema, che riguarda tutta la regione Sardegna, era stato messo in evidenza anche dall’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà. Infatti, oltre al discorso oggettivo dell’elevato numero dei detenuti in alta sicurezza e la carenza di figure apicali, con il risultato di avere sedi vacanti e quindi con i direttori costretti a dividersi tra più strutture, c’è la mancanza di strutture ospedaliere adatte. Con l’aggiunta che le camerette degli ospedali non sono idonee. In maniera particolare, come si legge nel rapporto del Garante riguardante la Sardegna, non è disponibile il Servizio di assistenza intensiva (Sai) per coloro che sono detenuti in regime di Alta sicurezza o in articolo 41 bis che possa essere utilizzato a tutela della loro salute. Infatti, il Sai dell’Istituto di Sassari - strutturato originariamente per coloro per i quali era disposta una detenzione secondo tali regimi - è stato trasformato in un Centro di osservazione psichiatrica e l’unico altro Sai della Regione, che si trova nell’Istituto di Cagliari-Uta, è esclusivamente per coloro che sono detenuti in regime di normale sicurezza. Il Garante nazionale ha quindi raccomandato al Provveditorato regionale di provvedere con urgenza ad attivare un Sai in grado di rispondere alle esigenze di tutela della salute di tutte le persone detenute nella Regione, compresi coloro che sono in regime di alta sicurezza o in 41 Bis, attraverso la stipula di un protocollo con l’Azienda per la tutela della salute (Ats) della Regione. Chiede di essere tempestivamente informato sia dell’avvio di tale interlocuzione con le autorità sanitarie sia delle conseguenti scadenze concordate per la risoluzione del problema. Trattandosi di un prerequisito per l’effettiva tutela del diritto alla salute - che l’articolo 32 della Costituzione qualifica come “fondamentale” - il Garante nazionale ha segnalato l’assoluta urgenza di dare seguito alla precedente raccomandazione, riservandosi di percorrere tutte le vie previste dall’ordinamento nazionale e dalle Convenzioni internazionali, qualora non si provveda. Almeno quanto risulta dal sito ufficiale del Garante nazionale, sul punto non ha ancora ricevuto risposta da parte della autorità competenti. Palermo. Comitato esistono i diritti: “Situazione delle nostre carceri disastrosa” di Gaetano D’Amico Il Sicilia, 9 gennaio 2020 Il Comitato esistono i diritti ha consegnato stamattina una lettera ai capogruppo in consiglio comunale affinché con urgenza il regolamento che prevede la figura del garante comunale sia il dibattuto dall’aula di palazzo delle Aquile emendato e votato. Lo scorso primo gennaio si era svolta la manifestazione davanti al carcere dell’Ucciardone in nome di Papa Francesco e Marco Pannella. “Il 19 dicembre scorso - affermano gli esponenti del Comitato, Gaetano D’Amico, Alberto Mangano, Carla Cordaro - abbiamo fatto avere al Presidente del Consiglio Comunale una lettera con la quale abbiamo chiesto che si completi il percorso e il lavoro della VII Commissione consiliare, presieduta dal Consigliere Arcoleo, approvando il regolamento che istituisce la figura del Garante comunale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale. Il comitato sottolinea che “la situazione delle nostre carceri è disastrosa e sempre più frequenti sono le notizie di gravi violazioni di diritti nei confronti di detenuti, soprattutto per gli aspetti relativi alle condizioni di cura delle malattie e allo stato di salute in generale. - ed accentuano con positività che - Consapevoli che i diritti umani non sono trattabili e non possono che essere patrimonio di tutte le forze politiche democratiche e quindi fuori da logiche di maggioranze o di opposizione, siamo fiduciosi che questo Consiglio comunale unanime adotterà questo provvedimento. Ci contiamo e auspichiamo che questo atto si compia con la necessaria urgenza che la situazione reale richiede”. Aosta. Gli auguri del Garante dei detenuti: il carcere sappia creare lavoro aostaoggi.it, 9 gennaio 2020 “Auspico, insieme a voi, che nascano e si sviluppino attività formative e lavorative, utili per vivere nel modo migliore il periodo di detenzione e con la finalità di assicurarvi un futuro degno e confacente alle vostre attitudini”. Lo afferma il garante dei detenuti della Valle d’Aosta, Enrico Formento Dojot, in un messaggio di auguri di inizio anno rivolto ai detenuti della casa circondariale di Brissogne. “Ogni inizio di nuovo anno porta con sé, necessariamente, aspettative e sentimenti contrastanti. Da una parte, l’incertezza per un futuro sempre meno delineato. Dall’altra, l’attesa di ciò che di positivo ci sarà. Sono le classiche due facce della stessa medaglia”, scrive nel messaggio Formento Dojot. Il Garante ricorda le carenze nella “capacità della Casa circondariale di Brissogne di operare per la creazione di lavoro, interno ed esterno”, un aspetto del percorso di riabilitazione considerato “imprescindibile” al pari della “volontà di apprendere e trasformare la detenzione in qualcosa di effettivamente fruttuoso”. Nel 2020 “per alcuni di voi sicuramente si spalancheranno finalmente le porte verso la vita libera, per altri si prospetterà, ancora, la permanenza in carcere. Situazione, quest’ultima, che può indurre malinconia, se non sconforto. Ma è proprio durante il duro periodo di restrizione - aggiunge il garante - che si pongono le basi per il futuro reinserimento nella società, attraverso l’acquisizione di conoscenze che possono dare uno sbocco una volta usciti dall’Istituto”. Napoli. Quindici detenuti lavoreranno nella Procura per trasportare i fascicoli di Roberto Russo Corriere del Mezzogiorno, 9 gennaio 2020 Progetto innovativo dopo l’intesa con il Provveditorato e il garante. Quindici detenuti provenienti da Poggioreale e Scampia lavoreranno in Procura a Napoli nell’ambito di un programma di reinserimento. L’iniziativa voluta dal procuratore Giovanni Melillo. Quindici detenuti napoletani, attualmente richiusi tra Poggioreale e Scampia, lavoreranno per un anno negli uffici della Procura di Napoli, nell’ambito di un progetto per il reinserimento e la rieducazione dei condannati in applicazione dell’articolo 27 della Costituzione. A volere fortemente l’esperimento è stato il procuratore Giovanni Melillo in persona. Originalità - Napoli quindi sarà la prima Procura di una grande città italiana (la prima in assoluto è stata Lecce) a utilizzare nei suoi uffici alcuni reclusi. Già firmato, il 13 dicembre scorso, un protocollo tra Procura, provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziari (Antonio Fullone) e garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. Come anticipato dal sito “Fanpage” l’intesa preoccupa il sindacato Confsal Unsa, perché il suo segretario Mario De Rosa ritiene che “nonostante i nobili fini e la piena legittimità del protocollo, si impiegheranno detenuti in un settore molto delicato”. I paletti - In realtà l’accordo prevede maglie molto strette nell’individuazione dei quindici detenuti ai quali verrà concesso il beneficio di poter lavorare per dodici mesi in ambiente giudiziario. Sarà infatti loro affidata la movimentazione dei fascicoli interna all’ufficio, il tutto avverrà ovviamente dopo che il magistrato di sorveglianza avrà concluso l’istruttoria per poter concedere i permessi lavorativi e dopo che il Provveditorato campano avrà individuato i detenuti ritenuti maggiormente idonei per questo tipo di attività. Va detto che il progetto deve ancora ottenere la relativa copertura economica e perciò si sta lavorando per raggiungere l’obiettivo che non è certo semplice. La strategia - L’azione di recupero sociale che si vuole operare con l’assunzione temporanea dei detenuti è coerente con le convinzioni dell’attuale procuratore di Napoli. Melillo non è solo un magistrato esperto di camorra, ma è anche da anni docente universitario di procedura penale e appassionato di organizzazione e ammodernamento tecnologico della giustizia. Nel 2015 da capo di gabinetto dell’allora Guardasigilli Andrea Orlando, ha maturato una significativa esperienza anche nel mondo delle carceri e si è potuto rendere conto di persona delle difficili condizioni di vita in molte carceri italiane. La solidarietà - Del resto la particolare sensibilità del capo della Procura napoletana verso i drammi dei reclusi, è confermata dal suo messaggio di saluto del luglio dell’anno scorso alla giornata per l’emergenza carceri voluta dalle camere penali. In quell’occasione Melillo disse tra l’altro: “Chi non ascolta le voci di chi è in carcere si macchia di gravi responsabilità”. Per Melillo la buona condotta richiede attenzione: “In occasione della rivolta a Poggioreale, due magistrati del mio ufficio”, aggiunse Melillo, “si sono recati ad ascoltare le ragioni esposte civilmente da due detenuti. La legalità non si arresta di fronte al cancello di un penitenziario. Chi in Procura lavora sul carcere incontra le Camere penali, il garante nazionale, e costruisce con loro azioni concrete”. Dal punto di vista della sicurezza tra gli operatori volontari e gli altri soggetti che si occupano del recupero dei detenuti, vengono respinte tutte le possibili preoccupazioni. “Non saranno certo scelti detenuti a casaccio, ma persone che in carcere stanno compiendo un percorso di riabilitazione e che dovranno possedere precise caratteristiche”. Fronte avanzato - Insomma, l’esperimento napoletano si annuncia avanzatissimo nel suo genere perché se è vero che i detenuti ottengono ordinariamente permessi lavorativi anche in altri enti pubblici (Comuni in primis), ciò non è accaduto in una Procura di una grande città. Napoli potrebbe così costituire il fronte più avanzato di un progetto sociale per molti aspetti unico. Palermo. “Cotti in Fragranza”, riconosciuto progetto solidale 2019 dal Gambero Rosso redattoresociale.it, 9 gennaio 2020 Il progetto della cooperativa Rigenerazioni, nato dentro al carcere minorile Malaspina di Palermo, da un anno si è ampliato all’esterno con Casa San Francesco e il bistrot “Al fresco”. cotti in fragranza. Con l’energia che da sempre li ha caratterizzati e grande spirito di servizio, accolgono con gioia il riconoscimento del Gambero Rosso come progetto solidale 2019. E’ il gruppo del progetto sociale “Cotti in Fragranza” portato avanti dalla cooperativa Rigenerazioni con il coordinamento di Lucia Lauro e Nadia Lodato. Il progetto di economia circolare solidale, nato come biscottificio nel 2016 nel carcere minorile Malaspina di Palermo, da poco più di un anno ha aperto, infatti, una sede esterna all’interno del complesso storico di Casa San Francesco specializzandosi anche in prodotti freschi. Oltre, infatti, ai prodotti da forno, dentro Casa San Francesco vengono prodotte delle prelibatezze fresche per il servizio catering e per il bistrot Al Fresco, nel giardino dell’ex convento Casa San Francesco di Ballarò. Il biscotti dolci e salati vengono realizzati in parte dai giovani detenuti dell’Ipm di Palermo e in parte dentro il laboratorio di Casa San Francesco da giovani usciti dal circuito penale e richiedenti asilo. Il gruppo prepara ogni giorno inoltre i pasti per le mense dei tre poli dedicati ai senza dimora. Attualmente dentro il laboratorio lavorano 4 giovani guidati dallo chef Francesco Gambino mentre nel laboratorio dentro l’Ipm ci sono altri tre ragazzi. “Collaboro con questa realtà da circa 9 mesi - racconta Giovanni di 17 anni, uno dei ragazzi che cucina dentro il laboratorio di Casa San Francesco - e ne sono molto contento. Ho avuto un trascorso un po’ difficile e ora vivo in una comunità per minori: questa esperienza mi sta aiutando in tante cose facendomi migliorare sempre di più. Se in passato la mia impulsività mi ha fatto compiere alcuni errori, oggi, invece, grazie al progetto mi sento più autonomo e anche in grado di autogestirmi meglio. Oggi mi sento rigenerato perché con buona volontà e pazienza ho messo, a poco a poco, cuore e passione in un lavoro che mi piace sempre di più. Il riconoscimento del Gambero Rosso ci stimola ancora di più ad impegnarci per costruire il nostro futuro”. “E’ un riconoscimento che ci riempie di orgoglio e ci fa iniziare l’anno nuovo col piede migliore - afferma con soddisfazione una delle coordinatrici del progetto, Lucia Lauro - grazie soprattutto alla novità più consistente del 2019: l’apertura del bistrot Al Fresco nel cuore di Ballarò. E’ importante sottolineare che abbiamo sempre camminato con le nostre gambe e continueremo a farlo. Solo adesso stiamo proseguendo alla completa ristrutturazione del giardino del bistrot grazie al sostegno della fondazione San Zeno. Vogliamo dedicare questo traguardo al nostro chef Francesco Gambino che per noi è la figura chiave perché, con la sua grande competenza, sensibilità e inarrestabile forza, ci ha guidato facendo migliorare sempre di più la nostra cucina fatta solo da lui e dai ragazzi. Pur facendo la sua professione, tra l’altro, in termini di dedizione ai ragazzi per noi è come se fosse un educatore nato. La sua forte determinazione di adesione al progetto ha permesso, grazie ad un confronto partecipativo costante con noi, di farci crescere molto come azienda dedicata esclusivamente al percorso di vita nuova di questi ragazzi”. “E’ un riconoscimento inaspettato che ci riempie di gioia - afferma lo chef Francesco Gambino da poco più di un anno alla guida del laboratorio di Casa San Francesco - perché, solo a piccoli passi abbiamo raggiunto questo titolo prestigioso e significativo. Naturalmente, tutto ciò ci sprona sempre di più a continuare a fare nel migliore dei modi il nostro lavoro. Sicuramente per i ragazzi che seguo è una soddisfazione ancora più bella perché li motiva ad acquisire sempre più competenze nella cucina e nella ristorazione. Tra me e i ragazzi si è creata con il tempo una bella armonia di gruppo in cui ci si aiuta, ci si rispetta ed arricchisce a vicenda nella prospettiva di fare camminare sempre di più questa impresa sociale. I giovani sono diventati amici nel lavoro e anche fuori dal lavoro e questo è anche più bello”. “Avere avuto l’attenzione positiva del Gambero Rosso al nostro progetto - continua Nadia Lodato anche lei responsabile del progetto - ci ha sorpreso ma nello stesso tempo riempito di soddisfazione. In qualche modo viene premiata l’innovazione, l’approccio partecipativo e l’evoluzione rapida che ha avuto il progetto Cotti in Fragranza. Questo, infatti, pur essendo gestito da una piccola cooperativa, oggi riceve commissioni da tutta Italia e perfino anche dal Belgio. Considerato che la mole di lavoro sta crescendo stiamo pensando anche di ampliare le risorse umane dedicate alla produzione. Non escludiamo, infatti l’inserimento di altri ragazzi e poi da poco al nostro gruppo si è aggiunta una nuova chef pasticcera che è anche educatrice - un’assistente sociale con la passione della pasticceria che ha fatto la scuola di alta formazione nella pasticceria Cappello - che è impegnata dentro la realtà dell’Ipm Malaspina”. Chieti. Alla Casa circondariale presentazione del primo numero di “In carta libera” chietitoday.it, 9 gennaio 2020 Il progetto della Onlus “Voci di dentro” finanziato dalla Regione Abruzzo prevede una redazione composta da detenuti, giornalisti, studenti, educatori, mediatori e volontari. Sarà presentato oggi, giovedì 9 gennaio, alle ore 15, nella casa circondariale di Chieti il primo numero di In carta libera: il fascicolo di otto pagine inserito all’interno della rivista Voci di dentro. “Si tratta di un “percorso integrato di in-formazione e giornalismo sociale - spiegano i volontari dell’associazione che dal 2008 opera nelle carceri abruzzesi - attraverso laboratori di scrittura e giornalismo, informatica e webjournalism, grafica editoriale, fotografia e video si vuole fornire opportunità di formazione professionale e sociale a persone in stato di disagio/devianza”. Alla presentazione sarà presente la redazione giornalistica composta da detenuti, giornalisti professionisti, studenti, educatori, mediatori e volontari di Voci di dentro che operano nelle Case circondariali di Chieti e Pescara. Oltre alle persone detenute, collaborano al progetto di Voci di dentro l’ITC Galiani-De Stelich, il Liceo GB Vico, l’Uepe, l’associazione Granello di Senape Padova, le Case Circondariali di Chieti e Pescara. Massa Marittima (Gr). “Reati di gola”: marmellate e succhi di frutta fatti in carcere italiafruit.net, 9 gennaio 2020 Marmellate, verdure sottolio e succhi di frutta: questa la produzione del nuovo laboratorio di trasformazione alimentare inaugurato nella casa circondariale di Massa Marittima (Grosseto): dodici i detenuti coinvolti (su circa 60 reclusi nell’istituto penitenziario) in un percorso formativo di alta specializzazione. A fornire le materie prime le aziende agricole locali della rete associativa Pulmino Contadino. I prodotti porteranno l’etichetta “Reati di gola”, brand creato dagli stessi detenuti che hanno già lavorato in aula con più esperti, sia per la comunicazione e grafica che per la parte alimentare, nutrizionale e biologica oltre che di cucina. L’obiettivo è dare ai detenuti una “una buona formazione da potere spendere all’esterno”, ha spiegato la direttrice del carcere, Maria Cristina Morrone, che ha anche ringraziato Carlo Mazzerbo da cui ha ereditato il progetto insieme al passaggio di consegne alla direzione del carcere. Coinvolti nel progetto anche Slow Food condotta Monteregio, attiva nel carcere dal 2006, e la sede di Follonica del Cpia 1 Grosseto, il Centro per l’istruzione degli adulti che ha integrato nel programma formativo scolastico il progetto che collega l’istruzione alla formazione e quindi al lavoro. L’iniziativa ha avuto anche il contributo del ministero del Lavoro e delle politiche sociali insieme alla Regione Toscana, vincendo il bando regionale per il terzo settore del 2018. Ancona. A Montacuto la presentazione del libro “Lettera ad una giovinezza in catene” viveresenigallia.it, 9 gennaio 2020 Una lettera alla propria giovinezza reclusa. Sarà letta e presentata venerdì 10 gennaio 2020, alle ore 9.30, nel carcere di Montacuto di Ancona in una mattinata con momenti di ascolto, musica, riflessione e testimonianze, organizzata dalla Fondazione Gabbiano di Senigallia, in collaborazione con la Direzione della Casa circondariale. Davide Storlazzi, giovane detenuto, ha pensato di dare corpo ai suoi pensieri e alle sue emozioni scrivendo a se stesso, o meglio, alla sua giovinezza in catene per porle tante domande, per confrontarsi con lei su quanto vissuto, ma soprattutto sulla vita che sarà. Pagine dense di vita, di desideri e di aspettative, messe in fila nelle giornate di una detenzione che può trasformarsi in occasione per pensare al senso più profondo dell’esistenza. La ‘Lettera’ nasce all’interno degli incontri di giornalismo che da anni sono proposti all’interno dell’istituto penitenziario grazie alla Fondazione Gabbiano di Senigallia (editore del settimanale diocesano ‘La Voce Misena’) e che dà vita alla pubblicazione del periodico ‘Fuori riga’, pensato e scritto dai detenuti che partecipano al corso di giornalismo. La presentazione dell’elegante volumetto, curato dalla grafica di ‘Immaginario’ di Serra de Conti, sarà impreziosita dalle note della pianista Ilenia Stella, che interpreterà musiche dal vivo grazie alla disponibilità di un pianoforte (gentilmente concesso dalla ditta ‘Bevilacqua’), strumento che raramente trova ospitalità tra le mura di un penitenziario. Sarà presente anche il Garante regionale dei diritti dei detenuti, Andrea Nobili, insieme al personale istituzionale e volontario che opera all’interno della struttura. Lecce. La Befana in carcere per i figli dei detenuti di Sandra Signorella ilpaesenuovo.it, 9 gennaio 2020 La direttrice Russo: “Riconnessione familiare fattore di riabilitazione”. Arriva con qualche giorno di ritardo la Befana nel carcere di Lecce, ma porta ugualmente un clima di festa e costituisce l’occasione per qualche momento di serenità per i detenuti e i loro figli. L’iniziativa, giunta alla sua ventunesima edizione, è promossa dall’associazione di volontariato carcerario Comunità Speranza ed è sostenuta dalla Direzione Penitenziaria nell’ambito di un percorso di umanizzazione che può avere effetti positivi sul recupero del detenuto. Si inizia domani, giovedì 9 gennaio, e si prosegue per quattro pomeriggi, animati, come di consueto, da attività, giochi e spettacoli, in collaborazione con i ragazzi e le ragazze dell’Oratorio don Bosco di Campi Salentina e l’associazione Fermenti Lattici. Come momento conclusivo saranno consegnate 300 calze, al cui confezionamento hanno dato una mano diverse realtà. “Particolarmente generoso è stato il contributo della Parrocchia San Bernardino Realino di Lecce, della Pro Loco di Surbo e della Cgil provinciale - dicono i volontari di Comunità Speranza - Alla direttrice del carcere ed agli operatori penitenziari, che hanno sostenuto l’iniziativa e a tutti coloro che ci hanno accompagnato in questo percorso di solidarietà, rivolgiamo i nostri sentiti ringraziamenti”. “L’Istituto vuole rivolgere maggiore attenzione ai bambini che fanno visita al proprio genitore detenuto - afferma la direttrice Rita Russo. Ci stiamo impegnando affinché i piccoli (centinaia ogni settimana) arrivino in un luogo non ostile. Stiamo facendo attrezzando il carcere con spazi e occasioni per i bambini e per le loro famiglie, sposando convintamente proposte e progetti in collaborazione con associazioni ed enti pubblici e privati. Crediamo nella tutela dell’infanzia e nella riconnessione familiare come potente fattore di riabilitazione sociale dei nostri detenuti”. Roma. Grande successo per “Note in carcere”, chiusura a Rebibbia con Cirillo e Zamma Askanews, 9 gennaio 2020 Le canzoni di Marcello Cirillo e il cabaret di Mario Zamma, il 7 e 8 gennaio, hanno chiuso l’edizione di “Note in Carcere sotto le feste” portando musica e risate nelle carceri di Rebibbia femminile e Rebibbia Nuovo Complesso. Insieme a Manuela Villa, che si è esibita a il 30 dicembre a Regina Coeli e il 3 gennaio alla Casa Circondariale di Velletri, i due artisti sono stati protagonisti del progetto nato da un’idea di Franco Califano, promosso dal vice presidente del Consiglio regionale del Lazio, Giuseppe Cangemi, e realizzato con l’agenzia Vie Musicale. Cangemi ha ringraziato i direttori di Rebibbia Femminile e Nuovo Complesso, Maria Carmela Longo e Rosella Santoro, le amministrazioni di Regina Coeli e Velletri e il corpo di polizia penitenziaria “per aver consentito la realizzazione degli spettacoli. Come l’estate scorsa anche durante le festività abbiamo voluto donare un po’ di serenità ai detenuti e a tutto il personale che lavora nelle carceri. Le strutture che ci hanno ospitato hanno sempre garantito massima collaborazione per la buona riuscita degli eventi, i detenuti hanno accolto con grande partecipazione e affetto gli artisti i quali non hanno risparmiato voce e cuore dimostrando professionalità e di aver compreso fino in fondo il senso di questa iniziativa”. In estate tornerà l’appuntamento con Note in Carcere. Napoli. L’attore comico Cicchella dona il sorriso agli ospiti di Poggioreale Il Mattino, 9 gennaio 2020 Al pranzo di Natale del 23 dicembre aveva promesso ai detenuti che sarebbe ritornato e dopo due settimane Francesco Cicchella, l’attore comico reso famoso dalla trasmissione Made in Sud e vincitore di Tale e quale show, è riapparso nel carcere di Poggioreale. Questa volta con uno spettacolo tutto suo. L’evento, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, ha visto 154 carcerati dei vari padiglioni nella chiesa del penitenziario, gli stessi a cui l’artista aveva rivolto la promessa, con l’aggiunta di qualche new entry, facendo registrare così il tutto esaurito. Dopo i saluti della direttrice Maria Luisa Palma e di Antonio Mattone, è cominciato lo show. Accompagnato dal maestro Paco Ruggiero e con Gennaro Scarpato a fargli da spalla, Cicchella ha via via messo in scena i personaggi più noti del suo repertorio, a cominciare da Gigi D’Alessio, Tiziano Ferro e per finire con Michael Bublé, l’imitazione che forse lo ha reso famoso, intervallata da quella di Gigione, il cantante mattatore delle feste popolari, mischiando così il genere folk-dance del cantautore napoletano a quello pop-swing della star canadese. Ne è uscita una esilarante performance che è stata molto applaudita dal pubblico presente. Quindi il comico è sceso in platea coinvolgendo in modo empatico e spiritoso i detenuti e ne sono nate alcune gag divertenti che hanno riscosso applausi a più riprese. Tra il pubblico erano presenti anche alcuni operatori penitenziari, in un clima disteso e piacevole, a testimonianza di come queste iniziative facciano bene a chi è recluso ma anche a chi lavora tra quelle mura. “Con questo spettacolo voglio augurarvi l’inizio di un anno sereno” ha detto Cicchella in conclusione della esibizione ai detenuti, che gli hanno tributato una meritata e calorosa standing ovation. Migranti. A 10 anni dalla rivolta di Rosarno, dove niente è cambiato di Silvio Messinetti Il Manifesto, 9 gennaio 2020 Le terre della Piana di Gioia Tauro sono luoghi di sfruttamento bracciantile ma anche di insurrezione per la libertà. Quel novello “Euno” di origine senegalese che ha permesso agli inquirenti di Palmi di scoperchiare la filiera di schiavismo a San Ferdinando non è che l’ideale epigono degli insorti di Rosarno. Son trascorsi esattamente 10 anni da quando scesero in strada con rabbia per protestare contro il ferimento di uno di loro. Un “fratello”, a cui qualcuno “per gioco” aveva squarciato un braccio sparandogli con un fucile ad aria compressa. Allo stremo per essere picchiati e derubati, per essere sfruttati negli agri e costretti a vivere come bestie in edifici fatiscenti senza né elettricità, né acqua, né bagni, i migranti avevano dato sfogo alla loro collera. Sono passati dieci anni ma le condizioni di vita dei migranti non per nulla cambiate. La politica ha soffiato sul fuoco, quella di destra. Si è voltata dall’altra parte, quella di sinistra (il Pd di Marco Minniti è solo la punta dell’iceberg). Si è preferito gestire in malo modo l’emergenza, senza riuscire a creare un modello reale di integrazione. Non sono mancati, è vero, in questi anni storie di “resistenti” e di realtà che non si son limitate all’assistenzialismo ma che hanno lavorato per la tutela dei diritti dei migranti. Da Emergency con il poliambulatorio di Polistena ai Medici per i diritti umani (Medu) attivi nella baraccopoli di san Ferdinando, da Sos Rosarno alla cooperativa Valle del Marro. Ma la verità è che a livello centrale non c’è stata la volontà politica di dare soluzioni stabili al problema. I braccianti di Rosarno reclamano da sempre un tetto e la dignità. In cambio hanno ricevuto repressione e sgomberi. Perché come dice don Pino De Masi, parroco di Rosarno e referente di Libera a queste latitudini: “Il problema migranti nella Piana è solo una piccola scatola contenuta in una più grande che è la conduzione di servitù e di annullamento di ogni dignità umana su cui regge la produzione di ricchezza di gran parte del capitalismo. Ed è, a sua volta una piccola scatola contenuta in una ancor più grande che è la questione meridionale mai voluta risolvere in questo nostro paese”. Gli invisibili sono tanti e sparpagliati in ogni lembo della Piana. Non c’è più la baraccopoli, polverizzata dall’allora ministro Salvini. Ma i migranti vivono sempre allo stesso modo. Nel disinteresse assoluto del governi. I ministri dell’agricoltura sono come dei fantasmi da queste parti. Né l’attuale Teresa Bellanova né il predecessore Gianluca Centinaio vi hanno mai messo piede. Intanto, i raccoglitori invisibili della Piana, all’alba di ogni giorno, compaiono agli incroci stradali in attesa di essere presi dai caporali. Nei pressi del ponte sul fiume Mesima ma anche, nell’interno, lungo le stradine sterrate nelle campagne al confine tra le province di Reggio e Vibo. Vivono, si fa per dire, in casolari diroccati, in tuguri scrostati senza infissi, solo cartoni e coperte. Sono isole di emarginazione, senza diritti e senza futuro. Non solo a Rosarno ma anche a Rizziconi e Taurianova. In un casolare di Collina di Rizziconi, intorno agli ulivi non curati ci vivono in trenta. Eppure è confiscato alla ‘ndrangheta dal 2005. Poi abbandonato. In un altro terreno requisito alle cosche, in contrada Russo Spina di Taurianova, vivono più di 250 braccianti, in dimore diroccate, baracche, roulotte e perfino nelle porcilaie. Infine, in questo girone della disperazione, c’è la nuova tendopoli di San Ferdinando, realizzata nel 2017. È quella istituzionale. Attualmente ospita oltre 500 persone. Di fronte ci sono ancora i cumuli dei resti delle baracche, tonnellate di rifiuti pericolosi, lì da dieci mesi, dall’arrivo delle ruspe di Salvini. “I fondi promessi dal Viminale non li abbiamo mai visti”, denuncia il sindaco Andrea Tripodi. Solo promesse disattese in questo decennale. Tuttavia, don De Masi non perde l’ottimismo: “Non lasciamoci rubare la speranza. Non stiamo a guardare. Prima che sia troppo tardi, diamoci tutti da fare, sporchiamoci le mani per costruire il cambiamento. E allora in questo lembo di terra del sud ci sarà spazio e dignità per noi. Per i nostri giovani e per i dannati della terra”. Caporalato, la denuncia dei braccianti. Il procuratore: “La politica è assente” di Antonio Maria Mira Avvenire, 9 gennaio 2020 Per la prima volta nella Piana di Gioia Tauro due braccianti immigrati denunciano caporali e imprenditori. Così, dopo un’inchiesta durata più di un anno, e in coincidenza col decennale della rivolta di Rosarno, sono scattati gli arresti per 13 caporali africani e 7 imprenditori calabresi, anche grossi, e sono state sequestrate tre aziende agricole. È l’operazione Euno, la più importante per questo territorio, che prende il nome dallo schiavo siciliano che nel 136 a.C. guidò la prima guerra servile contro il possidente terriero Damofilo. Ma, denuncia il procuratore di Palmi, Ottavio Sferlazza, “c’è l’amarezza per il fatto che ancora una volta la magistratura è chiamata a una funzione di supplenza. Abbiamo interrotto un’attività criminale, assicurando giustizia a persone alle quali era stato negato il diritto di avere diritti e in particolare il diritto di affrancarsi dal bisogno. Ma - insiste il magistrato - dobbiamo registrare l’assenza della politica, quella alta, che dovrebbe risolvere queste condizioni di mancanza di accoglienza e integrazione che favoriscono lo sfruttamento”. Il procuratore dà atto “ai prefetti di essersi impegnati, all’umanità delle forze dell’ordine”, ricorda lo smantellamento della baraccopoli di San Ferdinando, “ma si continua a vivere in una condizione di emarginazione”. E accusa: “Dopo 10 anni non è cambiato molto”. Fa i nomi dei braccianti morti bruciati, ma anche dell’ultimo trovato morto in un campo “per una grave forma di Tbc, morto per il freddo, morto sul lavoro”. Lavoratori, insiste Sferlazza, “sacrificati sull’altare dell’inefficienza della politica”. Le indagini, condotte dai carabinieri della stazione di San Ferdinando e della compagnia di Gioia Tauro, col supporto del nucleo ispettorato del lavoro di Reggio Calabria, hanno permesso di raccogliere concrete prove su “un fenomeno odioso e inaccettabile”. Alle 5 del mattino presso la baraccopoli di San Ferdinando e il campo container di Rosarno, i caporali obbligavano i braccianti, anche quelli che avrebbero voluto usare la bici, a salire a bordo di furgoni dove ne venivano stipati più di 15, su tavole di legno, secchi di plastica, cassette e copertoni. In alcuni casi i carabinieri hanno scoperto alcuni lavoratori che, rannicchiati nel bagagliaio di station wagon, alla vista dei militari scappavo per non farsi identificare. Un’inchiesta “vecchia maniera”, hanno sottolineato gli investigatori, frutto soprattutto di pedinamenti, osservazioni, videoriprese, ma anche nascondendo dei Gps sui mezzi dei caporali per seguirli e identificare le imprese coinvolte. Qui i braccianti erano costretti a lavorare 7 giorni su 7, festivi compresi, per 10-12 ore, senza alcuno dispositivo di protezione e con ogni tempo. “Anche se piove, se diluvia, devono andare a lavorare”, è l’ordine che si sente in un’intercettazione. La paga giornaliera era di un euro a cassetta di frutta raccolta, comunque non superiore a 2-3 euro per ogni ora di lavoro. Così invece dei 50 euro giornalieri previsti da contratto nel ricevevano 25-30, ma poi ne dovevano consegnare 6 al caporale e altri 7 per non chiari “contributi”. Uno sfruttamento che si è riusciti a provare “grazie al coraggio di due immigrati che hanno avuto fiducia nelle istituzioni”, sottolinea il procuratore. Il primo è stato un senegalese picchiato e ferito con un forcone “solo perché aveva chiesto quanto pattuito col caporale”. Il secondo, un nigeriano, “aveva osato pretendere 297 euro che doveva avere”. Nove persone sono così venute a cercarlo per dargli una lezione ma lui è riuscito a scappare. Gli arrestati e gli indagati, in tutto 35, sono accusati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione di alcune ragazze nigeriane. Tra le accuse a un caporale e un imprenditore anche l’estorsione, per aver non solo non corrisposto quanto dovuto a un bracciante, ma anche per avergli impedito di venire a lavorare, “un licenziamento di fatto”. Davvero un trattamento di sottomissione, documentato anche dal filmato che riprende il baciamano dei braccianti a un caporale, risultato poi anche un imam. “Questa inchiesta- ci tiene a sottolineare il comandante provinciale dei carabinieri, colonnello Giuseppe Battaglia - ha il fine nobile di tutelare le fasce deboli. Non siamo qui solo per combattere la ‘ndrangheta, ma per proteggere tutti, italiani e immigrati”. Lo conferma il comandante Gruppo di Gioia Tauro, tenente colonnello, Andrea Milani. “Non abbiamo assolutamente trascurato il fenomeno del caporalato, e la lotta a questo fenomeno criminale”. E finalmente qualcuno collabora. “Non potevamo ascoltare inermi questa loro richiesta di aiuto - conferma il comandante della compagnia di Gioia Tauro, capitano Gabriele Lombardo. Così per 6 mesi abbiamo vissuto coi braccianti, alzandoci alle 4 col freddo e la pioggia. Anche nei giorni di allerta meteo, mentre scuole e uffici restavano chiusi, noi eravamo nei campi in mezzo al fango. Ora auspico che altri decidano di denunciare, noi saremo ben lieti di ascoltarli”. Intanto le tre aziende sequestrate saranno affidate ad amministratori che ne gestiranno l’attività mettendo in regola i lavoratori. Per loro la vita cambia. Ma l’inchiesta non è certo finita. Il governo scivola sulla Libia, Serraj diserta il vertice a Roma di Leo Lancari Il Manifesto, 9 gennaio 2020 “Non ci possono essere dialoghi o incontri con il criminale di guerra Haftar” attacca da Bruxelles Hafed Gaddur, ambasciatore libico presso l’Unione europea. Passano poche ore e anche da Mosca arrivano bordate pesanti nei confronti dell’Italia, accusata di fatto dal capo del gruppo di contatto russo per la Libia, Lev Dengov, di incapacità per non essere riuscita a organizzare in maniera corretta l’incontro tra il premier libico Fayez al Serraj e il generale Khalifa Haftar che ieri ha di nuovo scatenato raid aerei contro Misurata nel tentativo di aprirsi la strada verso Tripoli. Rischia di complicare ancora di più la crisi libica lo scivolone diplomatico compiuto ieri dall’Italia. Nel tentativo di scavarsi un ruolo di mediatore mostrandosi equidistante tra le parti, il premier Conte ha convocato a Roma i due principali protagonisti della crisi dimenticando, a quanto pare, di avvertire l’uno della presenza dell’altro. Il risultato è che mentre l’uomo forte della Cirenaica si è presentato all’incontro sapendo di non avere nulla da perdere, ma soprattutto di poter contare sul sostegno di Egitto, Russia e Francia, a Serraj la mossa italiana non è piaciuta affatto. Da Bruxelles, dove ieri ha incontrato il capo della diplomazia Ue Josep Borrell, anziché partire per Roma dove nel pomeriggio era atteso da Conte a palazzo Chigi, ha preferito tornare direttamente a Tripoli. A questo punto se davvero ancora esiste una possibilità che la situazione in Libia non peggiori ulteriormente con l’intervento turco a sostegno di Tripoli, questa è affidata agli ultimi scampoli di capacità diplomatiche che l’Unione europea deve dimostrare di possedere. Anche l’incontro avuto ieri al Cairo dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio con i colleghi di Egitto, Francia, Grecia e Cipro non ha dato infatti i risultati che forse il capo della Farnesina sperava. La riprova è nel fatto che a conclusione dell’incontro l’Italia non ha firmato il documento finale perché ritenuto troppo sbilanciato a favore di Haftar. venerdì a Bruxelles i ministri degli esteri dei 28 si riuniranno per un vertice straordinario nel quale, oltre che di Libia, si parlerà anche di Iran e Iraq, ma sembra difficile che possa uscire qualcosa di più di una data nella quale tenere la più volte annunciata conferenza di Berlino alla quale dovrebbe partecipare anche la Russia. Nel frattempo in Libia potrebbe scattare anche il cessate il fuoco a partire dalla mezzanotte di domenica. Da Istanbul, dove si trovavano per l’inaugurazione del gasdotto Turkstream, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan - che appoggia Serraj - e quello russo Vladimir Putin - che sostiene Haftar - lo hanno chiesto ai due contendenti a dimostrazione di come il premier libico e il generale della Cirenaica siano sempre meno determinanti nel decidere quanto accadrà in Libia. La possibilità di un cessate il fuoco non sarebbe intanto stata esclusa da Haftar. Stando a fonti di palazzo Chigi, infatti, il generale ne avrebbe parlato con il premier Conte nell’incontro di tre ore che i due hanno avuto ieri a palazzo Chigi. “E’ la precondizione per un dialogo, che è la sola soluzione possibile”, avrebbe spiegato Conte che non avrebbe nascosto il suo disappunto per l’attentato alla caserma dei cadetti libici. Per venerdì il premier ha convocato un vertice con maggioranza e opposizione per discutere della situazione nel Paese nordafricano ma anche di Ira e Iraq. Conte ha inoltre sentito il presidente della Repubblica Mattarella, aggiornandolo sul dossier libico. Dopo lo scivolone di ieri la Libia rischia però di diventare l’ennesima grana per il governo giallorosso che ieri sera ha cercato i ricostruire i contatti con Tripoli. Stando a una versione, dietro la decisione di Serraj di non fermarsi a Roma ci sarebbero state alcune fake news secondo le quali Conte avrebbe cercato di far incontrare il premier libico con Haftar. Ipotesi negata categoricamente da palazzo Chigi. Spiegazioni che non bastano alle opposizioni, con Matteo Salvini che dà al premier del “pericoloso incapace” “per una semplice questione di protocollo, prima ancora che di politica”. I nostri sonnambuli tra due guerre di Alberto Negri Il Manifesto, 9 gennaio 2020 I nostri sonnambuli si sono svegliati bruscamente con la testa nel vaso di pandora di una guerra voluta da Trump contro l’Iran e i piedi insabbiati nel conflitto libico sotto casa. Noi da inguaribili catenacciari vorremmo venirne fuori con un pareggio: ma è un’illusione. In Iraq dove abbiamo oltre 900 soldati e non sappiamo bene cosa farne ha già deciso Trump che vuole un maggiore impegno della Nato: figuriamoci se non ci accodiamo. In poche parole Trump vuole sostituire le truppe americane con quelle europee e atlantiche, mantenere quindi la presenza in Iraq, ridurre il rischio di perdite umane per gli Usa e trasferirlo agli alleati occidentali in modo da potere condurre a mano libera il prossimo capitolo della guerra missilistica e dei droni contro Teheran. Altro che pareggio, come può sembrare dopo la raffica di missili iraniani sulle basi Usa in Iraq: il presidente americano intende in futuro proseguire il conflitto e usarci a terra come carne da cannone. Che poi ieri nella vendetta iraniana per il “martire” Qassem Soleimani non ci siano state, secondo Trump, perdite americane appare tutto da verificare: se fosse vero questo sarebbe il raid più “telefonato” della storia recente. In Libia decidono per noi Erdogan e Putin mentre all’Italia, grazie probabilmente a una mediazione del Cremlino, è stata lasciata una passerella diplomatica con il generale Khalifa Haftar a Palazzo Chigi. Sarraj, che obbedisce ormai solo a Erdogan, non si è fatto vedere. Erdogan e Putin sono favorevoli a una tregua a partire da domenica in Libia e attraverso i loro alleati hanno di fatto in mano la sorte dei nostri interessi energetici libici mentre il leader turco ribadisce un diritto di sovranità sul gas che anche l’Italia estrae dalla piattaforma greca e cipriota. Mattarella nel suo discorso di Capodanno disse che siamo “protesi nel Mediterraneo” e “all’incrocio dei processi regionali”: qui è meglio non infierire perché i sonnambuli potrebbero avere improvvisi e fatali risvegli. Gli interessi nazionali italiani così sono stati stati serviti in salsa turca ad Ankara dove Putin è andato a inaugurare il Turkish Stream, che è bene ricordarlo, ha sostituito il progetto italiano della Saipem bloccato da Europa e Stati uniti. Agli italici sonnambuli resta il gasdotto Green Stream con la Libia e i pozzi petroliferi Eni la cui sorte dipende da come Mosca e Ankara manovreranno Haftar e Sarraj. Sul fronte Iran-Iraq i sonnambuli che tengono le nostre truppe laggiù, infilate nei bunker o spostate in velocità da una parte all’altra del Paese, sperano nel pareggio, ovvero che la raffica di missili iraniani sia l’episodio conclusivo seguito all’atto di guerra di Trump con cui ha assassinato il generale Qassem Soleimani all’aereoporto civile di Baghdad. Questo atteggiamento in cui rifulge il genio italico dell’inguattamento e una mentalità da catenaccio è accompagna dalla “campagna di rettifica” della stampa italiana. Secondo la quale: 1) Gli italiani sono benvoluti sia da iracheni che iraniani. Ignorando che in caso di guerra e attentati può accadere qualunque cosa, come ci insegnò nel 2003 la tragedia di Nassiriya. Inoltre gli italiani fanno parte della Nato e gli Usa impiegano basi come Sigonella e Niscemi per colpire ovunque senza informarci di nulla. Siamo coinvolti nelle guerre di Trump ma facciamo fatica a smarcarci 2) Nella campagna di rettifica rientra anche accreditare che sia stato l’Iran a cominciare questo conflitto e che il generale Qassem Soleimani stava organizzando devastanti attentati. Non solo. Si dice che l’Iran potrebbe procurarsi l’atomica ma si trascura di sottolineare che Trump ha stracciato l’accordo sul nucleare del 2015 perché voleva rinegoziarlo nella parte missilistica ma non ha fatto nulla al riguardo. Insomma si cerca in ogni modo di addossare la tensione nell’area agli iraniani. Così si coltivano nuove e pericolose illusioni. L’escalation tra Usa e Iran si può fermare ma siamo soltanto al primo capitolo della quarta guerra del Golfo preceduta da altre due guerre anti-iraniane, quella in Siria - alimentata dalla Turchia, dalle monarchie arabe e incoraggiata dall’ex segretario di stato Hillary Clinton - e in Iraq, condotta dall’Isis contro il governo sciita di Baghdad. In questi due Paesi il terrorismo è stato combattuto da iraniani, russi, Hezbollah, curdi siriani, siriani e milizie irachene che hanno fermato i jihadisti su due fronti: senza Soleimani il Califfato sarebbe entrato anche a Baghdad. L’unica cosa che ha in mente Trump da quando è salito alla presidenza è eliminare il regime iraniano su pressione di Israele e dell’Arabia saudita. Ha stracciato l’accordo sul nucleare civile del 2015 voluto da Obama, ma nasconde che Israele ha 200 testate atomiche, imposto sanzioni giugulatorie a Teheran per soffocarne l’economia, ha riconosciuto l’annessione israeliana del Golan e di Gerusalemme, stretto la mano al principe assassino Mohammed bin Salman, che è il suo maggiore acquirente di armi, e poi ha provocato Teheran uccidendo il vero numero due iraniano. La sua versione della storia che ha combattuto il terrorismo serve come fumo negli occhi per il prossimo strike. Francia. Muore assiderato a 10 anni nel carrello del jet per l’Europa di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 9 gennaio 2020 Trovato all’aeroporto Charles De Gaulle. Si era nascosto lì dentro in Costa d’Avorio, vestito con abiti leggeri. Air France: “Dramma umano”. Indaga la Gendarmeria. Il volo Air France AF 703 tra Abidjan, la capitale economica della Costa d’Avorio, e Parigi si è concluso in orario, poco dopo le 6 del mattino, martedì all’aeroporto Charles De Gaulle. Il tempo di fare scendere i passeggeri, e sono cominciati i preparativi per il viaggio in direzione opposta verso il Paese africano. I tecnici si sono avvicinati come al solito al carrello di atterraggio del Boeing 777, ma stavolta, intorno alle 6 e 40, la routine si è interrotta. Nel vano del carrello c’era il cadavere di un bambino. “Si direbbe intorno ai dieci anni”, hanno detto le autorità. Non aveva con sé documenti o lettere, per adesso la sua età e il nome sono sconosciuti e forse lo resteranno per sempre. Il bambino è morto per il freddo - a 10 mila metri di quota la temperatura arriva a meno 50 gradi - e per la mancanza di ossigeno, come tanti adolescenti (e qualche adulto) prima di lui, cercando di raggiungere l’Europa da clandestino. È una delle morti più terribili e inevitabili che attendono i migranti pronti a tutto pur di lasciare il loro Paese di origine. Fonti della sicurezza ivoriane fanno notare che l’aeroporto di Abidjan è dotato di controlli speciali per evitare questo tipo di tragedie, e a differenza di un adulto un bambino non può farsi passare per dipendente dello scalo per eluderli. Si sospetta quindi che un complice adulto lo abbia aiutato a passare, magari facendosi pagare, pur sapendo che il tentativo si sarebbe concluso con la morte del bambino. Casi come questo non sono purtroppo isolati. Negli anni Duemila accadde anche in Italia, all’aeroporto di Malpensa, e di recente ci sono state altre morti drammatiche in Africa e in Europa. I clandestini muoiono nel vano che non è riscaldato né pressurizzato, e vengono scoperti all’atterraggio, ma talvolta i cadaveri precipitano a terra non appena il pilota inizia le manovre per l’atterraggio ed estrae il carrello. Il corpo di un clandestino è stato ritrovato il 1 luglio scorso nel giardino di una casa di Clapham, poco lontano dall’aeroporto di Heathrow. Era caduto dal volo Nairobi-Londra della Kenya Airways, nel vano carrello la polizia in quel caso trovò uno zaino, dell’acqua e un po’ di cibo. Nel 2012 un altro clandestino, José Matada, era precipitato vicino a Heathrow da un aereo proveniente dall’Angola. Più di recente, un uomo è stato trovato senza vita nel vano carrello di un aereo della Royal Air Maroc atterrato a Casablanca dopo essere partito da Conakry, in Guinea. Air France ha espresso “compassione” e “deplora questo dramma umano”. Il corpo del bambino è stato portato all’istituto medico-legale, i gendarmi dei trasporti aerei (Bgta) stanno conducendo l’inchiesta, mentre un’indagine è in corso anche in Costa d’Avorio, dove Air France ha attivato i suoi uomini all’aereoporto di Abidjan per cercare di scoprire la falla nella sicurezza e evitare nuove tragedie. Il Premio Sacharov a Ilham Tohti, professore di economia, detenuto in Cina di Eugenio Parisi consulpress.eu, 9 gennaio 2020 Nelle scorse settimane nella sede del Parlamento Europeo di Strasburgo è stato consegnato il Premio Sacharov per la libertà di pensiero alla figlia di Ilham Tohti, Jewher Ilham. Il padre di Jewher, professore di economia, non ha potuto ritirare il premio personalmente perché, appartenente alla minoranza uiguri, è attualmente detenuto in Cina, condannato all’ergastolo, con accuse di separatismo. Dal 2017 sono oltre un milione gli uiguri detenuti in Cina in una serie di campi di concentramento, ove sono obbligati a rinunciare alla propria identità culturale, alla loro religione e alla loro lingua. Gli uiguri sono una etnia di religione islamica che vive nel nord-ovest della Cina, soprattutto nella regione autonoma dello Xinjiang. Toccante la storia dell’arresto di Tohti avvenuto nel 2014 all’aeroporto di Pechino mentre, con la figlia, stava imbarcandosi per un volo diretto negli Stati Uniti, dove l’economista avrebbe dovuto insegnare. Alla figlia di Tohti fu posta una alternativa partire o restare ed essere arrestata con il padre. La ragazza disperata piangeva ma mentre il padre veniva trascinato via ebbe il tempo di dire alla figlia: “Non piangere altrimenti gli agenti penseranno che le donne uiguri sono deboli”. Le ultime notizie del professore risalgono al 2017. Da allora più nulla. “Il mio papà - ha affermato Jewher - è stata interrogato, percosso… Non abbiamo più sue notizie dal 2017, non sappiamo dove si trovi. Ma io sento che è vivo e vivo è il suo spirito, uno spirito di pace e libertà”. Attualmente la ragazza vive a Washington, dove si è da poco laureata. Jewher, oltre a chiedere la liberazione del padre, ha espresso solidarietà anche per quanti sono oppressi nel Paese asiatico. “In Cina tante persone sono private della libertà: kazaki, cristiani, musulmani, tibetani. Pensate a quello che avviene a Hong Kong”. Ferme le Parole del presidente del Parlamento Europeo David Sassoli il quale senza mezzi termini ha chiesto il rilascio immediato e senza condizioni di Ilham Tohti. Il Premio Sacharov viene assegnato dal Parlamento europeo per ricordare la figura dello scienziato, scrittore e dissidente russo, Andrej Sacharov. Il premio il premio consiste in un assegno di 50.000 euro. Arabia Saudita. Frustato per le sue idee: Raif Badawi, il blogger dimenticato dal mondo di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 gennaio 2020 Domani Raif Badawi, il blogger saudita condannato per aver promosso un forum online, trascorrerà il suo giorno numero 2.786 in carcere. Sarà anche il quinto anno trascorso dalle 50 frustate che egli ricevette sulla pubblica piazza, a Gedda, il 9 gennaio 2015. Ironicamente, quello stesso giorno una delegazione dell’Arabia Saudita partecipava alla manifestazione di solidarietà con la redazione di “Charlie Hebdo”, decimata da un attacco terroristico. Un attacco contro la libertà d’espressione. Arrestato il 17 giugno 2012, dopo aver rischiato persino la pena di morte per “apostasia”, il 7 maggio 2014 Badawi è stato riconosciuto colpevole di “offesa all’Islam” e condannato a 10 anni di carcere, a 1000 frustate (50 a sessione per 20 sessioni) e a una multa di un milione di rial. La sentenza è diventata definitiva il 6 giugno 2015 (sei mesi dopo l’esecuzione delle 50 frustate!). Grazie a un’enorme mobilitazione internazionale, le altre 950 frustate non hanno avuto luogo. Dal momento dell’arresto sono passati sette anni e mezzo e Badawi è ancora in carcere. La moglie Ensaf Haidar, rifugiata politica in Canada insieme ai loro tre figli (Najwa di 16 anni, Terad di 15 e Miryiam di 12), porta avanti una tenace ma sempre più solitaria campagna per il suo rilascio. Alcuni dei post pubblicati da Badawi sul suo forum sono stati tradotti e pubblicati in Italia.