Domiciliari per poter accudire i figli disabili: deciderà la Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 gennaio 2020 Il 15 gennaio si discuterà della questione di legittimità sollevata dalla Cassazione. Si tratta del ricorso presentato da una donna con prole maggiorenne, affetta da handicap invalidante. Il 15 gennaio prossimo, la Corte costituzionale si occuperà della questione di legittimità, sollevata dalla prima sezione penale della Cassazione, relativa ad una delle norme dell’ordinamento penitenziario “nella parte in cui non prevede la concessione della detenzione domiciliare speciale anche nei confronti della condannata madre di prole affetta da handicap totalmente invalidante”. L’oggetto in esame è l’art. 47 quinquies dell’Ordinamento penitenziario e come giudice relatore sarà Marta Catarbia, la prima donna presidente della Consulta. Tutto è scaturito dal ricorso dell’avvocato Gianfranco Giunta che aveva chiesto la detenzione alternativa per la sua assistita, condannata in via definitiva per associazione mafiosa, sollevando la questione di incostituzionalità della norma che prevede diversa misura solo in presenza di figli minori di dieci anni. La Prima Sezione Penale della Cassazione, a marzo scorso, ha accolto la questione di legittimità costituzionale sollevata dall’avvocato Giunta e ha investito la Corte Costituzionale affinché intervenga sulla norma dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la possibilità di concedere la detenzione domiciliare alla madre condannata, per reati ostativi, con prole maggiorenne affetta da handicap invalidante. Il penalista calabrese, che da anni segue il caso di una madre condannata in via definitiva per reati di cui all’art. 416 bis, ha fatto leva sulla norma dell’ordinamento penitenziario che prevede la concessione della speciale misura alternativa della detenzione domiciliare a madre o padre condannati solo ed esclusivamente nel caso in cui i genitori abbiano prole di età inferiore a dieci anni e non già alla madre o al padre detenuti con figli adulti diversamente abili. L’avvocato Giunta aveva proposto istanza al Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria con la quale invocava, per la sua assistita, la concessione della detenzione domiciliare. Istanza però rigettata. A questo punto l’avvocato, unitamente al collega Guido Contestabile, ha deciso di ricorrere in Cassazione sollevando la questione di incostituzionalità della norma, per contrasto con agli articoli 3 e 31 della Costituzione chiedendo la sospensione del procedimento con trasmissione degli atti alla Consulta. La norma attualmente in vigore risulterebbe in contrasto con le previsioni del secondo comma dell’art. 31 della Costituzione, ai sensi del quale “la Repubblica protegge l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”. Inoltre potrebbe essere in contrasto anche con l’art. 3 della Costituzione, ed in particolare con il principio di ragionevolezza che è insito nel principio di uguaglianza, dal momento che da un lato consente, in caso di insussistenza di eccezionali esigenze cautelari e se sussiste assoluto impedimento del padre, che la madre detenuta possa ottenere la detenzione domiciliare per assistere i figli di età inferiore ai dieci anni, dall’altro, nella sussistenza dei medesimi presupposti, impedisce al genitore in carcere di assistere in regime di detenzione domiciliare il proprio figlio disabile, solo perché ha raggiunto l’età di dieci anni indicata dalla norma, come sbarramento alla concessione della misura alternativa della detenzione domiciliare. L’attuale disciplina, inoltre, potrebbe essere lesiva del principio di uguaglianza sostanziale in quanto in entrambi i casi le esigenze di cura ed assistenza sarebbero identiche. Dopo l’udienza pubblica del 15 gennaio, sarà la Corte Costituzionale a decidere. Da Gorizia a Trapani i migranti in rivolta per le condizioni dei Cpr di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 gennaio 2020 Sei persone arrestate per gli incendi a Torino. A Bari situazione fuori controllo. Aumentano i disagi dei migranti trattenuti nei Centri di permanenza e rimpatrio (Cpr). All’inizio dell’anno, in diversi centri sparsi nell’Italia ci sono state delle rivolte. Ancora una volta è accaduto nel Cpr di via Brunelleschi, a Torino. A meno di un mese dalle ultime rivolte, i migranti hanno ricominciato, sabato sera, la loro opera di demolizione del Cpr di corso Brunelleschi. Il fuoco aveva cominciato a divampare sul far della mezzanotte nelle aree verde e rossa per poi diffondersi anche all’area bianca dove sono trattenute complessivamente più di 100 persone. I vigili del fuoco hanno domato le fiamme e la polizia è stata impegnata, per una giornata intera, nelle operazioni necessarie a riportare la calma. Ora si sta valutando l’agibilità degli edifici. L’area gialla e quella viola, dove era scoppiata una rivolta a fine novembre, sono tutt’ora inutilizzabili e 60 persone erano state spostate in centri di altre città. Il 15 dicembre la protesta era stata invece nell’area rossa, dove i trattenuti sono più di una quarantina. A Capodanno, gli ospiti dell’area blu hanno incendiato dei materassi. Sei persone sono state arrestate dalla polizia per danneggiamento aggravato. Nel Centro di permanenza per il rimpatrio di contrada Milo a Trapani, la sera di giovedì 2 gennaio verso le 23.30 è avvenuta invece una rivolta che ha portato all’incendio di materassi e coperte in tre padiglioni, rendendo necessario l’intervento dei vigili del fuoco. Non risultano feriti e almeno una sezione del Cpr sembra sia ora inagibile. Pare che si sia trattato di una protesta in vista di un imminente trasferimento. Nel centro di detenzione, dalla capienza di 150 posti, sono attualmente recluse 45 persone, 24 delle quali erano state trasferite a fine novembre dal Cpr di Torino dopo la precedente rivolta. Ma anche dal Cpr di Gradisca d’Isonzo, riaperto il 16 dicembre, sono giunte notizie di resistenze ai trasferimenti attraverso atti di autolesionismo: alcuni reclusi avrebbero ingoiato lamette, palline da ping pong, sapone, e sarebbero stati ricoverati nell’ospedale di Gradisca, sorvegliati a vista per evitare tentativi di fuga. A Gradisca sono rinchiuse 65 persone provenienti in gran parte dai lager di Torino e Bari danneggiati dalle recenti rivolte. Sì, perché a dicembre, proprio al Cpr di Bari, alcuni migranti avevano incendiato tre degli ultimi quattro moduli rimasti sani dopo gli incendi dei mesi scorsi. Trenta migranti sono stati quindi trasferiti nel Cpr di Gorizia. La situazione del centro barese appare ormai fuori controllo e ci sono serie preoccupazioni per i lavoratori impiegati nella struttura in seguito all’unico modulo rimasto in piedi. I dipendenti della cooperativa che gestisce il Cpr barese hanno protestato recentemente per via delle condizioni di lavoro ed economiche, a quanto pare non del tutto mutate non essendo stati ancora pagati lo stipendio di novembre e la tredicesima. I migranti trattenuti nei Cpr, a differenza dei detenuti nelle carceri, non hanno possibilità di reclamare i loro diritti. Un problema già sottolineato dal Garante nazionale delle persone private della libertà, evidenziando come sia rimasto irrisolto il problema della mancanza, per i migranti, di uno strumento di ricorso per sollevare reclami in merito alle condizioni di trattenimento. Questa lacuna era già stata riscontrata nel 2013 dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e successivamente dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza Khlaifia e altri c. Italia, ma non sembra essere stata colmata. Per questo motivo il Garante ha raccomandato che venga prevista una procedura di reclamo che permetta di porre al vaglio di un’Autorità indipendente le questioni riguardanti le condizioni materiali di sistemazione nei Centri, le relative regole e l’esercizio dei propri diritti, ponendo massima attenzione alla manifestazione di volontà di accedere alla protezione internazionale. Ergastolo e dignità dei detenuti. Conversazione con Beppe Battaglia di Marianna Donadio informareonline.com, 8 gennaio 2020 Fine pena: 31.12.9999. Questa la dicitura che ha sostituito il tradizionale “fine pena: mai” che indicava la condanna al carcere a vita. La forma, però, non cambia la sostanza, presentando ugualmente agli occhi del detenuto la pena come definitiva e irrevocabile. A riaccendere il dibattito sull’argomento sono state la Corte europea dei diritti umani e la Corte Costituzionale; la prima ha dichiarato l’ergastolo un trattamento crudele, inumano e degradante, contrario ai più basilari princìpi dei diritti umani, mentre la seconda ha dichiarato incostituzionale la mancata concessione dei permessi premio a chi non collabora con la giustizia. Si è espresso a riguardo anche papa Francesco, che in un recente discorso al Vaticano ha definito l’ergastolo “una pena di morte nascosta”. Il tema ha coinvolto anche Amnesty International, Ong impegnata nella difesa dei diritti umani che ha organizzato a Roma il suo primo evento pubblico contro l’ergastolo e le condizioni dei carcerati. L’incontro verte sulla necessità di ribaltare la concezione di carcere come sistema punitivo. Infatti, se già Beccaria nel 700 era arrivato alla conclusione che la pena dovesse porsi uno scopo rieducativo, il nostro sistema penitenziario sembra ancora lontano dal rispettare questo principio di base. L’ergastolo nello specifico, spiegano i membri di Amnesty, nega la possibilità del reinserimento nella società, cosa che dovrebbe costituire lo scopo primario della reclusione. In questa occasione abbiamo potuto approfondire l’argomento con Beppe Battaglia, che ci parla della sua esperienza in carcere prima come detenuto, scontando 20 anni per lotta armata, e successivamente come volontario penitenziario, attività che ancora svolge. A lui abbiamo domandato da dove si debba partire per riformare il sistema carcerario affinché possa realmente svolgere il compito di rieducare. “Quando parliamo di rieducazione dobbiamo necessariamente chiederci chi rieduca chi. La polizia penitenziaria ha una formazione militare, pensare che sia in grado di educare qualcuno è una presunzione” - premette Battaglia - “Il carcere non può essere riformato, presume l’annientamento delle persone al suo interno” afferma citando il testo “Abolire il carcere” di Manconi, Anastasia, Calderone e Resta. Il saggio, infatti, paragonando per disumanità le condizioni carcerarie a quelle dei manicomi, ne suggerisce l’abolizione esattamente come avvenuto per questi ultimi. “Questo non vuol dire che le carceri vadano chiuse domani, ma si deve andare verso l’estinzione, riducendo gradualmente il numero dei reclusi. In Italia su 61.000 detenuti forse un migliaio ha motivo reale per stare in carcere. Gli altri potrebbero uscire, venire controllati in modo diverso, con costi più bassi e maggiore efficacia”. Ad affollare maggiormente le carceri, infatti, sono un gran numero di tossicodipendenti, immigrati, che scontano una pena a causa dell’incapacità dello Stato di affrontare le problematiche sociali che li riguardano, finendo dunque in quella che Battaglia definisce spesso una “discarica sociale”. Un esempio virtuoso di dimensione penitenziaria sono ad esempio gli I.C.A.T.T., Istituti a Custodia Attenuata per il Trattamento dei Tossicodipendenti, a cui hanno accesso anche detenuti condannati per altri reati, purché nonviolenti. Questi istituti sono caratterizzati da un numero massimo di 50 ospiti, seguiti da un’equipe di psicologi, educatori, medici e personale carcerario, che rimane per loro un punto di riferimento anche durante il reinserimento in società, preceduto da un processo di preparazione che li aiuti alla ricerca di un impiego. Queste condizioni, assieme alla possibilità di mantenere maggiormente i rapporti con i familiari, fanno diminuire in questi centri il tasso della recidiva da più del 70% a meno del 30%. Tutte queste condizioni non esistono negli istituiti tradizionali, dove la violazione dei diritti umani e costituzionali è all’ordine del giorno. La negazione dell’affettività e dei rapporti con i familiari, ci spiega Battaglia, è una delle pene che pesa di più sui detenuti. Un altro diritto negato, sostiene, consiste nella perdita dell’identità. “Il detenuto una volta entrato in carcere smette di essere responsabile delle proprie azioni, deve solo ubbidire” afferma. Tutto questo si aggiunge alle tante violazioni dal punto di vista fisico che, come ci confermano molti casi di cronaca. L’incontro con Battaglia si è concluso con la presentazione del suo ultimo libro, “Le tre libertà”, che racconta di un’evasione di cui lui stesso è stato tra i protagonisti. Nel testo presenta appunto tre tipologie di libertà: quella comprata, quella concessa, che si ottiene scendendo a patti e accettando compromessi, e quella conquistata con i propri sforzi e attraverso un processo di crescita. Quest’ultima è l’unica libertà reale e il carcere dovrebbe consentire ad ogni suo detenuto, qualsiasi reato abbia commesso, di provare a raggiungerla. Libertà religiosa negata ai detenuti non cattolici di Laura Pasotti osservatoriodiritti.it, 8 gennaio 2020 Poter professare il proprio credo è garantito a tutti dalla legge, anche ai detenuti. In ogni istituto c’è una cappella, un prete e si celebrano i riti cattolici. Ma per chi segue altre confessioni è tutto più complicato. E spesso la libertà religiosa non viene garantita come dovrebbe. Per chi non è cattolico, pregare in prigione diventa un’impresa. Anche se dovrebbe essere un diritto garantito a tutti i detenuti. In particolare, una delle maggiori difficoltà è dovuta alla mancanza di spazi adeguati. Le visite fatte dall’associazione Antigone nel 2019, infatti, hanno rilevato che in 40 istituti non ci sono luoghi dedicati a culti non cattolici. E così si è costretti a utilizzare sale polivalenti allestite all’occorrenza per la preghiera. “La mancanza degli spazi è un grosso problema e spesso, anche dove ci sono, il servizio non è garantito per mancanza di personale. In alcune carceri i musulmani fanno insieme la preghiera del venerdì, la più importante. In altre pregano a gruppi nelle sezioni. Ma in alcune hanno a disposizione solo la cella. Molto dipende dal direttore, la sua sensibilità è determinante”, denuncia Yassine Lafram, presidente dell’Unione delle comunità islamica in Italia (Ucoii). Nel 2015 l’Ucoii ha firmato un Protocollo di intesa con l’amministrazione penitenziaria che ha avviato una sperimentazione in otto carceri per favorire l’ingresso di imam o guide spirituali per i detenuti musulmani. “Noi già prima del 2015 eravamo presenti in alcuni istituti per garantire un diritto. Il Protocollo non ha fatto altro che riconoscere l’importanza del lavoro che già stavamo facendo, in modo volontario”, spiega Lafram. Oggi però si tende a parlare di islam e carcere soltanto in termini di radicalizzazione. “Si guarda ai detenuti di fede islamica solo in termini di prevenzione e spesso ci si dimentica di offrire un servizio che è garantito dalla Costituzione. Lo Stato dovrebbe intervenire in tutte le carceri per dare assistenza spirituale, ma in realtà oggi c’è un vuoto e, a volte, si scelgono imam fai da te tra i detenuti. Chi è in carcere può avere, in una certa misura, un risentimento verso le istituzioni o può ritenere ciò che vive un’ingiustizia. Quali valori può trasmettere una persona in quello stato mentale?”, si domanda Lafram. Il Protocollo con l’Ucoii è un segnale importante, ma non basta. “Serve il coinvolgimento delle comunità islamiche, un lavoro sistematico nelle carceri per dare assistenza spirituale, perché l’ascolto è di per sé prevenzione. E poi bisogna chiedersi se l’approccio securitario adottato verso i detenuti musulmani sta funzionando. Monitorare una persona significa farla sentire sotto accusa e questo alla lunga è rischioso: oltre a investire in sicurezza si dovrebbe investire nell’assistenza spirituale, perché una guida valida farebbe già una parte del lavoro di prevenzione”, sostiene il presidente dell’Ucoii. Un passo avanti potrebbe essere il riconoscimento delle comunità islamiche come ente religioso, così come previsto dall’articolo 8 della Costituzione. “Prima ci raccontavano che non era possibile per la mancanza di un unico interlocutore, ma per altri culti, come il buddismo, sono stati fatti accordi con più realtà. La verità è che manca la volontà di stipulare un accordo che, a cascata, potrebbe risolvere una serie di problemi”, dice Lafram. “Il carcere è una comunità che, tradizionalmente, attribuisce al tema della religione un ruolo rilevante e lo declina in maniera multiculturale. La religione è considerata uno strumento di emenda e lì più che altrove si dà rilievo all’appartenenza religiosa”. A dirlo è Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio sul carcere dell’associazione Antigone. Che precisa: “Al di là della dimensione spirituale, il ministro di culto è una persona che parla con te e di questo c’è una grande domanda in carcere”. Il diritto a non essere discriminati per il proprio credo è previsto dall’articolo 1 dell’Ordinamento penitenziario, mentre la libertà di professare la propria fede e praticarne il culto è stabilita dal 26, in cui però già si fa una distinzione: la norma dice che nelle carceri è assicurata la celebrazione dei riti del culto cattolico (in tutte c’è una cappella) e che in ciascun istituto c’è almeno un prete, mentre gli appartenenti a religioni diverse da quella cattolica hanno diritto di ricevere, su loro richiesta, l’assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti. L’Ordinamento penitenziario è una legge del 1975, quando né la società italiana, né, di conseguenza, il carcere, potevano dirsi multiculturali. I detenuti in Italia sono poco più di 61 mila, di cui circa un terzo stranieri. La maggior parte si dichiara cattolico, circa il 55%. I restanti sono divisi tra chi non dichiara la propria fede, poco più del 26%, e le altre confessioni: musulmani dichiarati (circa il 12%) e ortodossi (poco meno del 4%) in primis e, a seguire, pentecostali, avventisti del settimo giorno, testimoni di Geova, indù, buddisti e altri (dati del 15esimo Rapporto Antigone). C’è chi lo dichiara all’ingresso e chi invece preferisce tenere per sé il proprio credo, chi non segue alcuna confessione e chi ne abbraccia una durante la detenzione. “Il carcere è un luogo che riunisce un gran numero di persone in un momento di difficoltà esistenziale catastrofica in cui ci si aggrappa a quel che si trova, anche alla religione”, dice Scandurra. Libertà religiosa negata: mancano ministri di culto non cattolici - I cappellani cattolici sono 314, ben più di uno per istituto (circa 190). Quelli di altre confessioni entrano secondo due modalità: se c’è un’intesa con lo Stato non servono particolari autorizzazioni, come per valdesi, avventisti, comunità ebraiche, ortodossi e buddisti; se l’intesa non c’è, come nel caso dell’islam, serve un nulla osta dell’Ufficio culti del ministero dell’Interno. In totale sono circa 1.400 i ministri di altre confessioni che accedono al carcere, tra cui 47 imam e circa 500 testimoni di Geova (dati ministero della Giustizia). A questi si aggiungono gli assistenti volontari autorizzati dai provveditorati regionali - poco meno di 1.300 - e dai magistrati di sorveglianza, circa 15 mila (fonte: Relazione del ministero sull’amministrazione della giustizia 2018). Ci sono però istituti in cui non entrano ministri di culto diversi da quello cattolico: 9 (circa il 14,3%) secondo quanto rilevato da Antigone nelle visite effettuate nel 2019. “Vero è che laddove c’è soltanto il prete cattolico a lui si rivolgono anche i detenuti di altre confessioni, perché è l’unica risposta a un bisogno di parlare molto forte. Altra cosa è la pratica religiosa, che richiede orari e spazi adeguati che, non sempre, l’organizzazione del carcere può mettere a disposizione”, precisa Scandurra. L’esempio di Bologna - Nel carcere della Dozza di Bologna i detenuti musulmani riescono a fare insieme la preghiera del venerdì solo una volta al mese, nella sala cinema, mentre normalmente si fa in salette nelle sezioni o in cella. Nella sezione penale, però, lo spazio adibito a moschea è chiuso da oltre un anno. “Nei limiti delle inadeguatezze strutturali e organizzative, l’amministrazione cerca di mettere le persone detenute nelle condizioni di professare il loro credo. Da un paio d’anni, inoltre, è possibile acquistare la carne halal nel sopravvitto e durante il ramadan si va incontro alle esigenze dei detenuti che vogliono seguire il digiuno consegnando loro cibi non cotti che possono essere consumati dopo il tramonto. Per quanto riguarda la pratica religiosa, però, non ci sono spazi dedicati come accade per i cattolici e per i musulmani la preghiera viene guidata da detenuti scelti dall’area trattamentale tra coloro che non hanno espresso posizioni radicali”, spiega Antonio Ianniello, garante dei detenuti del Comune di Bologna. Prescrizione. Il Pd incalza Bonafede: ora faccia una proposta di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2020 Zingaretti: non può esserci il “fine processo mai”. Domani vertice decisivo. È nell’arco delle prossime ore che si potrà capire se la maggioranza sarà in grado di ricompattarsi sul fronte giustizia o se si aprirà una partita dalle conseguenze imprevedibili. Questa mattina, alle 11, scade il termine per la presentazione degli emendamenti al disegno di legge depositato da Enrico Costa, Forza Italia, con il quale si punta alla soppressione della riforma Bonafede della prescrizione, in vigore da una settimana, per tornare in larga parte alla versione Orlando. Non più blocco dei termini dopo il primo grado, ma allungamento della sospensione in caso di condanna, nel successivo grado di giudizio. È molto probabile che dalle opposizioni verrà presentato un emendamento che riprodurrà i contenuti del disegno di legge depositato dal Pd, sia alla Camera sia al Senato, per un ritorno temperato alla Orlando, allungamento della sospensione non solo in caso di condanna, ma anche di assoluzione. Mossa certo significativa sul piano dei contenuti, ma soprattutto al limite della provocazione su quello politico, visto che metterebbe il Pd nella scomoda posizione di votare contro sé stesso oppure in sintonia con le opposizioni. E domani pomeriggio è in agenda un vertice di maggioranza, con la presenza del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, per cercare di trovare la soluzione a un tema che si trascina da mesi, l’individuazione di soluzioni condivise per dare un po’ più di sprint al processo penale e, soprattutto, per assicurarne l’effettività. I due “azionisti di riferimento” del Governo, 5 Stelle e Pd, si sono già confrontati più volte, anche alla presenza di Conte, peraltro, ma le posizioni restano distanti. E ancora ieri sera il segretario Pd Nicola Zingaretti ha chiesto ai 5 Stelle disponibilità a un compromesso, nello spirito con il quale il Pd lo ha accettato sul taglio dei parlamentari, perché “in Italia non può esserci un “fine processo mai”. A un Bonafede che, da ministro della Giustizia e principale sostenitore della riforma, che non intende avallare soluzioni che di fatto condurrebbero all’estinzione del processo al posto del reato, con conseguenze pratiche però assai simili, si contrappone un Pd che considera insufficiente l’utilizzo della semplice leva disciplinare per assicurare la certezza della durata dei giudizi penali. Come pure insufficiente è considerata l’ultima proposta di Bonafede con una corsia preferenziale per lo svolgimento dei processi di appello per chi è stato assolto in primo grado oppure un accesso privilegiato all’indennizzo da eccessiva durata. Una distinzione, sottolinea il Pd, tra condannati e assolti, sarebbe invece un buon punto di equilibrio, se come conseguenza avesse il blocco dei termini solo per i primi. Il Pd al bivio della prescrizione di Stefano Folli La Repubblica, 8 gennaio 2020 Il tema della prescrizione abrogata è ormai l’emblema non solo della paralisi, ma della contraddizione di fondo in cui ristagna il governo Conte. In nome della logica di coalizione, ossia della necessità di concedere parecchio, se non quasi tutto, al partner “grillino”, il Pd ha accettato che il primo gennaio entrasse in vigore la legge Bonafede, destinata a creare una sorta di processo infinito dopo la sentenza di primo grado: anche nel caso di imputati dichiarati innocenti. Si tratta, come è noto, di un provvedimento a cui i Cinque Stelle annettono un valore, diciamo così, strategico e sul quale avevano ottenuto i voti di Salvíni nel precedente esecutivo Conte-1. Ma è anche una misura distruttiva per le basi dello Stato di diritto in un Paese in cui i tempi della macchina giudiziaria sono farraginosi e straordinariamente lenti. Il che pone seri problemi al Pd, il partito che nella maggioranza dovrebbe costituire l’ancoraggio dei principi liberali riassunti nella Costituzione. Alle interviste di Giuliano Pisapia e di Luciano Violante, molto circostanziate e severe nei confronti della legge, si è aggiunto ieri il commento di Emanuele Macaluso, un protagonista della storia del Pci che da anni è diventato la coscienza critica della sinistra nelle sue varie evoluzioni fino al Pd attuale. A suo avviso il testo Bonafede rappresenta la continuità tra il Conte-1 e il Conte-2: stesso presidente del Consiglio e stesso ministro della Giustizia per una legge votata dal governo Di Maio-Salvini e ora accettata di fatto dall’esecutivo Di Maio-Zingaretti. “Altro che la discontinuità richiesta dal segretario del Pd” chiosa Macaluso. Vero è che il Pd ha presentato una sua proposta che edulcora il provvedimento voluto dai 5S, ma intanto i buoi sono scappati dalla stalla. La legge, come si è detto, è in vigore e il compromesso trai due capi della coalizione è tutto da costruire, ammesso che sia possibile raggiungerlo. Sappiamo anche che Renzi non fa mistero di voler votare con il suo drappello a favore di una proposta abrogativa della legge anti-prescrizione presentata da Costa, Forza Italia. Quel che colpisce è che Macaluso invita il Pd a fare altrettanto: votare, cioè, persino il testo di Forza Italia come extrema ratio pur di non darla vinta a Bonafede e Di Maio. È un modo per mettere il centrosinistra di fronte a sé stesso, o meglio alle conseguenze che comporta stravolgere il senso dell’alleanza con il M5S. Un conto sono le misure tipiche di un governo che si affida all’amministrazione più o meno ordinaria con la volontà di durare il più a lungo possibile ed evitare le elezioni. Altro conto è se questo stesso governo, in omaggio alle pulsioni populiste del partner, cancella un cardine della civiltà giuridica prima di aver reso efficiente il processo penale. È la contraddizione di fondo che dimostra la difficoltà di una sintesi tra i due principali segmenti della coalizione. Nel Pd si sono affrettati a sottolineare che il Conte-2 è un governo di coalizione, non certo un monocolore Zingaretti, per cui bisogna saper cedere. Ma rinunciare a una battaglia parlamentare sulla prescrizione non equivale a riscrivere un qualsiasi emendamento alla politica fiscale o correggere le cifre di un finanziamento. Si può anche essere costretti ad ammettere che esiste una soglia non superabile per non tradire sé stessi. Riforma della prescrizione al bivio: salvare il governo o la reputazione dei Cinque Stelle? di Pietro Mecarozzi linkiesta.it, 8 gennaio 2020 Il vertice è slittato al 9 gennaio, in una settimana che si preannuncia cruciale per la maggioranza. Il M5s difende la legge Bonafede, entrata in vigore nel 2020, che abolisce la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, mentre adesso, per molti la tenuta di governo è nelle mani di Conte “La riforma della prescrizione del ministro Bonafede ha evidenti limiti e rischi, in particolare quello di un prolungamento dei processi di appello”. L’Onorevole del Pd Alfredo Bazoli raccoglie così il pensiero argomentato da Luciano Violante ed esposto poche ore fa in Piazza Montecitorio da Carlo Calenda, +Europa e Radicali. Il tanto atteso nodo prescrizione è slittato al 9 gennaio, in un vertice che si preannuncia cruciale per la maggioranza di governo. Il M5s difende la legge Bonafede, entrata in vigore il primo di gennaio, che abolisce la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, mentre come conferma Bazoli il “Pd chiede e attende una mediazione da parte del premier Conte”. Il rischio è quello di uno strappo tra Pd e pentastellati, sordi alle istanze sollevate dai gruppi sia di maggioranza sia di minoranza: “Non siamo riusciti a ottenere le modifiche che con vigore avevamo chiesto al Ministro Bonafede. Adesso però devono essere imposti dei paletti per evitare le distorsioni che potrebbe provocare la riforma” continua Bazoli. Senza compromesso il banco salta, e in aula si rischia un ribaltamento di fazioni con posizioni sempre più vicine, da parte dei dem, ora a Forza Italia, grazie al ddl a firma di Enrico Costa, ora a Italia Viva. Il Partito Democratico, in altre parole, non vuole essere considerato complice dei 5 Stelle nell’entrata in vigore di una legge che è stata approvata quando al governo c’era la Lega. Una legge, anche per l’ex presidente della Camera Violante, “sbagliata e ancora più sbagliato è giustificarla con il fatto che ci aiuterà ad avere processi più brevi, perché al contrario essi si allungheranno”. Avvocati, magistrati, oltre che politici e addetti ai lavori: la prescrizione potrebbe avere vita breve, legata a doppio filo alla tenuta di un governo sempre più sotto pressione. “Questo nodo giuridico va cancellato. È una norma sbagliata profondamente, in contrasto con i principi costituzionali” commenta a Linkiesta Ettore Rosato, vicepresidente della Camera dei deputati ed esponente di Italia Viva. Isolati dalle critiche, il M5s non intende tuttavia mollare la presa e l’unica panacea in grado di convincere Bonafede e ricucire la coalizione sembra essere Giuseppe Conte. “Avvisiamo da mesi che su questo punto siamo contrari: questa posizione, per altro, non è espressione solo di Italia Viva ma di un corpo consistente di magistrati e politici di altri partiti”, chiosa Rosato. Una crepa profonda quella della prescrizione che anche secondo Carlo Caldenda è frutto del “vivacchiare di un governo privo di una singola proposta che provenga dal Pd, affetto da un trasformismo che si palesa sia per i provvedimenti economici sia per la prescrizione”. L’effetto boomerang, pertanto, è dietro l’angolo: la riforma parte con le polveri bagnate, in quanto è proprio la conditio sine qua non a mancare. Quella del Movimento 5 Stelle, non solo per Salvini che aizza gli avvocati contro gli ex alleati, per molti è l’ennesima acrobazia di propaganda in grado di canalizzare un malcontento generale dei cittadini nei confronti delle istituzioni di giustizia e di un sistema di lungaggini oggettivamente estenuante. Il nodo gordiano delle tempistiche (non vengono ridotti i tempi troppo lunghi delle indagini dei processi), così come un rovescio della medaglia che può rendere eterni i processi successivi a quello di primo grado (dopo che il reato cade in prescrizione, si perderebbe l’interesse a procedere con un secondo grado di giudizio), potrebbero tradurre la picconata pentastellata in un ulteriore ingolfamento degli uffici giudiziari. Riuscendo, se possibile, a ingolfare ancor di più il già problematico sistema nazionale. Le inadempienze dello Stato sui tempi dei processi non ricadano sugli imputati di Francesco Palazzo* Il Dubbio, 8 gennaio 2020 Si dovrebbe differenziare la prescrizione sostanziale da quella processuale e fissare l’ideale durata ragionevole. Mi ero finora trattenuto dall’intervenire sull’inflazionato tema della prescrizione. Sia perché si poteva nutrire qualche speranza che il mutato quadro politico correggesse finalmente la sbandata, sia soprattutto perché è troppo alto il tasso d’inquinamento della discussione e troppo eterodosse sono le mie convinzioni in materia per aggiungere un’ulteriore voce al dissonante coro in materia. Ma, oggi, assistendo all’inconcludenza del dibattito e verosimilmente al rischio di un compromesso al ribasso, metto da parte le mie esitazioni seppure malvolentieri. L’inquinamento subìto da questo serissimo problema è duplice. Prima di tutto, politico: e su questo mi pare inutile e uggioso insistere ulteriormente tanto evidente e fuorviante è la posta politica in gioco con la disciplina della prescrizione. Poi, o forse ancor prima, l’inquinamento è concettuale. Collegare la prescrizione e la sua disciplina alla durata dei processi non mi pare corretto: certamente il nesso di fatto sussiste, ma farne la ragione fondamentale della riforma non può che condurre all’impantanamento in cui ci troviamo. La normativa sulla prescrizione non può né inseguire i tempi del processo, col rischio di arrivare dove è arrivato il legislatore dell’anno scorso; né tentare di influire sulla loro riduzione o ragionevole contenimento, col rischio di esonerare le forze politiche dall’agire sull’unico piano doveroso che è quello delle strutture e degli organici oltreché dei meccanismi di deflazione processuale. Una riforma “ragionevole” della prescrizione dovrebbe obbedire solo alle logiche interne dell’istituto, che sono legate al significato del tempo nella vicenda punitiva. E allora si dovrebbe differenziare tra prescrizione “sostanziale” e prescrizione “processuale”. Nella prima i tempi non possono che essere relativamente lunghi e proporzionali alla gravità del reato, ben potendo la memoria del fatto criminoso e la correlativa esigenza repressiva protrarsi nel tempo in relazione alla gravità del fatto e all’eventualità di una tardiva scoperta del reato. Nella prescrizione processuale, invece, i criteri determinanti per stabilirne i tempi, fatte salve le necessarie e poche parentesi di sospensione dovute ad impossibilità obiettiva e specifica di procedere, dovrebbero essere altri. E precisamente: da un lato l’assunto, formulato già da Carnelutti e mai come oggi attuale, che il processo è di per sé pena; dall’altro il principio per cui le inadempienze dello Stato nel rendere “ragionevoli” i tempi del processo non possono ricadere sulle spalle dell’imputato. Insomma, la “pena processuale” non può durare più o meno a seconda di quanto l’ordinamento sia riuscito o no a contenere la durata del processo. Mi parrebbe davvero incivile l’idea di far pagare al cittadino imputato (che non è presunto colpevole!) tutte le magagne e le inefficienze della macchina giudiziaria. I tempi “ragionevoli” del processo sono un obiettivo a priori cui deve mirare il funzionamento della macchina e la prescrizione non si regola sullo stato di fatto, anche se intollerabile, bensì sull’ideale durata ragionevole: e non viceversa. Con la conseguenza che i tempi della prescrizione processuale non potranno che essere assai più brevi di quelli della prescrizione sostanziale. Invertire i termini mi parrebbe un’espressione d’inciviltà: significherebbe strumentalizzare la persona a fini di tenuta di un sistema che non si riesce altrimenti a rendere “ragionevolmente” funzionante. L’argomento poi che l’instaurazione del processo, manifestando l’interesse punitivo dello Stato, consentirebbe di bloccare il tempo processuale (e dunque la prescrizione), mi è sempre parso non convincente perché artificioso con quel suo carattere antropomorfico di uno Stato che si sveglia dal sonno e si mette all’opera sua. E comunque, anche se fosse possibile parlare in termini di risvegliato interesse alla repressione, non sarebbe questo argomento che potrebbe prevalere sull’altro di non esporre il cittadino alla pena processuale per un tempo maggiore di quanto imponga la “ragionevole” necessità processuale e non già l’irragionevole durata fattuale dei nostri interminabili processi. Privilegiare l’interesse dello Stato modellando la prescrizione processuale sulla patologia dei nostri processi significherebbe invertire i piani della questione e forse anche della relazione Stato/ cittadino. Cioè, insomma, regredire di qualche secolo. *Emerito di Diritto penale Università degli Studi di Firenze I giudici devono saper comunicare di Luca Tescaroli Il Fatto Quotidiano, 8 gennaio 2020 Nella fase iniziale della mia attività professionale, presso gli uffici giudiziari di Venezia, avevo maturato la convinzione che il magistrato dovesse parlare solo attraverso i propri provvedimenti, perché le indagini e i processi penali vengono svolti per giungere a una sentenza che affermi o escluda la responsabilità in relazione a fatti specifici. Una volta assunto le funzioni di sostituto presso la Procura di Caltanissetta, mi sono reso conto che il problema della comunicazione avrebbe dovuto essere affrontato anche in maniera diversa per il raggiungimento dei fini istituzionali dell’amministrazione della Giustizia: non poteva essere risolto esclusivamente sulla base dei provvedimenti. In Sicilia - una terra lontana da Firenze, da Roma e da Venezia, minata da una gravissima sfiducia nello Stato e nei suoi organi - diventava fondamentale comunicare quello che noi, rappresentanti di un’istituzione, facevamo e perché lo facevamo, per sottolineare la volontà di non riconoscere spazi di impunità all’agire mafioso in tutte le sue proiezioni, ivi comprese quelle che permeavano la politica e la Pubblica amministrazione. Era un modo, infatti, per sottolineare la presenza dello Stato e, al contempo, per contrastare l’interesse di Cosa Nostra al silenzio attorno al suo operato. Un tale agire implica che la divulgazione delle notizie, da parte del magistrato, venga effettuata una volta venuto meno l’obbligo del segreto. Ho voluto ricordare la mia esperienza personale per spiegare concretamente perché penso che noi magistrati abbiamo non solo il diritto, ma anche il dovere di comunicare gli esiti dell’attività di giustizia e di sottoporre il nostro operato al controllo sociale, vale a dire al giudizio dei cittadini. Tale controllo è un indispensabile contrappeso all’indipendenza e all’autonomia della magistratura. In una democrazia i cittadini hanno il diritto di sapere che cosa si stia facendo per scoprire gli autori di un delitto eclatante o i responsabili di una vicenda economico-finanziaria che abbia danneggiato migliaia di persone, o un delitto riconducibile ai sodalizi mafiosi o al terrorismo, perché sia stata tratta in arresto una persona che rivesta una carica pubblica. E ciò vale, in particolare, per gli uffici di Procura. Il controllo sociale è un aspetto del principio di responsabilità che vale per chiunque eserciti un potere. Ed è evidente che in questo caso si confrontano plurimi interessi di rango costituzionale che devono trovare un punto di equilibrio: il diritto di difesa, il diritto a un giusto processo e la presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva; la libertà di manifestazione del pensiero; il principio che la giustizia è amministrata in nome del popolo in uno alle disposizioni sullo statuto dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero; il diritto alla riservatezza della vita privata e familiare di tutti i soggetti del processo (indagati, imputati, vittime e persone offese), con il conseguente obbligo di adottare tutte le misure utili a evitare l’ingiustificata diffusione di notizie e immagini potenzialmente lesive della loro dignità. Le risultanze delle indagini offrono alla pubblica opinione e al dibattito democratico una massa di conoscenze che possono essere utili o addirittura preziose per la crescita sociale e civile del nostro Paese. L’interlocuzione pubblica deve avere quale unico ed esclusivo scopo quello di comunicare la giustizia al cittadino, evitando di inquinare con interessi estranei (del magistrato odi terzi) tale finalità di interesse generale. Non può essere ricercato il consenso popolare e i propositi di creazione di un’immagine mediatica a fini di promozione personale, come del resto la creazione di rapporti privilegiati tra singoli magistrati o uffici e una o più testate giornalistiche. Sotto altro profilo, sarebbe auspicabile che il Paese disponesse di un’informazione autenticamente libera e attenta a evitare improprie influenze sul giudice e sul pubblico ministero. Ritengo che l’obiettivo della comunicazione dovrebbe essere quello di dare dell’attività giudiziaria un’immagine comprensibile, ragionevole, non condizionata dai conflitti della società. E quindi il magistrato deve essere capace di parlare in modo chiaro, ragionevole ed equilibrato, dimostrando, al contempo, di essere a sua volta capace di ascolto, cercando la spersonalizzazione della comunicazione. L’esistenza di un interesse pubblico a comunicare la giustizia e le modalità con le quali debba avvenire sono state riconosciute a livello europeo da numerosi documenti. Credo che il magistrato debba essere intellettualmente un uomo libero e che come tale possa esprimere, con la dovuta sobrietà derivante dalle funzioni svolte, le proprie convinzioni nel dibattito pubblico, allorché si tratti di questioni concernenti la giustizia e il suo funzionamento, perché ha la possibilità di fornire un contributo sulla base dell’esperienza maturata. Se il giudice è un “eroe”, la sentenza è più giusta? di Iuri Maria Prado Il Riformista, 8 gennaio 2020 Chi critica il lavoro di certi magistrati è esposto a un’accusa molto sleale: e cioè che quella critica attenta alla legittimazione di uomini che mettono a rischio la loro vita. Si dice: quelli sono eroicamente impegnati per il bene di tutti, e tu ti permetti di fargli le pulci. È un’accusa sleale perché criticare un comportamento o un provvedimento di un magistrato non significa negare che il suo sia un lavoro pericoloso, né tanto meno rinunciare a pretendere che sia rigorosamente protetto. Ma un’indagine sbagliata non diventa corretta solo perché la ordina un magistrato che vive sotto scorta; una sentenza ingiusta non diventa buona solo perché scritta da un giudice eroe. È un discorso difficile, ma finalmente bisogna farlo. Non è impossibile ritrovare prova di atti eroici nella vicenda di qualche aguzzino nazista: pure, non si crede che ciò basti a impedire il dovuto giudizio sulle sue responsabilità. O sì? E non c’erano forse eroi tra quelli che evangelizzavano con la spada? Pure, non rinunceremmo a fare la storia dei loro crimini solo perché hanno sofferto la rivolta dei selvaggi. O sì? Non sono paragoni impropri: perché anche in quei casi, come sempre nei casi di ingiustizia, la violenza, l’arbitrio, la sopraffazione sono giustificati in nome di un bene supremo, di un interesse superiore. E si dica se questo non avviene anche da noi e oggi. Si dica se l’ingiustizia in Italia, quando non è puramente e semplicemente negata o sottaciuta, non pretende di giustificarsi nel nome di questo o quel fine supremo: la vittoria sul crimine organizzato, il trionfo dell’onestà sulla corruzione, l’affermazione della politica sana su quella impresentabile. E tutto questo, appunto, condotto in modo incensurabile da magistrati “eroi”. Dovrebbe dispiacere innanzitutto al magistrato l’idea che l’ingiustizia possa trovare giustificazione nel suo eroismo. E se quest’idea non gli dispiace, allora il rischio è che il suo eroismo sia non solo giustificazione, ma causa di ingiustizia. Omicidio stradale. Non saranno le super-pene a cambiare il modo di fare di Danilo Paolini Avvenire, 8 gennaio 2020 A marzo saranno quattro anni dall’entrata in vigore del reato di omicidio stradale. Non aggravante, si badi, ma reato a sé stante, previsto dall’articolo 589-bis del Codice penale che punisce con il carcere da due a sette anni “chiunque cagioni per colpa la morte di una persona con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale”, pena che aumenta (da 8 a 12 anni) se il delitto è commesso “in stato di ebbrezza alcolica” o di alterazione indotta da droghe. La serie impressionante di vite umane stroncate da investimenti automobilistici in queste ultime settimane mette in discussione non tanto l’efficacia della sanzione in sé, ma la filosofia di fondo: affidarsi al solo inasprimento delle pene per affrontare fenomeni sociali gravi e spaventosi. È un po’ il discorso che si fa in alcuni Stati degli Usa, dove si conta sulla pena di morte per arginare omicidi e stragi, ma poi la violenza continua a imporsi come diffuso “stile di vita” e le armi automatiche si comprano nei supermercati. Per sua definizione, la repressione non previene. Sì, si può contare sull’effetto deterrente, ma per funzionare deve restare in piedi almeno un po’ di stigma sociale, di riprovazione collettiva. Precedenti al fatto, s’intende, in quanto a tragedia avvenuta tutti sono pronti a indignarsi o a gridare contro chi era al volante, con i soliti eccessi barbari e, magari, senza ancora sapere come siano andate le cose. Il fatto è che siamo ormai come anestetizzati, abituati a certi comportamenti scellerati divenuti di massa. E non si tratta di alcune zone del Paese, come purtroppo la geografia tragica della cronaca sta a dimostrare. Si va dalla “semplice” inciviltà alla follia potenzialmente omicida, dall’auto lasciata in doppia o tripla fila (“ma solo per pochi minuti, ero nel negozio qui davanti...”) al sorpasso con la doppia striscia continua, dal parcheggio negli spazi riservati ai disabili o sulle strisce pedonali alla circolazione contromano (“ma erano pochi metri!”). Si potrebbe continuare, purtroppo: il messaggio sul cellulare (sempre “un attimo”), l’alcol (“solo due bicchieri”), la droga (i fiumi di cocaina che inondano le nostre città hanno un sicuro impatto, di certo non positivo, sui comportamenti al volante e al manubrio). Soprattutto nei grandi centri urbani, si esce di casa consapevoli dei seri rischi che si corrono. A Roma, per esempio, ci sorprendiamo spesso con la mano a mezz’aria in segno di ringraziamento all’automobilista che si ferma all’attraversamento pedonale, quasi fosse una cortesia che ci usa. E alla fine, paradossalmente e purtroppo, lo è: la regola sta diventando l’eccezione. Di fronte a una simile regressione, avvenuta gradualmente, la politica non ha saputo che rispondere come ha fatto con tante altre materie: con la scorciatoia facile facile, e perciò inefficace, delle “pene più severe”. Se contassimo tutte le volte in cui le pene sono state inasprite, dovremmo concludere che il nostro è il Paese più virtuoso del mondo. Ma sappiamo ormai che si tratta soltanto di un’illusione. La sanzione è necessaria, naturalmente. Ma accanto alla risposta penale, anzi prima, serve anche altro, molto altro. Non si cambiano le teste e i cuori delle persone per legge, è indispensabile uno sforzo collettivo, un cambiamento generale di mentalità, una nuova cultura della comunità. E considerando quanto abbiamo ormai eroso di quel patrimonio umano e civile che l’Italia era stata capace di ricostruire sulle macerie della dittatura e della seconda guerra mondiale, si tratta di un’impresa titanica che dovrà necessariamente partire dal ruolo educativo della famiglia e dal lavoro fondamentale della scuola. Nel suo messaggio di Capodanno, il presidente della Repubblica ha chiesto a tutti di sviluppare “una cultura della responsabilità”. Almeno proviamoci. Alberto Savi dopo 25 anni passa Natale in famiglia: è un’altra persona, ma scattano le polemiche di Tiziana Maiolo Il Riformista, 8 gennaio 2020 Ci risiamo. Ogni volta che si pronunciano le parole “permesso-premio” è come agitare il classico drappo rosso davanti al toro. È capitato nei giorni scorsi alla notizia che, dopo 25 anni di carcere, l’ergastolano Alberto Savi aveva trascorso il natale in famiglia. Savi è il minore dei tre fratelli che sul finire degli anni Ottanta insanguinarono l’Emilia con rapine, ferimenti, omicidi. Si chiamavano la “banda della Uno bianca”. Erano poliziotti, erano feroci. Sono stati arrestati, processati, condannati all’ergastolo. Il maggiore dei tre, Roberto, ha chiesto per due volte la grazia, gli è stata rifiutata. Alberto, il minore, era già uscito in permesso altre due volte, ma il fatto era passato inosservato. Ma questa volta la sua uscita dal carcere ha coinciso casualmente con la data dell’uccisione di tre carabinieri, che venivano commemorati proprio negli stessi giorni. E la commozione si è trasformata in rabbia, non solo da parte dei parenti delle vittime, ma dal solito contorno di giornalisti, esponenti politici, magistrati. Ma la rabbia non può ispirare il legislatore né il magistrato. E neanche le parti civili, crediamo. Anche se è più difficile dirlo. Perché è vero che, in questo come in altri casi, gli assassini sono pur sempre vivi e le vittime sono morte. Ma la giustizia ha funzionato, visto che i colpevoli hanno avuto un regolare processo e sono stati condannati alla pena massima prevista dal nostro ordinamento. In cui non è contemplata la pena di morte, per fortuna. E siamo sicuri che nessuno tra i parenti delle vittime che protestano ogni volta che un condannato per un grave delitto ottiene un permesso di uscita dal carcere sarebbe favorevole al ripristino della pena capitale. Nessuno vuole vendetta, si sente ripetere, ma solo “giustizia”. Pure, la frase è sempre la stessa: buttare via la chiave. Cioè, inconsapevolmente, pur non volendo uccidere si vuole creare i sepolti vivi. Chi ha ucciso deve a sua volta essere ucciso, lasciato a languire in una sorta di segreta fino a morirne. Senza speranza, quasi una sorta di Dorian Gray mummificato nell’immagine di come era quel giorno, quando era giovane, spavaldo e assassino. Il suo invecchiamento non è previsto, e così il suo cambiamento. Alberto Savi, che ieri era l’immagine stessa di Caino, oggi ha 54 anni e ha trascorso metà della sua vita in carcere. Secondo le statistiche della natalità oggi in Italia, ha una previsione di vita di circa altri 30 anni. Se ha ottenuto già tre permessi, significa che il magistrato di sorveglianza, e con lui tutta la squadra che ha osservato il suo percorso, ha rilevato il cambiamento. E non crediamo che oggi lui si rimetterebbe mai dentro una Uno bianca con le armi in pugno. È un’altra persona, e ha scontato 25 anni di carcere, una vita. Non è giunto il momento di dare concretezza all’articolo 27 della Costituzione, di crederci davvero? O consentiamo alla rabbia, quella dei parenti ma anche quella di giornalisti-politici-magistrati, di farsi legislatore e giudice? E quindi di comminare, nei fatti, una nuova forma di pena di morte? Ma la rabbia non è figlia unica, è gemella siamese della vendetta, la vendetta impotente dello Stato che non riesce a processare in tempi congrui, a dare giustizia a colpevoli e innocenti e neanche alle vittime dei reati. Di fronte al proprio fallimento, di fronte all’ipocrisia della finta obbligatorietà dell’azione penale, di fronte all’incapacità di applicare processi brevi e misure alternative, si sceglie la via della vendetta. Che cosa è se non vendetta, come nella favola del lupo e l’agnello, nei confronti dei soggetti deboli del processo, cioè l’imputato e la vittima, l’abolizione della prescrizione, il processo eterno? La vendetta è l’opposto della giustizia. La terza sorella è meno conosciuta delle altre due, è la paranoia, quella che fa invocare (si potrebbero citare tanti famosi processi) la ricerca dei mandanti, ogni volta che una sentenza non ci soddisfa del tutto. Capita nei processi sulle stragi o sui grandi eventi come sciagure ferroviarie o incendi. La ricerca paranoide del capro espiatorio “in alto” è molto consolatoria ma non porta lontano. Come del resto la rabbia e la vendetta. Perché quando le tre sorelle, rabbia, vendetta e paranoia entrano dalla porta, è la giustizia a uscire dalla finestra. Omicidio Mattarella, finché non verrà fuori la verità in Sicilia regnerà l’oscurità di Calogero Mannino Il Riformista, 8 gennaio 2020 Il tragico attentato che quarant’anni fa ha stroncato la vita di Piersanti Mattarella ha aperto una ferita non cicatrizzabile. Non soltanto per i familiari più intimi. Ma anche per una cerchia, che il tempo restringe, di compagni della sua vicenda politica (di questa cerchia faccio parte anch’io). Tutti fortemente interessati alla ricostruzione della verità su questo assassinio, le cui conseguenze non si sono ancora esaurite, e del contesto d’insieme in cui fu compiuto. Quando un avvenimento di questa portata (come anche il delitto Moro), non trova la ricostruzione oggettiva e quindi ragionevolmente veritiera, il vulnus aperto non viene sanato dal tempo e dallo sbiadimento della memoria. Anzi, a volte, e certamente sin dal primo momento, vengono addensati e cristallizzati elementi di confusione e di vero e proprio sviamento dalla verità storica. Intanto la figura stessa di Piersanti Mattarella non può essere imbalsamata nel santino agiografico che ne viene fatto, a volte con marcati segni di forzatura arbitraria da parte di coloro che ancora oggi ne usano la memoria per scopi di parte. Soprattutto se si ha riguardo per la sua figura, ricca e complessa. Lo stesso crimine che lo ha colpito nasce dalla barbara reazione ai tratti forti della sua personalità. Un uomo dal carattere fermo e spigoloso, figlio, sposo, padre, politico, che si presenta sempre con i caratteri straordinari per la ricchezza della sua umanità matura e profonda, sempre illuminata da una fede religiosa autenticamente sentita. È probabile che nella determinazione dei suoi assassini ci sia stata la delusione di chi sperava di poterlo piegare. Egli fu, con un’espressione letteraria, un “uomo verticale”. Il suo impegno politico da democristiano nella Democrazia Cristiana, della cui storia - luci e ombre - andava consapevole e coerente interprete, fu un impegno totale. Le stesse linee del disegno politico che portò avanti si muovevano entro queste caratteristiche. Eletto deputato all’Ars nel 1967, si era collegato, indipendentemente dalla caratterizzazione di corrente che aveva in quel tempo, a un gruppo che faceva capo all’onorevole Nino Lombardo, il quale portava avanti in quella legislatura una politica di rinnovamento del costume, con l’abolizione del voto segreto, che nella cronaca della vita politica regionale aveva determinato non pochi passaggi complicati, anche quello del milazzismo. Mattarella era antagonista irriducibile di questo modo di far politica. Le elezioni del 1971 segnarono per la Dc un momento negativo. Accanto alla riforma della burocrazia regionale era stata portata avanti una riforma della legge urbanistica che aveva determinato una reazione di destra molto forte: un’autentica onda nera, in parallelo alla contemporanea rivolta di Reggio Calabria. La Dc siciliana - tutta - ma soprattutto con il gruppo dirigente che aveva avviato il rinnovamento - D’Angelo, Lombardo, Nicoletti, Parisi e Mannino - fu ferma nell’opposizione e resistenza a un’opinione che tendeva invece verso l’avvicinamento al Movimento Sociale. Era anche una stagione politica difficile sul piano nazionale. Il centro-sinistra non godeva più dell’appoggio del Psi, si era esaurita la fase del secondo centro-sinistra. In quelle circostanze l’onorevole Moro aprì nella Dc la fase della strategia dell’attenzione verso il Pci. Con la segreteria regionale Nicoletti, che successe all’onorevole D’Angelo, la linea di riflessione proposta da Moro diventò la linea della Dc siciliana. L’onorevole Piersanti Mattarella con il padre onorevole Bernardo (scomparso nel 1971) seguivano le idee di Aldo Moro. E In Sicilia, con la segreteria Nicoletti, furono realizzate, prima di ogni esperienza nazionale, forme avanzate di collaborazione con il Pci. Il segretario del Pci, allora, era Achille Occhetto. E quando maturò il tempo, Piersanti divenne presidente della Regione sulla base di una maggioranza che ricomprendeva il Pci. Fu eletto appena cinque settimane prima del sequestro Moro e della formazione del governo Andreotti e cioè del governo di solidarietà nazionale con il Pci di Berlinguer in maggioranza. Intanto nella linea politica della Dc siciliana, proprio in quel tempo, maturò una più attenta considerazione del problema mafia. Il ritardo dello sviluppo del Mezzogiorno, con l’aggravante di una insidiosa emergenza mafiosa, determinarono l’impegno della Dc siciliana che rappresentò la base politica della presidenza Mattarella. Per fedele ricostruzione ai fatti: nel Comitato Regionale della Dc siciliana si determinò una divaricazione tra maggioranza e minoranza sulla proposta di Nicoletti di collaborazione con il Pci e la proposta per la presidenza della Regione dell’onorevole Mattarella. Gli andreottiani, cioè l’onorevole Lima, si schierarono a favore. Anche per la sincronia con il Governo Andreotti. Costituito il Governo con una maggioranza che comprendeva il Pci, che assumeva la Presidenza dell’ARS con l’on. Pancrazio De Pasquale, il presidente Mattarella fu artefice di una concreta politica di cambiamento e di forte impegno per lo sviluppo della Sicilia. Il contrasto alla criminalità mafiosa fu caratterizzato da un impegno civile e culturale del quale fanno fede gli atti pubblici del tempo. Ingiusta detenzione, il governo risponde a Petrilli Il Centro, 8 gennaio 2020 Giulio Petrilli prosegue la sua battaglia per il diritto al risarcimento contro l’ingiusta detenzione. “Sto provando”, scrive, “a far applicare la legge votata da un referendum e poi modificata sulla responsabilità civile dei magistrati nel caso di errori giudiziari. Sinora nessun magistrato ha mai pagato. Io sto provando a rivendicare un mio diritto e vedere se qualcuno di loro paga per i suoi errori. Ho inoltrato al presidente del Consiglio Giuseppe Conte un’istanza in tal senso. Sono uno dei pochi che sta provando questa via legittima. Il sogno continua, lo chiamo così perché è una battaglia che dura da venti anni. Un sogno non certamente per i soldi, ma per il principio. Non mi illudo”, ammette Petrilli, “ma almeno arrivano segnali di attenzione. Dopo tante sollecitazioni spero si possa arrivare a una risposta positiva sulla mia vicenda del mancato risarcimento per un’ingiusta detenzione durata sei anni. L’ulteriore risposta, pervenuta nei giorni scorsi, della responsabile dell’ufficio giuridico e contenziosi della presidenza del consiglio Margherita Piccirilli, comunica che l’istruttoria è stata avviata e ne sarà comunicato l’esito. Un ulteriore passo in avanti rispetto alla prima lettera e mi assicurano che daranno certamente una risposta. Questa lettera ha una valenza importante di attenzione al tema. Ho chiesto 10 milioni per il risarcimento da ingiusta detenzione durata sei anni con l’accusa di banda armata conclusasi con una sentenza definitiva di assoluzione in Cassazione, sono stato in 13 carceri speciali, in detenzione estrema. Non so che decideranno, ma mi interessa ribadire che anche quando lo Stato con i suoi magistrati sbaglia, o lui o loro devono risarcire. Finora, da quando è entrata in vigore questa legge, nessun magistrato ha mai pagato per un suo errore”. Messa alla prova anche per la ricettazione con precedenti penali di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 7 gennaio 2020 n.131. Via libera alla sospensione del processo per messa alla prova anche per ricettazione e furto pluriaggravato. Un “beneficio” che il giudice non può negare neppure se l’imputato ha dei precedenti penali. La Corte di cassazione, con la sentenza 131 del 7 gennaio, chiarisce che per individuare i reati per i quali è ammessa la sospensione del procedimento con messa alla prova, il giudice deve tenere presente solo la pena edittale massima prevista per la pena di base. E deve farlo senza considerare le circostanze aggravanti, comprese quelle per le quali la legge prevede una pena diversa da quella ordinaria del reato e da quelle ad effetto speciale. Una strada da seguire - precisano i giudici - nell’ottica di un’estensione dell’ambito applicativo della messa alla prova e anche in ragione della mancata previsione letterale da parte della legge “degli accidentalia delicti”. Partendo da questi principi la Suprema corte ha accolto il ricorso di un imputato condannato, a due anni di reclusione e 800 euro di multa, per il reato, riqualificato (rispetto all’originaria ricettazione) di furto pluriaggravato. Il tribunale, con una decisione avallata dalla Corte d’Appello, non aveva riconosciuto al ricorrente le attenuanti generiche a causa dei plurimi precedenti penali, ritenendo non esistenti elementi positivi che deponessero a suo favore. Per la Corte territoriale, correttamente il primo giudice, aveva respinto la richiesta di sospensione del reato con messa alla prova, visti i limiti edittali del reato di ricettazione e, a maggior ragione del riqualificato reato di furto con più aggravanti. La cassazione precisa però che la messa alla prova si applica, una sola volta, ai reati puniti con la pena massima di quattro anni, sola o unita alla pena pecuniaria, Un ristretto ambito applicativo che è stato tuttavia ampliato estendendolo anche ai delitti indicati dall’articolo 550 comma 2 del Codice di rito penale, tra i quali oltre che il furto aggravato rientra anche la ricettazione. Tenuità del fatto anche per le lesioni stradali gravi di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2020 Mentre si attende che la Corte costituzionale completi i suoi giudizi sulla procedibilità d’ufficio del reato di lesioni stradali, il Tribunale di Milano indica una strada alternativa: la non punibilità del fatto. Un modo per arrivare allo stesso risultato: evitare di aprire fascicoli anche per incidenti tutt’altro che gravi, in cui tuttavia c’è stato il ferimento di una persona con prognosi superiore a 40 giorni. In questo caso, per il Codice penale siamo di fronte a lesioni gravi. Per le quali la legge 41/2016 (che introdusse nel Codice penale gli articolo 589-bis e 590-bis, rispettivamente con i reati di omicidio e lesioni stradali) prevede la procedibilità d’ufficio. Ma il legislatore sembrò fare rapidamente retromarcia con il Dlgs 36/2018 che ha previsto la procedibilità a querela di parte per una serie di reati, tra cui in prima battuta le lesioni stradali. Solo che alla fine questo reato fu escluso dal Dlgs 36/2018 e questa scelta ha già superato il vaglio di costituzionalità (sentenza 223/2019 della Consulta). Resta però il problema che aveva suscitato critiche all’articolo 590-bis: vengono attivati gli uffici giudiziari per vicende in cui spesso la colpa dell’imputato è solo lieve (anche in una banale manovra di parcheggio può capitare di provocare ferite a una gamba non guaribili entro 40 giorni) e normalmente la vittima - anche quando sporge querela - la rimette appena ottiene il risarcimento integrale. Ciò è accaduto anche nella vicenda su cui si è pronunciato il Tribunale di Milano, Quinta sezione penale (giudice Anna Zamagni), nella causa 8428/19 (sentenza del 9 dicembre). Un automobilista, avanzando lentamente a un incrocio per recuperare la visibilità limitata da alcuni veicoli parcheggiati, aveva investito un motociclista. Tra le richieste della difesa c’era il non doversi procedere perché la querela era stata rimessa, ma il giudice ha ricordato che ora il reato è procedibile d’ufficio e già la Consulta ha dichiarato manifestamente infondata la questione di incostituzionalità dell’articolo 590-bis. Non solo: un’altra questione di legittimità costituzionale era partita proprio da Milano, ma il giudice non si attendeva un esito diverso. Di qui la decisione di accogliere un’altra richiesta della difesa: il riconoscimento della non punibilità per particolare tenuità del fatto. In questo modo, di fatto il giudice indica il modo diverso per chiudere rapidamente un procedimento aperto obbligatoriamente d’ufficio. Il giudice ha ravvisato che ci fossero tutti i requisiti previsti dalla norma sulla tenuità?(articolo 131-bis del Codice): pena massima non superiore a cinque anni, condotta colposa non abituale ed esiguità del danno o del pericolo. In particolare, la sentenza sottolinea che la prognosi riguardava solo escoriazioni ed era appena superiore al limite oltre il quale secondo il Codice si entra nelle lesioni gravi. Quest’ultimo dato viene superato dal giudice osservando che è stata la stessa vittima a valutare tenue il fatto, avendo rimesso la querela. Infine, la dinamica dell’incidente (velocità bassissima e necessità di avanzare per vedere di più) è un comportamento ben poco pericoloso. L’usucapione non c’è, falso per il notaio che avalla di Angelo Busani Il Sole 24 Ore, 8 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 7 gennaio 2020 n. 209. Rischia il reato di falso ideologico il notaio che “avalla” la dichiarazione, resa da un donante nel contesto di un contratto di donazione, di aver usucapito l’immobile oggetto della donazione. Lo si desume dalla sentenza della cassazione n. 209. I l caso riguarda una grave vicenda di concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso e di truffa: la sentenza parla di una “complessa attività posta in essere” “attraverso la fittizia intestazione di terreni e mediante fittizi contratti di locazione” con lo scopo di consentire al sodalizio di stampo mafioso “di usufruire di contributi comunitari ottenuti illecitamente” “facendo apparire la titolarità di numerose particelle di terreno su cui si svolgevano attività agricole”. Si può quindi immaginare che la gravità dei fatti presi in considerazione dai giudici abbia avuto un ruolo determinante nel far ritenere il notaio “corresponsabile” del comportamento di chi dichiara l’avvenuta usucapione fino a diventare reo del reato di falsità ideologica. Nella sentenza, al riguardo, si legge che le indagini della polizia giudiziaria avevano appurato la natura demaniale dei terreni oggetto della donazione e che tale titolarità demaniale “sarebbe stata non difficilmente accertabile da parte dell’ufficiale rogante e comunque era ben nota al donante, che non poteva ignorare di non essere titolare del diritto di proprietà sui fondi oggetto dell’atto di donazione”. La Cassazione inoltre sottolinea che si trattava di mappali che in catasto risultavano privi di intestatario, “il che avrebbe dovuto indurre il pubblico ufficiale a ritenere la natura demaniale dei beni, poiché nel nostro ordinamento non esistono beni immobili di nessuno ma o appartengono a un privato o vengono di diritto acquisiti al patrimonio dello Stato”. In ambito notarile, nei casi in cui il soggetto alienante non abbia un titolo d’acquisto, ma dichiari di aver usucapito il bene che intende alienare, si ritiene che si possa comunque procedere alla stipula del contratto, sia pure con il monito di tenere il massimo della prudenza possibile. Nemmeno la mancanza di intestazione catastale in capo a chi dichiara l’avvenuta usucapione (non esistendo un titolo d’acquisto, non è evidentemente possibile procedere ad alcuna voltura catastale) viene considerata un impedimento (Circolare del Consiglio Nazionale del Notariato del 28 giugno 2010). Si ritiene, infatti, che la questione del cosiddetto “allineamento soggettivo” (preteso dall’articolo 29, comma 1-bis, legge 52/1985) e, cioè, la coincidenza tra il soggetto alienante, le risultanze dei Registri immobiliari e quelle dei Registri catastali, troverebbe un limite nelle ipotesi in cui il “disallineamento” sia “fisiologico”. Tale situazione si avrebbe, dunque, proprio nelle situazioni in cui il mancato aggiornamento dei Registri immobiliari e del catasto derivi da ragioni di “carattere sistematico” come avviene per le ipotesi di acquisti per i quali è irrilevante la pubblicità immobiliare e che prescindono da chi abbia avuto la precedente titolarità dei beni di cui è affermata l’intervenuta usucapione. L’Aquila. Nel carcere delle Costarelle record italiano di detenuti al 41bis ilcapoluogo.it, 8 gennaio 2020 Con 166 detenuti al 41bis il Carcere dell’Aquila è l’Istituto penitenziario che ospita il maggior numero di reclusi condannati al carcere duro. Non detenuti qualunque, ma i cosiddetti “ristretti”, coloro che sono condannati cioè al carcere duro. Spesso se ne sente parlare, anche sui media, poche volte, forse mai, ci si chiede cosa voglia dire carcere duro. Per la prima volta una telecamera è entrata nella sezione destinata ai criminali eccellenti, nello speciale di quattro puntate di Buongiorno Regione, in onda su Rai3. La prima puntata, trasmessa nell’appuntamento regionale di questa mattina, ha aperto le porte del carcere dell’Aquila. Nel carcere dell’Aquila ci sono 166 detenuti al 41bis, sui 760 reclusi e condannati al carcere duro in tutto il territorio nazionale. Tra di loro c’è chi ha ucciso Giovanni Falcone, chi ha attentato alla vita di Paolo Borsellino, chi ha ucciso Marco Biagi, chi si è macchiato le mani nell’uccisione di Massimo D’Antona. “I controlli in un carcere duro sono maggiori e già rigidi”, spiega Salvatore Prudente, Responsabile Gom, Gruppo Operativo Mobile. “C’è il controllo visivo in ogni stanza oltre al controllo in un’apposita sala regia, che mostra tutte le immagini riprese dalle telecamere. Resta fuori dal controllo della telecamera solo la zona dei servizi igienici, per una questione di privacy”. Il regime del 41bis è una carcerazione speciale istituita nel 1992, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. “Si tratta di un regime differenziato, quindi particolare, che comporta, ad esempio, la censura sulla corrispondenza sia in entrata che in uscita, nel tentativo di spezzare il sodalizio con l’esterno”, spiega la Direttrice del Carcere dell’Aquila, Barbara Lenzini. “Ci sono, poi, delle norme che il detenuto deve rispettare. Come un colloquio al mese che viene sistematicamente ascoltato e videoregistratore”, continua il Generale Mauro D’Amico, Comandante Gom. Napoli. I detenuti lavoreranno negli uffici della Procura, esplode la polemica fanpage.it, 8 gennaio 2020 Il protocollo tra il Provveditorato campano dell’amministrazione penitenziaria e la Procura di Napoli, firmato a dicembre, servirà a reclutare detenuti come ausiliari giudiziari a causa della grave carenza d’organico. I sindacati denunciano due pesi e due misure: “Nulla contro il reinserimento sociale e lavorativo, ma si affidano fascicoli a detenuti, mentre un lavoratore giudiziario non può avere precedenti penali e se indagato viene sospeso dal servizio. Servono invece nuove assunzioni qualificate”. Critico anche il Comitato lavoratori giustizia: “Così passa il messaggio che negli uffici giudiziari può lavorare chiunque senza aver studiato e superato un concorso. L’utenza non viene rispettata”. Non è stato ancora reso pubblico nei dettagli, ma ha già provocato malumori e perplessità negli ambienti giudiziari. Il protocollo d’intesa per la promozione di progetti di lavoro di pubblica utilità, destinati a chi è in carcere, tra il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria campana e la Procura della Repubblica di Napoli reca la firma del 13 dicembre scorso ed è stato già diramato agli uffici di competenza coinvolti. Tutto tenendo fede all’articolo 27 della Costituzione, secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, e per evitare che la macchina della giustizia collassi a causa dei pochi ausiliari idonei, che sono presenti cioè in numero insufficiente rispetto alla mole di lavoro. Un’opportunità concreta di reinserimento sociale e lavorativo, ma restano i dubbi sull’emergenzialità della convenzione - Ai detenuti verrà affidata la cosiddetta movimentazione, cioè il trasporto di atti e fascicoli nell’ambito di precisi iter operativi, individuati da un gruppo di lavoro congiunto delle amministrazioni contraenti e sottoposti all’autorizzazione del magistrato di sorveglianza. Sarà il Provveditorato campano a selezionare tra i reclusi presenti nei suoi istituti penitenziari quelli più validi a partecipare al progetto. Una best practice, quella messa in atto grazie alla collaborazione fra due soggetti istituzionali, per ridare dignità ad un terzo soggetto debole. Il quale, invece di essere lasciato tutto il giorno senza far nulla in cella, può acquisire una professionalità che potrà spendersi una volta terminata l’espiazione della pena. Nessuna critica, dunque, è stata mossa alle finalità di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, i dubbi da parte degli addetti ai lavori pongono altri tipi di riflessioni ed interrogativi. “Perché si affidano fascicoli a detenuti, ma ad un lavoratore giudiziario si chiede l’essere immune da precedenti penali e se indagato, viene sospeso dal servizio?” - “La piena comprensione per il nobile fine del reintegro sociale, peraltro sempre al vaglio della magistratura di sorveglianza, soddisfa - si chiede Mario de Rosa, segretario regionale Confsal-Unsa, l’organizzazione sindacale maggiormente rappresentativa nel Ministero della Giustizia - gli standard di sicurezza richiesti dalla particolare tipologia dell’attività di una Procura, impegnata in più campi ma soprattutto nel contrasto alla criminalità organizzata? La movimentazione dei fascicoli verrà affidata a detenuti, cioè a soggetti in espiazione della pena a seguito di condanna definitiva. Né, a mio avviso, la conoscenza del contenuto di tale protocollo può rafforzare la fiducia, già a livelli molto bassi, del cittadino comune nella giustizia”. La preoccupazione è che, da una parte, in tempi di spending review si dimentichi la delicata questione della tutela della riservatezza e, dall’altra, si crei una disparità di trattamento. Due pesi e due misure. “Al detenuto si affidano fascicoli, ma a chiunque aspiri ad un impiego - spiega il sindacalista - si chiede, previa esclusione, l’essere immune da precedenti penali e, se nel corso del suo rapporto contrattuale è destinatario di una iscrizione nel registro degli indagati per fatti gravi, viene sospeso dal servizio e privato del 50% del salario. È successo ad un lavoratore giudiziario napoletano, sospeso e senza stipendio fino al termine del processo, pur senza essere stato destinatario fino ad oggi e a distanza di sei mesi di alcuna misura cautelare”. La carenza d’organico negli uffici giudiziari colmata con i progetti di lavoro di pubblica utilità previsti dalla legge per i detenuti, a titolo volontario e gratuito - La situazione è emergenziale, destinata ad aggravarsi per il progressivo pensionamento del personale ausiliario: i fascicoli aumentano, i rinforzi non arrivano e si rischia la paralisi del servizio. Da qui la necessità di promuovere iniziative, come il protocollo d’intesa, volte a reperire con urgenza aiuti esterni. Lo prevede l’articolo 20 ter della legge 354/75 che dispone la possibilità per i ristretti di “chiedere di essere ammessi a prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito nell’ambito di progetti di pubblica utilità, tenendo conto anche delle specifiche professionalità e attitudini lavorative”. “La legittimità del protocollo è indubbia - ci tiene a sottolineare de Rosa -. Analoghe esperienze sono già presenti nei tribunali di Milano e di Roma, si inquadrano in quella politica giudiziaria, praticata sempre più frequentemente, di copertura dei vuoti di organico di talune qualifiche mediante la fruizione, a titolo gratuito o a basso costo, di unità lavorative con progettualità quali Alternanza scuola-lavoro o Garanzia giovani”. Nel caso specifico si intende fronteggiare la grave carenza di personale ausiliario della Procura. “Ma - continua il responsabile sindacale - la responsabilità di eventuali errori, o anche omissioni, verificate a distanza di anni ricadranno poi sul personale di ruolo dell’amministrazione, come già abbiamo avuto modo qualche volta di constatare? Si decida lo Stato a procedere a nuove assunzioni o a trovare soluzioni che abbiano minor impatto anche emozionale”. “Così passa il messaggio che negli uffici giudiziari può lavorare chiunque senza aver studiato e vinto un concorso, la professionalità degli operatori del settore giustizia è bistrattata” - In attesa di un confronto tra i sindacati e i dirigenti amministrativi della Procura per chiarimenti sul tema, ad intervenire nel dibattito è anche il Comitato lavoratori giustizia. “Non contestiamo assolutamente il protocollo, di cui tra l’altro non conosciamo numeri o uffici interessati e che offre ai detenuti la possibilità di accedere ad un percorso professionale durante il periodo detentivo - commenta Anna Esposito, responsabile napoletana del Comitato - ma va fatta una considerazione generale. Da diversi anni passa il messaggio che questo lavoro, che facciamo perché abbiamo studiato e superato un concorso, lo può invece svolgere chiunque. Reclutiamo ovunque, basta che ci danno una mano: no, così non va bene”. L’amarezza è forte. “E la nostra professionalità chi la difende? - continua Esposito - Una professionalità bistrattata sotto il punto di vista economico, della carriera, della gratificazione e del riconoscimento perché accomunata a quell’immagine decadente di pubblica amministrazione, dell’impiegato per antonomasia che non fa quello che dovrebbe. Eppure il nostro personale ha impedito il collasso dell’intero sistema, soprattutto negli anni passati, con la buona volontà, con l’attaccamento al lavoro, vincendo la resistenza al cambiamento, imparando ad usare i nuovi strumenti non previsti nei profili di partenza”. Il doppio carico di lavoro, cartaceo ed informatico, negli uffici giudiziari e la delicatezza dei compiti: “servono nuove assunzioni qualificate” - Insufficienza di personale, un turnover che penalizza le competenze e l’esperienza, formazione sporadica. “È vero che stiamo andando nella direzione della digitalizzazione - chiarisce Anna Esposito -, ma il fascicolo processuale cartaceo non è stato eliminato e non ne è prevista una dematerializzazione al 100%. Noi al momento andiamo avanti su un doppio binario, fascicolo cartaceo ed informatico. Eppure innovazione significa sostituire un procedimento ad un altro, noi invece aggiungiamo”. La denuncia è chiara. Non basta arrivare ad un punto di non ritorno per poi cambiare rotta, perché sarebbe già troppo tardi sul piano della qualità del servizio offerto. “Il protocollo - dice la referente del Comitato - risponde alla carenza di ausiliari giudiziari. Una figura specializzata perché non paragonabile all’ausiliario che lavora in un altro ente, in quanto bisogna conoscere le urgenze, la dislocazione degli uffici. Ci saremmo aspettati nuove assunzioni, che in questo caso è possibile fare anche attraverso selezioni dei centri per l’impiego. Non è bastato, quattro anni fa, l’arrivo di dipendenti da altri settori dell’amministrazione pubblica, persino i barellieri, che abbiamo dovuto formare e paradossalmente da cui siamo stati scavalcati. Si continua con misure emergenziali e temporanee”. L’appello dei dipendenti giudiziari - “L’utenza - ribadisce la portavoce del Comitato lavoratori giustizia -, sia quella qualificata come gli avvocati, sia le persone offese che hanno fatto una denuncia e hanno diritto di venire a chiedere informazioni, deve sapere chi ha di fronte. Un ex barelliere, un ex detenuto, un cancelliere, un tirocinante. Parliamo di qualità del servizio e dobbiamo puntare ad elevarla. Nulla contro il detenuto che deve reintegrarsi o l’ex barelliere che ha salvato vite, ma appare chiaro che adesso la mancanza di rispetto è soprattutto nei confronti dell’utenza”. Bari. Da Mola un aiuto agli ex detenuti per reinserirli nel mondo del lavoro di Antonio Galizia Gazzetta del Mezzogiorno, 8 gennaio 2020 Lavorare per rendersi utili alla società. Il dibattito che ruota intorno all’importanza dell’attività lavorativa per l’effettivo reinserimento dei detenuti è ampio e complesso. Nel nuovo anno, una iniziativa concreta arriva da Mola: il Comune, insieme all’Uiepe (Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna) della Puglia, attiverà un progetto innovativo che punta a offrire una opportunità di reinserimento a chi ha avuto problemi con la giustizia. I due enti realizzeranno percorsi di reinserimento di detenuti e di sostegno alle loro famiglie. L’importante obiettivo è stato fissato nel protocollo di intesa, vagliato dalla giunta e sottoscritto tra il Comune e l’Uiepe, e che verrà attuato nell’anno appena iniziato. Finalità precise dell’accordo, agevolare la preparazione e l’attivazione di percorsi individualizzati di reinserimento socio-lavorativo dei detenuti, secondo le competenze dei singoli soggetti. A tali scopi, saranno programmate e realizzate diverse azioni. Come per esempio quella di “attivare reti di collaborazione con gli stakeholder (portatori di interesse, come aziende, organizzazioni no profit, cooperative) che partecipano ai programmi inclusivi nei confronti delle persone sottoposte a provvedimenti di giustizia”. Previste “attività di formazione, studio, analisi sugli interventi per riconciliare e ricomporre le fratture determinate dai fatti delittuosi, in ciascun attore della dinamica delittuosa: autore di reato, vittima e comunità”. “Una iniziativa dalla forte valenza civile - sottolinea l’assessora alle Politiche sociali Lea Vergatti - che responsabilizza tutta la comunità nel processo di rieducazione riparativa del detenuto”. Il sindaco Giuseppe Colonna rimarca l’importanza di tale sottoscrizione: “È un’esperienza pilota per il territorio che punterà ad avviare pratiche di reinserimento virtuoso dei detenuti, mediante le quali essi potranno divenire una risorsa fondamentale per Mola”. Il Comune e l’Uiepe puntano, dunque, alla riabilitazione sociale attraverso il lavoro, consapevoli che soprattutto per queste persone non avere alcuna occupazione intellettuale o manuale non permette di riflettere sulla propria vita, su sé stessi e sulle situazioni che hanno portato a vivere nell’illegalità. Catania. I detenuti potranno riscattarsi impegnandosi in attività per i più poveri Quotidiano di Sicilia, 8 gennaio 2020 Siglata convenzione tra la Caritas di Catania e l’Ufficio distrettuale dell’esecuzione penale esterna. I ristretti potranno svolgere lavori di pubblica utilità ai fini della concessione della messa alla prova. Lavori di pubblica utilità in Caritas diocesana come misura alternativa alla detenzione. Si sintetizza in questi termini la convezione di collaborazione per servizi di assistenza e di giustizia riparativa tra l’Ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna di Catania (Udepe) e l’organismo pastorale dell’Arcidiocesi di Catania. La sottoscrizione del documento è arrivata nelle scorse settimane da parte dei direttori Rosalba Salierno e don Piero Galvano. L’impegno a livello locale, definito da Caritas Diocesana e Udepe di Catania, si inserisce all’interno del protocollo nazionale sottoscritto lo scorso novembre tra il presidente nazionale di Caritas Italiana e il capo gabinetto del ministero della Giustizia che promuove la stipula con i tribunali di convenzioni per svolgere lavori di pubblica utilità da parte di imputati maggiorenni, ai fini della concessione della messa alla prova. La convenzione sottoscritta tra Caritas diocesana e Udepe di Catania sostiene la conoscenza e lo sviluppo di attività riparative a favore della collettività, puntando, contemporaneamente, alle iniziative di sensibilizzazione nei confronti della comunità locale rispetto al sostegno e al reinserimento di persone in esecuzione penale. La convenzione favorisce la costituzione di una rete di risorse che punta ad accogliere i soggetti ammessi a misura alternativa o alla sospensione del procedimento con messa alla prova che hanno aderito a un progetto riparativo. La Caritas diocesana ha stabilito di assegnare i soggetti individuati dall’Udepe alle attività a bassa soglia dell’Help Center della Stazione Centrale, quindi principalmente nei servizi di accoglienza, colazione, preparazione pasti per la mensa, pulizia dei locali e distribuzione del vestiario nei confronti di persone in situazione di disagio e di estrema difficoltà. Una possibilità offerta ai soggetti che aderiscono alla proposta di svolgere attività a favore della collettività e segnalati dall’Udepe alla Caritas Diocesana che in seguito svolgerà un colloquio conoscitivo. Per Don Piero Galvano, direttore della Caritas, è un’opportunità per quanti hanno deciso di ripartire aiutando chi ne ha maggiormente bisogno: “la misericordia di Dio è sempre grande per chi vuole veramente cambiare vita e mettersi a servizio del prossimo; pertanto, l’attività in Caritas è una concreta opportunità per chi, autenticamente pentito, vuole riabilitarsi davanti a Dio e agli uomini”. Un rapporto, quello tra Caritas e Udepe, che si è strutturato anche sulla base di una comune visione del recupero della persona: “Sono particolarmente contenta di aver stilato questo accordo con la Caritas - ha spiegato il direttore dell’Udepe, Rosalba Salierno - perché a mio avviso anche gli aspetti legati alla spiritualità e alla religione sono molto importanti per il recupero dei nostri utenti, anzi vengono molto spesso trascurati e messi sullo sfondo quando invece, secondo noi, il vero cambiamento passa attraverso una diversa visione della vita e della realtà delle cose”. Oristano. “In ospedale servono le camere per i detenuti”, la Polizia penitenziaria protesta di Elia Sanna L’Unione Sarda, 8 gennaio 2020 Sindacalisti in presidio al San Martino. Una delegazione ricevuta dal direttore Assl. Sono arrivati da tutta la Sardegna i sindacalisti della polizia penitenziaria per protestare contro i vertici della sanità oristanese a cui si chiede ormai da anni di creare apposite camere di sicurezza nell’ospedale San Martino, per il piantonamento dei detenuti. Una quarantina sono stati i rappresentanti sindacali che hanno deciso di aderire alla manifestazione, andata in scena sotto il palazzo della direzione della Assl di Oristano, in via Carducci. I sindacalisti hanno denunciato la grave situazione che vivono i degenti e gli stessi operatori, costretti a scortare e piantonare i detenuti, molti dei quali i Regione di alta sicurezza, nei reparti del San Martino. I sindacati hanno ricordato che esiste un finanziamento già dal 2016 per la ristrutturazione del presidio ospedaliero e nel quale era previsto anche la realizzazione delle camere di sicurezza. Una delegazione di sindacalisti, accompagnati dai consiglieri regionali Annalisa Mele e Emanuele C’era, ha poi incontrato il direttore della Assl di Oristano, Mariano Meloni. Il manager della Assl ha spiegato, durante l’incontro con le organizzazioni sindacali, di aver individuato, nel reparto di Ortopedia del San Martino, i locali idonei dove realizzare le camere di sicurezza. Locali attualmente occupati dai pazienti talassemici. “Stiamo lavorando per individuare una rapida soluzione - ha detto Mariano Meloni - per risolvere entrambi i problemi”. Roma. A Rebibbia una casetta per ospitare i colloqui delle detenute di Marco Belli gnewsonline.it, 8 gennaio 2020 È un prefabbricato in legno di abete di poco meno di 30 metri quadrati. Il tetto ha le falde inclinate come nella tradizionale idea di casa che ci accompagna fin dall’infanzia e, quando era ancora uno scheletro ligneo in costruzione, rimandava tanto alla indimenticabile scena della costruzione della casa in “Sette spose per sette fratelli”. Una “piccola, miracolosa, casetta nel parco di Rebibbia”, per dirla invece con le parole di Renzo Piano, senatore a vita nonché archistar genovese, promotore e supervisore dell’iniziativa che, insieme ad altre tre, fa parte del progetto sulle periferie elaborato dal Gruppo di lavoro G124, presentato nella prestigiosa cornice della Sala Zuccari di Palazzo Madama il 28 novembre scorso. Il Modulo Affettività e Maternità in carcere (M.A.MA.), è frutto di una collaborazione interistituzionale fra l’Ufficio Tecnico del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, guidato dall’architetto Ettore Barletta, il Provveditorato Regionale del Lazio, Abruzzo e Molise e un team di tre giovani architetti dell’Università romana La Sapienza che, guidati dalla professoressa Pisana Posocco e sotto la supervisione di Renzo Piano, hanno disegnato la casa. Si tratta di un piccolo spazio abitativo, dotato di soggiorno, angolo cottura, zona pranzo e una piccola loggia per accedervi che sorge in un’area verde all’interno dell’istituto penitenziario Rebibbia Femminile, impreziosita dalla robusta presenza di una magnolia e di un eucalipto. La parte strutturale del modulo in legno è stata realizzata nella falegnameria della Casa circondariale Mammagialla di Viterbo da un gruppo di detenuti addetti alla lavorazione, coordinati dal direttore tecnico convenzionato con l’istituto e coadiuvati da alcuni detenuti di Rebibbia. Ma, soprattutto, è il luogo dove le donne detenute nell’istituto romano possono incontrare i propri congiunti, mangiare insieme e insieme sedersi attorno a un tavolo. Un modo per rendere meno traumatica la distanza con i propri cari al momento del colloquio e, al tempo stesso, permettere alla detenuta di mantenere il ruolo di madre con il proprio nucleo familiare in un ambiente che intende, appunto, ricreare quello domestico. Piacenza. “Dentro e fuori dal carcere”, la riflessione raccontata da Universi piacenzasera.it, 8 gennaio 2020 Due redattori di “Universi” - Hassan Haidane e Roberta Capannini - ci raccontano gli incontri che l’Università Cattolica di Piacenza ha dedicato al carcere di Piacenza e alle attività per il riscatto dei detenuti. “Sosta forzata” è una pubblicazione che ha una redazione composta dai detenuti del penitenziario delle Novate di Piacenza a San Lazzaro, autorizzata dal tribunale cittadino nel 2005. Ma non ha solo lo scopo di raccontare le situazioni di disagio dei detenuti, finiti in carcere per diverse cause. Alcuni di loro sono immigrati e talvolta clandestini, perciò spacciano droga per sopravvivere. La rivista ha anche un altro obiettivo: restaurare i rapporti fra i “puniti” e la società, così facendo possono fare i primi passi per il reinserimento e sociale e per trovare anche un posto di lavoro. L’istituzione carceraria organizza anche attività culturali, come il teatro, e tramite un’associazione fondata nel 1985 in Italia, ha a disposizione una biblioteca e vengono pubblicate delle poesie scritte dai processati. Hassan Haidane Martedì 3 dicembre ho partecipato alla lezione aperta “Dentro e fuori dal carcere” organizzata dalla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica di Piacenza. La lezione è iniziata con la visione di uno spezzone del film “I Miserabili”, proposta dalla professoressa Elisabetta Musi, per sottolineare che molte volte il carcere invece di aiutare la persona a capire la gravità di quello che ha commesso per diventare una persona nuova incrudisce e inasprisce il carcerato perché diventa una istituzione che crea separazione nella società: fuori i giusti e dentro i cattivi. È stato rimarcato che anche la peggior persona non deve essere etichettata con il gesto che ha compiuto e che il carcere non dovrebbe essere una istituzione discriminatoria e punitiva, ma servire per far prendere coscienza alla persona della gravità degli atti commessi per tentare di rimettersi a disposizione della comunità, ovvero la pena dovrebbe essere una occasione rieducativa di crescita e di cambiamento. Mi sono sembrate importanti anche le osservazioni fatte dal professor Alberto Gromi sulle problematiche delle strutture carcerarie stesse, sulla necessità di spazi adibiti allo studio, al lavoro, alla socializzazione anche con la propria famiglia per ripristinare la dignità dei carcerati, la loro autostima e la crescita personale. E questo è vero, tuttavia il mio pensiero è andato alle persone offese e mi sono domandata se sia poi così corretto pensare ai diritti di persone che hanno commesso un reato oppure se non vada data la precedenza ai diritti delle persone offese e ai diritti dell’intera società che si deve sentire protetta. Io credo che sia importante distinguere fra i vari reati a seconda della loro gravità. A proposito di reati minori, mi è sembrata interessante la messa alla prova, di cui hanno parlato Carla Chiappini dello Svep e Giada Paganini, un provvedimento, nato inizialmente per i minori ma poi gradualmente esteso anche ad altre età, per cui il processo viene sospeso; si tratta di un atto di fiducia con cui si trova, in collaborazione con i servizi sociali, un progetto individualizzato e condiviso e se tutto va a buon fine il reato viene cancellato come se non si fosse mai stato commesso. L’attività descritta dalle due volontarie è quella della formazione di gruppi molto eterogenei per età, esperienze di vita ed estrazione sociale, all’interno dei quali la scrittura autobiografica e la condivisione spontanea diventano uno strumento per un momento di riflessione sulla propria esperienza e sul proprio stile di vita. Per responsabilizzare la persona ovvero farla diventare un cittadino migliore, non più buono ma più consapevole perché mostrando che esistono più opportunità si dimostra che con l’autodeterminazione ognuno può scegliere la via da intraprendere. Roberta Capannini Rimini. “Celle aperte”: un giorno in carcere di Paolo Guiducci ilponte.com, 8 gennaio 2020 Giornata a contatto, giovedì 12 dicembre, con i detenuti del carcere per una trentina di volontari grazie alla seconda edizione di Celle aperte, l’iniziativa proposta dal cappellano don Nevio Faitanini e resa possibile dalla disponibilità della direzione, rappresentata della dottoressa Carmela De Lorenzo, e del commissario capo Aurelia Panzeca. Questa volta il Magistrato di Sorveglianza di Bologna ha autorizzato l’ingresso nelle sezioni dell’istituto penitenziario a volontari provenienti da otto differenti realtà volontaristiche, solidali o cooperativistiche del territorio riminese che a vario titolo operano dentro e attorno la Casa circondariale, occupandosi dei temi della legalità e della privazione della libertà. C’erano rappresentanti delle associazioni Caritas Rimini onlus, Papa Giovanni XXIII, della Cooperativa Cento Fiori, della parrocchia San Benedetto di Cattolica, del Centro per le famiglie del Comune e della Diocesi di Rimini, del gruppo di volontari, della Congregazione delle suore missionarie di Cristo, di Comunione e Liberazione: un gruppo eterogeneo di persone di tutte le età e provenienze, alcune in carcere per la prima volta, attirate dall’opportunità di poter trascorrere un’intera giornata all’interno dei “Casetti” fianco a fianco con le persone recluse, con la rara opportunità di avere accesso alle sezioni dove si trovano le celle. Dall’apertura delle celle del mattino dopo la prima conta alla “chiusura” per il pranzo delle 11.30 (anche se, con l’occasione di questa iniziativa, le celle sono state lasciate volutamente “aperte” per consentire un maggiore contatto e interscambio tra le persone detenute e i volontari in visita), fino alle due ore d’aria dalle 13 alle 15, per terminare con il bilancio condiviso dell’esperienza, che è stato tracciato da detenuti e volontari insieme nella cappella della casa circondariale dalle 15.30 alle 16.30. “Celle aperte” è un progetto che ha pochi eguali nelle carceri italiane e che è arrivato nel carcere di Rimini grazie alla mediazione della cappellania: il buon esito della giornata dietro le sbarre è stato condiviso da tutti, ospiti, partecipanti e polizia penitenziaria, i quali hanno auspicato in modo trasversale che l’iniziativa possa ripetersi presto, e più spesso, perché in grado di alleggerire i pensieri, alleviare gli animi e rompere la routine della quotidianità carceraria, e questo non soltanto per le persone recluse. Tra i volontari sono molte le impressioni che sono state condivise con don Nevio, don Matteo Donati della parrocchia di Cattolica e il Vicario generale della Diocesi di Rimini, don Maurizio Fabbri. Da chi ha dimenticato giudizi e pregiudizi trovandosi di fronte a persone di cui non ha voluto conoscere i reati, rispondendo così alla chiamata della sua professione di fede, a chi si è trovato inaspettatamente a confidarsi, a chi invece ha preferito fare domande anche sulle cose più pratiche, come il lavaggio dei vestiti o il funzionamento della spesa personale. A colpire una volontaria è stato quel tempo perlopiù vuoto, quell’assenza di attività o passatempi che rischia di rendere diseducativa la permanenza in carcere e di trasformare quel vuoto in “tempo perso”. Va precisato invero che quella mattina non erano presenti i detenuti quotidianamente impegnati nell’attività di pulizia dei locali dell’istituto, come anche in mensa, lavanderia e nei lavori di manutenzione del fabbricato, ovvero 29 persone, cui va aggiunta una trentina di partecipanti ai corsi di alfabetizzazione, di scuola media e di biennio di base. Senza dimenticare che poi ci sono le altre attività e momenti di confronto e animazione organizzate da parte delle diverse associazioni di volontariato che hanno accesso alla struttura. Ad attirare un’altra volontaria è stato il bisogno di vedere con i propri occhi se in quel luogo c’era ancora speranza per l’umano, una risposta interiore che ha risuonato come un “sì”. Il momento del pranzo è stato di pura condivisione, fin dalla sua preparazione. Tra una resistenza e un cenno di timidezza, molte delle persone detenute scese dalle sezioni al termine della giornata trascorsa insieme hanno voluto ringraziare al microfono chi aveva dedicato loro il proprio tempo libero e chi l’aveva resa possibile, in un intercalare di riconoscenza che ha fatto comprendere, oltre alla valenza di iniziative simili, anche la loro efficacia. Milano. “Legami in Opera”, oltre le barriere della disabilità e i confini del carcere milanofinanza.it, 8 gennaio 2020 Fondazione Sacra Famiglia e il carcere di Opera realizzano il primo progetto di inclusione sociale che coinvolge persone disabili e detenuti. Fondazione Sacra Famiglia che dal 1896 si prende cura delle persone fragili con complesse o gravi fragilità e disabilità fisiche, psicologiche e sociali e l’Associazione in Opera della Casa di reclusione di Milano-Opera hanno dato vita a un progetto unico nel suo genere: Legami in Opera. Legami in Opera ha visto coinvolti sette uomini tra i 55 e i 70 anni, con difficoltà cognitive medio-lievi (e un vissuto decennale in Sacra Famiglia) e 15 detenuti, italiani e stranieri (il più giovane di 23 anni e il più anziano di 65): insieme hanno realizzato alcuni strumenti musicali. Il percorso è durato tre mesi e si è strutturato attraverso una serie di incontri con frequenza settimanale, da giugno a fine ottobre. Gli strumenti sono stati poi utilizzati durante il Recital di Natale di Sacra Famiglia, un evento speciale che ha visto come protagonisti-attori ospiti storici e volontari. Nel corso del progetto le fragilità di ciascuno sono diventate occasioni di esperienza e vita comune, l’iniziale “lontananza” tra persone disabili e carcerati è sparita per fare spazio a canzoni, lavoro insieme e nuove amicizie. “Siamo molto orgogliosi di aver partecipato a questo progetto”, ha commentato Barbara Migliavacca, responsabile dell’iniziativa, “i detenuti hanno vissuto l’esperienza in maniera positiva e gli ospiti sono riusciti, grazie all’aiuto di questi nuovi amici, a creare uno strumento musicale bello e vivo. Ne è nata un’esperienza unica e toccante e di questo non possiamo che ringraziare l’Associazione In Opera e il Direttore Di Gregorio per averci aiutato a realizzarla. Ogni barriera o prigione fisica, psichica e sociale può essere superata insieme nella solidarietà in un progetto comune”. I detenuti, a seguito di questa esperienza hanno scritto diverse lettere, di cui uno stralcio recita: “Lo sguardo buono e il sorriso sincero di questi nuovi amici mi ha spiazzato. Prima di conoscerli…avevo l’idea che fossero gravemente malati e che questo fatto costituisse un peso schiacciante. Con le mie parole “di prima” avrei detto che, senza nemmeno un processo, erano stati messi all’ergastolo. E da un ergastolano ti aspetti volto cupo e pensieri oscuri. Invece...”. Visto il grande successo il progetto si ripeterà in primavera. “Fuga dall’Egitto”, il libro-inchiesta sulla diaspora degli esuli di ultima generazione La Repubblica, 8 gennaio 2020 La testimonianza di Nancy Okail, attivista egiziana pubblicato in “Fuga dall’Egitto - Inchiesta sulla diaspora del dopo-golpe”, di Azzurra Meringolo Scarfoglio (Infinito Edizioni). “Non sai neanche come salutarli, due bambini cosi piccoli che osservi nel buio della notte mentre sognano gli eroi e le eroine delle fiabe che racconti loro di giorno. Fa male dire loro che alla fine vissero tutti felici e contenti, sapendo di mentire”. È un brano del lungo racconto di Nancy Okail, attivista egiziana condannata a cinque anni di carcere nel giugno del 2014, nell’ambito del processo contro le Ong, che ha portato alla condanna di 43 attivisti, con l’accusa di aver ricevuto fondi illegali, aver lavorato per istituzioni fuori legge e aver sostenuto l’opposizione al governo e le sue poche organizzazioni di protesta. Racconto pubblicato in un libro, “Fuga dall’Egitto - Inchiesta sulla diaspora del dopo-golpe”, di Azzurra Meringolo Scarfoglio (Infinito Edizioni), con la prefazione di Moni Ovadia, l’introduzione di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, e le illustrazioni di Gianluca Costantini. Giornalisti, sindacalisti, artisti, medici, attivisti. È un reportage all’interno della nuova diaspora egiziana, composta dagli esuli di ultimissima generazione. Giornalisti, sindacalisti, artisti, medici, poeti, politici e attivisti per i diritti umani scappati dal loro Paese quando, dopo il golpe dell’estate del 2013, i militari sono tornati al potere. Un viaggio che parte da New York e Washington, tocca la Silicon Valley, Londra, Berlino, Doha, Istanbul e arriva quasi al Polo Nord. La fuga dai processi sommari. I nuovi esuli egiziani sono arrivati fin qui per sfuggire al carcere, a sommari processi di massa, a tentativi di cooptazione, alla censura di chi non voleva che raccontassero - ad esempio - dettagli scomodi sulla tragica fine di Giulio Regeni. Per alcuni l’esilio è arrivato dopo lunghi periodi di detenzione, segnati da torture fisiche e psicologiche. Dalla diaspora raccontano il viaggio con il quale è iniziato il loro esilio, spesso una fuga improvvisa che li ha resi parte di quella che alcuni storici hanno già definito la più importante ondata migratoria nella storia dell’Egitto contemporaneo. E tra gli esuli che sognano di tornare in patria nasce anche una nuova intellighenzia, che lavora per quando in Egitto tornerà la libertà. L’esilio dopo lunghe detenzioni e torture. “Azzurra Meringolo - dice Moni Ovadia - con questa panoramica umana sugli esuli da un Paese governato da una dittatura ci sollecita a non lasciare nel dimenticatoio donne, uomini e processi che non abbandonano il campo a seguito di una sconfitta, ma la metabolizzano e riprendono il cammino con altre modalità, ma con lo stesso orizzonte ideale”. Mentre Riccardo Noury nella sua introduzione afferma: “L’Egitto è considerato da molti Paesi occidentali un partner chiave nella lotta al terrorismo a livello regionale e questa è la giustificazione usata per rifornirlo di armi, software di sorveglianza e altro materiale, nonostante le prove che dimostrano il loro utilizzo per commettere gravi violazioni dei diritti umani”. I nuovi esuli egiziani, intervistati dall’autrice, sono dispersi nel mondo per sfuggire al carcere, a tentativi di cooptazione, alla censura di chi non voleva che raccontassero - ad esempio - dettagli scomodi sulla tragica fine di Giulio Regeni. Per alcuni l’esilio è arrivato dopo lunghi periodi di detenzione, segnati da torture fisiche e psicologiche. Chi “investe” sulla guerra è già in azione di Luigi Pandolfi Il Manifesto, 8 gennaio 2020 Con le guerre c’è sempre chi ci guadagna e chi ci perde, anche nel mercato dei soldi. E sarà così anche questa volta. L’economia contemporanea è caratterizzata dalla voracità dei mercati finanziari. È lì che sta il vero potere. Per questo, non c’è da meravigliarsi se di fronte all’acuirsi della tensione tra Usa e Iran alcuni fondi speculativi già si fregano le mani. Con le guerre c’è sempre chi ci guadagna e chi ci perde, anche nel mercato dei soldi. E sarà così anche questa volta. Anzi, è già così: il prezzo del petrolio, trascinato per buona parte dal mercato dei derivati, è schizzato fino a oltre 70 dollari al barile dopo l’attentato al generale Soleimani. Non ci sono pozzi e raffinerie chiuse o saltate in aria, non ancora, ma l’ipotesi, solo l’ipotesi, che la crisi tra Iran e Usa possa risolversi in un conflitto aperto ha già indotto molti “analisti” a rivedere al rialzo le stime sull’andamento del prezzo del greggio nel breve termine, mettendo benzina nel mercato dei cosiddetti commodity derivatives, gli strumenti finanziari che hanno come sottostante materie prime. È anche vero che il brivido della scommessa, dell’azzardo, non è per tutti e per questo altri investitori, prudentemente, stanno facendo rotta verso lidi sicuri. Come l’oro, mai così caro da sette anni a questa parte (1.588,13 dollari l’oncia), ma anche il palladio (ci vogliono adesso 2.020 dollari per un’oncia), metallo più raro e per questo maggiormente al riparo da cadute improvvise. Il denaro si è svincolato da un pezzo dall’abbraccio dell’oro e di altri materiali, ma quando i tempi si fanno cupi il metallo prezioso è sempre una garanzia. Soldi e oro tornano ad essere la stessa cosa, ovviamente non per tutti, certamente non per i ceti popolari. Per usare una terminologia in uso agli operatori finanziari, si potrebbe dire, insomma, che anche in questo contesto investitori “orso” e investitori “toro”, pur giocando partite diverse, si nutrono delle medesime aspettative. Tutte legate al rischio che la situazione, in un modo o in un altro, possa precipitare rovinosamente (o quasi). Ma eccessi di euforia e di incertezza, slanci speculativi e chiusure difensive, insieme possono giocare brutti scherzi ad una economia mondiale che paga già il conto di una scriteriata guerra commerciale ed i postumi di una crisi che in alcune aree dell’economia-mondo capitalistica - leggi Europa - ancora non si riescono ad estirpare (in Germania la produzione di automobili è scesa nell’anno appena trascorso ai livelli del 1996, un calo del 9%). È quanto paventa l’agenzia di rating americana Moody’s, quando parla di “shock finanziari particolarmente importanti” nel caso di conflitto duraturo tra la prima potenza economica e militare mondiale ed il Paese degli Ayatollah. Non solo gli effetti diretti sull’economia di un aumento incontrollato ed incontrollabile del prezzo del petrolio (che potrebbe fare il paio con un aumento altrettanto incontrollato del prezzo di altri idrocarburi come il gas, visto il caos libico), ma anche, e soprattutto, il pericolo di un peggioramento delle “condizioni operative e di finanziamento”, espressione ermetica, che tradotta significa una contrazione del mercato dei capitali, di cui risentirebbero subito alcuni settori produttivi dell’economia ed i livelli occupazionali. Per le società del settore energetico, nello specifico, secondo Moody’s tutto questo si potrebbe tradurre in un “andare incontro a un più difficile accesso ai capitali nel 2020, con un indebolimento della liquidità, un aumento dei costi del capitale e un intensificato rischio default per le società con scadenze incombenti”. C’è poco da fare: la filosofia che guida i mercati finanziari non si cura di eventuali cadute dell’economia reale e delle condizioni di vita di milioni di persone. Diversamente, non si spiegherebbe come la morte, le malattie, le catastrofi naturali, ogni tipo di sventura siano entrati nel carnet delle cose e degli eventi su cui poter speculare, scommettere, “investire”. È un’altra guerra, quotidiana, che si combatte sulle piazze finanziarie e nei mercati paralleli di tutto il mondo. Che dalla guerra vera o in potenza, minacciata o cercata, può trarre grandi vantaggi. Decreto sicurezza, bandi deserti e piccole strutture chiuse: così naufraga l’accoglienza di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 8 gennaio 2020 Il terzo settore si ribella alla figura di mero controllore impostagli dal Decreto Salvini. A sparire sono le realtà più ridotte e diffuse specialmente nel centro e nord Italia. Il rapporto di ActionAid e Open Polis. Bandi che vanno deserti, piccole realtà locali un tempo fiore all’occhiello e simbolo di integrazione chiuse, migranti spostati di città in città come pacchi postali. Sono queste alcune delle conseguenze dei decreti sicurezza, provvedimenti simbolo del governo giallo verde, fortemente criticati dall’opposizione, ma che ad oggi non sono stati né abrogati né modificati. Così l’accoglienza diventa mero controllo. A finire sotto i riflettori della seconda parte del rapporto pubblicato da ActionAid e Openpolis dal titolo: “La sicurezza dell’esclusione” è il corto circuito generato dai decreti sicurezza all’interno del sistema di accoglienza. La drastica riduzione degli importi per la gestione dei centri ha portato al taglio dei servizi volti all’integrazione come gli insegnanti di italiano, i consulenti legali e i mediatori. I Cas dunque divengono strutture dove i migranti devono attendere la decisione sulle richieste di asilo, trasformando di conseguenza il ruolo del Terzo settore denigrato a mero controllore dei soggetti ‘accolti’. Un cambiamento non gradito alla maggior parte degli attori che hanno quindi disertato i bandi di gara. Le prefetture nel caos. Ad essere in difficoltà in primis sono le prefetture che vedono andare deserti i bandi e non possono far altro che ripeterli. Questo ha portato nel tempo alla perdita di decine di posti e messo le prefetture in una condizione di immobilità tra regole inapplicabili e l’obbligo di garantire il servizio. “I dati - sottolinea Livia Zoli, responsabile Global inequality and migration di ActionAid - confermano come il nuovo capitolato svantaggi l’accoglienza diffusa. Non a caso il tema dei bandi deserti e delle gare riproposte emerge in maniera più decisa nel Centro e nel Nord Italia, dove prefetture e realtà del Terzo Settore avevano negli scorsi anni puntato su centri di dimensioni medio piccole, in un’ottica di inclusione dei migranti”. Il caso Toscana. Tra i tre tipi di centro ora previsti (singole unità abitative, centri collettivi fino a 50 posti e centri fino a 300 posti) i tagli più consistenti coinvolgono proprio quelli che prevedono l’accoglienza diffusa in appartamenti. La Toscana è presa ad esempio in quanto una delle regioni più colpite: a Livorno su mille posti messi a bando dopo l’approvazione del dl sicurezza solo 564 sono stati effettivamente assegnati mentre a Firenze le nuove gare hanno portato alla firma di solo tre convenzioni per un totale di 285 posti sui 1.800 inizialmente offerti. Per questo alcune regioni si stanno muovendo. A giugno la stessa Toscana ha stanziato 4 milioni di euro da destinare come cofinanziamento a favore di enti pubblici o del terzo settore per progetti destinati alle persone straniere rimaste prive di reti di inserimento sociale. Mentre la regione Lazio, che già lo scorso anno aveva stanziato 1,2 milioni di euro per sopperire ai tagli del decreto sicurezza, grazie a un emendamento al bilancio del consigliere Alessandro Capriccioli ha destinato 700mila euro per realizzare percorsi di autonomia, corsi di italiano, assistenza legale e formazione per richiedenti asilo, rifugiati e beneficiari di altre forme di protezione internazionale. La Libia spartita e declassata. E noi con lei di Alberto Negri Il Manifesto, 8 gennaio 2020 L’aria che tira è quella della spartizione tra Tripolitania e Cirenaica. A puntate, con una riunione internazionale dopo l’altra, si va verso una sorta di “declassamento” di fatto del riconoscimento dell’Onu assegnato al governo di Tripoli per aprire la strada, al massimo, a qualche labile soluzione confederale dove il nocciolo vero della questione è la divisione delle risorse petrolifere. Per evitare l’escalation del conflitto non ci sono altre soluzioni: cosa che era già evidente nel 2011 quando il 19 marzo Francia, Gran Bretagna e Usa attaccarono Gheddafi per sostenere i ribelli di Bengasi. Tutti sapevano già allora che le divisioni tribali ma anche regionali e locali avrebbero avuto un ruolo decisivo perché lo Stato libico esisteva da 40 anni solo nella persona di Gheddafi e nella sua cerchia di potere, non in una realtà amministrativa e militare tenuta dal raìs in una condizione quanto mai labile per il timore che si costituisse qualche realtà nazionale a lui ostile. E infatti una volta che la Francia di Sarkozy - a sua volta foraggiato da Gheddafi - ha infiltrato la cerchia di potere nei mesi precedenti la rivolta lo stato libico ha cominciato a liquefarsi e non è mai più riaffiorato, preda delle divisioni interne, del radicalismo islamico e delle influenze internazionali. Come avviene per ogni Stato “fallito” ma potenzialmente assai ricco che produce gas e petrolio gli appetiti interni ed esterni sono forti, qui come in Iraq o in Yemen. In più la vastissima Libia è un incrocio nevralgico tra Mediterraneo e Africa che fa troppo gola alle potenze coinvolte nella regione. Tutto dunque è la Libia, tranne una cosa: un porto sicuro per i migranti come hanno cercato di illudersi e illudere i nostri governi. Anche in questo abbiamo sbagliato di grosso perdendo di vista la vera partita geopolitica. Decideranno le battaglie sul campo come quella in corso a Sirte tra il generale Khalifa Haftar, il governo di Tripoli e la città-stato di Misurata, dove ci sono oltre 300 militari italiani a guardia di un ospedale. Ma a fare la differenza saranno soprattutto i due protagonisti delle vicende mediterranee, Putin ed Erdogan, che oggi si incontrano ad Ankara a inaugurare il Turkish Stream ma a parlare anche di molto altro, dalla Libia alla Siria, alla tensione Usa-Iran. Erdogan, alleato della Nato ormai fuori controllo, ha inviato le truppe a Tripoli e mercenari jihadisti per aiutare Sarraj e i Fratelli Musulmani, Putin appoggia con i suoi mercenari Haftar, insieme a Egitto, Emirati, Arabia Saudita, con Francia e Stati Uniti che esibiscono un atteggiamento sempre assai ambiguo ma di fatto più favorevole al generale che a Tripoli. Dalla parte di Haftar, a parte Putin, ci sono i maggiori acquirenti di armi di Washington come sauditi ed emiratini, alleati tra l’altro di Usa e Israele contro l’Iran degli ayatollah. L’Italia non sta in mezzo ma sotto. Ufficialmente è con Tripoli ma sta cercando di riposizionarsi intensificando i rapporti con Haftar incontrato da Di Maio a dicembre e che dovrebbe tornare presto a Roma. L’Italia sta sotto perché i suoi alleati occidentali hanno turlupinato il governo Berlusconi nel 2011 quando attaccarono Gheddafi e la spinsero, su decisione dell’ex presidente Napolitano, a unirsi ai raid della Nato. Sta sotto perché deve salvare capra e cavoli, in particolare l’Eni, che è ancora la maggiore azienda libica, gestisce il gasdotto Green Stream e fornisce il 70% dell’elettricità al Paese, insieme a quelle commesse che il defunto raìs ci aveva promesso (50 miliardi di euro). La Libia era la nostra torta di frutta candita ma da tempo le fette le decidono gli altri. Un decennio fa nella tenda di Gheddafi il raìs distribuì onorificenze e medaglie a Giulio Andreotti, Lamberto Dini, all’ex ministro Giuseppe Pisanu, a Vittorio Sgarbi, al premier Berlusconi, a Frattini, Prodi e D’Alema. Aveva in pratica premiato tutta la classe dirigente della Repubblica che di lì a poco poi lo avrebbe abbandonato. L’attuale ministro degli Esteri italiano Di Maio, ieri alla riunione Ue sulla Libia a Bruxelles e oggi al Cairo con Francia Grecia e Cipro, invece deve stare attento a non fare gaffe. Così prima di incontrare il fronte pro-Haftar e anti-turco vedrà il ministro degli Esteri di Ankara Mevlut Cavusoglu. Sulla Libia non abbiamo più nessuna leva, non piacciamo troppo ad Haftar e neppure a Sarraj che ormai parla solo con Erdogan. Per questo stiamo sotto botta: è finita da un pezzo per noi l’era dei ricchi premi e cotillons, quelli li dava solo il raìs. Nigeria. Sono 2.745 i prigionieri nel braccio della morte nessunotocchicaino.it, 8 gennaio 2020 Il Servizio Correzionale della Nigeria (NcoS) ha reso noto essere circa 2.745 i condannati a morte in attesa di esecuzione nelle carceri di tutto il Paese. Il Supervisore Generale dell’NCoS, Ja’afaru Ahmed, lo ha comunicato durante un tour per i media nel centro agricolo di Dukpa, Gwagwalada, il 18 dicembre 2019 ad Abuja. Ahmed, rappresentato dal portavoce del Servizio, Francis Enobore, ha affermato che la riluttanza di alcuni governatori statali a firmare le condanne a morte dei prigionieri è uno dei fattori che contribuiscono alla congestione nelle strutture correzionali. “Alcuni governatori statali non sono disposti a firmare condanne a morte di detenuti, né sono pronti a commutare le loro condanne a morte in ergastolo”, ha detto. “Questo è importante; alcune delle loro disposizioni autorizzano i centri correzionali a respingere i detenuti in modo che le strutture non siano sovraffollate”, ha detto. Il Supervisore Generale ha anche rivelato che 22 ex membri del gruppo Boko Haram, che erano stati de-radicalizzati dal Servizio Correzionale, si sono presentati all’esame per il Certificato di scuola superiore. Ha descritto il processo di de-radicalizzazione da parte del Servizio come parte delle misure di riabilitazione. India. Quattro impiccagioni per lo stupro di Nirbhaya di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 8 gennaio 2020 Saranno impiccati il 22 gennaio gli stupratori di Jyoti Singh, nota a tutti come Nirbhaya (colei che non ha paura), la studentessa di 23 anni che a dicembre del 2012 salì su un autobus a Nuova Delhi insieme con il suo fidanzato e ne uscì in fin di vita. Il caso fece scalpore in tutto il mondo, in India la gente scese in piazza e denunciò il dilagare di una cultura dello stupro. Oggi la Corte d’assise di Nuova Delhi ha stabilito la data delle sentenze di condanna a morte per lo stupro di gruppo. Sul patibolo saliranno quattro dei sei aggressori perché, nel frattempo, uno di loro è morto e l’altro, minorenne al momento del delitto, ha scontato tre anni in un riformatorio. Le sentenze, emesse in primo grado nel 2013, sono state confermate nel 2014 in appello; nel 2017 la Corte suprema ha respinto le istanze di revisione. La data dell’esecuzione è stata fissata dal giudice Satish Kumar Arora ma ora i condannati hanno 14 giorni per presentare eventuali ricorsi. La madre della vittima, Asha Devi, ha dichiarato che la figlia “ha avuto giustizia” e che l’esecuzione rafforzerà le donne e la fiducia delle persone nel sistema giudiziario. La sera del 16 dicembre 2012 i due ragazzi erano andati al cinema. All’uscita avevano preso il bus per tornare a casa ma furono aggrediti dai sei uomini presenti a bordo, compreso l’autista. Dopo lo stupro e le torture gli aggressori buttarono i due corpi in mezzo alla strada. Nirbhaya morì due settimane dopo a Singapore dove era stata trasferita nell’estremo tentativo di salvarle la vita. La ragazza divenne un simbolo. La sua storia è stata raccontata anche dal documentario della Bbc India’s Daughter e dal film di Deepa Mehta Anatomy of Violence. Secondo dati del National Crime Records Bureau (Ncrb), l’agenzia governativa indiana responsabile delle statistiche giudiziarie, e dell’Asian Centre for Human Rights (Achr), un’organizzazione per i diritti umani, l’ultima condanna capitale in India è stata eseguita nel 2015. Dal 1991 le esecuzioni sono state 26. Nel 2018 sono state pronunciate 400 condanne a morte e la presidenza della Repubblica ha emesso 1.200 atti di commutazione della pena con l’ergastolo. Nel 2007 l’India ha votato contro la moratoria universale della pena di morte ratificata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite e nel 2012 contro il progetto di risoluzione della stessa Assemblea volto a porre fine all’istituzione della pena capitale a livello globale. Nel 2015, la Commissione legale dell’India ha presentato al governo un rapporto che raccomandava l’abolizione della pena capitale per tutti i reati, ad eccezione dei crimini di guerra o di quelli connessi al terrorismo. Congo. Undici morti in carcere centrale della capitale Kinshasa da inizio anno agenzianova.com, 8 gennaio 2020 Almeno undici detenuti sono morti dall’inizio dell’anno nella prigione centrale di Makala, la più grande nella capitale congolese Kinshasa. Lo ha riferito ai media locali un funzionario del carcere, precisando che le ultime tre persone sono morte lunedì per mancanza di cure e medicinali. Secondo Emmanuel Cole, responsabile di un’organizzazione locale attiva nella difesa dei diritti dei carcerati, la prigione di Makala e quasi tutte le carceri del paese sono sprovviste di cibo e medicinali da quando, a ottobre scorso, lo stato ha smesso di erogare fondi per queste necessità. Il ministro della Giustizia congolese Celestin Tunda Ya Kasende ha ammesso “ritardi nei pagamenti”, ma assicurato che dallo scorso lunedì la situazione è stata regolarizzata. La prigione centrale di Makala fu costruita durante la colonizzazione belga per accogliere 1.500 persone. Secondo Cole, il complesso ospita attualmente 8.618 detenuti tra cui solo 500 condannati.