Giustizia è riconciliazione di Francesco Occhetta Il Riformista, 7 gennaio 2020 Con una recidiva al 68% e una spesa di 95 centesimi al giorno per rieducare i detenuti il modello di riabilitazione previsto dall’art. 27 della Costituzione non funziona. Per la Bibbia la giustizia penale cura le relazioni ferite e il suo significato a livello giuridico rimanda ad un aspetto di doverosità verso gli altri e di esigibilità verso sé stessi. Il suo significato è continuamente provocato da una domanda morale: “Chi è l’altro per me?” e dal senso ebraico di sedaqah, la giustizia intesa come solidarietà in relazione alla comunità di appartenenza. La Genesi racconta storie di conflitti violenti tra fratelli come quelli tra Caino e Abele, Isacco e Ismaele, Esaù e Giacobbe, Giacobbe e Labano, Giuseppe e i suoi fratelli. Nella Bibbia la fratellanza non è data biologicamente, è un punto di arrivo, non ha nulla a che vedere con i legami di sangue. L’uomo è “per natura” fratricida, mentre “per cultura” può diventare prossimo e giusto. Caino cosa risponde a Dio quando gli chiede “Dov’è tuo fratello”? Gli dice: “Sono forse io il custode di mio fratello”. Tuttavia, scrive Levinas, “nel momento in cui metto in dubbio quella dipendenza e chiedo come Caino che mi si dica per quale ragione dovrei curarmene, abdico alla mia responsabilità e non sono più un soggetto morale”. Proprio grazie al suo realismo, il modello di giustizia penale di Israele è servito per regolare nella storia il significato della pena e della sofferenza nei rapporti fra gruppi e Stati, tribù e nazioni che si impegnano a ristabilire giustizia e riconoscimento reciproco. La stessa legge del taglione, spesso utilizzata dai giustizialisti per giustificare la durezza delle pene, non include una risposta vendicativa, ma esige una proporzione tra il male provocato e la pena inferta. Ma c’è di più. Sfogliando la Bibbia non emerge un’idea astratta di giustizia, ma un’esperienza concreta di uomo “giusto”. Il processo a Gesù è emblematico. Il popolo sceglie di condannare il giusto e di liberare il malfattore. Pilato si era chiesto “ma che cosa ha fatto di male Costui?”, ma poi si lava le mani. Quando si alleano i grandi poteri, il giusto paga per tutti. La Chiesa non si stanca di denunciare questa dinamica. Nel 2014 anche Francesco, parlando di populismo penale, ha chiesto alla cultura della giustizia di “non cercare capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, [altrimenti c’è] la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste”. La morale biblica concepisce la giustizia penale secondo quattro principi: 1) “Non giudicare ma rieducare il colpevole”. Caino, l’archetipo dell’assassino, non viene abbandonato a sé stesso, non è escluso dalla premura di Ihwh. La tsedàqàh di Ihwh prevede per Caino un lungo cammino di espiazione e di riabilitazione dopo la cacciata dal giardino. 2) La responsabilità nell’esecuzione penale è oggettiva. La vittima deve ritrovare ciò che le è stato tolto: o il colpevole assume la propria responsabilità risarcendo del danno la vittima o i suoi familiari, oppure se ne fa carico l’intera comunità. Per la Bibbia la responsabilità è oggettiva, nel diritto romano la responsabilità è soggettiva e individuale. 3) La terra macchiata dal sangue deve essere bonificata altrimenti non darà più frutto per nessuno, nemmeno per le vittime o gli estranei a quell’azione violenta, perché il luogo della relazione e della reciprocità. 4) “Nella colpa c’è già parte della pena”. Lo ha ribadito nel 1987 il cardinal C.M. Martini parlando ai detenuti del carcere di San Vittore: “Nella colpa c’è quindi insita una sofferenza, una umiliazione e una esclusione dalla comunione pacifica degli uomini”. La funzione della pena è trasformare la colpa in responsabilità per riabilitare a un nuovo inizio. Si punisce severamente il male fatto, ma si salva chi lo ha fatto. Ci si divide tra giustizialisti - che fondano la loro idea di giustizia sulla vendetta - e permissivisti che minimizzano l’accaduto. Tutto questo però cambia quando la giustizia tocca la carne e gli affetti. In quale modo è possibile garantire la certezza della pena insieme alla certezza della rieducazione? Con un tasso di recidiva che si aggira intorno al 68% e una spesa di solo 95 centesimi al giorno per la rieducazione dei detenuti il modello di riabilitazione previsto dall’art. 27 della Costituzione non funziona Cosa significa per uno Stato come l’Italia con la sua cultura giuridica il filmino postato dal ministro Guardasigilli Bonafede sull’arrivo cli Battisti all’aeroporto? Un video di tre minuti accompagnato da una musica trionfale con un montaggio da trailer cinematografico per l’arrivo di un detenuto. È solo un esempio che indica come il modello vigente di “giustizia retributiva” è arrivato al suo massimo grado di positivizzazione. È scomparso persino il nome “grazia” al Ministero di Giustizia. In quella parola si rinchiudeva un distillato di civiltà. Siamo arrivati a difenderci dal processo e non nel processo. per aver smarrito il senso di ciò che è giusto in sé. La giustizia biblica in questi ultimi anni ha però ispirato il modello di giustizia riparativa. un “prodotto culturale” che pone al centro dell’Ordinamento il dolore della vittima e la riparazione del reo. L’antropologia della pena viene stabilita rispondendo a tre domande: chi è colui che soffre? Qual è la sofferenza? Chi ha bisogno di essere guarito? Il percorso si articola in alcuni fondamentali passaggi: 1. Il riconoscimento del reo della propria responsabilità davanti alla vittima e alla società. 2. L’incontro con la vittima. 3. L’intervento della società attraverso la responsabilità diretta e la figura del mediatore. 4. L’elaborazione della vittima della propria esperienza di dolore. 5. L’individuazione della riparazione che può essere la ricomposizione di un oggetto o di una relazione. A chiederlo è la Raccomandazione n. 19/1999 del Consiglio d’Europa: va fatta crescere la cultura della mediazione e formati i mediatori penali. Tecnicamente la giustizia riparativa non è negoziazione: non è risarcimento: non è prestazione volontaria sociale nel carcere e fuori; non è diventare collaboratori di giustizia; non è il premio della messa alla prova o dell’applicazione delle misure alternative ecc. È un modello culturale che aiuta il modello classico ma capovolge il significato di giustizia. Il salto culturale è quello di far emergere la verità e passare dall’intimidazione della pena alla riabilitazione del detenuto che incontra il dolore della vittima. prende coscienza del male fatto e concretamente ripristina un oggetto o una relazione rotta o distrutta. Riemerge culturalmente il modello biblico, tra la mispat (la giustizia classica) e il rib (lite bilaterale). con cui iniziano i libri di Isaia, Osea e Geremia e che la Scrittura presenta come integrativi al sistema penale e alle sue sanzioni. La dinamica è triplice: l’accusa, la risposta dell’accusato e il perdono che permette una vera riabilitazione/riparazione. Lo testimoniano esempi silenziosi e luminosi. Anna Laura Braghetti, che freddò con 11 colpi Vittorio Bachelet, ha ricordato l’incontro avuto con suo figlio: “Ci siamo riconosciuti. Mi ha parlato e mi ha detto che bisogna saper riaccogliere chi ha sbagliato. Lui e i suoi familiari sono stati capaci di farlo addirittura con me. Li ho danneggiati in modo irreparabile e ne ho avuto in cambio solo del bene”. Daniela Marcone, responsabile nazionale Libera Memoria, a cui è stato ammazzato il padre. ha spiegato così la riparazione: “Ogni volta che viene commesso un crimine, questo coinvolge direttamente il reo e la vittima. ma in realtà si crea uno strappo anche ai danni della comunità in cui reo e vittima vivono: questo strappo occorre ripararlo”. Lina Evangelista, moglie di un poliziotto assassinato dai neofascisti dei Nar nel 1980, ha affermato: “Perdonare non significa dimenticare il passato, si ricorda tutto. ma in modo diverso”: e. dopo aver incontrato gli assassini del marito, confida: “I mostri si sono rivelati tutt’altro”. Agnese Moro ha scritto agli assassini del padre dopo aver riletto le terribili pagine dell’autopsia che parlano della sua agonia: “Dopo questa lettura - ha raccontato - sono stata davvero sicura di non aver annacquato nulla: che il mio cammino verso di voi. come il vostro verso di noi, è stato fatto senza semplificare e senza mettere niente tra parentesi”. La giustizia (biblica) va costruita. è una scelta culturale. La scuola. le famiglie. le associazioni, le comunità ecclesiali. la società civile, possono investire e aprire pratiche condivise di giustizia riparativa. La politica ha una responsabilità in più. quella della “prevenzione primaria” che ridurrebbe i reati. come per esempio perseguire i paradisi fiscali, regolare gli appalti, contrastare le coltivazioni della droga. rinforzare l’etica della sessualità per contrastare gli abusi ecc. Quando gli Usa negli anni Novanta buttarono via le chiavi delle loro carceri i detenuti aumentarono di 5 volte e arrivarono a due milioni. I posti liberi di coloro che delinquivano vennero occupati da altri. La notizia di questi giorni il caso di James Dailey, 73 anni, trenta dei quali trascorsi in cella in Florida. Un altro uomo ha confessato l’omicidio di cui è accusato ma le autorità rifiutano di riaprire il caso e lui rischia la pena di morte. È questo un esempio anti-biblico. Nel tempo dell’eclissi della giustizia varrebbe la pena rileggere l’opera del gesuita E. Wiesnet “Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita sul rapporto fra cristianesimo e pena”. L’opera è dedicata a un ragazzo di 19 anni a cui, dopo tre anni di detenzione, è negata ogni riconciliazione dagli abitanti del suo villaggio. Si impicca per disperazione dopo sei settimane. Nella sua lettera di addio lascia scritto: “Perché gli uomini non perdonano mai!”. Due morti di tumore in carcere per un 2019 da dimenticare di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 gennaio 2020 Il primo decesso a Voghera a Natale, l’altro a Poggioreale il 27 dicembre. Due sono i casi emblematici che hanno chiuso tragicamente l’anno 2019. Parliamo di due persone affette di un tumore che sono morte quando oramai la loro malattia risultava in stato avanzato. Il primo riguarda il caso di Salvatore Giordano, già segnalato da Il Dubbio grazie alla denuncia resa pubblica dall’associazione Yairaiha Onlus. Ai familiari era stato detto che il detenuto - recluso nel carcere di Voghera aveva un lieve ingrassamento del fegato da curare con l’alimentazione, ma quando sono andati a trovarlo in ospedale la vigilia di Natale lo hanno trovato in condizioni devastanti. Non riconosceva nessuno, biascicava parole senza senso, magrissimo, pieno di macchie cutanee rosse e munito di un pannolino: ha il tumore al fegato di grosse dimensioni con tanto di metastasi. Parlando con un medico dell’ospedale, i familiari hanno appreso che la situazione era già compromessa da diverso tempo e l’aggravamento non era di certo avvenuto nelle poche ore di degenza in ospedale. A quel punto hanno sporto una denuncia a carico dell’amministrazione penitenziaria del carcere di Voghera, per eventuali negligenze nella cura. Purtroppo, notizia data recentemente da Sara Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha, il recluso Salvatore Giordano non ce l’ha fatta. È morto nell’ospedale di Voghera, da detenuto. “Ma non importerà a nessuno - spiega amaramente Berardi - non ai responsabili, non ai media, non alla stragrande maggioranza della società. Era un detenuto, qualcuno che ‘ qualcosa aveva fatto per essere lì’, un uomo che per lo stato non aveva più diritto di essere curato. Importerà alla sua famiglia, a noi e pochi altri. E non ci arrenderemo mai di fronte a questa barbarie; continueremo a lottare anche per lui”. L’altro caso riguarda il 47enne Giovanni De Angelis, malato di tumore all’intestino con metastasi lungo tutto il corpo, detenuto nel carcere di Poggioreale e morto il 27 dicembre all’ospedale Cardarelli. “Aveva un colloquio con me il giorno 3 dicembre 2019 - denuncia il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello - e dopo diversi solleciti a livello sanitario, il detenuto veniva tradotto presso il Cardarelli, dal quale veniva dimesso con prognosi tumorale che annunciava “una vita breve”. Sollecitato dal garante regionale, la Direzione Sanitaria del carcere di Poggioreale confermava che il 5 dicembre aveva emesso un certificato di incompatibilità col regime carcerario. “Voglio qui ricordare - sottolinea sempre Ciambriello- che nella nostra Regione si contano sulle dita di una mano le dichiarazioni di incompatibilità col regime carcerario”. Successivamente, il 19 dicembre 2019, durante un colloquio con una collaboratrice del garante risultava depresso, confuso, e affetto da schizofrenia indifferenziata. “Dalla fine del mese di novembre, e per l’intero mese di dicembre, il suo avvocato chiedeva, senza ottenere alcuna risposta, al Tribunale di Sorveglianza di Napoli una concessione di misura alternativa alla detenzione”. Il 27 dicembre scorso, dal carcere di Poggioreale veniva allertato il 118 e così il detenuto veniva portato al Cardarelli dove, lo stesso giorno, Giovanni De Angelis morirà”, conclude il garante regionale Ciambriello. Stallo sulla giustizia: accordo lontano e il vertice slitta ancora di Giulia Merlo Il Dubbio, 7 gennaio 2020 Sulla carta e nelle agenzie si tratta di uno slittamento dovuto a per “ragioni legate all’agenda di palazzo Chigi”. In realtà, il vertice sulla prescrizione atteso per oggi e posticipato al 9 gennaio rischia di provocare l’ennesimo scossone nella maggioranza e per questo il premier Conte ha deciso di prendersi qualche manciata di ore in più. Per far sbollire gli animi, soprattutto, in modo da evitare un rientro dalle ferie con un violento muro contro muro tra alleati. Inizialmente si era pensato di posticiparlo addirittura a dopo il voto emiliano, ma l’ipotesi è immediatamente tramontata davanti alle conseguenze che avrebbe provocato: prima tra tutte, il fatto di dare la sensazione di un rinvio alle calende greche con una sorta di vittoria a tavolino dei grillini, ma anche il rischio dell’approdo in aula della legge Costa, un solo articolo che abroga in toto la norma Bonafede, ripristinando la prescrizione precedente alla Spazza-corrotti. Nemmeno il 9 gennaio non mette al riparo da tutte le insidie, in particolare quella che qualche manina presenti un emendamento al testo di Costa (l’ultima data utile è l’8 gennaio) che ricalchi la proposta avanzata dal Pd il 28 dicembre, in modo da mettere al muro i dem (“noi siamo pronti a votarlo”, hanno ripetuto sibillinamente i forzisti da quando il ddl targato Orlando è stato depositato sia alla Camera che al Senato). A quel punto, il vertice già di per sé teso si appesantirebbe di una questione in più. Ad oggi, gli orizzonti dentro e fuori dalla maggioranza rimangono quanto mai distanti. Se le opposizioni - Lega compresa, anche se la aveva votata quando era al governo ma con l’assicurazione di una complessiva riforma del sistema penale - sono compatte contro la riforma, nell’esecutivo il Movimento 5 Stelle appare isolato nel suo essere l’unico schieramento a difendere lo stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio. I vertici di Italia Viva, invece, hanno individuato proprio nella prescrizione la loro battaglia campale: hanno partecipato alla maratona oratoria delle Camere penali, lasciando trapelare senza troppi giri di parole che sulla prescrizione sono pronti a votare in disaccordo con la maggioranza anche la legge Costa (dopo aver votato un ordine del giorno sul tema proprio del forzista, durante le sedute fiume per l’approvazione della legge di Bilancio) e il leader Matteo Renzi ha continuato a ripetere in tutte le sedi come non sia pensabile un arretramento rispetto a questo principio di civiltà giuridica. Ora proprio Iv, che aveva anche minacciato di disertare il vertice, attende “con serenità” il 9 gennaio, forte delle proprie posizioni diametralmente opposte a quelle del ministro Alfonso Bonafede. “Siamo pronti a discutere se c’è la volontà di correggere questa barbarie giuridica. Altrimenti voteremo la proposta Costa e tutte le forze politiche si assumeranno le proprie responsabilità davanti ai cittadini”, ha riassunto il deputato Luciano Nobili. Più complicata ancora, se possibile, la situazione del Partito Democratico. I dem hanno presentato a entrambe le Camere una proposta di legge che ripristina l’ordinario scorrere della prescrizione ma fissa una sospensione massima di tre anni e sei mesi tra i gradi di giudizio. “La presentiamo, ma puntiamo a non doverla discutere perché crediamo spetti alla maggioranza farsi carico di mediare sulla questione e offrire una sintesi virtuosa che rispecchi le attuali forze politiche al governo, di cui tre quarti sono contrarie alla norma come attualmente formulata”, ha spiegato il responsabile giustizia Walter Verini, che non ha voluto mettere pressione sui tempi ma si è appellato al premier Conte perché porti a più miti consigli il Guardasigilli Alfonso Bonafede, arroccato sulle proprie posizioni. Proprio qui sta il nodo politico che pesa sulla scrivania del Presidente del Consiglio. I 5 Stelle in emorragia di voti e di parlamentari difendono la prescrizione con la stessa foga usata per Quota 100 e il Reddito di cittadinanza, la considerano una legge simbolo e non sono disposti a toccarla proprio ora che è entrata in vigore da meno di una settimana con gran fanfara sui social network. I dem, che la avevano avversata addirittura contestandone l’incostituzionalità, sanno bene di non poter arretrare di un passo perché rischierebbero di offrire il fianco ai renziani, pronti a partire lancia in resta. E non solo loro, perché anche Azione di Carlo Calenda, Più Europa, Energie per l’Italia e Radicali italiani hanno convocato per oggi un presidio davanti a Montecitorio. Due debolezze contrapposte, quelle dei grillini e del Pd, che rendono difficile qualsiasi mediazione, eppure una dovrà essere trovata. E presto anche, perché la polvere sotto il tappeto dell’Esecutivo si sta accumulando e, a forza di dilazioni, il summit di governo fissato a fine gennaio per costruire l’agenda 2020 rischia di diventare - anziché il carburante per farlo ingranare - il campanello d’allarme per il Conte 2. Prescrizione addio e processi ormai eterni: una volontà punitiva che umilia la Carta di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 7 gennaio 2020 L’inizio del nuovo anno è segnato da una legge che elimina la prescrizione del reato: un istituto giuridico di lunga tradizione, coerente con l’impianto costituzionale che stabilisce che il processo debba avere “una ragionevole durata”, che la presunzione di incoerenza sia effettiva fin alla sentenza definitiva, e che la sanzione cioè la pena sia finalizzata a redimere il colpevole e reintegrarlo nella società. Questo impianto cosi armonioso ed equilibrato, quale quello italiano che vuole essere coerente con una società coesa e solidale viene compromesso da una infausta legge che stabilisce che per ogni reato vi sia un tempo indeterminato per verificare se sia stato effettivamente commesso dal presunto responsabile. La potestà sanzionatoria dello Stato, che deve garantire la società nel suo complesso, e sanare lo strappo che la devianza ha determinato nel suo tessuto organizzativo, viene sminuita perché si prolunga nel tempo. Il processo scandalosamente lungo in Italia viene quindi ulteriormente, e forse dolosamente prolungato e la sanzione viene inflitta dallo Stato quando probabilmente non è più necessaria perché sono mutati il contesto e gli elementi che erano presenti al momento della commissione del reato. È in assoluto la cosa peggiore che si potesse verificare all’inizio di un nuovo decennio che con appropriate riforme dovrebbe consolidare la democrazia e la libertà fondamentali. Anche con articoli pubblicati su questo giornale, ma con il parere favorevole di tanti, ho salutato a settembre questo governo con qualche riserva ma con entusiasmo pensando che uno dei due populismi presenti nel precedente governo nella lega e nel movimento cinque stelle potesse essere superato perché controllato da una forza politica che nel suo logo ha la parola “democratico”. Registriamo che la “identità” del Pd non esiste perché succube dell’indistinto del movimento cinque stelle in tutte le questioni istituzionali dal taglio dei parlamentari che colpisce la rappresentanza e intacca il prestigio del Parlamento, alle mancate modifiche dei decreti “sicurezza” pur richieste del Presidente della Repubblica, al più bieco populismo penale con l’entrata in vigore della legge che elimina in maniera complessiva e totale la prescrizione. Un paese che vanta una tradizione culturale e giuridica invidiata da altri Stati e che ha insegnato il diritto come garanzia di libertà si imbatte dopo secoli con un livello infimo di cultura istituzionale non consentita e non tollerabile per il governo del paese. Il quale non essendo in grado nella sua interezza di risolvere il problema della lentezza dei processi della giustizia, elimina il termine per i processi che non saranno più “lenti” perché senza limiti di tempo qualunque sentenza apparirà tempestiva. Anche se senza toni eclatanti la migliore magistratura e la cultura giuridica del Paese, soprattutto negli ultimi giorni, si sono espresse unanimemente dando un giudizio negativo sulla legge ma questo non ha alcun valore. È incredibile che il Parlamento e il Governo consentano questo, ed è incredibile che un ministro senza cultura ribadisca come un capriccio che si tratta di una riforma epocale, perché questa dichiarazione costituisce un oltraggio alla intelligenza delle persone. È necessario d’altra parte precisare che la eliminazione della “prescrizione “non ha solo un disvalore settoriale né si riferisce solo ai protagonisti del processo, ma sconvolge l’ordinamento e lo allontana dalla Costituzione repubblicana facendo prevalere una volontà punitiva, astiosamente punitiva, che non è prerogativa dello Stato democratico. Lo Stato non ha un interesse punitivo, e attualmente, come è stato detto, ha invece una “passione punitiva” fuori dalle regole perché la sanzione deve servire alla rieducazione del responsabile, cosi come stabilisce appunto la Costituzione. L’attuale governo che doveva ristabilire l’equilibrio dei poteri calpestato dal precedente, non ha retto alla prova e non ha alcuna ragione di continuare perché non solo non garantisce quell’equilibrio ma attenta allo Stato democratico. Sarebbe utile leggere gli atti parlamentari degli anni dal dopoguerra in poi, dove si registrano invettive contro il codice Rocco perché codice fascista, per scoprire che quelle norme non contenevano una abreazione come quella entrata in vigore: dalla civiltà giuridica alle inciviltà giuridiche. Manca dunque al governo una posizione illuminante di centro che riequilibri le estreme che non sono in grado di governare perché il Presidente del Consiglio come persona non ha la forza di poter orientare e guidare: d’altra parte su questo problema pur essendo avvocato e docente di diritto, il professor Conte ha accettato questa riforma “epocale” per continuare a governare. Giovanni Fiandaca ha avvertito che “un recupero dei principi della democrazia liberale deve avere tra i suoi presupposti un miglioramento qualitativo sia della cultura politica, sia delle conseguenze giuridiche costituzionali dei ceti dirigenti e dei cittadini in genere”. Si tratta di un appello drammaticamente urgente. Prescrizione, Caiazza: “Il referendum è un’impresa. Ci vogliono partiti e l’avvocatura unita” di Errico Novi Il Dubbio, 7 gennaio 2020 Parla Gian Domenico Caiazza presidente dell’Ucpi. “Impossibile raccogliere le firme per la consultazione senza l’impegno di forze politiche e sociali nel comitato promotore. La classe forense dovrà essere in prima fila, ma senza avventurismi improduttivi e ansie di protagonismo”. “Ma avete idea di cosa significhi? Io sì, ho avuto la fortuna, la considero tale, di sperimentare sulla mia pelle la titanica impresa di un referendum abrogativo”. Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali italiane, ha un background che non lo abbandona: la militanza radicale. Senza indugiare nel biografismo, il dettaglio gli è tornato utile un paio di volte solo nelle ultime settimane. Innanzitutto con la “Maratona oratoria per la verità sulla prescrizione”: “La maratona è un’idea pannelliana”, racconta sempre Caiazza, “che pagai da giovane militante con un comizio al freddo, in piena notte e davanti a nessuno”. La seconda scintilla che nel presidente dell’Ucpi è scoccata anche grazie al grande Marco è naturalmente il referendum per cancellare la norma sulla prescrizione. “La via abrogativa è allo stato l’unica. Con due opzioni: la legge Costa o, se non andasse avanti, il referendum. Che sarebbe una straordinaria occasione, anche unitaria, per l’avvocatura. La si può cogliere però solo a partire da due presupposti. Primo, deve esserci la concreta disponibilità, politica e finanziaria, di un certo numero di partiti. Secondo, vanno assolutamente evitate fughe in avanti e ansie di protagonismo all’interno della stessa avvocatura. Non ha senso proporre ora il testo del quesito referendario e addirittura inviarlo alle Regioni. È l’ultima cosa da fare. Prima bisogna essere certi di avere gambe che reggano l’impresa. Lo si deve verificare. Poi si procede”. Partiamo dal tentativo parlamentare: lo dà ormai per disperato? “No. Non ho affatto detto questo. Anzi. Vedo che la prospettiva di un sì alla legge Costa tende ad ampliarsi. Si dovrà attendere ancora qualche giorno: innanzitutto l’esito del vertice sulla giustizia, rinviato a dopodomani. Il punto è: il Pd terrà duro sulla propria posizione? Quali conseguenze sarà pronto a trarre, anche rispetto all’iter della legge Costa, in caso di mancato accordo con i 5 Stelle?”. Se non succede nulla alla Camera si parte subito con il referendum? “Il referendum è un obiettivo che noi dell’Unione Camere penali abbiamo già concretamente strutturato nella delibera del 31 dicembre: e per carità, 20 minuti dopo che le agenzie di stampa avevano dato conto del comunicato, già Matteo Salvini aveva dichiarato di essere pronto a sostenere la nostra iniziativa. Lo hanno subito seguito Fratelli d’Italia, Forza Italia e persino alcuni esponenti di Italia viva. Va tutto bene. Ma ora dobbiamo incontrare le forze politiche e valutare la loro concreta disponibilità”. Non si fida? “Ma non è una questione di fiducia. Il punto è che raccogliere 500mila firme, dico 500mila, è tra le imprese più difficili in cui un soggetto politico possa imbattersi. Tre anni fa noi penalisti abbiamo compiuto uno sforzo davvero disumano e siamo riusciti a raccogliere 70mila firma sulla proposta di legge d’iniziativa popolare per la separazione delle carriere. Ma bisogna aver avuto in vita un’esperienza come quella di promuovere una consultazione abrogativa, per capire davvero cosa significhi”. Lei lo ha fatto col Partito Radicale… “Ecco. Sono consapevole della difficoltà. E credo sia doveroso proteggere noi stessi, la dignità dell’avvocatura, e dell’intero fronte schierato nella battaglia sulla prescrizione, da un avventurismo improduttivo”. Servono molti soldi? “Serve innanzitutto un comitato promotore. Non vuol dire fare una lista di nomi. Significa realizzare una iniziativa politica condivisa, far convergere le forze organizzative ed economiche di più partiti, in modo da poter allestire tavoli per la raccolta, da poter contare su un sufficiente numero di segretari comunali, di soggetti certificatori. Incontreremo le forze politiche nei prossimi giorni”. Teme che alla fine più di un partito, tra quelli che si sono detti a favore del referendum, alla fine receda dissuaso dalla impopolarità delle battaglie garantiste? “Non ho questo timore. Sul tema della prescrizione si è ampliata molto l’attenzione dell’opinione pubblica, e persino dei media. È cresciuta la coscienza dei pericoli insiti in quella riforma e, più in generale, in un certo modo di intendere la giustizia penale. E mi pare evidente che diverse forze politiche sono ora intenzionate a intercettare tale nuova consapevolezza”. Cosa potrebbe portare le forze politiche a cambiare idea? “La politica modifica l’agenda delle proprie priorità in modo spesso veloce, imprevedibile. Perciò serve un impegno serio e concreto. In ogni caso parliamo di un progetto da edificare mattone su mattone, con pazienza e coscienza dello sforzo necessario. Perciò vanno evitate fughe in avanti, a cominciare dalla stesura del quesito, che è e deve essere l’ultimo dei problemi. Prima va verificata la disponibilità di tutti i soggetti, anche sociali, pronti a impegnarsi. Ed è chiaro che in prima fila dovrà esserci l’intera avvocatura”. Una campagna referendaria, una raccolta di firme contro la “nuova” prescrizione, può essere anche un’occasione per suggellare quella rinnovata consapevolezza del proprio ruolo sociale che l’avvocatura ha saputo maturare in questi anni? “Assolutamente sì. Vede, non a caso nella delibera che, come Unione Camere penali, abbiamo approvato il 31 dicembre, abbiamo auspicato il coinvolgimento dell’intera avvocatura nell’iniziativa referendaria. Credo che un grande ruolo potrà essere giocato, oltre che dalle Camere penali territoriali, anche dai Consigli dell’Ordine. Le firme si raccolgono sul territorio, e d’altronde siamo certi che l’attenzione per il tema travalichi il perimetro di noi penalisti”. Anche un avvocato non penalista vede dietro la nuova prescrizione il paradigma di un modo troppo sbrigativo di legiferare sulla giustizia? “Tutti gli avvocati colgono la rozzezza del messaggio veicolato con la nuova prescrizione. L’intera classe forense comprende quali rischi si nascondano dietro una legislazione in materia di giustizia che insegue solo i titoli dei giornali e le bandierine ideologiche senza alcun aggancio con la conoscenza reale delle questioni. Non si dimentichi poi che l’intera accademia è schierata non casualmente contro questa riforma della prescrizione. Non c’è uno studioso che la sostenga, e legittimamente ci si chiede com’è possibile che la politica ignori un dato del genere”. La raccolta firme per un referendum sulla prescrizione sarebbe anche una sorta di “maratona oratoria” diffusa, un’occasione per ripristinare la verità sulla giustizia penale e smontare il populismo giudiziario? “È esattamente l’idea che vogliamo realizzare con l’iniziativa referendaria. La maratona oratoria ci ha permesso di toccare con mano come basti fare un lavoro di informazione per demistificare le leggende sul processo penale; come sia sufficiente parlare in modo ininterrotto per colpire l’attenzione e incrinare il castello di menzogne sulla prescrizione privilegio di pochi. La partita si vince se si informano le persone. Ma ha bisogno di un’organizzazione. L’avvocatura può giocarvi una partita unitaria senza precedenti. A condizione che si vada uniti verso l’obiettivo”. Prescrizione, ultimatum dei dem: basta rinvii, la soluzione è urgente di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 7 gennaio 2020 Giovedì nuovo vertice. Senza una svolta potrebbe passare la controriforma di Forza italia. L’anno nuovo ripropone vecchie questioni, almeno in materia di giustizia. E chissà se i due giorni in più che il premier Giuseppe Conte s’è ritagliato prima della riunione con i partiti di maggioranza aiuteranno la mediazione finora fallita. L’appuntamento inizialmente fissato per oggi pomeriggio è slittato al 9 gennaio, causa sopravvenuti impegni del presidente del Consiglio alle prese con la crisi in medio Oriente. Ci sono quindi altre quarantott’ore per cercare di evitare un altro passaggio a vuoto. L’ennesimo. Il punto della discordia è sempre lo stesso: la prescrizione dei reati che dal 1° gennaio non esiste più dopo la sentenza di primo grado, di condanna o di assoluzione che sia, grazie alla legge votata da Cinque stelle e Lega un anno fa. Ora Matteo Salvini la rinnega, ma fu il suo partito ad accettare la modifica, rinviando l’entrata in vigore al 2020 perché nel frattempo altre riforme avrebbero dovuto accelerare i tempi del processo. Non se n’è fatto niente, Salvini ha provocato la crisi del governo Conte i e il Pd - che aveva votato contro il blocco della prescrizione ma ora sostiene il Conte 2 - s’è ritrovato nella scomoda posizione di dover chiedere ai neo-alleati grillini contromisure che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede fin qui s’è rifiutato di concedere. Ora i democratici (ma pure i renziani di Italia viva e Leu, ugualmente contrari al “fine processo mai”) si aspettano che il Guardasigilli arrivi con qualche proposta che vada nella direzione da loro indicata: l’introduzione di modifiche che tengano conto delle critiche giunte da tre partiti di governo su quattro, e non solo. Contro la nuova disciplina si sono schierati autorevoli costituzionalisti e gran parte dell’accademia, oltre che gli avvocati. E tra gli stessi magistrati sono state sollevate molte perplessità. La riunione di giovedì a Palazzo Chigi diventa dunque un passaggio decisivo, anche perché la partita che si sta giocando potrebbe avere importanti risvolti politici. Se nulla dovesse accadere, infatti, Italia viva ha già annunciato il voto favorevole al disegno di legge del forzista Enrico Costa che reintroduce i tempi di prescrizione com’erano fino all’anno scorso, sul quale il Pd ha intenzione di astenersi: uno scenario da quasi-ribaltone che avrebbe evidenti ripercussioni sulla tenuta dell’esecutivo. Motivo in più, per Conte, di impegnarsi personalmente al fine di evitare che la situazione precipiti. “Ci dev’essere un atto che certifichi un passo avanti verso una soluzione equilibrata del problema”, spiega il sottosegretario pd alla Giustizia Andrea Giorgis. Il quale ribadisce che l’obiettivo del suo partito non è garantire l’impunità ai responsabili di reati che inseguono la prescrizione per evitare le condanne, bensì “scongiurare effetti paradossali” che rischiano di allungare ulteriormente la durata dei processi: “Il trascorrere del tempo rende più urgente un intervento correttivo, perché non mitiga ma acuisce i potenziali effetti negativi della riforma”. Finora Bonafede ha ripetuto che il problema si risolve accelerando i tempi della giustizia penale con le riforme che lui stesso sta mettendo a punto. Giovedì dovrebbe riproporle, insieme ai dati con i quali sostiene che la riforma da lui voluta avrà effetti positivi sulla domanda di giustizia dei cittadini. Ma se non vuole introdurre la prescrizione processuale (decadenza dei procedimenti che non si concludono entro un certo tempo predeterminato per ogni fase) deve trovare o accettare qualche altro rimedio che stemperi le conseguenze dell’abolizione tout court della prescrizione dopo la prima sentenza. È ancora Giorgis a indicare un possibile percorso: “Se si riesce finalmente a presentare il testo della riforma del processo penale, si può discutere anche dell’ipotesi di far decorrere i tempi della prescrizione non più dal momento in cui si verifica il fatto-reato bensì dalla sua scoperta, garantendo così tempi congrui per indagini e processi”. Sarebbe una novità “rivoluzionaria” soprattutto per i reati dei cosiddetti “colletti bianchi”, come la corruzione o bancarotta, su cui spesso si comincia a indagare a molti anni di distanza. Sulla prescrizione nessuno la sta raccontando giusta di Bruno Tinti Italia Oggi, 7 gennaio 2020 La risposta: un processo rapido. Ma non si può fare perché provocherebbe una disoccupazione intollerabile. Nel secolo scorso, in alcuni piccoli paesi, c’era ancora l’acquaiolo, il venditore ambulante di un bicchiere d’acqua prelevata da un orcio che portava sulle spalle. La saggezza popolare ne aveva derivato l’esempio tipico della domanda stupida: acquaiolo, l’acqua è fresca? Oggi nessuno ci pensa più e quasi tutti prendono sul serio le dissertazioni più o meno dotte recitate da acquaioli la cui risposta è scontata: l’acqua è freschissima, signurì. Che volete che dicano gli avvocati sulla riforma della prescrizione? I loro clienti li pagano per non andare in galera. Che l’avvocato riesca a convincere il giudice che l’imputato è innocente (il che può essere difficile anche quando sia la verità), o che il reato si estingua per prescrizione, per lui si tratta di successo professionale. E volete che sia favorevole a una riforma che riduca o addirittura elimini le possibilità di questo successo? Che volete che dicano i magistrati sulla riforma della prescrizione? Un pm che ha lavorato come una bestia per anni, un giudice che ha condotto un dibattimento lungo e faticoso; possono mai essere favorevoli al mantenimento di una prescrizione che ammazza circa il 40% dei processi che sono costati tanto impegno? Che volete che dicano i cosiddetti colletti bianchi (i colletti neri non hanno di questi problemi, i reati che commettono loro non si prescrivono quasi mai) e i politici che sono loro avvinti da reciproci interessi? Possono, politici, imprenditori, professionisti, le categorie nelle quali ci sono quelli che praticano corruzione, falso in bilancio, frode fiscale, insider trading, turbative d’asta, accettare una riforma che chiude l’uscita di sicurezza da processi che sono costruiti per durare una vita e lasciarli “assolti, assolti”, come disse un celebre avvocato quando il suo cliente beneficiò appunto della prescrizione? Sono tutti acquaioli le cui alate argomentazioni (incivile, immorale, inumano e via così in una scala di crescente affettata indignazione) preludono a una conclusione che potrebbe essere anticipata e riassunta in una sintesi inequivoca: a me fa comodo così. Fuori dalla logica dell’acquaiolo, i termini del problema sono questi. La prescrizione esiste in tutti i Paesi civili. Dopo un po’ di tempo, lo Stato perde interesse a perseguire e punire gli autori di un reato. Scaduto il termine previsto dalla legge, non si può più procedere. E però: se lo Stato inizia un procedimento penale, prova più evidente che ha interesse a individuare l’autore del reato e a metterlo in prigione, non c’è. Quindi la prescrizione si blocca e tutti a lavorare. Poi ogni Paese ha un suo sistema processuale e arriva alla fine in tempi diversi. Ma alla fine ci arrivano tutti. Meno l’Italia. Da noi la prescrizione non consiste solo nel tempo trascorso dal momento in cui il reato è stato commesso a quello in cui si comincia a procedere; ma anche nel tempo durante il quale si procede. Insomma, quando parte non si ferma più. Se la condanna arriva prima che il termine di prescrizione sia decorso, bene. Se no, chiasso finito: il lavoro fatto si butta dalla finestra (magari c’è stata condanna in primo e secondo grado e si è in Cassazione per un ricorso delle balle su una presunta nullità processuale) e l’imputato è “assolto”. La cosa è ancora più grave perché il termine di partenza è uguale per tutti i reati: il momento in cui il delitto è stato commesso. Il problema sta nel fatto che, se vi rubano il motorino, voi denunciate il furto ai carabinieri il giorno stesso e le indagini partono subito. Ma se si tratta di una frode fiscale, le indagini partono nel quarto o quinto anno successivo, quando l’Agenzia delle entrate procede all’accertamento (sempre che lo faccia); e se il “nero” è stato utilizzato per corrompere qualcuno, che sia stata commessa una corruzione lo si sa ancora dopo. Quindi le indagini partono con molto ritardo ma il tempo trascorso viene comunque contato per la decorrenza del termine finale. Nel caso di una frode fiscale, il termine massimo di prescrizione è di 7 anni e mezzo. Perciò, nella realtà quotidiana ci sono da 2 a 3 anni mal contati per indagini, Tribunale, Appello e Cassazione. Non si arriva in Appello, spesso nemmeno in Tribunale. E pensate che gli avvocati (e i loro clienti) siano disposti a privarsi di uno strumento come questo? Non è questione di diritti umani e compagnia cantante. Qui di soldi si tratta. Bene, basterebbe semplificare il processo: una cosa rapida, efficiente e, anche tenendoci la prescrizione “italiana”, alla sentenza definitiva di condanna o assoluzione ci si arriverebbe. Ma il problema sempre lo stesso è. I soldi. In Italia ci sono 250 mila avvocati (in Francia 40 mila). A Torino ci sono più avvocati che a Manhattan. I dipendenti dello Stato impegnati nella Giustizia sono circa 45 mila (escluse - naturalmente - le forze di Polizia). Quanti perderebbero il lavoro con un processo spogliato e di tutte le formalità inutili, di tutte le memorie superflue, con un solo grado di giudizio e un ricorso, per soli motivi di diritto, in Cassazione? Quanti guadagnerebbero molto di meno? La Giustizia è un enorme ammortizzatore sociale. Inefficiente, irrazionale, improduttiva; ma dà da mangiare a tantissime persone. Che è il motivo per cui ogni riforma del processo penale è aria fritta, specchietto per allodole elettorali, discorsi fatti di niente. È così che siamo arrivati a questo punto. Con una prescrizione che, se allungata, permetterebbe di mandare in galera tanti delinquenti (soprattutto quelli più pericolosi, che ne beneficiano regolarmente: politici e colletti bianchi); e che però allungherebbe a dismisura processi già infiniti e terrebbe sulla graticola gli imputati per tempi insopportabili. Il che, per gli innocenti, è davvero iniquo, inumano, inaccettabile ecc. ecc. e che, d’altra parte, se ridotta o anche lasciata così com’è, costituisce una garanzia di impunità per i colpevoli (sempre quelli più pericolosi di cui sopra). Parafrasando Lenin: che fare? Escluso quanto necessario (un processo penale rapido ed efficiente avrebbe conseguenze sul piano occupazionale pari a 2 o 3 Ilva e a un paio di decine di Alitalia), niente. Come sempre. Csm e Anm fanno sparire il caso Palamara di Giovanni Altoprati Il Riformista, 7 gennaio 2020 Sparita dai radar l’indagine della Procura di Perugia, perse le tracce del procedimento disciplinare del Csm, anche la decisione dei probiviri dell’Anm sulle toghe coinvolte nel caso “Palamara” è finita nel cassetto. Dal Palazzaccio di piazza Cavour. sede dell’Anm. non si hanno da mesi più notizie sullo stato del fascicolo per violazione del codice etico aperto a carico dei magistrati coinvolti nelle cene dello scorso maggio con i deputati del Pd Cosimo Ferri, ora Italia viva, e Luca Lotti, dove si discuteva delle nomine di alcune Procure, iniziando da quella di Roma. Gli incontri romani fra toghe e politici furono registrati tramite il Trojan installato nel cellulare dell’ex presidente dell’Anm e membro del Csm, Luca Palamara. sotto indagine a Perugia dal 2018 per corruzione. Secondo l’accusa, Palamara avrebbe ricevuto denaro e benefit in cambio della nomina, non avvenuta, di Giancarlo Longo a procuratore di Gela. Era il 5 giugno quando il Comitato direttivo centrale dell’Anm decise all’unanimità di deferire al collegio dei probiviri i magistrati investiti dalla bufera scaturita dall’indagine della Procura del capoluogo umbro. Venne anche diramato un comunicato: il Comitato “deferisce al collegio dei probiviri. cui spetterà di verificare la sussistenza di violazioni del codice etico, i colleghi Luca Palamara, Cosimo Ferri, Luigi Spina, Antonio Lepre, Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli e Gianluigi Morlini, riservandosi di deferire altri colleghi che risultassero coinvolti nella medesima vicenda o in altre simili”. Trascorsi sei mesi da allora. il nulla. I cinque ex consiglieri, costretti alle dimissioni. sono da tempo tornati in servizio nei rispettivi uffici. Spina, indagato per rivelazione del segreto e favoreggiamento nei confronti di Palamara è addirittura procuratore facente funzioni a Castrovillari. una delle Procure più impegnate sul fronte del contrasto alla ‘ndrangheta. L’inerzia dell’Anni non ha molte giustificazioni. II procedimento disciplinare per violazione del codice etico è di prassi molto rapido. La particolare natura del giudizio disciplinare associativo riguarda, infatti, esclusivamente violazioni delle regole associative, senza alcuna censura di carattere morale, ma con un giudizio solamente giuridico. È un procedimento celere. in ragione dei diritti associativi in gioco. e non necessita della conclusione di altri procedimenti, ad esempio penali, aperti nei riguardi degli interessati. La decisione dei probiviri è poi sottoposta al voto del Comitato direttivo centrale, che può anche decidere, nei casi estremamente gravi, di espellere il magistrato dall’Anm. Considerati i tempi sarà molto però difficile che si arrivi ad una qualsiasi decisione. L’attuale Comitato direttivo centrale terminerà il mandato fra poche settimane. Le elezioni per il suo rinnovo sono state già fissate per il prossimo 22 marzo. A febbraio scadrà il termine per la presentazione delle candidature fra i rappresentanti delle varie correnti. Di questa vicenda, quindi, l’unico che al momento ha avuto contraccolpi” è stato Palamara, dallo scorso autunno in “ferie forzate”. Sospeso dal servizio e con lo stipendio ridotto, l’ex presidente dell’Anm attende la decisione delle Sezioni unite della Cassazione sul provvedimento cautelare disposto dalla sezione disciplinare del Csm. La tesi di molti commentatori secondo cui l’indagine di Perugia non sarebbe stato altro che un pretesto per il ribaltone degli equilibri all’interno magistratura associata prende sempre più corpo. Travolta Magistratura indipendente, la corrente di destra della magistratura e di cui facevano parte tre dei cinque consiglieri dimissionari, destinata alla scomparsa Unicost, la corrente di Palamara. l’asse vincente per i prossimi anni sarà quindi quello Davigo-Magistratura democratica. Con la massima soddisfazione del ministro Alfonso Bonafede, il primo supporter dell’ex pm di Mani pulite. Gratteri l’intoccabile di Ermes Antonucci Il Foglio, 7 gennaio 2020 L’inchiesta contro la ‘ndrangheta mostra già qualche crepa, ma è vietato criticare il procuratore. Seppur ancora nella fase cautelare, cominciano a emergere le prime crepe della maxi operazione contro la ‘ndrangheta, denominata “Rinascita-Scott”, lanciata prima di Natale dalla procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri, e che ha portato all’applicazione di addirittura 334 misure di custodia cautelare (260 arresti in carcere, 70 arresti domiciliari e quattro divieti di dimora). Giovedì il tribunale del Riesame di Catanzaro ha annullato l’ordinanza di custodia cautelare, revocando gli arresti domiciliari, nei confronti dell’esponente politico più importante coinvolto nella maxi retata. Si tratta di Luigi Incarnato, segretario calabrese del Psi e commissario della società di gestione degli acquedotti Sorical. Incarnato è indagato per corruzione elettorale. Secondo l’accusa, in occasione delle elezioni politiche del 2018, in cui era candidato nella lista del Pd, avrebbe offerto la propria collaborazione in cambio di voti a personaggi sospettati di avere legami con cosche del vibonese. “Come abbiamo sempre detto, abbiamo fiducia nella magistratura giudicante che ha fatto giustizia di una misura particolarmente afflittiva e, a nostro avviso, abnorme e particolarmente ingiusta”, ha dichiarato il legale di Incarnato, l’avvocato Franz Caruso. Incarnato non è l’unico a essersi visto annullare o attenuare la misura cautelare richiesta dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Se da martedì il tribunale del Riesame comincerà a esaminare il grosso delle impugnazioni presentate contro i provvedimenti cautelari (tra i ricorrenti spicca il nome dell’avvocato ed ex parlamentare Giancarlo Pittelli), sono già venti le persone indagate che hanno visto mutare la loro posizione. In seguito agli interrogatori di garanzia, infatti, il gip di Catanzaro ha deciso di rimettere in libertà sette persone, revocando il carcere o i domiciliari, e di attenuare le misure cautelari (dal carcere ai domiciliari o dai domiciliari all’obbligo di firma) nei confronti di altre nove persone. Il gip del tribunale dei minori ha rimesso in libertà un ragazzo ventenne, incarcerato per fatti che avrebbe commesso quando era minorenne. Il tribunale del Riesame, infine, ha annullato gli arresti domiciliari per Incarnato e il carcere per altre due persone. E pensare che, all’indomani della maxi retata e della conferenza stampa in cui erano stati illustrati i numeri dell’inchiesta, il procuratore Gratteri si era pure lamentato, prima via social e poi in televisione, delle poche prime pagine che i quotidiani avevano deciso di dedicare alla sua inchiesta e ai suoi arresti. Quegli stessi arresti che ora, in diversi casi, si stanno rivelando infondati (nel silenzio degli organi di informazione). L’intera vicenda assume tratti ancor più grotteschi se si considera la storia, raccontata nei giorni scorsi da Italia Oggi, di un imprenditore (titolare di una società di pompe funebri) finito agli arresti domiciliari nell’ambito della maxi operazione contro la ‘ndrangheta con l’accusa di aver risparmiato 80 euro nella qualità dei mattoni di un loculo. Nonostante tutto, il nome di Gratteri appare intoccabile. Ne sa qualcosa Otello Lupacchini, procuratore generale di Catanzaro, che nei giorni successivi all’operazione “Rinascita-Scott” aveva criticato pubblicamente l’operato della procura di Catanzaro: “Sebbene possa sembrare paradossale, non so nulla di più di quanto pubblicato dalla stampa, in quanto c’è la buona abitudine da parte della procura distrettuale di Catanzaro di saltare di tutte le regole di coordinamento e collegamento con la procura generale. I nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione della stampa, che è molto più importante della procura generale da contattare e informare”, aveva dichiarato Lupacchini, facendo anche riferimento all’”evanescenza di molte operazioni” condotte dalla procura guidata da Gratteri. Risultato? Al Csm i consiglieri di Area e di Magistratura Indipendente hanno chiesto di aprire una pratica per valutare le parole di Lupacchini ed eventualmente punirlo con il trasferimento. Caso Gregoretti. Un giusto processo contro i “pieni poteri” di Claudio Cerasa Il Foglio, 7 gennaio 2020 La difesa del leader della Lega sul caso Gregoretti mostra il lato più pericoloso del salvinismo: l’idea che i voti ricevuti ti possano permettere di essere considerato al di sopra della legge. Così Salvini è finito in un angolo proprio sull’immigrazione. Matteo Salvini, ieri pomeriggio, nel corso di una diretta Facebook, è tornato a occuparsi dei suoi problemi e lo ha fatto ricordando che “il 26 gennaio ci sarà l’eventualità di un processo nei miei confronti”. Salvini ha detto di non essere preoccupato, più che altro ha detto di essere “schifato e incuriosito”, e ha sostenuto che “solo in Italia possono provare a processare con l’ok del Parlamento un ex ministro che ha solo difeso i confini, la sicurezza e l’onore del paese”. “Mi vogliono mandare a processo - ha aggiunto l’ex ministro - per sequestro di persona perché ho bloccato per quattro giorni uno sbarco? Lo facciano. Io penso che non processeranno solo Matteo Salvini ma processeranno la stragrande maggioranza degli italiani”. Nel corso del suo videomessaggio, il leader della Lega ha cercato di mostrare una relativa serenità utilizzando uno stile simile a quello incarnato dal marchese del Grillo - senso del messaggio: io-so-io-e-voi-non-siete-un-cazzo - ma ancora una volta dovendo parlare delle accuse mosse contro di lui l’ex ministro ha scelto di non entrare in alcun modo nel merito, scommettendo tutto su una strategia difensiva finalizzata a dimostrare semplicemente un unico fatto: il popolo sta con me. Nell’approccio difensivo scelto da Salvini sul caso Gregoretti emerge però un problema non di secondo piano di cui forse il leader della Lega non si deve essere reso conto fino in fondo. La scorsa estate, Salvini è finito in un angolo nel momento stesso in cui ha forzato la mano chiedendo agli italiani di aiutarlo a conquistare i “pieni poteri” per governare l’Italia. L’espressione “pieni poteri” è stata spesso evocata dagli avversari del leader leghista per ricordare cosa potrebbe significare affidare un giorno i pieni poteri a un leader desideroso di far fare un passo fuori dall’Europa a uno dei paesi che l’Europa l’ha fondata. Salvini ha sempre negato di aver utilizzato l’espressione pieni poteri con il tono ducesco di chi vuole mettere il consenso su un piedistallo più elevato rispetto alle leggi e alla Costituzione. Il caso Gregoretti però ci dice che almeno sull’immigrazione Salvini considera il potere derivatogli dal consenso popolare più importante rispetto all’obbedienza della legge. E la lettura delle 57 pagine di accuse contenute nella domanda di autorizzazione a procedere trasmessa alla presidenza del Senato a metà dicembre dalla procura della Repubblica presso il tribunale di Catania è istruttiva su un fatto che riguarda un tema cruciale in una democrazia: l’idea che i voti ricevuti possano dare la possibilità a un politico di essere considerato al di sopra della legge. Sarebbe bello che Salvini rispondesse punto su punto alle contestazioni mosse dalla procura di Catania esercitando il suo diritto alla difesa - il leader della Lega è accusato di sequestro di persona aggravato dalla qualifica di pubblico ufficiale, dall’abuso dei poteri inerenti alle funzioni esercitate, nonché per avere commesso il fatto anche in danno di soggetti minori di età - ma c’è da scommettere che nei prossimi giorni continuerà a non offrire argomentazioni sul fatto se abbia o no, nella sua qualità di ministro dell’Interno, “abusato dei suoi poteri, privato della libertà personale 131 migranti di varie nazionalità a bordo dell’unità navale Gregoretti della Guardia costiera italiana”. Se abbia o no “violato le convenzioni internazionali in materia di soccorso in mare e le correlate norme di attuazione nazionali non consentendo, senza giustificato motivo, al competente Dipartimento per le libertà civili per l’immigrazione di esitare tempestivamente la richiesta di Pos, place of safety, presentata formalmente il 27 luglio 2019, bloccando la procedura di sbarco dei migranti e determinando così in modo consapevole la legittima privazione della libertà personale di questi ultimi, costretti a rimanere in condizioni psicofisiche critiche a bordo della nave Gregoretti ormeggiata nel porto di Augusta fino al pomeriggio del 31 luglio”. E se questo fatto, poi, sia stato o no “aggravato dall’essere stato commesso da un pubblico ufficiale con abuso dei poteri inerenti alle funzioni esercitate” e se sia stato commesso o no “anche in danno di soggetti di minore età”. “Se mi processeranno per aver difeso i confini, la sicurezza e l’onore del nostro paese, sarà come se processassero tutto il popolo italiano”, ripete da giorni Matteo Salvini. Ma quello che il leader della Lega tende a non dire ai suoi follower è che il problema di ciò che è successo con la nave Gregoretti - che tra l’altro è un problema ancora più grave rispetto a ciò che accadde con la nave Diciotti, perché la Diciotti era un mezzo attrezzato per specifiche operazioni di soccorso in mare, mentre la Gregoretti è una nave destinata all’attività di vigilanza, non è in grado di fornire un’adeguata sistemazione logistica a un così elevato numero di persone e non a caso ha accolto per diversi giorni i migranti sul ponte di coperta esponendoli agli eventi atmosferici senza che fossero presenti condizioni igienico-sanitarie tali da garantire a bordo la salute degli stessi migranti - ha a che fare con l’onore di un paese per le ragioni opposte a quelle suggerite dall’ex ministro. Salvini forse non lo sa, ma quando si parla di diritto del mare vi sono alcuni doveri a cui gli stati devono adempiere che hanno a che fare con il diritto alla vita e il rispetto della libertà e della dignità umana. Salvini forse non lo sa, ma l’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli stati e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Salvini forse non lo sa, ma le convenzioni internazionali cui l’Italia ha aderito non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità pubblica (articoli 10, 11, 117 della Costituzione) e costituiscono un “rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna” (l’articolo 117 prevede che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali). Salvini forse non lo sa, ma nel 1982 una convenzione che norma il diritto del mare (Unclos: United Nations Convention on the Law of the Sea) ha sancito (a) che ogni stato debba “esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericoloso di vita quanto più velocemente possibile” e che (b) ogni stato costiero ha l’obbligo di “promuovere l’istituzione, l’attivazione e il mantenimento di un adeguato ed effettivo servizio di ricerca e soccorso relativo alla sicurezza in mare”. Salvini forse non lo sa, ma il concetto di “obbligo di collaborazione ai fini del soccorso in mare” cui fa riferimento la Convenzione appena citata è parte di altre due convenzioni internazionali a cui l’Italia ha aderito nel 1974 (la Solas: Safety of Life at Sea) e nel 1979 (la Convenzione internazionale di Amburgo sulla ricerca e il soccorso marittimi: la Sar, Search and Rescue). Salvini forse non lo sa, ma la convenzione di Amburgo, in particolare, obbliga gli stati “a garantire che sia prestata assistenza a ogni persona in pericolo in mare” e “a fornire le prime cure mediche o di altro genere e a trasferirla in un luogo sicuro”. Salvini forse non lo sa, ma l’atteggiamento avuto sul caso Gregoretti con buona probabilità (siamo sempre garantisti) è in violazione non solo del diritto del mare ma anche di una legge fatta dallo stesso Salvini, “stante quanto previsto dall’articolo uno del decreto sicurezza bis convertito in legge l’8 agosto del 2019 secondo il quale il ministro dell’Interno può limitare o vietare l’ingresso il transito o la sosta di navi nel mare territoriale per ordini di sicurezza per motivi di ordine e sicurezza pubblica salvo che si tratti di naviglio militare”. Salvini può solo dire che il popolo è con lui e che il consenso gli permette di fare ciò che vuole. Ma mentre lo dice e lo twitta, i pieni poteri sono lì che si manifestano e mostrano un politico intimamente convinto di un fatto pericoloso: che i voti ti possano mettere al di sopra della legge e che il mandato ricevuto dal popolo ti possa consentire di commettere alcuni reati. Il leader della Lega probabilmente sa bene di non avere elementi sufficienti per difendersi su basi giuridiche e per questo ha scelto di trasformare la sua strategia difensiva in una tappa della sua campagna elettorale. Nel mondo anglosassone, i bravi politici in difficoltà quando si trovano nei guai tentano di diventare grandi e di dare il meglio di sé stessi: when in trouble go big. In Italia, Matteo Salvini, ha dato continuità a una tradizione diversa: se sei in difficoltà, prova a sporcellare un po’ - when in trouble, go pig. Il garantismo vale per tutti e vale ovviamente anche per Salvini, ma chiedere che l’ex truce venga giudicato per ciò che ha fatto da ministro non ha a che fare con la presunzione di innocenza. Ha a che fare semplicemente con l’abc di uno stato di diritto: non è sufficiente avere del consenso per essere al di sopra della legge. È la democrazia, bellezza. “La mafia non ha vinto”. Omicidio Mattarella, quel che manca alla verità di Alessandra Turrisi Avvenire, 7 gennaio 2020 Non si conosce il nome del sicario che, il 6 gennaio 1980, uccise l’allora presidente della Regione Siciliana. A Palermo la commemorazione con il presidente della Repubblica, fratello della vittima. Piersanti Mattarella nacque a Castellammare del Golfo (Trapani) il 24 maggio 1935. Esponente della Democrazia Cristiana, fu eletto dall’Assemblea regionale siciliana presidente della Regione il 9 febbraio 1978 con 77 voti su 100, alla guida di una coalizione di centrosinistra con l’appoggio esterno del Pci. Il 6 gennaio 1980, in Via della Libertà a Palermo, un sicario lo uccise a colpi di pistola. Non c’è giustizia senza verità. E anche per il delitto Mattarella, come per troppe stragi italiane, non si conosce il nome di chi fermò la voglia di rinnovamento politico di un uomo che aveva il sogno di una Regione “con le carte in regola”. Il 6 gennaio saranno trascorsi quarant’anni dall’omicidio a Palermo del presidente della Regione siciliana, Piersanti Mattarella, uomo della Dc, considerato artefice di una stagione di riforme e di trasparenza all’interno dell’amministrazione regionale e che per la prima volta portò il Pci a sostenere la maggioranza di centrosinistra. Il suo sogno si infranse quella mattina dell’Epifania del 1980, quando l’allievo di Aldo Moro fu colpito dai killer al volante della sua Fiat 132, davanti casa, nella centralissima via Libertà, mentre stava per andare a Messa. Un anniversario in cui la famiglia, le istituzioni, i cittadini aspettano ancora la verità. Il 6 gennaio Palermo ha ricordato il 40 anniversario dell’assassinio del presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella, accogliendo con solennità il Capo dello Stato, Sergio Mattarella. Con una seduta straordinaria il Parlamento regionale, alla presenza del Presidente della Repubblica, ha voluto rendere omaggio all’esponente della Dc ucciso davanti casa. Presenti tra gli altri il presidente della Regione, Nello Musumeci, con l’intera giunta, il presidente dell’Ars, Gianfranco Micciché. Pochi momenti prima, il sindaco Leoluca Orlando, i familiari di Mattarella, i figli Bernardo e Maria, l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, hanno scoperto la targa di intitolazione del parco centrale della città, il Giardino inglese, alla memoria di Piersanti Mattarella. L’occasione per guardare ai problemi di oggi della Sicilia e del Meridione, alla luce dell’esempio e delle azioni politiche messe in campo da un politico di razza, che Orlando definisce un “resistente della Costituzione”. In rappresentanza del governo nazionale, il ministro per il Mezzogiorno, Giuseppe Provenzano: “La mafia che ha voluto uccidere Piersanti Mattarella non ha vinto, eppure non ha nemmeno perso perché quella riforma profonda delle istituzioni che Mattarella voleva realizzare in Sicilia, e di cui c’è bisogno in tutto il Paese, è un lavoro che ancora deve essere portato a compimento: le ragioni per cui è stato ucciso sono ancora attuali. È stato un uomo che ha tenuto alta la dignità della politica e delle istituzioni. Lascia l’eredità di una politica concepita come uno sforzo altissimo di un impegno civile, lascia l’idea che fosse necessaria per lo sviluppo un’amministrazione efficiente ed efficace”. L’ordine di uccidere Mattarella arrivò dalla cupola mafiosa, con boss di primo piano come Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Francesco Madonia, ma l’ipotesi di un intreccio tra la pista “nera” e gli interessi di Cosa nostra è sempre rimasta in piedi, pur non riuscendo mai ad approdare a una verità giudiziaria. Coloro che in un primo tempo furono ritenuti gli esecutori, Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, esponenti dei Nuclei armati rivoluzionari, sono stati assolti anche in Cassazione. Le prove non hanno retto in dibattimento, neppure la descrizione fatta dalla moglie di Mattarella, Irma Chiazzese, che parlò di un ragazzo “con gli occhi di ghiaccio e l’andatura ballonzolante”, neppure le testimonianze di collaboratori neofascisti. Eppure la Procura di Palermo, coordinata da Francesco Lo Voi, due anni fa ha riaperto l’inchiesta, che sta facendo emergere nuove possibili connessioni. Le nuove perizie hanno infatti stabilito che le armi che uccisero il politico siciliano e il giudice Mario Amato a Roma, sei mesi dopo, sono dello stesso tipo, Colt Cobra calibro 38 Special. Per l’omicidio Amato, proprio Cavallini dei Nar è stato condannato come killer. Torna quindi di attualità la pista di scambi tra mafia e destra eversiva, ma non ci sono elementi tecnici per dire che sia stata usata la stessa arma. Il pm Roberto Tartaglia, ex sostituto procuratore a Palermo ora consulente della commissione Antimafia nazionale, ha lanciato un appello al terrorista nero Giusva Fioravanti. “Ha iniziato un percorso sociale importante e comunque non può più essere processato per quei fatti, essendo già stato assolto: perciò potrebbe contribuire al raggiungimento della verità. Potrebbe, ove lo ritenesse, aggiungere dei tasselli per ricostruire alcuni segmenti misteriosi che lo collegano alla Sicilia in quel periodo”. E a prendere per primo in esame l’ipotesi di una pista “nera” fu proprio Giovanni Falcone, l’uomo di punta del pool antimafia degli anni Ottanta, ucciso poi nella strage di Capaci del 1992. Lo hanno confermato, nelle scorse settimane, i verbali dell’audizione integrale “desecretata” del giudice palermitano alla Commissione Antimafia, che all’epoca indagava sugli attentati politici commessi da Cosa nostra. Nel 1988, Giovanni Falcone definiva l’indagine “estremamente complessa”, dal momento che si trattava di capire “se e in quale misura la pista nera” fosse “alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa. Il che potrebbe significare altre saldature e soprattutto la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani”. Falcone ancora aveva ammonito, trattandosi di una “materia incandescente”, sulla necessità di non “gestire burocraticamente questo processo”. Di più: aveva evidenziato l’esistenza di “collegamenti e coincidenze” tra le indagini sull’omicidio Mattarella e quelle riguardanti la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980 e “certi passaggi del golpe Borghese, in cui sicuramente era coinvolta la mafia siciliana”. L’estradizione di Pietrostefani dalla Francia, un caso di accanimento insensato di Franco Corleone L’Espresso, 7 gennaio 2020 Anche la ratifica della Convenzione di Dublino del 1996 sull’estradizione da parte dell’Italia, avvenuta nel 2019 ha sollecitato rimasticature giornalistiche sulla questione dell’estradizione di 14 latitanti residenti in Francia, definiti sbrigativamente come terroristi. Il nome che ricorre sempre è quello di Giorgio Pietrostefani, condannato a 22 anni di carcere come mandante morale dell’omicidio Calabresi, avvenuto nel 1972. L’arresto di Sofri, Bompressi e Pietrostefani avvenne nel 1988 e la vicenda giudiziaria si è dipanata per dodici anni tra giudizi contrastanti e contraddittori, fino alla condanna definitiva sancita dal rifiuto della Corte d’Appello di Venezia di accettare la richiesta di revisione del processo. Va ricordato che nella sentenza i giudici sottolineavano l’opportunità di individuare una soluzione per evitare una espiazione della pena senza senso dopo tanto tempo dal fatto. Mi occupai immediatamente dal momento dell’arresto di Sofri di un caso che mi appariva come una montatura e il segno di un cattivo funzionamento della giustizia, condizionata dalla costruzione di versioni affidate a pentiti più o meno attendibili. Mi recai nella caserma dei carabinieri di via Moscova per avere conferma di quello che appariva un sequestro di persona. Mi scontrai in Tribunale con il giudice Antonio Lombardi sulla gestione del caso. Con Marco Boato affrontammo il nodo del potere di grazia e alla fine avemmo ragione: fu così che dopo lo scontro tra il Presidente Ciampi e il ministro della Giustizia Castelli si arrivò alla attribuzione della prerogativa al Presidente della Repubblica sancita da una sentenza della Corte Costituzionale e il Presidente Napolitano concesse la grazia a Ovidio Bompressi. Adriano Sofri, dopo avere rischiato la vita, o per dire meglio, dopo avere visto la morte in faccia, ha finito di scontare la pena nel 2012 ed è tornato libero. Sto divagando. Mi interessa in questa sede denunciare la sciatteria di molti pezzi giornalistici. Capisco che è passato tanto tempo ma a maggior ragione è necessaria la massima precisione per far capire i fatti e i misfatti della storia d’Italia ai lettori interessati e magari ai giovani nati decenni dopo dagli accadimenti. Giorgio Pietrostefani giuridicamente non può essere definito un terrorista, in quanto non è mai stata contestata questa aggravante e neppure altre aggravanti come banda armata, associazione sovversiva, attentato con finalità di eversione e neppure l’associazione per delinquere. Per Pietrostefani dunque, neppure la questione della prescrizione, se valga quella adottata dalla Francia o quella dell’Italia, ha a che fare con i reati di terrorismo. La lettura del libro di Enrico Deaglio sulla strage di Piazza Fontana del 1969, fa venire i brividi e fa sorgere l’imperativo di individuare le responsabilità della morte dell’anarchico Pinelli. Gli affari riservati e gli arcana imperii pesano ancora come macigni. C’è bisogno di altro rispetto alla retorica giustizialista e alla volontà di mettere un tassello finale a ricostruzioni false e addomesticate. Grazia per Nicoletta Dosio, non un atto di clemenza di Livio Pepino Il Manifesto, 7 gennaio 2020 La proposta di una campagna per la concessione della grazia a Nicoletta Dosio, la precisazione dell’interessata di essere contraria a ogni soluzione individuale, le prese di distanza di diversi comitati e siti No Tav hanno aperto un confronto sul che fare di fronte alla stretta repressiva in atto contro le lotte sociali. È un confronto importante, anzi necessario, per evitare che, come spesso accade, una volta spenti i riflettori si spengano anche, fuori dalla comunità della Val Susa, l’attenzione e la tensione. Essendo tra coloro che hanno lanciato, proprio su queste pagine, la proposta della grazia mi compete approfondirne le ragioni, anche perché il confronto degli argomenti può contribuire ad aprire nuove strade (che pure oggi non vedo). C’è un punto fermo. La concessione della grazia come misura di “clemenza” di carattere individuale sarebbe in evidente contrasto con la scelta di Nicoletta di rinunciare a chiedere misure alternative al carcere. Quella rinuncia è stata un atto di coerenza etica ma anche - vorrei dire soprattutto - un gesto politico per denunciare e contestare l’escalation repressiva (ben oltre i vincoli legislativi) nei confronti della stessa Nicoletta e di tutto il movimento No Tav. Ciò è ben chiaro a tutti coloro che hanno parlato di grazia, i quali hanno esplicitamente sostenuto che deve trattarsi “non di un atto di clemenza individuale ma di un segnale di cambiamento generalizzato di una politica e di un intervento giudiziario che mostrano sempre più il loro fallimento”. Di questo - non d’altro - occorre, dunque, parlare. Può, la grazia, essere un gesto politico, un elemento di discontinuità, un segnale di cambiamento? La risposta non può fermarsi al dato emotivo legato al termine “grazia”, che fa pensare a un provvedimento individuale e in qualche misura “compassionevole”. Da tempo non è così e la grazia ha acquisito, in positivo e in negativo, un carattere squisitamente politico e una valenza generale. Ovunque. Mandela è uscito dal carcere grazie a un provvedimento di liberazione individuale che ha, peraltro, decretato la fine dell’apartheid e il crollo del regime bianco del Sudafrica. E a nessuno sfugge il significato che avrebbe sull’evoluzione della questione curda la liberazione di Abdullah Öcalan (non a caso mai presa in considerazione dal regime di Erdogan, neppur dopo 20 anni di prigionia in condizioni di totale isolamento). Sul piano nazionale, poi, c’è un caso clamoroso: le grazie - più di una - concesse agli agenti della Cia responsabili del sequestro di Abu Omar a Milano non hanno avuto nulla di “personale” ma sono state solo l’esplicito mortificante riconoscimento della subalternità italiana ai desiderata e al potere degli Stati Uniti. Le situazioni sono evidentemente diverse: non vanno assimilate ma valgono a dimostrare l’accentuata valenza generale dell’istituto. In questo contesto, un provvedimento di liberazione di Nicoletta (deciso di ufficio dal presidente della Repubblica) avrebbe all’evidenza una ricaduta politica, in controtendenza rispetto alle scelte repressive della magistratura, che ne uscirebbero a dir poco incrinate, e, più in generale, all’atteggiamento istituzionale di chiusura di fronte alla lotta contro il Tav. Ci sono delle obiezioni. Due su tutte. La prima è che sarebbe ben più chiara e leggibile un’amnistia politica o sociale. È certamente vero. Personalmente ne sostengo da anni la necessità “per tutti i reati bagatellari (per i quali la sanzione penale è in ogni caso inadeguata e sproporzionata) e, a prescindere dalla pena, per quei delitti che stigmatizzano le persone (ovviamente quelle sgradevoli o sgradite) più che i fatti e di cui si trovano molteplici esempi nella legge sugli stupefacenti, in quella sull’immigrazione e nella parte del codice penale dedicata all’ordine pubblico. Di più, penso che anche il solo parlarne “significhi aprire, finalmente, un dibattito sul diritto penale che vogliamo, sulle regole della nostra convivenza, sulle modalità di gestione del conflitto sociale”. Ma l’amnistia richiede il voto favorevole dei due terzi del Parlamento e ciò la rende all’evidenza impraticabile nell’attuale contesto politico. Nessun atteggiamento rinunciatario, ovviamente, ma la percezione che occorre costruire le condizioni per la sua praticabilità modificando equilibri politici e incidendo sugli orientamenti repressivi dell’opinione pubblica. Proprio la grazia, demandata al presidente della Repubblica, potrebbe essere un primo passo in questo senso. La seconda obiezione è che le possibilità di concessione della grazia sono, per usare un eufemismo, assai limitate. Vero anche questo. Ma una mobilitazione per un risultato possibile, anche se difficile, avrebbe una molteplicità di effetti positivi: costringerebbe la politica, la cultura, il mondo del lavoro a schierarsi, metterebbe in atto nuove alleanze, ridarebbe centralità alla questione del Tav (oggi accantonata in base alla, pur falsa, affermazione che ormai tutto è deciso e non c’è più nulla da fare). Non sarebbe, in ogni caso, poca cosa. Guida sotto l’effetto di droga: medici restii a certificare di Maurizio Caprino Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2020 Emergenza sicurezza stradale o sfortuna che ha fatto concentrare nelle settimane a cavallo delle feste natalizie alcuni gravi incidenti che hanno fatto notizia? Gli ultimissimi dati, aggiornati al 15 dicembre ma incompleti, descrivono una situazione stabile. E anche gli ultimi incidenti mostrano i limiti di norme e controlli in materia di alcol e droga. Dietro la sostanziale stabilità dei dati si cela il fatto che, più ancora degli altri grandi Paesi europei, l’Italia è ormai incapace di continuare a ridurre la mortalità come ha fatto da inizio secolo, mentre la Ue fissa obiettivi di dimezzamento delle vittime per ogni decennio che trascorre. L’unico intervento di questi anni, la legge 41/2016 che ha introdotto il reato di omicidio stradale, non ha avuto effetti sostanziali. E d’altra parte è stata introdotta solo per dare più certezza della pena e non come deterrente. Dal punto di vista normativo, l’incidente più significativo appare quello della notte tra il 21 e il 22 dicembre a Roma, costato la vita a due ragazze: l’investitore è stato trovato positivo a droghe, ma questo non gli è stato contestato. Perché? L’articolo 187 del Codice della strada prevede il reato di guida “sotto effetto” di stupefacenti, quindi occorre accertare non soo che le sostanze erano nell’organismo, ma anche che stavano influendo sulla guida. Per fare ciò occorre perlopiù una visita medica. E, tra i sanitari, più di uno appare restio a prendersi la responsabilità di certificare il “sotto effetto”. Si rischia anche di dover risarcire danni all’imputato, in caso di assoluzione. Sarà interessante vedere se questa situazione resterà invariata anche nei prossimi mesi, quando si potrà fare un bilancio della nuova sperimentazione avviata a ottobre dalla Polizia stradale: impiego di medici esterni nelle operazioni di controllo su strada (dove finora operano in buona parte sanitari della Polizia), grazie a un accordo con Autostrade per l’Italia. Spesso, come anche nel caso di Roma, non è un gran problema il mancato accertamento del “sotto effetto”: il guidatore è anche in stato di ebbrezza e questo per omicidio e lesioni basta per far scattare le pene aggravate previste dalla legge 41/2016. Sul fronte dell’alcol, si conferma che i positivi sono intorno al 5% dei controllati. Occorrerebbero comunque controlli più frequenti, per indurre sempre più guidatori a non bere affatto prima di mettersi in circolazione. Ma per farne ci vuole molto personale. Ora sta pesando meno il problema della mancanza di etilometri (le loro revisioni sono state velocizzate), ma restano i dubbi sull’attendibilità di questi strumenti in confronto alle analisi del sangue. Il curatore rischia la condanna per falso ideologico di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2020 Corte di cassazione, sentenza 97 del 3 gennaio 2020 - Rischia la condanna per falso ideologico il curatore fallimentare che, nella sua relazione, si discosta dai principi pacifici, affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di reati fallimentari. L’attività del curatore non può, infatti, essere considerata del tutto discrezionale e dunque fuori dal raggio d’azione dell’articolo 479 del Codice penale che punisce il falso ideologico, affermato dal pubblico ufficiale. La Corte di cassazione, con la sentenza 97 del 3 gennaio, respinge sul punto il ricorso del curatore, del quale però non considera provata la responsabilità, annullando la sentenza di condanna con rinvio. L’accusa era di aver escluso l’esistenza di una bancarotta distrattiva. Per la Corte d’appello una conclusione raggiunta malgrado le prove di cessioni fittizie e dell’incapienza patrimoniale della compagine coinvolta. La Cassazione chiarisce che il curatore fallimentare si deve muovere nel solco tracciato, in modo consolidato, dalla giurisprudenza di legittimità per quanto riguarda i reati fallimentari; in caso contrario dovrà dare conto del percorso logico-ricostruttivo che ha seguito e che lo ha portato ad esiti diversi. L’onere si giustifica alla luce della complessità e della poliedricità del ruolo giocato dal curatore, che sintetizza in sé più profili professionali, anche in virtù della diversità degli interlocutori istituzionali di riferimento: dal giudice delegato al pubblico ministero, fino agli altri organi del fallimento. Con la conseguenza che il disattendere in maniera ingiustificata e senza una spiegazione plausibile gli orientamenti fermi della Suprema corte, diventa un elemento valutabile, con il concorso di altri indizi univoci, coerenti e concordanti della sussistenza del delitto di falso ideologico in riferimento all’articolo 33 della legge fallimentare. Una norma che impegna il curatore a presentare una relazione particolareggiata sugli atti del fallito. Atto che deve contenere l’indicazione delle cause del fallimento, e una valutazione sulla diligenza del fallito nell’esercizio dell’impresa e sulla sua responsabilità anche ai fini penali. I giudici respingono quindi il primo motivo del ricorso teso a dimostrare la discrezionalità dell’atto. Per il resto la Suprema corte accoglie e annulla con rinvio per una carenza di motivazione sulla responsabilità nel reato contestato. Firenze. Il cappellano di Sollicciano: “Nuove Icam, bene Bonafede” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 gennaio 2020 La soddisfazione di Don Vincenzo Russo per le dichiarazioni del Ministro della Giustizia. “Leggere le dichiarazioni rese al Corriere Fiorentino dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, per il quale “L’obiettivo principale resta la realizzazione degli Icam su tutto il territorio nazionale, quindi anche a Firenze”, ha riacceso in me la speranza che lo scempio dei bimbi in carcere possa finalmente finire come legge prevede: ovvero senza separarli dalle madri, anzi, al contrario, offrendo loro supporto in un percorso di rieducazione di cui la genitorialità non può e non deve essere esclusa”, così dichiara il cappellano del carcere di Sollicciano, don Vincenzo Russo, che assieme all’associazione Progetto Firenze presieduto da Marcello Lensi ed esponente del Partito Radicale, si è impregnato per la realizzazione di un Icam. “Sin dalle sue origini - continua il cappellano - l’Opera della Madonnina del Grappa è stata a fianco di madri e famiglie in difficoltà e per questo, già dieci anni fa, abbiamo fornito in comodato d’uso gratuito la palazzina di via Fanfani per farne una struttura di accoglienza per le madri detenute come previsto dalla legge 62/ 2011. Ringrazio quindi il ministro Bonafede, per essere intervenuto a sbloccare una vicenda che si trascina da troppo tempo facendo vittime innocenti”. Il ministro della Giustizia quindi conferma che si adopererà per ampliare gli Icam, gli istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri in sede esterna agli istituti penitenziari, con lo scopo di evitare a questi bambini un’infanzia dietro le sbarre. Da ricordare che sono strutturati in modo tale da non ricordare il carcere, ma l’ambiente familiare: il personale di sorveglianza lavora senza divisa, vi è la presenza costante di alcuni educatori specializzati che assicurano un’opportunità di formazione alle madri e un sostegno nel rapporto affettivo con i figli. La strutturazione degli spazi risponde a precisi criteri pedagogici in modo tale che i bambini possano formulare una propria idea di casa, proprio per evitare che soffrano l’esperienza della carcerazione forzata. Le principali finalità che hanno condotto alla realizzazione dell’Icam riguardano la volontà di supportare le madri nel seguire percorsi di crescita e di reinserimento nel tessuto sociale, valorizzando il rapporto madre- bambino in modo da costruire una relazione quanto più sana possibile e restituendo autorevolezza alla figura materna. I bambini possono trascorrere del tempo fuori dall’istituto in compagnia di familiari o di volontari. Il personale di Polizia penitenziaria è composto da agenti di sesso femminile, mentre gli educatori presenti sono di entrambi i sessi, così da permettere ai minori di relazionarsi anche con figure maschili in maniera costante. In realtà, la legge numero 61 del 2011 per le detenute con figli prevede anche l’istituzione delle case famiglia protette, un’alternativa ritenuta valida da diverse associazioni, tipo “A Roma Insieme”, e non per ultimo dal garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma. Ad oggi, grazie a diversi sforzi dell’amministrazione locale e gli enti disposti a metterci i soldi, esistono solo due case famiglia: una a Roma e l’altra a Milano. Se da una parte il ministro Bonafede dice di ampliare le Icam, dall’altra c’è chi preme per destinare i soldi alle case protette. C’è ad esempio il Gruppo Crc (il gruppo di lavoro per l’infanzia) che aveva presentato il terzo rapporto supplementare - relativo all’anno 2016/ 2017 - alle Nazioni Unite sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza in Italia, alla cui redazione hanno contribuito 144 operatori delle 96 associazioni del network: nella sezione dedicata ai figli di genitori detenuti, il Gruppo ha raccomandato al ministero della Giustizia di destinare parte delle risorse previste per gli Icam agli enti locali a cui è in carico la titolarità delle Case Famiglia Protette. Attualmente lo Stato finanzia solamente gli Icam perché sono sotto l’amministrazione del Dap, mentre le case famiglia sono una misura alternativa al carcere, destinata maggiormente alle donne che non hanno un luogo dove poter scontare una pena agli arresti domiciliari. Ed è proprio questa caratteristica che “giustifica” la mancanza di fondi statali. Le case famiglia protette possono essere realizzate soltanto con l’aiuto degli enti locali. Cuneo. Il Comune di Fossano cerca un Garante dei diritti dei detenuti cuneodice.it, 7 gennaio 2020 Scadrà venerdì 31 gennaio prossimo il periodo di raccolta delle disponibilità a svolgere le funzioni di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale a nomina del Comune di Fossano. Il Garante sarà poi eletto dal Consiglio Comunale e resterà in carica fino al termine del mandato del nominante; operando eventualmente in regime di prorogatio secondo quanto dispongono le norme vigenti in materia. Foggia. Don Ciotti: “Ora la gente alzi la voce, troppi silenzi sulla mafia” di Giuliano Foschini La Repubblica, 7 gennaio 2020 Dopo l’inizio di un 2020 così difficile, domenica scorsa il rumore della notte, sopra Foggia, non è stato quello delle bombe che spaccano auto e saracinesche. Ma di elicotteri di polizia, carabinieri e Guardia di finanza che mettevano sotto sopra i luoghi dei clan. “Lo Stato ha risposto” ha detto ieri il ministro degli Interni, Luciana Lamorgese. Il rumore del pomeriggio, il prossimo venerdì, dovrà essere invece quello della speranza, con le voci di ragazzi e ragazze. “Diremo no alla mafia. E sì al nostro futuro. Perché lo Stato sta facendo la sua parte. Ma ora tocca a noi”, dice don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera. È stato lui a chiamare a raccolta per i110 gennaio, alle 16, nel le strade di Foggia, la cittadinanza, le associazioni, le forze sindacali, gli studenti, gli amministratori, il mondo della chiesa. “Tutti insieme, nessuno si senta escluso. Hanno bisogno di noi”. Noi chi, don Luigi? “Noi che in questi anni siamo stati troppo disattenti rispetto a quello che accadeva in questa terra. Libera da tempo è in quelle terre, combatte, lotta, ma c’è bisogno di tutti. Quello di Foggia, del Gargano, è un territorio complesso, negato, inesplorato. E soprattutto sottovalutato, nonostante il grido di aiuto di alcuni magistrati, delle forze di polizia che da sempre combattono i clan. Per troppo tempo li abbiamo lasciati soli”. Poi cosa è successo? “Nell’agosto del 2017 c’è stata la strage di San Marco in Lamis, il quadruplice omicidio in cui hanno perso la vita anche due innocenti, due contadini che erano nella loro auto soltanto per andare a lavorare. In quel momento molti hanno preso coscienza della particolarità di questa mafia, che ha caratteristiche tremende di violenza e sfregio. Nessuno ha potuto più dire che non sapeva. Ma si è arrivati in ritardo, molto in ritardo”. In questo inizio 2020 la mafia a Foggia ha fatto saltare in aria macchine, bar, negozi. Un uomo è stato ucciso… “Ecco perché è necessaria una risposta dell’intera comunità. Lo Stato, come dimostra l’intervento dell’altra notte, sta facendo la sua parte. Ma c’è bisogno di un abbraccio collettivo. Dobbiamo smettere di pensare che non sia una questione che ci riguarda: noi siamo cittadini di quella terra. La comunità deve chiamarsi Italia. Noi tutti dobbiamo prenderci le nostre responsabilità. Ecco perché abbiamo voluto convocare questa manifestazione”. C’è chi dice: non servono le manifestazioni. Ma i fatti… “E sbaglia. Perché le manifestazioni sono fatti. È arrivato il tempo di prenderci le nostre responsabilità, metterci la faccia e dire da che parte stiamo. Saremo a Foggia per abbracciare i familiari delle vittime di mafia, per non lasciare soli chi ha avuto il coraggio di denunciare. E ci saremo, con tutte le altre associazioni, con chiunque voglia essere accanto a noi per testimoniare la nostra vicinanza alla magistratura e alle forze di polizia”. Lei dice: a Foggia, dove regna la mafia meno conosciuta e forse per questo più pericolosa d’Italia, lo Stato c’è. Sta rispondendo. Ma la politica? “Deve battere un colpo. Perché, come sempre, è fondamentale accanto al contrasto criminale quello sociale e culturale. La lotta alle mafie è anche la lotta per una giustizia sociale. Serve mettere in agenda parole come lavoro, casa, servizi. Ma anche la politica ha bisogno di noi cittadini. Per questo occorre non essere complici attivi delle mafie”. Che significa? “Le categorie che più mi preoccupano oggi sono due: i neutrali e i mormoranti. I primi non prendono posizione. I secondi stanno zitti e poi giudicano criticano, non fanno. Ecco, questi sono due comportamenti mafiosi: il male non è soltanto di chi lo commette ma anche di chi sta a guardare, di chi delega, di chi è indifferente”. Lei parla spesso di speranza: una provincia che ha un omicidio a settimana, una rapina al giorno, un’estorsione ogni 48 ore, può averne? “Libera è andata a Foggia già due anni fa, organizzando la manifestazione in ricordo delle vittime di tutte le mafie. Conosco quella gente, i suoi ragazzi; c’è grande speranza. Ma bisogna trattarla con cura. Perché i giovani ci chiedono non soltanto conto delle cose che accadono ma ci chiedono anche di poter contare. Il nostro compito deve essere quello non soltanto di ascoltarli ma anche di dare loro spazio. Stanno crescendo tante piante belle: la chiesa ha preso posizioni importanti, l’esempio di Libera è seguito da molte associazioni. La speranza è lì. Ora è il momento di vederla per strada”. Il 10 gennaio. A Foggia. Latina. La Camera Penale ha consegnato 600 libri al carcere latinaoggi.eu, 7 gennaio 2020 Si arricchisce la biblioteca per i detenuti della casa circondariale di via Aspromonte. Dai libri di grammatica, ai gialli e poi gli immancabili classici e infine le enciclopedie. La biblioteca del carcere di Latina adesso si è ulteriormente arricchita di oltre 600 volumi che sono stati consegnati nei giorni scorsi, direttamente alla direttrice Nadia Fontana, da parte degli avvocati della Camera Penale Giorgio Zeppieri di Latina. I penalisti pontini hanno promosso questa iniziativa che per la prima volta si è svolta nel capoluogo e ha riscosso un grande e inaspettato successo. In due giorni all’ingresso del palazzo di giustizia di piazza Bruno Buozzi, sono stati raccolti centinaia e centinaia di volumi che sono stati donati ai detenuti che in questo modo avranno la possibilità di ampliare la scelta per le letture. L’iniziativa è stata particolarmente apprezzata dalla stessa direttrice del carcere che ha apprezzato anche la risposta della cittadinanza. I 600 libri finiranno in una stanza dove saranno accuratamente catalogati e divisi a seconda del genere. Con i saluti del presidente della Camera Penale Domenico Oropallo e del segretario Maurizio Forte, alla cerimonia di consegna erano presenti gli avvocati Gaetano Marino, Carla Bertini, Simone Rinaldi, Alessia Righi, Massimo Frisetti, ideatore dell’iniziativa. Brindisi. Teatro, i detenuti diventano delle drag queen contro le discriminazioni di Luca Parente neg.zone, 7 gennaio 2020 I detenuti si trasformano in drag queen contro le discriminazioni nello spettacolo GiraVolta, tenutosi il 5 e 6 gennaio presso il teatro Kopò di Brindisi. Il progetto, realizzato in parte con il contributo della Direzione Generale dello Spettacolo del Ministero dei Beni e Attività Culturali e del Turismo, in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale di Brindisi, ha messo in gioco tre detenuti che, nei panni di drag queen, raccontano gioie, amori e dolori della vita quotidiana. Tra canzoni pop e sketch irriverenti, le drag queen in erba hanno affrontato le proprie storie in uno spettacolo cucito su misura per loro. La performance ha visto nel suo concepimento diverse realtà della città brindisina, oltre all’AlphaZTL, Compagnia di Arte Dinamica del coreografo Vito Alfarano, regista assieme a Sara Bevilaqua e ideatore del progetto Brindisi Performing Arts (con la collaborazione del Salento Pride), Marcello Biscosi per i testi e la selezione musicale e la drammaturgia e una tutor d’eccezione per l’evento, la drag queen salentina Tekemaya, nota soprattutto per la sua partecipazione al talent show The Voice of Italy. “GiraVolta è un progetto che vuole abbattere i pregiudizi che ci sono nella nostra società - ha dichiarato a NEG Zone Alfarano, regista e ideatore del progetto - Abbiamo voluto portare l’umanità in scena, tanto che qualsiasi persona presente nel pubblico può ritrovarsi nelle storie raccontate dagli attori presenti sul palco”. Vedendo lo spettacolo ci si accorge ben presto che c’è una similitudine tra le drag queen e i detenuti: in entrambe le situazioni si è vittima di pregiudizi da parte della società che non riesce a vedere la persona dietro al personaggio. Molto spesso, infatti, i detenuti non riescono a reintrodursi in società perché visti come potenzialmente pericolosi, nonostante la funzione educativa della detenzione. “Attraverso GiraVolta, i detenuti si sono avvicinati al mondo Lgbt e, nonostante all’inizio l’imbarazzo e la timidezza abbiano portato alla perdita di alcuni componenti durante il percorso di formazione, tutti hanno dichiarato che il progetto ha aperto loro gli occhi sulla tematica della discriminazione, anche se non hanno partecipato alla performance finale” ci ha spiegato Gianmarco Caniglia, Presidente di Arcigay Salento. Uno spettacolo frizzante e coinvolgente, che diventerà presto anche un factual TV in un coinvolgente format a puntate. Non riuscite nemmeno a pronunciare la parola “pace” di Giulio Cavalli Left, 7 gennaio 2020 Immaginate di essere in ufficio, stamattina, a discutere di quel folle di Trump, delle nefandezze di Soleimani, della guerra che si sta accendendo, dell’ennesima prova di esportazione della democrazia che altro non è che un turpe calcolo utilitaristico sulla prossima campagna elettorale e sui proventi dei signori della guerra e immaginatevi mentre ribadite che l’Italia ripudia la guerra e che il fine della politica internazionale sia la pace. Provate a pronunciare la parola pace, in queste ore, e notate come venite guardati di sbieco. Immaginate di raccontare a qualcuno che c’era in giro un tizio sconveniente, probabilmente un assassino, che non riuscivate proprio a sopportare, che non avevate voglia di affidare ai normali meccanismi della giustizia e della diplomazia e che sotto le feste l’avete fatto saltare in aria. Pensate di dichiararlo al mondo e di riceverne applausi. La grandezza (feroce e vergognosa) della guerra è che l’attacco militare è solo un piccolo scorcio della grande operazione che viene messa in atto: fare la guerra significa violentare il dibattito internazionale facendo perdere di vista i valori generali e costringendo tutti ad occuparsi solo di aspetti particolari. Si discute se sia stato il momento giusto per fare saltare in aria un uomo trasformando una nazione in una polveriera e sono rarissimi quelli che si rifiutano di intrufolarsi nella discussione inquinata chiarendo che no, non è mai il metodo giusto. Ci si fa confondere con un attacco travestito da legittima difesa e si ascolta il presidente Usa dichiarare che non sopporterà attacchi nemici anche se, a ben vedere, nell’ottica distorta della guerra sarebbero una difesa. Diceva Lutero: “La pace è più importante di ogni giustizia; e la pace non fu fatta per amore della giustizia, ma la giustizia per amor della pace”. Ogni volta che la leggo mi sembra illuminante. Questi non hanno nemmeno il coraggio di pronunciare la parola “pace”. Stanno così: a grufolare tra le ghiande che ci hanno messo a disposizione per illuderci di decidere. E mi viene una malinconia per il pacifismo, per quello che è stato e per i grandi interpreti che ha avuto. Chissà quando ci accorgeremo dei danni culturali che il cattivismo ha provocato. Dopo la rivolta di Rosarno il nulla: migranti più nascosti e sempre sfruttati di Antonio Maria Mira Avvenire, 7 gennaio 2020 I braccianti immigrati reagirono contro lo sfruttamento e la violenza della ‘ndrangheta, dei caporali e degli imprenditori fuori legge. Ma cambiare le cose sembra impossibile. Dieci anni passati inutilmente, stranieri sfruttati come sempre. Promesse mancate e poco contrasto a criminalità organizzata e lavoro nero. Un ragazzo africano cammina lentamente con una busta di plastica in mano. Si ferma davanti a un cassonetto dei rifiuti. Rovista all’interno e tira fuori della frutta mezza marcia che infila nella busta. Bartolo ferma l’auto. Scende. “Hai fame? Vuoi qualcosa da mangiare?”. E tira fuori dal baule pasta, riso, latte, biscotti. Il ragazzo lo guarda prima stupito ma poi gli occhi si illuminano. “Grazie papà. Buona giornata”. Comincia così, poco dopo l’alba, la nostra giornata del ricordo. È il decennale della rivolta di Rosarno quando il 7 gennaio 2010 i braccianti immigrati reagirono contro lo sfruttamento e la violenza della ‘ndrangheta, dei caporali e degli imprenditori fuori legge. Allora eravamo qui e ci accompagnava proprio Bartolo Mercuri, “Papà Africa”, presidente dell’associazione “Il Cenacolo”, che da vent’anni è al fianco dei poveri e degli abbandonati, immigrati e italiani, soprattutto i più nascosti. In questi dieci anni è stato la nostra guida, assieme a don Roberto Meduri, altro “angelo” degli immigrati, parroco di S. Antonio al Bosco di Rosarno, contrada da dove partì la rivolta. E anche quest’anno Bartolo ci aiuta a trovare gli “invisibili” e a riflettere su cosa stia accadendo. “Dopo 10 anni non è cambiato niente. Solo che non c’è più la baraccopoli. Ma i ragazzi vivono sempre allo stesso modo”. La terribile e disumana baraccopoli di San Ferdinando, dove vivevano più di duemila persone, è stata smantellata il 6 marzo 2019, ma nulla è stato fatto per dare un’accoglienza degna ai lavoratori immigrati che comunque anche quest’anno sono arrivati per la raccolta degli agrumi. Necessari ma sempre sfruttati e, questo anno, sempre più nascosti. Solo all’alba compaiono riempiendo ogni incrocio in attesa di essere presi dai caporali. “Vanno a prostituirsi”, ci dice come dieci anni fa Bartolo. Parole forti, ma rendono la scena. Sono davvero tanti. All’incrocio dopo il ponte sul fiume Mesima sono addirittura un centinaio. Ma noi andiamo oltre, infilandoci in stradine sterrate nelle campagne al confine tra le province di Reggio Calabria e Vibo Valentia. “I ragazzi sono terrorizzati, si nascondono, hanno paura di essere cacciati” ci spiega Bartolo. È l’effetto del decreto sicurezza che eliminando il permesso di soggiorno per motivi umanitari ha trasformato queste persone in irregolari, ancor più fragili sul mercato del lavoro, ancor più vittime dello sfruttamento. Ecco una prima casetta, senza acqua e luce. Non ci sono neanche infissi, solo cartoni e coperte. Ci stanno in venti. Ci accoglie uno di loro che scarica volentieri i viveri. La scena si ripete in altri casolari, poco più che tuguri. Alcuni isolati, altri a formare piccoli borghi dell’emarginazione. In uno vivono in duecento. Su una casetta qualcuno ha scritto “Africa” con vernice arancione. Altro casolare, altra sosta. Samba ci racconta di aver lavorato anche a Saluzzo, raccogliendo uva e ciliegie. “Ma è meglio qua. Anche se quest’anno c’è poco lavoro”. Rientriamo a Rosarno. Ci fermiamo in uno dei luoghi di dieci anni fa, “la Rognetta”, una ex fabbrica dove vivevano in più di 400. È stata abbattuta e nell’area è stato realizzato un parco pubblico. Uno dei pochi cambiamenti di questi anni. Lasciamo Rosarno e raggiungiamo Rizziconi. Bartolo non fa distinzioni. Ci fermiamo da due famiglie povere di italiani, con sei bambini. Una delle mamme è incinta e chiede se abbiamo del latte. C’è e anche il resto. “I padri non lavorano, come gli immigrati. I poveri sono poveri e basta, non è il colore che conta” commenta Bartolo, questa volta “papà Italia”. In un casolare in contrada Marotta vivevano in venti. Poi qualcuno ha bruciato la baracca dove pregavano e sono andati via. Ora quattro sono tornati. Uma del Burkina Faso è in Italia dal 2009, ricorda la rivolta ma non ne vuole parlare. Come un altro immigrato che sta in Italia da 13 anni (“Ho fatto l’operaio a Napoli. Sono un bravo saldatore ma qui non c’è lavoro”) e vive in un casolare di Collina di Rizziconi, dove nel 2010 c’era una vera favela, piccole baracche di sacchi di plastica, legno e scotch, e trecento persone. Ora ci sono solo gli ulivi, non curati. Eppure è confiscato alla ‘ndrangheta dal 2005. Poi abbandonato. Usato solo dagli immigrati. Poi neanche più da loro. Anche perché sono stati minacciati. Invece in un altro terreno confiscato, in contrada Russo Spina di Taurianova, vivono più di 250 immigrati, in casolari diroccati, baracche, roulotte e perfino nelle porcilaie. Anche qui scarichiamo viveri e vestiti portati da Bartolo, che ascolta attentamente problemi sanitari e di documenti, dando preziosi consigli. Finiamo il giro e raggiungiamo la nuova tendopoli di San Ferdinando, realizzata nel 2017. Attualmente ospita circa 450 persone, il massimo previsto, “ma ogni notte 35-40 persone scavalcano la recinzione ed entrano - ci dice il sindaco Andrea Tripodi - per dormire nella tenda moschea. E questo perché dopo lo smantellamento della baraccopoli non è stato realizzato nulla. Ci sono state omissioni e insipienza e soprattutto è mancata una politica organica rispetto a questo fenomeno”. E di fronte alla tendopoli ci sono ancora i cumuli dei resti delle baracche, tonnellate di rifiuti pericolosi lì da dieci mesi. “I fondi promessi dall’allora ministro Salvini non sono mai arrivati” torna a denunciare il sindaco. Solo promesse non realizzate in questo decennale. I rischi della “mano libera” iraniana sul nucleare di Franco Venturini Corriere della Sera, 7 gennaio 2020 Dopo l’uccisione di Qassem Soleimani, un unico grido si è levato: attenti alla guerra per contagio, attenti a non provocare un incendio globale. Più che giusto, ma forse è tardi. Dopo l’uccisione di Qassem Soleimani, mentre gli Usa e l’Iran erano impegnati nell’escalation delle loro reciproche minacce, un unico grido si è levato dal resto del mondo: attenti alla guerra per contagio, attenti a non provocare un incendio globale. Più che giusto, ma forse è tardi. Perché i contagi ci sono già. Il primo, il più grave, è stato sancito domenica sera dall’Iran con l’annuncio che Teheran non accetterà più limitazioni ai suoi programmi nucleari. L’arricchimento dell’uranio, il numero e il modello delle centrifughe, la quantità di uranio arricchito e conservato, la ricerca, tutto obbedirà soltanto alle “necessità tecniche” dell’Iran (che nega di volersi dotare di armamenti atomici, senza però convincere la comunità internazionale). Va chiarito che un ulteriore passo iraniano per rispondere all’uscita di Trump nel 2018 dagli accordi di Vienna firmati da Obama nel 2015, era previsto per la prima settimana di gennaio sin dallo scorso novembre. Ma la radicale scelta di Teheran, che di fatto finisce di smantellare le intese anti-nucleari di Vienna già agonizzanti dopo il ripudio di Trump e l’incapacità europea a porvi rimedio, non può non essere stata influenzata dalla uccisione di Soleimani e dal clima di furore nazionalista che ha accompagnato le sue esequie. Orbene, cosa comporta la “mano libera” iraniana? Che l’uranio, già arricchito fino a ieri al 4,5 per cento, potrà esserlo d’ora in poi per esempio al 20 per cento, una richiesta già da tempo avanzata dai “falchi” di Teheran. Oppure ancora di più. E così, benché per produrre un ordigno atomico serva un arricchimento al 90 per cento, il tempo necessario per dotare l’Iran della Bomba potrebbe passare da un anno a due o tre mesi. Gli accordi di Vienna, imperfetti e incompleti ma i migliori nel campo del possibile, avevano strappato l’assicurazione anti-nucleare per un anno. Assicurazione che da oggi non esiste più. La conseguenza immediata non deriva soltanto dalla contrarietà quasi unanime (Europa compresa, va detto) al possesso di armi atomiche da parte dell’Iran, e dai rischi di proliferazione atomica regionale a cominciare dall’Arabia Saudita, dalla Turchia e forse dall’Egitto. C’è di peggio e di più, perché un programma nucleare iraniano fuori controllo va a incidere sulla sicurezza di Israele, che con un solo colpo atomico nella parte geograficamente più stretta del Paese potrebbe essere messo fuori causa pur disponendo egli stesso (mai negato, mai ammesso) di armamenti nucleari. Netanyahu, a nostro avviso, sbagliò ad opporsi al negoziato di Vienna e ha sbagliato ad incoraggiare l’uscita di Trump. Meglio sarebbe stato per lui far valere le sue ragioni dall’interno di una intesa, riuscendo così a condizionarla. Ma il governo della democrazia israeliana non coincide necessariamente con lo Stato di Israele, verso la cui sicurezza abbiamo un debito inestinguibile. E chi impedirà, allora, che le ricadute dell’uccisione di Soleimani si sommino e si confondano con una ipotesi di attacco ad alta tecnologia, forse solo americano, forse israelo-americano, contro le installazioni nucleari iraniane e altre strutture militari per “guadagnare tempo” sul temuto calendario atomico di Teheran? Una simile guerra, che avrebbe essa sì ripercussioni mondiali, veniva ipotizzata già molto prima dell’attuale braccio di ferro tra Usa e Iran, ma il patto di Vienna aveva allontanato lo spauracchio. Ora i due filoni, quello della Bomba inaccettabile e quello del “martire” Soleimani, potrebbero fondersi in tempi brevi. Basterà a impedirlo una eventuale ritrosia di Trump, che non dovrebbe voler giungere alle elezioni di novembre in un crescendo di scontri militari dopo aver promesso la loro fine in campagna elettorale? Lo capiremo molto presto. E poi, in materia di contagi non ci sono soltanto il nucleare iraniano e i rischi per la sicurezza di Israele. È scoppiata una guerra strisciante per il controllo dell’Iraq. Il voto del parlamento di Bagdad per l’allontanamento delle forze straniere ha una rilevanza molto relativa, ma le minacce sanzionatorie di Trump potrebbero avere l’effetto indesiderato di gettare olio sul fuoco dei “sovranisti” iracheni, e allora gli equilibri interni cambierebbero. E l’Iran potrebbe ricevere un grandissimo regalo (già messo in cantiere da George W. Bush con l’invasione anti-sunnita del 2003) sotto forma di presenza ancor più forte nel grande e strategico vicino. A dispetto delle folle di dimostranti (incoraggiate da qualcuno?) che nelle scorse settimane protestavano anche contro l’invadenza iraniana. Ancora. Tre morti e due feriti americani in Kenia vicino al confine con la Somalia. Siamo sicuri che le frange estremiste di Teheran non parlano con al-Shabab, cioè con al-Qaeda? In Libia, poi, la situazione peggiora ogni giorno. E la Russia, che ha disapprovato l’uccisione di Soleimani ed è partner dell’Iran in Siria, sta cercando di silurare la conferenza di Berlino prevista per fine mese (per fermare Di Maio a Tripoli non è servito il Cremlino). Angela Merkel andrà a Mosca nei prossimi giorni per salvare il salvabile, per provare a evitare un contagio che è cruciale soprattutto per l’Italia. Attenzione, i contagi potrebbero diventare epidemia. E nel frattempo tutti gli occhi restano fissi su Teheran, su quale risposta, in aggiunta alla “libertà nucleare”, che l’Iran vorrà dare alla morte di Soleimani. Sarà una risposta da guerra totale, oppure una serie di gesti ostili, necessari sul fronte interno ma non irrimediabili nel braccio di ferro con il Grande Satana? Trump aspetta, e intanto prova a disegnare una strategia. Qual è la vera minaccia nucleare in Medio Oriente di Manlio Dinucci Il Manifesto, 7 gennaio 2020 Monopolio della Bomba e dell’informazione. L’arsenale segreto di Israele, sistematicamente rimosso dai titoli e dalle analisi, non è sottoposto ad alcun controllo poiché Tel Aviv non aderisce al Trattato di non-proliferazione, sottoscritto invece da Teheran. Ma la risposta militare dell’Iran non è paragonabile a quella dell’Iraq. “L’Iran non rispetta gli accordi sul nucleare” (Il Tempo), “L’Iran si ritira dagli accordi nucleari: un passo verso la bomba atomica” (Corriere della Sera), “L’Iran prepara le bombe atomiche: addio all’accordo sul nucleare” (Libero): così viene presentata da quasi tutti i media la decisione dell’Iran, dopo l’assassinio del generale Soleimani ordinato da Trump, di non accettare più i limiti per l’arricchimento dell’uranio previsti dall’accordo stipulato nel 2015 con il Gruppo 5+1, ossia i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Usa, Francia, Regno Unito, Russia, Cina) più la Germania. Non vi è quindi dubbio, secondo questi organi di “informazione”, su quale sia la minaccia nucleare in Medio Oriente. Dimenticano che è stato il presidente Trump, nel 2018, a far ritirare gli Usa dall’accordo che Israele definiva “la resa dell’Occidente all’asse del male guidato dall’Iran”. Tacciono sul fatto che vi è in Medio Oriente un’unica potenza nucleare, Israele, la quale non è sottoposta ad alcun controllo poiché non aderisce al Trattato di non-proliferazione, sottoscritto invece dall’Iran. L’arsenale israeliano, avvolto da una fitta cappa di segreto e omertà, viene stimato in 80-400 testate nucleari, più abbastanza plutonio da costruirne altre centinaia. Israele produce sicuramente anche trizio, gas radioattivo con cui fabbrica armi nucleari di nuova generazione. Tra queste mini-nukes e bombe neutroniche che, provocando minore contaminazione radioattiva, sarebbero le più adatte contro obiettivi non tanto distanti da Israele. Le testate nucleari israeliane sono pronte al lancio su missili balistici che, con il Jericho 3, raggiungono 8-9 mila km di gittata. La Germania ha fornito a Israele (sotto forma di dono o a prezzi scontati) quattro sottomarini Dolphin modificati per il lancio di missili nucleari Popeye Turbo, con raggio di circa 1.500 km. Silenziosi e capaci di restare in immersione per una settimana, incrociano nel Mediterraneo Orientale, Mar Rosso e Golfo Persico, pronti 24 ore su 24 all’attacco nucleare. Gli Stati Uniti, che hanno già fornito a Israele oltre 350 cacciabombardieri F-16 e F-15, gli stanno fornendo almeno 75 caccia F-35, anch’essi a duplice capacità nucleare e convenzionale. Una prima squadra di F-35 israeliani è divenuta operativa nel dicembre 2017. Le Israel Aerospace Industries producono componenti delle ali che rendono gli F-35 invisibili ai radar. Grazie a tale tecnologia, che sarà applicata anche agli F-35 italiani, Israele potenzia le capacità di attacco delle sue forze nucleari. Israele - che tiene puntate contro l’Iran 200 armi nucleari, come ha specificato l’ex segretario di stato Usa Colin Powell nel 2015 - è deciso a mantenere il monopolio della Bomba in Medio Oriente, impedendo all’Iran di sviluppare un programma nucleare civile che potrebbe permettergli un giorno di fabbricare armi nucleari, capacità posseduta oggi nel mondo da decine di paesi. Nel ciclo di sfruttamento dell’uranio non esiste una netta linea di demarcazione tra uso civile e uso militare del materiale fissile. Per bloccare il programma nucleare iraniano Israele è deciso a usare ogni mezzo. L’assassinio di quattro scienziati nucleari iraniani, tra il 2010 e il 2012, è con tutta probabilità opera del Mossad. Le forze nucleari israeliane sono integrate nel sistema elettronico Nato, nel quadro del “Programma di cooperazione individuale” con Israele, paese che, pur non essendo membro della Alleanza, ha una missione permanente al quartier generale Nato a Bruxelles. Secondo il piano testato nella esercitazione Usa-Israele Juniper Cobra 2018, forze Usa e Nato arriverebbero dall’Europa (soprattutto dalle basi in Italia) per sostenere Israele in una guerra contro l’Iran. Essa potrebbe iniziare con un attacco israeliano agli impianti nucleari iraniani, tipo quello effettuato nel 1981 contro l’impianto iracheno di Osiraq. Il Jerusalem Post (3 gennaio) conferma che Israele possiede bombe non-nucleari anti-bunker, usabili soprattutto con gli F-35, in grado di colpire l’impianto nucleare sotterraneo iraniano di Fordow. L’Iran però, pur essendo privo di armi nucleari, ha una capacità militare di risposta che non possedevano la Jugoslavia, l’Iraq o la Libia al momento dell’attacco Usa/Nato. In tal caso Israele potrebbe far uso di un’arma nucleare mettendo in moto una reazione a catena dagli esiti imprevedibili. L’origine delle guerre e il pericolo di Joker di Mario Iannucci personaedanno.it, 7 gennaio 2020 Il generale iraniano Suleimani è stato ucciso su ordine del presidente degli Usa Donald Trump. È stato ucciso in Iraq, ma poco sarebbe cambiato se fosse stato ucciso a Teheran. Trump, di fronte alle comprensibili minacce di ritorsione dell’Iran, ha risposto dicendo che 52 siti iraniani, alcuni dei quali molto importanti per la cultura iraniana, erano stati identificati e sarebbero stati colpiti dall’America in maniera “very fast and very hard”. Si può senz’altro pensare che Trump abbia molti motivi per riproporre al mondo, in questa circostanza, il suo volto duro, sprezzante e minaccioso. Ci sono ragioni “esterne” agli Usa: l’Iran, nonostante la lunga stagione di avverse sanzioni, sta sollevando la testa, anche e soprattutto dal punto di vista economico (il turismo ad esempio rifiorisce, in quello splendido Paese); persino l’Iraq, invasa dagli Usa del tutto pretestuosamente, sta chiedendo di decidere in maniera autonoma del suo destino, legittimamente appoggiata, in questa sua richiesta, dall’Iran che sembra essere ora assai più “vicino”; Iran e Iraq sono senza dubbio Paesi cruciali nello scacchiere mondiale delle risorse energetiche; l’Iran è stato ed è un baluardo nella lotta all’Isis, alla cui nascita ed espansione gli Usa (e non solo gli Usa) hanno palesemente contribuito. Ma soprattutto sul fronte interno Trump, che si ricandida per il secondo mandato presidenziale sotto la spada di Damocle dell’impeachment, ha bisogno di mostrare il volto duro del suprematismo americano, quel volto arcigno dello zio Sam che richiama alla guerra nel quale si riconosce l’americano medio, come Trump sa benissimo. Non so quanto abbiano pesato le suddette ragioni nel condizionare l’operato omicida di Trump e le sue pericolose minacce. Non sono un esperto nel settore. Potrei invece, da psichiatra, associarmi al monito allarmato sulle condizioni mentali del presidente Trump, il quale, per la sua impulsività e per le caratteristiche personologiche, mi ha sempre inquietato (così come mi ha sempre inquietato la figura di altri famosi dittatori ‘suprematisti’ del secolo passato, che fossero di un ‘colorè oppure di un altro). Ma non voglio parlare di questo. Voglio piuttosto parlare della specifica minaccia profferita da Trump nel suo caratteristico modo impulsivo: colpire la cultura iraniana (e anche quella irachena). Il carattere impulsivo (che almeno io attribuisco al suo Twitter) ci rivela la profondità dell’odio di Trump nei confronti di ‘quella’ cultura. La cultura che Trump (Drumpf nella originaria versione tedesca del cognome della sua famiglia, cognome poi anglicizzato in Trump, vale a dire ‘la matta’ o ‘il joker’) intende colpire è di sicuro una delle culture più antiche e più luminose di tutta la storia dei popoli di questa piccola terra. È anche la cultura che maggiormente ha influito su tutto lo sviluppo del pensiero occidentale. Perché non c’è dubbio che l’Europa non sarebbe quello che è senza il Sumer, l’Akkadia, l’Assiria, Babilonia e l’Elam di Susa, Ecbatana, Persepoli e la mitica Aratta. Senza quei popoli illuminati (che ancora oggi illuminano con i loro resti tutta la civiltà occidentale: basta visitare qualche museo, compreso il Met che dista poche centinaia di metri dalla Trump Tower a NYC) gli Etruschi (e quindi i Romani) non ci sarebbero stati; e nemmeno i Greci (anche quelli che sconfissero gli Achemenidi di Dario) ci sarebbero stati così come noi li conosciamo. Senza quei popoli non ci sarebbe stata l’Europa. Ma cos’è l’Europa? L’Europa cui tutti ci riferiamo, quando ne parliamo come di un modello, è quella che ha importato, nella sua mentalità e nella sua cultura, tutto l’antichissimo patrimonio di sapere e di organizzazione sociale che ci viene dai popoli della Mesopotamia e dell’Elam. È l’Europa che ha integrato nelle sue leggi le norme del codice di Hammurabi e del cilindro di Ciro. È l’Europa che ha cercato di resistere, attraverso la cultura, alla barbarie di un ‘suprematismo’ acritico di talune genti, un ‘suprematismo’ che alberga peraltro nel cuore di ognuno di noi e si palesa soprattutto negli atteggiamenti impulsivi (anche in quelli dei maestri per definizione votati alla santità, che quel ‘suprematismo’ impulsivo quotidianamente condannano). Non sto qui parlando della piccola Europa politico/economica dell’attualità. Sto parlando di quel modello ideale di Europa che si è affermato nei secoli e che ha condizionato lo sviluppo di culture e di ‘linguè locali che a quel modello si sono ispirate. All’inizio del secolo dei ‘lumi’ Montesquieu così scriveva, a proposito della Persia: “Bisogna che io lo confessi, io provai un dolore segreto “Quando perdetti di vista la Persia, e mi trovai “In mezzo ai perfidi Ostmalini. “A misura che mi inoltravo nel paese di questi barbari, “mi sembrava che io stesso diventassi barbaro”. Due secoli più tardi anche l’Europa, poiché taluni avevano smarrito il profondo significato della loro lontana origine culturale, ha corso il serio rischio di riconsegnarsi a una barbarie che riduceva in cenere la cultura. Non è mai facile riconoscere i propri debiti, specie quelli culturali. Non fu facile per i Romani, che tentarono di fare tabula rasa delle loro profonde radici etrusche. Non è stato facile per gli Americani (sia del Nord che del Sud), che hanno dovuto tagliare, in modo radicale e traumatico, le loro origini locali e quelle dei paesi europei da cui molti, moltissimi, provenivano. Specie nel Nord America il peso di questa potente radice che affonda nell’Europa è avvertito con enorme fastidio. Quale mezzo migliore, allora, che colpire, in modo “very fast and furious”, con quell’impulsività che connota sempre l’azione di un inconscio revanscismo atavico, la radice culturale di quell’origine europea che si vuole denegare? I peggiori pericoli e le disgrazie maggiori, per l’uomo e per l’umanità, provengono sempre da cedimenti a istanze vendicative che hanno il sapore della morte. Ecco perché, con tutta la comprensione per Joker e la sua origine ‘matta’, non vorremmo che la sua distruttività prevalesse. Egitto. Ancora prorogata la detenzione dell’avvocata Mahienour al-Masri di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2020 Il 3 gennaio la Procura suprema per la sicurezza dello stato dell’Egitto ha rinnovato di altri 15 giorni la detenzione dell’avvocata Mahienour al-Masri, arrestata il 22 settembre scorso al Cairo proprio mentre stava lasciando gli uffici della procura. Mahienour al-Masri, il cui arresto è scattato nei giorni delle ultime proteste di massa, è sotto indagine per “diffusione di notizie false” e “collaborazione con un gruppo terroristico nel perseguimento dei suoi obiettivi”. Persona tra le più importanti del movimento dei difensori dei diritti umani in Egitto, insignita del premio Ludovic Trarieux per i diritti umani, Mahienour al-Masri è finita in carcere tre volte negli ultimi cinque anni. Nel febbraio 2015 era stata condannata a due anni di carcere per “manifestazione non autorizzata”, “danneggiamento di proprietà della polizia”, “aggressione alle forze di sicurezza” e “minaccia all’ordine pubblico”, il tutto per aver manifestato, il 29 marzo 2013, di fronte a una stazione di polizia di Alessandria in solidarietà con alcuni colleghi arrestati. L’11 maggio 2015 la condanna era stata ridotta a un anno e tre mesi e il 13 agosto 2016 era stata rilasciata. Il secondo arresto risale al novembre 2017, per aver preso parte - sempre ad Alessandria - a una manifestazione contro la decisione del governo egiziano di cedere all’Arabia Saudita due isole nel mar Rosso, Tiran e Sanafir. Condannata il 30 dicembre a due anni di carcere per “manifestazione non autorizzata”, il 13 gennaio 2018 in appello era stata prosciolta e rilasciata. Dopo aver ricevuto, tre giorni fa, la notizia della proroga della sua detenzione, Mahienour al-Masri ha annunciato la decisione di rifiutare, insieme ad altre detenute, il cibo fornito dalla prigione di al-Qanater, per protesta contro la negligenza medica che aveva causato la morte di una detenuta, Mariam Salem. *Portavoce di Amnesty International Italia