Carceri, prescrizione e intercettazioni: sulla giustizia troppe controriforme di Giorgio Spangher Il Riformista, 6 gennaio 2020 Che la giustizia penale possa essere divisiva è un fatto scontato: si tratta di disciplinare i rapporti tra lo Stato e i cittadini. L’approccio culturale e ideologico nonché il contesto dei fenomeni criminali costituiscono la base sulla quale si articolano le scelte del Governo e del Parlamento. Questo dato che ha da sempre caratterizzato le scelte delle riforme della giustizia penale si sta da ultimo connotando di un ulteriore elemento innestato dalla instabilità politica e dal mutamento delle maggioranze che sostengono il Governo. Si vive in contesti di riforme e controriforme, di riforme annunciate con leggi delega e mai portate a compimento, di innovazioni legislative asistematiche, di regimi sostanziali e processuali differenziati anche significativamente nel tempo in relazione al diverso momento della loro approvazione di differimento proroghe di efficacia normativa variamente motivate. L’intervento del decreto legge in tema di intercettazioni ne è l’esempio più evidente anche se non può essere trascurato il tema della prescrizione che appena entrata in vigore stante i ritenuti effetti differiti nel tempo, consente da tempo di dibattere sulle sue modiche e aggiustamenti. In questi modi si pensa di dare spazio e voce alle divaricate posizioni delle varie posizioni politiche, si cercano sponde e consensi elettorali, probabilmente effimeri anche per la palese loro strumentalità. Rinviata per la quarta volta, la riforma delle intercettazioni di cui al decreto legge di fine anno, peraltro in parte già introdotta con vari provvedimenti tra i quali la legge cosiddetta spazza-corrrotti e la giurisprudenza delle sezioni unite, può essere letta sotto due profili: uno più strettamente giuridico e uno più significativamente politico. Sotto il primo profilo la riforma è sicuramente frutto dell’azione di alcune procure ovvero di alcuni procuratori che con successivi documenti, nei passaggi significativi dell’elaborazione del testo, non hanno mancato di far sentire il peso delle loro posizioni. Difficoltà organizzative dapprima; riserve di merito poi. Invero la nuova formulazione restituisce pienamente al pubblico ministero la gestione e il controllo dell’attività e degli esiti delle intercettazioni. Gli aspetti innovativi attuativi della legge delega vengono superati conferendo al procuratore ogni determinazione dei risultati dell’attività di captazione sia in relazione al materiale da ritenere rilevante sia in relazione ai tempi della sua conoscibilità. La difesa dovrà sempre in via prioritaria rivolgersi al pubblico ministero per verificare il possibile utilizzo dei materiali favorevoli alla linea difensiva. Il ruolo del giudice che poteva assurgere a giudice delle intercettazioni così da costituire una prima svolta di rafforzamento del suo compito nella fase delle indagini preliminari torna alla sua dimensione di prossimità all’accusatore. Venendo incontro alle riserve delle procure, si afferma la piena utilizzazione come prova di eventuali reati acquisiti con il captatore per i reati di criminalità organizzata e di criminalità economica. Quanto a quest’ultimo aspetto, si parifica la posizione degli incaricati di pubblico servizio a quella dei pubblici ufficiali. In termini positivi va valutata la anticipazione della possibilità della trascrizione con le perizie al termine delle indagini preliminari. Sotto il profilo politico non può non lasciare perplessi la posizione di chi non è riuscito a portare a compimento la propria riforma penitenziaria, a difendere la riforma della prescrizione e a vedere controriformata quella sulle intercettazioni. Caro ministro Bonafede ora basta slogan, serve la politica di Alfredo Bazoli Il Riformista, 6 gennaio 2020 Il primo gennaio è entrata in vigore la nuova norma sulla prescrizione voluta dal precedente governo gialloverde. Come noto, il Partito democratico avrebbe preferito che quel termine fosse posticipato, almeno a fino a quando fosse stata approvata una seria ed efficace riforma complessiva della giustizia. La ostinata indisponibilità mostrata sul punto dal ministro non lo ha consentito. Prendiamo atto, ma ora è il tempo di cambiare spartito. Non intendo tornare sul merito delle questioni sul tappeto, su cui oramai siamo intervenuti decine di volte. Mi limito a ricordare che tre gruppi su quattro della maggioranza, unitamente a oltre 150 professori di diritto e procedura penale, alle Camere penali, a magistrati del calibro di Armando Spataro o Raffaele Cantone o Catello Maresca, per citarne solo alcuni, al procuratore generale presso la corte di cassazione Giovanni Salvi, sono molto preoccupati per i rischi che quella riforma porta con sé, e in particolare quelli di un allungamento dei tempi dei processi che sarebbe lesivo di molti principi costituzionali, il primo dei quali quello della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 della costituzione. Hanno tutti torto, sono tutti presi da un abbaglio, come sostiene il ministro? Può darsi. Ma può anche darsi (e forse è più probabile) che non sia così. Ma al punto in cui siamo arrivati, vorrei dire che conta poco chi ha torto o chi ha ragione. Il punto vero è che quando capita, come in questo caso, di avere opinioni diverse, si cerca un punto di incontro. E quando questo accade nella vita pubblica si chiama fare politica. Ecco, è il tempo di tornare alla politica. Il Partito democratico ha dimostrato in questi ultimi mesi, sulla questione in gioco, una lealtà e una disponibilità non comuni, che qualcuno ha prontamente scambiato per subalternità, arrendevolezza o, peggio, attaccamento alla poltrona. A me piace definirla senso di responsabilità, capacità di soppesare con equilibrio i problemi, di collocarli dentro una prospettiva più ampia, di non cedere al ricatto dell’emotività, di farsi carico delle conseguenze. Ma pensare di scambiare il senso di responsabilità del Partito democratico per una disponibilità ad abdicare alle proprie convinzioni sarebbe altrettanto miope, e pericoloso. Non è pensabile di trascinare ancora una vicenda che è già stata stressata oltre misura, e che pesa nei rapporti interni alla maggioranza. Tra pochi giorni arriverà in aula la proposta delle opposizioni di ripristino della riforma Orlando, ci sarà poi la proposta del Partito democratico di modifica della prescrizione, e arriverà prima o poi in commissione e in Parlamento la riforma della giustizia. Davvero il ministro della Giustizia pensa di affrontare quei passaggi parlamentari senza un previo accordo che metta armonia sul punto dentro la maggioranza di governo? Davvero si pensa di poter procedere come fatto finora, mettendo le forze di maggioranza dissenzienti di fronte al fatto compiuto? Mi rifiuto di crederlo, sarebbe una scelta irresponsabile e gravida di conseguenze, comprensibile solo se il vero disegno, occulto e non detto, fosse quello di destabilizzare la maggioranza. Il Partito democratico è pronto, da sempre, a un confronto aperto e leale con il ministro per cercare le soluzioni praticabili al fine di scongiurare i rischi che la riforma della prescrizione innesca. Noi abbiamo presentato una proposta di legge che riteniamo esaustiva ed efficace, ma sappiamo bene che ci sono molte altre possibilità, non una soltanto, per intervenire in modo puntuale e soddisfacente per tutti. Bene, lo si faccia: ma il tempo è ora, non c’è più margine per tergiversare o attendere. Pisapia: “È uno scempio, il Pd fermi la riforma della prescrizione” di Giovanna Casadio La Repubblica, 6 gennaio 2020 Intervista all’eurodeputato eletto nelle liste dem. “Così il processo diventa un calvario, non sono stati messi i paletti. E nulla è cambiato sui decreti sicurezza”. “Che la riforma della prescrizione sarebbe entrata in vigore a gennaio 2020 lo sapevano tutti. I progressisti avevano votato contro criticandola aspramente. Andava quindi fermata o nel decreto Mille proroghe o subito dopo. Invece non sono stati messi paletti e non si è cambiato passo sui decreti sicurezza di Salvini, sulle disuguaglianze... e ora è finito il tempo di aspettare”. Giuliano Pisapia, eurodeputato eletto come indipendente nelle liste del Pd, leader della sinistra e avvocato, denuncia: “Stanno andando nella stessa direzione del vecchio governo 5Stelle-Lega”. Pisapia, lo stop alla prescrizione è in vigore. A sinistra alcuni ne condividono le ragioni di fondo, lei no? “Condivido la preoccupazione per i tempi lunghi dei processi. Ma la riforma Bonafede, che blocca il decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, è un percorso sbagliato e inefficace, un calvario. In contrasto con la Costituzione”. Spiega perché? “I processi, nella maggior parte dei casi, si prescrivono durante la fase delle indagini e prima delle sentenze di primo grado. I dati dicono che la prescrizione interviene per il 53% dei procedimenti penali in fase di indagine e per il 22% dopo il rinvio a giudizio, ma prima della sentenza di primo grado e che il 75% degli indagati risulta innocente. Sono convinto che la controriforma Bonafede determinerà addirittura un allungamento dei tempi del processo. Non penso solo agli imputati innocenti o presunti innocenti - che sono tutti coloro che non hanno una condanna definitiva - ma anche alle vittime del reato”. Bonafede, il ministro, le direbbe che sta sbagliando… “Come possiamo pensare che chi chiede giustizia debba aspettare 20 o 30 anni prima di una risposta? Il ministro Guardasigilli è un avvocato: gli ricordo Beccaria, il quale diceva che la giustizia deve essere celere, pronta e giusta”. Però i grillini ricordano che con queste norme, Berlusconi non l’avrebbe fatta franca nei processi grazie alle prescrizioni. È un argomento serio? “Serio e falsato. Berlusconi ha avuto processi in cui è stato condannato, altri in cui è stato assolto. Quanto al processo più importante, il “lodo Mondadori”, in cui è scattata la prescrizione - e in cui io ero avvocato di parte civile contro il leader forzista - ebbene il reato si è prescritto in primo grado. Se in vigore, questa riforma non avrebbe modificato niente”. Lei, leader della sinistra, si ritrova sulle stesse posizioni di Forza Italia? “Uno può essere d’accordo anche se i motivi sono differenti. Non mi interessa chi ha fatto una proposta di legge, ma se la proposta è giusta o ingiusta, efficace o inefficace. So bene che la questione viene spesso strumentalizzata. Condivido la proposta del Pd, ma si possono fare emendamenti o comunque affrettarsi ad abrogare la riforma Bonafede”. Ma ritiene il Pd gregario rispetto ai 5Stelle? “Una forza politica autenticamente democratica non può permettere che avvenga questo scempio del rispetto delle regole. Più in generale io ero perplesso sul percorso che il centrosinistra ha poi scelto, cioè di alleanza con i 5Stelle. Ma la cosa più grave è che è mancata del tutto la discontinuità tra il governo giallo-rosso e il precedente, tranne che su due punti: il rapporto con l’Europa e molte facce nuove di ministri e vice”. Come si dovrebbe cambiare? “Stanno andando nella stessa direzione in cui è andata la precedente maggioranza di M5Stelle e Salvini. Ho sperato che su giustizia, sicurezza, disuguaglianza si cambiasse passo, perché non è più tempo di aspettare, bensì di vedere se ci sono o meno i presupposti per andare avanti con un programma preciso e condiviso”. E sulla riforma della prescrizione, la modifica va fatta subito? “Al Pd e ai progressisti dico: mettete la faccia su una proposta alternativa. Se non lo fate adesso, non potete sperare di farlo in futuro: questo è il momento”. Lei s’indigna tanto perché è un avvocato? “M’indigno perché sono garantista. Nella vita professionale e nell’impegno politico”. E per diminuire i tempi dei processi cosa fare? “Bisogna promuovere l’aumento dei riti alternativi: il giudizio abbreviato e il patteggiamento. Il giudizio abbreviato riduce in maniera rilevante i tempi della giustizia; il patteggiamento esclude la possibilità di prescrizione. Aumentare l’organico della magistratura e di chi opera negli uffici giudiziari. Rafforzare le misure alternative al carcere che porteranno una diminuzione delle prescrizioni”. Pisapia: abrogare la controriforma Bonafede sulla prescrizione (vita.it) Giuliano Pisapia europarlamentare S&L e Vicepresidente Commissione Affari Costituzionali del Parlamento Europeo: “Un provvedimento inutile, inefficace, controproducente e incostituzionale”. Il tema della Giustizia doveva essere, a mio parere, tra le priorità di questo Esecutivo. Sin da subito ho nutrito dubbi su questa alleanza e oggi le profonde differenze su questo tema, e in particolare sulla “Controriforma Bonafede”, questi dubbi non solo sono confermati, ma anche aumentati: un’autentica discontinuità rispetto al Governo gialloverde non si è ancora vista”, dichiara Giuliano Pisapia europarlamentare S&L e Vicepresidente Commissione Affari Costituzionali del Parlamento Europeo. “Il Ministro della Giustizia ostinatamente difende una riforma che va a intaccare i princìpi base della nostra Costituzione, che porterà ad allungare i tempi dei processi penali, a diminuire le garanzie per imputati e parte lese. Controriforma voluta dai 5 Stelle e dalla Lega e che aveva visto la netta opposizione del centrosinistra. Una norma, purtroppo già entrata in vigore, che prevede il blocco del decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sia per chi è stato assolto sia per chi è stato condannato, seppur in maniera non definitiva. La realtà ci dice che la prescrizione interviene per il 53% dei procedimenti penali in fase di indagine e per il 22% dopo il rinvio a giudizio, ma prima della sentenza di primo grado e che il 75% degli indagati è innocente. La norma che prevede lo stop della prescrizione dopo il primo grado quindi non risolve il problema, ma al contrario lo aggrava. Una norma inefficace e controproducente: un danno per le vittime dei reati, che dovranno aspettare templi biblici per avere giustizia e che non distingue chi è stato assolto da chi è stato condannato in primo grado, ma che rimane presunto innocente” - continua Pisapia - “per diminuire i tempi della giustizia è necessario promuovere l’aumento dei riti alternativi e, in particolare, il giudizio abbreviato e il patteggiamento: il giudizio abbreviato riduce in maniera rilevante i tempi della giustizia; il patteggiamento esclude la possibilità di prescrizione; aumentare l’organico della magistratura e di chi opera negli uffici giudiziari; rafforzare le misure alternative al carcere: strumento che, se ben utilizzato, porterà a una significativa diminuzione delle prescrizioni. Questi sono i punti necessari per un cambio di passo sul tema giustizia”, rimarca il Vicepresidente della Commissione Affari Costituzionali del Parlamento Europeo. “La legge sulla prescrizione è incostituzionale perché la Costituzione prevede espressamente che i processi debbono avere una ragionevole durata; non aspettiamo che la Consulta tra qualche anno dichiari l’incostituzionalità delle Legge Bonafede come è avvenuto per i Decreti Omnibus di Governo e Parlamento. Si prenda atto al più presto della situazione; si eviti un peggioramento della malattia già grave della nostra giustizia e si approvi al più presto un provvedimento in linea con le proposte avanzate dalle forze di centrosinistra che siedono nell’Esecutivo Per questi, e per tanti altri motivi, auspico che le forze progressiste che hanno deciso di partecipare al governo Conte bis non facciano passi indietro rispetto a quanto dichiarato in questi giorni, e non cedano di un passo rispetto alle proposte di legge presentate in Parlamento, che già sono un compromesso al ribasso; una forza politica autenticamente democratica non può permettere che avvenga questo scempio del rispetto delle regole”, rimarca Pisapia. In questi giorni si parla di una nuova fase dell’Esecutivo con l’obiettivo di un programma condiviso. Bene, che la riforma della Giustizia rientri in questo programma definendo - per questo aspetto come per gli altri - tempi certi di realizzazione. E che finalmente si passi dalle parole ai fatti cancellando tutte le norme liberticide dei deleteri Decreti Sicurezza a firma del Governo Gialloverde: norme già censurate in sede di promulgazione dal Capo dello Stato. Si proceda subito con questo cambio di passo perché al momento la discontinuità promessa ancora non si vede”, conclude Pisapia. Violante: “Il giustizialismo dei grillini costa caro agli innocenti”. La prescrizione non va abolita di Pietro Senaldi Libero, 6 gennaio 2020 L’ex presidente dem della Camera: “Un processato su due viene assolto, il M5S fa il tifo per una società ingabbiata dal diritto penale che gli si rivolterà contro”. Presidente, lei è stato giudice e parlamentare, andiamo subito al punto della questione: è vero che la magistratura oggi è diventata troppo potente e conta più dei politici? “Così sembra, per due ragioni. Nelle democrazie il sovrano è colui che dirime i conflitti e oggi, se pensa all’Ilva, ad Autostrade o alla morte di dj Fabo, le decisioni che contano le prendono i giudici. E poi perché, nella crisi della politica, le toghe riescono a dare l’idea di rappresentare meglio le esigenze e le istanze dei cittadini. Sono passate da un ruolo di garanzia a uno di bandiera”. La politica ha provato a usare i magistrati e ne è finita scavalcata? “La politica non ha perso forza a causa dei giudici ma perché aumentano le domande dei cittadini e diminuiscono le risorse economiche con cui soddisfarle”. Quanto è politicizzata la magistratura? “Non credo che sia manovrata dalla politica né reputo che combatta a favore di uno schieramento o contro un altro. Però i capi delle diverse correnti hanno un peso eccessivo. Questo è un male”. C’è una lotta di potere che divide i magistrati? “Il problema della magistratura oggi è che il consenso delle personalità più autorevoli in ciascuna corrente può portare giudici non eccellenti ad assumere ruoli importanti e toghe più dotate a fare meno carriera”. In pratica i giudici fanno politica ma per contendersi il loro potere, non per condizionare i parlamentari, che hanno meno potere di loro. Come dire, se puoi comandare a Milano, che ti importa di batterti per diventare sindaco di Voghera? “Se non ho capito male, questa è una sua felice sintesi...”. Ravvisa una deriva giustizialista dell’Italia a guida grillina? “Si parte da Tangentopoli, quando un pezzo del mondo giudiziario, di quello politico e della cittadinanza ritenne che il magistrato potesse essere un’autorità morale, con il potere di decidere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Da qui nacque l’ipertrofia di reati, quella che anche il Papa criticò parlando di populismo penale. Sono due fenomeni in grado di minare la stabilità di una società”. La terza fase è il giustizialismo grillino, parente del terrorismo giudiziario dei giacobini francesi? “La terza fase, alla quale ahimè siamo arrivati da un po’, è la sostituzione del principio di non colpevolezza con quello di non innocenza. La comunicazione giudiziaria è diventata una condanna anticipata, con tanto di cassa di risonanza massmediatica e di messaggi negativi verso la società, che viene portata a non avere fiducia. Finché non si mette un limite, la mannaia continuerà a colpire”. Non se la prenderà anche lei con i giornalisti? “Voi fate la vostra parte ma il problema è più complesso. Non è solo mediatico. Se una legge stabilisce che chi ha un procedimento pendente decade automaticamente dai contratti pubblici anche se non è condannato significa che il legislatore è diventato giustizialista e arbitrario”. Non si potrebbe, se non punire, almeno rallentare, come avviene in tutte le professioni, la carriera dei magistrati che sbagliano e perseguitano innocenti? “È difficile valutare il lavoro di un giudice, perché ci sono il primo grado, l’appello, la Cassazione. E poi c’è la grande ipocrisia dell’obbligatorietà dell’azione penale, che si traduce in una discrezionalità di fatto del pm a inquisire”. Dal primo gennaio è stata abolita la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, cosa ne pensa? “E una legge sbagliata. Ancora più sbagliato è giustificarla con il fatto che ci aiuterà ad avere processi più brevi, perché al contrario essi si allungheranno. Inoltre il nuovo regime espone anche chi è stato assolto in primo grado al rischio di restare sotto processo a vita”. È una legge figlia del giustizialismo del ministro Bonafede? “Capisco l’esigenza del Cinque Stelle di evitare che imputati facoltosi assistiti da principi del foro sfuggano alla giustizia grazie alla prescrizione, ma non puoi far pagare a sessanta milioni di italiani la tua battaglia contro un manipolo ridotto di accusati eccellenti”. Massimalismo giudiziario? “Prima di fare nuove leggi bisognerebbe studiare i problemi nel dettaglio, altrimenti si impongono cambiamenti dettati dall’ideologia e frutto di una conoscenza approssimativa dello stato delle cose. Ma così possono prodursi effetti devastanti”. Perché il Pd si è arreso in questo modo ai manettari grillini? “Mi sembra che abbia presentato una proposta di legge sulla prescrizione che risolverebbe in modo più ragionevole i problemi giustamente posti da Cinque Stelle”. Ma la difesa dei diritti dei cittadini non sarebbe per la sinistra una buona ragione per far cadere il governo? “Se cade il governo la legge sulla prescrizione resta, si va a elezioni e modificarla diventa più lungo e complesso di quanto non lo sia oggi. E poi c’è il fatto che quando sei in coalizione devi negoziare e pagare dei prezzi, lo ha fatto anche la Lega”. Perché il Pd non sfida i grillini apertamente sul tema giustizia, sono in crollo verticale? “È presto per dare per morti i Cinque Stelle”. La crisi però c’è tutta: a cosa la addebita? “I grillini sono partiti come una galassia di comunità digitali, che sono per natura aggressive e oppositive. Non sono in grado di dare consigli ma forse ai pentastellati converrebbe smetterla con la retorica della società degli innocenti, altrimenti rischiano di fare il tifo per una società ingabbiata dal diritto penale, che prima o dopo potrebbe anche rivoltarsi contro. Dovrebbero parlare e spiegarsi di più, non solo comunicare tramite i social. In questo senso, mi sembra che Salvini si sia mostrato più attento. La Lega usa i social ma va anche nelle piazze, non ha rinunciato al contatto umano. Per questo alla prova del governo il Carroccio è cresciuto e il M5S è sceso. Ma la parola definitiva non è detta”. A proposito di Salvini, ma si può processare un ministro per sequestro di persona? “Resto un magistrato, di processi parlo solo dopo aver letto le carte”. Mi spieghi allora come il premier Conte può chiamarsi fuori dalla vicenda Gregoretti... “Non essendoci stato un consiglio dei ministri sul punto, la questione è quanto la decisione di non far sbarcare i profughi fosse condivisa. E qui parleranno le carte”. Non pensa che i magistrati abbiano perso popolarità anche per le loro continue intromissioni nella politica: Craxi e la Dc, Mastella e Prodi, Berlusconi, ora Salvini? “Le vicende giudiziarie hanno condizionato, forse troppo, molti aspetti della vita del Paese, ma ognuna meriterebbe un’intervista specifica. La popolarità dei giudici è legata alla quotidianità. Negli anni 80-90 avevamo 24 magistrati uccisi dalla mafia e dalla criminalità. Con Tangentopoli poi ci fu un momento in cui parve che le toghe potessero salvare l’Italia, quindi il rispetto era altissimo”. Poi la catarsi giudiziaria non ci fu, gli italiani si ritrovarono con una giustizia che non funziona e la credibilità dei giudici crollò... “Certo peggiore è la percezione della giustizia, peggiore è l’immagine dei magistrati. Consideri che il magistrato ha davanti a sé due parti e a una darà ragione e all’altra torto. Chi ha avuto torto, non sarà mai soddisfatto. Però non si può fare di tutta l’erba un fascio. Certi uffici funzionano benissimo, altri no. Prima di fare riforme alla cieca bisognerebbe studiare i casi virtuosi e provare a emularli. Comunque, vorrei tranquillizzarla: i giudici promuovono moltissime azioni disciplinari contro i loro colleghi inefficienti e in tanti casi esse si risolvono con una condanna”. Chiudiamo con la politica: da ex comunista, qual è l’erede del grande partito della sinistra italiana? “Non c’è, neppure il Pd lo è. Il Pci è morto senza eredi perché è stato incapace di fare una revisione formale, come fecero i socialdemocratici tedeschi, anche se forse noi eravamo più socialdemocratici di loro”. Da figlio di un comunista al confino, pensa che oggi ci sia il rischio di un ritorno agli anni Trenta, come paventano molti a sinistra? “No, non ci sono le condizioni storiche e sociali. Però ravviso una recrudescenza dell’intolleranza verso i più deboli e i disabili, favorita dall’innalzamento dei toni. Ed è preoccupante”. Perciò ancora oggi la sinistra continua a dividersi in partitini? “Le scissioni sono nella natura della sinistra, perché essa tende a modificare il mondo, mentre la destra tende ad adattarvisi e cavalcarlo. Ovvio che ciascuno ha una propria idea diversa di come cambiare il mondo, e quindi a sinistra è più facile separarsi che unirsi”. Ha capito perché il Pd ha scaricato Renzi? “A me sembra che sia andata all’opposto. Renzi è un dirigente politico di altissimo livello, sa come si fanno le cose e come si comanda, ma è incompatibile con un partito fatto di persone che possano avere anche idee diverse da lui, quindi è incompatibile con il Pd. La storia non poteva andare diversamente”. Quando cade il governo? “Ho l’impressione che sia troppo debole per cadere. Nessuno dei suoi componenti avrebbe la forza di affrontare le elezioni e misurarsi per il consenso”. Nuova prescrizione, l’Ocf scrive il testo abrogativo Il Dubbio, 6 gennaio 2020 L’Organismo forense auspica che “la nuova riforma della prescrizione sia modificata in profondità, o accompagnata da misure di sistema che riescano a ricondurne l’impatto entro soglie accettabili”. Nel dibattito riacceso dall’entrata in vigore della nuova prescrizione il referendum abrogativo è ormai uno dei punti fermi. A ipotizzarlo è stata innanzitutto l’Unione Camere penali, che lo scorso 31 dicembre ha già sollecitato le forze politiche interessate a un “incontro per valutare la costituzione di un comitato promotore”. Ieri si è schierato per tale opzione anche l’Organismo congressuale forense, che in una nota ha già proposto la materiale formulazione del quesito referendario: “Volete voi che sia abrogato l’articolo 159, comma 2, del codice penale… come modificato dall’articolo 1, comma 1, lettera e), n. 1, della legge 9 gennaio 2019, n. 3?”. Un algoritmo giuridico che, si legge nel comunicato dell’Ocf, cosi può essere “tradotto” per i “profani”: “Volete voi abrogare la riforma della prescrizione voluta dal Ministro Alfonso Bonafede, recentemente entrata in vigore, e che porta il cittadino che incappi nelle maglie della giustizia a non uscirne mai più?”. L’Organismo forense dunque auspica, per voce del suo coordinatore Giovanni Malinconico, che “la nuova riforma della prescrizione sia modificata in profondità, o accompagnata da misure di sistema che riescano a ricondurne l’impatto entro soglie accettabili” ma “per evitare nel frattempo che la riforma produca danni incalcolabili all’impianto normativo e alle tutele poste a difesa dello stato di diritto, la via più rapida”, dice appunto il coordinatore dell’Ocf, “è quella referendaria, che eliminerebbe chirurgicamente il nuovo articolato lasciando in vita un testo perfettamente coerente e autosufficiente”. Nella nota che accompagna l’ipotesi di quesito referendario, l’Organismo congressuale forense osserva: “Porre il processo al di fuori del flusso del tempo danneggia tutti: la vittima e tutta la collettività, che hanno interesse a un pronto accertamento della responsabilità e alla punizione del reato; l’innocente, già danneggiato dal solo fatto di essere sottoposto al procedimento, e per il quale ogni giorno in più di sottoposizione al giudizio penale e alla gogna che spesso ne consegue dà luogo a un supplizio intollerabile; lo stesso colpevole, che ha diritto di veder definita in breve la sua vicenda, scontando la sanzione per poi reinserirsi in società”. Intelligenza artificiale, come lo Stato può impiegarla per la Pa e la giustizia? di Luigi Garofalo key4biz.it, 6 gennaio 2020 Intelligenza artificiale al servizio dello Stato è uno degli obiettivi inseriti da Paola Pisano, ministro per l’Innovazione tecnologica e la Digitalizzazione, nel Piano Nazionale Innovazione. Ecco come il ministero intende impiegare l’IA per “gestire in maniera efficiente una serie di procedimenti amministrativi”. L’Intelligenza artificiale (IA) è la nuova elettricità. E mentre Cina e Stati Uniti si fronteggiano per raggiungere la supremazia tecnologica nel mondo, in particolare sull’IA, l’Europa e l’Italia non possono restare a guardare. Così Piano Nazionale Innovazione Paola Pisano, ministro per l’Innovazione tecnologica e la Digitalizzazione, prevede l’impiego dell’IA al servizio dello Stato. “L’intelligenza artificiale e i big data sono in grado di guidare i decisori pubblici verso scelte sempre più consapevoli, gestendo in maniera efficiente una serie di procedimenti amministrativi, specie se ripetitivi e a bassa discrezionalità”, si legge nel Piano. Progettare, sviluppare e sperimentare soluzioni di intelligenza artificiale applicata ai procedimenti amministrativi e alla giustizia eticamente e giuridicamente sostenibili significa dare attuazione moderna ai principi costituzionali che vogliono un’amministrazione efficiente e un processo giusto trasparente e breve. “Non è qualcosa che si possa scegliere se fare o non fare, è qualcosa che si deve fare”, mette nero su bianco il ministero dell’Innovazione e per la digitalizzazione (MID). Ma come utilizzare l’IA per la PA? “Abbiamo intenzione di introdurre e promuovere l’utilizzo di applicazioni di intelligenza Artificiale”, è scritto nel Piano Nazionale Innovazione, “nella gestione di procedimenti amministrativi, dei servizi con particolare attenzione al mondo della giustizia”. Il primo passo sarà identificare, spiega il MID, i “procedimenti”, particolarmente adatti per l’utilizzo di sistemi di IA (rapporti tra le amministrazioni, servizi verso le imprese e i cittadini). Successivamente, continua il dicastero guidato da Pisano, occorre insieme ai Ministeri competenti, definire le soluzioni di intelligenza artificiale idonee a governare i procedimenti nel rispetto dei principi etici e giuridici destinati a confluire nello Statuto etico giuridico dell’intelligenza artificiale, al quale sarà chiamato a lavorare l’AI Ethical Lab-el. Che cos’è l’AI Ethical Lab-el? La strategia per la promozione, sviluppo e adozione di soluzioni di intelligenza artificiale sostenibili prevede la creazione di una “Alleanza per l’intelligenza artificiale sostenibile”, spiega il MID nel Piano Nazionale Innovazione, un comitato al quale saranno invitati a aderire soggetti pubblici e privati. Il primo compito del Comitato sarà quello di elaborare, sulla base dei risultati dei diversi gruppi di esperti nazionali e europei che hanno già affrontato il tema, uno statuto etico-giuridico dell’intelligenza artificiale che, oltre a fissare un set minimo di principi-guida, stabilisca un insieme di regole minime per la qualificazione di soluzioni di intelligenza artificiale destinate al settore pubblico come a quello privato, una sorta di certificazione di sostenibilità etico-giuridica della soluzione che potrebbe poi tradursi in un certificato di superata valutazione di impatto etico sulla società. Infine, il ministero dell’Innovazione prevede di offrire gratuitamente online una piattaforma di e-learning per l’educazione di base all’intelligenza artificiale, così da consentire a chiunque di prepararsi alla trasformazione che avanza a casa, in famiglia, a scuola o al lavoro. Urge (seria) riforma della giustizia tributaria dì Luciano Quarta La Verità, 6 gennaio 2020 In occasione della conferenza stampa di fine anno, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ha espresso il proposito di mettere mano alla riforma della giustizia tributaria con modalità che riducono e comprimono ancora di più i già angusti spazi di tutela del contribuente. Eliminando, cioè, uno dei due gradi del giudizio di merito allo scopo di rendere più rapida la definizione dei contenziosi tributari. Ma proprio un giurista - che si è definito “l’avvocato degli italiani” - propone una drastica limitazione del diritto di difesa del cittadino contribuente? E poi, chiunque abbia una minima conoscenza del settore sa bene che la giustizia tributaria è estremamente celere proprio nei due gradi di giudizio di merito. Uno dei quali il premier sembra voler cancellare. Tutti sanno che il vero collo di bottiglia sta nel giudizio in Cassazione (quando ci si arriva). Qui, i processi attendono diversi anni prima di essere trattati, nonostante un filtro capillare sull’ammissibilità dei ricorsi ne scremi un buon 70%: tutte cause che non arrivano neppure alla discussione in udienza. L’annunzio del premier, quindi, ha provocato l’immediata reazione dell’avvocatura. L’Unione delle Camere degli avvocati tributari ha definito questa ipotesi di riforma coree “il punto di caduta più basso dopo la sostanziale abolizione della prescrizione e l’inasprimento del carcere per i presunti evasori”. Come non convenire? Se i poteri repressivi del fisco e la sua capacità di invasione della sfera del contribuente vengono ampliati a dismisura, in uno stato dì diritto degno di questo nome, simmetricamente dovrebbero essere implementati gli strumenti di tutela del contribuente, sia per garantire un adeguato ed effettivo controllo giurisdizionale sia per evitare che il potere trascenda nell’arbitrio o nell’abuso vero e proprio. Quello a cui assistiamo, invece, è il fenomeno opposto: cresce la pervasività dei poteri del fisco e, insieme, vengono ridotti gli spazi di tutela per il cittadino. La necessità che venga rivisto il sistema della giustizia tributaria è urgente, ma ci sono diversi progetti di riforma in parlamento, anche presentati dalla maggioranza, che faticano a raggiungere la discussione in aula. Ora, per usare le parole del professor Cesare Glendi, uno dei padri della giustizia tributaria, mentre la disciplina dell’organizzazione della giustizia tributaria “è tanto sgangherata e inadeguata da renderne impossibile una peggiore”, al contrario, mettere le mani sulle regole del processo tributario in modo sbagliato può creare danni seri. Che cosa si aspetta, dunque, ad accelerare l’iter dei disegni di legge? Se, poi, l’inquilino di palazzo Chigi vuole davvero occuparsi di questa riforma, farebbe bene a rispolverare la toga di avvocato degli italiani che diceva di voler indossare. Sciopero dei giudici di pace: stop alle udienze dal 6 gennaio all’1 febbraio tg24.sky.it, 6 gennaio 2020 Le associazioni di categoria hanno indetto l’astensione dalle udienze per tre settimane. Uno stop che arriva per protestare contro la legge Orlando e per aumentare garanzie e tutele della magistratura onoraria. Garantiti solo gli atti indifferibili e urgenti. Un nuovo sciopero, dal 6 gennaio all’1 febbraio 2020, è stato indetto dai giudici di pace che sospenderanno dunque per tre settimane le udienze. Lo stop, voluto dalle associazioni di categoria Unagipa e Angdp, arriva per chiedere la revisione della legge Orlando. I motivi dello sciopero - Dopo che sono fallite le mediazioni negli ultimi mesi del 2019, i giudici di pace continuano la protesta per ottenere tutele e garanzie che, secondo quanto fanno sapere le associazioni di categoria, al momento sono negate dalla legge Orlando. Nello specifico, lo stop mira ad ottenere maggiori garanzie di indipendenza, il diritto alla previdenza e all’assistenza sociale, la revisione delle regole sul trasferimento, quelle sull’incompatibilità e sui criteri di attribuzione del compenso. Quali attività verranno sospese e quali proseguiranno - Nel periodo di stop, i giudici di pace assicureranno una sola udienza a settimana: tutte le altre attività giudiziarie e amministrative rimarranno sospese in quanto si dovrà ritenere sospeso qualsiasi termine imposto dalla legge e dal Consiglio superiore della magistratura. Inoltre, per l’intero periodo, i giudici di pace si asterranno dalla partecipazione ai corsi di formazione, distrettuale e nazionale, ma anche da ogni altra attività legata al proprio ufficio. Verranno dunque garantiti solo gli atti indifferibili ed urgenti previsti dal codice di autoregolamentazione dello sciopero, come approvato dalla Cgsse. Nicoletta Dosio, chiederne la liberazione è un problema di chi ha a cuore la democrazia di Paolo Ferrero* Il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2020 Nell’agosto 2018 è crollato il ponte Morandi sull’autostrada genovese e sono morte 43 persone. Poche settimane fa un viadotto della Torino-Savona è crollato, per fortuna senza fare vittime. Alcuni giorni fa, sempre nell’area genovese, vi sono stati crolli dalla volta di una galleria dell’autostrada. Per puro caso senza conseguenze alle cose o alle persone. Il 30 dicembre, con singolare tempismo, la procura della Repubblica di Torino ha deciso che Nicoletta Dosio venisse messa in carcere per scontare oltre un anno di galera. Perché? Sempre per questioni relative alle autostrade. Infatti Nicoletta è stata condannata per vari reati (tra cui violenza privata) per aver - nell’ambito della lotta contro la Tav in Val di Susa - fatto passare alcune automobili senza pagare il pedaggio a un casello dell’autostrada. Non entro qui nel merito delle condanne, anche se condannare Nicoletta per violenza privata fa ridere visto che si tratta di una persona determinatissima ma di 73 anni, con un fisico minuto e che per tutta la vita ha insegnato materie umanistiche in un liceo e non arti marziali in una palestra. Ma al di là dell’insensatezza specifica della condanna, il punto che voglio sollevare è generale e riguarda la giustizia nel nostro paese. Come abbiamo visto, ci troviamo a discutere di autostrade: per tutti i crolli, veri e propri attentati all’incolumità pubblica, non mi risulta che nessuno sia andato in galera e non so se un giorno qualcuno ci finirà. Viceversa Nicoletta, per aver fatto passare alcune automobili gratis in un casello, è dentro e dovrà rimanerci per un anno. Nicoletta Dosio, la lettera dal carcere: “Contenta della mia scelta, la lotta No Tav è lotta per una società diversa” Chi pone in essere condotte amministrative e burocratiche che mettono a repentaglio la vita dei cittadini e provocano danni per decine di milioni di euro non viene colpito. Chi protesta pacificamente finisce in galera per oltre un anno. Si badi che in questo caso siamo a prima dei cosiddetti decreti Salvini, di cui in molti chiediamo giustamente - e inascoltati dal governo - la cancellazione. Gli attacchi che la magistratura ha subito nel nostro paese da parte della destra ci ha resi attenti nel giudicare le sentenze, ma non ho alcun dubbio: secondo me questa situazione fa schifo e ci troviamo dinnanzi a una spudorata giustizia di classe. Siamo nella repubblica dei signori, in cui i poveracci se protestano vengono mazzolati e messi in galera. Come nell’800 e prima della Repubblica, alla cui nascita la resistenza in Val Susa ha dato qualche significativo contributo. La logica con cui lo Stato italiano si muove verso la Val Susa è quello di una forza d’occupazione che reprime la popolazione e - come evidenzia il caso di Nicoletta - sbatte in galera chi protesta. Cos’ha da dire il governo? Cos’ha da dire il Presidente della Repubblica? Tutto bene? Di fronte al vergognoso silenzio dei vertici dello Stato italiano in occasione dell’incarcerazione di Nicoletta, di fronte a questo vergognoso e vigliacco modo di procedere dello Stato italiano, è necessaria una risposta democratica e di massa. La richiesta della liberazione di Nicoletta Dosio non è un problema solo del movimento no Tav, ma di chiunque abbia a cuore la democrazia nel nostro paese. Il problema non è dato solo da Salvini, ma anche da sentenze come quella che hanno messo in galera Nicoletta. *Rifondazione Comunista - Vicepresidente Partito della Sinistra Europea C’è il carcere per chi commette stalking attraverso post pubblici su Facebook di Marina Crisafi Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2020 Cassazione -Sezione V penale - Sentenza 6 novembre 2019 n. 45141 - Non resta impunito chi molesta e offende su Facebook. Per tali condotte, infatti, il rischio è la condanna per il reato di stalking. Lo ha chiarito la quinta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 45141/2019, confermando la condanna a dieci mesi di reclusione per il reato di atti persecutori nei confronti di un uomo che reiteratamente aveva offeso, molestato e minacciato una donna, i suoi familiari e persone a lei vicine, attraverso post pubblici su Facebook. I fatti - L’imputato adiva la Cassazione lamentando erronea applicazione dell’art. 612-bis c.p. “con specifico riferimento all’insussistenza degli eventi di danno previsti dalla norma” e per mancanza di motivazione. La sentenza, inoltre, a suo dire, era viziata nella parte in cui concludeva per la sussistenza del grave e perdurante stato d’ansia e del cambiamento delle abitudini di vita della persona offesa, non considerando le numerosissime conversazioni intrattenute tra la vittima e l’imputato (a fronte di un’unica procedura di “banning” volta a impedire ogni interferenza con i suoi profili Facebook) e la concessione, da parte della donna, del proprio numero di telefono. La decisione - Gli Ermellini sono di diverso avviso e sottolineano che le censure sono inammissibili, poiché richiedono di fatto una rilettura dei fatti non consentita in sede di legittimità. Nel merito, correttamente comunque, secondo il Palazzaccio, la corte territoriale ha ricondotto i fatti contestati nella fattispecie dello stalking, stanti le continue molestie operate nei confronti della vittima, anche mediante messaggi e post diffusi sui social network e il numero infinito di espressioni aspramente offensive e minacciose adoperate in danno della stessa. Altrettanto correttamente, la corte ha dato conto della sussistenza degli eventi di danno previsti dall’art. 612 bis c.p. e segnatamente dello stato di ansia, tensione e paura, indotto nella vittima da parte dell’imputato, in considerazione peraltro del lungo arco temporale in cui lo stesso ha posto in essere i comportamenti persecutori che hanno impedito alla vittima di svolgere una vita normale, “insinuando la paura che nelle ore di relax all’improvviso si materializzasse l’imputato” e costringendola a modificare le proprie abitudini di vita, ricorrendo all’aiuto di amici per farsi accompagnare a casa, installando blocchi delle chiamate e dovendo giustificare le intrusioni diffamatorie dell’uomo sui social anche in ambito lavorativo. Stalking reato abituale - Lo stalking, ricordano, quindi i giudici di piazza Cavour, “è strutturalmente una fattispecie di reato abituale - in quanto primo elemento del fatto tipico è il compimento di ‘condotte reiteratè, omogenee od eterogenee tra loro, con cui l’autore minaccia o molesta la vittima - ad evento di danno, che prevede più eventi in posizione di equivalenza, uno solo dei quali è sufficiente ad integrarne gli elementi costitutivi necessari: a) cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero b) ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero, ancora, c) costringere (la vittima) ad alterare le proprie abitudini di vita (cfr. Cass. n. 39519/2012)”. Lo stato d’ansia e tensione della vittima, che nella vicenda è emerso con evidenza, inoltre, “prescinde dall’accertamento di un vero e proprio stato patologico e non richiede necessariamente una perizia medica, potendo il giudice argomentare la sussistenza degli effetti destabilizzanti della condotta dell’agente sull’equilibrio psichico della persona offesa, anche sulla base di massime di esperienza”. In particolare, è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori “abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima”, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612 bis c.p. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 c.p.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica (Cass. n. 18646/2017). Irrilevante l’avvicinamento della vittima - Non regge neanche la contestazione sui momenti di avvicinamento della vittima all’imputato. Più volte è stato evidenziato, rammenta infatti la S.C., dichiarando inammissibile il ricorso, che “l’attendibilità e la forza persuasiva delle dichiarazioni rese dalla vittima del reato non sono inficiate dalla circostanza che all’interno del periodo di vessazione la persona offesa abbia vissuto momenti transitori di attenuazione del malessere in cui ha ripristinato il dialogo con il persecutore (Cass. n. 5313/2014), atteso che l’ambivalenza dei sentimenti provati dalla persona offesa nei confronti dell’imputato non rende di per sé inattendibile la narrazione delle afflizioni subite, imponendo solo una maggiore prudenza nell’analisi delle dichiarazioni in seno al contesto degli elementi conoscitivi a disposizione del giudice (Cass. n. 31309/2015)”. Falsità e omissioni nella istanza di ammissione al gratuito patrocinio. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 6 gennaio 2020 Gratuito patrocinio - Istanza - Art. 95 T.U. spese di giustizia - Falsità od omissioni - Verifica dell’elemento soggettivo del reato. Ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 95, T.U. spese di giustizia, in caso di effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio, non è sufficiente che l’istanza contenga falsità od omissioni, dovendo il giudice verificare l’elemento soggettivo del reato, al fine di escludere l’eventuale inutilità del falso; occorre cioè verificare se, alla stregua delle risultanze processuali, la falsità o l’omissione fosse realmente espressiva di deliberato mendacio o reticenza sulle effettive condizioni reddituali o non fosse piuttosto frutto di disattenzione, come tale non qualificabile come dolo. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 6 dicembre 2019 n. 49572. Falsa dichiarazione dei redditi ex art. 95 dpr n. 115/92 - Errore incolpevole - Determinazione del reddito imponibile - Inammissibilità. La responsabilità per il reato di cui all’art. 95, d.P.R. n. 115/2002 non deriva dalla riconosciuta e dichiarata consapevolezza delle conseguenze anche penali delle falsità eventualmente contenute nella dichiarazione resa ai fini della ammissione al beneficio, bensì dalla violazione della medesima norma, che riconduce la sanzione penale alla falsità totale e parziale, nonché alle omissioni della dichiarazione sostitutiva della certificazione, non potendo neppure di regola assumere rilievo la deduzione di una ignoranza incolpevole, ai sensi dell’articolo 47 c.p., in quanto gli articoli 76 e 79 T.U. Spese di giustizia che vengono richiamati dall’articolo 95 cit. legge, non costituiscono norme extra penali, in quanto non possono ritenersi del tutto estranee al settore di appartenenza, o destinate a regolare rapporti avulsi dalla disciplina penalistica, inserendosi al contrario nello stesso contesto normativo ove è collocata la norma incriminatrice e segnando appunto il confine delle condizioni di reddito oltre le quali, la manifestazione del richiedente è suscettibile di sanzione penale. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 24 luglio 2019 n. 33257. Difesa e difensori - Patrocinio dei non abbienti - Dichiarazioni sostitutive e altre comunicazioni sul limite di reddito - Falsità e omissioni - Reato di cui all’art. 95, d.p.r. n. 115 del 2002 - Verifica dell’elemento soggettivo del reato - Necessità. Le false indicazioni o le omissioni anche parziali dei dati di fatto riportati nella dichiarazione sostitutiva di certificazione o in ogni altra dichiarazione prevista per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato di cui all’art. 95, d.P.R. n. 115 del 2002, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio, devono essere sorrette dal dolo generico rigorosamente provato che esclude la responsabilità per un difetto di controllo da considerarsi condotta colposa, e salva l’ipotesi del dolo eventuale. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 14 febbraio 2018 n. 7192. Difesa e difensori - Patrocinio dei non abbienti - Reato di cui all’art. 95 d.p.r. n. 115 del 2002 - Effettiva sussistenza di un reddito che consenta l’ammissione al beneficio - Inutilità del falso - Verifica dell’elemento soggettivo - Necessità. In tema di gratuito patrocinio a spese dello Stato, ai fini della integrazione del reato di cui all’art. 95, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, in caso di effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio, non è sufficiente che l’istanza contenga falsità od omissioni, dovendo il giudice procedere a una rigorosa verifica dell’elemento soggettivo del reato, al fine di escludere l’eventuale inutilità del falso. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza che aveva ritenuto la responsabilità dell’imputato, il cui reddito non era ostativo all’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, senza adeguatamente motivare sulla inattendibilità della prospettazione difensiva secondo la quale il fatto era ascrivibile a un errore dovuto al rilascio di due distinti Cud). • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 5 ottobre 2017 n. 45786. Firenze. Città turistificata e carcere, legame a doppio filo di Massimo Lensi* stamptoscana.it, 6 gennaio 2020 Il Comune di Firenze ha recentemente inaugurato la telecamera di sorveglianza numero mille. Un obiettivo annunciato in campagna elettorale dal sindaco come risposta alla domanda di sicurezza che pervade da anni la nostra società. Una risposta illuminante, che ci racconta molto sul delicato rapporto tra politica e richieste sociali e tra controllo e disciplina. Sul territorio comunale di Firenze sono attivi tre istituti penitenziari, in grado di contenere fino a circa novecento persone ristrette: il Nuovo Complesso Penitenziario “Sollicciano”, l’Istituto Penale Minorile Meucci e la Casa Circondariale Gozzini (ex Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento dei Tossicodipendenti, Icatt). Una delle chiavi di successo del populismo penale è proprio l’incontro tra preoccupazione securitaria e strumentalizzazione politica, fra il buonsenso e i propri interessi. Il populismo penale funge, infatti, da raccoglitore di insicurezze individuali trasformate forzatamente in istanze sociali. Una posizione che è sita a metà strada la “cattiva fede” sartriana e la foucaultiana mancanza di “coraggio della verità”. Firenze è anche una città turistificata, all’interno della quale i meccanismi di profilazione sociale, grazie alle innovazioni tecnologiche, funzionano meglio che altrove. Le telecamere di videosorveglianza sono la metafora più calzante della città controllata per esigere da essa il massimo del profitto in termini economici, con il necessario corollario di marginalizzare (e limitare) dissenso e contestazione. La selva di leggi in materia di sicurezza (Decreto Sicurezza Bis in testa) fa il resto. La relazione tra città e carcere, a questo punto, risulta evidente. Michel Foucault ha sempre posto al centro del suo lavoro di indagine il concetto di Panopticon, un edificio a struttura circolare in cui un solo individuo riesce a monitorare e avere sotto controllo l’attività di tutti gli occupanti: più è alto il numero di informazioni possedute, più l’azione di sorveglianza risulta efficace e produce a sua volta delle nuove informazioni. Il Panopticon, più che rappresentare un ideale carcerario, ha funzionato come modello generale per ogni forma di organizzazione strutturale, come gli ospedali, le fabbriche e le scuole; tutti luoghi che riuniscono e permettono di tenere sotto controlli specifici segmenti sociali attraverso meccanismi quotidiani. È questa la tecnologia politica che Foucault definisce “società disciplinare”. Occorre aggiungere, che, a livello generale, la nostra giustizia penale si basa sulla responsabilità individuale. La responsabilità è un fatto decisamente culturale, ha implicazioni legali, morali, psicologiche e filosofiche. Mettendo l’individuo solo di fronte al proprio atto, la società esonera sé stessa dalla propria responsabilità nella produzione e costruzione sociale delle illegalità. Le individua, e delimita, all’interno delle categorie socialmente ed economicamente più fragili, e/o più marginilizzate per ragioni etno-razziali, in qualche caso politiche. Lo scopo principale di Foucault era quello di evidenziare il passaggio storico dalla punizione pubblica alla sorveglianza in termini politici. Inquadrata in questa luce la questione del castigo e dell’esecuzione di pena non possono basarsi solamente su una teoria idealista della giustizia; devono necessariamente inserirsi in una teoria realistica dell’uguaglianza che renda cosciente la società tanto del proprio passato quanto del proprio presente. Altrimenti, il rischio di dividere e marginalizzare diventa una certezza da mettere in conto. Aumentare il numero di telecamere di videosorveglianza in una città che ha alla base un modello di sviluppo tipicamente liberista, incentrato sull’industria turistica, mentre al contempo si chiede un carcere nuovo di zecca, magari con una maggiore capienza, al posto delle fatiscenti strutture esistenti, spalanca la porta alla società disciplinare preconizzata da Focault. Le grigie e nebulose maglie di regole e leggi in materia di gestione dei dati provenienti dalla videoregistrazione dei comportamenti individuali, l’assenza e di una chiara progettualità per costruire intorno a un eventuale nuovo carcere a Firenze un forte rapporto con il territorio, potrebbe aprire la strada a un periodo di incertezze e turbolenze sociali, rendendo vani i tentativi di porre nuove tutele ai diritti sociali e individuali. *Associazione Progetto Firenze Lucca. Carcere fuori dalle Mura, rispunta l’ipotesi di Maggiano di Gianni Parrini Il Tirreno, 6 gennaio 2020 “L’ipotesi di spostare il carcere fuori dalle Mura dovrà essere ripresa in considerazione”. Così si è espresso il senatore Andrea Marcucci qualche giorno fa, al termine della canonica visita di fine anno ai detenuti del San Giorgio. Il Tirreno prende la palla al balzo per cercare di capire se la questione è effettivamente sul tavolo della politica e per quali motivi non si è mai concretizzata. I problemi del San Giorgio vengono spesso denunciati dai sindacati di polizia: riguardano in primis la carenza di personale, ma la struttura (un antico convento) e la collocazione (in centro) non semplificano le attività e offrono pochi spazi per i progetti di recupero dei detenuti (115 nel 2019 per una capienza di 77). Da qui l’esigenza di trovare una collocazione più adeguata. La volontà di trasferire il San Giorgio fuori dalle Mura è presente (a livello di proposito) anche nel Piano strutturale. Ma qualche anno fa l’amministrazione è andata oltre le manifestazioni d’intenti e l’idea non è tramontata. Suona più o meno così: utilizzare il complesso di Maggiano per farne il fulcro di un progetto innovativo, una sorta di cittadella dedicata al sociale e alla rieducazione dei soggetti che hanno avuto problemi con la giustizia. Non un “super carcere” ma una semplice casa circondariale, ovvero una struttura in cui per legge sono detenute le persone in attesa di giudizio (come la maggior parte degli ospiti del San Giorgio) o i soggetti che hanno ricevuto condanne inferiori ai cinque anni. Con l’aiuto di un architetto di San Concordio si buttò giù un progetto di massima: oltre alla casa circondariale comprendeva una struttura per il recupero di giovani problematici, con spazi per progetti legati all’agricoltura. Venne pure sondato il gradimento della Fondazione Tobino, che di un simile progetto avrebbe potuto essere il volano. Messa nero su bianco l’idea, il sindaco Alessandro Tambellini, l’assessore Serena Mammini e l’allora deputata Raffaella Mariani si presentarono a Roma, al ministero della Giustizia, per illustrarla al Guardasigilli Andrea Orlando (Pd). A parole il progetto fu giudicato interessante e la delegazione lucchese se ne torno a casa ad attendere una risposta ufficiale che si sperava esser positiva. Qualche mese dopo, siamo nel 2016, a palazzo Orsetti arrivò la tanto attesa missiva, ma il contenuto non era quello che ci si aspettava. Dal dicastero risposero che il San Giorgio avrebbe sì potuto essere trasferito ma non a Maggiano, bensì ad Antraccoli. Sul piatto risorse pari a 16 milioni. Il ministero aveva risposto ma non al progetto di Tambellini, bensì a un’ipotesi risalente a una dozzina di anni addietro (attorno al 2004), all’epoca della giunta di Pietro Fazzi. La zona indicata era quella che corre sul lato lucchese di via della Madonnina: nel piano regolatore del 2004 è indicata come area destinata a servizi. Per intenderci, è la stessa di cui si parlava come possibile sede dell’ospedale San Luca (poi realizzato a San Filippo) e dove passeranno gli assi viari. Alla lettera il Comune non ha risposto: un po’ perché il ministero faceva riferimento a un “supercarcere” ben diverso dal progetto pensato dal Comune; un po’ perché nel decennio intercorso tra l’idea fazziana e il placet del ministero, in quell’area si è costruito molto. E qui torna Maggiano: l’amministrazione è pronta a riproporre il progetto, tanto più che dell’ex manicomio (e di Arliano) si tornerà a parlare con la Regione. Il Comune è disponibile a cambiare la destinazione delle strutture per renderle appetibili agli occhi di eventuali investitori (pubblici o privati) e permettere alla Regione di rifarsi per i mancati introiti di Campo di Marte. S.M. Capua Vetere (Ce). Mio padre affetto da gravi problemi al cuore, voglio portare io le medicine in carcere Cronache della Campania, 6 gennaio 2020 L’appello del figlio di un detenuto “Non chiedo che mio padre torni in libertà, ma voglio che riceva tutte le cure necessarie alla sua patologia”. È l’appello lanciato da Michele Pellegrino, figlio di Antonio Pellegrino, 67 anni di Maddaloni, detenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dove deve scontare altri sei anni degli otto ai quali è stato condannato. Antonio Pellegrino è affetto da severa disfunzione ventricolare sinistra e malattia coronarica multi vasale così come riscontrato dal referto medico del 10 dicembre scorso dell’ospedale di Sessa Aurunca dove è stato ricoverato. Per rimanere in vita Pellegrino è costretto a prendere 15 medicine al giorno così come prescritto dal referto di dicembre. Secondo quanto racconta il figlio, non sempre al padre vengono dati tutti i farmaci di cui ha bisogno perché non a disposizione della struttura penitenziaria. “Mi sono offerto di portare io quei medicinali per permettere a mio padre di poter essere curato, ma non mi è stato consentito di recapitarglieli. Ogni giorno vado fuori al carcere di Santa Maria per accertarmi delle condizioni di papà”. I problemi di Antonio Pellegrino sono cominciati quattro mesi fa. “Stava male, ma nessuno si è accorto della situazione - ha raccontato il figlio - un giorno non si è presentato al colloquio con noi familiari perché si era sentito male e, allora, ho ottenuto che fosse portato in ospedale per le cure. Nel corso del percorso dal carcere all’ospedale mio padre ha avuto un infarto. Le sue condizioni non erano compatibili con quelle della struttura detentiva e, infatti, mio padre è rimasto ricoverato per venti giorni, al termine dei quali, è tornato in carcere. Come è possibile leggere dai referti, mio padre dovrebbe essere costantemente sotto controllo, ma, purtroppo, non lo è. Mi appello a tutti affinché mio padre riceva le cure che deve avere, ci sia un monitoraggio costante e, laddove la struttura penitenziaria non riesce a garantire i medicinali necessari, venga permesso a noi familiari di poterli portare. Non chiediamo nulla più nulla meno che rispettare quelli che sono i diritti di essere umano di mio padre”. Venezia. Il Patriarca Moraglia in visita al carcere: “Anche qui si può rinascere” di Daniela Ghio Il Gazzettino, 6 gennaio 2020 Moraglia ha incontrato le 80 detenute e 2 bambini “Come tra padre e figlie”. La visita del patriarca Francesco Moraglia nel carcere femminile della Giudecca non ha formalità ma è, come spiegano le stesse detenute, l’incontro del padre con le sue figlie. Nella casa di reclusione femminile al momento ci sono 80 ospiti e due bambini. Con ciascuno di loro Moraglia si è fermato a parlare, ha stretto la mano, dato una carezza, un sorriso e un messaggio di speranza. Ai due bambini ha donato invece due grandi calze piene di dolci e caramelle. In cambio le carcerate gli hanno regalato un paio di pantofole rosse cucite nella loro sartoria, i prodotti dell’orto e i profumi; i volontari gli hanno donato una candela con incisi i loro nomi. Il patriarca, accompagnato dalla direttrice del carcere Antonella Reale, dal direttore della Caritas Stefano Enzo, da don Antonio Biancotto e dal cappellano del carcere padre Silvano, si è fermato a guardare a lungo il presepe allestito nella cappella: ai lati è una barca spezzata, ripescata da una remiera il giorno dopo l’acqua alta del 12 novembre; nella spaccatura, in centro, è capanna con la Sacra Famiglia, i pastori e i Re Magi. Un giubbotto salvagente richiama gli immigrati morti in mare. “Il presepio che abbiamo costruito - spiega Mary, una delle ospiti della struttura - vuole mostrare la nostra vicinanza alla città martoriata dall’acqua alta. Abbiamo sofferto anche noi per ciò che è successo. Il carcere è un luogo di dolore ma anche luogo dove esce il nostro io più profondo e più vero”. “Questo luogo di sofferenza dobbiamo intenderlo come luogo di riscatto - ha affermato il patriarca all’omelia - Le mura che vi separano dalla città sono un fallimento di tutti: qualcosa nella vita della nostra comunità non ha funzionato. Rimango colpito quando le persone sono segnate dal rapporto con i loro genitori. Ci sono dei fondamentali della vita che se in qualche modo non sono rispettati creano sofferenze in tutti. Dobbiamo dare tutti contributi perché questo spazio non diventi solo un luogo di sofferenza, come è, ma diventi luogo di rinascita, di ripartenza”. Napoli. Epifania a Poggioreale, la Comunità di Sant’Egidio a tavola con i detenuti di Antonio Mattone Il Mattino, 6 gennaio 2020 I volontari apparecchiano cinque tavolate al centro del corridoio del padiglione San Paolo, in mezzo alle celle. I detenuti osservano prima sospettosi dall’interno delle loro stanze e poi, quando tutto è pronto, si affacciano silenziosi e increduli. Il pranzo dell’Epifania della Comunità di Sant’Egidio nel centro clinico del carcere di Poggioreale può essere servito. Il luogo che durante la notte del terremoto del 23 novembre 1980 fu teatro di un brutale delitto e di una grande devastazione, si è trasformato in una bella sala da pranzo dove quaranta carcerati malati possono trascorrere qualche ora fuori dalle loro celle. Tovaglia rossa, tovaglioli con decoro natalizio e un centrotavola con fiori e candele rendono bene l’atmosfera delle feste. Ai malati che non ce la fanno a stare a tavola, il pasto viene portato nelle loro stanze. Tra gli invitati c’è il direttore generale dell’Asl Napoli 1, Ciro Verdoliva, accompagnato dal direttore sanitario del San Paolo e dal coordinatore della sanità penitenziaria dell’Asl. È una presenza un po’ sorprendente se pensiamo che per i suoi predecessori il carcere era un’appendice marginale. Verdoliva invece si è visto già altre volte. I commensali hanno di fronte uno scorcio delle celle, e sono costretti a vedere le condizioni di disagio con cui devono convivere ogni giorno i detenuti. Con la coda dell’occhio il direttore generale osserva le brande di ferro della stanza di fronte e ricorda ai suoi collaboratori che il centro è un ospedale vero e proprio e i malati devono avere gli stessi letti dei nosocomi napoletani. “Quando li mettiamo i 10 letti che abbiamo già predisposto? E quanti ne occorrerebbero ancora?”. “Uno per ogni malato!”, osano i volontari approfittando di una inattesa apertura. Verdoliva continua ricordando cha appena saranno fatti i lavori per evitare le infiltrazioni d’acqua piovana, finalmente potrà essere fatta la dialisi a Poggioreale. Così come è stato comprato un apparecchio radiografico che permetterà di fare le diagnosi a distanza. Anche qui mancano solo i lavori dei locali. Il provveditore delle carceri campane Antonio Fullone annuisce, e quando viene posta qualche criticità, il manager non si sottrae: fermare il continuo turn over di medici e infermieri e garantire la continuità terapeutica per i malati psichiatrici sono tra i prossimi obiettivi. Intanto il comico di Made in Sud Marco Critelli riesce a coinvolgere in modo delicato e divertente volontari, agenti, carcerati e ospiti nelle sue gag. Il clima è disteso e gradevole, il pranzo è stato buono e il panettone offerto da Sal De Riso viene molto apprezzato. Mancano i re magi ma i detenuti ricevono in dono una felpa per proteggersi dagli spifferi e una busta di caffè che fa sempre comodo. “È nelle realtà più dure che possiamo riscoprirci umani”, afferma commossa Anna che ha servito ad uno dei tavoli. Viene così smentita quella narrazione superficiale e bieca che vede nelle galere il luogo dove sono rinchiusi tutti gli infami. E molto più complesso il carcere, qui si mescolano male, disperazione, malattia, povertà e marginalità sociale. E il pranzo dell’Epifania ne restituisce il suo vero volto in tutta la sua crudezza, senza indulgere a sentimentalismi o giustificazioni buoniste. Il vangelo di Matteo racconta che i sapienti che venivano dall’Oriente fecero ritorno al loro paese per un’altra strada, mentre la cometa scomparve alla loro vista. E dopo questa giornata qualcuno ha fatto ritorno alla propria casa cambiando i percorsi abituali del consueto modo di pensare o di essere. Altri invece, nel silenzio delle proprie celle, scrutano il futuro in attesa di un nuovo orizzonte. L’emergenza della cultura di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 6 gennaio 2020 La collettività dovrebbe rendersi conto dell’importanza delle librerie, dei teatri centrali e periferici, delle sale cinematografiche di quartiere, dei musei. Polmoni d’ossigeno culturale che fanno ricco e civile e migliore un Paese. Come le banche che rischiano di fallire, le fabbriche che chiudono, le acciaierie che si spengono, le compagnie aeree che sprofondano, il regime di povertà civile che sta immiserendo e desertificando il nostro Paese con la chiusura, una dopo l’altra, o l’umiliazione delle istituzioni culturali. Dovrebbe considerare come una calamità, una catastrofe civile, una regressione culturale la moria delle librerie che non ce la fanno a tirare avanti, ogni teatro che chiude i battenti, ogni sala cinematografica con le saracinesche abbassate, ogni orchestra che smette di suonare, ogni museo mortificato nella mediocrità per mancanza di fondi adeguati, ogni sito archeologico lasciato a sé stesso, ogni ente lirico che boccheggia sull’orlo del fallimento. Uno Stato con un minimo di dignità, governi di ogni colore che abbiano un minimo di sensibilità, devono sentire come prioritario lo stanziamento di risorse, anche cospicue, per salvare i pilastri di una società che non voglia avvilirsi nello squallore e nella perdita di sé. Un passato di spreco assistenzialista, di clientelismo talvolta, di sovvenzioni a pioggia, di dirigismo statalista che vuole mettere becco nella sfera della libertà culturale e artistica, non deve impedirci di essere coraggiosi e anche, se si vuole, con ironia e intelligenza, un po’ fantasiosi. Dove il mercato non arriva, lo Stato deve intervenire con strumenti nuovi, intelligenti, fruttuosi. Se alle librerie costrette a chiudere (ma anche ai teatri, ai musei, e così via) si concedesse un regime fiscale molto favorevole, se si pagasse l’affitto (oggi proibitivo) dei locali, si incentivasse l’assunzione di personale giovane e preparato, ci si accollasse l’onere delle bollette e dei costi aggiuntivi, forse si darebbe più respiro a chi sta morendo nell’asfissia. E forse la collettività si renderebbe conto dell’importanza delle librerie, dei teatri centrali e periferici, delle sale cinematografiche di quartiere, dei musei. Polmoni d’ossigeno culturale che fanno ricco e civile e migliore un Paese che tenga a sé stesso. E sappia riconoscere l’urgenza di un’emergenza culturale che è anche un’emergenza di lavoro che sparisce. Non c’è molto tempo, il portafoglio va aperto subito. Da sinistra o da destra. Ma subito, preferibilmente insieme. Come in tutte le emergenze. Il lavoro dominato da algoritmi, per non finire schiavi dei robot serve un nuovo patto sociale di Savino Pezzotta Il Riformista, 6 gennaio 2020 La parola “rivoluzione” è stata molto presente nel movimento dei lavoratori ed esprimeva una reazione alla dimensione di subordinazione del lavoro al capitale. Oggi le cose sono mutate e attraverso la contrattazione, i contratti di lavoro, il diritto del lavoro e la presenza del sindacato le cose sono cambiate e tutti avvertiamo con fastidio la presenza delle forme di sfruttamento e di autoritarismo che si verificano o che si vorrebbero determinare. Se il termine “rivoluzione” è stato sostituito da quello altrettanto impreciso di “riformismo”, la parola rivoluzione continua a esercitare un suo fascino e rimane molto presente nella pubblicistica e nella retorica pubblica. Non sembra che si possa fare a meno di questo termine se si è innamorati del nuovo in sé o se si è insoddisfatti dell’esistente, ma anche perché l’avanzata delle scoperte scientifiche e la loro costante declinazione nelle tecnologie ci costringe a rivedere in profondità le convinzioni che abbiamo sul mondo in cui viviamo e su noi stessi. Dovremmo imparare a distinguere con attenzione le rivoluzioni politiche e sociali da quelle tecnologiche e scientifiche. Avendo chiaro che quest’ultime non sono mai violente, anche se il loro rapporto con la violenza non è nullo. Inoltre, le rivoluzioni scientifiche si muovono su un arco di tempo quasi sempre lungo. Noi stiamo vivendo all’interno di una rivoluzione scientifica e tecnologica che sta modificando non solo il nostro modo di vivere e di relazionarci, ma anche il modo di percepire il nostro “io”: è la nostra soggettività che viene progressivamente mutata. Dentro l’infosfera - In questa realtà, che l’acuta e problematizzante analisi avanzata dal filosofo Luciano Lucidi coglie appieno, l’uomo non è più un’entità isolata, bensì un’entità informazionale che interagisce con soggetti sia biologici che artefatti e ingegnerizzati in un ambiente denominato, per convenzione, infosfera, mi sono chiesto come possiamo ancora parlare di lavoro e di quale lavoro. La prima osservazione è che è in atto una radicale e profonda metamorfosi del lavoro che i concetti propri del sindacalismo risultano inadeguati a descrivere, interpretare e rappresentarla se non in termini di accompagnamento assistenziale attraverso una serie di servizi sul terreno fiscale, assicurativo, pensionistico e quant’altro, in una sorta di neo-mutualismo. Si fanno ancora i contratti per fortuna, ma non vedo riemergere la dimensione di soggetto sociale autonomo a forte valenza politica. Ormai il lavoro - anche se lentamente - viene organizzato dalla realtà digitale e l’uomo viene ridotto a svolgere mansioni e azioni programmate da algoritmi. Sembra che la persona possa solo essere occupata per trasportare, spostare, recuperare l’oggetto. Tuttavia mi astengo dal fatalismo e dal pessimismo come dall’ottimismo beota. Sono convinto che bisognerebbe stabilire, tramite disposizioni contrattuali o legislative, due priorità. Primo: continuare a rafforzare i diritti attribuiti alla persona, in particolare in termini di libertà e di partecipazione alle decisioni (la proposta avanzata recentemente nell’accordo Fca-Psa dell’ingresso in Cda di componenti in rappresentanza dei lavoratori è sicuramente importante, anche se ritengo vada meglio precisata e rafforzata in termini giuridici in modo che i rappresentanti dei lavoratori valgano come quelli degli azionisti), di potere usufruire di un sistema formativo permanente, in modo che tutti abbiano i mezzi per stare in posizione eretta dentro un mercato del lavoro che tenderà a essere molto flessibile e quindi di sviluppare la propria carriera professionale. Secondo punto: bisogna cercare di anticipare i cambiamenti che verranno introdotti dal digitale piuttosto che continuare a spiegarli. Il digitale sta rivoluzionando l’occupazione; fa scomparire i commerci, ne crea altri, per il momento insufficientemente interessanti per l’insieme dei lavoratori. Alla persona deve essere riconosciuta la sua parte e il suo ruolo dentro le nuove modalità di lavoro. Se anche il lavoro è collocato dentro l’infosfera e se da questa collocazione si stanno sviluppando nuove forme di lavoro e nuove dipendenze sollevano domande per quanto riguarda l’occupazione, non va però sottovalutato il nuovo rapporto che si viene a creare tra l’uomo e la macchina. Quell’irrefrenabile bisogno di costruire il nemico. Catarsi o propaganda? di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 6 gennaio 2020 E se questa cupa processione di forche, questa esultanza scomposta per un brillìo di manette, questo sangue che scorre sotto l’applauso ammorbante del “popolo”, questo tutti contro uno o contro pochi) non fosse altro che un rito catartico, un esorcismo collettivo per placare gli istinti violenti della comunità? Il giustizialismo non è soltanto una cultura propagandata e codificata dall’alto, non è solo cinica manutenzione degli spiriti indignati da parte delle élites o dei tribuni della plebe, ma anche una forza primordiale che viene dal basso e che risponde a una precisa condizione psicologica, qualcosa che attiene alle pulsioni profonde degli esseri umani e alla loro vita collettiva. Individuare una vittima all’interno di un gruppo (popolo, etnia, scuola, squadra, famiglia, setta) per poi spingerla ai margini di quel gruppo permette di convogliare la violenza endemica verso un obiettivo esterno, che sia esso un individuo o una minoranza di individui, un politico corrotto o un immigrato clandestino. E non importa se siano colpevoli o innocenti, poiché la logica tribale del sacrificio è estranea alle precisioni e alle sottigliezze del diritto. La maggioranza ha bisogno di emettere una condanna per mondare se stessa da ogni colpa: è lo schema classico del capro espiatorio. Nelle società moderne la costruzione del capro espiatorio avviene nell’intreccio malsano tra la propaganda dei governi e i pregiudizi popolari, tra manipolazione ideologica e credenze striscianti. Il caso più famoso è l’Affare Dreyfus, l’ebreo alsaziano ufficiale dell’esercito accusato ingiustamente di spionaggio e alto tradimento che ha rappresentato per la società francese di fine Ottocento il colpevole ideale; per dirla con le parole di Georges Clemenceau “Dreyfus è il capro espiatorio del giudaismo sul quale convergono e si accumulano tutti i presunti crimini precedentemente commessi dagli ebrei”. Ebrei traditori, zingari, omosessuali, kulaki, minoranze etniche, oppositori politici, ma anche sovrani decaduti, banchieri, massoni, re Mida globali, kasta, ciò che caratterizza il capro espiatorio sono le sue qualità estreme; estrema povertà, estrema ricchezza, estrema bellezza o bruttezza, estrema distanza o vicinanza dal gruppo che lo respinge o lo scaccia via. Come fa notare l’antropologo e filosofo francese Réné Girard autore del celebre Le bouc émissaire (1982), probabilmente lo studio più approfondito sul concetto di capro espiatorio, “il rito sacrificale non è altro che la replica del primo linciaggio spontaneo che riporta l’ordine all’interno di una collettività. Attorno alla vittima sacrificata la comunità trova pace, producendo una specie di solidarietà nel crimine”. Il sacrificio è dunque violenza legalizzata e funzionale all’equilibrio sociale del gruppo, in particolare nei momenti di crisi (carestie, guerre, epidemie, conflitti sociali). Nella Bibbia (Levitico) il capro sacrificato deve placare l’ira di Dio, è un animale scelto a sorte su cui però converge il biasimo di tutta la comunità, in realtà, sottolinea Girard, la bestia viene uccisa affinché tutti possano mondarsi dei propri peccati e non per paura di una reale ritorsione divina. L’aspetto religioso non è altro che il contenitore simbolico, l’involucro di un’espiazione tutta umana. Un tratto talmente interiorizzato e trasmesso nel corso della storia che spesso chi viene colpito dalla vendetta del gruppo accetta docilmente il suo destino senza ribellarsi, giocando il ruolo di vittima consenziente. Le tecniche di manipolazione, la semplice prostrazione degli individui nei confronti del potere inquisitorio, la sproporzione di mezzi tra accusa e difesa rendono tutti noi dei potenziali Benjamin Malaussène, il surreale personaggio inventato dallo scrittore Daniel Pennac, direttore tecnico di un grande magazzino nonché “capro espiatorio di professione”. Nella mitologia classica la prima vittima consenziente è Edipo, l’incestuoso e parricida Edipo, che accetta senza battere ciglio il verdetto ottuso dei tebani i quali lo credono colpevole di aver portato in città un’epidemia di peste; vittima di una mistificazione, Edipo è un innocente perseguitato dal pregiudizio popolare. Le sue parole remissive, la sua stoica accettazione di una colpa che non ha commesso equivalgono a una confessione estorta sotto tortura nella cella buia di un commissariato. Questo tratto di vittima consenziente emerge ancora di più nel sacrificio di Cristo nel Nuovo Testamento che in fondo svela apertamente questo meccanismo di autoassoluzione collettiva alle spese del più debole, “l’agnello di Dio”, letteralmente capro espiatorio umano-divino, afferma di sacrificarsi per salvare il genere umano ma allo stesso tempo si dichiara innocente, accetta il martirio non perché è colpevole di lesa maestà ma perché sa che c’è bisogno di un colpevole per interrompere il circolo vizioso della violenza. Per un breve tratto però, perché la società contemporanea sostituisce rapidamente i suoi bersagli, sempre alla ricerca di nuove vittime, di nuovo sangue da far scorrere per placare la rabbia repressa e alienata delle maggioranze. La rete da questo punto di vista è un formidabile moltiplicatore dell’indignazione popolare e di conseguenza della calunnia corale. Diffamare qualcuno senza nessuna prova, additare un comportamento ritenuto non conforme alla volontà del gruppo, perché infedele, osceno, immorale, evocare complotti e cospirazioni da parte di misteriosi burattinai o di fantomatiche spectre del crimine planetario, significa aver continuamente bisogno di costruire capri espiatori diversi, in una ricerca spasmodica che diventa fine a sé stessa, generando una società di inquisitori frustrati e di vittime designate. Francia. Spataro: “Parigi è tenuta a estradare i terroristi. Hanno un conto aperto con la giustizia italiana” di Paolo Griseri La Repubblica, 6 gennaio 2020 Intervista all’ex procuratore. “Temo però che anche questa volta la Francia troverà una giustificazione per ignorare le leggi e non consegnarci i nostri latitanti”. La Francia che concede l’estradizione ai terroristi italiani latitanti? “Non conosco il fondamento delle indiscrezioni. E se devo dirle quel che penso, credo che anche stavolta non accadrà”. Armando Spataro, ex procuratore capo a Torino, coordinatore a Milano del gruppo antiterrorismo, è scettico: “Tante volte si è annunciata quest’intenzione, ma non è mai successo”. Eppure, dottor Spataro, questa volta c’è la convenzione di Dublino che spingerebbe Parigi a consegnare queste persone alla giustizia italiana. Non è così? “La verità è che i francesi sono sempre stati tenuti a consegnare queste persone all’Italia in base alle Convenzioni in tema di estradizione già prima vigenti. E non l’hanno mai fatto. Adesso si tira fuori la Convenzione di Dublino del 1996, che non a caso dice nell’art. 1 che serve a facilitare l’applicazione tra Stati Ue dei precedenti accordi in materia, quasi a trovare una giustificazione al fatto che in precedenza Parigi aveva ignorato le richieste di Roma”. Non lo ha fatto per la “dottrina Mitterrand”? “Ormai si utilizza la “dottrina Mitterrand” come un brand, se ne parla a sproposito senza sapere di che cosa si tratti”. Uno scambio tra la rinuncia alla lotta armata e la rinuncia all’estradizione. Non era questo? “Questa è solo una parte, quella che tutti sbandierano inclusi gli intellettuali che hanno difeso Battisti e ora non fanno autocritica. Comunque la dottrina non era una legge, ma un orientamento politico dello Stato francese. E poi i cardini di quella dottrina li illustrò chiaramente lo stesso Mitterrand in un’intervista a Marcelle Padovani. Le condizioni erano tre: oltre alla rinuncia alla lotta armata, non aver commesso fatti di sangue e non avere subito condanne definitive. Invece la Francia ha negato l’estradizione di terroristi che avevano compiuto omicidi e ferimenti e che avevano subito condanne passate in giudicato”. Com’è potuto accadere che uno Stato Ue negasse l’estradizione di cittadini condannati da un altro Stato europeo? “Per anni in Francia è prevalso negli ambienti pseudo intellettuali un pregiudizio contro la giustizia italiana. Ricordo un episodio di molto tempo fa. Nell’ottobre del 2008 partecipavo a un convegno giuridico a Parigi sugli anni di piombo in Italia. Un giurista prese la parola scagliandosi contro “i tribunali speciali che in Italia giudicano i terroristi”. Non ce la feci a stare zitto. Mi alzai dalla platea, chiesi scusa interrompendo il collega francese e chiedendogli quando e dove aveva appreso quella falsa notizia. A quel punto si alzò un signore che sedeva da un’altra parte della platea: “Sono Oreste Scalzone. Ha ragione il dottor Spataro. In Italia non ci sono stati tribunali speciali”. La tesi di coloro che in Francia sono ancora oggi contrari all’estradizione è che i latitanti del terrorismo siano ormai anziani e si siano inseriti nella società. Insomma perché incarcerarli dopo quarant’anni? “Perché hanno un conto aperto con la giustizia che altri hanno pagato e loro no”. I loro legali chiedono una grazia. Che cosa risponde? “Non entro nel tema della grazia, si tratta evidentemente di giudicare caso per caso, ogni situazione è diversa e io non la conosco. Poi, certo, la grazia è prevista dalla legge. Ma deve essere concessa dal Capo dello stato italiano. In linea generale, però, dico che molti di coloro che dovrebbero essere estradati non hanno mai manifestato alcun pentimento personale o espresso autocritica peri feroci delitti che hanno commesso. E poi la strada è semplice: quanti ritengono di avere diritto a concessioni di benefici e permessi, in conseguenza delle condizioni di salute di alcuni o per altre ragioni, potranno, una volta estradati, rivolgersi al Tribunale di sorveglianza competente per chiedere la concessione di quelli possibili. Questo è quello che fanno tutti i detenuti in Italia e non si vede per quale motivo per loro dovrebbe essere diverso”. Sarraj agli europei: “Non venite in Libia”. Salta la missione Ue a guida italiana di Francesco Semprini La Stampa, 6 gennaio 2020 La Turchia comincia l’invio graduale delle truppe. Il governo di unità nazionale contrario alla missione Ue. Sull’attacco all’accademia militare a Tripoli accuse all’aviazione di Haftar. Il generale nega: “C’è la mano dell’Isis”. Il Governo di accordo nazionale libico chiede a Bruxelles di non inviare la propria delegazione a Tripoli per trovare una mediazione politica alla crisi bellica in atto, azzerando di fatto lo sforzo europeo di reinserirsi nel dossier del Paese nordafricano dopo un’assenza di fatto durata oltre un anno. La missione capitanata dall’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, con protagonisti i ministri degli Esteri di Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia con Luigi Di Maio, sarebbe dovuta arrivare domani nella capitale libica ma “questioni di sicurezza” ne rendono l’attuazione complicata, pericolosa. In realtà, spiegano fonti locali, dietro il rinvio c’è il disinteresse da parte del Gna di Fayez al Sarraj di dare spazio trattative diverse da quelle che hanno portato all’accordo tra Tripoli e Ankara con il conseguente supporto militare della Turchia alla Tripolitania. Come dire, “siete arrivati tardi, un alleato già lo abbiamo”. La missione europea, del resto, era già nata zoppa avendo registrato la defezione della Francia, da sempre vicina a Khalifa Haftar, tanto che Parigi avrebbe finanche impedito a Di Maio di divulgare un comunicato congiunto di condanna dell’attacco di sabato all’accademia di Tripoli smontando la già fragile architettura europaa messa in piedi a dicembre. E con essa gli sforzi organizzativi della Conferenza di Berlino prevista per la seconda metà di questo mese. Inutili i tentativi di recupero in extremis del ministro Di Maio che ieri ha tentato, inutilmente, di contattare al telefono Sarraj: da Tripoli nessuna risposta. Oltre al fatto che la missione sarebbe stata bersaglio di proteste da parte di attivisti che nella capitale si stanno mobilitando da giorni dinanzi all’estremo tentativo dei Paesi europei. “L’Italia e l’Europa andassero prima da Haftar convincendolo al ritiro, prima di venire qui”, spiegano alcuni attivisti dalla capitale. Se Bruxelles e le cancellerie del Vecchio continente rimango al palo, ad accelerare è invece il presidente turco Recep Tayyip Erdogan il quale ha reso noto che l’invio “progressivo” di soldati turchi in Libia. Il dispiegamento delle truppe verso la Libia è già iniziato e con esso l’inizio di una nuova fase destinata a portare a decisive mutazioni sul campo con i russi protagonisti militari in Cirenaica e cambi di equilibri nel lungo periodo. Lo conferma il precipitare degli eventi sul terreno dove la situazione è sempre più complessa. Dopo la chiamata alla jihad dichiarata da Haftar, assume i contorni di un giallo l’attacco al collegio militare di Hadaba, a sud di Tripoli, un’esplosione - apparentemente provocata da un missile - che sabato sera ha provocato la morte di almeno 28 persone ed il ferimento di altri 18. Cadetti di polizia, ufficialmente, miliziani pro-Sarraj, secondo ambienti filo-Haftar che, in un intreccio di dichiarazioni e smentite, si sono prima attribuite la responsabilità dell’attacco salvo poi negare in un secondo momento un coinvolgimento nel raid, sostenendo che si sia trattato invece di opera dei terroristi di Isis o di Al Qaeda. Il portavoce del generale, Ahmed Al Mismari, ha smentito ha precisato che “l’esplosione ha avuto luogo dall’interno e non dall’esterno” e che tutti gli elementi inducono a pensare a un attentato terroristico contro i cadetti dell’Accademia militare a Tripoli così come era avvenuto per quella a Bengasi. Il governo di Sarraj, sostenuto dalla comunità internazionale, continua invece a ritenere che l’autore dell’attacco sia l’aviazione del generale Haftar sostenuta dagli Emirati Arabi, tanto che Tripoli ha chiesto una riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu per discutere delle “atrocità e dei crimini di guerra di Haftar”. Il vice premier del Gna, Ahmed Maiteeg ha definito l’attacco “terrorista” e ha promesso la prosecuzione della lotta contro le forze di Haftar. Ovviamente con al fianco l’alleato turco. Libia. Rinviata la missione dell’Unione Europea a Tripoli di Fiorenza Sarzanini e Marco Galluzzo Corriere della Sera, 6 gennaio 2020 L’annuncio del governo di Tripoli alla luce delle nuove tensioni sul terreno. Nella delegazione anche i ministri degli Esteri di Germania, Francia e Gran Bretagna. L’intenzione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio rimane quella di andare in Libia prima possibile anche per placare le polemiche e gli attacchi sul suo “immobilismo” che arrivano dall’opposizione. Ma l’aggravamento del conflitto e soprattutto l’opportunità politica di trattare in questo momento con il generale Khalifa Haftar, hanno fatto saltare la missione dell’Unione Europea prevista per domani. “Rinviata a data da destinarsi, alla luce delle condizioni attuali”: lo rende noto il ministero degli Esteri del Governo di accordo nazionale libico. Alla missione avrebbero partecipato l’Alto rappresentante Ue per la politica estera Josep Borrell e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Il clima è di tensione altissima, con possibili gravi conseguenze sul doppio fronte immigrazione e terrorismo. A Palazzo Chigi ieri descrivevano la situazione come “fluida e incerta”. Per questa mattina alla Farnesina era stata convocata una riunione operativa. I piani di volo per la delegazione, che comprendeva i ministri degli Esteri di Germania, Francia e Gran Bretagna, erano stati già predisposti. La missione Ue si prefiggeva di avere colloqui diretti sia con il capo del governo legittimato dall’Onu, Serraj, sia con il generale Haftar. Il recente invio da parte della Turchia di oltre un migliaio di miliziani siriani filoturchi, a sostegno di Serraj, ha complicato non poco le cose. Le forze armate dell’Egitto, che con l’Arabia Saudita ha condannato la scelta di Erdogan di intervenire nel conflitto, hanno compiuto un’ampia esercitazione non lontano dalle coste libiche. Sia sul terreno che nell’area la situazione è incandescente e ai problemi legati alla sicurezza, ai corridoi diplomatici che i libici potranno e vorranno garantire, si aggiungono motivi di opportunità politica dopo i razzi lanciati, presumibilmente da forze armate legate ad Haftar (che però ha seccamente smentito un coinvolgimento) contro la caserma dei cadetti di Tripoli causando almeno 30 vittime e l’immediata reazione dell’esercito di Serraj, che ha causato almeno tre vittime sull’altro fronte, e sarebbe stata condotta anche con l’utilizzo di un drone di fabbricazione turca. L’escalation di attacchi, da una parte e dall’altra, ha momentaneamente suggerito, anche ai nostri servizi presenti sul posto, di imporre una sorte di congelamento della missione, che avrebbe il compito di esprimere con una voce sola l’appello alla cessazione delle ostilità e alla scelta di un percorso diplomatico sul quale anche il segretario dell’Onu non si stanca di insistere. “Ogni azione militare provoca sofferenze ingiuste alla popolazione civile, aggrava la crisi umanitaria e alimenta una pericolosissima escalation del conflitto”, ha ribadito ieri sera Di Maio dopo aver parlato al telefono con il ministro degli Esteri libico Mohamed Siyala. “L’Italia - ha spiegato - chiede a tutti un’immediata cessazione di ogni azione militare e il ritorno ad un percorso di dialogo politico sotto egida Onu”. Il titolare della Farnesina ha avuto contatti anche con Serraj e con Bruxelles. Questa sera dovrebbe incontrare a Roma Borrell e il collega tedesco Heiko Maas, ma a questo punto anche la cena rischia di saltare. “La situazione in completa evoluzione su diversi fronti, dalla Libia all’Iran e all’Iraq, non permette per il momento di fare nessuna programmazione sull’agenda dei prossimi giorni di Borrel”, fanno sapere dall’Unione Europea. E su questa incertezza pesa anche l’atteggiamento della Francia che, pur avendo aderito alla missione comune, appare intenzionata a giocare una partita indipendente. Tanto da aver predisposto autonomi piani di volo. Libia. I soldati turchi in arrivo sono un problema, ma non certo il male peggiore di Guido Rampoldi Il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2020 Al punto in cui ormai è giunta la guerra per procura libica, l’ingresso in campo di truppe turche non è certo il male peggiore. Per quanto possano risultare brutali, quei soldati appartengono a un esercito regolare: insomma non sono i macellai al soldo del generale Haftar e neppure certe bande di miliziani-negrieri schierati con il governo di Tripoli e un tempo cari al Viminale. Se i turchi dovessero fermare Haftar e imporre l’armistizio, Ankara incasserà un lauto profitto a spese degli europei, puniti perché anche in questa occasione velleitari e inconcludenti. Ma ancor peggio sarebbe per tutti se vincesse Haftar, perché la lunga e rischiosa anarchia militare che ne conseguirebbe potrebbe costare assai cara, all’Eni e all’Italia. Beninteso: non conviene a nessuno che la Libia diventi il campo di battaglia di una guerra tra cattivi e pessimi. Ma prima di intonare il consueto “mamma li turchi!”, la politica e l’informazione italiane provino a raccontarsi finalmente chi è Haftar e quali sono i suoi metodi. Un aiutino: lo scorso 17 luglio nella città libica di Bengasi una unità del generale, sotto il comando di suo figlio Khaled, è piombato in casa di Seham Sergiwa, parlamentare eletta nelle prime e uniche elezioni libiche (2014) e l’ha rapita, dopo aver sparato al marito e picchiato selvaggiamente il figlio 14enne. Da allora, e malgrado gli appelli di Onu, Unione europea e Amnesty ad Haftar, della Sergiwa non si hanno più notizie. Nessuno dubita che sia stata uccisa, probabilmente dopo essere stata violentata. La sua colpa: interpellata da una emittente libica, aveva criticato l’offensiva lanciata da Haftar su Tripoli. Inoltre a suo tempo era stata autrice di un documentato report inviato alla Corte penale internazionale circa gli stupri di massa compiuti durante la guerra civile dalle truppe di Gheddafi, parte delle quali ora combattono per il generale Haftar. Il rapimento della Sergiwa non ha suscitato in Italia alcuna interrogazione parlamentare ed è stato pressoché ignorato dall’informazione, probabilmente a motivo di due circostanze: in quanto nemico dei Fratelli musulmani, Haftar ha da tempo estimatori a destra e sinistra; e da quando si è avvicinato ai tubi dell’Eni (2017) non dispiace ai governi italiani, da tempo disponibili a scaricare al Serraj e a confermare anche in Libia la nomea per la quale l’Italia non finisce mai una guerra dalla parte in cui l’aveva cominciata. A conferma, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio giorni fa ha fatto la voce grossa con al Serraj, colpevole di aver chiesto ad Ankara l’aiuto che si attendeva da Roma e dalla Ue, e si è intrattenuto assai amichevolmente con Haftar, ricevendone in cambio lodi (“Lei deve essere orgoglioso di se stesso, può essere l’esempio di tutti i giovani libici, un modello”) che avrebbero messo in grave disagio - data l’origine - chiunque fosse provvisto non dico di una dignità ma perlomeno di un cervello. Subito dopo, al Serraj ha chiesto ai turchi di accelerare i tempi dello sbarco. Qualcuno chiamerà “realismo” la benevolenza che l’Italia riserva ad Haftar: ma è un realismo che ignora la realtà. Haftar non vuole alcuna soluzione politica (non la vuole il suo primo sponsor, l’Egitto), ma non ha alcuna possibilità di prendersi tutta la Libia perché non ha grande seguito nella popolazione, presso la quale è considerato con ragione il Quisling di un’alleanza egiziano-emiratina-saudita cui si è aggiunto Putin. Il suo “Esercito nazionale libico” è una sommatoria di lanzichenecchi: bande salafite finanziate dalle petromonarchie del Golfo, reduci gheddafiani, mercenari russi, milizie del Chad, Janjawid sudanesi già distintisi in patria nell’arte del massacro. Insomma pendagli da forca che potranno conquistare territori ma non riusciranno a dominarli, e finiranno inevitabilmente col produrre tante ribellioni e un’anarchia militare ancora più sanguinolenta. Di conseguenza scambiare smancerie con Haftar, come hanno fatto Di Maio e altri ministri degli ultimi governi italiani, significa raccontarsi alla popolazione libica come amici di un tiranno ripugnante, fama che in futuro potrebbe esporre Italia ed Eni a giustificate rappresaglie. Questo rischio da noi non viene messo in conto, probabilmente perché si ritiene che i libici, e gli arabi in generale, siano predisposti ad assoggettarsi docilmente al rais di turno, una volta vincitore. Ma anche se abbiamo difficoltà a crederlo, i libici non sono tanto diversi da noi. Certo non lo era la deputata Seham Sergiwa, i cui titoli accademici, conseguiti in ottime università occidentali, non trovano equivalenti nei curricula della gran parte dei parlamentari italiani. In altre parole Haftar è il problema, non la soluzione. Un’Italia consapevole e dotata di un qualche coraggio cercherebbe di toglierlo di mezzo, anche attraverso la Corte penale internazionale, cui non sarebbe difficile far giungere prove di tanti misfatti. In ogni caso quell’Italia che non c’è la smetterebbe di confidare nell’aiuto americano, nel rinsavimento di Macron, nella buona volontà dell’amico Putin, ed entrerebbe in campo con un’iniziativa propria. Una proposta del genere è stata formulata di recente dall’ex segretario generale della Farnesina Giampiero Massolo, ma senza alcun risultato. A Di Maio non mancano bravi consiglieri, tra i diplomatici. Affidi a quelli la politica estera, che è una cosa seria, e si dedichi alle batracomiomachie pentastellate. Quantomeno eviterebbe di rendere ancora più tragicomico un Paese che già provvede da solo a coprirsi di ridicolo. Algeria. Rilasciati 76 prigionieri politici del movimento Hirak laluce.news, 6 gennaio 2020 Sono stati liberati alcuni dei più noti esponenti del movimento di protesta antigovernativo che da quasi un anno chiede che il Paese nord africano cessi di essere un regime militare e si trasformi in una democrazia civile. Tra questi Lakdar Bouregaa, un veterano della guerra di liberazione che nel 1962 si concluse con gli accordi di Evian che sancirono il ritiro delle truppe francesi. Bouregaa, 86 anni, che era in carcere da 6 mesi, è stato rilasciato insieme ad altri 75 oppositori e con questa decisione il potere militare sembra volere accettare una delle precondizioni che Hirak aveva posto per l’inizio di una trattativa finalizzata ad una transizione verso una nuova amministrazione non più dominata da una ristretta cerchia di generali. Le accuse contro l’anziano mujahid erano del tutto politiche, al momento dell’arresto la televisione di Stato aveva detto che era imputato di “offesa alle autorità” e di “contribuire a minare il morale delle forze armate” Nel giorno in cui avrebbe dovuto iniziare il suo processo Bouregaa è stato liberato per decisione della stessa magistratura. Bouregaa era stato un comandante dell’esercito di liberazione nazionale e fondatore nel 1963 del Fronte per le Forze Socialiste, uno dei più vecchi partiti di opposizione dell’Algeria. Prima del suo arresto, aveva preso parte alle manifestazioni che hanno scosso l’Algeria dallo scorso febbraio, inizialmente contro Bouteflika, e poi contro l’intero l’establishment dopo che il presidente era stato costretto a dimettersi. Tra gli altri detenuti liberati su cauzione giovedì, il generale in pensione Hocine Benhadid, 73 anni, anche lui accusato di “demoralizzare l’esercito” dopo aver criticato Gaid Salah, Mohamed Tadjadit, un attivista soprannominato “poeta del Hirak” e Abdelhamid Amine, che era già stato condannato a tre mesi di reclusione per le sue vignette anti-governative. Dopo il voto segnato dalla scarsa affluenza alle urne e da massicce manifestazioni di protesta, Abdelmadjid Tebboune, ex premier sotto Bouteflika, ha prestato giuramento come nuovo presidente dell’Algeria il 19 dicembre.