Smascheriamo le furbizie del populismo forcaiolo di Glauco Giostra La Lettura - Corriere della Sera, 5 gennaio 2020 Le campagne di chi invoca misure sempre più repressive e nega la funzione riabilitativa della pena sono molto efficaci. Non basta, per contrastarle, ricordare il valore dei principi costituzionali. Bisogna venire incontro alla richiesta di sicurezza che sale dall’opinione pubblica, dimostrando che nella realtà dei fatti il furore vendicativo contro i detenuti non riduce affatto i pericoli, anzi li aumenta, per i cittadini onesti. In una democrazia emotiva come l’attuale, la legislazione penale costituisce lo strumento elettivo di una politica capace soltanto di assecondare la propria bulimia di consensi: esibire ringhiosità punitiva non costa nulla e, se è certo che non risolve nulla, costituisce ostentazione elettoralmente assai remunerativa. Si tratta, infatti, di un placebo che il Dulcamara di turno riesce a vendere facilmente quale convincente dimostrazione che, avendo a cuore le paure della gente, è determinato ad apprestare drastici e risolutivi rimedi. E purtroppo, come magistralmente scriveva l’autrice tedesca Christa Wolf nel suo romanzo “Medea” (Edizioni e/o), “non c’è menzogna troppo grossolana a cui la gente non crede, se essa viene incontro al suo segreto desiderio di crederci”. Viviamo un tempo in cui, anche per l’effetto moltiplicatore dei social network, slogan e parole d’ordine si diffondono epidemicamente, generando convinzioni à la carte che aggregano consenso: un ghiotto boccone per una politica intenta più ad accodarsi alle processioni dei follower, che a guidarle. Assistiamo anzitutto, quasi impotenti, alla corruzione delle parole. Nel diritto penale liberale, ad esempio, la locuzione “certezza della pena” suonava come una garanzia; oggi suona come una minaccia. Ma non si tratta soltanto di un caso di “abusivismo semantico”, bensì della spia di un tralignamento funzionale dello strumento penale: il processo diventa un’arma per combattere la criminalità; il carcere, un luogo dove segregare i colpevoli, gli sconfitti, magari dopo averli esibiti a mo’ di preda con raccapricciante compiacimento di Stato. Non si cerca più di recuperare alla società un buon cittadino, rispettando la dignità del condannato e offrendogli - se meritevole - opportunità di riabilitazione sociale; ci si preoccupa soltanto di renderlo inoffensivo per tutto il tempo della pena, negandogli ogni speranza di poterne mutare modalità e durata con il proprio fattivo comportamento. È pur vero che a questa politica “incostituzionalmente orientata” si contrappone la giurisprudenza della Corte costituzionale che, con una frequenza che dovrebbe far riflettere qualsiasi politico degno di questo nome, rammenda pazientemente gli strappi procurati al nostro tessuto normativo dalla demagogia legislativa. La via giudiziaria, tuttavia, unico motivo di ottimismo nel tempo presente, non può bastare. Non solo per il rilievo tecnico che i pronunciamenti giurisdizionali, dato il loro carattere episodico e disorganico, non potranno mai supplire alla mancanza di un compiuto disegno riformatore. Ma anche perché, per quanto questi pronunciamenti possano condurci avanti, al primo “stormir di fronda” una scorreria legislativa si incaricherà di riportare indietro il sistema, costringendo a una frustrante fatica di Sisifo: gli odierni tentativi di “sterilizzare” la decisione della Corte costituzionale riguardante i permessi all’ergastolano per reati cosiddetti ostativi, dopo le scomposte polemiche che l’hanno preceduta, stanno a dimostrarlo, se mai ce ne fosse bisogno. Per quanto arduo possa apparire, si deve cercare di contrastare la regressiva politica securitaria sul suo terreno, trovando una strategia di comunicazione che renda il cinico populismo penale elettoralmente meno lucrativo. Per farlo, le ragioni del diritto non bastano. Pur ineccepibili, non trovano ascolto nell’opinione pubblica: sono demagogicamente inermi. È necessario cambiare contenuti e modalità della comunicazione. Nell’attuale contesto, osservare che l’espressione “devono marcire sino all’ultimo giorno in galera” è una grossolana sgrammaticatura costituzionale, tanto più preoccupante se pronunciata da soggetti con responsabilità istituzionali importanti, significa opporre una critica emotivamente imbelle. Una siffatta risposta non ha presa perché trascura l’interesse di cui invece l’opposto approccio mostra di farsi carico. Essa anzi finisce per accreditare la diffusa, mistificante impressione che vede, pretendono che la pena detentiva sia scontata fino in fondo, rinchiudendo ermeticamente i pericolosi criminali entro le mura del carcere; dall’altra, i “buonisti”, gli indulgenzialisti, coloro che sono ossessivamente ed esclusivamente preoccupati della sorte del condannato. Mentre gli uni trasmettono un messaggio del tipo: “Non siate allarmati, questo pericoloso individuo verrà recluso per tutto il tempo della pena entro mura ben presidiate”; gli altri rispondono: “È un suo diritto costituzionalmente garantito vedere abbassare gradualmente i ponti levatoi di quelle mura, se dimostrerà un significativo progresso di riabilitazione sociale”. Bisognerebbe, invece, contrapporre alle esibite rodomontate punitive una perentoria avvertenza: la segregazione senza speranza mette a grave rischio la sicurezza sociale. Un’affermazione di cui non sarebbe difficile alla bisogna dimostrare il fondamento. Il proposito di lasciare marcire i detenuti in galera sino all’ultimo giorno della pena inflitta, dobbiamo ribadirlo, non è solo in contrasto con la Costituzione e con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani: è un attentato alla sicurezza sociale. Questa è l’idea che si dovrebbe riuscire a inoculare nelle vene mediatiche. Naturalmente, tutto ciò richiede operatori dell’informazione preparati, capaci ad esempio di rispondere, alla grancassa mediatica che accompagna il reato commesso da un soggetto che sconta fuori dal carcere la sua pena, che soltanto lo 0,5 per cento degli ammessi alle misure alternative commette reati; oppure di ricordare, a chi invoca la certezza della pena come antidoto al pericolo criminale, che alla pena espiata sino all’ultimo giorno in galera consegue poi un indice di recidiva nel delinquere intorno al 70 per cento. In una “democrazia dell’opinione pubblica” come l’attuale bisogna insomma trovare antidoti comunicativi che sappiano smascherare gli imbonitori, sfidandoli sul loro terreno preferito dell’insicurezza e della paura. Se si sapranno contrapporre accadimenti e slogan demistificatori (naturalmente sorretti dalla testarda realtà delle statistiche); se si saprà forgiare, per così dire, una demagogia costituzionalmente orientata, in grado di educare il popolo (nel senso etimologico di condurre) ai valori della Costituzione, gran parte della collettività potrebbe accogliere con favore una risposta penale che si faccia più credibilmente carico delle sue inquietudini, senza alimentare sentimenti di paura e di vendetta. Beninteso, e affinché non ci si prenda per ingenui velleitari, siamo ben consapevoli che aveva ragione Mark Twain: “È più facile ingannare la gente che convincerla che è stata ingannata”. E su questo probabilmente fanno affidamento gli impresari della paura, i costruttori di muri, gli inventori del nemico. Si tratta dunque di risalire - come pesci anadromi - una forte corrente; ma non è dato rinunciare, perché sono in gioco non soltanto il senso e la funzione della pena, ma anche la qualità della convivenza civile. Il modo con cui lo Stato esercita il suo magistero punitivo, infatti, è un sensibile, strano sismografo che registra in anticipo i futuri smottamenti della democrazia. Legge Spazza-corrotti sotto il tiro dei giudici di Guido Camera e Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2020 Pioggia di ricorsi alla Corte costituzionale sulla retroattività dei benefici solo ai detenuti che collaborano. È già stata dichiarata l’illegittimità dei limiti per i permessi premio. La “Spazza-corrotti” perde i pezzi. Nel suo primo anno di vita, la legge 3/2019, cavallo di battaglia del M5S e del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, non ha infatti retto al banco di prova della giurisprudenza. È stata soprattutto la mancanza di una disciplina transitoria a far approdare le norme di fronte ai giudici che, in più di una occasione, ne hanno limitato l’applicazione. E ora si attendono gli esiti dei procedimenti aperti di fronte alla Corte costituzionale, che dovrà fare chiarezza sulla natura di una delle misure simbolo della legge, ovvero l’equiparazione, per la concessione dei benefici penitenziari, dei fenomeni corruttivi a quelli mafiosi e terroristici. Ma andiamo con ordine. Benefici premiali limitati - La legge Spazza-corrotti ha modificato l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario (legge 354/1975), stabilendo che le misure alternative al carcere (affidamento in prova ai servizi sociali, detenzione domiciliare, semilibertà), i permessi premio e l’assegnazione al lavoro all’esterno del carcere possono essere concessi ai condannati per reati di corruzione, istigazione alla corruzione, corruzione in atti giudiziari, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità e peculato solo se collaborano con la giustizia efficacemente. E si adoperano per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, assicurare le prove dei reati e consentire di individuare gli altri responsabili o sequestrare le somme o le altre utilità trasferite. Ma la legge non ha spiegato se questa misura - mutuata dalla disciplina in materia di contrasto alla criminalità organizzata e al terrorismo - si debba applicare anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore, il 31 gennaio 2019. Le correzioni dei giudici - La Cassazione (con le sentenze 25212/2019 e 48499/2019) ha chiarito che gli ordini di sospensione dell’esecuzione della pena emessi prima dell’entrata in vigore della legge Spazza-corrotti non possono essere revocati benché la nuova legge limiti i benefici premiali per i condannati per corruzione. Per la Cassazione, infatti, “la validità degli atti è regolata dalla legge vigente al momento della loro formazione”. Sulla “retroattività” delle limitazioni ai benefici premiali ai fatti di corruzione commessi prima dell’entrata in vigore della legge 3/2019 si attende che si pronunci la Corte costituzionale. Sono infatti diverse le questioni di costituzionalità presentate alla Consulta, che ha fissato le udienze a febbraio 2020. Il nodo centrale è chiarire se la modifica apportata dalla legge Spazza-corrotti all’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario abbia natura di “pena” in senso vero e proprio. Altri giudici, tra cui la Cassazione, hanno inoltre messo in discussione l’eccessività della misura per induzione indebita e peculato lieve. Intanto la Consulta, con la sentenza 253/2019, ha già dichiarato l’illegittimità dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, sancendo che i permessi premio possono essere concessi ai condannati per i reati indicati nella disposizione - inclusi, quindi, quelli di corruzione - anche in assenza di collaborazione con la giustizia, se non risultano collegamenti (spesso, peraltro, nei reati di corruzione, inesistenti) con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. Gli effetti - I dubbi sulla legittimità dei limiti ai benefici premiali per i reati per corruzione non hanno - per ora - ricadute sugli ordini di esecuzione emessi dopo l’entrata in vigore della legge. La Cassazione, con la sentenza 51905, depositata lo scorso 23 dicembre, ha riconosciuto come “l’avere il legislatore cambiato in itinere le “carte in tavola”, senza prevedere alcuna norma transitoria presenti tratti di dubbia conformità” con il principio di legalità, ma la questione di costituzionalità può essere posta solo nella fase dell’esecuzione della pena. Quindi, se l’ordine di esecuzione è stato emesso dopo l’entrata in vigore della legge 3/2019, il condannato, per eccepirne l’incostituzionalità, deve entrare in carcere e rimanerci fino alla decisione della Consulta. Una decisione in linea con la sentenza 45319/2019 della Cassazione, che ha stabilito che il giudice dell’esecuzione, anche se ha sollevato questione di costituzionalità sull’applicazione dei limiti ai benefici per i reati di corruzione, non può sospendere l’efficacia dell’ordine di esecuzione. Gli altri punti cancellati - Con la sentenza 5457/2019, la Cassazione ha stabilito che l’interdizione perpetua dai pubblici uffici del condannato per corruzione - un altro dei cavalli di battaglia della Spazza-corrotti - non si applica ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore. Infine, con la sentenza 12541/2019, la Cassazione ha stabilito che la sanzione pecuniaria in favore dell’amministrazione lesa dal corrotto - introdotta dalla legge 3/2019 all’interno dell’articolo 322-quater del Codice penale, e pari a una somma equivalente al prezzo o al profitto del reato, da aggiungersi al risarcimento dei danni causati - non scatta in caso di patteggiamento. La libertà, il sentimento meno amato dagli italiani di Iuri Maria Prado Il Riformista, 5 gennaio 2020 Ci si può dolere ma non sorprendere del fatto che le cose di giustizia in Italia abbiano preso questa piega. E non solo le cose di giustizia ma generalmente quelle riguardanti i diritti e le libertà della persona. Sorprendersene significa non aver compreso la natura profonda del sentimento italiano verso quelle due faccende, i diritti e le libertà della persona: due faccende risentite e trattate dagli italiani come realtà non solo trascurabili ma persino ripugnanti. Con questo sentimento non abbiamo fatto i conti dovuti, e infatti non riusciamo a riconoscere la verità definitiva del nostro rapporto con gli eventi che in Italia maggiormente hanno avuto peso sul regolamento dei diritti individuali e di libertà: quando quei diritti sono stati compressi fino alla soppressione, e quando sono stati riconquistati. Le libertà in questo Paese non sono state impedite da pochi e con la forza: al contrario, in molti e senza sforzo vi hanno rinunciato. E così quando gli italiani hanno potuto nuovamente godere di libertà: non loro, non gli italiani se la sono riconquistata, ma altri gliel’hanno assicurata. Agli italiani la libertà è stata imposta, e una parte tutt’altro che minoritaria degli italiani avrebbe tranquillamente scelto di farsi governare da coloro che della libertà avevano anche meno rispetto a paragone di quelli che in Italia l’avevano soppressa. Queste due verità - e cioè che alla libertà abbiamo rinunciato quasi spontaneamente o comunque senza sforzo, e che non ce la siamo riconquistata ma altri ce l’ha garantita - sono bestemmie in questo Paese. Perché attentano alla tenuta della contraffazione infinita su cui si regge tutto il corso repubblicano. L’Italia non ha patito troppo della soppressione della libertà, e non ha trovato poi troppa soddisfazione nel poter poi godere della libertà ricevuta. Perché in entrambi i casi si trattava appunto di una cosa - la libertà, l’aspirazione alla libertà - che non è nelle fibre degli italiani. Come dunque può far sorpresa che le diminuzioni di libertà cui oggi assistiamo non siano risentite con allarme da parte degli italiani? A chi non piace questo andazzo, a chi pur meritoriamente ne denuncia i pericoli, bisognerebbe raccomandare di non commettere l’errore ennesimo. E cioè di far credere che il rischio stia in un’Italia trasformata e che rinnega sé stessa: mentre sta in un’Italia che per l’ennesima volta si ritrova e si riconosce. Decreto Salvini, norma da cancellare: 4mila euro di multa a chi protesta per il lavoro perso di Patrizio Gonnella L’Espresso, 5 gennaio 2020 Elena e Margherita hanno rispettivamente diciassette e diciotto anni. Studiano a Firenze. Lo scorso ottobre hanno avuto l’ardire di partecipare a una manifestazione di lavoratori a Prato solidarizzando con quegli operai che lamentavano il mancato pagamento del loro stipendio per ben lunghi sette mesi. Poco prima di Natale il Questore ha loro recapitato un bel regalo per le feste, ossia quattro mila euro di multa per ciascuna delle due ragazze ritenute colpevoli di avere violato una norma del decreto sicurezza bis fortemente voluto dall’ex ministro degli Interni Matteo Salvini. Si tratta di una norma che di fatto criminalizza il dissenso, punendo chi per ragioni di protesta organizza o pratica un blocco stradale. Insieme a loro anche gli operai sono stati multati, così oltre a non ricevere stipendio e tredicesima ora dovranno pagare anche un’ammenda elevata, e forse, insostenibile. Dunque sarebbe bella cosa se accadessero in sequenza le seguenti tre cose, una di seguito all’altra: 1) che ragazze e operai siano aiutati da tutti noi a pagare le multe subite (pare che non avessero invaso un’autostrada ma una strada di ridotto scorrimento). Girano in rete meritorie offerte di solidarietà; sarebbe un segnale straordinario se gli italiani si facessero carico di questi operai e di queste studentesse che stavano protestando anche per tutti noi; 2) che lavoratori e operai affascinati dalle parole di Matteo Salvini gli voltino le spalle e si rendano conto che il loro nemico non è l’immigrato. Quest’ultimo è un finto facile bersaglio voluto da chi alimenta ad arte odio e paura. Ogni restrizione di libertà agli stranieri nel nome di una presunta sicurezza riduce la libertà di tutti, anche degli italianissimi operai; 3) che il Governo cancelli tutte le norme odiose presenti nei due decreti sicurezza, partendo dalle osservazioni del presidente Sergio Mattarella. La sicurezza è una cosa seria. Quella propagandata nei due decreti Salvini non è un’offerta di sicurezza ma un attacco alle libertà individuali. In questo caso sotto attacco è finita la libertà di dissenso. I tempi prescritti della giustizia di Luigi Ferrarella La Lettura - Corriere della Sera, 5 gennaio 2020 “Riforma epocale”, la esalta il ministro della Giustizia quando deve rivendicarne l’approvazione. “Si applicherà solo al 3% dei processi”, la minimizza il ministro Bonafede quando per rintuzzare le critiche ne predice “effetti solo fra 3-4 anni”. Eppure è la medesima norma: stop per sempre, dopo la sentenza di primo grado, alla prescrizione che in 10 anni ha incenerito 1,5 milioni di procedimenti, dai 213.500 del 2004 ai 117.367 del 2018: in un malsano federalismo giudiziario nel quale 70 Tribunali su 135 sono sotto il 3%, ma quattro Corti d’Appello (22% Napoli, 12% Roma, 7,5% Torino e Venezia) da sole fanno quasi metà di tutte le prescrizioni d’Italia. Rialzi di pena e tempi supplementari (come nella legge Orlando) hanno via via allungato i termini di prescrizione, arrivati a 15 anni per corruzione, 20 per maltrattamenti familiari, 15 per furto in casa. E delle 117.367 prescrizioni del 2018, oltre 85 mila non si sarebbero evitate nemmeno con la nuova legge, essendo maturate 57.707 prima di approdare in giudizio, e 27.747 nei Tribunali: senza poter intaccare il 65-70% di prescrizioni in fase preliminare, la legge quindi interverrà solo su un quarto delle attuali prescrizioni, e su meno del 3% dei processi celebrati ogni anno. Ma a un costo alto per imputati (sia condannati sia assolti in primo grado) e vittime: che, nell’assenza di meccanismi di compensazione, rischiano di restare appesi a indefiniti tempi processuali imputabili a disfunzioni dell’apparato giudiziario. Non a caso i Paesi che bloccano la prescrizione contemplano uno “sconto” di pena proporzionale alla quota di accertata irragionevole durata, o, per gli assolti, un “equo indennizzo”. In Italia si riparte il 7 gennaio dall’ennesimo taumaturgico “vertice di maggioranza” sull’altra mitologica riforma per abbreviare i tempi dei processi: promessa, ma desaparecida, tra l’approvazione della nuova prescrizione il 9 gennaio 2019 e la sua posticipata entrata in vigore al 1° gennaio 2020. Il pasticcio brutto (e incostituzionale) della prescrizione. Parla Sabino Cassese di Francesco Bechis formiche.net, 5 gennaio 2020 Intervista al giudice emerito della Corte Costituzionale. La prescrizione Bonafede? I Cinque Stelle non sanno liberarsi del mito di Robin Hood e dello Stato feroce, viola la Costituzione e il buonsenso. La controproposta Pd? Meno peggio, ma non risolve i problemi della Giustizia italiana. Uno strappo alla Costituzione e soprattutto al buonsenso. Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale e professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa, non usa mezzi termini sulla riforma della prescrizione di Alfonso Bonafede. Anche su un tema fondante come la Giustizia la maggioranza è divisa in due, ma c’è poco da sorprendersi, “ormai le opposizioni stanno nei governi”. Professore, qual è il suo giudizio definitivo sulla riforma Bonafede? “Voltaire la chiamava “esclavage de l’esprit”. Rimanere intellettualmente prigionieri di un’idea (sbagliata). Il M5S ha costruito la sua fortuna sulla valorizzazione del volto feroce dello Stato, che attira italiani che hanno visto troppi film con Robin Hood, il giustiziere”. E oggi? “Oggi i leader del M5S non sanno liberarsene, come si sono (parzialmente) liberati della retorica della democrazia diretta”. Cosa non funziona della nuova prescrizione? “La prescrizione senza termine viola principi costituzionali (la durata ragionevole dei processi, il fine riabilitativo della pena) e di buon senso (come può un giudice disporre di tutte le prove dopo venti anni o più? Una persona non è diversa dieci anni dopo?). Aggiungo una cosa”. Prego. “I dati disponibili sulle accuse cadute in giudizio rendono la lunga durata della “processabilità” un’ingiustizia palese”. I proponenti sostengono che il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio aumenta la certezza della pena... “Bisogna mettersi d’accordo sul fine della pena. È un fine retributivo, come dicono i penalisti, con parola che nasconde non pochi equivoci? Siamo sicuri che la incerta giustizia umana debba rispettare l’immagine della bilancia, nel senso che debba servire a ribilanciare l’equilibrio turbato?”. Il Pd ha presentato una proposta per sospendere la prescrizione per un massimo di trenta mesi dopo la sentenza di primo grado e di un anno dopo la sentenza di appello. Può funzionare? “Mi pare il meno peggio, potrebbe essere un compromesso. Non risolve i problemi di giustizia ed efficienza”. Con i giusti correttivi si può evitare un processo infinito? “Non vedo quali correttivi. Se una persona è giustiziabile senza un termine e se la giustizia arriva sempre tardi, si è nelle mani di un potere arbitrario, giudice dei tempi. I proponenti non sanno quale pessimo servigio stanno facendo alla giustizia italiana, trasformando i giudici in moderni dittatori, unici poteri in grado di tenere sotto scacco persone, senza rimedi efficienti (cioè che giungano in termini ragionevoli)”. In molti accusano una mala-gestio della prescrizione. L’istituto deve essere riformato? “Basta leggere le statistiche per rendersi conto della situazione. Una persona con grande esperienza, come Greco, ha proposto una radicale depenalizzazione. Un’altra, come Sgubbi, ha dimostrato quanto grave sia l’introduzione del “diritto penale totale”. Quali sono le riforme più urgenti per la giustizia italiana? “Sono decenni che se ne parla. Basta fare l’elenco. I tempi: un processo, tutti e tre i gradi, in un solo anno. L’estensione del penale: sanzionare in via amministrativa tutto ciò che non ha vera rilevanza criminale. L’accusa: sia affidata a persone che abbiano equilibrio e procedano con cautela, senza maxi-retate, pubblicità, gestione delle ricadute mediatiche, comunichino riservatamente (come vuole la Costituzione) le accuse agli interessati”. Poi? “Da ultimo, ma non con minore importanza, una riforma della giustizia che riguarda i giornali e i media: non fare da megafono, selezionare attentamente le notizie, attendere il giudizio e non accontentarsi dell’accusa”. Professore, non è singolare che due forze che governano insieme abbiano idee così antitetiche sulla Giustizia? “Perché me lo chiede? Ormai le opposizioni stanno nei governi”. Quanti danni gravi per il paese dai tempi lunghi del processo di Massimo Krogh Il Mattino, 5 gennaio 2020 Torno su un argomento che non smette d’essere attuale, la durata del processo. Abbiamo uno dei processi penali più lunghi del mondo e si fa di tutto per mantenere questo primato attraverso vari istituti, quali tre gradi di giudizio (con noi li ha solo la Francia, ma in forma attenuata), la costituzione di parte civile, istituto che esiste solo da noi, se non sbaglio, e che produce l’allungamento del percorso processuale con l’aumento delle parti, indagini preliminari sottoposte a termini platonici, prescrizione del reato continuamente ritoccata con l’effetto di allungare piuttosto che accorciare il processo, l’obbligatorietà di esercizio dell’azione penale (art. 112 Cost.). Inutile parlare del processo civile, una sorta di nave crociera senza porto di arrivo. Non è superfluo il dato storico. Nel 2015 nasceva in Inghilterra, con la Magna Carta, il rito accusatorio che si diffondeva nei paesi di Common law; nello stesso anno, il IV Concilio Lateranense istituiva il processo inquisitorio, cioè l’inquisizione. Noi veniamo da questo ramo, secoli di diversità culturale non si colmano con le leggi. Cose forse già dette ma che giova ribadire. La lunghezza del processo penale, quello civile nella sua eternità diventa invisibile, è un dato di fatto che favorisce eventuali errori e determina un quadro complessivo lontano dalla logica; l’opposto di una cultura e una sensibilità moderna, che vorrebbero un processo breve e tale da non provocare eccessiva e ingiusta sofferenza per l’accusato. Bisogna ricordare che il punto cruciale che può violare il tessuto civile di un Paese è l’imposizione della forza costrittiva del diritto con attitudine a incidere in modo diretto e immediato sul collettivo senza i necessari anticorpi. Ciò da noi avviene nell’abbraccio dei media, da cui emerge una rappresentazione illusoria di giustizia, fra l’altro condita dall’incertezza della pena. Questo è il quadro che si è affermato in Italia, vale a dire un giustizialismo senza giustizia. La capacità d’inventare l’impossibile! La chiave del bene e del male nelle mani del pubblico ministero, cui è delegata una capacità d’intervento sociale senza limiti, in un contesto dove il servizio giudiziario sparisce per le sue disfunzioni. L’incongruenza, quindi, di un controllo di legalità appariscente in fase di indagini e invisibile in fase di giudizio. È probabile che il veleno del Paese stia nella burocrazia che s’insinua nella formazione, modulazione e interpretazione delle leggi. Con troppe parole si è detto che il processo deve essere breve, ed invece è lunghissimo; con troppe parole si vuole sottrarre la giustizia all’influenza politica, e invece si è, talvolta, sottoposta la politica alla giustizia. Troppe parole guastano quando mancano i fatti, proprio ciò che da noi avviene non di rado. Persino avviene che la giustizia punisca i buoni premiando i cattivi. Questi si salvano spesso con la prescrizione, mentre gli innocenti che cadono nel processo ne vivono il lungo calvario prima di uscirne. Lo ricorda con poetica intelligenza il film Pinocchio di Benigni, dove appare l’immagine del giudice che manda in prigione gli innocenti assolvendo e premiando i colpevoli. La eccessiva durata dei processi diviene una sorta di stallo della giustizia, che ha effetti negativi sugli investimenti, giacché chi investe teme il blocco giudiziario per ogni eventuale questione che possa insorgere. Ciò, naturalmente, impoverisce il Paese e incoraggia la fuga delle forze giovani. L’analisi dei fatti non rallegra, ma non deve oscurare la speranza. Di dovere e di speranza. Piersanti Mattarella, 40 anni dopo di Paolo Borrometi Avvenire, 5 gennaio 2020 C’è un prima e c’è un dopo nella storia della Sicilia. Lo segna una data: 6 gennaio 1980. Quel giorno venne drammaticamente assassinato sotto gli occhi della sua famiglia l’uomo che aveva avviato una nuova stagione politica nell’Isola, Piersanti Mattarella. Fortemente sostenuto da Aldo Moro, Mattarella fu ucciso da presidente della Regione quando era riuscito a dare forma a un Governo di regole per una terra abituata a non averne. Nessuno slogan da ostentare - come si potrebbe mal pensare in un’epoca come la nostra, abituata ai continui “cinguettii” del politico di turno - ma un progetto autentico e rigoroso da realizzare, fatto di interventi concreti: controlli rigorosi sull’aggiudicazione delle gare d’appalto, lotta alla speculazione edilizia, una nuova legge urbanistica (rivoluzionaria per la Sicilia, con la riduzione degli indici di edificabilità) per fare solo qualche esempio. Sorretta da una grande fede, la sua fu una rivoluzione gentile - culturalmente, civicamente e spiritualmente cresciuta all’interno dell’Azione Cattolica - che lo portò a schierarsi apertamente contro la criminalità mafiosa in anni in cui il nostro Paese era privo di una qualsiasi legislazione antimafia (e men che meno di una cultura dell’antimafia) che ne sapesse riconoscere la pervasività e la pericolosità. Il tutto muovendosi all’interno di un partito, la Democrazia Cristiana, che fra i suoi maggiori esponenti locali schierava purtroppo anche politici come Vito Ciancimino, per tanti anni sindaco e assessore ai lavori pubblici di Palermo, referente proprio allora di quegli stessi corleonesi che già ne insanguinavano impuniti le strade. Per avere un’idea di Mattarella e del suo rigore basta rileggere il discorso che solo un mese prima di essere assassinato tenne davanti a Sandro Pertini, in occasione della sua visita presidenziale nell’Isola, in cui chiese espressamente al Capo dello Stato di aiutare i siciliani a liberarsi dall’oppressione mafiosa fermamente convinto che il riscatto dell’Isola non potesse (e ancora oggi non può) che passare dalla liberazione dei suoi “legacci”. Una sfida aperta alla mafia che da presidente della Regione portò avanti impegnandosi anzitutto a ripristinare quelle condizioni di legalità nell’amministrazione che fatalmente collidevano con gli interessi mafiosi. Rino La Placa, già parlamentare - uno degli uomini più vicini a Piersanti allora e all’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella poi - ricorda come “la sua lotta senza quartiere agli abusi, alle sopraffazioni, ai facili arricchimenti” non fece “affatto piacere ai boss mafiosi, in quel periodo più arroganti che mai”. Era la sua impostazione così come la sua caratura ad essere di per sé assolutamente contraria alla mentalità mafiosa. Nessun ammiccamento a nessun personaggio che volesse dominare il territorio, sostituendosi allo Stato. Nessun piegarsi all’arroganza. Fu in questa direzione che maturò la netta contrarietà di Mattarella alla politica alla Ciancimino. Una vera e propria contrapposizione, innanzitutto culturale, fra i due uomini. Non a caso fu proprio lui a essere tra i primi a sbarrare la strada a “don Vito” negli incarichi direttivi di partito. Cammino che terminò - come ricorda ancora La Placa - “nel congresso del 1983 con l’altro Mattarella, Sergio”. Fu poi, ma solo poi, che tutta la Sicilia ne prese le distanze. Quanto ai fatti tragici di quel 6 gennaio dell’Ottanta, per l’omicidio di Piersanti Mattarella quindici anni dopo furono condannati i boss della cupola mafiosa ma non vennero mai individuati gli esecutori materiali del delitto, nonostante secondo il giudice Falcone quella mattina, sul luogo dell’omicidio, vi fossero due killer dei Nar, Fioravanti e Cavallini. Anni in cui sappiamo quanta parte delle istituzioni fosse invasa dalla presenza mafiosa, diventa ancor più fondamentale conoscere con certezza chi siano stati gli esecutori materiali di quel crimine, appurare se oltre alla mafia vi siano stati coinvolti altri soggetti. Mattarella pagò con il sacrificio della vita il suo profondo rispetto per quelle stesse istituzioni democratiche e per l’idea di una politica alta e nobile, non solo pulita, ma protagonista di un’azione di pulizia e di modernizzazione a tutto tondo, che a cominciare dal suo interno e dai suoi rappresentanti potesse raggiungere l’intera società. Una grande lezione, la sua, da non dimenticare. Che in Sicilia e in tutta Italia a distanza di quarant’anni dà una risposta di dovere e di speranza a un bisogno e a un auspicio ancora drammaticamente attuali, purtroppo. Uno bianca, “Ora riaprire le indagini” di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 5 gennaio 2020 Nel giorno del 29esimo anniversario dell’eccidio del Pilastro, i familiari dei tre carabinieri uccisi chiedono con una lettera che siano riaperte le indagini sulla banda della Uno Bianca. Ventinove anni dopo la strage del Pilastro, i familiari di Mauro Mitilini, Andrea Moneta e Otello Stefanini chiedono che siano riaperte le indagini sulla banda della Uno Bianca. Scelgono il giorno della commemorazione del terribile eccidio, il cui anniversario ricorreva appunto ieri, per diffondere in una lettera un appello “affinché venga fatta piena luce sulle tante ombre che aleggiano su questa vicenda”. Perché per i familiari dei tre militari barbaramente uccisi al Pilastro, la banda dei fratelli Savi che per sette anni insanguinò Bologna, l’Emilia-Romagna e le Marche, lasciandosi dietro 24 morti e più di 100 feriti, non fu solo una banda di “semplici” criminali, pur se poliziotti con simpatie per la destra estrema. Scrivono le famiglie che “un contributo in questa direzione potrebbe arrivare anche dalla preannunciata informatizzazione e pubblicazione degli atti processuali, così come avvenuto per altre vicende. Ci batteremo e continueremo a opporci ai vergognosi sconti di pena”. La giustizia italiana ha chiuso i conti con i tre fratelli e i loro complici: Alberto, il più giovane dei Savi, usufruisce di permessi premio e ha trascorso il Natale fuori dal carcere, Marino Occhipinti è in libertà condizionata, liberi sono i gregari Luca Vallicelli e Pietro Gugliotta. Continuano a scontare l’ergastolo in carcere Fabio e Roberto Savi ma quest’ultimo, riporta l’Ansa, due anni fa avrebbe reiterato la richiesta di grazia che nel 2005 fu costretto a ritirare dopo le polemiche sollevate dai familiari delle vittime. Una richiesta a cui sia la Questura che la Procura generale di Bologna si sarebbero opposte. Il suo avvocato Donata De Girolamo assicura: “Non c’è alcuna richiesta di grazia al momento. Roberto Savi è detenuto nel carcere di Bollate ma non ha incontrato il fratello”. I familiari dei tre carabinieri uccisi, intanto, chiedono ancora di conoscere la verità su alcuni interrogativi senza risposta: “Come il foglio di servizio della pattuglia sparito - scrivono nella lettera - o il cambio auto della banda a San Lazzaro, dove un testimone notò un quarto uomo”. Fa suo l’appello a indagare ancora anche il deputato dem Andrea De Maria: “Occorre approfondire il contesto di quelle azioni criminali, che assunsero un carattere eversivo e destabilizzante della democrazia”. “I Savi - ha detto ieri Anna Stefanini, madre di Otello - non possono provare alcun pentimento. Stiamo attenti a farli uscire, non vorrei si finisse come con Angelo Izzo (autore della strage del Circeo, ndr) che ha ammazzato ancora”. Parla dei permessi premio anche Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime: “Penso che questa non sia giustizia”. Grigolon ha ricordato i vigili del fuoco morti in provincia di Alessandria e i poliziotti uccisi in servizio a Trieste: “Come i nostri carabinieri avevano trovato l’amore e la forza di mettersi al servizio degli altri”, lanciando un appello ad abbassare i toni. Anche il generale di brigata Claudio Domizi ha preso la parola: “Andrea, Otello, Mauro, non vi dimentichiamo. Non dimentichiamo tutti quei berretti rimasti a terra, impregnati di sangue, di tanti servitori dello Stato”. Parole di comprensione per il dolore dei familiari dal sindaco Virginio Merola: “Le persone che hanno sofferto non potranno mai dimenticare, ma la giustizia in Italia è dovuta al nostro sistema democratico che i criminali della Uno Bianca hanno disprezzato, ma di cui oggi godono i vantaggi”. “Condivido la rabbia dei familiari delle vittime” ha scritto su Fb la candidata del centrodestra alle Regionali Lucia Borgonzoni, mentre il governatore Stefano Bonaccini ha espresso sui social “solidarietà all’Arma dei carabinieri”. Livorno. “Gatta Buia”, là dove i detenuti fanno le borsine di Dedo di Flavio Lombardi Il Tirreno, 5 gennaio 2020 Si tratta di una realtà nata per l’inclusione sociale. Solimano: “Per noi è motivo di orgoglio essere presenti dentro il grande evento di Modì”. E con essa, anche la dimostrazione pratica di come si producono le “shopper”, cioè le borse in pura canapa, che fanno parte dei prodotti di merchandising venduti per la mostra di Modigliani. “Siamo contenti non solo per il successo che ha avuto l’aspetto commerciale - dichiara il presidente dell’Arci Marco Solimano - ma anche perché si tratta di una realtà nata per l’inclusione sociale che si occupa di persone che si misurano con i percorsi della detenzione e post detenzione o di giustizia riparativa. Si è entrati insomma, in una operazione straordinaria sotto il punto di vista culturale di questa città”. La mostra di Modigliani ha reso a Gatta Buia ulteriore visibilità e la Regione ha appena riconosciuto il valore di questo sforzo, concedendo un contributo economico che consentirà al laboratorio la totale autonomia produttiva per la stampa ad alta definizione. Una macchina dal costo di 3 mila euro, il cui assegno arriverà in un mese circa. Niente più lavori esternalizzati quindi. A fare i complimenti a questo ulteriore scatto in avanti di Gatta Buia, il sindaco che ha anche provato, con successo, a stampare lui stesso una “shopper” con la Fillette en Bleu. Pressa calda, presi i punti di riferimento per la giusta centratura, temperatura 180 gradi e piastra sul tessuto per 25 secondi. Poi, lo sfoglio della pellicola e l’immagine perfetta. Pronta per una qualità eccellente che convinse Sillabe, la concessionaria merchandising per Modigliani, a scegliere Gatta Buia sul resto della concorrenza per questo singolo prodotto. Salvetti, entusiasta. “Si parla di un mondo per il quale Arci sta facendo cose belle e sono soddisfatto di tutto questo. E le “shopper”, sono solo un esempio. Scelte per l’alta qualità delle immagini, unite al grande valore sociale di poter coinvolgere dei detenuti e il loro reinserimento. Nessun regalo, tuttavia. C’è stato un attento vaglio, e quel che Gatta Buia ha ottenuto, se l’è meritato sul campo”. Chiude Solimano. “Per noi è motivo di orgoglio essere presenti con un piccolo ruolo all’interno di uno dei più grandi eventi degli ultimi anni organizzati a Livorno. Speriamo che questa visibilità sia foriera di altre situazioni. Tutto ciò dà un grande valore alla missione che si propone Gatta Buia. Negli ultimi cinque anni, oltre cento persone sono passate attraverso storie diverse per lunghi o brevi periodi dal nostro laboratorio. Siamo una associazione senza finalità di lucro, siamo in convenzione col Tribunale di Livorno e titolati a fare accoglienza. I risultati, giungono grazie anche alle contaminazioni coi nostri volontari e dei ragazzi che svolgono il servizio civile”. Catanzaro. Una “Vetrina Speciale” per i presepi realizzati dai detenuti calabriamagnifica.it, 5 gennaio 2020 Il Palazzo della Provincia di Catanzaro ospita l’esposizione dei migliori presepi realizzati dai detenuti della Casa Circondariale di Catanzaro. L’ iniziativa, promossa dalla Consigliera di parità e dalla Commissione pari opportunità della Provincia, è nata da un’idea del vicepresidente dell’ente Antonio Montuoro maturata quando, assieme alla Consigliera Morano Cinque, sono stati invitati dalla direttrice del Carcere Angela Paravati a presenziare in qualità di “giurati” alla cerimonia di premiazione dei migliori presepi avvenuta presso la Casa Circondariale il giorno 19 dicembre scorso. È proprio in tale occasione che è maturata l’idea di consentire ai migliori presepi realizzati artigianalmente dai detenuti di avere “una vetrina speciale” rappresentata dalla sede dell’amministrazione provinciale di Catanzaro e una cassa di risonanza ulteriore per i messaggi sottesi alle opere ispirate ai temi di attualità, ma anche alla famiglia, alla pace e ai sogni. “Questa lodevole iniziativa - ha dichiarato il presidente della Provincia di Catanzaro Sergio Abramo - sottolinea l’importanza della sinergia tra enti locali e realtà territoriali, e nello specifico è frutto della collaborazione esistente con la Casa circondariale di Catanzaro che possiamo definire un fiore all’occhiello nell’attività rieducativa in un’ottica di futuro reinserimento sociale dei detenuti”. “L’idea - ha affermato Antonio Montuoro, vicepresidente della Provincia di Catanzaro- è nata dal desiderio di valorizzare i migliori lavori realizzati dai detenuti che, ogni anno, sviluppano capacità e manualità nel settore dell’artigianato e realizzano vere e proprie opere curate nei minimi dettagli. Per premiare il loro impegno - ha sottolineato Montuoro - abbiamo voluto dedicargli, in occasione di queste festività, una vetrina speciale e su mia richiesta, in accordo con il presidente Sergio Abramo, abbiamo deciso di ospitare le loro opere proprio sul piano della presidenza a partire dal 22 dicembre 2019. Abbiamo voluto fare sentire loro e a tutta l’amministrazione penitenziaria la nostra vicinanza in questo periodo così sentito dell’anno”. “Durante la cerimonia di premiazione avvenuta presso la Casa Circondariale mi sono sinceramente emozionata - ricorda la Consigliera di Parità Elena Morano Cinque- “I presepi realizzati dai detenuti infatti coniugano un’evidente maestria artigianale con una carica umana straordinaria. Durante la cerimonia in Carcere, sentire le voci dei detenuti, spesso rotte dal pianto mentre spiegavano l’idea progettuale del proprio manufatto, è stata per me un’emozione fortissima. Persone che hanno sbagliato nella loro vita ma che hanno rielaborato il male trasformandolo in motivazione al bene e al bello. Ricordi dei loro familiari, evidenti suggestioni tratte da giornate formative tenute in carcere su tematiche di attualità quali la violenza contro le donne in merito alla quale io stessa qualche tempo fa avevo tenuto loro una relazione, o il valore della ricerca per la lotta contro le malattie rare dei bambini o ancora i temi ambientali. Insomma ho avuto la netta sensazione che la funzione rieducativa della pena prevista dalla nostra Costituzione, qui presso la Casa Circondariale di Catanzaro, egregiamente diretta dalla dott.ssa Paravati, abbia davvero un significato importante e concreto. Ecco perché anzitutto, in via del tutto estemporanea e non prevista, durante la cerimonia in Carcere ho sentito di istituire una sorta di “ulteriore premio della Consigliera di Parità” oltre a quelli già previsti, provvedendo personalmente ad inviare ai nuovi premiati un cesto per “addolcire” il loro Natale. Ed ecco perché, ovviamente, ho immediatamente sposato con gioia l’idea del vice presidente Montuoro di esporre i presepi presso il Palazzo della Provincia”. “Abbiamo condiviso da subito l’idea del vicepresidente Montuoro - ha dichiarato Donatella Soluri, presidente della Commissione pari opportunità della Provincia di Catanzaro - e riteniamo che i presepi realizzati dai detenuti abbiano saputo ben rappresentare, con attenzione e cura dei dettagli, la natività anche reinterpretandola attraverso dei progetti alternativi. Tra questi - ha evidenziato Soluri - particolarmente toccante è stato il riferimento alle battaglie di Martin Luther King. Il suo “I have a dream”, quel sogno di pace e di un mondo senza discriminazioni, illumina ogni nostra azione finalizzata alla promozione delle pari opportunità. Da sottolineare anche le grandi capacità manuali dei detenuti, la loro creatività, e la volontà di utilizzare per la realizzazione delle varie opere materiale riciclato, nel pieno rispetto dell’ambiente. Ci auguriamo che queste capacità artigiane, sviluppate nell’ambito dei vari laboratori, possano rappresentare nel loro futuro una possibilità di reinserimento nel mondo del lavoro e nella società”. “Questa iniziativa - ha affermato Angela Paravati, direttrice della Casa circondariale di Catanzaro - è l’esempio dei risultati proficui che si possono raggiungere grazie alla collaborazione con le associazioni, gli enti locali, le realtà del territorio. L’iniziativa è giunta alla quinta edizione con il sostegno della Consolidal e della presidente Teresa Gualtieri. L’esposizione delle opere presso la Provincia - ha evidenziato Paravati - permette al mondo fuori ‘le mura’ di vedere cosa succede ‘dentro’ e capire che ogni detenuto può essere una storia e una volontà di cambiare. L’occasione di realizzazione dei presepi, che ha impegnato i ristrettì sin dal mese di settembre, ha anche rappresentato un modo per superare la sofferenza e la solitudine che accompagnano il trascorrere delle festività natalizie all’interno di un carcere”. Catanzaro. Convegno “Il carcere in Italia, tra politiche securitarie e condanne internazionali” calabriaeconomia.it, 5 gennaio 2020 Si svolgerà venerdì 10 gennaio 2020, con inizio alle ore 15.30, presso la Sala delle Culture del Palazzo della Provincia di Catanzaro, il convegno dal titolo “Il carcere in Italia, tra politiche securitarie e condanne internazionali”. L’evento, organizzato dalla Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro e dall’Osservatorio Carcere della stessa Camera Penale, si pone l’obiettivo di affrontare il sempre più attuale problema del rapporto esistente tra la funzione rieducativa della pena e la concreta possibilità della sua attuazione. Nel corso dell’incontro, particolare attenzione sarà dedicata alle recenti politiche in materia di sicurezza, alla cronica problematica del sovraffollamento carcerario e alle condanne internazionali, ad opera della Cedu, che hanno sanzionato l’Italia proprio in materia penitenziaria. Dopo i saluti istituzionali dell’avv. Antonello Talerico (Presidente dell’Ordine Distrettuale degli Avvocati di Catanzaro), dell’avv. Agostino Siviglia (Garante Regionale dei diritti delle persone detenute) e della dott.ssa Laura Antonini (magistrato presso il Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro), i lavori saranno introdotti dall’avv. Ermenegildo Massimo Scuteri (Presidente della locale Camera Penale). Nel prosieguo, saranno chiamati a confrontarsi sul tema il prof. Mauro Palma (Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute), la dott.ssa Angela Paravati (Direttrice della Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro), il Prof. Andrea Porciello (docente di Filosofia del Diritto presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro) e l’avv. Gianpaolo Catanzariti (Responsabile dell’Osservatore Nazionale Carcere dell’Ucpi). I lavori saranno conclusi dall’avv. Orlando Sapia (Responsabile dell’Osservatorio Carcere della locale Camera Penale) che sarà anche il moderatore dell’incontro. Potenza. L’esito del laboratorio teatrale con i detenuti è aperto al pubblico sassilive.it, 5 gennaio 2020 Scade il 6 gennaio il termine per richiedere l’accesso come pubblico all’esito finale del laboratorio che si svolgerà nella Casa Circondariale di Potenza giovedì 16 gennaio 2020. Ad andare in scena saranno alcuni detenuti che presenteranno una restituzione del laboratorio tenuto da Silvia Gribaudi, ospite del progetto Toil, voluto e prodotto dalla Compagnia Teatrale Petra. Silvia Gribaudi, regista e performer, entrerà in carcere con la sua poetica per un laboratorio intensivo con i detenuti, grazie all’azione “Artisti in transito” di “Teatro oltre i limiti” la rassegna di promozione del teatro in carcere organizzata da Petra su Potenza e Matera. Artisti in transito vuole mettere in relazione detenuti e mondo teatrale. Quanto un luogo ritenuto così “lontano” nell’immaginario collettivo può aiutare la poetica degli artisti e quanto viceversa la poetica degli artisti può stimolare i detenuti? Silvia Gribaudi, come altri artisti negli scorsi mesi, varcherà le porte del carcere per aggiungere un tassello al racconto di teatro come strumento per superare quel limite. L’esito finale del laboratorio si svolgerà il 16 gennaio alle 15.00 nella Casa Circondariale. L’evento, aperto al pubblico come tutte le iniziative del progetto Toil, necessita però della prenotazione con un certo anticipo, per permettere il disbrigo delle pratiche di accesso alla struttura. Per chiedere di assistere alla performance è necessario inviare una mail con i propri dati anagrafici e un numero di telefono all’indirizzo info@compagniateatralepetra.com entro il 6 gennaio. Alla base del progetto Toil c’è l’assunto del teatro come strumento per superare il concetto stesso di limite, nel luogo a cui viene automaticamente abbinato dall’immaginario collettivo, ribaltando la concezione detentiva e favorendo una nuova visione: da luogo di vergogna a luogo di cultura. A marzo è previsto lo spettacolo finale del laboratorio teatrale con i detenuti, con in programma diverse repliche aperte al pubblico e alle scuole. “Teatro oltre i limiti” è un progetto di Petra finanziato dall’Unione delle Chiese metodiste e valdesi, con il contributo dell’Agenzia Regionale Lab - Lavoro Apprendimento Basilicata, in partenariato con il Ministero di Giustizia Dap Casa Circondariale di Potenza e Casa Circondariale di Matera, il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, il sostegno della Commissione Regionale Pari Opportunità della Basilicata e del Garante Regionale dell’infanzia e dell’Adolescenza di Basilicata, la collaborazione di Città delle 100 Scale Festival e Nessuno Resti Fuori, Festival di teatro città e persone e il patrocino dell’Ordine degli Psicologi di Basilicata. Roma. Rugby, a Rebibbia i “Bisonti” battono “Libera” nella prima partita in carcere di Paolo Ricci Bitti Il Messaggero, 5 gennaio 2020 A Rebibbia i “Bisonti” battono “Libera” nella prima partita di rugby in carcere che ha messo in campo la squadra dei detenuti e la squadra della comunità gay di Roma. Da una parte i Bisonti, dall’altra Libera, il primo club ovale in Italia esplicitamente per la comunità Lgtb, ma pronto comunque ad accogliere tutti. In mezzo l’arbitro Valerio Amodeo, allenatore di Libera e fra i più conosciuti e appassionati rugbisti non solo nell’ambiente romano. Siamo partiti dalla circostanza meno importante, il risultato, pure parecchio scontato, per dire dell’unione di due iniziative che dimostrano ancora una volta lo spirito di inclusione del rugby: mentre si gioca è battaglia, dura, senza sconti, scoccano scintille, poi viene la pace più bella del mondo. Il terzo tempo, insomma - e pazienza se in questi casi, dietro le sbarre - è strettamente analcolico. Fra gli psicologi che lavorano a Rebibbia ce n’è uno che, in fatto di mete e placcaggi, gioca con Libera: così, un paio di mesi fa, è nata l’idea di questo match bel carcere capitolino per intrecciare per un giorno (ma ci sarà la rivincita) il progetto di Libera, nato ormai quattro anni fa con gli allenamenti che si tengono al Tre Fontane, con il progetto Carceri con il quale la Federazione italiana rugby ha portato la palla ovale, le sue regole, le sue risate, i suoi lividi e le sue storie inossidabili di amicizia già in 18 istituti carcerari con molti altri (anche femminili) che sono attesa di cominciare. Squadre come la Drola di Torino e la Giallo Dozza di Torino partecipano anche a campionati federali (C2, il più basso, va da sé) con la particolarità che tutte le altre squadre accettano di giocare in trasferta entrambi i match con i detenuti. E se i benefici, grazie a queste mete - per nulla sporche e per nulla ultime - sono enormi per i carcerati, diventano persino siderali per le centinaia, ormai migliaia di giocatori “in libertà” che una volta l’anno scoprono la realtà degli istituti di pena. Scoprono che cosa significhi sentire il sinistro e secco clic clac delle porte che più volte, nei corridoi che portano al campo, si aprono davanti a loro per richiudersi alle loro spalle. Che vedono gli occhi dei detenuti dagli sportellini delle porte blindate; che si separano per due ore dai cellulari; che dividono, alla fine della partita, il rancio con gli avversari; che incrociano gli sguardi con le mogli e i figli dei detenuti in attesa di entrare per la visita mensile. Il progetto Carceri della Fir è una formidabile iniziativa educativa per chi sta fuori, altroché. Come sanno bene gli operatori quali Giovanni Zavaroni al quale sono affidati i rugbisti di Rebibbia con l’aiuto di altri tecnici volontari dei Bisonti. Ecco, niente telefonini: della partita di questa mattina non c’è nemmeno una foto perché per scattare foto in carcere servono permessi che, con tutta la buona volontà, non si è riusciti ad avere in tempo. “Ma è lo stesso, ci siamo divertiti tantissimo - dice Germana De Angelis, presidente dei Bisonti, che ogni domenica scendono in campo anche in C2 sui campi un tempo del Cus Roma - per non dire dell’emozione sui visi dei ragazzi di Libera mentre si avventuravano nel mondo di Rebibbia. Chi entra per la prima volta in un carcere, senza essere obbligato a farlo, vive un’esperienza indimenticabile, che fa riflettere per sempre, che ti fa anche apprezzare con più amore attenzione ciò che vivi fuori”. Stante lo scenario di gioco (sezione G9, il campetto ristretto, prato solo nella fantasia dei giocatori, ché quello regolamentare ed erboso esterno ai blocchi richiede lunghe procedure) e la quarantina di giocatori (una ventina per parte) si è deciso di fare quattro tempi a touch-rugby e un ultimo quarto d’ora di rugby vero (contatto): mischie che sbuffano e spingono, placcaggi alle caviglie, collisioni, ruck (raggruppamento con la palla a terra), maul (raggruppamento con la palla in mano), touche (rimesse laterali) con “ascensore” (due giocatori che ne sollevano un terzo). I Bisonti, rodati da tre anni ormai di allenamenti, hanno sempre vinto, ma si sapeva. “È inutile, i giocatori, da una parte e dall’altra - continua Germana De Angelis - non vedevano l’ora di giocare a rugby vero, quello che ti appassionata di più. C’è stata la massima correttezza in ogni frangente e anche i ragazzi di Libera, non abituati al campionato, se la sono cavata molto bene. Vogliono tutti ripetere l’esperienza. Avevamo solo un paio d’ore, perché poi il campetto serve per la passeggiata di tutti i detenuti, ma siamo riusciti anche a infilarci il terzo tempo. E ci ha fatto piacere vedere ancora una volta il sostegno della direzione di Rebibbia a queste iniziative: a bordocampo c’erano i vicedirettori Fazioli e Grasselli e registriamo sempre la piena disponibilità dell’amministrazione carceraria e della polizia penitenziaria”. Roma. La “calza” di Isola Solidale e So. Spe per i detenuti d Regina Coeli acistampa.com, 5 gennaio 2020 Nel giorno dell’Epifania ogni cella della Casa Circondariale di via della Lungara, a Roma, riceverà una calza della Befana. Isola Solidale e So.Spe. insieme per far festeggiare l’Epifania ai detenuti di Regina Coeli. Lunedì 6 gennaio, infatti, ogni cella della Casa Circondariale di via della Lungara, a Roma, riceverà una calza della Befana contenente dolci, caramelle, cioccolata, biscotti e altri beni alimentari. Le calze sono state preparate presso la sede della So.Spe, dai volontari delle due associazioni. All’acquisto dei prodotti hanno contribuito anche alcuni detenuti ospiti presso l’Isola Solidale. L’Isola Solidale, infatti, è una struttura che da oltre 50 anni accoglie a Roma detenuti ed ex detenuti grazie alle leggi 266/91, 460/97 e 328/2000. L’Associazione So.Spe. (Solidarietà e Speranza) opera invece a favore di ragazze madri, bambini e adolescenti e si impegna nel sostegno e nel recupero di persone vittime di violenze e povertà, detenuti e famiglie disagiate. “Per chi si ritrova a vivere l’esperienza del carcere - commenta Alessandro Pinna, presidente dell’Isola Solidale - il periodo delle festività può essere ancora più duro da affrontare rispetto agli altri giorni dell’anno. Con questo gesto che facciamo quest’anno vogliamo portare un pensiero e un po’ di felicità a queste persone, sperando che possano avere al più presto l’opportunità di riprendere in mano la propria vita”. “Da oltre 30 anni - aggiunge Suor Paola D’Auria, fondatrice della So.Spe. - la nostra associazione confeziona per la festa del 6 gennaio le calze per i detenuti di Regina Coeli. Quest’anno abbiamo scelto di farci aiutare anche dall’Isola Solidale, perché il nostro obiettivo comune è quello di aiutare le persone detenute a sentirsi ancora accettate e parte della società, perciò facciamo in modo che la mattina della Befana possano trovare questa sorpresa, sperando di allietare la loro giornata”. “L’avvocato degli innocenti”, di John Grisham recensione di Marco Bruna La Lettura - Corriere della Sera, 5 gennaio 2020 Da più di 30 anni in carcere per omicidio (forse innocente). La storia vera che ha ispirato il nuovo romanzo di John Grisham. Alla vicenda di Joe Bryan è ispirato il nuovo legal thriller di John Grisham, “L’avvocato degli innocenti”, uscito da poco per Mondadori. Il protagonista del romanzo è l’avvocato Cullen Post, un prete episcopale deluso dal sistema giudiziario americano. Insieme alla sua associazione no profit Guardian Ministries, Post si occupa di riaprire casi in cui il condannato potrebbe essere innocente. Con tenacia e dedizione, per esempio, Post riesce a fare scagionare Duke Russell, destinato alla pena di morte in Alabama per lo stupro e l’omicidio di Emily Broone, e a fare arrestare il vero colpevole, Mark Carter. Il 15 ottobre 1985 Mickey Bryan, 44 anni, insegnante di Clifton, Texas, venne trovata uccisa con quattro colpi di pistola; il 23 ottobre suo marito Joe fu arrestato con l’accusa di omicidio. Oggi ha 79 anni ed è in carcere da 34. Una torcia macchiata di sangue e un detective “esperto” di tracce ematiche sono serviti all’accusa per ottenere una condanna in una vicenda che ha molti lati oscuri. Una torcia macchiata di sangue e un detective “esperto” di tracce ematiche sono elementi chiave anche del legal thriller. Che però in questo caso... Joe e Mickey Bryan si sentirono per l’ultima volta al telefono lunedì 14 ottobre 1985, poco dopo le nove di sera. Joe chiamò la moglie dalla sua stanza d’albergo di Austin, dove si trovava per partecipare all’annuale conferenza per i presidi delle scuole superiori del Texas. Mickey, 44 anni, era di buon umore, stava correggendo i compiti dei suoi alunni nella loro casa di Clifton, a quasi due ore di macchina da Austin. Joe stava guardando i Country Music Awards alla tv. Parlarono del temporale che era scoppiato quella sera. Joe e Mickey erano sposati da sedici anni. Non avevano figli. Spesso capitava di incontrarli mano nella mano durante una delle loro lunghe passeggiate in città. Dai tabulati telefonici analizzati dalla polizia risulta che la chiamata durò fino alle 21.15. Mickey insegnava ai bambini di quarta della scuola elementare di Clifton, 3.442 abitanti. La mattina del 15 ottobre, l’aria ancora umida dopo la pioggia, Mickey era in ritardo. Di solito la sua collega Susan Kleine, docente di quinta, la trovava già seduta alla cattedra alle 7.15. Alle 8, non vedendola arrivare, Susan diede l’allarme al preside, Rex Daniels, che chiamò prima la casa dei Bryan e poi i genitori di Mickey, Otis e Vera Blue. Mickey era stata a casa loro il pomeriggio precedente. Se non fosse stata bene, avrebbe avvisato i superiori. A Clifton non succedeva mai niente di nuovo. Daniels fu il primo a precipitarsi dai Bryan, in Avenue O, alla periferia sud della cittadina. Poco dopo arrivarono i genitori di Mickey. La macchina della donna, una Oldsmobile marrone, era parcheggiata dentro il garage aperto. I quotidiani del 15 ottobre, il “Waco Tribune-Herald” e il “Dallas Morning News”, giacevano nel vialetto d’ingresso. Entrarono in casa tutti insieme e si separarono. Qualche istante dopo si sentirono le urla di Vera dalla camera da letto: Mickey era distesa sul materasso, in una pozza di sangue. La sua camicia da notte era tirata su fino alla vita. La vestaglia era ancora piegata ai piedi del letto. La sveglia, puntata alle sei, non era stata disattivata. Otto giorni dopo, il 23 ottobre 1985, suo marito Joe Bryan venne arrestato con l’accusa di omicidio. Oggi ha 79 anni ed è in carcere da 34. Alla vicenda di Joe Bryan è ispirato il nuovo legal thriller di John Grisham, “L’avvocato degli innocenti”, uscito da poco per Mondadori. Il protagonista del romanzo è l’avvocato Cullen Post, un prete episcopale deluso dal sistema giudiziario americano. Insieme alla sua associazione no profit Guardian Ministries, Post si occupa di riaprire casi in cui il condannato potrebbe essere innocente. Con tenacia e dedizione, per esempio, Post riesce a fare scagionare Duke Russell, destinato alla pena di morte in Alabama per lo stupro e l’omicidio di Emily Broone, e a fare arrestare il vero colpevole, Mark Carter. Il caso al centro del libro è quello dell’ergastolano Quincy Miller, in carcere da oltre vent’anni per l’assassinio di Keith Russo, l’avvocato che aveva seguito la sua causa di divorzio. Russo, 37 anni, venne ucciso il 16 febbraio 1988 nel suo ufficio con due colpi di fucile calibro 12 alla testa. Quincy Miller è “un nero in una cittadina di bianchi” - l’immaginaria Seabrook, undicimila abitanti, sorta in mezzo alle paludi della Florida settentrionale. Miller, 51 anni, avrebbe sparato al suo avvocato perché non era contento di come lo ha assistito. La sua incriminazione serve in realtà a coprire un traffico di droga che ha il benestare dello sceriffo Pfitzner. Quincy Miller, come Joe Bryan, è stato incastrato dal ritrovamento di una torcia elettrica nel bagagliaio dell’auto. La perizia dell’accusa ha stabilito che le macchioline sulla lente provenivano dal sangue della vittima. L’assassino usò la torcia per farsi luce durante l’omicidio. L’esperto in tracce ematiche che testimoniò contro Miller è l’ex ispettore della squadra omicidi di Denver, Paul Norwood: “Nel 1987, un anno prima del processo a Quincy, Norwood partecipò a un seminario di ventiquattro ore sull’analisi delle macchie di sangue organizzato da una compagnia privata del Kentucky”. La sola preparazione scientifica di Paul Norwood è quel corso. Ha una bella parlantina e riesce a convincere i giurati. I tribunali americani erano pieni di consulenti come lui negli Anni 80, prima dell’avvento del test del Dna. I vicini di casa di Joe e Mickey Bryan, interrogati dalla polizia, non notarono alcun movimento sospetto la sera in cui Mickey fu uccisa. Non vennero ritrovate impronte digitali sospette - a parte quella del palmo di una mano sulla testiera del letto, di cui non fu mai chiarita l’appartenenza - e non c’erano orme insanguinate, un dettaglio che Grisham ha inserito anche nel romanzo. Mickey venne uccisa con quattro colpi d’arma da fuoco: uno all’addome e tre alla testa. Non c’erano segni di abuso sessuale né indizi che facevano pensare all’intrusione di ladri. I Bryan possedevano una pistola calibro 375, sparita dopo il delitto. Erano scomparsi anche i mille dollari che la coppia teneva in una scatola di metallo in camera. Joe disse alla polizia di averli ritrovati in macchina, una Mercury nera, qualche giorno dopo il delitto e che si era scordato di averli messi lì. Il caso fu affidato al Texas Ranger Joe Wilie, conosciuto per la poca pazienza. Per Clifton era il secondo omicidio in poco tempo: quattro mesi prima era stato ritrovato, in un boschetto di cedri, il corpo della diciassettenne Judy Whitley, stuprata e strangolata, la bocca coperta da nastro adesivo. La paura di un serial killer spinse gli inquirenti ad affrettare le indagini. Quando il fratello di Mickey, Charlie Blue, ritrovò la torcia nel bagagliaio di Joe Bryan, che gli aveva prestato l’auto per qualche giorno, avvisò subito il ranger Wilie. Le analisi di laboratorio certificarono la presenza sulla lente di sangue umano di tipo 0, come quello di Mickey ma anche di quasi metà della popolazione americana. Come nel romanzo di Grisham, anche la condanna di Joe Bryan passò dalla perizia di un detective, Robert Thorman. Thorman seguì, quattro mesi prima dell’omicidio, un corso di 40 ore sull’analisi delle tracce ematiche e venne chiamato a testimoniare come esperto. Fu lui a stabilire, nel processo di otto giorni cominciato nel marzo 1986 a Meridian, Texas, che la torcia era stata usata sul luogo del delitto e il sangue schizzato in seguito ai colpi sparati dall’assassino. Per l’accusa, capitanata dal procuratore distrettuale Andy McMullen e dal pubblico ministero Gary Lewellen, era la prova che Joe Bryan aveva ucciso la moglie. Joe avrebbe guidato da Austin a Clifton nella notte tra il 14 e il 15 ottobre per uccidere Mickey. Poi sarebbe tornato nel suo albergo a due ore di macchina. Joe venne condannato a 99 anni di carcere nel penitenziario di Huntsville. L’esperto Robert Thorman, come il Paul Norwood del romanzo di Grisham, arrivò alla sua conclusione senza analizzare la torcia in quanto prova fisica ma solo attraverso fotografie ingrandite del corpo del reato. Tra le prove che non vennero prese in considerazione, e che avrebbero potuto aprire nuove piste nelle indagini, c’è il mozzicone di sigaretta ritrovato dalla polizia nella cucina dei Bryan. Né Joe né Mickey fumavano. Il Texas Ranger Joe Wilie disse di averlo portato dentro casa dalla strada dopo che si era attaccato alla suola delle sue scarpe. Il colpo di scena sarebbe arrivato nei primi anni Novanta. Leon Smith, direttore del “Clifton Record”, decise di tornare sul caso e scoprì, dagli interrogatori ufficiali, che il sospettato più accreditato per l’omicidio della diciassettenne Judy Whitley era un poliziotto di Clifton, Dennis Dunlap, che diede le dimissioni subito dopo il ritrovamento del corpo. Secondo una delle sue ex mogli si vantò anche di avere una relazione con Mickey Bryan e di essere stato con lei la sera del delitto. Il suo ruolo nell’omicidio non potè mai essere verificato: Dunlap si impiccò il 12 aprile 1996 nel garage della sua casa di Rosenberg, Texas. Dal 2007 Joe ha diritto alla libertà vigilata, che gli è stata negata già sette volte, nonostante i gravi problemi di insufficienza cardiaca. Oggi è rappresentato da Walter Reaves e Jessica Freud, che continuano a battersi per riaprire il caso. La battaglia di Joe Bryan non è ancora finita. Gli immigrati in Italia: che cosa dicono i numeri di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 5 gennaio 2020 Gli stranieri regolari residenti alla fine del 2018, secondo l’Istat, erano l’8,7% del totale. La Svizzera è al 25%, la Germania all’11,7. In realtà la vera emergenza è l’emigrazione. Le immagini dei primi nati dell’anno sono commoventi. I neonati, in un Paese che invecchia, sono ancora più i benvenuti. Il primo nato a Torino è stato Hadega; a Brescia Youssef; in Calabria Harshita; in Liguria Daniel; in Friuli Venezia Giulia Amar; in Sicilia Mohammed; in Puglia Iuliana. Che cos’hanno in comune questi bimbi? Sono tutti figli di immigrati. L’Italia è il loro Paese. L’Unicef ha stimato per il giorno di Capodanno la nascita in Italia di oltre mille e duecento bimbi. Speriamo siano stati di più. Comunque uno ogni 39 cinesi. Questo articolo presumo non piacerà. Forse, alla fine, nemmeno al suo autore. Perché anche chi scrive vorrebbe non vivere la contraddizione italiana di temere l’immigrazione, specie se disordinata, e, nello stesso tempo, di averne razionalmente bisogno. E, dunque, rimuove il pensiero. Una sorta di tabù inconfessabile. Uno sdoppiamento consapevole della nostra personalità di cittadini. Aperti e disponibili verso lavoratori immigrati operosi, badanti e collaboratori domestici. Insostituibili, preziosi. Gli immigrati di cui conosciamo utilità e impegno sono i benvenuti. A loro concederemmo volentieri la cittadinanza, salvo opporci fermamente alla sola idea appena il discorso si sposta sul piano generale. Ma gli altri immigrati, indistinti, sconosciuti, che vediamo nelle strade e nelle piazze, non sono i benvenuti. Al di là dei buoni sentimenti e dello spirito solidale di cui è ricco per fortuna il Paese. Scoprire di essere minoranza italiana nel vagone della metropolitana di una nostra città può suscitare un senso incontrollabile di estraneità. Normale. Lo scacciamo per buona educazione. La stragrande maggioranza degli imprenditori apprezza il lavoro degli immigrati che impiega. Sa che non potrebbe farne a meno. Ma nello stesso tempo non è raro vedere molti industriali o commercianti applaudire ai porti chiusi - che mai peraltro lo sono stati - e alla politica delle frontiere sigillate, alla Orbán. La porta serrata in faccia agli altri. Quelli che non si conoscono. Ma i propri bravi collaboratori sono lombardi, veneti, pugliesi, ormai da sempre. Il ritardo costante e la mancata programmazione del decreto flussi (ultimo nell’aprile scorso) non facilitano il reperimento di manodopera. E giustamente chi ha un’azienda, e non riesce a coprire i profili lavorativi di cui ha bisogno, ne sollecita l’allargamento delle maglie. I nostri connazionali che si lamentano, a torto, del lavoro loro sottratto mai si adatterebbero a mansioni riservate ormai solo agli immigrati. Un apprezzato imprenditore marchigiano dell’agroalimentare Giovanni Fileni (“Scegli il bio”, recita lo spot) confessa che senza immigrati avrebbe già chiuso. Sono rari i suoi conterranei che accettano di lavorare in un pollaio, seppure biologico. L’amministratore delegato della Fincantieri, Giuseppe Bono, ha spiegato che nei prossimi due o tre anni avrà bisogno di almeno 6 mila lavoratori, operai, tecnici, saldatori, ma non sa dove trovarli. In Italia il numero delle (dei) badanti, è ormai superiore al milione. Quasi il doppio dei dipendenti del sistema sanitario nazionale. Se si fermassero tutti insieme tante famiglie sarebbero alla paralisi, nella disperazione. L’Istat ha appena aggiornato i dati sulla popolazione italiana. O non li leggiamo oppure ci siamo già fatalmente rassegnati al declino. A cominciare da coloro che invocano “prima gli italiani”, che sono sempre di meno. Al primo gennaio del 2019 eravamo residenti in 60 milioni 359 mila 546. In un anno 124 mila in meno. Ma il saldo naturale (vivi e morti) è ancora peggiore. Nel 2018 era negativo per 193 mila 386 unità. I nati vivi nel 2018 (439 mila 747) sono al minimo dall’Unità d’Italia. Il tasso di fecondità è 1,32 per donna. Dovrebbe essere superiore a 2 per garantire la stabilità della popolazione. “Ultimi gli italiani”, senza volerlo. Questo è lo slogan vero. La popolazione straniera residente era pari, alla fine del 2018, sempre secondo i dati Istat, a 5 milioni 255 mila 503 unità, l’8,7 per cento del totale con un incremento di 111 mila unità, senza tenere conto ovviamente degli irregolari. La Svizzera è al 25 per cento; la Germania all’11,7. Siamo all’undicesimo posto in Europa per presenza di immigrati. Nel 2018 i nuovi permessi di soggiorno rilasciati ai cittadini non comunitari sono stati 242 mila, il 7,9 per cento in meno rispetto a un anno prima. Il sollievo di meno sbarchi, meno arrivi per la prima volta dall’Africa - di cui si è parlato tanto in questi giorni - è compensato dalla constatazione, più amara e silenziosa, che l’Italia come terra di emigrazione non sia più così tanto attrattiva. Perché non cresce. E, infatti, aumentano dell’1,9 per cento i nostri connazionali che si trasferiscono all’estero in cerca di un lavoro. In realtà sono molti di più perché le statistiche registrano solo le cancellazioni all’anagrafe. Oltre il 65 per cento dei nuovi permessi a immigrati è andato a persone con meno di 30 anni. Mentre i nostri giovani - l’emergenza emigrazione di cui non ci occupiamo - soprattutto laureati e in particolare dal Sud se ne vanno in massa. Il saldo migratorio, da anni ormai, non compensa la negatività del saldo naturale. Fa peggio di noi, in Europa, solo la Romania che è un Paese a fortissima emigrazione. Insomma, non c’è una invasione, semmai una lenta inesorabile evacuazione. Qualche riflessione in più, pacata e non strumentale, sul tema dell’immigrazione (la necessità di avere manodopera di qualità, programmando gli arrivi) e dell’emigrazione, soprattutto dei nostri giovani laureati, guardando al futuro del Paese, al suo benessere reale, sarebbe opportuna. Vivere di slogan, false percezioni e pregiudizi, è il modo migliore per invecchiare ciecamente, impoverendosi nel rancore, lasciando in eredità non solo debiti ma anche l’incapacità di capire l’evoluzione futura del Paese. Una società multietnica è inevitabile. Bisogna solo scegliere se governarla o semplicemente subirla. Le guerre lontane ci fanno compagnia di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 5 gennaio 2020 I conflitti per noi costituiscono un rumore di fondo, una suggestione spettacolare, un’espressione di circostanza, un argomento di conversazione: che dite, Trump ha fatto bene o ha fatto male? Fino a quando non si avvicinano. A Bagdad sono stato una volta sola, nel 1988. Faceva un caldo formidabile, finiva la guerra con l’Iran, Saddam Hussein sorrideva sotto i baffoni dai manifesti, per strada sparavano in aria per festeggiare e all’aeroporto insistevano per sottoporre i nuovi arrivati a un test dell’Aids. La guerra, costata almeno un milione di morti, era durata otto anni: sembrava un tempo infinito. Oggi guardo su uno schermo le immagini dalla stessa città. Le fiamme, le tracce dei missili e della morte di Qassem Soleimani. Ascolto le urla e le minacce di nuova morte; e penso quanto poco sia cambiato. Ancora sciiti e sunniti, ancora Iran e America, ancora il mondo spettatore: forse è la stessa guerra, e non è mai finita. Come tante altre. Pensate all’Afghanistan - un conflitto che dura dal 2001 - o alla guerra civile in Somalia, iniziata nel 1991. Pensate al conflitto arabo-israeliano, iniziato nel 1948 e mai chiuso. Pensate allo scontro tra israeliani e palestinesi. Nella sua forma attuale - un conflitto a bassa intensità, con fiammate improvvise - dura da trentatré anni: la prima intifada risale al 1987. Le stragi di Boko Haram in Nigeria vanno avanti dal 2009 (decine di vittime nella zona del lago Ciad, notizia di ieri). La guerra in Siria è iniziata nel 2011: sembra ieri. I due grandi conflitti mondiali del Novecento sono durati, rispettivamente, quattro e sei anni: pareva un tempo lunghissimo. Ma hanno coinvolto l’Europa e l’Italia, e ci hanno cambiato. Per questo le abbiamo comprese, nella loro complessità e nel loro orrore: erano guerre vicine. La guerra, oggi, appare distante. Immagini spaventose consumate per divertimento, video sanguinari e serie televisive farcite di violenza hanno finito per ottundere la nostra capacità di immaginazione e di spavento. Sì, siamo ottusi. Ci stiamo abituando. Se le brutte notizie si avvicinano troppo, cambiamo destinazione per il viaggio e la vacanza: ma non capiamo la condizione di milioni di essere umani; né la complessità di alcune aree del mondo. Le guerre lontane sono un rumore di fondo, una suggestione spettacolare, un’espressione di circostanza, un argomento di conversazione: che dite, Trump ha fatto bene o ha fatto male? Le guerre lontane ci fanno compagnia. Finché non si avvicinano. Allora, capiremmo. Libia. Haftar bombarda il Collegio militare: “70 morti: guerra ai turchi” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 5 gennaio 2020 Bombardamento aereo delle forze del generale Khalifa Haftar nell’operazione chiamata “Vulcano di rabbia”. La chiamata alle armi del generale Khalifa Haftar, sabato, invocava “il jihad e la mobilitazione generale” contro l’intervento militare turco. E la risposta dei suoi miliziani non s’è fatta attendere. Secondo fonti ufficiali sarebbe di 28 studenti morti e 18 feriti il bilancio - provvisorio - di un bombardamento aereo delle forze del generale sul Collegio militare di Tripoli: anche se le forze di Haftar sostengono invece di aver causato almeno 70 vittime. La minaccia dell’Italia - Sale dunque, inevitabilmente, anche la minaccia per l’Italia, sia per l’arrivo di barconi carichi di migranti, sia per la possibile offensiva fondamentalista. Un rischio tanto elevato da convincere il ministro degli Esteri Luigi Di Maio a intensificare i contatti con alleati e Unione Europea, ma soprattutto con i possibili partner in Africa e Medio Oriente. La linea è dunque tracciata: cauti nelle critiche agli Stati Uniti e a Donald Trump per l’attacco in Iran, cooperanti con i Paesi che hanno un ruolo attivo nella negoziazione con i libici. Un doppio binario che Di Maio indica chiaramente: “Se vogliamo provare a raggiungere un risultato bisogna usare anche la testa, non solo il cuore. E soprattutto non bisogna perdersi: la priorità è la Libia, soprattutto per i nostri interessi geostrategici e per la minaccia terroristica che abbiamo a poche centinaia di chilometri, col rischio di nuovi flussi incontrollati verso l’Italia”. Adesso l’obiettivo per il ministro degli Esteri è “far riacquistare all’Italia il ruolo naturale di riferimento nel Mediterraneo. Perché il dossier libico è quello più importante, la partita su cui ci giochiamo la faccia”. Sulla Siria, e ora in particolare sull’ Iraq e l’Iran, Di Maio rimane convinto che sia “necessario coinvolgere tutti gli attori”. Ma lascia intendere che quando si parla di Tripoli nel “tutti” ci sono soprattutto sia Ankara, sia Mosca. “Perché bisogna fare una triangolazione e su questo anche gli Stati Uniti concordano”, ripete, sottolineando di averne parlato con il segretario di Stato americano Mike Pompeo al ritorno dal Libano e di aver ricevuto “il massimo sostegno per la nostra azione nel Mediterraneo”. La missione di martedì in Libia - Ecco perché martedì volerà in Libia per una nuova missione e poi si sposterà al Cairo per partecipare all’incontro organizzato dal collega egiziano Same Shoukry con Grecia, Cipro e Francia. Ma già domani sera incontrerà a Roma il rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell e il collega tedesco Heiko Maas. Incontro riservato per mettere a punto una strategia comune che possa servire a mediare tra le forze in campo in Libia. Durante la visita a metà dicembre, Di Maio aveva avuto colloqui sia con il generale Haftar, sia con il premier Al Serraj in un tentativo di collaborazione che però difficilmente potrà adesso portare frutti. Anzi. Dopo l’annuncio di Erdogan sull’intervento militare e la reazione di Haftar, l’Italia dovrà giocare una nuova partita diplomatica e certamente non potrà farlo da sola. Di Maio appare però scettico sulla possibilità che un risultato possa arrivare dalla Conferenza di Berlino prevista nelle prossime settimane. “Su questo - dice - sono d’ accordo con Pompeo. Le “foto opportunity” non servono, noi dobbiamo puntare sulla missione Ue”. Hanno già annunciato la propria partecipazione francesi e britannici “e dobbiamo coinvolgere anche gli altri Paesi africani” vicini al popolo libico “ma ignorati dalla conferenza di Berlino”. Per questo subito dopo Il Cairo Di Maio andrà in Tunisia e in Algeria: “Siamo in prima linea, dobbiamo avere un ruolo attivo. Bisogna mettere da parte la propaganda”. È convinto “di dover dare il massimo perché di terreno se ne è perso fin troppo, ma come Italia dobbiamo provare a recuperare. Non ho la bacchetta magica né la verità in tasca, ma so cos’ è il sistema Paese”. Ma è consapevole che la crisi internazionale di queste ore, e quella altrettanto grave in Libia possono avere conseguenze drammatiche per il nostro Paese. Libia. Torture nei campi di detenzione: le nuove immagini choc di Paolo Lambruschi Avvenire, 5 gennaio 2020 Donna appesa a testa in giù e presa a bastonate: le cronache dell’orrore dal lager di Bani Walid, in Libia. Sei morti in due mesi. Spuntano i nomi degli schiavisti: “Ci stuprano e ci uccidono” Una giovane eritrea appesa a testa in giù urla mentre viene bastonata ripetutamente nella “black room”, la sala delle torture presente nei centri di detenzione in Libia. Questa è una sequenza di frame del video choc spedito dai suoi aguzzini ai familiari della donna presa a bastonate allo scopo di estorcere soldi per salvare la figlia. Una giovane eritrea appesa a testa in giù urla mentre viene bastonata ripetutamente nella “black room”, la sala delle torture presente in molti centri libici per migranti. Il video choc - di cui riportiamo solo alcuni fermo immagine - è stato spedito via smartphone ai familiari della sventurata che devono trovare i soldi per riscattarla e salvarle la vita. È quello che accade a Bani Walid, centro di detenzione informale, in mano alle milizie libiche. Ma anche nei centri ufficiali di detenzione, dove i detenuti sono sotto la “protezione” delle autorità di Tripoli pagata dall’Ue e dall’Italia: la situazione sta precipitando con cibo scarso, nessuna assistenza medica, corruzione. In Libia l’Unhcr ha registrato 40mila rifugiati e richiedenti asilo, 6mila dei quali sono rinchiusi nel sistema formato dai 12 centri di detenzione ufficiali, il resto in centri come Bani Walid o in strada. In tutto, stima il “Global detention project”, vi sarebbero 33 galere. Vi sono anche detenuti soprattutto africani non registrati la cui stima è impossibile. La vita della ragazza del Corno d’Africa appesa, lo abbiamo scritto sette giorni fa, vale 12.500 dollari. Ma nessuno interviene e continuano le cronache dell’orrore da Bani Walid, unanimemente considerato il più crudele luogo di tortura della Libia. Un altro detenuto eritreo è morto qui negli ultimi giorni per le torture inferte con bastone, coltello e scariche elettriche perché non poteva pagare. In tutto fanno sei morti in due mesi. Stavolta non siamo riusciti a conoscere le sue generalità e a dargli almeno dignità nella morte. Quando si apre la connessione con l’inferno vicino a noi, arrivano sullo smartphone con il ronzio di un messaggio foto disumane e disperate richieste di aiuto, parole di angoscia e terrore che in Italia e nella Ue abbiamo ignorato girando la testa o incolpando addirittura le vittime. “Mangiamo un pane al giorno e uno alla sera, beviamo un bicchiere d’acqua sporca a testa. Non ci sono bagni”, scrive uno di loro in un inglese stentato. “Fate in fretta, aiutateci, siamo allo stremo”, prosegue. Il gruppo dei 66 prigionieri eritrei che da oltre due mesi è nelle mani dei trafficanti libici si è ridotto a 60 persone stipate nel gruppo di capannoni che formano il mega centro di detenzione in campagna nel quartiere di Tasni al Harbi, alla periferia della città della tribù dei Warfalla, situata nel distretto di Misurata, circa 150 chilometri a sud-est di Tripoli. Lager di proprietà dei trafficanti, inaccessibile all’Unhcr in un crocevia delle rotte migratorie da sud (Sebha) ed est (Kufra) per raggiungere la costa, dove quasi tutti i migranti in Libia si sono fermati e hanno pagato un riscatto per imbarcarsi. Lo conferma lo studio sulla politica economica dei centri di detenzione in Libia commissionato dall’Ue e condotto da “Global Initiative against transnational organized crime” con l’unico mezzo per ora disponibile, le testimonianze dei migranti arrivati in Europa. I sequestratori, ci hanno più volte confermato i rifugiati di Eritrea democratica contattati per primi dai connazionali prigionieri, li hanno comperati dal trafficante eritreo Abuselam “Ferensawi”, il francese, uno dei maggiori mercanti di carne umana in Libia oggi sparito probabilmente in Qatar per godersi i proventi dei suoi crimini. Bani Walid, in base alle testimonianze raccolte anche dall’avvocato italiano stanziato a Londra Giulia Tranchina, è un grande serbatoio di carne umana proveniente da ogni parte dell’Africa, dove i prigionieri vengono separati per nazionalità. Il prezzo del riscatto varia per provenienza e sta salendo in vista del conflitto. Gli africani del Corno valgono di più per i trafficanti perché somali ed eritrei hanno spesso parenti in occidente che sentono molto i vincoli familiari e pagano. Tre mesi fa, i prigionieri eritrei valevano 10mila dollari, oggi 2.500 dollari in più perché alla borsa della morte la quotazione di chi fugge e viene catturato o di chi prolunga la permanenza per insolvenza e viene più volte rivenduto, sale. Il pagamento va effettuato via money transfer in Sudan o in Egitto. Dunque quello che accade in questo bazar di esseri umani è noto alle autorità libiche, ai governi europei e all’Unhcr. Ma nessuno può o vuole fare niente. Secondo le testimonianze di alcuni prigionieri addirittura i poliziotti libici in divisa entrano in alcune costruzioni a comprare detenuti africani per farli lavorare nei campi o nei cantieri come schiavi. “Le otto ragazze che sono con noi - prosegue il messaggio inviato dall’inferno da uno dei 60 prigionieri eritrei - vengono picchiate e violentate. Noi non usciamo per lavorare. I carcerieri sono tre e sono libici. Il capo si chiama Hamza, l’altro si chiama Ashetaol e del terzo conosciamo solo il soprannome: Satana”. Da altre testimonianze risulta che il boia sia in realtà egiziano e abbia anche un altro nome, Abdellah. Avrebbe assassinato molti detenuti. Ma anche nei centri di detenzione pubblici in Libia, la situazione resta perlomeno difficile. Persino nel centro Gdf di Tripoli dell’Acnur per i migranti in fase di ricollocamento gestito dal Ministero dell’Interno libico e dal partner LibAid dove i migranti lasciati liberi da altri centri per le strade della capitale libica a dicembre hanno provato invano a chiedere cibo e rifugio. Il 31 dicembre l’Associated Press ha denunciato con un’inchiesta che almeno sette milioni di euro stanziati dall’Ue per la sicurezza, sono stati intascati dal capo di una milizia e vice direttore del dipartimento libico per il contrasto all’immigrazione. Si tratta di Mohammed Kachlaf, boss del famigerato Abd Al-Rahman Al-Milad detto Bija, che avrebbe accompagnato in Italia nel viaggio documentato da Nello Scavo su Avvenire. È finito sulla lista nera dei trafficanti del consiglio di sicurezza Onu che in effetti gli ha congelato i conti. Ma non è servito a nulla. L’agenzia ha scoperto che metà dei dipendenti di LibAid sono prestanome a libro paga delle milizie e dei 50 dinari (35 dollari) al giorno stanziati dall’Unhcr per forniture di cibo a ciascun migrante, ne venivano spesi solamente 2 dinari mentre i pasti cucinati venivano redistribuiti tra le guardie o immessi nel mercato nero. Secondo l’inchiesta i danari inoltre venivano erogati a società di subappalto libiche gestite dai miliziani con conti correnti in Tunisia, dove venivano cambiati in valuta locale e riciclati. Una email interna dell’agenzia delle Nazioni Unite rivela come tutti ne fossero al corrente, ma non potessero intervenire. L’Acnur ha detto di aver eliminato dal primo gennaio il sistema dei subappalti. Dietro le sbarre delle prigioni turche di Roberto Saviano L’Espresso, 5 gennaio 2020 Erdogan ha messo in galera migliaia di persone colpevoli solamente di criticarlo. La testimonianza dell’artista curda Zehra Dogan. Quando Enes Kanter, il cestista turco dei Boston Celtics, si è schierato a favore della causa curda contro l’aggressione militare turca, la domanda che gli veniva posta più di frequente era questa: “Ma perché prendi posizione, tu che sei una star del basket in Usa e potresti vivere una vita tranquilla?”. Kanter ha sempre risposto che per lui era impossibile tacere perché nelle prigioni turche ci sono migliaia di detenuti innocenti, la cui unica colpa è aver criticato il governo di Erdogan. Allo stesso modo, quando lo scrittore e giornalista turco Ahmet Altan è stato scarcerato - solo per pochi giorni - dall’ingiusta detenzione cui è costretto dal 2016, ha detto di non riuscire a gioire pienamente perché il suo pensiero andava alle migliaia di persone ingiustamente detenute. Dalle parole di Kanter e di Altan è evidente che bisogna raccontare cosa accade nelle prigioni turche, che bisogna spiegare chi è detenuto e perché. Zehra Dogan è un’artista curda con cittadinanza turca, condannata a 2 anni, 9 mesi e 22 giorni di prigione per un disegno che rappresenta Nusaybin, città resistente a Sud-Est della Turchia, abitata prevalentemente da curdi e teatro di una terribile strage di curdi già negli anni 90. Nel marzo del 2013, dopo decenni di conflitto, era iniziato un processo di pace tra il governo turco e il Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), ma le speranze sono durate poco: nel 2015 ricominciano gli scontri e Nusaybin è di nuovo sotto l’assedio dei militari dell’esercito di Erdogan. Ai giornalisti è impedito l’accesso alla città, ma Zehra Dogan ci va lo stesso perché sa che con i suoi disegni può testimoniare ciò che sta succedendo e raccontarlo al mondo. A Nusaybin c’è un coprifuoco perenne e Zehra, come tutti, è costretta a vivere rifugiata in casa. Per far arrivare i suoi disegni fuori da quell’inferno, li scannerizza e li pubblica su Twitter. Quando, il 19 luglio 2016, termina il coprifuoco, la città è irriconoscibile, ridotta in macerie sotto cui giacciono i corpi delle vittime curde, spesso giovanissime. Un report dell’Onu conterà 1.786 edifici distrutti a Nusaybin e fino a 500.000 sfollati in tutta l’area. È in quei giorni che sull’account Twitter delle polizie speciali turche, Zehra vede una foto scattata proprio a Nusaybin, accompagnata da commenti vittoriosi. Zehra decide di ridisegnarla, ribaltando il punto di vista: non più quello dei carnefici, ma quello delle vittime. I carri armati delle forze armate governative diventano enormi scorpioni che mangiano persone e i vessilli dell’esercito turco solo la rivendicazione orgogliosa della distruzione. Pochi giorni dopo, il 21 luglio 2016, Zehra viene arrestata. Nell’interrogatorio le chiedono insistentemente: “Perché disegni?”. In questa domanda non c’è solo la volontà di trovare “prove” contro una “dissidente”, ma c’è anche tutto il disprezzo nei riguardi di una donna che attraverso la scelta artistica prende posizione, difende la sua identità, ma soprattutto non nasconde o dissimula le sue idee. Zehra viene processata e condannata per “propaganda terroristica”; va in carcere per un disegno e dunque vivrà il carcere da artista per raccontare, nel modo che le riesce meglio, ciò che accade tra quelle quattro mura precluse a ogni sguardo, perché ogni detenuta è una magnifica storia di lotta, dolorosa sì, ma carica di vita. Una storia che deve essere raccontata. Stando lì, in carcere, Zehra può essere testimone altrettanto necessaria come lo era stata fuori durante l’assedio. Userà ogni tipo di materiale per dipingere: come supporto lenzuola, asciugamani, giornali; come pennelli penne di uccello e per colori cibo, cenere, capelli, sangue mestruale. Zehra Dogan è stata rilasciata il 24 febbraio 2019 e oggi vive a Londra; le sue opere vengono esposte e raccontano il dramma di un paese che non tollera la dissidenza e la punisce con la detenzione. Di più, le sue opere sono preziosissime perché raccontano uno dei luoghi meno conosciuti che esistono, anche nelle democrazie più avanzate, il carcere. Siamo lontani dalla Turchia di Erdogan, lo so, ma anche in Italia il carcere è un buco nero, sconosciuto, raccontato solo dai Radicali. È dunque con immenso piacere che ho accolto la nomina di Pietro Ioia a garante dei detenuti per il Comune di Napoli. Ioia è un ex detenuto che ha percorso una strada lunga, difficile e tormentata che lo ha portato a essere, oggi, un anello di congiunzione tra il dentro e il fuori. È di ponti che abbiamo bisogno: il tempo delle fortificazioni è finito. “Giovani, la libertà costa. Lottiamo per un altro Iran” di Federica Lavarini La Lettura - Corriere della Sera, 5 gennaio 2020 Avvocato, 72 anni, prima donna magistrato nel suo Paese, prima donna musulmana a ricevere il Nobel (per la Pace, nel 2003), vive esule a Londra. “Il regime instaurato nel 1979 è criminale e un giorno verrà processato presso il tribunale internazionale. Quello stesso Rouhani che avete accolto nel 2016 - ricordate le statue coperte? - ora è responsabile dei morti in strada” Era il 2003 quando Shirin Ebadi, a Stoccolma per ritirare il Premio Nobel per la Pace, durante il suo discorso affermava: “Negli ultimi anni, il popolo iraniano sta prendendo coscienza del proprio diritto ad avere un ruolo negli affari pubblici e, quindi, poter decidere del proprio destino. Questo si può osservare anche in altri Paesi musulmani. Tuttavia, con il pretesto che la democrazia e i diritti umani non sarebbero compatibili con gli insegnamenti dell’islam e la struttura tradizionale della società islamica, alcuni musulmani giustificano il dispotismo di molti governi degli Stati islamici. Infatti, non è così facile governare, con metodi patriarcali e paternalistici, popolazioni consapevoli dei propri diritti”. Ancora oggi, sedici anni dopo queste affermazioni, Shirin Ebadi, 72 anni, avvocato, prima donna giudice in Iran e prima donna musulmana a ricevere il Nobel, nelle sue apparizioni pubbliche è capace di trasmettere una vibrazione inquieta a noi che viviamo nelle democrazie occidentali e, con la sua raffinata dote oratoria, fare percepire come democrazia e libertà non siano affatto diritti acquisiti una volta per sempre. Shirin Ebadi ha difeso molte donne e molti uomini che in Iran hanno lottato per i diritti umani. Dal 2009 vive in esilio, a Londra. L’abbiamo incontrata all’università di Verona, invitata per una conferenza. L’Occidente è rimasto scioccato dal caso di Nasrin Sotoudeh, l’avvocata iraniana condannata nella scorsa primavera a 148 frustate e 38 anni di carcere per avere lottato a favore dei diritti umani... “Purtroppo non c’è soltanto il caso di Nasrin: in questo momento sono detenute in Iran più di cento donne per il solo fatto di avere difeso i diritti umani. Nel 2009, il Parlamento italiano ha insignito del premio Alexander Langer una di loro, Narges Mohammadi. Sono anni che lei è in carcere: prima ha scontato sei anni, poi è stata rilasciata e poi di nuovo condannata ad altri 16 anni. È molto malata e non le viene riconosciuto il diritto di essere curata. È madre di due gemelle e suo marito, durante il regime attuale, è stato in carcere 14 anni. Nell’Organizzazione non governativa di cui facevo parte in Iran, Narges era una mia collega: non è un’avvocata, ma un ingegnere attivista per i diritti umani. Io chiedo al Parlamento italiano, che ha premiato Narges, di fare pressione sul governo iraniano per permettere a questa donna di andare in ospedale ed essere curata”. Il popolo iraniano da anni lotta per la libertà: lo abbiamo potuto vedere clamorosamente nelle settimane scorse e ancora nei giorni scorsi. Perché non riesce a conquistarla? “Perché le reazioni del governo sono molto violente e il popolo non vuole armarsi, altrimenti diventerebbe una guerra civile tra fratelli. Inoltre, dobbiamo tenere presente che molti governi internazionali sostengono questo regime. Ricordate, voi italiani, quando, nel 2016, Rouhani è venuto in Italia? Ricordate come avete ricoperto le statue, quattro anni fa, per non mancargli di rispetto? Quello stesso presidente, ora, è responsabile dei morti provocati dalle violente repressioni delle proteste in strada”. Come giudica il ruolo e la politica delle Nazioni Unite in Iran e nel complesso del Medio Oriente? “Non hanno grandi poteri: non possono e non devono entrare nel Paese. È il Consiglio di Sicurezza che prende le decisioni importanti e ci sono cinque Paesi che possono mettere il veto. Dunque...”. Che cosa vogliono dirci i popoli che, dal 2011, sono scesi a protestare nelle piazze delle città più importanti del Medio Oriente e del Nord Africa nell’ambito di quella stagione che è stata (troppo presto) entusiasticamente definita delle “primavere arabe”? “Ognuno di questi Paesi è diverso dall’altro, ma tutti questi popoli stanno lottando per ottenere libertà, democrazia e giustizia. La comunità internazionale, invece di sostenere i governi dittatoriali a capo di questi Paesi, dovrebbe stare dalla parte dei popoli e difendere le istanze dei cittadini. Sono popoli che vogliono affermare i propri diritti, raccontare l’esistenza di una società civile che i regimi cercano di sopprimere. Nel racconto dei media è necessario separare quello che viene raccontato del regime iraniano da quello che è il popolo iraniano. Il regime iraniano è criminale e, un giorno, verrà processato presso il tribunale internazionale”. Qual è il ruolo degli studenti nelle proteste? “È fondamentale. Gli studenti iraniani sono molto attivi politicamente, sono consapevoli della situazione e conoscono bene il governo al potere. Purtroppo, molti di loro sono stati arrestati durante le recenti manifestazioni. La polizia voleva entrare all’università, ma gli studenti l’hanno bloccata. Il regime li ha però ingannati: i poliziotti si sono nascosti in due ambulanze e sono entrati nell’università dicendo che c ‘erano dei feriti. Quando le ambulanze sono entrate, la polizia è scesa, ha arrestato i ragazzi, li ha caricati sull’ambulanza e li portati via. Di loro non si hanno più notizie”. Quali sono state le conseguenze dei recenti oscuramenti di internet in Iran? “La situazione è peggiorata, soprattutto per gli attivisti. Il procuratore dice che sono state arrestate mille persone, ma probabilmente sono molte di più: sono tutti giovani che vogliono libertà e democrazia, che manifestano in strada perché non vedono nessun futuro per loro stessi e il loro Paese”. Vorrebbero rimanere in Iran... “Certo, tutti dovrebbero poter vivere nel proprio Paese. Tra il popolo iraniano e il regime c’è un abisso di distanza. Ci sono cinquemila anni di cultura iraniana. Sessant’anni fa, le donne iraniane hanno ottenuto il diritto di voto e poi sono state elette al Parlamento ancora prima delle donne svizzere. Il 50% dei nostri studenti sono ragazze. La maggior parte dei docenti universitari sono donne. Noi abbiamo poeti, scrittori, intellettuali molto bravi. La cultura della nostra società è molto alta. Purtroppo, nel 1979 c’è stata una rivoluzione e il regime di adesso è arrivato al potere. La cultura che il regime iraniano cerca di imporre ai cittadini iraniani non è quella del popolo iraniano”. Che relazione c’è, in Iran, tra la legge che viene applicata nelle aule di giustizia e la religione professata? “C’è una grande differenza tra la legge musulmana, il Corano, e la legge applicata nei tribunali, soggetta alle diverse interpretazioni dell’islam. L’interpretazione che dà il regime iraniano è molto arretrata, molto obsoleta: secondo le leggi iraniane - per esempio - il “valore” della vita della donna è la metà di quella di un uomo”. A che cosa ha dovuto rinunciare in questi anni e perché sta portando avanti tutto questo? “Ero un avvocato, sono stata la prima donna magistrato del mio Paese. Ho dovuto rinunciare al mio lavoro, tutti i miei averi sono stati confiscati, la mia casa; ho dovuto lasciare le Ong che ho fondato in Iran e, dal 2009, non sono più potuta tornare nella mia patria e nella città in cui amavo vivere, Teheran. Dieci mesi all’anno sono in viaggio perché la voce del popolo iraniano, che non esce dal Paese a causa della censura, possa arrivare in tutto il mondo”. Dov’è la sua famiglia? “Quella di origine è in Iran. Io ho due figlie che vivono fuori dal Paese. Con mio marito, dal momento che io non potevo tornare in Iran e lui non voleva venire a vivere all’estero, abbiamo deciso un divorzio consensuale. Questo lo racconto nel libro Finché non saremo liberi, pubblicato in Italia da Bompiani nel 2016”. Come si sente rispetto ai popoli che lottano per la libertà? “Hanno scelto questa lotta e sanno che niente si ottiene gratuitamente”. Lei ripete ai giovani: “Dovete lottare per seguire i valori in cui credete”. “Ogni cosa ha un prezzo. La libertà, la democrazia, la giustizia hanno un prezzo che ogni popolo deve pagare. Se un popolo non sarà pronto a pagare questo prezzo, non avrà mai questi diritti. Anche in Occidente, le generazioni passate hanno fatto sacrifici che hanno permesso ai giovani di oggi di stare seduti tranquilli in un’aula ad ascoltarmi. Così, noi stiamo lottando perché, un giorno, i nostri figli possano godere di diritti come quello di ascoltare, sicuri, qualcuno che sta parlando in un’aula universitaria”. Florida, da 32 anni nel braccio della morte, ma ora un detenuto lo scagiona di Riccardo Noury Corriere della Sera, 5 gennaio 2020 James Dailey, 73 anni, veterano della guerra del Vietnam, rischia di essere messo a morte nello stato americano della Florida, se il governatore Ron De Santis non interverrà direttamente. Il 30 dicembre è infatti scaduto il rinvio della data di esecuzione, prevista a novembre, e presto potrebbe esserne fissata una nuova. Dailey è stato condannato a morte 32 anni fa per l’omicidio, avvenuto nel 1985 nella contea di Pinellas, della quattordicenne Shelly Boggio. Fu un omicidio terribile: 31 coltellate, il corpo gettato in acqua e lasciato annegare. A convincere la giuria fu la testimonianza di un noto informatore seriale della polizia, Paul Skalnik, che aveva un “curriculum” di tutto riguardo: molestatore seriale, otto matrimoni alle spalle, 25 condanne per frode e una condanna a 20 anni in vista per furto aggravato. Skalnik, che in seguitò si sarebbe vantato di aver mandato in carcere 34 persone, quattro delle quali nel braccio della morte, venne rilasciato non appena dichiarò che Dailey gli aveva rivelato di aver assassinato Shelly Boggio. Per quell’omicidio fu condannato, ma all’ergastolo, anche Jack Pearcy, all’epoca co-inquilino di Dailey. Appena tre settimane fa, il 18 dicembre, Percy ha sottoscritto una dichiarazione volontaria attribuendosi ogni responsabilità e scagionando Dailey: “Quella notte stava a casa a dormire”. Come minimo, il governatore De Santis dovrebbe concedere a Dailey la possibilità che le dichiarazioni di Percy vengano esaminate approfonditamente. Il 20 per cento dei 367 annullamenti di condanne a morte nella recente storia degli Usa è dipeso da false incriminazioni fatte da informatori in cambio di benefici di pena. In Florida è accaduto ben 29 volte, più che in ogni altro stato della federazione. La droga e i clan insanguinano l’America Latina di Loris Zanatta La Lettura - Corriere della Sera, 5 gennaio 2020 L’America Latina è la regione più violenta al mondo. Dei 20 Paesi più pericolosi, 14 sono latinoamericani o caraibici. Tremendo, visto che nell’area non ci sono guerre in corso. Ci abita l’8 per cento della popolazione mondiale, ma lì muore un terzo dei morti ammazzati: 400 omicidi al giorno. Come spiegarlo? Esistono molte teorie. E tutte avvertono: non c’è “una” causa, ma tante cause che sommandosi compongono un quadro dantesco. Cause oggettive: il narcotraffico, i cartelli della droga. Controllano vasti territori e dispongono di immensi capitali. Uccidere è la loro legge. Cause istituzionali: ammazzare costa poco, in America Latina. L’impunità regna. I colpevoli pagano appena in 2 casi su 10, la metà della media mondiale, nulla in confronto ai Paesi sviluppati. Cause culturali: la pulsione machista a “farsi giustizia da sé”, il culto della “Santa Morte”. E cause circostanziali ma mortifere: il facile accesso ad armi e alcol, la corruzione delle polizie, la crescita incontrollata di immensi assembramenti urbani. Cause, insomma, ce ne sono da vendere. Ma la più gettonata è da sempre una: la diseguaglianza. L’America Latina è il continente più diseguale al mondo. E il più violento. Se uno più uno fa due, dev’esserci un nesso. È un problema di “giustizia sociale”, saltano sulla preda i consueti profeti, più bravi ad additare colpevoli che a suggerire soluzioni: è “colpa” del sistema. Che “sistema”? Del capitalismo neoliberale. Sarà vero? Che vi sia correlazione tra diseguaglianza e violenza è indubbio e provato. Che il “neoliberismo” sia causa di entrambe è teoria fallace. Perché l’una e l’altra sono piaghe che lo precedono di secoli. E perché di liberalismo, neo o non, in America Latina ve n’è ben poco. Come chiave esplicativa della propensione dei latinoamericani a farsi la pelle lascia il tempo che trova. Facciamo un esempio. Stando all’indice di Gini, il piccolo Salvador è assai meno iniquo del Cile. Il Cile, ci ha appena ricordato la stampa di mezzo mondo, è patria del “neoliberismo”, Paese tra i più diseguali al mondo. Inesatto, ma tant’è. Ebbene, in Salvador cala ogni notte il coprifuoco; guai ad avventurarsi per strada. Il Cile è uno dei Paesi meno violenti al mondo: il tasso di omicidi è di 2,7 per 100 mila abitanti. In Venezuela, dove il “neoliberismo” dicono di averlo estirpato, è di 80 su 100 mila. Un’ecatombe. Se la diseguaglianza spiega un po’ della violenza ma non la spiega tutta e nemmeno tanta, bisognerà cercare altrove. Conta la democrazia, vuole un’altra teoria. Laddove c’è democrazia, i margini per la violenza si restringono perché la legge regna: the rule of law. La democrazia ha sia effetti preventivi sia dissuasivi. Magari! L’America Latina è un continente democratico, criticano i critici, ma lungi dal diminuire la violenza è cresciuta. La teoria va cestinata. Hanno ragione. Ma solo in parte. Il fatto è che c’è democrazia e democrazia. Nei rari casi in cui non è una gettata di vernice fresca ma una pianta dalle radici profonde, la violenza è contenuta. Vale per l’Uruguay, il Paese più equo e democratico della regione; e vale, si diceva, per il Cile. Più che la democrazia, insomma, è probabile conti lo Stato di diritto. Non è questione di lana caprina. Eccoci così alle prese con lo Stato: c’è Stato di diritto in America Latina? Sì e no, dipende. C’è a intensità variabile, a seconda dei contesti. Ce n’è abbastanza nei grandi centri urbani e dove vive la popolazione più istruita e benestante. Sfuma fino a sparire a mano a mano che ci si sposta verso le periferie sociali e territoriali. Laddove, guarda caso, la violenza impera. Cosa succede in quei casi? La violenza è endemica perché lo Stato è assente, vuole la vulgata. Che come tutte le vulgate è vera a metà. È vero che lo Stato è assente in estese zone dell’America Latina. Quando non è esso stesso autore di efferate violenze. Eppure molti Paesi non si può dire siano senza Stato. Hanno al contrario Stati pachidermici, costosi, improduttivi che andrebbero snelliti e razionalizzati. Dunque? Come sempre, la storia ci viene in soccorso. Se la violenza è piaga antica, antica sarà anche la sua radice più profonda. Nella socialità e mentalità di vasti strati delle società latinoamericane rimane assai radicato un atavico retaggio corporativo. Permane assai diffusa una cultura che allo Stato antepone la “famiglia”, alla cittadinanza la tribù, alla legge l’obbedienza al clan. Tali logiche prevalgono ancora in tante parti della regione. Le famiglie, le tribù, i clan locali, per lo più dediti a traffici illegali, assorbono lo Stato, ne fanno loro strumento, dal poliziotto al giudice, dal maestro al medico. Non è del tutto vero che lo Stato, il vero Stato, sia “assente”. È che non lo lasciano entrare; o che entrando si piega alla logica tribale della socialità antica: l’opposto del rule of law. Ecco così le “famiglie” locali estorcere e uccidere. Ma eccole anche poggiare su fitte reti clientelari, ottenere lealtà e manovalanza in cambio di protezione e accesso al bottino. Il “popolo”? Vittima e complice al contempo: intrappolato in quelle reti, rende spesso culto agli aguzzini che ammazzando garantiscono l’omogeneità della tribù. È come la mafia, si dirà. Esatto. D’altronde la mafia è organizzazione criminale e sociale insieme. La violenza è per essa codice d’onore, la legalità un simulacro ostile, lo Stato un’entità nemica, lo Stato di diritto un ossimoro. Cosa c’entra la mafia con la violenza in America Latina? C’entra, c’entra. La cultura della legalità è fenomeno recente e poco diffuso al mondo. E ciò che lo spazio separa, per esempio l’Italia e l’America Latina, talvolta la storia accomuna.