Italia alla deriva, sta diventando una Repubblica penale di Biagio De Giovanni Il Riformista, 4 gennaio 2020 Mentre lo Stato di diritto si appresta a perdere i suoi pezzi pregiati, l’Italia ristagna tra alta retorica e distrazioni di massa, “più soldi nelle tasche degli italiani”, come irresponsabilmente promesso dall’ineffabile presidente del Consiglio in una manovra spezzettata, fatta di mille proroghe e sempre salvo intese. Intanto il quadro politico della maggioranza si frantuma in mille pezzi, i 5 Stelle ne perdono uno al giorno, Conte pensa a come continuare a far politica “dopo”, il Pd, come sparito, abbraccia Conte, Italia viva spiazzata da Conte, diventato il primo nemico di Salvini. Se non batte un colpo, ma serio, mi pare fuori gioco. L’opposizione, a sua volta: sparita Forza Italia, fermo e in discesa Salvini che certe volte, in assenza di ong, sembra gridare alla luna, Meloni in un fortino in moderata e lenta espansione, questo destra-centro non si sa più che cosa sia, quale sia la sua nuova identità, dopo gli scossoni dei mesi passati. L’Italia senza nocchiero, ferma nell’economia, nel vuoto di una politica pensata, storicamente determinata in relazione al mutamento dei tempi, tutto gridato però, in modo che dal caos descritto qualche voce cerchi di isolarsi e gridi a piena voce nel vuoto caotico. È la voce che sta distruggendo lo Stato di diritto, l’unica cosa seria che sta accadendo in questa Italia “altruista”, secondo alta retorica. Altruismo è pensare agli altri, ma chi pensa, per fare un esempio ora in gioco, ai condannati a vita da un processo eterno? L’obbrobrio giuridico esercitato sulla prescrizione, che vige dal primo gennaio deve essere smantellato, ma posso dire di aver scarsa fiducia nei timidi emendamenti proposti per ora? Come se l’unico tema, impossibile se isolato, fosse: proviamo, perché no?, ad accorciare i tempi dei processi e tutto va a posto, quando in Italia non c’è il “processo giusto” proclamato dalla costituzione, non c’è terzietà dell’accusa, mancano condizioni costituzionali di base, e in assenza di queste si decide di abolire una possibile fine del processo stesso. Ah, Mario Pagano, chi era costui? Un povero illuminista napoletano che ragionava sul processo penale, vissuto nel lontano Settecento, e impiccato in Piazza Mercato, rivoltati nella tomba! Tutto questo, quando in Italia, non in Europa, vige una Repubblica penale, non c’è più illecito amministrativo che non sia penale, non c’è indagato che non sia alla gogna mediatica con viva collaborazione di una parte della magistratura e di una informazione spietata, quando la vita privata va spesso sconsideratamente sotto intercettazione; quando la magistratura pretende di rifare la storia d’Italia e giudicarla in vitro. Quando in Italia, unico paese dell’Occidente democratico, una inchiesta giudiziaria, Mani pulite, annientò un intero sistema politico, e da quel vuoto ogni equilibrio è andato perduto, non è stato più possibile, dai partiti che avevano modernizzato l’Italia, un passaggio di consegne. E poi, il grido contro l’untore prima che ne siano accertate le vere e inconfutabili responsabilità, vedi il caso concessioni ad Autostrade. Il sorriso abbozzato sul volto, sempre quello, jena ridens scrissi in un blog, superfluo il nome, di chi, rivolgendosi alla parte peggiore di un paese, sui morti innocenti dice di sapere tutto, tutto sulle responsabilità, attizzando l’odio sociale, addirittura personificando, con nomi e cognomi, i sicuri colpevoli. E ciò da un posto di responsabilità politica di gran rilievo. E i Pd, scomparso, tace o flebilmente, sottovoce, farfuglia qualcosa. Invece di dirgli: così non puoi fare o dimettiti da ministro! Ecco con il nuovo anno l’augurio: che ci sia nella cultura italiana, dico cultura, nei luoghi dove questi temi possono essere affrontati, con scienza e coscienza, che ci sia in questa cultura un risveglio serio, costante e perfino un po’ gridato per farsi ascoltare oltre il frastuono che ci copre. Non aggiungo altro, è una speranza per l’anno che si apre. I pericoli in agguato con la prescrizione lunga di Raffaele Cantone Il Messaggero, 4 gennaio 2020 Dal primo gennaio nel nostro Paese è in vigore la nuova normativa sulla prescrizione che, in estrema sintesi, comporta che per tutti i reati commessi da quella data in poi, dopo la sentenza di primo grado, sia essa di condanna che di assoluzione, i termini di prescrizione restino sospesi per sempre, cioè non decorrano più. È difficile ricordare riforme recenti che abbiano dato luogo ad un dibattito caratterizzato da toni di un così forte scontro ideologico, come tra guelfi e ghibellini, con semplificazioni secondo cui da un lato vi sarebbero i giustizialisti, favorevoli alla novità, dall’altro i garantisti, assolutamente contrari. Sono stati utilizzate parole inusitatamente forti, come quando si è fatto riferimento all’ergastolo processuale o alla sicura incostituzionalità della norma o da parte opposta si è fatto intendere che con la novità le vittime saranno più tutelate ed i delinquenti non la faranno più “franca”. Sono proprio quei toni così accesi ad aver probabilmente fatto perdere l’opportunità forse di un’occasione irripetibile per discutere pacatamente di un problema serio che affligge oggettivamente la nostra macchina giudiziaria, rappresentando anche una macchia indelebile sul piano internazionale. Premetto la mia posizione da subito; l’intervento del ministro Bonafede coglie un problema reale che da sempre si era finto, per ragioni di “comodità” e di interessi di molti, di non vedere ma finisce per fornire una soluzione che rischia di avere effetti opposti. Proviamo ad andare con ordine, partendo da un dato; in Italia si prescrivono parecchie migliaia di processi e, secondo i dati forniti nel corso delle audizioni alla Camera dei deputati, più del 50 % di questi riguarda processi già avviati, con una prevalenza di prescrizioni che si verificano nella fase di appello. Credo che sia indiscutibile che soprattutto quando il processo è iniziato la prescrizione rappresenti un danno, almeno in astratto, per tutti gli attori del processo e ancor di più per la giustizia in quanto tale; una macchina complicata si è mossa; si è verificato il cd strepitus fori e cioè il danno di immagine per l’imputato, spesso sono state fatte anche spese processuali rilevanti e dal processo scaturisce una non decisione, che non consente di dire se quell’imputato era colpevole o innocente. D’altro canto, la nostra Costituzione con una sacrosanta riforma del 1999 ha sancito il diritto dell’imputato alla ragionevole durata del processo, sul presupposto altrettanto indiscusso che un processo giusto è quello che riguarda la persona per quello che è e non per quello che è stata e spesso non è nemmeno più. Il diritto alla ragionevole durata non significa però affatto, come in questi giorni si è sentito, diritto ad ottenere la prescrizione; quest’ultima è uno degli strumenti che il legislatore ha messo in campo per assicurare quel principio, ma dovrebbe essere una extrema ratio e certamente non un obiettivo o peggio ancora un diritto dell’imputato che invece ha sì il diritto a vedere celebrato un processo giusto anche in relazione ai tempi E qui si pone il punto nodale; quali saranno gli effetti della riforma? I critici evidenziano il rischio che in assenza di termini di prescrizione dopo la sentenza di primo grado, non essendoci più anche per i giudici il pericolo di dovere dichiarare l’estinzione del reato, il processo, soprattutto quando è complesso, possa essere celebrato in tempi ancora più lunghi che in passato o persino nemmeno più celebrato. I favorevoli, invece, ribattono che la mancata prospettiva di ottenere la prescrizione evita manovre dilatorie e ha al contrario effetti benefici per la durata dei processi. In base alla mia esperienza ho paura che abbiano ragione i critici; se la prescrizione dipende anche e soprattutto dall’enorme carico di lavoro e da problemi strutturali che riguardano sia le regole processuali che l’ingolfamento di alcuni uffici giudicanti, l’effetto pratico è che il carico non deflazionato dalle prescrizioni possa ancor di più bloccare la macchina giudiziaria e danneggiare proprio le vittime del reato ed il sentimento di giustizia di chi vorrebbe vedere i colpevoli condannati. Ed allora, la necessità di mettere fine alla vergogna dei numeri delle prescrizioni avrebbe richiesto preventivamente misure in grado di incidere sulle disfunzioni, non pensando ingenuamente che i problemi si risolvono da soli. Ad oggi di novità vere sul piano della velocizzazione dei processi non se ne vedono e chi non è iscritto al partito dei guelfi o dei ghibellini teme che le scorciatoie all’italiana più probabili possano portare a danni maggiori; se si abroga la legge Bonafede si tornerà come prima e di prescrizione non si parlerà forse mai più, lasciando quella macchia indelebile sul nostro processo; se quella legge verrà invece confermata così come è, nei prossimi anni si rischierà anche da parte di chi è sempre stato contrario di dover pietire amnistie o misure analoghe, per consentire un minimo di funzionalità dei processi. Viva la riforma, purché non si faccia di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 4 gennaio 2020 Ancora una volta nel nostro Paese si individua una criticità ma si evita di porvi davvero rimedio. Già un anno fa, la legge “spazza corrotti” aveva previsto il blocco definitivo della prescrizione con la sentenza di primo grado. Come stabilito, la norma è entrata in vigore il 1° gennaio 2020, ma dopo 12 mesi di “moratoria” e di sostanziale disinteresse si è scatenato ora il dibattito. Che presenta tutti i sintomi di una malattia ricorrente nel nostro Paese. Quella che porta a riconoscere in teoria l’insostenibilità di determinate situazioni per poi tenerle ostinatamente fuori del proprio raggio di azione ogni volta che si tratti di porvi concretamente rimedio. Chi non ricorda - febbraio 2015 - lo sdegno e la promessa unanimi di introdurre una nuova disciplina proprio sulla prescrizione? La Cassazione aveva annullato senza rinvio le condanne inflitte dalla magistratura di Torino in primo e secondo grado nel processo Eternit, dichiarando l’estinzione del reato di “disastro” per intervenuta prescrizione. La motivazione era che il decorso della prescrizione comincia con la consumazione del reato, che non può protrarsi oltre il momento in cui la chiusura degli stabilimenti (giugno 1986) aveva comportato la fine delle emissioni di polveri e residui della lavorazione dell’amianto. Nonostante che, dopo tale chiusura, ancora per molti anni si fosse dovuta registrare una terribile epidemia di morti e malattie causate da quelle emissioni. La sentenza della Cassazione fu rubricata sotto la voce summum jus, summa iniuriae fu tutto un fiorire di giuramenti solenni per ridurre in futuro le possibili ingiurie. Per esempio fissando il decorso della prescrizione (come in altri ordinamenti) non dalla consumazione del reato, ma dalla sua scoperta. Ma sono trascorsi cinque anni e tutto è rimasto come allora. Sul tema specifico del dibattito in atto, preliminare a ogni altra è la considerazione che in Italia si producono centinaia di migliaia di prescrizioni ogni anno. Per cui quel che ovunque funziona come mero rimedio fisiologico contro i pochi scarti che l’ingranaggio non è riuscito a concludere, da noi è diventato un fenomeno patologico. Da misura circoscritta a pochi casi limite che il troppo tempo trascorso rende non più conveniente trattare, la prescrizione si è trasformata in una voragine gigantesca che inghiotte un’enormità di processi. E invece che giustizia si ha il suo opposto: denegata giustizia, per le vittime come per i presunti responsabili. In tutti i Paesi europei (salvo la Grecia) la prescrizione si interrompe definitivamente o con il rinvio a giudizio o con la sentenza di primo grado. In Italia invece - prima della riforma del 1° gennaio - non c’era alcun blocco definitivo, ma solo sospensioni temporanee. Erano diffuse, pressanti e autorevoli le sollecitazioni affinché il nostro Paese si allineasse al resto d’Europa. Ma, di nuovo, ecco lo scarto fra la teoria e azione, perché molti di coloro che erano favorevoli al blocco definitivo, oggi invece (a fronte di un inizio di esecuzione concreta) fanno marcia indietro. Di “pentiti” se ne trovano un po’ dovunque, fra i magistrati, i giuristi, i politici e i pubblicisti (solo la classe forense era ed è rimasta ostile). E la polemica viene sempre più assumendo toni da curva ultrà, con l’impiego di slogan tipo orrore, bomba atomica, ergastolo processuale, macigno sullo stato di diritto e via salmodiando. L’argomento principale contro la nuova prescrizione è che senza una congrua accelerazione dei processi avrebbe effetti nefasti: dopo la sentenza di primo grado si aprirebbe la prospettiva di una pendenza perpetua dei processi, non essendo più previsto un termine entro cui debbano essere conclusi. Ora, è vero che alcuni processi potrebbero restare pendenti in appello per un tempo più lungo, ma il rischio è circoscritto ad alcuni casi soltanto e certamente non riguarda “tutti” i processi, come invece cercano di far credere le prèfiche che parlano di processi destinati a “durare all’infinito”. Si tratta comunque di una eventualità che potrà essere adeguatamente “governata” operando sui margini di miglioramento dell’organizzazione del lavoro in appello; fase in cui si registra il “record” di durata del processo: 749 giorni - secondo una statistica del Sole 24 Ore -quasi il 48% dei 1.586 complessivi, calcolati tenendo conto anche dei tempi di procura, tribunale e Cassazione. Tale eventualità, inoltre, sarà ampiamente bilanciata dall’azzeramento dei casi in cui, con la prescrizione, la giustizia deve riconoscere il suo fallimento, negando all’innocente l’assoluzione o regalando al colpevole l’impunità. E ciò con riferimento ai processi che sono arrivati al vaglio del tribunale, di regola quelli di maggior rilievo, per i quali appunto si pone con più intensità il problema di evitare un default dello Stato. Quanto all’accelerazione del processo, siamo alle solite. Tutti pronti a chiederla in teoria, per poi rivelarsi - in pratica - timidi, restii o di fatto contrari. In altre parole, tutti gridano di volere “più giustizia”, ma poi molti operano come se l’obiettivo fosse “meno giustizia”, quanto meno per sé e per i loro sodali. Sicché la durata interminabile dei processi è funzionale alla tutela di determinati interessi, quelli in capo ai soggetti cui il controllo di legalità gli dà l’orticaria. I “galantuomini” a prescindere, cioè le persone giudicate comunque “perbene” in base al censo o alla collocazione sociale, per le quali la “vecchia” prescrizione ha avuto un ruolo decisivo fino a determinare una grave asimmetria nel sistema. I “galantuomini” possono contare su difensori costosi e agguerriti in grado di sfruttare l’opportunità di eccezioni d’ogni tipo generosamente offerta da una procedura malandata. Per loro il processo può ridursi soprattutto ad attendere che il tempo si sostituisca al giudice. Mentre per i cittadini “comuni”, il processo - per quanto di durata biblica - riesce più spesso a concludersi, segnando vita, interessi e relazioni delle persone. La prescrizione come congegnata prima della riforma è stata dunque (ed è storia anche degli ultimi 50 anni) al centro di un sistema fondato su un doppio processo, fonte di ingiustizia e disuguaglianze che si risolve nella negazione di elementari principi di equità. Un sistema dove in realtà è la prescrizione infinita (senza stop definitivo) che fa durare all’infinito certi processi. Ciò dovrebbe preoccupare sul versante costituzionale della ragionevole durata dei processi anche coloro che si pongono questo problema per la riforma della prescrizione. Il doppio processo costituisce di per sé un ossimoro costituzionale davvero insostenibile. In ogni caso, gli effetti della nuova prescrizione si produrranno soltanto tra qualche anno. C’è tutto il tempo per modificare il processo accelerandolo. Anzi, il timore (poco consistente) di effetti nefasti dovrebbe spingere tutti a utilizzare seriamente questo tempo per interventi comunque necessari. Anche per ridurre sensibilmente il gran numero di prescrizioni che altrimenti continuerà a verificarsi in procura e in tribunale. Purché si guarisca - alla buon’ora - dalla malattia dello scarto fra mera teorizzazione e traduzione in cifra operativa di quanto serve per una moderna giustizia giusta. Gian Carlo Caselli e la prescrizione di Andrea Marcenaro Il Foglio, 4 gennaio 2020 È “un istituto che esiste in tutti i paesi democratici”, dice il monumento della giustizia italiana. Ma ne usufruiscono “più i galantuomini dei cittadini comuni”. E allora perché non innalzare i cittadini comuni al livello dei galantuomini? Gian Carlo Caselli è un monumento della giustizia italiana. E il monumento la pensa così. Pensa, il monumento, che la prescrizione sia “un istituto che esiste in tutti i Paesi democratici”, quindi che sia giusto. Che in Italia però vada abolito. Oh perdinci! Non siamo forse un Paese democratico? Certo che lo siamo, ragiona il monumento, soltanto che da noi usufruiscono della prescrizione “più i galantuomini (sic, ndr) dei cittadini comuni”. Ed è giusto questo? No che non è giusto. Per cui? Innalzare i cosiddetti cittadini comuni al livello dei cosiddetti galantuomini? Questo mai. Abbassare i cosiddetti privilegi dei cosiddetti galantuomini al livello delle verificate e quotidiane vergogne praticate dalla giustizia nei confronti dei cosiddetti cittadini comuni? Ecco una buona idea: aboliamo la prescrizione. Finalmente assunti i 251 magistrati lasciati in balia di Bonafede Il Foglio, 4 gennaio 2020 Il ministro della Giustizia ha firmato il decreto di nomina per i giudici in attesa da mesi di iniziare il tirocinio. Si conclude positivamente l’ordalia dei 251 magistrati che, seppur avendo vinto il concorso (bandito nel 2017 e concluso due anni dopo), da mesi attendevano di poter iniziare a lavorare. Il ministro della Giustizia ha infatti firmato il decreto ministeriale con cui sono stati nominati “magistrati ordinari i 251 vincitori del concorso a 320 posti indetto con decreto ministeriale del 31 maggio 2017”, ha comunicato il ministero. Ai “vincitori è stata anche assegnata la sede di destinazione per lo svolgimento del periodo di tirocinio previsto”. I vincitori del concorso avrebbero potuto iniziare il tirocinio a settembre, poiché la legge stabilisce che fra l’approvazione della graduatoria del concorso del Csm - pubblicata il 24 luglio - e il decreto di nomina devono passare venti giorni. Ma ad allungare i tempi è stata una riserva, posta dal Csm in graduatoria sul candidato Angela Di Dio. Riserva che è stata sciolta solo il 16 ottobre, quando il Csm ha pubblicato una nuova graduatoria in cui venivano ammessi tutti i 251 magistrati, compresa la Di Dio. Il ministro della Giustizia, come ha documentato sul Foglio David Allegranti, nei primi giorni di novembre avrebbe potuto firmare il decreto ministeriale per la loro nomina. Ma la firma è arrivata solo oggi. Uno dei motivi del ritardo potrebbe essere, come ha dimostrato Allegranti, la questione problematica relativa alla “reperibilità dei fondi per assumere i magistrati che hanno superato il concorso pubblico”. Fondi infine recuperati in Legge di Bilancio. “Poi lamentiamoci dei giovani che se ne vanno e di Milano che non restituisce le risorse”, scriveva Allegranti a novembre. “Il problema qui è lo stato che non mantiene le sue promesse”. Giustizia lumaca, 838 assunzioni al palo di Massimiliano Lanzotto La Città di Salerno, 4 gennaio 2020 Gli assistenti giudiziari furono ritenuti idonei al concorso del 2016 che costò 4 milioni di euro. Idonei, ma parcheggiati. Intanto i tribunali scoppiano sotto il peso dei fascicoli accumulati anche per la carenza di personale. È il caso degli assistenti giudiziari che attendono lo scorrimento della graduatoria da tre anni ed ora rischiano di veder sfumare la possibilità di entrare in organico al ministero della Giustizia dopo che il nuovo termine per l’assunzione è stato accorciato alla fine di settembre di quest’anno. Si tratta di oltre 800 unità, vincitori di concorso, bloccati dal lento “turnover” dei pensionamenti legati alla loro categoria professionale. E tra questi molti aspiranti sono residenti nella provincia di Salerno. Anche loro sono in attesa della fatidica convocazione, sperando che il tempo non passi invano. Eppure di personale ne hanno davvero tanto bisogno i tribunali italiani, a partire dal quelli della Corte di Appello di Salerno, finita negli ultimi tempi finita al centro della discussione sull’efficienza degli uffici giudiziari dopo la pubblicazione delle statistiche del quotidiano “Sole 24 Ore”, con il caso del tribunale di Vallo della Lucania, fanalino di coda in Italia soprattutto per i procedimenti civili. Salerno è maglia nera anche per i tempi delle sentenze penali di primo grado: un cittadino alle prese con la giustizia penale, in media, si ritrova a dover pazientare 635 giorni. Il doppio della media nazionale. La Corte d’Appello, invece, è la più veloce d’Italia: appena otto mesi. Nessuno riesce a far meglio della Corte presieduta da Iside Russo in tutto il territorio nazionale. “Ho incastrato io il prefetto. Denunciare lo Stato è dura ma dovevo ribellarmi” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 4 gennaio 2020 L’imprenditrice che si è rifiutata di pagare la mazzetta. “È stato più difficile che dire no alla ‘ndrangheta”. È stato un Natale terribile quello di Cinzia Falcone, la 46enne imprenditrice di Cosenza, titolare di una scuola di inglese, che ha denunciato e fatto arrestare il prefetto Paola Galeone. Dalla cerimonia di consegna di un’onorificenza alla sconcertante richiesta di mazzetta, l’incredulità, la riflessione, il consulto in famiglia e la denuncia. Nel giro di poche ore. “Sono entrata nella stanza del capo della Mobile di Cosenza e mi sono ritrovata a ripetere tutto quello che era successo davanti al questore. E poi hanno chiamato il capo della polizia, il ministro dell’Interno. E mi ripetevano: “Ma si rende conto di quello che sta dicendo?”. Era il 24 dicembre, la notte per l’ansia ho avuto un malore. Ma mi sono resa veramente conto della portata di quello che avevo fatto quando sono andata all’appuntamento-trappola con addosso quell’apparato che videoregistrava, ho consegnato i soldi segnati e sono andata via. Una telefonata con la parola d’ordine convenuta e l’hanno fermata. E finalmente è finito tutto. O forse tutto deve ancora cominciare. Perché adesso ho paura”. Signora Falcone, di cosa ha paura? Ha denunciato un esponente dello Stato, non un mafioso… “Sì lo so, ma adesso sono stremata e ho paura che questo mio gesto, del quale sono orgogliosa proprio per il profondo rispetto che ho dello Stato, mi si possa ritorcere contro. Io vivo e lavoro in una terra bellissima ma complicata come la Calabria, è già partita la macchina del fango su di me e sulla mia associazione che si occupa dell’accoglienza dei migranti e la Animed della lotta alla violenza contro donne e bambini. Ma ho anche ricevuto 4.000 messaggi di solidarietà. In Calabria c’è tanta gente onesta. Purtroppo la ‘ndrangheta, che non è più quella con il cappello nero, sa come piegarci. Prima o poi dobbiamo ribellarci. Proprio il giorno prima avevo sentito l’appello del procuratore Gratteri. Non avrei potuto agire diversamente. Avevo già detto dei no in passato ma nessuno è stato difficile come questo”. Spieghi perché… “Perché dallo Stato non te l’aspetti. Eravamo nel palazzo del governo, davanti a me avevo il ritratto del presidente Mattarella e il tricolore. E il prefetto mi chiedeva di fare una truffa e consegnarle una somma miserabile, 700 euro. Per un attimo ho pensato di non aver capito bene. E però, prima di congedarmi, la Galeone mi ha lanciato un messaggio inequivocabile. Parlando della gara per il centro di accoglienza dei migranti a cui partecipavo, mi ha detto: “C’è un documento che non va, ma non ti preoccupare, sistemiamo tutto”. Solo dopo ho scoperto che eravamo esclusi da quella gara. Lei lo sapeva, io no. L’ho appreso dopo dalla testimonianza di un funzionario. E con quel messaggio pensava di conquistare la mia complicità”. Ma che rapporti aveva lei col prefetto Galeone? Tra le tante voci che girano si dice che soffrisse di ludopatia… “Non saprei dirle, certo una richiesta simile, rischiare per una cifra così bassa... Io l’ho conosciuta un anno e mezzo fa quando si è insediata. La mia associazione è punto di riferimento per un centro di accoglienza di migranti a Camigliatello e la prefettura mi ha invitato a collaborare per il lavoro che faccio coni ragazzi contro la violenza. Ne ero lusingata. Proprio per questo mi è crollato il mondo addosso quando mi sono sentita fare quella proposta indecente e con quale disinvoltura. “Non ti preoccupare, poi ti dico come fare, ci vediamo fuori”, mi ha detto. E poi in quel bar, mentre io sudavo freddo dalla tensione, mi rassicurava pure: “Serena, serena, respira. Perché sudi?”. Io vengo da una famiglia umile, sa, ma sono stata educata al valore dell’onestà. E ho fatto quello che andava fatto. Certo, ai ragazzi nelle scuole dico sempre: non è più tempo di girarsi dall’altra parte, bisogna scegliere da che parte stare. Ma poi quando tocca a te, accidenti quanto è difficile”. La risposta degli altri pezzi dello Stato però è stata pronta. Le hanno subito creduto? “Sì, entrando in questura ho trovato lo Stato buono, mi sono subito sentita al sicuro. Mi sono fidata. Mi ascoltavano allibiti ma si sono immediatamente attivati con i riscontri: il questore Giovanna Petrocca aveva le mani tra i capelli per lo stupore, la rabbia. Poi hanno messo a punto il piano di intervento e dopo quattro giorni sono andata all’appuntamento con l’apparato di registrazione addosso e le banconote segnate”. Lei ha assistito al momento in cui la Galeone è stata fermata? “No, appena le ho dato i soldi sono uscita e sono andata in una traversa vicina. Ho dato il segnale convenuto per avvertire dell’avvenuta consegna e sono andata via”. Adesso il prefetto è ai domiciliari. Lei è nell’occhio del ciclone. Rifarebbe tutto? “Assolutamente sì. La Calabria è una terra particolare, i poteri forti non li vedi ma te li senti addosso. Negli anni ho già ricevuto tante minacce. “Chi mangia da solo muore affogato” mi mandavano a dire per il Centro di accoglienza. Sono venuti a imporre chi doveva fare le pulizie, chi doveva gestire la mensa. Ma io adesso ho voglia di credere che una ribellione è possibile. Mi dicono che altri imprenditori, dopo quello che ho fatto, si sono presentati per collaborare e raccontare altro. Mi auguro sia solo l’inizio”. No Tav. Nicoletta Dosio dal carcere: “Non voglio la grazia” di Maurizio Pagliassotti Il Manifesto, 4 gennaio 2020 La prima manifestazione nazionale No Tav in solidarietà con Nicoletta Dosio e di altri arrestati del movimento, si terrà a Torino sabato 11 gennaio. Appuntamento alle 13 in piazza Adriano, già ritrovo e punto di partenza di un imponente corteo No Tav nel 2016, quando giunsero da tutta Italia circa ventimila persone. Ma, questa volta, probabilmente si tenterà di bissare le dimensioni di massa del dicembre 2018. Proseguono nel frattempo sit-in di solidarietà in varie parti d’Italia (da Siracusa a Pescana alla stessa Torino, dove oggi questa mattina è prevista una manifestazione di Potere al popolo in piazza Castello). Si allarga anche la rete di solidarietà: la Fiom di Torino e nazionale si sono schierate al fianco di Nicoletta Dosio e del Movimento No Tav, di cui peraltro sono parte fin dagli albori: “Non vogliamo entrare nel merito della decisione del procuratore generale del Piemonte di revocare la sospensione della pena nei confronti di Nicoletta Dosio, vogliamo però far sentire la nostra vicinanza alla storica militante del movimento No Tav. Continueremo a sostenere con determinazione il movimento, a farne parte integrante, per continuare ad affermare che la democrazia, la partecipazione, il dissenso e l’inclusione sono valori portanti della nostra Costituzione, che vanno applicati costantemente nella realtà della vita delle persone”. Intanto trova spazio il dibattito sull’ipotesi di “grazia ad personam” avanzata nei giorni nei giorni scorsi, ipotesi che Nicoletta Dosio, incarcerata a Torino, ieri ha respinto chiedendo invece un’amnistia allargata: “No a richieste di grazia o a provvedimenti di clemenza che riguardino soltanto la mia persona - ha sottolineato -. Sì ad una amnistia sociale che riguardi i reati connessi ai comportamenti dettati dall’aggravamento della povertà prodotto dalla crisi economica negli ultimi anni”. Sulla stessa posizione il movimento No Tav che in una nota dichiara: “Non è questa la strada giusta, la grazia non la vuole Nicoletta, e non la chiederà per sé stessa, perché non è il fatto di risolvere la sua situazione attuale ma quella di riconoscere come in tutti questi anni procura, questura e tribunali abbiano giocato una partita politica, delegati dallo Stato. Noi vogliamo che si dica che il Tav è un’opera inutile, devastante e che tutti vengano liberati e la valle venga smilitarizzata. Non è pretendere troppo, ma il giusto. Libertà per tutti e tutte, siamo solo all’inizio di questa lotta”. Calabria. Dopo il blitz di Gratteri iniziano le scarcerazioni, ma le elezioni sono compromesse di Ilario Ammendolia Il Riformista, 4 gennaio 2020 Il Tribunale della Libertà ha revocato gli arresti domiciliari a Luigi Incarnato, già assessore regionale ai Lavori Pubblici della Regione Calabria, attuale amministratore della Sorica (l’azienda dell’acqua), coordinatore dell’aggregazione politica che sosteneva Mario Oliverio come presidente della regione. Si tratta certamente del “politico” più importante tra quanti sono stati coinvolti nel blitz “Rinascita Scott” del procuratore Gratteri. A questo punto la situazione è la seguente: una decina gli arrestati rimessi in libertà tra i provvedimenti emessi dal gip e quelli del TdL mentre tre persone sono state fatte uscire dalle carceri per i domiciliari. Si aspettano nei prossimi giorni le decisioni del Tdl per diversi altri arrestati. L’ultimo degli arrestati rimessi in libertà si chiama Palamara. Era accusato di avere estorto a uno che lavorava nella pasticceria del fratello una torta, una bottiglia di spumante e alcuni pasticcini. È ancora presto per trarre delle conclusioni ma sembra profilarsi all’orizzonte la possibilità che ad essere smontata come un “lego”, più che la Calabria per come dichiarato da Gratteri, sia l’inchiesta con 340 arresti, condotta dalla Dda di Catanzaro. A questo punto è evidente che le elezioni regionali calabresi somigliano ad una partita di tressette. Ricordiamo che il presidente Oliverio, già pesantemente colpito da una misura di origine fascista qual è l’obbligo di dimora per quattro mesi tra i monti della Sila, è stato messo fuori causa anche se il provvedimento cautelare che lo riguardava è stato poi annullato dalla Cassazione perché viziato da palese “pregiudizio”. L’on. Nicola Adamo, altro sostenitore di Oliverio, si trova “confinato” lontano dalla Calabria perché coinvolto nel blitz. Ovviamente su ogni politico coinvolto ognuno di noi è libero di esprimere il giudizio che più ritiene opportuno: l’anomalia sta nel fatto che non sia la “politica” a togliere dalla scena personaggi che potrebbero essere inadeguati al loro ruolo bensì le procure e prima ancora che sia stato celebrato un regolare processo. E non c’è alcun dubbio che la procura di Catanzaro abbia giocato un ruolo di primo piano nelle imminenti elezioni regionali. Anche perché opera alacremente nell’ombra la figura del “suggeritore occulto” che si fa portavoce degli umori delle procure e che mette veti su candidati vittime della malagiustizia anche se completamente scagionati da ogni accusa dai tribunali che li hanno giudicati. Una specie di invisibile segno di Caino impresso sulla fronte di ogni indiziato e che fa prendere corpo alla tesi di Davigo secondo cui una persona assolta altro non è che un colpevole che l’ha fatta franca. Venezia. Tenta il suicidio la Vigilia, ci riesce a Santo Stefano di Alberto Zorzi Corriere del Veneto, 4 gennaio 2020 La triste storia di un detenuto del carcere di Venezia. Il garante. “Struttura sovraffollata”. Ci aveva già provato la vigilia di Natale, tagliandosi le vene, ma era stato salvato in extremis grazie all’intervento degli agenti della Polizia penitenziaria, avvisati dai compagni di cella che se ne erano accorti. Ma questo non gli ha impedito di provarci una seconda volta, un paio di giorni dopo: e questa volta - purtroppo - con successo. Un po’ per una profonda depressione, un po’ per le liti con altri detenuti nordafricani, che l’avrebbero anche picchiato. Per questo, dopo che lo aveva chiesto con insistenza anche per potersi ricongiungere con alcuni amici, un detenuto di 33 anni di origine colombiana ma residente da anni a Marghera, il giorno di Natale era stato trasferito dal braccio sinistro a quello destro del carcere di Santa Maria Maggiore. Dopo che era stato monitorato con attenzione tutto il giorno, di sera un agente si è però accorto che era chiuso in bagno da troppo tempo. Ha chiamato i colleghi e quando sono entrati l’hanno trovato impiccato con i lacci delle scarpe. Una tragedia che, come ha ricordato ieri il Garante nazionale per i detenuti Mauro Palma, ha portato il numero dei suicidi nelle carceri italiane a quota 53 in tutto il 2019. E la procura di Venezia, con il pm di turno Elisabetta Spigarelli, ha disposto l’autopsia per escludere qualsiasi tipo di “giallo”. Il giovane era in carcere per droga e pare che fosse egli stesso tossicodipendente. Era stato arrestato alcuni mesi fa ed era ancora in attesa di giudizio. Inizialmente era stato molto attivo, frequentando la biblioteca del carcere, dove si era procurato libri e riviste, e molti lo ricordano come un bravissimo disegnatore. Ma secondo le testimonianze di chi gli aveva parlato di recente, era divenuto triste perché era nato proprio il giorno di Natale e non sopportava l’idea di trascorrerlo in cella, oltre ai problemi con gli altri compagni. Dopo l’episodio del 24 dicembre erano stati informati i medici, ma non si è ritenuto necessario di fargli effettuare una visita, anche psichiatrica. E pur essendo controllato, è riuscito a beffare tutti con dei lacci delle scarpe che forse non avrebbe dovuto avere, visto il suo stato di malessere. La tragedia rilancia il tema della situazione critica del carcere veneziano, nonostante non si siano più toccati gli oltre 350 detenuti di qualche anno fa. “Ma a dicembre erano 267 - dice il garante provinciale dei detenuti Sergio Steffenoni - il problema è soprattutto quello dei servizi: di recente ho scritto al tribunale di Sorveglianza e al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per segnalare che gli educatori sono passati da 3 a uno e mezzo, dopo il pensionamento di uno di loro. Così non si riescono a dare risposte e poi, se tutte le carceri sono affollate, un detenuto in difficoltà non può nemmeno essere trasferito”. Detenuto si toglie la vita in carcere a Venezia, di Eugenio Pendolini (La Nuova Venezia) Santa Maria Maggiore, a compiere il gesto estremo un 33 enne senza fissa dimora arrestato per furto. La Procura dispone l’autopsia. Ha deciso di usare le lenzuola per compiere quel gesto estremo, lontano dagli occhi di chi lo aveva in sorveglianza, che non gli ha lasciato scampo. È stato trovato così, con un cappio intorno al collo, un detenuto all’interno del carcere di Santa Maria maggiore, a Venezia. I fatti risalgono al 29 dicembre, ma sono stati resi noti soltanto ieri da Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà, durante la trasmissione di Radio Radicale condotta dall’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini. A decidere di farla finita è stato un giovane uomo di 33 anni di origini straniere, arrestato nei mesi scorsi per furto aggravato perché compiuto in un luogo pubblico. Senza fissa dimora, l’uomo era ancora in attesa di giudizio e viene descritto come una persona instabile, da chi ci ha avuto a che fare nelle ultime settimane. I controlli erano all’ordine del giorno nella sua cella, ma non sono stati sufficienti per prevenire il suicidio. Come deciso dal pubblico ministero Elisabetta Spigarelli, sul corpo del 33enne è stata disposta l’autopsia per certificare le cause della morte. Con l’ultimo caso di Venezia, salgono a 53 i suicidi nel corso del 2019 all’interno delle carceri italiane. Un numero spropositato, per un’istituzione il cui compito è di punire chi disobbedisce alla legge al fine di reinserirlo all’interno della società. E il dato si aggiunge al cronico sovraffollamento delle prigioni. Nella casa circondariale di Santa Maria Maggiore, ad esempio, ad oggi il totale dei detenuti è di 261 su 159 posti regolamentari (oltre 2.500 in Veneto). E nel resto d’Italia va ancora peggio: la medaglia d’oro per la regione con il maggior numero di detenuti va alla Lombardia (8.610), seguita da Campania (7.844), Lazio (6.528). A ciò, si aggiunge poi la carenza di personale penitenziario all’interno delle strutture. “E la situazione si aggrava”, racconta chi conosce dall’interno la realtà, “nei casi di lunghi piantonamenti nei reparti psichiatrici così manca personale per la sorveglianza dinamica nei reparti”. Anche Nicola Pellicani, deputato Pd che ha constatato da vicino la situazione delle carceri veneziane, torna sul dramma di fine anno a Santa Maria Maggiore e sulla situazione complessiva. “L’ennesimo suicidio è un fatto tragico”, le sue parole, “che testimonia un problema purtroppo comune in tutta Italia. La direzione, il personale tutto, fa miracoli per cercare di far funzionare al meglio il carcere, ma i limiti appaiono evidenti, anzitutto nella struttura. Il personale è costretto a fare turni di 8 ore anziché di 6 come previsto. Tutto è più difficoltoso, dal trasferimento dei detenuti, alle manutenzioni, per non parlare della sorveglianza”. Fondamentale, per Pellicani, è promuovere occasioni di lavoro nelle carceri. “E poi”, conclude il deputato, “bisogna chiedersi se per i piccoli reati il carcere sia il luogo più idoneo”. Firenze. “La casa per le madri detenute si farà” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 4 gennaio 2020 L’impegno del ministero della Giustizia dopo il caso dei bambini a Sollicciano. Bambini in carcere, l’istituto a custodia attenuata per le detenute madri si deve fare. Parola del ministero della giustizia. “L’obiettivo principale resta la realizzazione degli Icam su tutto il territorio nazionale, quindi anche a Firenze”. Con queste parole, che non lasciano spazio a dubbi, il ministero si esprime con favore alla realizzazione della struttura per detenute madri che consentirebbe ai bambini di Sollicciano di crescere lontano dalle sbarre. Un progetto, quello dell’Icam fiorentino, partito nel 2010, quando venne ratificato un protocollo d’intesa tra Ministero, Regione e Comune per realizzare la struttura nella palazzina messa a disposizione gratuitamente dalla Madonnina del Grappa, a Rifredi. Da allora, nonostante siano passati dieci anni, poco o niente è stato fatto. “La salvaguardia dei bambini è certamente la priorità” aveva detto il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ieri al Corriere Fiorentino. A chiamare in causa il Governo era stato l’appello dell’associazione Progetto Firenze, che da anni si occupa di carcere, e del cappellano di Sollicciano don Vincenzo Russo, secondo cui “stiamo giocando sulla pelle di bambini innocenti”. Sempre nei giorni scorsi, un segnale di sblocco della situazione era arrivato dalla Società della Salute, che gestisce la ristrutturazione della palazzina. “L’Icam sarà pronto entro due anni” era stato detto. Tempi che comunque restano piuttosto lunghi, ma che potrebbero adesso accorciarsi date le intenzioni del ministero della giustizia. Nel frattempo, l’assessorato all’istruzione di Palazzo Vecchio ha raccolto la proposta lanciata al Corriere Fiorentino del direttore del carcere Fabio Prestopino di portare all’asilo nido o in ludoteca i piccoli reclusi. Un progetto condiviso anche dal ministro Bonafede, che aveva detto: “Siamo pronti a interloquire con tutte le istituzioni per consentire che i bambini vengano accompagnati in strutture pubbliche”. Reggio Emilia. Nel carcere muffe e gelo: digiuno degli agenti per protesta reggiosera.it, 4 gennaio 2020 il sindacato autonomo di Polizia penitenziaria racconta le difficili condizioni in cui i detenuti si trovano a vivere e gli agenti a lavorare. “I colleghi in turno si sono astenuti dalla mensa e hanno deciso di digiunare. È impensabile che si preparino e si cucinino i pasti in locali dove soffitto e pareti sono ricoperti di muffa. Senza dimenticare le temperature bassissime: nella mensa degli agenti ci sono otto gradi”. Anna La Marca, agente penitenziaria alla sezione femminile della casa circondariale reggiana e vicesegretario regionale del Sinappe, il sindacato autonomo di Polizia penitenziaria, racconta così le condizioni in cui i detenuti si trovano a vivere e gli agenti a lavorare. “La situazione rasenta il sopportabile: stiamo tutti al freddo. Anche gli accasermati, pur pagando una sorta di affitto al ministero, non hanno riscaldamento. L’acqua delle docce è appena tiepida. Nella mensa degli agenti si muore di freddo, il momento del pasto è diventato fonte di tensione e stress. Le cuoche cucinano e servono con giacconi, cappelli e sciarpe. Va avanti così da anni, ogni ottobre è la stessa storia. Per ovviare a questo disagio, qualche anno fa abbiamo ricevuto in prestito dalla Protezione civile dei ‘cannoni’ che sparano aria calda, ma non sono sufficienti per tutto l’istituto. Peraltro, molti non sono adatti agli interni: ci sono vani in cui non si respira per la puzza di benzina e cherosene”. Oltre 400 i detenuti a oggi accolti nella casa circondariale reggiana, quasi completamente non riscaldata adeguatamente. Niente doccia calda, né nella sezione maschile, né in quella femminile. “Per fortuna - dice La Marca la neve e le notti di gelo sono state ancora poche, ma siamo solo all’inizio di gennaio. In carcere fa freddo: anche i detenuti cominciano a essere nervosi, e hanno ragione. Così si rischia di far esplodere una situazione già estremamente delicata. Noi dobbiamo lavorare, loro stanno scontando una pena: perché’ non si decide di intervenire?”. L’insofferenza dei detenuti si somma allo scoraggiamento degli agenti penitenziari: “In molti hanno scelto di adire le vie legali. C’è chi soffre di alcune patologie e ha cominciato a sentirsi male: asma, allergie. Per non parlare del logoramento nervoso”. Nei giorni scorsi, il Sinappe ha inviato una lettera al Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, al Servizio igiene degli alimenti e nutrizione, al Servizio igiene pubblica e ai Nas per denunciare le condizioni in cui versa il carcere. Si parla di “estrema insalubrità del locale ove vengono preparati i pasti per il personale in servizio che presentano rilevanti infiltrazioni d’acqua e vistose chiazze di muffa. La sala dove si consumano i pasti è in condizioni ancora peggiori perché’, oltre alla muffa, il locale registrerebbe temperature polari a causa della rottura dell’impianto di riscaldamento”. Il Sinappe chiede il controllo dei locali e l’eventuale chiusura per il loro risanamento. Oggi è arrivata la risposta di Gianluca Candiano, direttore dell’istituto, che annuncia un incontro con il responsabile del servizio mensa il 7 gennaio: “Nell’immediatezza assicuro degli interventi di prime cure presso i locali Mos (mensa obbligatoria di servizio, ndr) e il laboratorio cucina da parte della Mof (manutenzione ordine prefabbricati, presso la quale lavorano alcuni detenuti, ndr). Questo almeno per un primo intervento di rifacimento manutentivo della soffittatura e dei muri laddove sono presenti chiazze di muffa”. Ma “per noi non è sufficiente - ammonisce La Marca - la muffa va trattata in un determinato modo, gli ambienti devono essere risanati, non basta ripitturare per nascondere la chiazza. È necessario e urgente un intervento drastico e profondo, non un susseguirsi di lavori di rattoppo. Così si crede di risparmiare, ma è esattamente il contrario”. Palermo. Cuochi detenuti premiati dal Gambero Rosso Avvenire, 4 gennaio 2020 L’impresa sociale “Cotti in fragranza”, promossa dall’Istituto penale minorile Malaspina di Palermo, dal Centro studi Opera Don Calabria e dalla Fondazione San Zeno, offre lavoro vero a nuovi giovani con reati e condanne alle spalle e fa breccia anche nei cuori dei critici gastronomici, tanto da conquistare il titolo di “miglior progetto solidale” del 2019 conferito dal Gambero Rosso. La nota rivista di settore ha stilato una lista di “Best of the year” toccando numerose sfere di interesse e premia “il bel progetto di economia carceraria nato nel carcere minorile Malaspina di Palermo nel 2016 - scrive Gambero Rosso. Un’intelligente dimostrazione di come sia possibile far rivivere spazi storici della città”. “Questo riconoscimento è prova del fatto che stiamo riusciti a diventare un’impresa”, commenta Lucia Lauro, responsabile del progetto e con Nadia Lodato anima della cooperativa Rigenerazioni Onlus. Carcere di Santo Stefano. Pertini e Settembrini reclusi eccellenti. Solo “Fra Diavolo” evase di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 gennaio 2020 “La sveglia suona: è l’alba. Dal mare giunge un canto d’amore, da lontano il suono delle campane di Ventotene. Dalla “bocca di lupo” guardo il cielo, azzurro come non mai, senza una nuvola, e d’improvviso un soffio di vento mi investe, denso di profumo dei fiori sbocciati durante la notte. Ricado sul mio giaciglio. Acuto, doloroso, mi batte nelle vene il rimpianto della mia giovinezza che giorno per giorno, tra queste mura, si spegne. La volontà lotta contro il doloroso smarrimento. È un attimo: mi rialzo, mi getto l’acqua gelida sul viso. Lo smarrimento è vinto, la solita vita riprende: rifare il letto, pulire la cella, far ginnastica, leggere, studiare”. È un passaggio di Sandro Pertini quando descrive la sua reclusione al carcere di Santo Stefano. Il futuro presidente della Repubblica italiana, fu ospite, suo malgrado, della cella n. 36, dal dicembre 1929 al dicembre 1930. A perenne memoria, all’ingresso principale del carcere, è stata affissa una lapide in marmo. Le date di ingresso di Pertini si rilevano da due missive. La prima redatta sul treno Roma- Napoli 23 dicembre 1929 è scritta dallo stesso Pertini alla madre per comunicarle il suo trasferimento sull’isola. Da questa lettera si rilevano il genuino amore di un figlio per la propria madre, la tenacia di un ribelle, e la forza di un uomo indomito che ha creduto, combattuto e pagato caramente per i suoi ideali: “Mia buona mamma - scrive Pertini - sono riuscito a procurarmi un pezzo di lapis e un po’ di carta e tento di scriverti nonostante questi maledetti ferri che mi stringono i polsi. Voglio che ti giungano i miei auguri per il nuovo anno, mamma, e farò di tutto perché a Napoli questa mia lettera sia imbucata. Sono qui solo in una piccola cella del vagone cellulare. Mi portano a Napoli e verso il 27 mi porteranno al reclusorio di S. Stefano. Mamma buona e santa, non ti rattristare per questa mia nuova sorte. Pensa, mamma, che lotto per un ideale sublime, tutta luce. Se tu sapessi con quale gioia, e con quanta fierezza io alzai dalla gabbia dopo la lettura della sentenza il grido della mia fede “Viva il Socialismo”, “Abbasso il fascismo”. E allora mi saltarono addosso furenti, turandomi la bocca quasi a soffocarmi, ma io nulla sentivo”. La seconda lettera, scritta da Andreina Costa Gavazzi, figlia di Anna Kuliscioff, a Filippo Turati, datata 23 dicembre 1930, riporta il trasferimento di Pertini a Turi, dove è testualmente detto: “la presente per informarla, d’urgenza, che ricevo proprio ora dalla fidanzata del nostro Sandro la notizia che fino dal 10 corrente egli è stato trasferito alla Casa di pena di Turi (provincia di Bari). È un reclusorio meno duro di Santo Stefano? Non ne so nulla”. Anche Sandro Pertini, in un suo scritto, ha lasciato testimonianza della sua permanenza in Santo Stefano: “Non sapevo a cosa andavo incontro. S. Stefano era rimasto il vecchio carcere dei Borboni, con celle umide e malsane, e quando la guardia aprì la mia cella, con accento meridionale disse: “Qui dentro c’è stato Luigi Settembrini”. All’alba ci portavano un caffè acquoso e alle dieci il rancio che era una minestra di pasta e ceci o pasta e fagioli, che doveva bastare tutto il giorno”. Il carcere di Santo Stefano venne realizzato nell’età dell’illuminismo, quando si era passati alla concezione dell’istituzione carceraria come centro del sistema penale. Un carcere adibito per gli ergastolani, dove, nonostante il secolo dei lumi, non si risparmiavano le pene corporali. Lo svolgersi delle interminabili giornate spesso era rotto dal crudele spettacolo delle punizioni a cui i condannati assistevano dalle grate delle finestre o dallo spioncino delle porte. In effetti, il regolamento interno, così come di qualsiasi altra prigione, prevedeva, oltre a piccoli premi per i condannati modello, anche dure punizioni per coloro i quali non si attenevano alle regole di condotta disciplinanti l’andamento della giornata. Accanto alle punizioni di carattere più leggero vigevano punizioni corporali che per la loro brutalità potevano anche portare alla tomba: cella oscura a pane e acqua, raddoppio delle catene alle caviglie e ai polsi, incatenamento al puntale (anello murato nel pavimento), battiture in cella o all’aperto in presenza degli altri detenuti. L’ergastolo di Santo Stefano, inquadrabile sicuramente tra quelli a sistema durissimo, era un carcere senza speranze, dove l’ozio ed i vizi spadroneggiavano e dove la quotidianità dei reclusi era scandita dalla battitura delle grate alle finestre, dallo stridere dei cancelli, dalle bestemmie e maledizioni dei forzati rivolte nel nulla e dai lamenti di coloro i quali, insubordinati alle regole interne, erano bastonati al centro del cortile, quale monito per i compagni obbligati ad assistere al triste spettacolo come accennato, da dietro gli sportellini delle porte delle celle. Da quell’inferno gli ergastolani con fine pena mai, potevano uscire solamente in due modi: o da morti, oppure con una evasione. In realtà nemmeno da morti: le spoglie dei reclusi morti durante l’esecuzione della pena, venivano tumulate nel piccolo cimitero dell’isola. La prima grossa evasione in massa fu attuata nel 1806 dal brigante “Fra Diavolo” di Itri (il cui vero nome era Michele Pezza), che dopo l’evasione arruolò i detenuti tra le fila della sua banda per combattere a fianco dei Borboni, contro i Francesi. Questo episodio determinò la chiusura della prigione per undici anni. Solo nel 1817, per volontà del ministro Medici, i cancelli di Santo Stefano furono riaperti per ospitarvi sempre più detenuti politici e meno criminali. Altra evasione, solo programmata ma fallita nella sua realizzazione, fu quella ideata dal patriota Luigi Settembrini ed appoggiata all’esterno da Giuseppe Garibaldi, che sarebbe dovuta avvenire tra il 1855 ed il 1857. Settembrini fu recluso nel carcere di Santo Stefano agli inizi del 1851 e ne uscì agli inizi del 1859. Nella primavera del 1855 iniziò a programmare il proprio piano di fuga, da mettere in atto verso la fine dell’estate. Da un copioso scambio epistolare clandestino con sua moglie Raffaella, si apprende che lui stesso chiese collaborazione all’esterno per sé e per altri cinque compagni di cella, stabilendo man mano le modalità del piano di fuga, preparando addirittura delle piantine con i disegni dei luoghi e le rotte marinare da seguire. Dall’esterno Giuseppe Garibaldi partecipò attivamente al piano, tracciando su apposite carte nautiche la rotta che l’imbarcazione (The Isle of Thanet), acquistata in Inghilterra dal rivoluzionario Antonio Panizzi con una sottoscrizione fra amici, avrebbe dovuto seguire per la riuscita dell’evasione. Il piano fallì in quanto l’imbarcazione naufragò ancora prima di giungere nel golfo di Gaeta. Fallì anche un secondo tentativo. Settembrini sarà infine liberato con un altro stratagemma messo in atto a bordo del piroscafo David Stewart nel mese di febbraio del 1859 durante il trasferimento, per il decretato esilio, suo e di altri sessantasei detenuti politici in Nord- America. Il comandante della nave, per paura di ventilati fastidi diplomatici internazionali, anziché dirigersi a New York, come concordato con le autorità, fece rotta verso l’Inghilterra dove sbarcarono liberi dopo qualche giorno. Zalone, il film non fa molto ridere ma va visto di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 4 gennaio 2020 “Tolo Tolo” è un film politico, palesemente “anti-salviniano”. Senza per questo voler appiccicare nessuna etichetta a un artista che vuole restare di tutti. Il film di Checco Zalone non fa molto ridere. Alla fine anzi fa piangere, con la scena dell’agnizione (per non dire parolacce: riconoscimento, tra padre e figlio). Per il film di un comico, è un bel guaio. Questo non significa che Checco non abbia infilato le sue gag, le sue battute, le sue trovate. Ce ne sono: molte e godibili come sempre. Ma inserite in un contesto talmente amaro che la risata a volte si strozza in gola. “Tolo Tolo” commuove e ci fa sentire un po’ in colpa, anche se non muore nessuno. Soprattutto, spiazza. Perché affronta un fenomeno epocale del nostro tempo, capovolgendo il punto di vista. Finora abbiamo sempre guardato i migranti con i nostri occhi. Ci siamo impauriti per il dumping sociale - riduzione di salari e diritti - legato all’afflusso di manodopera a basso costo; e per i problemi di sicurezza, che sarebbe ipocrita negare. Checco guarda e racconta la questione dal punto di vista dei migranti. Restando sé stesso: l’italiano becero, ossessionato dalle mode - sushi e acido ialuronico - diffidente dello Stato e degli altri. L’italiano che ieri, in “Quo vado?”, raccontava il nostro Paese visto dalla Scandinavia; e ora dall’Africa. Solo lui poteva farlo. Anche perché nessuno, nel nostro cinema notoriamente intento a rimirarsi l’ombelico, può spendere i milioni di euro necessari a girare in Kenya e nel Sahara, sapendo che saranno ripagati dal botteghino. Ieri gli incassi - pur restando eccezionali - hanno un po’ rallentato. Può darsi che il passaparola non sia sempre positivo. All’uscita del cinema, gli spettatori discutono. Di solito “Tolo Tolo” piace più alle donne che agli uomini. Di sicuro non è il film che ti aspetti da Checco Zalone. È anche un film politico, e non solo perché il meridionale senza arte né parte che diventa ministro degli Esteri si chiama Luigi come Di Maio; e perché a un certo punto compare Vendola nella parte di se stesso, distolto dalla cura dei suoi fiori dalla telefonata del pugliese ostaggio dei trafficanti (l’ex governatore si lancia in una delle sue complicate metafore sinistrorse; Macron, chiamato da un francese, paga e lo fa liberare). È un film palesemente anti-salviniano, senza per questo voler appiccicare nessuna etichetta a un artista che vuol restare di tutti. I neri non sono buoni. Omar, l’amicone, si rivela un traditore. Però i neri sono poveri. Deboli. In una parola, umani. I buoni non esistono: tantomeno i giornalisti (il francese è un odioso reporter che si fa bello con i reportage umanitari, oltre che con il suddetto acido ialuronico, ma poi abbandona i compagni di viaggio nelle carceri libiche). Checco non tradisce sé stesso. Non rinuncia all’ironia, compresa l’irresistibile satira dell’Africa consolatoria della Disney, con la “cicogna strabica che sbaglia rotta”, abbandonando i bambini a un destino di miseria, “ed è pure una mignotta”. Insomma Zalone non diventa politicamente corretto o sentimentalista. Però “Tolo Tolo” può davvero cambiare, almeno un po’, il sentimento dell’italiano medio verso i migranti. Il produttore Valsecchi non sarà d’accordo; ma questo non vale meno di un incasso record. Che poi magari arriverà comunque: il film va visto. Perché è bellissimo. Il futuro delle città, sovraccariche e caotiche ma luogo di libertà di Livio Sacchi Il Riformista, 4 gennaio 2020 Per quale motivo tutti (o quasi tutti) vogliono vivere in città? Perché le città hanno tanto successo? Perché ci piacciono? Le risposte a tali interrogativi sono certamente molte e anche molto diverse fra loro: la ricerca di un lavoro, di un ambiente più vivace e stimolante, di una maggiore concentrazione di servizi, anche culturali. Siamo tuttavia convinti che, al di là di quelle citate e delle moltissime altre che sarebbe possibile citare, il principale motivo per cui le città piacciono così tanto è invece, sostanzialmente uno solo ed è che in città c’è più libertà che altrove: in città ci si sente - e probabilmente si è, nei fatti - più liberi che altrove. “Stadt Luft macht frei - L’aria delle città rende liberi”, diceva un vecchio adagio tedesco risalente al Medio Evo. In quei tempi, chi viveva in città era libero dalle restrizioni feudali e, in parte, da quelle religiose. Ma ancora oggi, affrancando le identità dei singoli dalle aspettative familiari e sociali e permettendo a chi vi abita di diventare ciò che vuole, le città consentono qualcosa di molto prossimo all’autodeterminazione del proprio essere. Non è cosa da poco; si tratta anzi di una cosa molto, molto importante. Un esempio? Suketu Mehta, nel suo libro su Mumbai, a proposito quindi di una delle grandi città del mondo contemporaneo, racconta: “È un luogo dove non conta di che casta sei, dove una donna può cenare da sola in un ristorante senza essere molestata e dove ci si può sposare con chi si preferisce. Per i giovani di un villaggio indiano il richiamo di Mumbai non è solo una questione di denaro. È anche una questione di libertà”. Le città sono insomma i luoghi dove si determina libertà, e ciò vale persino in quei paesi in cui di libertà ve n’è poca. Che le città piacciano è testimoniato dalla loro enorme espansione recente. Ma, a proposito di città, va ricordato che i primi due decenni del XXI secolo appaiono segnati da alcuni aspetti particolarmente significativi: la quantità di nuove infrastrutture e nuovi edifici realizzati, che non ha precedenti storici, nemmeno nei periodi di ricostruzione post-bellica; il crescente ricorso a nuove tecnologie, nuove tecniche costruttive, nuovi materiali; la sempre più diffusa consapevolezza in tema di sostenibilità, a fronte di un pianeta i cui equilibri ambientali sono effettivamente sempre più precari; l’ibridazione tipologica e la sempre maggiore complessità dell’edificato; ma anche la pervasiva sensazione di crisi - economica, prima di tutto, ma anche culturale, di valori e, in alcuni paesi come il nostro, demografica - e la speranza di uscirne, se non di esserne già fuori. Le città sono importanti per tutti noi: pur occupando, com’è noto, meno del 4% della superficie della Terra, ospitano oltre il 50% della popolazione mondiale e consumano il 75% dell’energia, rilasciando all’incirca il 70% delle emissioni nocive. Inoltre, secondo il McKinsey Global Institute, le prime 600 città del mondo, con poco più del 20% della popolazione, producono più del 50% del Pil. È chiaro che giocano un ruolo centrale quando si parla del nostro futuro. Un futuro carico di incertezze, che non deve tuttavia spaventarci. Si pensi, per esempio, al tema dell’inclusione, peraltro strettamente legato a quello della libertà. Pensiamo a quanto accade nelle tre maggiori città americane. A New York si calcola che il 65% dei residenti appartenga a una minoranza etnica: si tratta di una città in cui le minoranze, messe insieme, costituiscono insomma una solidissima maggioranza. Non sarà forse anche questo il motivo per cui tutti quelli che vi abbiano trascorso un sia pur breve periodo di vita si siano subito sentiti a casa? Passiamo, sull’altra costa, a Los Angeles. Giuseppe Sala, nel suo recente libro, riporta che il sindaco Eric Garcetti pare abbia scritto al presidente Trump più o meno così: “vorrei ricordarti, a te che parli di muri ai confini, che più del 50% delle aziende che operano a Los Angeles sono state fondate da quelli che tu chiami immigrati. Sappi che io farò di tutto per difendere un modello di grande città contemporanea che funziona”. Ricordiamo infine Chicago, una metropoli che è uscita bene dalla crisi e che è oggi una delle più attraenti degli Stati Uniti. Dal 2019 ha un nuovo sindaco, Lori Lightfoot: donna, afro-americana, lesbica. Papa Francesco: promozione della pace e della giustizia nel mondo L’Osservatore Romano, 4 gennaio 2020 L’intenzione di preghiera del mese di gennaio. “In un mondo diviso e frammentato, voglio invitare alla riconciliazione e alla fratellanza tra tutti i credenti e anche tra tutte le persone di buona volontà”. Con questo appello Francesco inaugura il quinto anno dell’iniziativa “Il video del Papa”, attraverso la quale, con un videomessaggio diffuso ogni mese su internet, affida una speciale intenzione alla Rete mondiale di preghiera. All’inizio di un 2020 purtroppo segnato dalla persistenza nel mondo di vecchi conflitti e da nuove prospettive di scontri e di guerra, il Pontefice chiede a tutti gli uomini di buona volontà di implorare insieme il dono della riconciliazione e di mobilitarsi per “diffondere i valori della pace, della convivenza e del bene comune”. Nel video - preparato dall’agenzia La Machi, che si occupa della produzione e della distribuzione, in collaborazione con Vatican Media, che ne ha curato la registrazione - le parole del Papa sono accompagnate da una scena in cui due uomini si fronteggiano mentre fra di loro, a terra, una lunga miccia accesa sembra correre inesorabilmente verso una deflagrazione. Gli sguardi, dall’iniziale diffidenza, si aprono a un sorriso d’intesa finché, insieme, i due spengono la miccia. È questa l’efficace traduzione in immagini dell’invito che Francesco ha rilanciato anche attraverso il suo account Twitter @Pontifex: “Preghiamo affinché i cristiani, coloro che seguono le altre religioni e le persone di buona volontà promuovano insieme la pace e la giustizia nel mondo”. Parole che si affiancano a quelle già espresse dal Pontefice nel messaggio per la celebrazione della 53a Giornata mondiale della pace: “Dobbiamo perseguire una reale fratellanza, basata sulla comune origine da Dio ed esercitata nel dialogo e nella fiducia reciproca. Il desiderio di pace è profondamente iscritto nel cuore dell’uomo e non dobbiamo rassegnarci a nulla che sia meno di questo”. Il gesuita Frédéric Fornos, direttore internazionale della Rete mondiale di preghiera (che include anche il Movimento giovanile eucaristico), commentando questo videomessaggio che apre la serie del 2020, spiega: “Francesco, con questa intenzione di preghiera, all’inizio di un nuovo anno, rivolge un appello alla speranza. Ci ricorda che “ogni guerra, in realtà, si rivela un fratricidio che distrugge lo stesso progetto di fratellanza inscritto nella vocazione della famiglia umana”, e che questi conflitti nascono nel cuore dell’uomo e dalla paura”. E aggiunge: “Come porre fine a questa sfiducia?” si chiede il Papa. Cercando una vera fraternità. La preghiera, ci dice Francesco, “suscita sempre sentimenti di fraternità, abbatte le barriere, supera i confini, crea ponti invisibili ma reali ed efficaci, apre orizzonti di speranza”. La Rete mondiale di preghiera è un’opera pontificia la cui missione è quella di mobilitare i cattolici alla preghiera e all’azione di fronte alle sfide alle quali sono chiamate la Chiesa e l’umanità. Oggi è presente in 98 Paesi. Attualmente il video - attraverso il sito internet thepopevideo.org - è pubblicato in 14 lingue - le ultime a essere aggiunte sono state il vietnamita, il polacco, lo swahili e il kinyawarda - e nel 2019 le sue edizioni sono state viste da oltre 12 milioni di persone. Migranti. Caso Gregoretti, la difesa di Salvini affidata a sette mail di Leo Lancari Il Manifesto, 4 gennaio 2020 Depositata a Palazzo Madama la memoria difensiva dell’ex ministro dell’Interno. Che punta a coinvolgere Conte e Di Maio. Sette mail per dimostrare che la decisione di non far sbarcare i migranti dalla nave Gregoretti non fu un’iniziativa personale dell’allora ministro dell’Interno ma una scelta collegiale del governo. “So di aver fatto il mio dovere, sempre nell’esclusivo interesse della mia patria”, ha ripetuto ancora ieri Matteo Salvini. Bisognerà aspettare un paio di settimane per capire se quanto il leader leghista va dicendo da quando il Tribunale dei ministri di Catania ha chiesto l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti per sequestro di persona avrà convinto oppure no i membri della Giunta delle immunità del Senato. Mercoledì prossimo la commissione comincerà ad esaminare la memoria difensiva dell’ex ministro messa a punto dall’avvocato Giulia Bongiorno e depositata ieri a Palazzo Madama. “Nei prossimi giorni, in qualità di relatore, metterò a punto la proposta che sottoporrò all’esame della Giunta. Il termine entro il quale dobbiamo pronunciarci è di trenta giorni dal ricevimento della memoria”, ha confermato ieri il presidente dell’organismo, Maurizio Gasparri. In realtà di giorni ne serviranno molti meno visto che la data entro la quale la Giunta dovrà pronunciarsi è già stata fissata per il 20 gennaio (poi, a febbraio, la parola definitiva spetterà all’aula). La strategia studiata da Salvini con il suo legale è semplice: riuscire a coinvolgere gli ex alleati di governo, a partire dal premier Giuseppe Conte e da Luigi Di Maio, nella decisione di non far sbarcare per sei giorni - a partire dal 26 luglio dell’anno scorso - 131 migranti che si trovavano sulla nave Gregoretti della Guardia costiera. In pratica lo stesso schema già adottato per l’analogo caso della nave Diciotti. “La gestione dei migranti - scrive oggi l’ex ministro nella memoria difensiva - non rappresentava l’espressione della volontà autonoma e solitaria del ministero dell’Interno”, ma si inseriva “nel perimetro di un preciso indirizzo dell’esecutivo allora in carica”. A dimostrazione di questa tesi viene messo a disposizione della Giunta il “carteggio” di cui Salvini aveva parlato nei giorni scorsi. Sette mail scambiate tra il 26 luglio e il 2 agosto tra alti funzionari di Palazzo Chigi, Farnesina e Viminale nelle quali si affronta la questione dello smistamento dei migranti tra i Paesi dell’Unione europea. Le mail che dimostrerebbero quanto Salvini afferma sono quelle scambiate tra il consigliere diplomatico d Conte, Pietro Benassi, il capo di gabinetto del Viminale Matteo Piantedosi e alti funzionari della Farnesima come il segretario generale Elisabetta Belloni e il rappresentante italiano all’Ue, l’ambasciatore Maurizio Massari. Salvini cita anche la lettera che Conte scrisse nel luglio del 2018 ai vertici dell’Unione europea per sollecitare “l’adeguamento immediato del piano Eunavfor Med-Sophia (la missione europea nel Mediterraneo, ndr) in relazione ai porti di sbarco, che non avrebbero dovuto essere solo italiani”. Infine vengono ricordate le dichiarazioni rese dai ministri Alfonso Bonafede (“Gregoretti? Europa deve farsi carico del problema”, rilasciata il 30 luglio) e Di Maio (“L’Italia non può sopportare nuovi arrivi di migranti, quei migranti devono andare in Europa”, del 31 luglio). Per l’ex presidente del Senato Pietro Grasso il contenuto della memoria rischia di trasformarsi in “un boomerang” per Salvini: “Il governo non è stato coinvolto nell’assegnazione del Pos (porto sicuro, ndr) e nello sbarco dei migranti, ma solo nella ricerca di Paesi disponibili per il ricollocamento, fase che nulla ha a che fare con il reato contestato al senatore Salvini. La sua memoria quindi lo inchioda alle sue responsabilità personali”, ha detto il senatore di LeU. Sulla stessa linea anche l’ex M5S Gregorio De Falco, per il quale la memoria difensiva “di tutto si occupa tranne della questione che gli viene imputata, cioè che vi sia stata una scelta collegiale del governo sul trattenimento dei migranti a bordo della Gregoretti”. A Grasso rispende infine il leghista Gian Marco Centinaio: “Grasso evidentemente non ha compreso o finge di non comprendere. La memoria dimostra la linea governativa nell’interesse pubblico”. Medio Oriente. Le basi italiane fuori dalla guerra di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 4 gennaio 2020 Tutto quello che nel discorso di fine anno del Presidente Mattarella era solo accennato come augurio - “il nostro bel Paese, proteso nel Mediterraneo e posto, per geografia e per storia, come uno dei punti di incontro dell’Europa con civiltà e culture di altri continenti…” - nel giro di 48 ore è stato bombardato. Quel Mediterraneo si affaccia su un mondo in guerra e quella nuova guerra ormai ci coinvolge. Prima è arrivata la decisione della Turchia di inviare truppe in Libia - in frantumi dopo la scellerata impresa della Nato che ha abbattuto Gheddafi nel 2011 - in appoggio al “nostro” alleato Serraj. A capo di un governo “riconosciuto dalla comunità internazionale”, che governa solo parte della Tripolitania ed è insediato a Tripoli, ora sotto assedio del leader della Cirenaica Khalifa Haftar, il generale appoggiato da Egitto, Francia, Russia e Stati uniti; e ieri notte ha fatto il resto il drone del gangster internazionale, il “pazzo atlantico” Donald Trump che, alle strette interne con l’impeachment e preoccupato dei destini elettorali, sulla pista dell’aeroporto di Baghdad ha spostato l’attenzione, uccidendo il generale iraniano Soleimani, il leader in pectore di Teheran (responsabile tra l’altro d’essere stato tra i pochi a combattere davvero lo Stato islamico e al-Qaeda) e l’alleato iracheno dell’Iran al-Muhandisi. Il Medio Oriente è sull’orlo del precipizio, ancora una volta su iniziativa dell’Amministrazione Usa come per i passati quarant’anni nel lavorio scoperto di destabilizzare ogni Stato mediorientale: dagli anni Ottanta, prima istigando Saddam al conflitto armato contro il regime degli ayatollah, poi con la prima guerra del Golfo nel 1991, poi con la seconda e la strategia delle sanzioni che hanno affamato l’intero popolo, poi nel 2003 con la guerra inventata di Bush sulle “armi di distruzione di massa” che non c’erano, e infine, dopo il colpo riuscito in Libia, con la devastazione malriuscita della Siria. Sempre con il sostegno di quei governi israeliani che, cancellata con l’assassinio di Rabin e il seppellimento di Arafat ogni possibilità di risoluzione pacifica della questione dei territori palestinesi occupati, si sono esercitati in omicidi altrettanto mirati e nella provocazione a Teheran come ha ripetutamente fatto Netanyahu, perfino bombardando centinaia di volte le forze militari iraniane e quelle di hezbollah impegnate in Siria contro Isis e al-Qaeda (quella dell’11 settembre, per intenderci), vale a dire contro l’integralismo sunnita ispirazione dell’alleato d’acciao di Usa ed Europa, l’intoccabile Arabia saudita. Con questo nuovo omicidio mirato viene bombardato anche quel poco che rimaneva in piedi dell’accordo dell’Unione europea, voluto anche da Obama, sul nucleare civile di Teheran. Ora non si potrà più girare lo sguardo da un’altra parte, magari sulle magnifiche sorti di tal Paragone. Non c’è paragone che tenga. La risposta di rappresaglia se non subito, ci sarà. E l’Italia rischia stavolta di stare in prima linea: qualcuno ricorda che abbiamo un nostro contingente Onu in Libano, schierato tra hezbollah ed esercito israeliano alla frontiera? Per questo, di fronte alla portata della provocazione che scompagina i già delicati equilibri del mondo - come accusa il ministro degli esteri francese - mentre si comprende il plauso a Trump del suprematista Matteo Salvini, non possono certo bastare il silenzio del presidente Conte, il “Giuseppi” di trumpiana memoria, né gli appelli del ministro degli esteri Di Maio prima con il timido invito “alla moderazione” e poi con l’esplicita e giusta memoria che in Medio Oriente “la priorità è la lotta allo Stato islamico”; tantomeno basta la “grande preoccupazione” sussurrata in un tweet dal segretario Pd Zingaretti. Se non altro negli Usa il moderato e discusso candidato democratico Joe Biden ha avuto almeno il coraggio di dire che così facendo “Trump ha gettato dinamite in una polveriera”. Urge una netta presa di posizione che dichiari la distanza dell’Italia dalla nuova stagione di guerra che si affaccia appena di là dal Mediterraneo. Non basta più nemmeno insistere che la soluzione in Libia deve essere di pace. La guerra degli omicidi mirati dei droni, della quale ieri notte abbiamo avuto una sanguinosa esemplificazione, dice che il Belpaese è sempre più una piattaforma armata protesa verso il Medio Oriente. Il governo italiano dichiari che le “nostre” basi militari, quelle Usa ma anche quelle Nato, a cominciare da Sigonella, non siano impegnate o minimamente coinvolte in questa pericolosa avventura americana. Perché l’attacco di Trump di ieri notte ci chiama in causa. Se infatti possiamo escludere, stavolta, il coinvolgimento diretto nell’azione di lancio dalla base di droni di Sigonella, perché più credibilmente si sono serviti di basi in Iraq, Kuwait, o in Yemen, resta pur vero invece che ieri notte la conoscenza dell’atto di guerra che si è consumato a Baghdad, a Sigonella è stata più che scontata: lì ieri notte hanno operativamente seguito e lavorato per la “buona” riuscita del raid ordinato da Trump. E senza che il governo italiano e nessuno di quelli europei fossero informati. Ormai Erdogan, il Sultano atlantico, è inaffidabile per gli Usa com’è inaffidabile la base strategica turca di Incirlik. Sigonella - già coinvolta nella guerra in Libia e più recentemente in operazioni di intelligence nel Mar Nero per la crisi ucraina - è invece diventata da un anno con Ramstein in Germania, il centro di controllo operativo di ogni operazione armata di droni nel mondo. È così vero che in Germania la Corte costituzionale ha dato parere favorevole ai processi contro Berlino intentati dalle famiglie delle vittime civili uccise dai droni in Afghanistan. L’Italia sussurra e tace sul padrone del drone, e chi tace. Stati Uniti-Iran. Il potere della deterrenza di Maurizio Molinari La Stampa, 4 gennaio 2020 L’eliminazione del generale dei pasdaran Qassem Soleimani è frutto della volontà del presidente americano Donald Trump di ridimensionare il potere militare iraniano in Medio Oriente e pone ora l’interrogativo su come il regime degli ayatollah difenderà la propria ambizione all’egemonia sull’intera regione. Sin dall’arrivo alla Casa Bianca Trump ha dimostrato di voler ridurre il ruolo strategico che l’Iran era riuscito a costruirsi durante gli otto anni dell’amministrazione Obama: il ritiro dall’accordo nucleare del 2015 ha privato Teheran della legittimità del programma nucleare; le sanzioni contro il sistema petrolifero hanno fatto venir meno il flusso di denaro che alimentava operazioni militari e terroristiche; il sostegno ai legami (in gran parte ancora segreti) fra Paesi sunniti e Israele ha creato un contrappeso strategico; gli attacchi cibernetici hanno fiaccato le difese della Repubblica islamica. Ma il tassello più importante per Ali Khamenei, Guida Suprema della Rivoluzione, era Qassem Soleimani: da 22 anni capo della Forza Al Quds dei Guardiani della rivoluzione, regista della guerriglia sciita in Iraq (costata agli Usa almeno 600 morti), stratega della vittoria di Bashar Assad in Siria, ideatore del massiccio arsenale missilistico con cui Hezbollah minaccia Israele, inventore dei ribelli Houthi come clava contro l’Arabia Saudita e, più in generale, primo protagonista dell’ambizioso disegno della “Mezzaluna sciita” ovvero la creazione di una continuità territoriale fra Iran, Iraq, Siria e Libano dominata dagli sciiti - per la prima volta dalla nascita dell’Islam - a scapito degli Stati sunniti e dei loro alleati americani. Gli incontri privati al Cremlino con Vladimir Putin sulla Siria, le petroliere nel Golfo bloccate dalle sue mine, l’industria petrolifera saudita ferita dai suoi droni hi-tech e l’aver creato dal nulla gli Hezbollah iracheni - 25 mila uomini - devono aver fatto percepire a Soleimani una sorta di onnipotenza, tanto più che era riuscito a scampare a più tentativi di eliminazione da parte di Israele e il suo unico superiore era il grande ayatollah Khamenei in persona. Ma tale e tanto potere lo ha portato a commettere l’errore fatale: l’assalto all’ambasciata Usa a Baghdad del 31 dicembre, con centinaia di miliziani sciiti penetrati dentro la zona di sicurezza, ha fatto percepire alla Casa Bianca di essere ad un passo dall’umiliazione. Se Trump non avesse reagito avrebbe ripetuto l’errore di Jimmy Carter davanti al sequestro dei diplomatici Usa a Teheran nel 1979 e l’errore di Barack Obama davanti alla brutale uccisione del console americano a Bengasi nel 2011. Era stato Soleimani a ordinare il blitz di Baghdad con l’intento di vendicare l’attacco aereo Usa subito dai suoi Hezbollah iracheni pochi giorni prima, al fine di ottenere la più nitida immagine dell’impotenza di un’America incapace di difendere a Baghdad la sua più grande sede diplomatica al mondo. E se, nella notte fra il 2 e il 3 gennaio, Soleimani era arrivato a Baghdad era proprio per coordinare da vicino la continuazione dell’assedio alla sede Usa con Abu Mahdi al-Muhandis, suo vice e capo delle milizie sciite. Ma per Soleimani è stato un fatale eccesso di sicurezza: avendo vissuto in prima persona negli ultimi anni il ritiro degli Usa dalla Siria ed il loro indebolimento in Iraq e nel Golfo, ha pensato che il “Grande Satana” fosse in ginocchio al punto da poterlo trafiggere propri lì, nel cuore di Baghdad, dove aveva deposto Saddam Hussein nel 2003. Sottovalutare l’America è l’errore più comune da parte dei suoi avversari - da Breznev ad Arafat, da Milosevic a Saddam, da Bin Laden ad Al-Baghdadi - e Soleimani lo ha ripetuto dimenticando che l’arsenale Usa in Medio Oriente resta comunque senza rivali, inclusi i missili che lo hanno eliminato. Restituendo all’America un potere di deterrenza militare che sembrava non voler più usare. Adesso il cruciale interrogativo è come Khamenei difenderà il progetto della “Mezzaluna sciita” - ovvero il disegno di una regione sottomessa all’Iran - dopo lo smacco subito. L’imponenza delle risorse finora dedicate, le qualità dei vice formati da Soleimani e la vocazione rivoluzionaria dell’Iran khomeinista suggeriscono che Khamenei dovrà rispondere alla sfida di Trump in maniera talmente evidente da non apparire indebolito, soprattutto sul temibile fronte interno. Saranno dunque tempi e modi della reazione di Teheran a descrivere la strada scelta da Khamenei per consumare una “vendetta” da cui dipende la sua credibilità di leader. Di sicuro il duello con Trump si preannuncia come un protagonista dell’anno appena iniziato: può avere un impatto sull’intero Medio Oriente e può giovare al candidato alla rielezione alla Casa Bianca. L’Iran minaccia vendetta terribile contro l’America di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 4 gennaio 2020 Un atto di guerra. Un’”azione difensiva”. Variano le definizioni e i punti di vista, ma una cosa è certa: l’uccisione del generale Qassem Soleimani, uno degli uomini più potenti dell’Iran, rischia di far esplodere la polveriera mediorientale, con conseguenze che andrebbero molto al di là di questa cruciale area del mondo. Nulla sarà come prima: su questo non c’è diversità di vedute nelle capitali arabe, a Gerusalemme, nelle cancellerie europee, a Bruxelles come a Mosca. E naturalmente a Washington, da dove è partito l’ordine di eliminare il comandante della Forza Quds, il reparto di élite dei Pasdaran. L’operazione americana è stata condotta con l’uso di un drone che ha individuato come obiettivo l’auto che avrebbe dovuto portare a Baghdad Soleimani e il numero due della milizia paramilitare sciita Hashd Shaabi, Abu Mahdi al-Mohandes, appena sbarcati nell’aeroporto cittadino. Al razzo che ha ucciso il militare iraniano ne sono seguiti altri che hanno provocato almeno 12 morti, secondo quanti riferiscono fonti russe. “Su istruzioni del presidente i militari americani hanno intrapreso una decisa azione difensiva con l’uccisione del generale Qassem Soleimani per proteggere il personale americano all’estero”. Con questo comunicato il Pentagono ha annunciato il raid compiuto vicino Baghdad. Secondo il Pentagono Soleimani stava “attivamente mettendo a punto piani per colpire i diplomatici americani e uomini in servizio in Iraq e in tutta la regione”. Questo il primo commento su Twitter di Donald Trump al raid della notte scorsa. Prima di questo tweet, il presidente americano - che aveva già espresso lo stesso concetto a fine luglio - aveva postato la bandiera degli Stati Uniti. Soleimani “era responsabile direttamente o indirettamente della morte di milioni di persone tra cui l’enorme numero di manifestanti uccisi” in Iran. Così su Twitter ha poi commentato Trump. The Donald ha deciso: nell’anno presidenziale, il ruolo da rivestire non è quello del presidente che riporta a casa i ragazzi in divisa impegnati al fronte, ma quello del commander in chief che ha assestato un colpo durissimo, forse mortale, all’Impero del male del Terzo Millennio: l’Iran. L’eliminazione del comandante-ombra è una mossa politica, l’apertura in grande stile della campagna elettorale. E poi cosa c’è di meglio che una guerra contro lo Stato canaglia, finanziatore del peggiore terrorismo per cancellare la procedura di impeachment. Non sarebbe la prima volta: 1974, impeachment per Richard Nixon, bombardamento in Cambogia; 1998: Bill Clinton rischia l’impeachment per il caso Lewinsky, bombardamento natalizio su Baghdad. Ed ora, ci prova The Donald. E poco importa della reazione di Mosca, tanto meno delle cancellerie europee, che per Trump contano meno di zero. Ma ora è allarme rosso. L’ambasciata Usa a Baghdad ha sollecitato i cittadini americani a “lasciare l’Iraq immediatamente” dopo l’attacco in cui è rimasto ucciso il generale Soleimani. E nella base americana Union III è scattato il livello di allerta estrema. L’avamposto è sede del Combined Joint Task Force-Operation Inherent Resolve e Joint Operations Command-Iraq, la coalizione internazionale anti-Isis e il commando delle operazioni militari irachene. Tutto il personale ha così l’obbligo di indossare giubbotto antiproiettile ed elmetto. È proibito inoltre girare da soli, usare strutture ricreative e fare qualsiasi movimento al di fuori della base. Nessuno si fa illusioni: la reazione iraniana, diretta o attraverso le milizie sciite mediorientali, ci sarà. E sarà durissima. Il primo a saperlo è Israele, dove è scattato lo stato di massima allerta. “L’opera e il percorso del generale Qassem Soleimani non si fermeranno qui. Una dura vendetta attende i criminali, le cui mani nefaste si sono macchiate del sangue di Soleimani e degli altri martiri dell’attacco avvenuto la notte scorsa”. È il messaggio lanciato dall’ayatollah Ali Khamenei, Guida suprema dell’Iran, che ha proclamato tre giorni di lutto nazionale dopo il raid aereo americano all’aeroporto di Baghdad Anche il presidente iraniano, Hassan Rouhani, poco prima di nominare il vice di Soleimani, Esmail Qaani, nuovo capo della Forza Quds, si è scagliato contro gli Stati Uniti: “Gli iraniani e altre nazioni libere del mondo si vendicheranno senza dubbio contro gli Usa criminali per l’uccisione del generale Qassen Soleimani - ha dichiarato - tale atto malizioso e codardo è un’altra indicazione della frustrazione e dell’incapacità degli Stati Uniti nella regione per l’odio delle nazioni regionali verso il suo regime aggressivo. Il regime americano, ignorando tutte le norme umane e internazionali, ha aggiunto un’altra vergogna al record miserabile di quel Paese”. Un altro alto rango della Forza Quds, Mohammad Reza Naghdi, citato dall’agenzia Fars giura che la vendetta sarà sanguinosissima: gli Usa devono cominciare a ritirare le loro forze dalla regione islamica da oggi, o cominciare a comprare bare per i loro soldati - ha affermato - Il regime sionista dovrebbe fare le valigie e tornare nei Paesi europei, da dove è venuto, altrimenti subirà una risposta devastante dalla Ummah (la comunità, ndr) islamica. Possono scegliere, a noi non piacciono gli spargimenti di sangue. Vendetta promettono Hezbollah, Hamas, la Jihad islamica palestinese, le milizie yemenite… Il leader sciita iracheno Moqtada al-Sadr ha già dato ordine ai suoi combattenti, su Twitter, di “tenersi pronti”, riattivando così la sua milizia ufficialmente dissolta da quasi un decennio e che aveva seminato il terrore tra le fila dei soldati americani in Iraq. In Medio Oriente il 2020 nasce nel segno di guerra. Ed è solo l’inizio. Libia. Venti di guerra, arrivano soldati e mercenari di Valerio Sofia Il Dubbio, 4 gennaio 2020 Gli interessi delle grandi potenze dietro agli appoggi ad Al-Serraji e ad Haftar. Affluiscono soldati e mercenari in Libia, e nulla fa pensare che le cose miglioreranno, anzi. L’Italia ha da esattamente due anni una missione militare in Libia, incentrata soprattutto sull’ospedale di Misurata. Da allora, dopo aver dato un contributo importante curando tra gli altri i miliziani feriti durante la loro offensiva contro l’Isis a Sirte, il contingente italiano è rimasto relativamente passivo mentre lo scenario geopolitico della Libia cambiava vorticosamente, e il generale Haftar dalla Cirenaica andava rafforzandosi e parallelamente andava ampliando la rete dei suoi sostenitori internazionali a danno del governo di Tripoli, tanto da arrivare a minacciarlo militarmente in una prima occasione e di nuovo adesso con la capitale assediata. Roma ha cercato di tenere aperti i canali di dialogo all’interno delle fazioni libiche, ma bisogna prendere atto che al momento l’Italia è stata del tutto scavalcata dagli eventi e dagli altri protagonisti della crisi. Che è complessa e pericolosa, e potrebbe portare la situazione del Paese alle porte dell’Italia a degenerare verso una guerra aperta che potrebbe raggiungere livelli molto superiori al recente passato e tali da oltrepassare di molto i confini della guerra civile. Troppi infatti gli attori in gioco, senza considerare eventuali e solo per ora remote ripercussioni da quanto sta succedendo tra Iraq e Iran dopo l’uccisione del generale iraniano Soleimani. Al momento l’Iran non è tra i protagonisti della crisi in Libia (anche per la marginalità della componente sciita nel Paese), ma è praticamente l’unico soggetto poco coinvolto. È invece molto coinvolta la Turchia, che ha appena approvato in Parlamento la mozione per inviare soldati a difesa di Tripoli. Il governo di è quello internazionalmente riconosciuto, sostenuto dall’Onu come governo di unità e pacificazione, ma di fatto non gode di sostegni concreti da parte dei propri alleati, e conta solo sulle milizie delle città circostanti. Milizie molto forti tra quelle libiche, come quelle di Misurata, in grado fino ad ora di difendersi e anche di aver acquisito una certa preminenza. Milizie che hanno contribuito a sconfiggere la presenza dell’Isis in Libia. Ma che ora si scoprono troppo deboli per garantire la sopravvivenza del governo, se dalla parte di Haftar continuano ad arrivare sostegni magari occulti da parte dei pezzi grossi della comunità internazionale. Gli Usa di Trump sono infatti ambigui, e se l’Unione Europea a parole è dalla parte del governo Onu, di fatto la Francia ha rapporti più che amichevoli con Haftar, e in passato è stata denunciata la presenza di esperti e armamenti francesi al fianco di Haftar. Meno mascherato è il sostegno russo al generale di Tobruk, e si è detto più volte che mercenari e contractor russi sono arruolati nelle sue fila, gli stessi che forse potrebbero aver aiutato le forze di Haftar ad abbattere dei droni tra cui uno italiano (e intanto ieri i libici o chi per loro hanno abbattuto un altro drone, proprio turco). Con Haftar poi ci sono soprattutto l’Egitto e gli Emirati Arabi, nemici giurati dei Fratelli Musulmani cui invece fa riferimento lo schieramento di Al-Serraji. Questi Paesi arabi forniscono l’aviazione con a loro volta l’impiego anche di piloti mercenari. In risposta a tutto questo Al-Serraji ha chiesto un sostegno più concreto alla Turchia, amica a sua volta dei Fratelli Musulmani e nemica dell’Egitto. E il parlamento ha risposto approvando l’invio di soldati, anche se da tempo si parla dell’ipotesi che Ankara invii piuttosto miliziani siriani e mercenari. Comunque sia, l’Esercito nazionale libico di Haftar ha già annunciato che “non permetterà la presenza di qualsiasi forza turca ostile sul territorio libico”, e ha aggiunto che la formazione “è pronta a combattere”. In Libia si potrebbe presto assistere a qualcosa di tragicamente complicato. Hong Kong. Negli arresti di massa anche tre osservatori sui diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 4 gennaio 2020 A Hong Kong il 2020 è iniziato com’era terminato il 2019: una manifestazione di massa e l’intervento repressivo della polizia. Ci sono, però, un paio di novità nella strategia adottata dalle forze di polizia. Intanto, la decisione di dichiarare illegale una manifestazione tre ore dopo il suo inizio. Il pretesto è stato la devastazione di una banca da parte di un piccolo gruppo di violenti. A decine e decine di migliaia di persone già in piazza, è stato dato l’ordine di sgomberare entro 30 minuti. Poi, senza preavviso, è partito un candelotto di gas lacrimogeno. La folla ha reagito iniziando a lanciare sassi e altri oggetti pesanti contro gli agenti. Sono partite anche diverse bombe Molotov. A quel punto è cominciato il consueto massiccio impiego di gas lacrimogeni e cannoni ad acqua da parte della polizia. Alla fine gli arresti sono stati 287. Tra questi, ecco la seconda novità, anche tre osservatori di un gruppo locale per i diritti umani. Questo è uno sviluppo preoccupante, dato che si tratta di persone che svolgono un lavoro fondamentale per documentare le violazioni dei diritti umani durante le proteste e cercare di assicurare in questo modo l’accertamento delle responsabilità. Sud Sudan. Il Presidente Kiir grazia 29 detenuti agenzianova.com, 4 gennaio 2020 Il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, ha concesso la grazia a 29 detenuti, fra i quali anche l’attivista Peter Biar Ajak e l’imprenditore Kerbino Wol Agok. Il decreto, che il capo dello Stato ha letto in diretta sull’emittente statale “Ssbc”, cade una settimana dopo l’impegno da lui preso di visitare la prigione centrale di Giuba e di liberare i prigionieri con buona condotta. Lo scorso 11 giugno, l’Alta corte di Giuba aveva condannato l’attivista Biar Ajak a due anni di carcere con l’accusa di incitamento alla violenza e disturbo della quiete pubblica, oltre che di aver rilasciato interviste ai media sulla situazione delle persone detenute presso la sede del Servizio di sicurezza nazionale (Nss). A Wol Agok era invece stata inflitta una condanna a dieci anni di carcere per aver violato altre misure del codice penale sud sudanese. Numerosi appelli erano stati rivolti al capo dello Stato per la liberazione di questi detenuti. Nel dicembre dello scorso anno, l’organizzazione della società civile sudanese Community Empowerment per l’Organizzazione Progress (Cepo) aveva invitato il presidente a fare atto di riconciliazione, liberando non solo i detenuti per casi di minore gravità, ma anche i prigionieri politici.