Suicidi, poveri e senza fissa dimora: quando il carcere non è la soluzione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 gennaio 2020 A dicembre 4 degli otto che si sono tolti la vita in cella non avevano un domicilio. L’anno 2019 non si è concluso con 52 suicidi in carcere, ma con 53. L’ultimo suicidio, avvenuto al carcere di Venezia il 29 dicembre scorso, riguarda un ragazzo (in attesa di giudizio) di 33 anni arrestato per furto, tra l’altro aggravato perché compiuto in un luogo pubblico. Era un senza fissa dimora. A darne notizia è il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, intervenuto durante una trasmissione di Radio Radicale condotta dall’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini. Ma non è l’unico caso riguardante una persona che appartiene a una minorità sociale, ovvero povera. Sempre il garante ha sottolineato che nel mese di dicembre ci sono stati otto suicidi, tra i quali ben quattro erano dei senza fissa dimora. Un dato che fa emergere con chiarezza un problema devastante che riguarda la nostra società. Suicidi che dovrebbero porre interrogativi su quali presidi sociali il mondo esterno offra a tali disperate vite e su come implicitamente tale disinteresse non finisca col gettare tutta la responsabilità su quell’approdo tragico e finale rappresentato dalla reclusione in carcere. Come non dimenticare ciò che è avvenuto sempre nell’anno 2019 al carcere di Viterbo, quando un senza fissa dimora è stato ucciso da un altro disperato che, nonostante i suoi precedenti di aggressione in carcere a causa del suo disagio psichico, è stato messo nella stessa cella con lui. Oppure l’altro suicidio, sempre a Viterbo, avvenuto a novembre e riguardante un ventenne africano che stava scontando una pena di pochi mesi. Mentre su alcuni giornali alcuni magistrati hanno scritto che in carcere non ci va quasi più nessuno, la realtà che emerge è ben diversa. Non solo c’è il problema del sovraffollamento che smentisce categoricamente qualsiasi tesi del genere, ma c’è anche il fatto che in carcere si finisce per scontare una pena di pochi mesi. Problema che riguarda soprattutto le persone povere. Sempre il garante nazionale delle persone private della libertà ha snocciolato dei dati che cristallizzano la dimensione del problema. Nelle patrie galere ci sono 1683 persone che stanno scontando una pena inferiore a un anno, mentre 3000 reclusi tra uno e i due anni. In totale ci sono circa 5000 persone che stanno scontando una pena tra zero e due anni. Sono persone che potrebbero scontare la pena fuori dal carcere, ma non hanno gli strumenti per accedervi e, in mancanza di domicilio, il magistrato non può concedere una pena alternativa. Un problema che riguarda la fragilità sociale con un Paese che non riesce a farne fronte. Gli ultimi dati istat parlano chiaro: in Italia ci sono 1,8 milioni di famiglie in povertà, pari a circa 5 milioni di individui, concentrati nelle principali città metropolitane del Paese: in sette di esse risiede la metà di persone senza fissa dimora. Se da una parte c’è un problema, enorme, di diseguaglianza, dall’altra c’è il carcere che rischia di diventare un contenitore di queste problematiche. In realtà nella riforma originaria dell’ordinamento penitenziario era contemplato un decreto, poi disatteso, sulle pene alternative dove non solo si valorizzava l’accesso, ma indicava anche una soluzione per le persone con problemi di dimora, incentivando l’implementazione degli alloggi. In particolare, la commissione presieduta dal professore Glauco Giostra, aveva inserito un nuovo comma affinché gli Uepe si adoperino per favorire il reperimento di alloggi per le persone ammesse alla semilibertà, in modo da favorire il loro accesso alla detenzione domiciliare e all’affidamento in prova. Ma il governo precedente legastellato l’ha cancellato. Ergastolo ostativo, dalla Cassazione il primo “sì” al permesso premio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 gennaio 2020 Il Tribunale di sorveglianza di Torino aveva rigettato il reclamo di un recluso per il provvedimento del Magistrato di sorveglianza di Novara. Anche se non collabora con la giustizia, il detenuto ha diritto a fare istanza per richiedere la concessione del permesso premio. Parliamo della prima sentenza della Cassazione che si adegua alla dichiarazione della Consulta in merito all’illegittimità costituzionale dell’articolo 4bis dell’Ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se vi sono elementi tali da escludere l’attualità della partecipazione al sodalizio criminale e il pericolo di un ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Il Tribunale di sorveglianza di Torino aveva rigettato il reclamo del recluso Filadelfo Ruggeri avverso al provvedimento con cui il Magistrato di sorveglianza di Novara ha dichiarato l’inammissibilità della richiesta di concessione di un permesso premio in quanto sottoposto al regime del 41 bis in espiazione della pena dell’ergastolo ostativo. Il difensore di Filadelfio Ruggeri ha quindi fatto ricorso articolando più motivi. Con il primo motivo ha dedotto vizio di violazione di legge. Già sulla scorta di quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 149 del 2018 si sarebbe dovuto rilevare, in vista di un’interpretazione costituzionalmente orientata, il contrasto del sistema di preclusioni assolute con i principi costituzionali. Con il secondo motivo ha prospettato la questione di costituzionalità del 4 bis in relazione al principio costituzionale della finalità rieducativa della pena e all’art. 117 della costituzionale in relazione all’art. 3 della Convenzione europea. Il Procuratore generale, intervenuto con requisitoria scritta, ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità del ricorso. Successivamente il difensore ricorrente ha proposto motivi aggiunti con cui ha insistito nella richiesta di annullamento dell’impugnata ordinanza alla luce della recente sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato l’incostituzionalità del 4 bis. La Cassazione ha quindi accolto il ricorso. Come ricordato dal ricorrente con i motivi aggiunti, la Corte costituzionale, con la famosa sentenza n. 253 del 2019, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, anche in via consequenziale, dell’art. 4 bis, nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416 bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, oltre che per i delitti diversi ivi contemplati, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Oggetto della censura di incostituzionalità è la presunzione assoluta della mancata rescissione dei collegamenti con la criminalità organizzata che si fa discendere dalla mancata collaborazione. Alla luce degli articoli 3 e 27 della costituzione, infatti, l’assenza di collaborazione non può risolversi in un aggravamento delle modalità di esecuzione della pena come conseguenza della mancata partecipazione a una finalità di politica criminale e investigativa dello Stato. In questo modo l’art. 4 realizza una “deformante trasfigurazione della libertà di non collaborare”. La Cassazione, quindi, ricorda che la Corte costituzionale ha così sottratto all’applicazione del meccanismo ostativo del 4 bis la disciplina relativa alla concessione del beneficio del permesso premio. La dichiarazione di illegittimità costituzionale comporta che si debba annullare l’ordinanza impugnata per dare modo al Tribunale di sorveglianza, a cui si rinviano gli atti, di valutare se ricorrano, nonostante la mancata collaborazione con la Giustizia, le altre condizioni di legge per la concessione del richiesto permesso premio. La cassazione ha quindi annullato l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al tribunale di sorveglianza di Torino. Detenuti come sardine e senza diritti, così la rieducazione è impossibile di Carlo Alberto Tregua Quotidiano di Sicilia, 3 gennaio 2020 A fine 2019 oltre 61 mila reclusi, 1.500 in più del 2018. Sovraffollamento reale: +131,4%. Nel 27% delle carceri visitate dall’Associazione trovate celle con meno di 3 mq per persona. È in costante crescita il numero dei detenuti nelle carceri italiane: al 30 novembre 2019 erano infatti 61.174, circa 1.500 in più della fine del 2018 e 3.500 in più del 2017. È quanto emerge da un Rapporto diffuso da Antigone che nel corso del 2019, grazie alle autorizzazioni che dal 1998 riceve dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha visitato con i propri osservatori 106 istituti penitenziari, oltre la metà di quelli presenti in Italia. L’elaborazione dei dati raccolti è ancora in corso ma i dati che emergono dalle 66 schede già lavorate restituiscono un panorama preoccupante per la vita negli istituti. Sull’aumento delle presenze non pesano gli stranieri che, sia in termini assoluti che percentuali, sono diminuiti rispetto allo scorso anno. Se al 31 dicembre 2018 erano infatti 20.255, pari al 33,9% del totale dei detenuti, al 30 novembre 2019 erano 20.091, pari al 32,8% del totale dei ristretti. Il tasso di affollamento ufficiale è del 121,2%, tuttavia - osserva l’associazione - circa 4.000 dei 50.000 posti ufficiali non sono al momento disponibili e ciò porta il tasso al 131,4%. Un esempio è quello che riguarda il carcere milanese di San Vittore, dove 246 posti non sono disponibili e dove il tasso di affollamento effettivo è del 212,5%, cioè ci sono più di due detenuti dove dovrebbe essercene uno solo. Anche senza posti non disponibili, tuttavia, ci sono istituti dove le cose non vanno meglio, ad esempio Como e Taranto, dove il tasso di affollamento è del 202%. In generale, al momento, la regione più affollata è la Puglia, con un tasso del 159,2% (il 165,8% se consideriamo i posti conteggiati ma non disponibili), seguita dal Molise (150% quello teorico, 161,4% quello reale) e dal Friuli Venezia Giulia (144,1% teorico e 154,7% reale). “Ancora una volta dobbiamo constatare come, a fronte di un calo dei reati, aumenti il numero dei detenuti - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, associazione che dal 1991 si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale e penitenziario - questo dato si spiega con un aumento delle pene, frutto di politiche che, guardando ad un uso populistico della giustizia penale, hanno risposto in questo modo ad una percezione di insicurezza che non trova riscontro nel numero dei delitti commessi. Quello della crescita dei reclusi è un trend che nell’arco di poco tempo potrebbe portarci nuovamente ai livelli che costarono all’Italia la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per trattamenti inumani e degradanti” Nel 27,3% degli istituti penitenziari visitati dall’associazione Antigone, più di un quarto, sembrerebbero esserci celle in cui i detenuti hanno a disposizione meno di 3mq a testa di superficie calpestabile, una condizione che secondo la Cassazione italiana è da considerare inumana e degradante, in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Inoltre in più della metà degli istituti sono state trovate celle senza acqua calda disponibile e, in altri cinque, celle in cui il wc non era nemmeno in un ambiente separato dal resto della stanza. Anche sulla situazione sanitaria delle carceri, emerge preoccupazione. In un terzo degli istituti visitati non era presente un medico h24 ed in media per ogni 100 detenuti c’erano a disposizione 6,9 ore settimanali di servizio psichiatrico e 11,6 di sostegno psicologico. Una presenza bassa se si considerano le patologie psichiatriche di cui soffre parte della popolazione detenuta. Dalle rilevazioni dell’osservatorio di Antigone è infatti emerso che il 27,5% degli oltre 60.000 reclusi assumeva una terapia psichiatrica. Inoltre 10,4% erano tossicodipendenti con un trattamento farmacologico sostitutivo in corso. Anche per quanto riguarda il lavoro la situazione non è migliorata rispetto agli anni passati, fa notare Antigone: i detenuti che lavoravano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria sono, in media, circa il 25% e, nella maggior parte dei casi, questo impegno è solo di poche ore al giorno e non in tutti i giorni della settimana. Solo il 2,2% lavora per una cooperativa privata o per un datore di lavoro esterno. Infine, nel 30% degli istituti visitati, non c’è alcun corso di formazione professionale. “Se il lavoro è uno degli strumenti di maggior importanza per una effettiva risocializzazione del condannato, questi numeri testimoniano un sistema spesso schiacciato sulla funzione custodiale” sottolinea ancora il presidente di Antigone. “Un fattore quest’ultimo che emerge anche dando uno sguardo alla distribuzione del personale penitenziario, in maggioranza composto da agenti di polizia. In media, nelle nostre visite, abbiamo trovato un agente ogni 1,9 detenuti (uno dei dati più bassi in Europa), ed un educatore ogni 94,2 detenuti. Inoltre solo in poco più della metà degli istituti c’era un direttore a tempo pieno, con tutte le difficoltà di gestione della vita interna che questa mancanza comporta. A proposito di nuove assunzioni nelle carceri - conclude Patrizio Gonnella - speriamo che si sblocchi presto quella di giovani direttori. Il bando è fermo da troppo tempo. Ne va della finalità rieducativa della pena prevista dall’articolo 27 della Costituzione”. Come cambia la prescrizione di Alessandro Bianchi ilpost.it, 3 gennaio 2020 Dalla mezzanotte del primo gennaio è entrata in vigore la riforma della prescrizione approvata dal primo governo Conte lo scorso anno, e contenuta nel disegno di legge anticorruzione, il cosiddetto “Spazza-corrotti”. La riforma, fortemente voluta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal Movimento 5 Stelle, prevede il blocco assoluto della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. La prescrizione è l’estinzione di un reato a seguito del trascorrere di un determinato periodo di tempo: con la riforma nessun processo finirà mai in prescrizione se è arrivato almeno a una sentenza di primo grado. La prescrizione è una forma di garanzia per gli imputati contro l’eccessiva lunghezza dei processi - visto che i processi hanno costi enormi per gli imputati, anche nel caso poi si concludano con un’assoluzione - ed è uno strumento che lo Stato può utilizzare quando non è più interessato a perseguire alcuni reati (quelli punibili con l’ergastolo, invece, erano già imprescrittibili prima della riforma). La prescrizione serve anche a ridurre gli errori giudiziari, dal momento che più passa il tempo più le indagini e i processi si fanno complicati (le prove si deteriorano, i testimoni muoiono, eccetera). La riforma della prescrizione si applicherà solo ai presunti reati compiuti a partire dal primo gennaio del 2020 e solo dopo che si arriverà a una sentenza di primo grado, sia di condanna che di assoluzione. I suoi effetti quindi per ora non si possono vedere nel concreto, anche se molti temono che la principale conseguenza della riforma sarà un generale allungamento dei tempi della giustizia. La riforma prevede che restino invariati i termini della prescrizione per i reati consumati e tentati (nel primo caso decorre dal momento in cui è stato consumato il presunto reato, nel secondo dal momento in cui è terminata l’attività dell’imputato), mentre cambiano i termini per i reati continuati, cioè quelli in cui una persona commette più reati che rientrano in un medesimo “disegno criminoso”, come si dice: in questo caso il termine di prescrizione decorrerà dal giorno in cui è cessata la continuazione, e non più dal momento in cui è stato commesso ciascuno dei reati. Come funzionava la prescrizione, finora - In Italia la prescrizione si applica a tutti i reati tranne quelli che prevedono l’ergastolo, quando dal momento in cui viene commesso un reato trascorre un periodo pari alla durata massima della pena per quel reato più un quarto (e in certi casi può intervenire anche prima). Prima della riforma, che si arrivasse a una sentenza di primo grado o di appello, quindi, un reato poteva essere estinto se passava un tempo eccessivo, venendo meno l’interesse dello Stato a perseguirlo. Con la riforma questo non accadrà più, e una volta arrivati a una sentenza di primo grado la prescrizione non potrà essere applicata. Nelle intenzioni del Movimento 5 Stelle, la riforma servirà a garantire la cosiddetta “certezza della pena”, e quindi a impedire che un imputato colpevole non venga punito a causa del passare del tempo. Chi critica la riforma sostiene che il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio non possa essere la soluzione a questo problema, dato che oggi la maggior parte delle volte la prescrizione scatta in fase di indagine, cioè prima ancora dell’inizio del processo di primo grado. La riforma, secondo i critici, non produrrebbe sostanziali miglioramenti alla lentezza della giustizia italiana, con i reati che vengono scoperti troppo tardi, le indagini che vanno molto per le lunghe tra proroghe e proroghe e le procure a corto di personale che sono costrette a trascurare i fascicoli dei reati minori per concentrarsi su casi più importanti, lasciando che i primi cadano in prescrizione. Attualmente si stima infatti che ai tribunali italiani manchino circa 10 mila dipendenti per poter funzionare a pieno regime. Con questa riforma, un imputato che venga assolto in primo grado potrebbe non veder finire la sua vicenda processuale per molti anni - e teoricamente per sempre - anche se nel frattempo non dovesse accadere nulla perché i tribunali hanno deciso di concentrarsi su casi più gravi e urgenti. Secondo gli ultimi dati disponibili, riportati da un’analisi di Pagella Politica pubblicata da AGI, nel 2017 ci sono stati circa un milione di processi in Italia, di cui il 12,6 per cento andato in prescrizione (meno di 126mila). Di queste prescrizioni, solo 28mila sono avvenute in appello o in Cassazione: vuol dire che circa 100mila prescrizioni non verrebbero toccate dalla nuova riforma. Cosa dicono i partiti - I più soddisfatti della riforma sono ovviamente gli esponenti del Movimento 5 Stelle, che ne hanno fatto una bandiera del loro anno e mezzo al governo. Il leader del Movimento, Luigi Di Maio, ha commentato l’entrata in vigore della riforma dicendo che “prima si perdeva tempo e si riusciva a farla franca, ora se vieni condannato in primo grado la prescrizione non esiste più, devi arrivare a sentenza”. Il ministro Bonafede, invece, ha annunciato che dopo la riforma della prescrizione il prossimo passo del governo sarà la riduzione dei tempi dei processi attraverso una riforma del processo penale e civile. Tra i più critici c’è il PD, oggi alleato di governo del M5S, che lo scorso 27 dicembre ha presentato ufficialmente una proposta di legge per modificare la riforma. La proposta del PD modera la riforma del M5S e prevede che la prescrizione venga sospesa per un massimo di 30 mesi dopo la sentenza di primo grado e per un massimo di un anno dopo la sentenza di appello. La proposta verrà discussa anche al vertice di maggioranza previsto per il 7 gennaio, nel tentativo che PD e M5S raggiungano un accordo su una possibile modifica della riforma prima di un voto in Parlamento: in questo caso, infatti, il PD potrebbe contare sull’appoggio di Italia Viva e Forza Italia, anch’essi contrari alla riforma, e il M5S si troverebbe in minoranza. Nel frattempo il responsabile Giustizia di Forza Italia, Enrico Costa, ha presentato alla Camere un disegno di legge che prevede l’abrogazione della riforma della prescrizione, a cui Italia Viva ha già detto che voterà a favore. Il voto è previsto per il prossimo 10 gennaio e Costa ha detto che, nel caso in cui dopo il vertice di maggioranza venisse presentato un emendamento contenente il testo del PD, Forza Italia lo sosterrà. Ha aggiunto tuttavia di credere i parlamentari del PD “pur di salvare il governo, sarebbero capaci di votare contro la loro stessa proposta 10 giorni dopo averla presentata”. “La nuova prescrizione limitata alle condanne: così medierò tra Bonafede e Pd” di Errico Novi Il Dubbio, 3 gennaio 2020 Intervista a Federico Conte, deputato di Leu in Commissione giustizia alla Camera. Partiamo da un punto. Federico Conte è un avvocato penalista raffinato. Giovane e figlio d’arte. Deputato eletto a Salerno, rappresenta Leu in commissione Giustizia alla Camera. È molto ascoltato ai vertici di maggioranza sul processo penale perché è tra i più tecnici, almeno quanto il premier, quasi suo omonimo, che è civilista. “E infatti lo scorso 19 dicembre ho verificato come una mia proposta, in particolare, sia stata ascoltata con molta attenzione. Anche da Bonafede, avvocato a sua volta”. Ecco. Conte ha messo sul tavolo l’ipotesi che rischia di corrispondere alla pluri-evocata sintesi sulla prescrizione, per quanto suscettibile di molte obiezioni: “Limitare la norma Bonafede alle sole pronunce di condanna in primo grado. Tenere fuori dal meccanismo chi in primo grado è assolto. E dedicare tutti gli sforzi della riforma a tutelare i condannati affinché i loro giudizi in appello e in Cassazione si chiudano in tempi davvero ragionevoli”. Dopodiché il deputato di Leu tiene a chiarire: “È evidente che non si tratta della soluzione migliore in assoluto. Non lo è sul piano della rigorosa adesione al dettato costituzionale. Io ho depositato una proposta di legge piuttosto diversa”. Ecco, onorevole Conte: partiamo da quella... “Da una settimana prima che il Pd presentasse la rielaborazione della riforma Orlando, è agli atti di Montecitorio un mio testo che prevede di anticipare il blocco della prescrizione al rinvio a giudizio”. E fin qui sarebbe ancora più devastante della norma appena entrata in vigore... “Ma entrerebbero in gioco dei termini di fase perentori, a pena di decadenza dell’azione penale, già in primo grado. Con una particolarità: un primo arco temporale di un anno lasciato a disposizione del giudice per programmare le udienze. Dovrebbe farlo non secondo il criterio meramente cronologico adottato oggi, che produce solo rinvii, ma tenuto conto della effettiva possibilità di celebrazione”. E quanto durerebbe il primo grado? “Dopo l’anno a disposizione per il calendario, il primo grado di giudizio dovrà chiudersi perentoriamente entro due anni, che possono diventare tre su ordinanza del giudice qualora ritenga si tratti di un processo dalla particolare complessità. Un’ordinanza impugnabile, naturalmente, da parte della difesa. Avremmo dunque il termine di prescrizione del reato tutto a disposizione dei passaggi che precedono l’eventuale rinvio a giudizio, ma con il controllo del gip sull’effettivo rispetto dei termini per le indagini, già previsto nella bozza Bonafede. Poi 3 anni, o 4 nei casi più difficili, per chiudere il primo grado e, secondo la mia proposta di legge, due anni entro cui deve completarsi la fase d’appello e un anno e mezzo entro cui deve pronunciarsi la Cassazione”. Quando ne parlerà il 7 gennaio al vertice, Bonafede le ribadirà: così la prescrizione rientra dalla finestra. “No, guardi, è tutt’altra cosa”. Perché? “La prescrizione processuale da me ipotizzata anche per il primo grado ha un significato completamente diverso dalla prescrizione del reato: io do ancora più tempo allo Stato per acquisire la notizia di reato, perché appunto prevedo che il termine di prescrizione possa anche consumarsi quasi per intero negli anni che precedono il rinvio a giudizio; poi però, una volta emesso l’atto che dispone il giudizio, tu Stato non hai più motivi per sottrarti. Hai deciso di perseguire un’ipotesi di illecito, ma devi farlo entro tempi determinati. Non ci sarebbe più il reato che si estingue perché nascosto troppo a lungo, ma resta l’obbligo di garantire la ragionevole durata del processo”. Sembra invece che la sola minima apertura di Bonafede sia su un blocca-prescrizione limitato alle sentenze di condanna: è vero? “Una cosa devo dirla: al vertice del 19 dicembre sono stato io ad avanzare quell’ipotesi. Premesso che il sistema più razionale è quello appena descritto, e che ho articolato in una proposta di legge, se lo si deve conciliare in termini di mediazione politica con l’imprescindibilità dello stop alla prescrizione finora opposta dal ministro, mi sembra che la sola via d’uscita politicamente praticabile sia liberare almeno le sentenze di assoluzione dall’incubo del processo eterno”. Ma così non si infrange la presunzione di non colpevolezza? Può bastare una condanna in primo grado per vedersi infliggere una condizione così aggravata, rispetto a chi in primo grado è assolto? “Con un paradosso potrei ribattere: meglio dimezzare lo spazio di probabile incostituzionalità. D’altronde io stesso ho rappresentato al ministro che i profili di illegittimità della sua norma, che blocca la prescrizione in tutti i casi, sono notevoli, e che intanto i penalisti promuoveranno probabilmente un referendum abrogativo. Poi si può dire che una condanna in primo grado un po’ attenua, nei fatti, la presunzione di non colpevolezza, e che in ogni caso a quel punto bisognerà concentrare tutti gli sforzi per garantire, a chi è condannato, delle fasi d’appello e di legittimità le più celeri possibili. Anche con la possibilità per l’imputato stesso di chiedere l’anticipazione dell’udienza, come proposto dal ministro”. Lei dice che Bonafede potrebbe convincersi davvero? “Posso solo dire che ha ascoltato con attenzione. E che una simile ipotesi contempera con il minor danno realisticamente possibile, allo stato, l’esigenza di completare l’accertamento, avanzata dai 5 Stelle, con quella dei tempi ragionevoli”. L’Unione Camere penali le dirà: caro Federico Conte, non puoi pugnalare così i tuoi colleghi... “Ho un’enorme stima del presidente Caiazza. Lui rappresenta tutti gli avvocati penalisti, ma io faccio il politico e temo che affermare anche con energia la propria giusta ragione non basti a vederla prevalere sulle pretese altrui. Aggiungo: con la limitazione alle sole condanne, non si può certo dire che il quadro attuale peggiorerebbe: almeno di un po’ sarebbe migliore”. Un’ultima cosa: lo sa, vero, che, sulla legge Costa, qualora Italia viva votasse con l’opposizione, lei sarebbe l’ago della bilancia in commissione? “Noi dobbiamo trovare una soluzione sul piano politico. Se la maggioranza salta su questo, va al governo la componente più giustizialista di tutte, ossia la destra leghista. Quella dei decreti sicurezza e della legittima difesa. Non dimentichiamo che la riforma della prescrizione è controfirmata da Giulia Bongiorno, non dimentichiamolo mai”. Il magistrato Auriemma: “Questa legge nega che un uomo possa cambiare” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 3 gennaio 2020 “La prescrizione è uno dei pilastri del nostro sistema giudiziario perché pone l’uomo al centro, un uomo che cambia e che non è più lo stesso a distanza di anni. Ecco perché interromperla è un grosso errore”. Paolo Auriemma, procuratore di Viterbo, è molto critico con la riforma voluta dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede ed in vigore da mercoledì. “Già adesso è doloroso emettere ordini di carcerazione nei confronti di persone che hanno cambiato vita e anni prima erano dediti ai reati: figuriamoci cosa accadrà domani”, prosegue Auriemma, secondo cui “le difficoltà della giustizia italiana non si superano bloccando la prescrizione. Non è questa la radice dei problemi”. Il procuratore di Viterbo è comunque consapevole che il blocco della prescrizione ha riscosso successo in ampi settori della magistratura: “A differenza di molti altri magistrati non solo sono contrario ma sono anche abbastanza preoccupato. Il mio è un punto di vista personale, in assoluta minoranza: la maggior parte dei magistrati, con l’Anm, si è espressa positivamente”. Un riferimento a quanto accaduto durante l’ultimo congresso nazionale dell’Anm in cui il presidente Luca Poniz, inizialmente contrario - “la riforma della prescrizione rischia di produrre squilibri complessivi” - aveva cambiato idea - “la prescrizione così com’è va benissimo” - il giorno dopo. Se l’Anm ha cambiato idea, Auriemma ha però un “alleato” autorevole: il parere espresso dal Csm in occasione dell’approvazione della legge Spazzacorrotti, ove era stato inserito lo stop della prescrizione. Con il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado si rischierebbe un “allungamento dei processi”, e questo, di conseguenza, “aggraverebbe il vulnus al principio di cui all’articolo 111 della Costituzione” e “darebbe luogo ad una potenziale lesione del diritto di difesa dell’imputato garantito dall’articolo 24 della Costituzione”, scrivevano a Palazzo dei Marescialli a dicembre del 2018. “Le uniche modifiche processuali sembra vadano in controtendenza con la ragionevole durata dei processi. Penso all’eliminazione del giudizio abbreviato per i reati punibili con l’ergastolo”, fa notare invece Auriemma. “Questa modifica ha portato, a Viterbo, alla necessità di instaurare diverse Corti d’assise in corso nello stesso momento, i cui lavori ovviamente incideranno sull’intero andamento del Tribunale: un assassino reo confesso, ad esempio, aveva chiesto l’abbreviato, ma è stato dichiarato inammissibile proprio in virtù di questa riforma, con conseguente dispendio di energie e di tempo”. Alla vulgata secondo cui la causa della prescrizione sia da addebitare alle condotte dilatorie degli avvocati, la replica del procuratore di Viterbo è netta: “È una affermazione senza senso, una rappresentazione superficiale, quasi macchiettistica, di una categoria professionale che invece contribuisce alla crescita culturale del Paese”. Se le riforme “epocali” della giustizia non si sono ancora viste, una strada percorribile fin da ora per velocizzare almeno alcune fasi del procedimento passa per l’informatizzazione. “La Procura di Viterbo, a tal riguardo, è un punto di riferimento per gli uffici del Lazio. La sua organizzazione informatica è stata definita un’eccellenza dagli ispettori del ministero della Giustizia. Con l’informatizzazione siamo riusciti a supplire alla carenza di personale amministrativo e ad eliminare anche molti arretrati, soprattutto quelli riguardanti l’iscrizione della notizia di reato. I fascicoli noti sono stati scannerizzati e gli avvocati possono visualizzarli digitalmente e richiederne copia con un dimezzamento dei costi”, afferma Auriemma. “E grazie ad una convenzione con l’università della Tuscia aggiunge - è stato reso più fruibile il sito della Procura, attraverso il quale possono essere richiesti pure determinati certificati”. E sulle mancate notifiche che comportano un rallentamento dei processi perché le udienze saltano? “Ora le notifiche vengono fatte via pec e tramite il sistema Tiap (Trattamento Informatico Atti Processuali, un applicativo sviluppato da via Arenula, ndr), puntualizza il procuratore di Viterbo. Riforma processo penale Bonafede: cosa prevede e cosa cambia di Isabella Policarpio money.it, 3 gennaio 2020 La riforma del processo penale di Bonafede suscita ancora molti dubbi, soprattutto per quanto riguarda lo stop della prescrizione. Ecco le novità del testo e i punti di rottura con il passato. Riforma processo penale Bonafede: cosa prevede e cosa cambia. La riforma della Giustizia del Ministro Bonafede tocca anche il processo penale. Hanno collaborato al testo sia le Camere penali che l’Associazione nazionale magistrati, ma ci sono ancora molti nodi da sciogliere. Mentre la riforma del processo civile piace alla maggioranza, quella in ambito penale viene fortemente contestata, soprattutto nella parte in cui modifica sensibilmente l’istituto della prescrizione, in vigore dal 1° gennaio 2020. Le maggiori modifiche al procedimento davanti al giudice penale riguardano l’ampliamento delle ipotesi di patteggiamento, il rafforzamento dell’udienza preliminare, l’allargamento dell’integrazione probatoria nel rito abbreviato e molti altri aspetti che andremo ad approfondire, soprattutto sui riti speciali. In questo articolo vedremo il testo della riforma del processo penale - precisamente al delega al Governo dello scorso luglio - e faremo il punto di cosa potrebbe cambiare. Riforma del processo penale, cosa prevede e perplessità - Sulla riforma del processo penale restano ancora molte questioni irrisolte, sulle quali la maggioranza sembra non aver trovato ancora un accordo. La riforma del processo penale, inizialmente presentata in 32 punti “rivoluzionari” è stata fortemente ridimensionata in sede di delega al Governo lo scorso luglio, e dovrebbe accompagnarsi alla Riforma della prescrizione che nonostante la sua entrata in vigore è ancora fortemente criticata. Cerchiamo di fare il punto delle modifiche più significative. Per quanto attiene alle indagini preliminari, quelle necessarie a stabilire se i reati contestati esistano o meno, il piano di riforma vuole introdurre interessanti novità per rendere il procedimento investigativo più veloce. Innanzitutto, sarà compito del Consiglio Superiore della Magistratura indicare con quali criteri procedere alla scelta dei reati a cui dare la priorità nelle indagini investigative. Poi, una volta iniziato l’iter di indagine, queste dovranno svolgersi entro il termine massimo di 6 mesi (per reati per cui la legge prevede la pena pecuniaria o la detenzione per non più di 3 anni) oppure di 1 anno e 6 mesi al massimo, per le fattispecie di maggiore gravità. Le indagini preliminari potranno essere prorogate una volta soltanto. Il Pm incaricato dovrà procede senza ritardo a comunicare all’indagato il deposito delle indagini, ed egli dovrà avere la possibilità di visionare tutta la documentazione. Se il Pm omette questa comunicazione, potrà subire delle sanzioni disciplinari. Oltre alle indagini preliminari, la riforma riguarda anche il processo vero e proprio. Nell’ottica di alleggerire il carico giudiziario si prevede: il rafforzamento dell’udienza preliminare; l’aumento delle ipotesi di integrazione probatoria nel rito abbreviato; l’ampliamento delle ipotesi di ricorso in Appello. Tuttavia, nonostante gli sforzi notevoli, le Camere penali nonché gli ordini degli avvocati e dei magistrati, ritengono che queste misure non siano sufficienti a snellire il processo e che, invece, sarebbe stato opportuno ampliare anche le ipotesi di patteggiamento. La Riforma interviene anche sui riti speciali, seppur in maniera superficiale, per i quali viene accresciuta l’incidenza della prova (di cui si chiede l’integrazione) piuttosto che la funzione di “economia processuale”. Sul versante del giudizio d’Appello ci sono due novità fondamentali: l’inappellabilità per sentenze punite con pena pecuniaria; monocraticità in appello per il rito monocratico. Servirà tutto ciò a garantire la ragionevole durata del processo? Riforma della giustizia tributaria: lesivo ridurre i gradi di giudizio di Federica Micardi Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2020 Coro di critiche sulla proposta del presidente del Consiglio Giuseppe Conte di ridurre la giustizia tributaria in due gradi di giudizio. Un proposito enunciato durante la conferenza stampa di fine anno. Il presidente dall’Amt, l’Associazione magistrati tributari, Daniela Gobbi sottolinea come “l’eliminazione di un grado non solo rappresenterebbe una riduzione delle garanzie delle parti, ma per il processo tributario, tenuto conto della rapidità con cui si concludono due gradi di merito, comporterebbe un ulteriore aggravio del contenzioso in Cassazione in contrasto con la esigenza di ridurre i tempi di controllo di legittimità”. Considerazioni queste che saranno formalizzate in una lettera che oggi sarà inviata al premier Conte. Gobbi ricorda che molti soggetti sono impegnati a formulare proposte di riforma. La stessa Amt, che rappresenta i due terzi dei giudici tributari, si è fatta promotrice di un tavolo sulla riforma al quale hanno aderito dodici sigle (Cnf, Cndcec, Amt, Anc, Anti, Aipdt, Igs, Ogt, Ssdt, Ogt, Uncat, Oida) che stanno lavorando su un progetto condiviso: il 30 gennaio è calendarizzato un incontro per discutere sulla bozza di riforma. “L’appello tributario - scrive Gobbi - è anche un utile strumento di deflazione del contenzioso in Cassazione”. Dai dati della Relazione del Mef per il 2018 emerge che su 63mila appelli decisi solo 12mila, cioè meno del 20%, sono state le sentenze impugnate in Cassazione. Dello stesso tenore la reazione del presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti, Massimo Miani, che avverte sui pericoli di ridurre a uno i giudizi di merito. “L’obiettivo prioritario per una giustizia tributaria più celere ed efficiente - dice Miani - non è la riduzione del processo a due gradi di giudizio, ma la ridefinizione dei requisiti professionali del giudice tributario, al fine di riservare tale funzione a giudici a tempo pieno che siano in possesso di una preparazione specifica nella materia tributaria a garanzia della imparzialità e dell’indipendenza dell’organo giudicante”. Contro la “proposta Conte” anche l’Uncat, l’Unione degli avvocati tributaristi: “Il disegno violerebbe la Costituzione se sopprimesse la Cassazione e negherebbe i principi del giusto processo se si riferisse all’appello”. Preoccupazione condivisa anche dai sindacati dei commercialisti Adc e Anc Maria Pia Nucera (Adc) e Marco Cuchel (Anc) invitano a un’attenta riflessione sugli effetti che tale intervento comporterebbe e si dichiarano comunque pronti a mettere a disposizione le proprie competenze, in collaborazione con le altre associazioni di settore, nell’ambito di un progetto di riforma della giustizia tributaria. Processo tributario. Coro di no all’idea di Conte di eliminare un grado di giudizio di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 3 gennaio 2020 I tributaristi replicano al premier. Antonio Leone: “oltre ad essere incostituzionale, priverebbe le parti del controllo di legittimità da parte del giudice delle leggi, depositario unico della funzione nomofilattica”. Non ha avuto successo la proposta di Giuseppe Conte, illustrata durante la conferenza stampa di fine anno a Palazzo Chigi, di voler eliminare “un grado di giudizio” nel processo tributario affinché chi “abbia una pendenza possa risolverla in tempi brevi”, senza dover “rimanere dieci anni bloccato per una cartella esattoriale.” Dal Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria, per bocca del suo presidente Antonio Leone, all’Unione nazionale delle Camere degli avvocati tributaristi (Uncat), si è subito levato un coro di critiche nei confronti dell’idea del premier. “Vorrei ricordare a Conte che i tempi della giustizia tributaria surclassano quelli di tutte le altre giurisdizioni”, ha affermato Leone, manifestando stupore sul fatto che il premier sia diventato improvvisamente “sensibile alla durata del processo tributario quando nel processo penale, con l’abolizione della prescrizione a partire da gennaio, si darà il via al processo senza fine”. “In materia di giustizia tributaria - sottolinea Leone - questa proposta del presidente del Consiglio ricalca quella di qualche mese fa del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti, ove l’eliminazione di un grado di giudizio era riferita alla soppressione del giudizio di legittimità”. “L’eliminazione del ruolo che la Cassazione svolge da decenni in materia tributaria - interpretando il diritto e la giurisprudenza in materie complesse quali quelle fiscali - oltre ad essere palesemente incostituzionale, priverebbe le parti dell’imprescindibile controllo di legittimità da parte del giudice delle leggi, depositario unico della funzione nomofilattica”, ha ricordato Leone. Dello stesso avviso gli avvocati tributaristi, secondo i quali “ridurre a due gradi la giurisdizione violerebbe la Costituzione se sopprimesse la Cassazione e negherebbe i principi del giusto processo se si riferisse all’appello”. “Additare il contenzioso sulle cartelle - precisano i tributaristi - come la causa dei mali, strumentalizzandolo ai fini della riduzione dei gradi di giudizio, pare esprimere il disprezzo del diritto quale strumento di garanzia e di tutela proprio dei cittadini: l’annunciata riforma costituisce il punto di caduta più basso dopo la sostanziale abolizione della prescrizione e l’inasprimento del carcere per i presunti evasori”. Non è, comunque, la priva volta che il premier affronta il tema della giustizia tributaria. A dirlo è sempre Leone: “Il Conte Uno si è aperto nell’estate del 2018 con la sbandierata necessità di riformare la giustizia tributaria. E sempre il Conte Uno si è chiuso con una citazione sulla mancata riforma della giustizia tributaria. Durante l’insediamento del Conte Due, poi, è stata inserita nel programma la riforma della giustizia tributaria: non vorrei che per una effettiva riforma della giustizia tributaria, anche nel senso voluto dal Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria, si debba aspettare il Conte Ter o Quater che dir si voglia”. “Piuttosto che pensare solo e soltanto all’eliminazione di un grado di giudizio, la vera riforma si avrà stanziando risorse nella giurisdizione tributaria e modificando il processo tributario. Di tutto ciò, però, nella legge di bilancio e nei successivi decreti nemmeno l’ombra. Anzi, la parola giustizia tributaria non è stata neppure citata”, ha concluso Leone. Argomento ripreso anche dall’Uncat: “In Parlamento sono già depositate diverse proposte di legge di riforma presentate anche dalle forze politiche di maggioranza: il premier faccia della giustizia tributaria un luogo di garanzia delle giuste pretese di amministrazione finanziaria e cittadini”. Tranchat, infine, il commento di Daniele Virgillito, presidente dell’Unione nazionale giovani dottori commercialisti ed esperti contabili (Ungdcec): “Di fronte a tali argomentazioni pronunciate “dall’avvocato del popolo”, le prospettive per il 2020 sono particolarmente preoccupanti. Si passerà, infatti, dalla ricerca della certezza del diritto all’unica esigenza indifferibile rappresentata dalla certezza dell’incasso”. Giustizia, 251 neo magistrati attendono di essere “assunti” di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 3 gennaio 2020 Un anno fa hanno vinto il concorso, ma il decreto ministeriale necessario per la messa in ruolo è bloccato perché manca la copertura finanziaria. Quando hanno sostenuto le prove scritte era il gennaio del 2018. Al governo c’era Paolo Gentiloni, il ponte Morandi a Genova era ancora in piedi e Stephen Hawking ancora in vita. Sono passati due anni e i 251 neo-magistrati vincitori del concorso bandito a maggio 2017 aspettano ancora il decreto di immissione in ruolo. La loro storia è da record: mai in Italia era trascorso tanto tempo tra la fine della selezione - gli ultimi orali risalgono allo scorso 6 maggio - e l’inizio del tirocinio negli uffici giudiziari. Di solito ci vogliono al massimo tre mesi, qui siamo già a otto. Un ritardo ancor meno spiegabile se si pensa che alla magistratura italiana mancano oltre 1.600 uomini e donne, tra scoperture (1.008 posti vacanti sui 9.991 attuali, il 10,1%) e aumenti di organico promessi ma non ancora realizzati (i 600 magistrati in più previsti nella legge di Bilancio 2019, che nei prossimi 3 anni dovrebbero portare il totale dell’organico a 10.591). Chi si oppone al blocco della prescrizione dopo il primo grado, in vigore per i reati commessi dal 1° gennaio, dice che la riforma è pericolosa se non accompagnata da misure volte a ridurre i tempi dei processi. Ma perché allora tenere ai box tante energie fresche, in grado di far respirare procure e tribunali in affanno? Il problema, manco a dirlo, sono i soldi. Già in primavera, al ministero della Giustizia si capisce che non ci sono le coperture per assumere le giovani toghe nell’anno in corso. Ma la legge parla chiaro: dopo il concorso il Csm ufficializza la graduatoria, e da quel momento il Ministro ha venti giorni per firmare il decreto di nomina. Non rispettare il termine, però, non rende l’atto invalido, ma implica una semplice responsabilità politica. Così per Alfonso Bonafede inizia la “missione 2020”: le assunzioni devono slittare all’anno nuovo, costi quel che costi. Un assist arriva proprio dal Csm, che il 24 luglio approva una prima graduatoria “con riserva”, perché il padre di una candidata vincitrice è stato intercettato dalla Procura di Napoli mentre cercava aiuti per far passare il concorso alla figlia. In teoria ciò non impedisce che almeno gli altri 250 possano iniziare il tirocinio, ma il Ministro coglie al volo l’occasione e rispedisce l’atto a palazzo dei Marescialli (un inedito assoluto) chiedendo di sciogliere la riserva sul caso prima di emettere il decreto. Così si arriva al 16 ottobre, quando esce la seconda graduatoria, stavolta definitiva: la candidata è ammessa. Ma i 20 giorni passano e il decreto ancora non arriva. E i 251 vincitori iniziano a preoccuparsi per il loro destino, tanto più che nessuno si preoccupa di far sapere loro qualcosa. Le Pec (posta elettronica certificata) indirizzate al Ministro o al suo capo di Gabinetto rimangono senza risposta: i soli aggiornamenti, informali, vengono dai funzionari di via Arenula. È da loro che, il 16 novembre, i neo-magistrati apprendono che il decreto è stato sì firmato, ma rimandato subito indietro dalla Ragioneria generale dello Stato, perché la norma di copertura è inidonea. E Bonafede lo sapeva dall’inizio. “Comprenderà il nostro sconcerto - scrivono al Guardasigilli qualche giorno dopo - nell’apprendere una notizia che ben poteva esser resa nota già all’esito delle prove d’esame; a ciò si aggiunga che da più parti, compresi gli uffici del suo ministero, ci veniva confermato che i motivi del ritardo erano da ricondurre esclusivamente alla nota riserva, non appena sciolta la quale si sarebbe proceduto con la nomina. Siamo a richiederle dovute delucidazioni in merito, anche in virtù del principio di trasparenza della pubblica amministrazione di cui siamo diretti interessati”. Risposte? Ancora nessuna. Anche se i fondi adesso ci sono: l’articolo 1, comma 416, della legge di Bilancio 2020 stanzia 13,9 milioni per l’anno a venire, che aumentano progressivamente fino a 25,6 milioni (nel 2029). E il Ministro, su Facebook, annuncia “più magistrati, con 250 nuove assunzioni”. Dal suo staff giurano che il decreto arriverà entro il 10 gennaio. Ma le neo-toghe ormai sono disilluse. “Alcuni di noi hanno superato l’orale più di un anno fa”, si sfoga uno dei vincitori. “Nel frattempo siamo in attesa, molti di noi senza lavoro e stipendio. Preferiremmo che il ministro ci dicesse qualcosa, invece di farsi bello sui social”. Ok intercettazioni se i reati diversi sono connessi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sentenza 51/2020. Se il reato è connesso cade il divieto di utilizzare le intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali sono state autorizzate. Le sezioni unite con la sentenza 51, forniscono le motivazioni di un verdetto anticipato da un’informazione provvisoria (si veda il Sole 24 ore del 4 dicembre 2019). Dalle Sezioni unite arriva l’indicazione per superare i divieti tassativi posti dall’articolo 270 del Codice di procedura penale, in nome della privacy, restando in linea con l’articolo 15 della Costituzione, che vieta le “autorizzazioni in bianco”. L’equilibrio tra l’esigenza di riservatezza dei privati e la necessità di contrastare il crimine sta nella verifica di un legame sostanziale, indipendente dalla vicenda processuale, tra il reato per il quale c’è stato il via libera all’intercettazione e il reato emerso grazie all’ascolto. Legame che c’è, ad esempio, nel concorso formale di reati o nel reato continuato. In caso di imputazioni connesse, in base all’articolo 12 del Codice di rito penale, il procedimento relativo al reato per il quale l’autorizzazione è stata espressamente concessa non può considerarsi “diverso” rispetto a quello relativo al reato accertato in forza dell’intercettazione. Per legittimare l’uso delle intercettazioni che non hanno avuto un espresso via libera, il giudice dovrà indicare “un preciso collegamento tra i fatti per i quali erano state mano a mano autorizzate e prorogate le operazioni di intercettazione e quelli per i quali, anche sulla base delle conversazioni intercettate, è stata confermata la condanna”. Il tutto senza valutazioni assertive ma subordinato a una concreta valutazione. Per i giudici l’equazione procedimento-reato è smentita, riguardo alle intercettazioni dal comma 1-bis dell’articolo 270, introdotto dalla riforma Orlando (Dlgs 216/2017). Una norma secondo la quale i risultati delle intercettazioni fatte con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile “non possono essere utilizzati come prova di reati diversi da quelli per quali è stato emesso il decreto di autorizzazione”. In questa prospettiva il riferimento al reato e non al procedimento è teso a distinguere il regime di utilizzabilità delle intercettazioni. Solo per il trojan e non per le intercettazioni tradizionali il regime viene delineato riguardo al reato per il quale c’è stata l’autorizzazione. I giudici sul punto ricordano però che nel corso del deposito della sentenza, il decreto legge 161/2019 ha sostituito il comma 1-bis dell’articolo 270. Il nuovo articolo prevede che i risultati delle intercettazioni fra presenti fatte con il trojan su dispositivo elettronico portatile possono essere utilizzati anche per provare reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione se compresi tra quelli indicati dall’articolo 266 comma 2-bis. Tra i quali anche i reati commessi dai pubblici ufficiali o dagli incaricati di pubblico servizio. I giudici precisano però che, sul piano interpretativo, resta valida l’indicazione offerta dallo stesso comma 1-bis, nella formulazione vigente alla data della deliberazione della sentenza, per quanto riguarda la distinzione, tra reato e procedimento. Per l’associazione a delinquere serve la prova della coscienza e della volontà di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 2 gennaio 2020 n. 2. Per provare la partecipazione al delitto di associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, in un contesto in cui opera la ndrangheta, serve la prova della coscienza e della volontà di far parte dell’organizzazione. La corte di cassazione, con la sentenza n.2, ricorda che per affermare che un soggetto si è messo a disposizione del gruppo criminale oltre alla prova di un rapporto di collaborazione stabile e continuativo ai fini del perseguimento degli scopi illeciti, serve anche la dimostrazione della coscienza e della volontà di far parte dell’organizzazione, di contribuire al suo mantenimento e di favorire la realizzazione del fine comune di trarre profitto dal commercio di sostanze stupefacenti. La Suprema corte accoglie così il ricorso con il quale l’indagato chiedeva la revoca della custodia cautelare in carcere per il delitto di partecipazione ad associazione criminale e detenzione illecita di droga. Una vicenda che si inseriva in un contesto dominato dalla ndrangheta, nella quale il ricorrente era stato coinvolto grazie a delle intercettazioni dalle quali era chiaro il contatto con un esponente della famiglia locale, con il quale parlava di pagamenti e di numeri riferibili ai grammi di droga. Per la Cassazione però il tribunale non motiva adeguatamente sul significato e sul tenore della conversazione né sull’inserimento della stessa in un determinato ambito criminale. Per i giudici, che annullano con rinvio, manca la prova della stabile adesione e della coscienza di aiutare il clan. Interdittiva antimafia anche se i fatti risalgono a 20 anni prima di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 3 gennaio 2020 Consiglio di Stato - Sentenza 2 gennaio 2020 n. 2. L’interdittiva antimafia è legittima anche se si fonda su fatti risalenti nel tempo, sempreché vadano a comporre un quadro indiziario complessivo dal quale possa ritenersi attendibile l’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata. Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, con la sentenza del 2 gennaio 2020 n. 2 (Pres. Frattini, Est. Ferrari), accogliendo il ricorso del ministero dell’Interno - Ufficio territoriale del Governo di Crotone. In primo grado invece, il Tar Calabria aveva dato ragione all’impresa affermando che l’interdittiva era priva di un adeguato supporto indiziario e che l’estorsione subita nel ‘98 dal gestore della società era ormai risalente nel tempo. Per la III sezione tuttavia (come chiarito da Cds 515/2019) “il mero decorso del tempo, di per sé solo, non implica la perdita del requisito dell’attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende descritte in un atto interdittivo, né l’inutilizzabilità di queste ultime quale materiale istruttorio per un nuovo provvedimento, donde l’irrilevanza della ‘risalenza’ dei dati considerati ai fini della rimozione della disposta misura ostativa, occorrendo, piuttosto, che vi siano tanto fatti nuovi positivi quanto il loro consolidamento, così da far virare in modo irreversibile l’impresa dalla situazione negativa alla fuoriuscita definitiva dal cono d’ombra della mafiosità”. Con riferimento poi alla presenza, all’interno della società, di soggetti vicini agli ambienti della malavita, per i giudici di Palazzo Spada è sufficiente ricordare che “proprio in relazione ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose la Sezione (7 febbraio 2018, n. 820) ha affermato che l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del “più probabile che non”, che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto con il proprio congiunto”. “Nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno mafioso - prosegue la decisione - all’interno della famiglia si può verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione”. “Hanno dunque rilevanza - conclude la sentenza sul punto - circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza - su un’area più o meno estesa - del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti”. Infine, diversamente da quanto assume il giudice di primo grado, per il Consiglio di Stato “non può sottacersi il fatto che due dipendenti della società appellata siano legati da vincoli parentali a componenti alla cosca”. Anche qualora gli stessi fossero stati assunti con la cd. clausola sociale, argomentano i giudici, “non è offerto neanche un principio di prova del tentativo di non addivenire a tali assunzioni né rileva il fatto che gli stessi occupassero bassi profili, essendo uno autista e l’altro addetto alle pulizie. Indipendentemente, infatti, dalle mansioni ricoperte, un dipendente di società legato alla malavita può costituire un ponte tra questa e la società per la quale lavora”. Napoli. Giovanni, detenuto malato di tumore: non lo mandano a casa e muore in carcere di Rossella Grasso Il Riformista, 3 gennaio 2020 Il Garante dei Detenuti: “Non si può morire di carcere e in carcere”. È dimagrito di 10 chili in 10 giorni Giovanni De Angelis, malato di tumore all’intestino con metastasi lungo tutto il corpo detenuto nel carcere di Poggioreale di Napoli. È morto il 27 dicembre all’Ospedale Cardarelli, trasportato lì direttamente dal carcere quando le sue condizioni sono gravemente peggiorate. La famiglia aveva chiesto più volte di farlo rientrare a casa per motivi di salute, ma il Magistrato di Sorveglianza glie lo ha negato. Così è morto, nel carcere più affollato d’Europa, vivendo i suoi ultimi giorni di vita tra mille difficoltà che la malattia ha reso un vero inferno per sé e la sua famiglia. Giovanni era stato arrestato per detenzione di armi e posto agli arresti domiciliari. Dopo aver evaso la misura è stato rinchiuso a Poggioreale. Qui inizia la storia infernale come denuncia Samuele Ciambriello, Garante dei Detenuti della Regione Campania: “Non si può morire di carcere e in carcere”, ha detto. “Aveva un colloquio con me il giorno 3 dicembre 2019 - racconta Ciambriello - e dopo diversi miei solleciti a livello sanitario, il detenuto è stato portato al Cardarelli, dal quale è stato dimesso con prognosi tumorale che annunciava ‘una vita brevè. A quel punto la Direzione Sanitaria del carcere di Poggioreale mi ha confermato che il 5 dicembre aveva emesso un certificato di Incompatibilità col regime carcerario. Nella nostra Regione si contano sulle dita di una mano le dichiarazioni di questo tipo”. La storia di Giovanni era già stata segnalata da Pietro Ioia, neo Garante dei detenuti del Comune di Napoli e Presidente dell’Associazione Ex Don. “I familiari del detenuto Giovanni De Angelis sono disperati perché è un malato affetto da patologia psichiatrica e da qualche tempo era anche in cura perché gli sono stati riscontrati valori tumorali alti - ha detto - È detenuto per reati minori e sta rifiutando il cibo per mancanza di medicinali, spero che non stiamo di fronte a un altro caso come quello di Ciro Rigotti”. Ciambriello racconta che il 19 dicembre 2019 Giovanni aveva incontrato una delle collaboratrici del garante dei detenuti e in quella circostanza era risultato depresso, confuso, e affetto da schizofrenia indifferenziata. Dalla fine del mese di novembre, e per l’intero mese di dicembre, il suo avvocato aveva chiesto, senza ottenere alcuna risposta, al Tribunale di Sorveglianza di Napoli una concessione di misura alternativa alla detenzione. Poi il 27 dicembre scorso è peggiorato all’improvviso ed è stato necessario accompagnarlo al Cardarelli dove poche ore dopo è morto. Un destino beffardo quello che è toccato a Giovanni: dopo tanta insistenza da parte di sua sorella e sua madre giusto il 27 dicembre il Magistrato di Sorveglianza aveva autorizzato la detenzione domiciliare presso l’abitazione della sorella a Napoli. Ma Giovanni non ce l’ha fatta e ha spirato lì, tra il carcere e l’ospedale. “L’incompatibilità carceraria si verifica quando la persona è in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più (secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o di quello esterno) ai trattamenti terapeutici praticati in carcere - ha sottolineato Ciambriello - Credo che non si tratti quindi di una concessione eventuale e/o discrezionale, ma di un preciso diritto, peraltro riconosciuto anche agli imputati”. L’art. 11 dell’Ordinamento Penitenziario infatti prevede che “ove siano necessari cura o accertamenti diagnostici che non possano essere apprestati dai servizi sanitari degli Istituti, i condannati e gli internati sono trasferiti, con provvedimento del Magistrato di Sorveglianza in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura”. Per Ciambriello nel caso di Giovanni, il mancato differimento della pena è una violazione dei diritti costituzionali, ed è un trattamento contrario al senso di umanità. “Non è accettabile che un detenuto muoia in uno stato di detenzione dopo che, per una patologia nota e conclamata, è stata dichiarata l’Incompatibilità con il regime carcerario”. Firenze. Dal ministro un segnale per i bambini in carcere di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 3 gennaio 2020 Bonafede risponde all’appello da Sollicciano: “Massimo impegno per farli uscire”. Un segnale di speranza per i bambini costretti a vivere dietro le sbarre di Sollicciano. “C’è la massima disponibilità e il massimo impegno per risolvere il problema” dice il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Un piccolo passo, il minimo indispensabile per dare speranza ai bambini che vivono dietro le sbarre del carcere di Sollicciano. Il ministro della Giustizia risponde all’appello del cappellano del penitenziario, don Vincenzo Russo, e di Massimo Lensi dell’associazione Progetto Firenze, che avevano chiesto al governo una svolta per l’apertura dell’Istituto di custodia attenuata per madri detenute (Icam), progetto fermo da dieci anni. “Da parte mia e di tutto il ministero c’è e ci sarà la massima disponibilità e il massimo impegno per la soluzione del problema - dice Alfonso Bonafede, in passato candidato sindaco di Firenze per i 5 Stelle - Siamo pronti a interloquire con tutte le istituzioni per consentire che i bambini, attualmente sono due (4 secondo altre fonti, ndr) di cui uno di appena 4 mesi, vengano accompagnati in strutture pubbliche. La salvaguardia dei bambini è certamente la priorità”. Dunque nessun impegno formale da parte del ministro per la casa per le madri detenute, ma più genericamente per la salvaguardia dei piccoli costretti in carcere, riprendendo l’appello lanciato attraverso il Corriere Fiorentino dal direttore di Sollicciano Fabio Prestopino, che aveva chiesto l’intervento di un’associazione per far uscire i bambini dal penitenziario e far loro frequentare un asilo almeno per qualche ora al giorno. Anche Palazzo Vecchio, con l’assessore al welfare Sara Funaro, si era detto disponibile a lavorare affinché si realizzasse l’auspicio del direttore in attesa che si sblocchi la partita dell’Icam. Risale al 2010 l’accordo tra Ministero, Regione e Comune per la realizzazione della casa per le madri detenute nella palazzina messa a disposizione dalla Madonnina del Grappa. Dopo dieci anni di stallo ancora nessun passo avanti sembra essere stato fatto, e la palazzina di via Fanfani affonda nel degrado. “A Firenze i tempi per l’apertura dell’Icam si sono dilatati all’infinito - ha detto Lensi di Progetto Firenze - Da quando furono compiuti i primi passi nel lontano 2006, poco è stato fatto di concreto: solo una lunga fila di rinvii a tempo illimitato, burocrazie e tante promesse. Siamo nel 2020 e l’unica struttura territoriale per i bambini e le loro madri detenute è tuttora il nido di Sollicciano”. Una struttura, quella per le detenute madri, che non ha mai visto la luce sia per questioni burocratiche e tecniche (tra cui una gara d’appalto sbagliata che è stata rifatta ex novo) sia per questioni prettamente più politiche. “Invece cambierebbe molto - ha precisato Lens, che più volte ha fatto visita ai bambini in carcere - La ludoteca di Sollicciano è in mezzo alle sbarre e questo non favorisce la crescita dei bambini. L’Icam era in dirittura d’arrivo e improvvisamente si è bloccato. Il progetto deve andare in porto”. Parole simili dal cappellano don Russo: “Stiamo continuando a giocare sulla pelle di bambini innocenti”. Milano. La presidente della Corte d’appello: “Stop prescrizione? Cambia poco” di Mario Consani Il Giorno, 3 gennaio 2020 Nel capoluogo lombardo già meno del 5% dei processi viene cancellato dopo la sentenza di primo grado per colpa degli anni. Tanto rumore per (quasi) nulla. Saranno pochi, pochissimi, sempre di meno i processi interessati a Milano dalla norma entrata in vigore il primo gennaio, che cancella la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Intanto una premessa: in base alle statistiche del ministero di Giustizia su scala nazionale, di 100 processi che si prescrivono, 60 lo fanno durante la fase delle indagini preliminari, perdendosi cioè negli affollatissimi armadi delle procure. Nel distretto di Milano, dove le prescrizioni erano in tutto circa 8 mila l’anno, stando al dato fornito dal presidente della Corte d’appello Marina Tavassi all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2019 la percentuale relativa alla fase delle indagini sale addirittura all’83%. Dunque, osservava Tavassi, solo il restante 17% di tutte le prescrizioni avviene davanti a un giudice. In primo grado (Gup o Tribunale che sia) la media è del 10% del totale. L’appena introdotta abolizione della prescrizione riguarda in definitiva una fetta davvero minima dell’enorme torta dei procedimenti penali. Quanti? Sempre nella sua relazione in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2019, giusto un anno fa, Tavassi definiva la percentuale di prescrizioni del 2018 “in continua diminuzione” e pari al 4,5% di tutte le sentenze d’appello pronunciate: in termini assoluti appena 384 su quasi 8 mila verdetti di secondo grado. E quali sono i processi che di solito si prescrivono in appello? Quelli delle “manette ai potenti” come sostengono nei loro spot i promotori della legge che ha cancellato la prescrizione, o quelli più lievi e poco significativi come ribattono gli avvocati penalisti? Statistiche milanesi non ce ne sono, ma è il codice a imporre alle corti d’appello la corsia d’urgenza per i processi da celebrare: e lì dentro a Milano scorrono veloci (e di fatto mai a rischio prescrizione) tutti i processi con imputati detenuti, poi quelli di criminalità organizzata, quelli per i reati contro la pubblica amministrazione, quelli contro donne e bambini e in materia di ambiente e lavoro. In pratica, tutti i reati più gravi. A riprova indiretta che, almeno a Milano, erano a (scarso) rischio prescrizione solo quelli minori. Resta però il problema di principio. E su quello le opinioni divergono. Luca Poniz, pm milanese e presidente del sindacato delle toghe (Anm), osserva che in molti sistemi giudiziari la prescrizione non c’è nemmeno e dunque “non si tratta di un problema di civiltà giuridica”. Anche i magistrati, tuttavia, avrebbero preferito una soluzione diversa: cancellare la prescrizione ma solo quando l’imputato in primo grado venga condannato, mantenendola invece dopo una sentenza di assoluzione. “Non ci possono essere condizioni intermedie - sostiene invece Andrea Soliani, presidente della Camera penale di Milano - è il principio del processo “eterno” che viene introdotto a non poter essere accettato. È un principio di inciviltà giuridica”. Roma. Essere madri in carcere, a Rebibbia una mostra fotografica sulle detenute e i figli Il Messaggero, 3 gennaio 2020 “Essere madri, oltre la pena”. Le donne detenute della sezione nido della Casa Circondariale femminile di Rebibbia davanti e dietro l’obiettivo per raccontare cosa vuol dire oggi crescere un figlio in carcere in una mostra fotografica. Sarà inaugurata lunedì 13 gennaio, nella Casetta Koinè di Rebibbia, a Roma. La mostra “Essere madri, oltre la pena” è il risultato finale di un laboratorio fotografico educativo, formativo ed emotivo, ideato e portato avanti per tre mesi dalla fotografa Natascia Aquilano e dall’educatrice Luciana Mascia, in collaborazione con l’associazione Onlus ProPositivi, appositamente dedicato alle madri detenute della sezione nido di Rebibbia e ai loro bambini. “Il progetto - spiegano le organizzatrici - è nato dall’esigenza di non voler ignorare uno dei bisogni primari del bambino: il rapporto con la propria madre, che in una struttura penitenziaria viene inevitabilmente alterato. Attraverso il mezzo fotografico si è cercato di spostare il punto di vista dello spazio, passando da un luogo semplicemente condiviso da detenute e bambini, a un ambiente di incontro tra madri e figli, con l’obiettivo di comprendere l’importanza della relazione. Tra scatti liberi o a tema, ogni detenuta è riuscita a entrare maggiormente in contatto con sé stessa e il proprio bimbo, acquisendo la consapevolezza dell’essere prima madre e poi reclusa”. La mostra, oggi visitabile, comprende sia gli scatti realizzati e scelti dalle detenute, che le foto scattate durante il laboratorio dalla fotografa Natascia Aquilano, così da avere una doppia inquadratura sulla “nuova relazione”. Civitavecchia (Rm). Domani pranzo al carcere di via Tarquinia con Sant’Egidio terzobinario.it, 3 gennaio 2020 Sabato 4 gennaio presso il Penitenziario “Casa di Reclusione” in Via Tarquinia si svolgerà il tradizionale pranzo natalizio organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio. Il pranzo alla Casa di Reclusione è arrivato alla sua ottava edizione e si può già considerare una piccola tradizione. Parteciperanno circa 80 detenuti insieme a 50 volontari. Tutti insieme seduti a belle tavolate, in un clima di amicizia e solidarietà. Menù tradizionale natalizio e regali per tutti. Esiste una intensa collaborazione tra Sant’Egidio, il Direttore del Carcere, la dott.ssa Patrizia Bravetti, ed i Comandanti dei due Penitenziari cittadini. Tale collaborazione non si esaurisce solo nell’organizzazione di eventi dentro il penitenziario ma si estende al momento in cui i detenuti escono dal carcere a fine pena ed hanno bisogno di sostegno. Quest’anno Sant’Egidio ha organizzato il pranzo in tutte le carceri romane e del Lazio. Inoltre in diverse carceri italiane. Il carcere, mondo chiuso per antonomasia, è divenuto nel tempo un luogo familiare e di incontro, spesso frequentato con regolarità da membri e volontari della Comunità di Sant’Egidio, oltre il pranzo di natale. Del resto, sono soprattutto i poveri a finire in prigione. Molti carcerati sono persone in condizione di bisogno; sono stranieri, tossicodipendenti, uomini e donne che vivono un determinato disagio; hanno frequentato le mense, i centri di accoglienza, le strade in cui si esplica l’azione di Sant’Egidio. La visita in carcere è allora continuazione di una vicinanza, di un servizio. Anche nei confronti di chi ha sbagliato, talora gravemente. Perché, come diceva don Lorenzo Milani, “chi non sa amare il povero nei suoi errori non lo ama”. La visita in carcere vuole dire rifiuto di ogni isolamento ed emarginazione. Per i detenuti i volontari della Comunità sono il mondo esterno che varca i cancelli di una struttura che lascia filtrare ben poco di ciò che è al di là delle sbarre. Le loro visite creano un legame prezioso, un ponte insostituibile. Gli interventi in carcere di Sant’Egidio sono caratterizzati da un atteggiamento di ascolto, dalla volontà di costruire un’amicizia con i prigionieri, dalla scelta di una fedele continuità nel tempo. A Civitavecchia, con continuità, i volontari di Sant’Egidio svolgono un servizio presso il Penitenziario “Casa Circondariale” in Via Aurelia Nord, presso il reparto dell’infermeria, dove sono reclusi i detenuti più fragili. Proprio nella casa Circondariale il 21 dicembre scorso si è svolto il pranzo di Natale sia nella sezione maschile che in quella femminile. Hanno partecipato complessivamente 120 detenuti, di tante nazionalità diverse, insieme a 40 volontari. Roma. Gli auguri dei romani ai detenuti di Grazia Maria Coletti Il Tempo, 3 gennaio 2020 Centinaia di bigliettini per i carcerati di Rebibbia durante la raccolta panettoni della Caritas parrocchiale di Nostra Signora di Valme. “Se si vuole, la vita regala sempre tante occasioni. Ti auguro che la migliore per te sia la prossima. Rita e Giuseppe”. “Che la luce di Gesù nato vi dia la forza di affrontare questo terribile momento della vostra vita”. “Mangiate i panettoni con gusto, piacere a amore. Auguri a tutti voi che non potete uscire”. I romani fanno gli auguri di buon anno ai carcerati di Rebibbia. Centinaia di bigliettini scritti con le buste della spesa tra le mani, in occasione della raccolta panettoni effettuata a ridosso di Natale al supermercato Doc di via Frattini al Portuense. Di dolci natalizi i ragazzi della Caritas parrocchiale di Nostra Signora di Valme ne hanno raccolti 600. Ma sono stati i biglietti d’auguri a scaldare il cuore dei carcerati. “È stata una cosa molto commovente nei giorni più belli che sono anche i più tristi dell’anno” dice don Roberto Guernieri, sacerdote del Divino Amore e cappellano di Rebibbia da 28 anni, che parla a nome degli altri 7 cappellani che “coprono” i quattro istituti di Rebibbia, con 2.650 detenuti oltre a una trentina di bambini da zero a 3 anni figli delle detenute. Grazie a loro l’iniziativa della Caritas parrocchiale di Nostra Signora di Valme è stata resa possibile: insieme con don Roberto Guernieri, don Marco Fibbi, don Antonello Sacco, padre Lucio Boldrin, don Stefano Occelli, don Sandro Spriano, padre Moreno Versolato e don Antonio Pesciarelli che spiegano che “le cose date per scontate come un panettone e un biglietto d’auguri, qui dentro acquistano un significato speciale, i detenuti si sono meravigliati, e noi ringraziamo i tanti che hanno donato”. Pacchi sono arrivati con Amazon, racconta ancora don Roberto “da donatori sensibilizzati da un sacerdote volontario, don Mauro Leonardi, che è in contatto con molte persone, e tramite Amazon ci aiuta con la solidarietà. Solidarietà anche dalla comunità di Ciampino della parrocchia Gesù Divino Operaio di padre Bernard, dalle parrocchie romane di San Carlo Borromeo di don Massimo Barisione, Santa Maria Assunta retta da don Fidel, tanta solidarietà anche dal coro Mariapoli di Rocca di Papa, dagli Alpini di Verona, e da tutt’Italia”. Non va tutto a rotoli. “Contrariamente a quello che si pensa il cuore della gente dimostra di essere sangue bello” dice don Alfredo Fernandez della parrocchia Nostra Signora di Valme di Villa Bonelli. Il nuovo parroco, don Victoriano Herranz ha raccolto e fatta sua l’iniziativa portata avanti dal suo predecessore con il gruppo dei volontari della Caritas parrocchiale: tra gli altri, i fratelli Maria Luisa e Riccardo, Andrea, Stefano, Valerio, Francesco e Maria Teresa, Valerio, Francesca, Silvia, Walter, Lucrezia, Paolo, Jacopo. Intanto, la Madonna di Valme “si prepara” a tornare a Rebibbia, una iniziativa caldeggiata da madre Trinidad, fondatrice e presidente dell’Opera della Chiesa, cui è affidata Nostra Signora di Valme, che abita in parrocchia. “Portate la Madonna in mezzo ai detenuti questo è il suo posto - è il messaggio di Madre Trinidad - così tutti ricorderanno che quando stavano in un momento di difficoltà la Madonna è andata a trovarli”. Tra i muri che costruiscono chiusure e odio di Chiara Cruciati Il Manifesto, 3 gennaio 2020 “Oltre i muri. Storie di comunità divise”, di Christian Elia per Milieu. L’elenco è lungo e non risparmia alcun continente: c’è Cipro, che da ultimo muro europeo è diventato il penultimo dopo la trasformazione dell’Europa in fortezza anti-migranti; ci sono i muri mediorientali, dalla Palestina all’Iraq, dalla Siria allo Yemen; c’è la vecchissima barriera marocchina, in cemento e mine, che spezza in due il Sahara Occidentale; c’è quello in costruzione tra Stati uniti e Messico e quello - il più antico di tutti - tra le due Coree Se a ogni muro si associasse un volto, coglierne l’impatto diventerebbe un fatto di empatia. Cosa significa un muro nella vita di una persona, che si tratti di barriere fisiche e politiche, nell’epoca della disumanizzazione di metà dell’umanità non è così immediato se alla comunità succube non si dà un nome. Darle una storia diviene un atto politico, prima che giornalistico. Lo aveva fatto nel 2009 Christian Elia, giornalista italiano, condirettore di “Q Code”, in occasione del ventennale della caduta del Muro di Berlino: il libro si chiamava Oltre il muro, pubblicato dalle edizioni Marotta e Cafiero. Di anni, da allora, ne sono passati altri dieci. L’anniversario berlinese, con la sua paradossale e falsa celebrazione del ritorno alla democrazia, ha toccato quota 30 e di muri in giro se ne vedono sempre di più. Un boom di muri, in questo decennio inaugurato dall’inizio della crisi economica e proseguito con incattivimento sociale, povertà economica seguita a miseria culturale, individuazione nell’Altro del nemico responsabile di tutti i mali. Elia, allora, di libro ne ha scritto un altro: stavolta si chiama, sottilmente, Oltre i muri. Storie di comunità divise (Milieu, pp. 128, euro 13,90). Elia riprende i reportage del decennio scorso, scritti camminando lungo tante barriere, per vedere a che punto si è arrivati. Il risultato è amaro: i muri sono aumentati, ovunque, e quelli che nel 2009 sembravano in procinto di cadere sono ancora là, solidi quanto sconsolanti. L’elenco è lungo e non risparmia alcun continente: c’è Cipro, che da ultimo muro europeo è diventato il penultimo dopo la trasformazione dell’Europa in fortezza anti-migranti; ci sono i muri mediorientali, dalla Palestina all’Iraq, dalla Siria allo Yemen; c’è la vecchissima barriera marocchina, in cemento e mine, che spezza in due il Sahara Occidentale; c’è quello in costruzione tra Stati uniti e Messico e quello - il più antico di tutti - tra le due Coree. Sessantacinque i muri che si possono contare sul mappamondo, cicatrici a cui Elia dà un nome, quello di chi ogni giorno li subisce. Accanto all’analisi storica e politica delle varie barriere studiate, l’autore racconta la vita quotidiana delle centinaia di milioni di persone che ne subiscono gli effetti. In termini di divisione sociale, separazioni familiari, confische di terra, demolizioni di case, limitatissima libertà di movimento, militarizzazione delle comunità. Anche morte, rintracciabile accanto alle barriere di cemento, filo spinato e trincee, ma individuabile anche in quelle invisibili della rotta balcanica (fatte di manganelli e deportazioni notturne) o del Mediterraneo che da mare di incontro e vita si è trasformato in un cimitero. E alla fine a emergere è la chiara percezione che quando si costruisce un muro per chiuderci dentro l’Altro la prigione è comune. Il di qua e il di là di un muro sono due chiusure, non una sola. Immigrazione, il problema che stiamo rimuovendo di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 3 gennaio 2020 I flussi in questa fase sono ridotti, ma i leader italiani ed europei dimostrano di non avere alcuna consapevolezza della grande questione africana. In un Paese meno intossicato dalle fazioni, la drastica riduzione degli sbarchi di migranti non sarebbe esibita come un trofeo ma vissuta come una dolorosa necessità. Tale era, nell’estate 2017, quando ne pose le premesse l’allora ministro degli Interni Pd Marco Minniti tramite i controversi accordi con la Libia (quel giugno si erano registrati sino a 12 mila arrivi in 48 ore, la preoccupante proiezione per fine anno era di oltre 200 mila sbarchi). E tale dovrebbe restare - un’esigenza di autotutela di cui certo non rallegrarsi - anche adesso, quando invece leader assai popolari, e che si proclamano cattolici, polemizzano tra loro per rivendicarne la paternità come un festoso traguardo: neanche fosse da festeggiare l’evidenza, palesata in tutti i rapporti di fonte Onu, di migliaia di profughi, tra cui donne e bambini, intercettati in mare da pirati travestiti da guardacoste di Tripoli e segregati in campi simili a lager da aguzzini spesso legati all’inverosimile governo libico. La vicenda pone in questione più aspetti, il primo dei quali attiene all’attribuzione politica. Che gli sbarchi siano crollati con Minniti (e dunque prima dell’avvento al governo di Matteo Salvini) è pura evidenza statistica: nel giugno 2017, prima degli accordi con i capitribù libici, erano stati 23.524; nel giugno 2018 (con Salvini entrato al Viminale proprio quel mese, dunque non ancora in grado di incidere sul tema) furono 857. Comparando i primi sei mesi del 2017 con i primi sei del 2018 (Minniti ministro fino al 1° giugno) la diminuzione fu del 77% e su base annua si passò da 119.369 a 23.370 sbarchi. Questa diminuzione è certo proseguita con Salvini agli Interni e il trend si è anzi rafforzato: gli sbarchi del 2019 sono stati 11.471; ma appare improprio che il capo leghista e il premier Conte, versione Uno o Due che sia, se ne contendano i meriti. Indiscutibile merito di Salvini è invece avere interrotto già agli esordi con il suo approccio “muscolare” una prassi europea secondo la quale tutti i profughi restavano sigillati in Italia nell’indifferenza dei nostri partner: ma sugli “effetti collaterali” della sua politica contro le Ong (decine di migranti bloccati per giorni in mezzo al mare) dovranno pronunciarsi il Parlamento e, eventualmente, la magistratura. Molto lontana dalla realtà è comunque la rivendicazione del leader leghista di avere fermato “l’immigrazione clandestina” tenendo “i porti chiusi”. Innanzitutto perché, come abbiamo appena ricordato, gli arrivi irregolari erano stati già da mesi ridotti a numeri, se non irrilevanti, del tutto accettabili per un Paese di 60 milioni di abitanti. E poi perché, come lo stesso Conte ha di recente spiegato, i nostri porti non sono mai stati davvero chiusi: erano soltanto preclusi alle Ong. L’80% degli sbarchi avveniva per via autonoma con battelli di fortuna che approdavano indisturbati sulle nostre coste spesso a poche centinaia di metri dalle navi Ong tenute in stallo per decreto salviniano: navi Ong che erano meri specchietti per le allodole a uso tv, sacrificate alla narrazione della “difesa dei confini”. Passato Salvini, la nuova titolare degli Interni, Luciana Lamorgese, con approccio assai meno ideologico, ha smorzato lo scontro con le organizzazioni non governative e aperto più sereni dialoghi con Germania e Francia sulla redistribuzione dei rifugiati. Ristabilita un minimo di verità sull’iter politico della faccenda, vale la pena di affrontarne l’aspetto etico: se cioè sia o meno un merito il modo attraverso il quale si è giunti a fermare le partenze dalla Libia, sovvenzionando contro i migranti bande travestite da pubbliche autorità. Minniti, che ha scontato una dura ostilità nel suo stesso partito, ha sempre sostenuto che quegli accordi, necessari a scongiurare una “emergenza democratica” in Italia, fossero un primo passo, cui sarebbero dovute seguire la piena presa di controllo delle agenzie Onu sui campi e l’apertura sistematica di corridoi umanitari. Nulla di tutto questo è accaduto allora. Ma ciò che più colpisce ora è l’assoluta rimozione del problema nelle coscienze di buona parte della nostra classe politica e della società civile. Quasi che la sicurezza del nostro spicchio di mondo (sicurezza, sì, perché l’immigrazione incontrollata pone questioni securitarie, con buona pace delle anime belle) implichi i tormenti di tanta parte di mondo di fronte a noi. Quasi che si possa procrastinare in eterno la soluzione di un problema (le ragioni sottese alla spinta migratoria) affidandosi a qualche feroce buttafuori da noi stipendiato ai nostri confini. E qui si cade sul terzo aspetto della vicenda: l’assoluta mancanza di visione dei leader nostrani. Franco Venturini ha ben spiegato il 31 dicembre su queste colonne i rischi per l’Italia nello scenario libico. Non serve a consolarci il fatto che siamo in buona compagnia: non esiste al momento un politico europeo che dimostri, al di là degli angusti interessi della propria nazione, consapevolezza della grande questione africana e del peso che essa avrà per noi tutti, nei decenni a venire. Lasciare che a giocare la partita in Africa siano regimi illiberali come quelli retti da Putin, Erdogan o Xi Jinping sarebbe l’ultima triste prova dell’irrilevanza geopolitica dell’Unione Europea. Più che litigare sul totem degli sbarchi, maggioranza e opposizione su questo dovrebbero confrontarsi: magari con saggezza bipartisan. Migranti. Dl sicurezza, via (forse) al conto alla rovescia di Carlo Lania Il Manifesto, 3 gennaio 2020 Pronte le modifiche volute da Mattarella, il nuovo decreto atteso in Cdm. L’argomento non fa parte del vertice sulla giustizia che si terrà martedì prossimo a palazzo Chigi ma una volta sciolto il nodo della prescrizione, piatto unico dell’incontro che il premier Conte avrà con il ministro della Giustizia Bonafede e gli esponenti della maggioranza, a tenere banco potrebbero essere i decreti sicurezza 1 e 2. La bozza con le modifiche indicate dal presidente Mattarella ai provvedimenti voluti da Matteo Salvini quando era ai vertici del Viminale, è già pronta da settimane e attende solo di essere presentata in consiglio dei ministri dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Del resto era stata proprio lei alla fine di novembre ad annunciare che il lavoro dei tecnici del ministero era terminato e che il nuovo decreto avrebbe potuto vedere la luce entro la fine dell’anno. Poi, prima la legge di bilancio, in seguito altri provvedimenti hanno fatto slittare tutto a gennaio quando, si spera, finalmente il governo potrebbe rimettere mano alle norme anti-immigrazione (ma non solo) volute dal leader della Lega. Del resto anche Conte, che pure da premier del governo gialloverde aveva avallato le scelte di Salvini, in seguito ha preso le distanze dai decreti: “Vanno depurati da condizioni che io stesso ritengo inaccettabili”, ha spiegato il premier nella conferenza di fine anno. Sarà bene chiarire subito che, per quanto ammorbidita, l’impronta punitiva verso le navi delle ong è destinata a rimanere. Le osservazioni fatte dal presidente della Repubblica il 4 ottobre 2018 con una lettera al parlamento, riportano infatti il decreto sicurezza 2 alla sua prima versione, intervenendo dunque sulle modifiche apportate dalle commissioni durante l’esame del parlamento. L’intervento riguarderà quindi le maxi multe (fino a un milione di euro) per le navi delle organizzazioni umanitarie che non rispettano il divieto di ingresso nelle acque italiane, subordinando di nuovo l’eventuale sequestro dell’imbarcazione alla reiterazione del reato. La sanzione torna dunque a essere compresa tra i 10 mila e i 50 mila euro, come era per l’appunto previsto nella prima versione del provvedimento. Si dovrebbe tornare inoltre la distinzione tra le varie tipologie di navi alle quali applicare le sanzioni. Un quarto punto riguarda infine l’oltraggio a pubblico ufficiale per il quale nella versione attuale non è più prevista la causa di non punibilità per la “particolare tenuità del fatto”. In questo caso la modifica reintrodurrà la discrezionalità del magistrato nella valutazione. C’è, infine, la possibilità di un intervento anche sul primo decreto sicurezza, là dove è prevista l’abrogazione della protezione umanitaria. Nella sua lettera al parlamento Mattarella ha infatti ricordato come “restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’articolo 10 della Costituzione e quanto discende dagli obblighi internazionali assunti dall’Italia”. Formula che dovrebbe entrare nel testo del nuovo decreto. A proposito dei titolari di protezione umanitaria, nei giorni scorsi il Viminale ha siglato un accordo con l’associazione dei comuni (Anci) per scongiurarne l’uscita dai Siproimi (ex Sprar) entro il 31 dicembre scorso, secondo quanto previsto dal primo decreto sicurezza, permettendo ai comuni titolari di un Siproimi di proseguire l’accoglienza fino a giugno del 2020 grazie anche alla possibilità di accedere a fondi europei. Una soluzione che non scioglie i dubbi dell’Asgi, una delle associazioni che avevano lanciato l’allarme. “Sappiamo di Siproimi che hanno dovuto allontanare i titolari di protezione umanitaria”, spiega l’avvocato Salvatore Fachile. “I fondi europei verranno probabilmente assegnati con dei bandi e questo significa che alcuni Siproimi verranno esclusi”. Migranti. Dall’Europa alla Libia, il crimine esternalizzato di Flore Murard-Yovanovitch Left, 3 gennaio 2020 Complicità e zone grigie, da parte di Italia ed Ue, nello sterminio e la sparizione dei migranti in nord Africa. “Sono almeno 200 i burocrati responsabili” dice Omer Shatz, tra gli autori con Juan Branco dell’esposto alla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità. Guardare le persone annegare in diretta. Dai nostri droni. Barconi rovesciarsi come in un’immagine fissa, ripetitiva. In cerchio, navi europee, osservano. Senza intervenire. Quello che descriviamo ancora come una “tragedia”, è in realtà, in modo innegabile, una politica intenzionale, attentamente calcolata e pianificata con cura. Un crimine letteralmente “legittimato” con l’invenzione ex novo di una popolazione bersaglio - i migranti - categoria senza volto né nome, opprimibili ed eliminabili per il loro solo fatto di essere in movimento. Una necro-politica che in solo tre anni ha avuto come conseguenza il massacro sistematico di 20mila bambini, donne e uomini e il trasferimento forzato e la schiavitù di 50mila sopravvissuti nei campi di concentramento libici. Si tratta in realtà di “crimini contro l’umanità”, come accusa un team di avvocati internazionali, capeggiati da Omer Shatz e Juan Branco, che ha presentato alla Corte penale internazionale (Cpi) un esposto contro l’Unione europea e gli Stati membri per le politiche migratorie. In tutto 242 pagine che analizzano ogni scelta, decisione, dichiarazione pubblica dei funzionari e dei politici dei Paesi membri e delle istituzioni comunitarie. Tutto nero su bianco. Al cuore della tesi di Shatz e Branco finora incontestata, la consapevolezza delle autorità italiane e europee delle conseguenze letali dei loro atti e dei respingimenti sistematici dei migranti in Libia. I capi d’imputazione sono sostanzialmente due: omissione di soccorso e crimini per procura. Ad oggi la Corte penale internazionale (Cpi), che era stata creata proprio allo scopo di limitare la violenza politica degli Stati, non ha processato mai alcun alto responsabile europeo, anzi, continua ad indagare per gli stessi crimini solo gli attori africani, lasciando ai loro omologhi bianchi europei piena impunità. Dopo l’esposto, la Cpi non ha finora aperto alcuna indagine negli archivi di Roma, Parigi e Berlino. Ed è quello che Shatz e Branco si apprestano a fare: indagare la zona grigia della catena di comando - i circa 200 burocrati europei che hanno preso decisioni o applicato ordini per la morte di massa della popolazione bersaglio. Al cuore della vostra tesi ci sono consapevolezza, premeditazione e intenzionalità delle autorità italiane e europee nella creazione a tavolino della rotta migratoria più letale del mondo, e delle conseguenze letali dei respingimenti sistematici dei migranti in Libia. Ci spieghi meglio cosa intendete per “consapevolezza”. Nel 2012 la Corte europea dei diritti umani (Cedu) aveva dichiarato illegali i respingimenti diretti della Ue e dall’Italia. Nel 2014, Frontex ha dichiarato che il rispetto del principio di non respingimento escludeva i respingimenti verso la Libia. Nel 2015, l’Unhcr ha invitato tutti i Paesi ad astenersi dal respingimento in Libia, e ha invitato i civili in fuga dalla Libia ad entrare in altri Paesi. Ma dal 2016 ad oggi, l’Ue ha trasferito in Libia, con la forza, 50mila civili in pericolo in mare. Poiché i funzionari dell’Ue e dell’Italia erano a conoscenza dell’illegalità dell’espulsione collettiva di civili bisognosi di protezione internazionale verso la Libia, l’Ue e l’Italia hanno dovuto farlo indirettamente, affidando questa pratica ad una terza parte. In che modo? Sulla base del Memorandum italo-libico del 2017 e della Dichiarazione di Malta dell’Ue, l’Italia e l’Ue hanno ricostruito e stipulato un contratto con un consorzio di milizie (che oggi chiamiamo la Guardia costiera libica), in cambio di denaro e di sostegno di materiale, disposto a commettere crimini contro l’umanità di morte per annegamento, persecuzione, deportazione, detenzione, schiavitù, stupro, tortura e altri atti disumani. Funzionari di Bruxelles e italiani erano anche a conoscenza delle conseguenze letali del porre fine alla missione Mare Nostrum e di lanciare Triton (senza salvataggi). Documenti riservati dell’Ue rivelano che c’era la consapevolezza che un cambiamento di politica avrebbe causato un maggior numero di vittime. E questo è stato usato come deterrente: cioè scarificare la vita di alcuni per dissuadere altri dall’attraversare il mare. Ma gli attraversamenti non diminuivano e la mortalità è aumentata di 30 volte. E questo ha riguardato 50mila civili respinti in Libia e 20mila persone che hanno perso la vita in mare. L’Ue non ha personalità giuridica (come uno Stato) ed è stata condannata con varie sentenze nel quadro del diritto internazionale e regionale in materia di diritti umani, ma sembra che oggi non ci siano limiti alla violenza di massa sui migranti, e che ci sia una crescente impunità. Siamo in presenza di un fallimento della legislazione sui diritti umani e questo spinge gli Stati ad adottare politiche ancora più violente contro i migranti. È in atto la “disumanizzazione” dei migranti per far accettare le tragedie del mare all’opinione pubblica europea. Il discorso sui diritti umani viene usato per coprire i crimini più orribili. La propaganda è sempre stata intrinseca alla violenza politica di Stato. Qual è la vostra ipotesi? Per consentire il pieno funzionamento delle sue operazioni e legittimarle, l’Ue paga de facto sia partner legittimi sia criminali. Foraggia le milizie libiche per eseguire i crimini di cui è complice: ad esempio il respingimento e l’internamento nei campi di concentramento; e sovvenziona anche l’Unhcr e l’Oim per mantenere in vita i sopravvissuti affinché accettino di tornare nei loro Paesi. Bruxelles finanzia inoltre l’operazione Sophia per addestrare le milizie libiche e gestire i droni per monitorare il refoulement e l’uccisione dei sopravvissuti che cercano di fuggire da questo inferno; le armi prodotte in Ue sono utilizzate dal generale Haftar contro i campi di detenzione per migranti, e Bruxelles sostiene al contempo il governo di unità nazionale che gestisce quei campi; l’Ue finanzia persino le Ong e gli istituti politici per discutere delle sue orribili violazioni dei diritti umani; e infine l’Ue paga, più di chiunque altro, la Cpi per garantire che non sarà mai processata per le proprie politiche. Abbiamo quindi a che fare con un apparato di potere molto sofisticato, che utilizza mezzi materiali, finanziari, tecnologici e simbolici per razionalizzare al massimo le proprie azioni illecite, tenerle lontane dall’attenzione pubblica ed evitare di doverne rispondere in un tribunale internazionale. Secondo il giurista Luigi Ferrajoli, assistiamo alla nascita di un nuovo “popolo migrante” che essendo in movimento non ha ancora diritti. Anche per questo il diritto penale internazionale, spesso impotente, fa fatica a proteggerlo. Non sarebbe necessario fare emergere nuove categorie e strategie del diritto nell’accezione della sentenza del Tribunale permanente dei popoli? Non penso che ci sia bisogno di ulteriori leggi. Va applicata la legge esistente e gli Stati devono garantire i diritti individuali. Ma dobbiamo ricorrere al diritto penale internazionale piuttosto che ai diritti umani. Attraverso la reificazione e la disumanizzazione, i migranti non sono una categoria di per sé, ma una categoria inventata per prenderli di mira (perseguitarli), tramite la discriminazione, la criminalizzazione, la negazione e infine il loro sterminio. Inoltre c’è poco di comune tra i membri di questo gruppo “migrante” a parte la loro caratteristica di essere in movimento: provengono da diverse nazionalità, religioni, culture e contesti socioeconomici, le loro motivazioni per il transito sono diverse. C’è possibilità che nasca un movimento diffuso di disobbedienza civile, europeo o mondiale, per fermare questa necro-politica? Non credo sia possibile. A differenza di altri gruppi perseguitati oggi nel mondo, i rifugiati, come scriveva la Arendt, per tutte le conseguenze pratiche sono di fatto apolidi. Non avendo alcuna autorità e potere politico, sono il perfetto capro espiatorio indifeso. La sinistra liberale ha adottato le opinioni della destra populista secondo cui i migranti sono un problema e, nonostante i numeri siano estremamente bassi, il loro arrivo causa di crisi. Non vedo pertanto le condizioni per il sorgere di un tale movimento. Dobbiamo anche ricordare che i responsabili dei crimini europei contro l’umanità, per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, non sono dei nazifascisti, ma “progressisti”, non l’estrema destra ma i liberali seduti a Bruxelles. L’unico modo per fermare la loro campagna sistematica è quello di ritenere responsabili individualmente coloro che oggi godono dell’impunità. Ma per questo è necessario un tribunale penale internazionale davvero imparziale. Droghe. Il proibizionismo è un favore alle mafie, eppure... di Checchino Antonini Left, 3 gennaio 2020 Negli Usa è bastato legalizzare la cannabis light per abbattere il fatturato della criminalità organizzata. In Italia la destra fa quadrato affinché non accada. E anche stando alle ultime indagini (di cui si parla molto poco) tra le sue fila si incontrano personaggi vicini alle cosche. “Anche se è un sostituto imperfetto, la cannabis light produce danni alla criminalità organizzata per il 10-11% del loro fatturato”, spiega a Left Luca Marola, creatore di Easy Joint, citando i dati di una ricerca della York University redatta da tre italiani (“Do it yourself medicine?”, di Carrieri, Madio, Principe, 2019) da cui si ricavano anche le evidenti ricadute della cannabis light e di quella terapeutica sulle prescrizioni di oppioidi, ansiolitici, sedativi, antidepressivi ecc. “Lo stato di Washington ha visto crollare i prezzi nel mercato illegale per effetto della legalizzazione”, segnala Federico Varese, criminologo a Oxford e autore, fra l’altro, di “Mafie in movimento. Come il crimine organizzato conquista nuovi territori” (Einaudi, 2011). Pochi giorni fa, la presidente del Senato, la forzista Casellati, ha dichiarato inammissibile un emendamento alla manovra che avrebbe chiarito la legalità del mercato di quella sostanza, infiorescenze comprese, fino allo 0,5% di Thc, considerato il limite di psicoattività. Una norma attesa da tutta la filiera e che avrebbe fruttato mezzo milione di curo di accise all’erario, ma che s’è infranta contro la barriera del proibizionismo di Lega, post-fascisti, integralisti cattolici. La guerra alla droga ha voluto assumere i contorni surreali di guerra alla non droga. Perché quella light è “canapone”, lontanissima dall’immaginazione allegorica “messa a disposizione del pensiero dall’ebbrezza dell’hashish” di cui parlava Benjamin nei Passages. È marijuana che non sballa, rilassante (il Cbd, cannabinolo, agisce contro stress, ansia, dolore e insonnia) ma non psicotropa. Così, mentre nel mondo anglosassone il dibattito è su quale modello scegliere per la legalizzazione, se quello dei “cannabis social club” oppure il “profit-driven” con le multinazionali a farla da padrone “e il rischio di ingresso di capitali illegali e di costituzione di una lobby che riduca il lavoro sull’educazione”, avverte Varese, qui da noi la nuova guerra è iniziata il 9 maggio scorso dall’allora ministro Salvini anche per dirottare l’attenzione dall’inchiesta per corruzione che aveva coinvolto un sottosegretario leghista, Siri. “Da allora - riprende Marola - il comparto, dopo due anni di crescita, vive una situazione di incertezza perché la legge non prevede ancora uno sbocco commerciale per le infiorescenze”. Si tratta di 10-12mila posti di lavoro legali spuntati dal nulla dopo la provocazione creativa di Easy Joint, “mettiamoci a vendere il fiore (biologico, italiano, sicuro) e vediamo che cosa succede”. Ed è successo che alcune procure e questure, in Veneto, Liguria, Basso Piemonte, Macerata hanno iniziato a sequestrare campi e magazzini. “Se fosse uno dei tavoli di crisi aperto al Mise sarebbe il più grande, più dell’Ilva e del suo indotto”, insiste Marola. “Il fiore della cannabis leggera è più pericoloso di quello col Thc - riprende l’attivista antiproibizionista - perché manda in pezzi tutta la narrazione proibizionista per cui tutte le droghe sono uguali”. “Nell’economia illegale (che è un decimo del sommerso), stando all’Istat, la droga fa la parte del leone, 16 miliardi di “fatturato” (4-5 miliardi relativi alla cannabis) rispetto ai quattro della prostituzione e “spiccioli” delle sigarette di contrabbando”, spiega a Lefi Marco Rossi, economista alla Sapienza incrociando la relazione Istat sull’economia sommersa e i dati della European society for social drugs research. Un mare di soldi, gli unici disponibili in tempi di austerità e di difficile accesso al credito, che ha bisogno di essere lavato e che produce una serie di distorsioni, dalla concorrenza sleale, all’usura, alla corruzione. Una buona parte delle quali è conseguenza diretta del proibizionismo, ossia l’ossessione per il controllo dei corpi e degli stili di vita. Un copione che si replica dagli anni Venti anche se la criminalizzazione espone al rischio i consumatori, permette un salto di qualità delle cosche, incrementa la corruzione dei pubblici ufficiali, generalizza il sistema di relazioni che ruota intorno al traffico. Umberto Santino in Mafie e droghe tra proibizionismo e crociate antidroga (Csa Giuseppe Impastato, 2001) punta l’indice sugli effetti criminogeni della globalizzazione neoliberista, “un contesto che stimola e favorisce il ricorso all’accumulazione illegale” fino a un rovesciamento dei ruoli tra politica e criminalità. Se ancora non sono i gangster, come al tempo di Al Capone, a dettare ordini, esiste sicuramente una “coincidenza di interessi” tra le mafie e le forze politiche più intrise di proibizionismo e liberismo. “Nelle società occidentali le borghesie mafiose sono una componente del sistema di accumulazione e dominio”, scriveva Santino. Parlano di questo le operazioni di questi giorni contro la `ndrangheta in Piemonte, che hanno portato all’arresto di un ex forzista passato al partito di Meloni e alle dimissioni di un assessore regionale di Fratelli d’Italia campione di preferenze (cinque in pochi mesi i “fratelli di ‘ndrangheta” scoperti nelle file di Fdi), e anche i rapporti della Lega con uomini vicini alle ‘ndrine dal Veneto alla Calabria. I giornali come Lefi servono se riescono a mettere in relazione le notizie, a scoprire i fili che legano i fatti e formulare domande utili: esiste una relazione tra la cultura proibizionista e una serie di scelte che favoriscono oggettivamente le mafie? “Le ultime indagini - continua Varese - sono importanti perché confermano il nesso tra controllo del territorio, struttura organizzata gerarchicamente, rapporto con la politica, connivenza del tessuto legale”. Ancora: che legame c’è tra un ceto politico proibizionista e la sua incapacità di fare i conti con gli effetti disastrosi della guerra alla droga? Inutile cercare tracce di una riflessione nella Relazione governativa 2019. Se il mercato illegale si dilata e si differenzia, il sistema dei servizi è inchiodato su un target che non esiste più, la riduzione del danno, inserita nei Lea da due anni, è un “diritto sospeso”, perché non ancora declinata a livello nazionale, denuncia Forum Droghe che sottolinea come il Dipartimento politiche antidroga rifiuti di confrontarsi con prospettive che potrebbero consentire la comprensione della specificità dei modelli di consumo. La rete della società civile, operatori, pazienti, utilizzatori, si troverà a Milano alla fine di febbraio per rendere pubbliche proposte alternative al modello penale e patologizzante. Intanto un terzo dei detenuti, soprattutto stranieri, è dietro le sbarre per via dell’articolo 73 della Fini-Giovanardi, quello incostituzionale, che non distingueva tra sostanze leggere o pesanti, tra spaccio e uso personale. “C’era una forte componente razzista e antisemita - ricorda Varese - anche nel proibizionismo sull’alcol. Erano gli immigrati, italiani e dell’Est europeo, quelli che bevevano”. La Libia come la Siria: via libera a Erdogan, soldati turchi a Tripoli di Chiara Cruciati Il Manifesto, 3 gennaio 2020 Il parlamento approva la mozione del governo: Ankara potrà scegliere tempi e modi dell’intervento militare al fianco di Sarraj. Strategia copia carbone di quella nel Rojava: il raìs fa combattere i mercenari, le sue truppe nelle retrovie a difesa degli interessi politici ed energetici nazionali. Il dibattito parlamentare sulla mozione del governo turco che chiedeva l’autorizzazione a dispiegare truppe in Libia è durato pochissimo. Sono bastate poche decine di minuti per dare il via libera al presidente Erdogan: 325 voti a favore (il partito del raìs, l’Akp, e gli alleati nazionalisti dell’Mhp) e 184 contrari (tutte le opposizioni, dalla sinistra Hdp al kemalista Chp). Erdogan ha ottenuto quanto cercava, il potere di scegliere. Perché la mozione di dettagli militari ne contiene ben pochi, limitandosi a indicare una data di scadenza “mobile” (un anno con possibilità di proroga) e a dare al governo l’ultima parola su tempistiche e ampiezza del contingente da coinvolgere a sostegno del Gna, il governo di accordo nazionale di Tripoli, che il 27 novembre scorso con due memorandum d’intesa ha regalato ad Ankara spicchi di mar Mediterraneo (e del gas che sta sotto) in cambio dell’appoggio militare contro l’assediante, il generale cirenaico Khalifa Haftar. Resta da capire quanto il rischio di un intervento militare sia concreto. Improbabile che Erdogan mandi a supporto del premier Fayez al-Sarraj truppe da combattimento. Secondo i quotidiani turchi più vicini al governo, l’idea è di inviare nella capitale libica addestratori militari e consiglieri. Dispiegare truppe vere e proprie significherebbe impelagarsi in una guerra regionale di non poco conto, contro mezzo mondo arabo, contro l’Europa e contro la Russia filo-Bengasi. Basta esserci, per ritagliarsi un futuro posto al sole. Per questo la strategia turca in Libia sembra la copia carbone di quella sperimentata con successo in Siria: gli stivali sul terreno sono quelli dei mercenari, miliziani islamisti utilizzati prima nell’occupazione del cantone curdo-siriano di Afrin e poi, dal 9 ottobre scorso, nel resto del Rojava, il nord-est della Siria. Di miliziani ne sarebbero arrivati a Tripoli già 300, un altro migliaio sono in fase di addestramento. Per la Turchia la Libia è questione strategica, ha detto ieri il ministro degli esteri Cavusoglu. “È importante per la tutela degli interessi del nostro paese e la pace e la stabilità della regione”, ha scritto su Twitter ripetendo gli obiettivi contenuti nella mozione presentata al parlamento: “La protezione dei diritti della Turchia nel Mediterraneo, gli interessi nazionali della Libia, la prevenzione di migrazioni di massa e della formazione di un ambiente favorevole a organizzazioni terroristiche e gruppi armati”. Peloso riferimento a chi in questi mesi ha affiancato l’avversario di Tripoli, il generale Haftar, che gode del sostegno militare di mercenari wagneriani russi e ciadiani, del governo egiziano e di quello emiratino. Una presenza che permette ad Haftar di tenere botta: cominciata ad aprile scorso, l’offensiva su Tripoli prosegue a singhiozzo, uno stallo che si traduce nelle sempre più frequenti incursioni contro zone residenziali e civili. Ieri l’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna), guidato da Haftar, è arrivato alle porte del quartiere tripolino di Abu Salim, costringendo alla fuga molti abitanti, secondo quanto riporta Agenzia Nova, mentre prosegue il bombardamento della zona di al Aziziya e scontri si registrano nel quartiere di Salah-a-din con due edifici civili colpiti. È del 31 dicembre, invece, la morte di tre persone nel villaggio di Qasr Abu Hadi, a sud di Sirte, nel raid aerei compiuto dai caccia di Haftar. Ieri è intervenuta l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, che si è detta estremamente preoccupata per la sicurezza dei richiedenti asilo a Tripoli dopo che tre colpi di mortaio sono caduti alle porte del centro Gathering and Departure, gestito dal ministero degli Interni, che dal dicembre 2018 ospita circa mille persone. Diversa la preoccupazione dell’Lna: se il Gna si è subito congratulato per il voto turco, Khaled al-Mahjoub, alto ufficiale delle forze di Haftar, ha fatto sapere che “la presenza di qualsiasi forza turca ostile sul territorio libico” sarà combattuta, mentre il parlamento di Tobruk (espressione del fronte di Bengasi) chiedeva all’Esercito nazionale libico di “colpire aeroporti e piste di atterraggio che ricevono militari e mercenari turchi”. Poco dopo, nel tardo pomeriggio, Sky News Arabiya riportava dell’abbattimento di un drone turco a sud-est di Tripoli da parte delle forze di Haftar. Iraq. Raid Usa a Bagdad, ucciso il generale iraniano Soleimani di Gianluca Di Feo La Repubblica, 3 gennaio 2020 Missili contro le auto del gruppo sciita che ha assediato l’ambasciata. Otto morti, tra cui 5 membri del movimento iracheno e due emissari di Teheran. Washington conferma: “Proteggeremo sempre i nostri interessi”. E ora si rischia la guerra. Un attacco notturno rischia di portare Stati Uniti e Iran sull’orlo della guerra. Un raid statunitense sull’aeroporto di Bagdad ha ucciso il generale Qassem Soleimani, responsabile delle operazioni coperte di Teheran e uomo chiave del regime degli ayatollah. L’ordine di colpire è stato impartito direttamente dal presidente Trump: mai il confronto tra i due Paesi era arrivato a un punto di tensione così alta. Intorno alla mezzanotte alcuni missili hanno distrutto un convoglio delle Pmu, le Forze di mobilitazione popolare irachene, che stavano accompagnando all’aeroporto una delegazione dei Guardiani della Rivoluzione di Teheran. Due auto sono state incenerite, ammazzando cinque esponenti del movimento iracheno e due iraniani. Tra le vittime, il leader delle Pmu Abu Mahdi Al-Muhandis, l’uomo che il 30 dicembre ha spronato la folla ad assaltare l’ambasciata americana. E soprattuto il generale Soleimani, un personaggio fondamentale nella storia recente del Medio Oriente: la sua morte è stata confermata dal Pentagono e da Teheran. Soleimani era al comando delle brigate Qods, un’unità leggendaria che ha avuto un ruolo decisivo nei conflitti della regione. Ha animato la seconda fase dell’insurrezione anti-americana in Iraq, ha armato hezbollah libanese contro Israele, ha pilotato la repressione del regime di Damasco contro la rivolta. Poi ha indirettamente collaborato con i suoi storici nemici americani per riuscire a sconfiggere lo Stato islamico. Più volte chiamato in causa come mente di attentati contro bersagli israeliani e statunitensi, era sempre sfuggito ai tentativi di eliminarlo o catturarlo: l’ultimo poche settimane fa. Il raid letale è scattato meno di 24 ore dopo la fine dell’assedio all’ambasciata americana di Bagdad. All’inizio sembrava che fosse stata lanciata una salva di razzi Kathyusha, tipici delle milizie, contro una caserma irachena nei dintorni dell’aeroporto. Le prime notizie parlavano di undici soldati feriti. Pareva quindi un episodio secondario. Poi però lo scenario è cambiato radicalmente, assumendo la dinamica di un attacco condotto da droni o bombardieri alla colonna delle auto che scortava all’aeroporto gli emissari iraniani. I rapporti iniziali indicavano un’unica vittima eccellente: Muhammed Reda, numero tre della formazione irachena. Più tardi sono state fonti dello stesso movimento a parlare di un’azione mirata, che ha ucciso cinque dei suoi uomini e due “ospiti importanti”, tutti a bordo delle vetture distrutte mentre si trovavano già all’interno dello scalo internazionale. La tv di stato irachena ha infine fatto i nomi di Soleimani e Al-Muhandis, i veri bersagli dell’operazione killer. Alcune ricostruzioni sostengono che ad aprire il fuoco sia stato un elicottero americano. E collegano l’attacco alle parole del capo del Pentagono, Mark Esper, che mercoledì aveva minacciato “azioni preventive” qualora gli Usa avessero rilevato “altri comportamenti offensivi da parte di questi gruppi, che sono tutti sostenuti, diretti e finanziati dall’Iran”. In pratica, l’Iraq si sta trasformando nel fronte più incandescente del confronto tra Washington e Teheran. La comunità sciita irachena è da sempre legata al paese vicino, la cui influenza è continuata a crescere dopo la fine del regime di Saddam Hussein. Le milizie filo-iraniane negli ultimi mesi hanno assunto un atteggiamento sempre più aggressivo contro la presenza americana, protestando contro le basi create per combattere contro l’Isis. Una settimana fa una raffica di razzi è piovuta contro un’installazione alle porte di Kirkuk, ammazzando un contractor statunitense. La rappresaglia non si è fatta attendere. Droni hanno bombardato una struttura di Kataeb Hezbollah, la branca militare delle Forze di Mobilitazione Popolare, uccidendo venticinque uomini. Come risposta, il 30 dicembre Al-Muhandis ha lanciato un appello e radunato la folla contro l’ambasciata americana della capitale. Le recinzioni esterne sono state divelte e per due giorni la sede diplomatica è stata stretta d’assedio, riportando sugli schermi degli States l’incubo di una replica di quanto accadde a Teheran nel 1979. Solo le imponenti difese del complesso, la più grande ambasciata statunitense del mondo, hanno impedito che accadesse il peggio. Mercoledì primo gennaio, i leader delle Pmu hanno ordinato di interrompere la protesta. E per poche ore è tornata la calma. Iran e Stati Uniti si sono scambiati accuse di fuoco. Mentre il Pentagono ha deciso di rinforzare lo schieramento in Medio Oriente: è stata disposta la partenza di 750 paracadutisti verso la capitale irachena e di 3000 marines verso il Kuwait. Giovedì per tutto il giorno è stato segnalato un intenso traffico di velivoli militari americani diretti verso la regione, con decine di grandi cargo C-17 che hanno attraversato il Mediterraneo, atterrando nelle basi in Turchia e Arabia Saudita. Un ponte aereo senza precedenti in tempo di pace, tale da far pensare alla premessa per un conflitto. E il raid contro l’aeroporto di Bagdad rischia di scatenarlo realmente, perché è facile prevedere una risposta durissima di Teheran. La morte di Soleimani è una perdita troppo grave, che mina la credibilità degli ayatollah in un momento di pesanti proteste interne. Inevitabile che la reazione sia altrettanto forte: “Il martire sarà vendicato con tutta la forza”, ha promesso il fondatore dei Guardiani della Rivoluzione Mohsen Rezai. Pakistan. Esperti Onu contro una condanna a morte per blasfemia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 3 gennaio 2020 In Pakistan si torna a parlare della pena di morte per il reato di blasfemia. Gli esperti sui diritti umani delle Nazioni Unite hanno espresso forti critiche nei confronti della condanna alla pena capitale emessa il 21 dicembre nei confronti di Junaid Hafeez, un docente di 33 anni dell’università Bahauddin Zakariya di Multan. Hafeez, laureatosi in Letteratura americana alla Jackson State University del Mississippi, era stato arrestato il 13 marzo 2013 e incriminato, dopo la denuncia di alcuni suoi studenti, per aver usato espressioni blasfeme nei confronti del profeta Maometto sia durante le sue lezioni che sul suo profilo Facebook. Per gli esperti Onu si tratta di una “parodia della giustizia”, anche alla luce della sentenza della Corte suprema sul caso di Asia Bibi, che aveva ordinato ai tribunali di primo grado di assolvere gli imputati di blasfemia nel caso in cui la loro colpevolezza non sia dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio. Gli esperti Onu hanno ribadito un punto più volte sottolineato dalle organizzazioni per i diritti umani: la legislazione sulla blasfemia vigente in Pakistan è applicata arbitrariamente e spesso viola il diritto alla libertà di espressione, di credo religioso e di pensiero. Il clima di caccia alle streghe che circonda i casi di blasfemia mette a rischio la vita degli imputati e dei loro avvocati: il difensore di Hafeez è stato assassinato nel 2014 e i suoi assassini non sono mai stati portati di fronte alla giustizia. Quel clima terrorizza anche i giudici, che per salvarsi la pelle preferiscono emettere condanne, piuttosto che assoluzioni, anche quando le prove della colpevolezza sono insufficienti se non addirittura fabbricate. Il caso di Hafeez, che ora presenterà appello, è passato in sei anni nelle mani di sette giudici diversi. Secondo il Centro per la giustizia sociale, dal 1987 almeno 1549 persone sono state accusate di blasfemia e 75 di loro sono state assassinate da folle di facinorosi. Messico. Scontro tra bande rivali in un carcere, 18 morti L’Osservatore Romano, 3 gennaio 2020 Sedici detenuti del carcere di Cieneguillas, centro di riadattamento e reinserimento sociale maschile nello Stato di Zacatecas, nel centro del Messico, hanno perso la vita, e altri cinque sono rimasti feriti, nel pomeriggio del 31 dicembre durante uno scontro fra bande rivali. Lo ha reso noto un comunicato del ministero della Pubblica sicurezza emesso dopo che le autorità avevano ripreso il controllo del penitenziario. Gli scontri tra i detenuti, armati di coltelli e pistole, sarebbero durati circa tre ore quando la polizia penitenziaria è riuscita a riportare la situazione sotto controllo con il contributo di agenti della polizia statale e metropolitana, si legge nella nota del ministero. In serata, il segretario della Pubblica sicurezza dello stato di Zacatecas, Ismael Camberos Hernàndez, ha precisato che nel corso di una ispezione successiva all’incidente, sono state sequestrate quattro armi da fuoco e diverse armi bianche che presumibilmente sono state introdotte nel centro di detenzione durante le visite dei familiari. L’ipotesi sollevata da Camberos Hernàndez è che le armi da fuoco siano entrate proprio martedì 31 dicembre. La settimana scorsa infatti c’era stata un’ispezione in cui erano stati trovati oggetti proibiti come smartphone, droga e coltelli, ma non pistole. Inoltre, Camberos Hernàndez ha affermato che 120 detenuti sono stati trasferiti per prevenire attacchi, in quanto appartenenti a cinque cartelli. L’ufficio del procuratore generale di Zacatecas ha aperto indagini sul personale del Centro regionale di riadattamento sociale di Cieneguillas per possibili collusioni con i detenuti.