Solo 1.300 persone per gestire “l’altra pena fuori dalle mura” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 gennaio 2020 I soggetti interessati all’esecuzione penale esterna sono 94.537. Rendere il carcere l’ultima ratio e perseguire, attraverso la pena da scontare fuori dalle mura, l’attuazione piena dell’articolo 27 della Costituzione. Sono queste le richieste del sindacato che chiede più organico per attuare al meglio l’esecuzione penale esterna. I numeri parlano chiaro: su un totale di 94.537 soggetti in carico al segmento dell’esecuzione penale esterna, ci sono 1.299 lavoratori. Parliamo di 1.114 funzionari dei servizi sociali e 185 di polizia penitenziaria suddivisi in 167 agenti assistenti, 11 sovraintendenti e 7 ispettori. Numeri, questi ultimi “totalmente insufficienti, in costante riduzione, per quanto riguarda i funzionari di servizio sociale, per effetto di quota 100 ed un’età media molto elevata. Una situazione grave che si prova a coprire ricorrendo a volontari del servizio civile e all’utilizzo di agenti o personale tecnico per coprire mansioni amministrative”. È questo lo stato in cui versa l’esecuzione penale esterna, ovvero quel segmento del complesso mondo dell’esecuzione penale che si occupa, in prevalenza, di chi sconta la pena fuori dalle mura carcerarie. A denunciarlo è il segretario nazionale della Fp-Cgil, Florindo Oliverio che mercoledì scorso ha promosso una iniziativa sul tema, dietro le parole “Fuori a metà - L’altra pena, fuori dalle mura”. Al centro dell’iniziativa un settore che dipende dal Dipartimento di giustizia minorile e di comunità del dicastero di via Arenula e che persegue il potenziamento e l’implementazione di misure alternative al carcere, come previsto dalla legge 67 del 2014 con l’istituzione della messa alla prova. Serve, secondo il dirigente sindacale, “non solo riconoscere la giusta professionalità al personale, come ad esempio riconoscere la specificità della dirigenza di servizio sociale. Ma soprattutto chiediamo con forza al ministro della Giustizia e al governo di riavviare l’interrotto confronto sull’esecuzione penale e mettere in campo una concreta opera di potenziamento del settore”. Per la Fp-Cgil serve un piano straordinario di assunzioni “finalizzato a garantire il mandato istituzionale del settore sia per quanto riguarda le misure alternative sia per quanto riguarda la messa alla prova. Questo è il modello di esecuzione della pena che vogliamo per il nostro Paese. Un modello che sostenga il mandato costituzionale affidato a tutti i lavoratori che rappresentiamo e garantisca loro la possibilità di lavorare in modo dignitoso e di crescere professionalmente”. L’istituzione della messa alla prova rappresenta la possibilità di richiedere la sospensione del procedimento penale per reati considerati di minore gravità, possibilità già prevista per i minorenni e, dalla legge citata, ora anche per gli adulti. Il settore dell’esecuzione penale esterna comprende una serie di attività e interventi, tra cui il controllo, il consiglio e l’assistenza, mirati al reinserimento sociale dell’autore di reato e volti a contribuire alla sicurezza pubblica. Il bacino di utenza dell’esecuzione penale esterna, dalla sua istituzione, ha registrato un progressivo aumento che non è soltanto determinato dall’introduzione della misura della messa alla prova, ma anche dal costante aumento del numero di persone che fruiscono delle misure alternative e sanzioni sostitutive. Si è passati così, rilevano i numeri della Funzione pubblica Cgil, dalle 32 mila persone (31.404 in misure alternative e 804 messe alla prova) del 2015 alle oltre 55 mila (39.843 e 15.171) del 2019. Ma non solo, precisa il sindacato, si deve considerare che una funzione fondamentale dell’esecuzione penale esterna è quella della consulenza sia nei confronti della magistratura che nei confronti degli istituti di pena. Un carico di lavoro rappresentato da altre 39 mila persone che si aggiungono alle 55 mila che già fruiscono di una misura. Carcere, il Codacons chiede l’intervento del ministro Bonafede Corriere di Viterbo, 31 gennaio 2020 “La situazione è inaccettabile per un paese civile, urgono misure urgenti del ministro della Giustizia, che non sono più in alcun modo rimandabili”. Lo afferma il presidente del Codacons Marco Donzelli, commentando i dati contenuti nel dossier del Comitato anti tortura del Consiglio d’Europa che ha puntato i riflettori sul carcere Mammagialla di Viterbo e sugli altri istituti penitenziari di Biella, Milano Opera, Saluzzo, dove i detenuti sarebbero stati sottoposti a minacce e maltrattamenti da parte degli agenti della polizia penitenziaria. “Presenteremo un esposto allo stato italiano e alle amministrazioni responsabili in quanto di sua diretta responsabilità il buono e corretto andamento delle carceri italiane”, aggiunge Donzelli. “La situazione è drammatica, come mostrano alcuni dei dati che emergono dal dossier e dagli esposti dell’associazione Antigone. Su tutti pensiamo a quello del sovraffollamento carcerario, il dato parla di 129,40%, per 60.885 detenuti su 50.692 posti. Ma un altro dato drammatico è quello dei suicidi in carcere, solo nel 2018 ne sono stati commessi 53 - ha aggiunto il presidente del Codacons commentano le presunte violenze commesse nel carcere di Viterbo. “Gli agenti violenti ledono l’immagine di tutti i bravi e coraggiosi agenti che ogni giorno si battono per mantenere l’ordine e consentire a tutti di vivere meglio; va segnalato anche il dato allarmante delle aggressioni subite dal personale penitenziario (800 nel 2019, e 41 solo nei primi 17 giorni del 2020)”. In 25 anni 26mila persone innocenti in carcere, 740 milioni di euro per risarcirle di Daniele Priori Il Riformista, 31 gennaio 2020 “Anche gli innocenti vanno in carcere”. Le voci delle vittime di errori giudiziari irrompono nel dibattito sulla prescrizione con una proposta di legge che chiede l’istituzione di una Giornata nazionale da celebrarsi ogni anno il 17 giugno nell’anniversario dell’arresto di Enzo Tortora, assolto dopo una condanna in primo grado “che con la legge sulla prescrizione di oggi avrebbe rischiato di morire con il marchio della colpevolezza”, fa notare Francesca Scopelliti, compagna storica del conduttore e presidente della Fondazione a lui dedicata. Il testo presentato alla Camera lo scorso 30 ottobre è da ieri anche al Senato, come annunciato da Andrea Ostellari, presidente della Commissione Giustizia di Palazzo Madama, con l’obiettivo di vedere la legge approvata prima del prossimo giugno. A sensibilizzare e organizzare l’iniziativa in seguito alle recenti dichiarazioni del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, è stato il Partito Radicale che nella storica sede romana ha messo a confronto i protagonisti del dibattito politico e le persone finite ingiustamente nel tritacarne giudiziario. Tra gli intervenuti i primi firmatari della proposta di legge: Maria Stella Gelmini e Enrico Costa di Forza Italia, Riccardo Molinari della Lega con l’adesione di Italia Viva arrivata in corso d’opera con la presenza di Roberto Giachetti e via sms dall’ex ministra Maria Elena Boschi. Impressionanti i numeri a corredo della proposta di legge: in media mille persone ogni anno finiscono ingiustamente in carcere, quasi tre al giorno, oltre 26mila negli ultimi 25 anni con lo Stato che ha già speso più di 740 milioni di euro in risarcimenti, mentre 150mila sono le persone che finiscono ogni anno sotto processo per essere poi assolte. Per tutte queste ragioni la battaglia sulla giustizia e in particolare sulla prescrizione è una “lotta urgente” come la definisce il segretario del Partito Radicale, Maurizio Turco. “Puntiamo a raggiungere la dichiarazione di incostituzionalità sulle nuove norme per la prescrizione”, dice. E per arrivare al risultato “serve un blocco politico pronto ad affermare che in Italia la lentezza della macchina giudiziaria mette in pericolo lo Stato di diritto”. Di “populismo penale utilizzato per fare propaganda che mette in discussione principi che non possono essere negoziabili” parla Maria Stella Gelmini su cui “Forza Italia e tutto il centrodestra sono uniti in quella che deve essere la battaglia di tutti i garantisti”. Concorde il leghista Riccardi Molinari che definisce la legge Bonafede “un abominio” che deve portare a un “lavoro trasversale per riaffermare la cultura delle garanzie che non può essere messa in discussione”. Citando Pannella, l’esponente di Italia Viva, Roberto Giachetti ha definito l’Italia “un Paese malato di giustizia”. “Anche il solo pensiero comune e la speranza che un indagato riesca a dimostrare la propria innocenza crea una torsione culturale. In uno Stato di diritto si devono dimostrare le accuse non l’innocenza”, ha detto il deputato renziano, tirando in ballo anche il tema dei magistrati fuori ruolo impiegati negli uffici legislativi dei ministeri. Tutto ciò - ha detto Giuseppe Rossodivita, avvocato radicale tra gli autori del testo di legge sulla Giornata dedicata alle vittime della giustizia, è legato al “ricatto dell’obbligatorietà dell’azione penale”, un principio italiano che, secondo l’ex deputata radicale Rita Bernardini, “deve essere messo in discussione”. Apre l’anno giudiziario ma c’è un assente: lo Stato di diritto di Piero Sansonetti Il Dubbio, 31 gennaio 2020 Oggi apre l’anno giudiziario, a Roma. Domani in tutte e 26 le Corti d’Appello. Apre sotto pessimi auspici. Il timore è che il 2020 sia l’anno “nero” della Giustizia. La magistratura, che negli anni scorsi aveva vissuto momenti di divisione, di discussione - persino di pensiero critico - sembra essersi ricompattata. È tornata a testuggine. Ora vuole avanzare con le ruspe. La discussione sulla prescrizione non l’ha vissuta come un momento di confronto, o magari di scontro - politico e di idee - ma come una battaglia per la difesa del proprio potere. Battaglia mortale. Fine della prescrizione come consacrazione dell’idea che un imputato vada consegnato al suo Pm, e il suo Pm (e poi i giudici, e poi i successivi Pm) possa avere su di lui un potere totale, incontrollato e perenne. L’obiettivo è quello, ed è molto chiaro: rendere evidente e incontestabile la sottomissione dell’imputato al giudice, e in particolare al Pm. E poi qualcosa di più: fine della prescrizione come inizio di una riforma del processo che porti a una sensibile riduzione dei diritti della difesa, e poi all’abolizione dell’appello e alla riduzione da tre a due dei gradi di giudizio (dei quali uno solo di merito). Il ragionamento è semplice: abbiamo cancellato la prescrizione e dunque ora dobbiamo abbreviare i tempi del processo. C’è un solo modo per ridurre i tempi del processo, senza investimenti e senza intaccare il potere della magistratura: ridurre gli spazi della difesa e i diritti del cittadino. Questa linea, che all’inizio sembrava la bandiera di un settore minoritario della magistratura, ha finito per essere l’unica linea visibile. Ha trovato opposizione solo nelle Camere penali e tra i giuristi. Nei partiti - con l’eccezione di Forza Italia, che oggi però ha una forza molto limitata in Parlamento - nell’intellettualità, in parte larghissima del giornalismo, e soprattutto tra i magistrati, ha vinto il silenzio e l’ossequio ai Pm d’assalto, all’Anm, al ministro e al loro gruppo parlamentare a 5 Stelle. Ora siamo alla vigilia dei discorsi. E le cerimonie si annunciano avvelenate. Gli avvocati penalisti di Milano hanno dato battaglia perché il Csm ha deciso di voler portare a casa il loro scalpo. Non si può leggere in nessun altro modo la decisione di mandare a Milano, alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario milanese, l’ex capo dell’Anm Piercamillo Davigo, poco noto come giurista ma notissimo come personaggio della Tv. Gli avvocati milanesi non hanno mica sostenuto che bisogna levare a Davigo il diritto di parola, solo perché la sua idea di giustizia prevede, più o meno, l’abolizione della difesa (anche perché lui è sempre stato convinto che tra avvocato e imputato esista comunque un rapporto di complicità, molto disdicevole). Gli avvocati riconoscono a Davigo, come a chiunque, il diritto di sostenere ogni opinione, anche le più scombiccherate, e non pretendono che le opinioni siano necessariamente in linea con la Costituzione. Non capiscono però per quale ragione il Csm debba considerare Davigo, e dunque il pensiero di Davigo, come specchio dell’identità della magistratura. Se davvero il Csm ritiene che la giurisdizione debba funzionare secondo i criteri di Davigo, è ovvio che l’avvocatura scompare. Diventa una specie di accessorio, quasi burocratico, e comunque del tutto subordinato alla magistratura. Possibile che il Csm voglia seguire questa linea, entrando in contrasto con il codice di procedura penale e con la Costituzione Italiana? E se non è così, allora, perché mandare Davigo? L’unica risposta è una risposta politica, e non c’entrano niente i principi né il pluralismo: il Csm, probabilmente pressato dalle correnti battagliere dell’Anm, ha deciso una provocazione, consapevole, per sfidare gli avvocati e ogni forza o flebile voce o pensiero liberale e garantista. Ha voluto usare un suo esponente, il più noto in Tv, anche forse spinto dalle campagne giornalistiche del Fatto, a occupare il territorio. A segnarlo, come fanno certi animali: questa è terra nostra, i difensori se ne vadano con gli imputati. Del resto il portavoce più importante della magistratura, che è il direttore del giornale - cioè del Fatto - Marco Travaglio, ieri nel suo editoriale si è posto provocatoriamente la domanda: e cosa c’entrano gli avvocati con l’anno giudiziario? È tutta qui l’operazione politica del variegato e composito partito dei Pm. Dichiarare che la giustizia è quella cosa che spetta alla magistratura orientare e amministrare. Alla magistratura, alla magistratura e solo alla magistratura. Fuori gli avvocati. Fuori il legislatore. Fuori la politica. Tra oggi e domani ascolteremo molti discorsi. Potremo valutare se dentro la magistratura ci sono ancora forze in grado di opporsi alla deriva autoritaria del davighismo. Speriamo di avere buone notizie. Una cosa è certa: si apre un anno feroce, nel quale può succedere di tutto. E la posta in gioco è gigantesca. È lo Stato di diritto. Quello che non sarà presente, domani, alla cerimonia di Milano. Anno giudiziario. “Noi, liberi avvocati non accettiamo lezioni da uno come Davigo” di Giulio Bonotti La Repubblica, 31 gennaio 2020 Tra Piercamillo Davigo, magistrato di lungo corso, e gli avvocati penalisti non è corso (nel tempo) e non corre spesso buon sangue. Lui è diventato notissimo negli anni Novanta con l’inchiesta Mani Pulite; ed è ben conosciuto il suo gusto a volte senza rete per la “battutaccia”. Altrettanto noti, e impegnati sul fronte della giustizia, sono non pochi legali milanesi. Oggi questa antica “diversità” di vedute si solidifica al palazzo di Giustizia di Milano, per l’apertura dell’anno giudiziario. Accanto al ministro pentastellato Alfonso Bonafede e al presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Luca Poniz, c’è in qualità di componente del Consiglio superiore della magistratura il dottor Davigo. E per accoglierlo la Camera penale di Milano stila una severa requisitoria: “Ci siamo sentiti dire, pubblicamente, da un magistrato, giudice di Cassazione e componente del Csm”, e cioè da Davigo, “che noi avvocati siamo sostanzialmente dei venduti, che per una parcella in più facciamo scelte processuali inutili per i clienti e che dovremmo pagare personalmente per poter esercitare il diritto di impugnazione del nostro assistito, così la smetteremmo con quelle bieche tattiche dilatorie come quella di impugnare una sentenza di condanna. Avremmo potuto rispondere, sempre pubblicamente, usando lo stesso registro, che ci sono magistrati - queste le parole degli avvocati - che impiegano anni per depositare le sentenze, che commettono per superficialità gravi errori giudiziari e che i criteri di nomina degli uffici direttivi potrebbero essere condizionati da logiche del tutto estranee al buon funzionamento degli uffici stessi”. Ma, evitando le polemiche più sterili e personali, gli avvocati sottolineano che la loro idea è in fondo semplice: meglio non avere Davigo al palazzo di Giustizia come “portavoce dell’intero Csm”. Viceversa, prosegue la protesta dei legali, “il Csm, o meglio il suo comitato di presidenza, ci ricorda che tutti, e dunque il consigliere Davigo, possono manifestare liberamente il loro pensiero e che siamo stati noi irrispettosi”. A questo punto, agli avvocati milanesi non resta che affondare la stoccata: continueremo, dicono, “rispettosamente a batterci affinché” chi scredita una componente della complessa macchina giudiziaria, e cioè l’avvocatura, “non assurga a pubblico rappresentante dell’altra”, la magistratura. L’associazione magistrati s’è schierata, come prevedibile, con il collega, dichiarandosi “ben felice di accoglierlo”, mentre “spiace che l’associazione dei penalisti abbia colto anche questa occasione per perseguire, con modalità del tutto inopportune, i propri scopi di propaganda, compiendo uno sgarbo istituzionale verso il Csm e mostrando una mancanza di rispetto verso l’Ordine giudiziario e il consigliere Davigo”. Albamonte: “Sui tempi dei processi non vogliamo essere il capro espiatorio” di Liana Milella La Repubblica, 31 gennaio 2020 Parla il segretario di Area, corrente di sinistra delle toghe, ex presidente dell’Anm: “Assurdo prevedere tempi bloccati per ogni grado di giudizio”. E sulla richiesta dei penalisti, che a Milano non vogliono l’ex pm di Mani Pulite all’inaugurazione dell’anno giudiziario: “Danno prova di scarsa democrazia”. “È un’idea assurda prevedere tempi bloccati per ogni grado di giudizio. Noi magistrati non accettiamo di giocare alla roulette russa sulla nostra testa, né tantomeno di essere la merce scambio per uscire dal cul de sac in cui si è cacciata la politica”. E ancora sul caso Davigo: “Gli avvocati di Milano, sbagliando, stanno dando prova di scarsa democrazia e stanno trasformando il collega in un martire”. È furibondo il segretario della corrente di sinistra delle toghe Eugenio Albamonte, pm a Roma ed ex presidente dell’Anm che dice: “La politica vuole uscire da un dibattito surreale scaricando tutto sulle nostre teste, ma non si stanno rendendo conto che questo sarà il peggior danno possibile da fare alla giustizia italiana”. Processi lenti: il governo giallorosso va verso un’intesa che, in primis, punisce i magistrati con la scure disciplinare. La ritiene una soluzione giusta? “E lo sapevo che si andava a finire in questo modo. Le forze di governo, per cercare di uscire dal cul de sac in cui si sono infilate sulla prescrizione, adesso utilizzano le toghe come merce di scambio. E pretendono di addossarci tutte le colpe delle lungaggini dei processi”. Ma lei nega che queste lungaggini ci siano? Purtroppo sono sotto gli occhi di tutti... “Certo che le lungaggini ci sono, io le verifico ogni giorno quando vado in udienza. E ne vedo chiaramente anche tutte le ragioni. Nel nostro sistema ci sono troppi reati, alcuni ormai privi di senso; il processo è diventato un percorso a ostacoli che prevede inciampi anche quando non servono a dare maggiori garanzie all’imputato; mancano clamorosamente - ma questo lo sanno tutti - risorse economiche, di personale e di infrastrutture, la cui messa a disposizione è precisa responsabilità del governo e del ministro della Giustizia”. Quindi lei, da pm, metterebbe sotto processo disciplinare il governo anziché i suoi colleghi? “La responsabilità della politica, secondo me, sta nel fatto di utilizzare i temi del processo come strumento per acquisire consenso elettorale. Il Guardasigilli Bonafede lancia il tema della prescrizione quando era stata appena modificata dal suo predecessore Orlando. Anziché occuparsi da subito delle riforme strutturali necessarie a far funzionare meglio il processo”. Ma Bonafede sostiene che sia stata la Lega a bloccarlo nelle riforme e comunque dice che le sta facendo adesso. “Stiamo assistendo da mesi a un dibattito surreale nel quale, al di là della contrapposizione tra i partiti per ragioni di visibilità, non è stata fatta nessuna proposta concreta se non questa, del tutto assurda, di contingentare i tempi del processo e stabilire sanzioni disciplinari per i magistrati che non li rispettano”. Perché assurda? “Per la semplice ragione che, in qualsiasi azienda che si rispetti, non si pretende un risultato senza aver prima messo in bilancio i mezzi e le risorse necessari”. Eppure proprio il Pd, che è contro la prescrizione di Bonafede, non ha sollevato un dito contro l’ipotesi di sanzioni disciplinari... “Forse perché si va cercando un modo apparentemente onorevole per uscire da questa disputa politica e, in mancanza di altre idee che abbiano una vera consistenza giuridica, si va alla ricerca di un capro espiatorio”. L’Anm ha parlato di “metodo brutale”, ma la mia impressione è che questa volta con voi magistrati non ci stia nessuno, neppure la gente che va in piazza. Non siamo più ai tempi di Mani pulite, il cittadino medio vi ritiene colpevoli di questi ritardi... “Sarà sempre peggio perché quando il ministro Bonafede, pur non garantendo alcuna possibilità di rispettarli, fisserà dei tempi certi per ogni grado di giudizio, i cittadini saranno autorizzati a credere che il loro mancato rispetto dipende dal fatto che i magistrati sono dei fannulloni. In questo modo il governo ipoteca anche per il futuro ogni residua credibilità della giustizia e dei magistrati che invece dovrebbe preservare”. Scusi Albamonte, non voglio fare l’avvocato difensore di Bonafede. Ma da quando è ministro, e se ricorda bene anche nel congresso dell’Anm a Siena due anni fa quando lei era presidente, lui ha sempre difeso i magistrati presentandoli come produttivi e tra i migliori in Europa. È un po’ la linea di Piercamillo Davigo. Non sarà che Pd e renziani, pur di ottenere una prescrizione più morbida, sono pronti a sacrificarvi? Se lo ricorda Renzi quando tagliò le ferie accusandovi di non lavorare? “Proprio per questo sto dicendo che i magistrati oggi sono la merce di scambio nell’ambito della trattativa tra i partiti di governo innescata dallo scontro sulla riforma della prescrizione. Rischiamo di rimanere stritolati in questa dinamica, e con noi sarà stritolata anche la residua efficienza del processo che finora solo noi abbiamo garantito con i nostri sforzi e con essa anche i diritti dei cittadini”. Ma allora come mai gli avvocati, avvelenati contro la prescrizione, non dicono nulla sulla previsione di sanzioni disciplinari contro di voi? “In questo momento mi sembra che gli avvocati si stiano avvitando in una spirale di polemiche come quella su Davigo che allontana ancor di più da un approccio ragionevole e produttivo sui tempi della riforma, perdendo tempo a confutare le posizioni personalissime di quest’ultimo come se fosse lui il legislatore e rinunciando a ogni proposta concreta di modifica”. Lei come la pensa sulla richiesta degli avvocati di Milano di escludere Davigo, in rappresentanza del Csm, dalla cerimonia per l’anno giudiziario? “Le idee di Davigo sulla giustizia non sono certamente le mie, ma la fatwa che gli è stata lanciata dagli avvocati milanesi, oltre a essere brutalmente antidemocratica, rischia solo di attribuire al suo pensiero e alle sue proposte un valore politico e culturale molto maggiore di quello che effettivamente hanno”. Pasticcio Bonafede, la riforma della prescrizione è inapplicabile di Giorgio Spangher Il Riformista, 31 gennaio 2020 Continua acceso il confronto politico sulla riforma della prescrizione. Ci sono alcuni punti fermi, il primo dei quali è costituito dal fatto che la legge n. 3 del 2019, in questa parte, è già operativa per i reati commessi dopo il 1° gennaio 2020. In altri termini, per le sentenze emesse dopo questa data per questi reati opera la legge spazzacorrotti, con la conseguente interruzione del decorso della prescrizione dopo la sentenza di condanna o di proscioglimento. Il dato opera per i processi definiti con rito direttissimo, con convalida e contestuale giudizio e a breve opererà per i direttissimi (ordinari) e tra novanta giorni per i giudizi immediati a prova evidente. Il tutto oltre al fatto strutturale, più volte evidenziato, dalla frattura che si determinerà tra la fase antecedente alla decisione di prima istanza e quella successiva. Il confronto politico si è spostato sulla legittimità della possibilità di trovare dei compromessi sul testo della riforma, differenziando le posizioni del condannato da quelle del prosciolto. In altri termini, la “politica” di maggioranza sembra aver già archiviato la possibilità di un superamento della nuova disciplina, tesa solo a trovare soluzioni di mediazione. Il punto conflittuale riguarda l’affermazione per la quale la differenziazione delle due posizioni processuali sarebbe in contrasto con la Costituzione, sotto il profilo della violazione dell’art. 3 Cost., il principio di uguaglianza. Si tratta di argomento specioso, anche in considerazione che queste riflessioni non avevano accompagnato la riforma Orlando. Invero, le ipotesi sono due. Se le due posizioni soggettive sono uguali, la eventuale declaratoria di incostituzionalità, non farebbe regredire il prosciolto al livello del condannato, trattandosi di incostituzionalità in malam partem, ma piuttosto eleverebbe la posizione del condannato alla riformata disciplina del prosciolto. Se, invece, le posizioni potessero essere considerate diverse, si potrebbero legittimamente differenziare. Il focus del confronto si è spostato, quindi, sul cosiddetto lodo Conte, ora contenuto nella bozza di legge delega per la riforma del processo penale. In questi termini, c’è il rischio di consegnare la riforma Bonafede alle travagliate vicende, contenutistiche e temporali, del più ampio contesto riformatore del processo. Il tema della prescrizione, cioè, delle modifiche alla legge vigente, va tolto dalla delega - fissata a un anno - e va trattato separatamente a tempi brevi, imponendo alle forze politiche di assumersi le responsabilità di scelte precise. Tuttavia, guardando al lodo Conte, non possono non essere segnalate da subito distorsioni, errori grossolani, scelte giuridicamente irricevibili. Limitandosi a segnalare le più evidenti, va in primo luogo evidenziato come si ritenga che l’opposizione ammissibile al decreto di condanna, non faccia venir meno la sospensione della prescrizione: con l’opposizione - come è previsto dal codice - il decreto di condanna è revocato. Non è possibile, quindi, che un provvedimento che è venuto giuridicamente meno mantenga i suoi effetti. Il dato non è solo grave in sé, ma nasconde insidie, nel retro pensiero degli estensori del lodo, nella misura in cui potrebbe giustificare il mantenimento della sospensione della prescrizione anche in caso di annullamento della sentenza di primo grado (quella che sospende la prescrizione) con regressione del procedimento nelle fasi precedenti. Inoltre, non può non segnalarsi che i riferiti termini di due anni entro i quali dovrebbe chiudersi il giudizio di appello, innestando la richiesta dell’imputato di definizione del giudizio entro sei mesi salvo il prolungamento in caso di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, decorre non dalla decisione ma dall’arrivo degli atti al giudice di secondo grado. Non può, infine, non allarmare il fatto che è previsto che il Consiglio Superiore della Magistratura, in relazione ai carichi giudiziari possa determinare per i diversi distretti delle Corti di appello termini differenziati per la definizione dei procedimenti pendenti, differenziando le posizioni degli imputati assolti, per i quali opera il meccanismo acceleratorio. Forse gli unici che avranno processi certi, alla fine, saranno solo i condannati con misure cautelari in scadenza. Tutti gli altri resteranno sospesi. Purtroppo sollevare oggi una questione di legittimità costituzionale - sotto il profilo della durata irragionevole del processo - della riforma Bonafede (nelle situazioni operanti) sarebbe possibile solo nel giudizio di appello, che tuttavia si scontrerebbe con il profilo della rilevanza. Forse la materia andrebbe resettata; ma il tema non è nella volontà di una politica che si è incartata. Prescrizione come “scudo” dei corrotti? Una fake-news secondo i dati Eurispes di Errico Novi Il Dubbio, 31 gennaio 2020 Tra i reati “decaduti”, quelli dei “colletti bianchi” sono meno del 10%. Da almeno un mese e mezzo l’Unione Camere penali attende dal ministero della Giustizia i dati sui tipi di reato che vanno più spesso in prescrizione. Nulla, nessuna risposta. Tanto che la scorsa settimana l’associazione dei penalisti italiani, presieduta da Gian Domenico Caiazza, ha proposto una formale istanza di accesso agli atti. Qualora non fosse evasa da via Arenula, l’Ucpi sarebbe legittimata a ricorrere al Tar per vedersi riconosciuto coattivamente il dato negato dall’amministrazione. Ma da ieri un indizio tutt’altro che trascurabile, per non dire una prova, avvalora i sospetti dell’avvocatura: secondo il Rapporto Italia 2020 dell’Eurispes, non è affatto vero che ad andare in prescrizione sono soprattutto gli illeciti dei “colletti bianchi”, e in particolare i reati di corruzione. Dal lavoro di ricerca dell’istituto presieduto da Gian Maria Fara si ricavano molti dati allarmanti sulle tendenze dell’opinione pubblica, ma anche alcuni elementi di fatto sul funzionamento della macchina dello Stato. Giustizia compresa. Ebbene, per chi è interessato al dibattito sulla prescrizione, e in generale alla presunzione di non colpevolezza, andare, prego, alla scheda numero 42. È dedicata al processo penale, ed è il frutto di uno specifico approfondimento svolto dall’Eurispes proprio con la colloborazione dei penalisti italiani. Si scopre che i reati di corruzione prescritti sono meno del 10% rispetto al totale delle declaratorie di prescrizione. E considerato che queste ultime rappresentano appena il 10% dei “procedimenti arrivati a sentenza”, vuol dire che i “corrotti salvati dalla prescrizione”, per dirla con i fautori della riforma Bonafede, rappresentano una quota insignificante. I “colletti bianchi che sono riusciti a farla franca” (qui il copyright è proprio di Luigi Di Maio) perché il reato si è prescritto rappresenterebbero sì e no l’ 1% degli imputati destinatari di una qualche sentenza. Ora, per carità: si tratta di una ricerca scientifica. Non dei dati del ministero. Quelli, per ora, non ci sono, e pende l’istanza di accesso agli atti sopracitata. Eppure è innegabile la serietà con cui l’Eurispes conduce le proprie ricerche. Nello specifico, sono stati monitorati qualcosa come 13.755 processi, in 32 sedi giudiziarie omogeneamente disseminate in tutto il Paese. Il valore quanto meno indicativo del dato sulle corruzioni prescritte, dunque, è indiscutibile. E anzi, l’Eurispes neppure ha voluto scorporare i dati raccolti in modo da enfatizzare la statistica, spiazzante, sui “colletti bianchi”. Prima, infatti, si è detto che i reati contro la pubblica amministrazione finiti in prescrizione sarebbero meno del 10% di tutti quelli estinti per decorrenza termini. In realtà potrebbero essere significativamente meno. Perché il dato rilevato dall’istituto di ricerca, pari esattamente al 10,2%, accorpa in realtà non solo le fattispecie tradizionalmente accomunate sotto la voce “corruzione” (tra cui anche la concussione, il peculato, la malversazione e così via). In quel 10,2% ci sono tutti i reati “contro lo Stato, le altre istituzioni sociali e l’ordine pubblico”. La categoria include, per intenderci, anche fattispecie come la violenza o la resistenza a pubblico ufficiale. Se ne deduce perciò che i “corrotti salvati dalla prescrizione” sono, secondo la ricerca, persino meno dell’1% degli imputati destinatari di una qualche sentenza. Non ci sarebbe altro da aggiungere, per assegnare al rango delle “fake news” la tesi per cui la prescrizione sarebbe la scialuppa di salvataggio del corrotto. E dalla ricerca Eurispes emerge con chiarezza quanto fosse plausibile la convinzione dell’Ucpi sulla reale natura delle fattispecie che non arrivano a sentenza per intervenuta decorrenza termini: si tratta di reati come furti, rapine, traffico di droga. Sono gli illeciti per i quali, non a caso, è stata condannata la stragrande maggioranza delle persone oggi recluse in Italia. Secondo l’Eurispes, a finire prescritti sono infatti prima di tutto i reati contro il patrimonio (25,1%), quindi i reati contro la persona (15,6%) e poi le violazioni al Codice della strada (7,6%) e i delitti legati alla droga (4,1%). Sul processo penale l’Eurispes propone altre statistiche, in parte diffuse già nello scorso mese di ottobre. Alcune forniscono smentite altrettanto nette rispetto alle teorie del cosiddetto fronte giustizialista: sul totale delle sentenze quasi il 30%, il 29,8 per l’esattezza, sono di assoluzione. Le condanne propriamente dette non sono tanto più numerose: il 43,6%. A cui vanno aggiunte comunque le tipologie di estinzione del reato diverse dalla prescrizione, quali la remissione di querela o l’esito positivo della messa alla prova. Altri dati ancora sono di un certo interesse rispetto alle scelte fatte, o da fare, sulla riforma penale. In particolare quelle sui riti alternativi: rispetto al totale dei processi, l’abbreviato incide per il 4,6%, ed è ancora più insignificante il numero dei patteggiamenti, pari ad appena il 2%. Basterebbe potenziare tali istituti, renderli effettivamente “appetibili”, per decongestionare i Tribunali e scongiurare le prescrizioni. È, non a caso, l’orizzonte suggerito dall’avvocatura e dagli stessi magistrati al tavolo istituto da Bonafede. Che nelle ultime bozze della sua riforma pare aver dato ascolto, almeno su tale particolare aspetto, a chi il processo lo conduce materialmente ogni giorno nelle aule di giustizia. Miti sfatati, non è vero che l’Italia è la più corrotta di Alessandro Butticè Il Riformista, 31 gennaio 2020 L’Indice di Percezione della Corruzione 2019 di Transparency International (TI) classifica l’Italia al 51esimo posto nel mondo con un punteggio di 53/100. Anche se il nostro Paese guadagna ben 12 punti dal 2012 ad oggi, viene da chiedersi se la “percezione” dell’opinione pubblica sia sufficiente per stabilire il livello di corruzione di un paese rispetto ad altri. La mia personale esperienza nel campo della lotta alla frode ed alla corruzione a livello europeo e internazionale, mi ha portato da decenni a sostenere che paesi con bassi livelli di percezione non sono immuni dal fenomeno. In questo sono stato recentemente confortato dal Greco, l’organismo anticorruzione del Consiglio d’Europa e dall’Eurispes. Anche se l’indice di percezione della corruzione è spesso parametro di riferimento sulla affidabilità dei paesi e dei loro sistemi giuridici ed economici, col rischio di falsare gravemente la comparazione e la competizione tra le Nazioni. Ho sempre sostenuto, anche sulla base di un sondaggio sulla percezione e realtà di frode e corruzione in Europa che avevo fatto realizzare dall’Eurobarometro quando ero portavoce dell’anti-frode europea (Olaf), il fatto che non si possano redigere classifiche di paesi più corrotti o che frodano più di altri se non si tiene conto anche della grande diversità degli strumenti che utilizzano per scoprire i fenomeni corruttivi o fraudolenti. Quando un giornalista mi chiedeva chi era il paese europeo più corrotto o che frodava di più in Europa, la mia prima risposta era che non lo sapevo. Alla sorpresa di chi non si aspettava questa risposta da me, completavo la provocazione proponendo di chiederlo ad un mago, ma non al portavoce dell’Olaf. Io potevo infatti fornire i dati dei casi scoperti nei singoli paesi. Ma da lì arrivare a stabilire chi era più corrotto o frodatore di un altro, era come, ad esempio, voler stabilire il numero di pesci del Mare del Nord, rispetto a quelli dell’Adriatico, unicamente su base del pescato. Senza considerare cioè che nel Mare del Nord si pesca magari con la lenza, mentre nell’Adriatico si usano le reti a strascico… Potevo allora spiegare che in Italia, ad esempio, vi sono forze di polizia e magistratura con strumenti investigativi che non hanno pari in altri paesi europei, e non solo. Ricordando che per anni l’Italia è stata dipinta solo come il Paese della Frode e della corruzione, ma che era anche - come spesso avviene per le tante contraddizioni nazionali - quello della lotta alla frode, alla Mafia ed alla corruzione. Arrivato a Bruxelles nel 1990, come primo ufficiale e appartenente alle forze di polizia del nostro paese, presso la Commissione Europea, ho potuto contribuire all’inizio del ribaltamento dell’immagine del nostro Paese. Soprattutto a Bruxelles. Immagine spesso alimentata - nella migliore delle ipotesi con rassegnazione - anche da connazionali. Non è un segreto che l’Uclaf il servizio antifrode che precedette l’Olaf, sia stato creato per tenere d’occhio “paesi canaglia” come l’Italia e la Grecia. Paesi che, alla fine degli Anni Ottanta, agli occhi della Signora Tatcher - che urlava “I want my money back” - erano patria solo di frodatori, criminali corrotti e corruttori che succhiavano le finanze comunitarie, attraverso indebite e fraudolente percezioni di aiuti agricoli e regionali, ai danni degli “onesti contribuenti britannici”. In qualche anno, dopo essermi accorto che tutto il mondo è paese e che i frodatori non parlavano solo italiano o greco, non senza qualche sforzo, devo dire, e a volte persino contro corrente e contro interessi contrastanti di altri, anche italiani - che avevano ragioni personali o strumentali ad amplificare quella cattiva “percezione” del nostro paese - siamo riusciti a ridurre la forza di molti stereotipi. Pensiamo quindi di aver dato un iniziale contributo al processo che ha portato oggi, finalmente, alla presa di coscienza del Greco, a livello di percezione vs realtà. E questo è stato soprattutto merito delle nostre forze di polizia, e della Guardia di Finanza in particolare, che anche attraverso una capace attività di comunicazione internazionale, ha portato oggi l’Italia ad essere considerata, tra gli addetti ai lavori, un paese virtuoso nella tutela delle finanze dell’Ue, e nella lotta a frode e corruzione. Spesso presa persino ad esempio da Commissione e Parlamento Europei. E anche questo va detto e ricordato quando Trasparency International lascia l’Italia nel fondo della lista. Perché urlare “in Italia tutti frodano e tutti sono corrotti”, equivale a dire che “nessuno froda e nessuno e corrotto”. Incentivando potenziali corrotti e frodatori (che nella “percepita” generale impunità possono chiedersi: “se lo fanno tutti perché non devo farlo io?”) a passare all’azione, e dando unico beneficio ai veri corrotti e frodatori, che non mancano certamente nel nostro Paese, se confusi con moltitudini di “presunti colpevoli”. E che dovrebbero essere estirpati dalla mano ferma, asettica e precisa del chirurgo, e non da sciabolate al vento accompagnate da ululati alla luna. Napoli. Giustizia lumaca: duemila detenuti in attesa di giudizio casertanews.it, 31 gennaio 2020 Carenza di magistrati nei tribunali: “A Napoli Nord situazione scandalosa”. Aumentano i roghi di rifiuti, preoccupano le collusioni tra società civile e camorra. Duemila detenuti in attesa di giudizio. È il dato forse più preoccupante, nei giorni della polemica a distanza tra Marco Travaglio e Gaia Tortora, che vien fuori dalla conferenza stampa della Corte d’Appello di Napoli - nel cui distretto rientrano anche il tribunale di Santa Maria Capua Vetere e quello di Napoli Nord - alla vigilia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. A rivelarlo è stato il presidente della corte partenopea Giuseppe de Carolis di Prossedi che ha sottolineato come circa un terzo dei 6mila detenuti complessivi in Campania sia in attesa di giudizio. “Un segnale di recupero rispetto sul pesante arretrato accumulato negli anni scorsi - ha detto il presidente della Corte d’Appello di Napoli, Giuseppe de Carolis di Prossedi - ma resta il collo di bottiglia determinato dalla carenza di magistrati”. Almeno 16 in meno rispetto ad un organico già sottodimensionato, secondo de Carolis di Prossedi. “É addirittura scandalosa - ha detto il procuratore generale presso la Corte d’Appello, Luigi Riello - la situazione del Tribunale di Napoli Nord in un’area a forte densità criminale”. Per quanto concerne i reati ambientali, invece, torna a bruciare la Terra dei Fuochi con i roghi che sono incrementati: da 205 a 258. “L’attenzione sulle discariche abusive e sull’ambiente è cresciuta sensibilmente negli ultimi anni - ha detto il procuratore generale, Luigi Riello - È una priorità. Nel terriorio di Napoli Nord, per esempio, vi è un picco di malattie tumorali collegato, secondo ricerche dell’istituto superiore di sanità, proprio ai rifiuti tossici e a questi fenomeni estremamente gravi che noi dobbiamo attenzionare sempre di più perché è intollerabile che muoiano bambini e persone”. Tra i fenomeni più preoccupanti quello delle “collusioni tra quella parte di società civile che ufficialmente condanna la criminalità organizzata, ma fa affari con essa”. “C’è una diminuzione dei reati, ma c’è un aumento delle denunce (da 27 a 53) per associazione di stampo camorristico in provincia di Napoli e di Caserta - ha detto il procuratore generale, Luigi Riello - Leggo con soddisfazione la positività dei dati, ma so che c’è una parte sommersa di criminalità che è quella relativa al mare in cui naviga la camorra cioè quello degli affari, del mercato. Gli omicidi sono di meno così come i tentati omicidi, ma abbiamo il sospetto che vi sia una pax mafiosa e che si spari di meno perché si ingrassa di più su affari, intersecandosi con il mondo dell’impresa e delle professioni, ambienti insospettabili. Questo è un dato preoccupante ed è la frontiera sulla quale già stiamo lavorando, ma su cui dobbiamo lavorare sempre di più”. Tra luglio 2018 e giugno 2019 sono state emesse 143 ordinanze per oltre 1000 indagati, ed è stato disposto un sequestro da oltre 200 milioni, ma nonostante questo “la percezione di insicurezza dei cittadini non sembra diminuire”. “La diminuzione complessiva dei reati più gravi non deve, tuttavia, far abbassare l’allarme rispetto alla criminalità organizzata, un fenomeno che rimane grave e diffuso”, ha concluso Riello Barcellona P.G. (Me). Trovato cadavere in cella, s’indaga per omicidio colposo internapoli.it, 31 gennaio 2020 Lo scorso lunedì, in seguito al ritrovamento del cadavere di Carmelo Marchese, deceduto all’interno del carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, è stata aperta una inchiesta dalla Procura di Barcellona per omicidio colposo allo stato contro ignoti. Fatto ingresso al carcere Pagliarelli di Palermo, i medici, viste le condizioni di salute del soggetto, le quali apparivano incompatibili con il regime carcerario, stabilirono che sarebbe stato necessario il trasferimento in un carcere munito di struttura sanitaria. Il detenuto messinese, quindi, è stato portato a Barcellona. Nel frattempo il suo difensore, l’avvocato Giovanni Villari, aveva richiesto dapprima il ricovero in struttura adeguata e successivamente, al rigetto dell’istanza, aveva presentato richiesta di incidente probatorio. Marchese, trovandosi in manette per scontare un cumulo di pene, pare soffrisse di una serie di patologie, anche al cuore, avrebbe avuto difficoltà respiratorie e avrebbe assunto farmaci. Il tutto sarebbe stato più volte segnalato dai familiari della vittima. È stata disposta l’autopsia del corpo, la quale sarà eseguita dal medico legale Elvira Ventura Spagnolo, mentre il perito per la difesa sarà il dottor Fabrizio Perri. Resta da accertare cosa sia accaduto e quali siano le cause che hanno portato alla morte del deceduto. Messina. Rischia paralisi in carcere, la lettera per Rosa Il Riformista, 31 gennaio 2020 “Ormai pesa 42 chili e la stiamo perdendo”. Rosa Zagari, 44 anni, affida al suo legale un appello per chiedere di ricevere le terapie adeguate nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) dove attualmente è detenuta. La sua storia, ampiamente denunciata in queste settimane dal Riformista, è stata segnalata da tempo al garante nazionale dei detenuti e viene definita dall’avvocato che assiste la donna, Antonino Napoli, “un caso di violazione dei principi fondamentali della dignità e della tutela della salute che non si possono attenuare solo perché una persona è detenuta”. L’appello è lanciato attraverso l’agenzia Agi. “Vivo un calvario, qui non mi curano: aiutatemi” fa sapere Rosa, arrestata in passato a con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. È stata condannata a 8 anni in primo grado e aspetta l’esito dell’Appello. Rosa è la compagna di Ernesto Fazzalari, uno degli elementi apicali della famiglia dei Viola-Fazzalari della ‘ndrangheta, arrestato nel 2016 dopo oltre 12 anni di latitanza e sta scontando una condanna all’ergastolo in regime di carcere duro. La donna non riesce a camminare da oltre un anno dopo un incidente avvenuto nel carcere di Reggio Calabria: dopo essersi fatta la doccia, Rosa è scivolata fratturandosi due vertebre. Stando al racconto del difensore e agli accertamenti dei periti nominati dalla difesa, la donna non è mai stata trattata in modo adeguato in nessuna delle tre strutture penitenziarie in cui è stata (Messina, Reggio Calabria, Santa Maria Capua Vetere). Il suo legale ha chiesto più volte, senza ottenere alcun riscontro, che un Gip nomini un medico legale in grado di fare una diagnosi non di parte. All’Agi i familiari sono preoccupati delle sue condizioni e della perdita di peso: “È 42 chili, la stiamo perdendo. È ridotta malissimo - sono le parole della sorella - mi ha detto che in carcere la prendono in giro sostenendo che finge. A gennaio è morta di dolore anche la mamma che si era spesa molto per farla curare”. Il suo legale spiega che “un nostro ortopedico di fiducia, primario dell’ospedale di Locri, aveva notato che il busto era stato messo male e aveva prescritto una riabilitazione mai fatta. In seguito, la mia assistita è stata trasferita a Santa Maria Capua Vetere dove non c’è un centro clinico e, quindi, anche lì nulla è stato fatto per curarla. Nel luglio scorso, sua sua richiesta, sono andato a trovarla e ho visto coi miei occhi che non era in grado di camminare, se non appoggiata a un’altra persona. Dopo varie istanze al Dap, siamo riusicti a farla trasferire al centro clinico di Messina, dove le vengono somministrati degli antidolorifici, ma nulla più”. Pescara. Parte la riqualificazione del reparto detenuti dell’ospedale cityrumors.it, 31 gennaio 2020 “Cominceranno già da oggi i sopralluoghi propedeutici a una stima dei lavori utili per rendere più accoglienti gli spazi dell’ospedale Santo Spirito riservati alla cura dei detenuti della Casa Circondariale di Pescara”. Lo annuncia il consigliere PD Antonio Blasioli, che ieri pomeriggio ha effettuato un sopralluogo con la direttrice Lucia Di Feliciantonio e il direttore sanitario del nosocomio, Walterio Fortunato e i tecnici Asl nel reparto, posto all’ottavo piano dell’ospedale, proprio al fine di valutare le condizioni igieniche e l’utilizzo degli sopazi. “Si tratta di spazi strategici, perché il ricovero dei detenuti nei reparti aperti dell’ospedale comporta problemi legati alla privacy e alla sicurezza degli altri degenti, nonché dei detenuti stessi - avverte il consigliere Blasioli - ma anche e soprattutto problemi legati al controllo. Occorrono, infatti, circa 8 agenti al giorno per coprire i 4 turni e ciò rischia di sminuire la già carente presenza di operatori penitenziari, circa 100, questo soprattutto se i detenuti ricoverati dovessero essere più di uno e in reparti diversi, anche se tale situazione si verificherà però solo per casi eccezionali, da intendersi come malattie gravissime”. “Ieri la Asl”, prosegue Blasioli, “ha ribadito la massima collaborazione nel dotare il reparto detenuti di infermieri all’occorrenza. Parliamo di un reparto chiuso, solo perché non ospita al momento alcun detenuto, che è gestito direttamente dal carcere in sinergia con la Asl e che sarà ritinteggiato e riqualificato a partire dai prossimi giorni, in un tempo di tre settimane, ci hanno assicurato dalla direzione sanitaria. La riqualificazione in atto consentirà un migliore utilizzo del reparto, dove vengono accolti i detenuti che non richiedono degenze in specifici reparti di terapia intensiva o mirata. Una concentrazione che rende più agevole anche il controllo, evitando piantonamenti in loco che assottigliano le disponibilità di personale nella struttura carceraria, dove gli organici richiedono un potenziamento di almeno 30 unità in più, ci ha spiegato la direttrice, che sta continuando l’opera di rieducazione dei detenuti, confermando l’apertura della struttura a sinergie con associazioni ed enti organizzatori di attività e corsi di formazione, l’ultimo è l’università”. Milano. Il Cardinal Martini e la giustizia, lezione di Marta Cartabia alla Bicocca chiesadimilano.it, 31 gennaio 2020 In occasione della seconda edizione della Martini Lecture Bicocca, la presidente della Corte costituzionale terrà una conferenza dal titolo “Riconoscimento e riconciliazione”. Marta Cartabia è professore ordinario di Diritto costituzionale. È stata nominata giudice della Corte costituzionale nel 2011. È stata eletta vicepresidente nel 2014 e nel dicembre 2019 è diventata la prima presidente donna della Corte costituzionale nella storia d’Italia. Adolfo Ceretti è professore ordinario di Criminologia nell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. È segretario generale del Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa sociale e coordinatore scientifico del Centro per la Giustizia Riparativa e per la Mediazione del Comune di Milano. Ha da poco pubblicato l’autobiografia professionale Il diavolo mi accarezza i capelli. Memorie di un criminologo (Il Saggiatore). Mercoledì 4 marzo, alle 11, nell’Aula Magna dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca (Edificio U6, piazza dell’Ateneo Nuovo 1, Milano), seconda edizione della Martini Lecture Bicocca, una lettura attualizzata del magistero del cardinale Carlo Maria Martini, Arcivescovo di Milano dal 1980 al 2002, proposta dal Centro “C.M. Martini” in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, la Fondazione Carlo Maria Martini e Bompiani, con il patrocinio della Diocesi di Milano. “Un’altra storia inizia qui. La giustizia come ricomposizione”: questo il tema della Lecture dedicata ai temi della giustizia, nell’ambito della quale Marta Cartabia, presidente della Corte costituzionale, terrà una conferenza dal titolo “Riconoscimento e riconciliazione”. L’intervento della professoressa Cartabia sarà introdotto da Adolfo Ceretti, professore ordinario di Criminologia nell’Università di Milano-Bicocca, con un discorso dal titolo “Carlo Maria Martini. Pensare pensieri non-pensati e loro destino”. Il cardinale Martini riservò frequenti visite alle carceri milanesi e costanti e appassionati interventi pubblici sulla giustizia e il sistema carcerario. Invitò laici e fedeli, membri delle istituzioni e privati cittadini a interrogarsi sulla prevenzione dei reati davvero razionale e umana e a una riflessione sulla pena che avesse invece al centro la dignità della persona, la riparazione, la riconciliazione. Marta Cartabia e Adolfo Ceretti si confrontano con il magistero di Martini spiegando il valore che esso continua a racchiudere e la necessità ancora viva di ciò che l’Arcivescovo auspicava: una giustizia capace di ricucire rapporti piuttosto che reciderli, che promuova i valori della convivenza civile, che porti in sé il segno di ciò che è altro rispetto al male commesso. Introdurrà i lavori padre Carlo Casalone SJ, presidente della Fondazione Carlo Maria Martini e membro del comitato scientifico della Martini Lecture. Coordinerà Alberto Sinigaglia, presidente dell’Ordine dei giornalisti del Piemonte. Porgerà il benvenuto dell’Ateneo la rettrice Giovanna Iannantuoni. I testi degli interventi saranno raccolti nel primo volume della collana “Martini Lecture” dal titolo Un’altra storia inizia qui. La giustizia come ricomposizione, pubblicato dall’editore Bompiani. Il libro sarà disponibile il giorno dell’evento. “Noi, rinati grazie all’affido. Ma ora non lasciateci soli” di Luciano Moia Avvenire, 31 gennaio 2020 Parlano i ragazzi maggiorenni che hanno alle spalle esperienze positive in famiglie affidatarie o comunità. “Senza l’aiuto ricevuto non ce l’avremmo fatta”. Il volto limpido e autentico dell’affido - l’abbiamo ripetuto tante volte in questi mesi - non è quello urlato nelle piazze della strumentalizzazione politica. E neppure quello denso di ambiguità ideologiche e di interessi economici raccontato a senso unico da certi media. Al di là dei casi giudiziari - che certo esistono e su cui bisogna andare fino in fondo con tutta la determinazione necessaria - per riscoprire la verità dell’affido è fondamentale guardare in faccia i ragazzi che hanno vissuto questa esperienza in prima persona. Ascoltare le loro storie, scoprire quello che ha rappresentato per loro l’abbraccio generoso di una nuova famiglia, in un momento in cui nella propria casa non c’erano le condizioni minime per vivere e crescere serenamente. Oggi, diventati grandi, cosa pensano dell’esperienza vissuta? Per otto ragazzi su dieci l’affido è stato un’ancora di salvezza da situazioni altrimenti senza uscita e l’occasione per costruire legami importanti (87%). È quanto emerge dalla ricerca presentata ieri a Roma da Valerio Belotti (Università di Padova) e Diletta Mauri (Università di Trento) che ha coinvolto quasi 400 care leaver: una fotografia che mostra come per questi giovani i percorsi in comunità residenziale e in affido siano stati decisivi per nuove opportunità di vita (94%). Davide, 30 anni: “Ho abbattuto un muro e l’ho ricostruito” Ma cosa significa vivere in affido per tanti anni? “È come but- tare giù un muro e ricostruirlo daccapo. Ma questa volta con i mattoni buoni”, racconta Davide B, trent’anni di Verona, attivo nel network nazionale messo insieme dall’associazione Agevolando per i ragazzi che hanno vissuto parte della loro vita ‘fuori famiglia’. “Sono uscito di casa a tre anni. La situazione era molto, molto difficile. Sono stato in comunità poi in un famiglia affidataria. A nove anni sono tornato a casa, ma neppure questa volta ho potuto restare”. Davide preferisce non spiegare i problemi che si è lasciato alle spalle. “Dico soltanto che la famiglia che mi ha aperto le porte di casa è stata la mia salvezza. Ho vissuto con loro dai 11 agli 19 anni, anzi sono ancora la mia famiglia perché, quando ci sono dei problemi, devo raccontare qualcosa di importante oppure durante le festività, torno da loro”. Da alcuni anni ha conquistato l’autonomia. È laureato in infermieristica e lavora a Verona. “I miei genitori affidatari - racconta ancora - mi hanno trasmesso valori, mi hanno dato regole, mi hanno sostenuto nell’affrontare i rapporti con la mia famiglia d’origine che, in qualche modo, non si sono mai interrotti. Anche i miei ‘nuovi’ mi hanno accolto come uno di loro, erano più grandi di me. E la loro presenza è stata ed è fondamentale”. Un progetto diffuso in tredici regioni con oltre 400 ragazzi Il progetto Care Leavers Network, di cui si è parlato ieri alla Camera, dalla presenza del presidente Roberto Fico, è diffuso in 13 regioni. È finanziato dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e realizzato da Agevolando in collaborazione con il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca). Un nuovo impegno concreto in ambito legislativo che riguarda giovani fuori famiglia oltre i 21 anni, è stato annunciato dalla deputata del Gruppo misto Emanuela Rossini. Si pensa a un emendamento per una misura che vada a integrare e prolungare il Fondo per i ragazzi care leaver - oggi rivolto alla fascia d’età 18-21 anni - fino a 25 anni. “Si tratta di un fondo sperimentale su tre anni - spiega Federico Zullo, presidente di Agevolando - che da un lato ha rappresentato un risultato storico ma che ci dice anche come il sistema di accoglienza vada migliorato, soprattutto per quanto riguarda la transizione all’autonomia di questi ragazzi”. Maria N. “In casa famiglia sono stata accolta, ascoltata, e sono rinata” Un problema vissuto in prima persona anche da Maria N. di Salerno, che oggi ha 26 anni. Arrivata dalla Romania, ha vissuto in casa-famiglia per 6 anni. “Un’esperienza molto intensa. Mi manca ancora. La comunità è stata la mia salvezza, ho imparato le regole giuste, sono rinata. Sono riuscita a rimanere lì fino a 19 anni, quando ho trovato una casa e un lavoro”. Una ricerca per ascoltare i ‘fuori famiglia’ “Le narrazioni proposte dagli adolescenti colgono e propongono spesso aspetti del lavoro sociale che spiazzano non di poco gli adulti che hanno la responsabilità della loro protezione e che li frequentano abitualmente”, spiega Valerio Belotti dell’Università di Padova. La richiesta di fondo dei ragazzi è quella di tenere in considerazione il loro parere. E poi implorano chiarezza, trasparenza, verità. Di grande impatto l’appello agli assistenti sociali: “Abbiamo il diritto di sapere cosa sta succedendo, i motivi per cui veniamo allontanati dalla nostra famiglia. Per questo vi chiediamo di trovare i modi e le parole per comunicarceli, adatti alla nostra età, per quanto difficile sia”. Altrettanto importante la richiesta di non essere giudicati - “ma non giudicate neppure le nostre famiglia” - di essere accompagnati, di non essere lasciati in sospeso, di essere interpellati prima di decisioni importanti. Ieri, alla Camera. a rispondere alle loro sollecitazioni c’erano tra gli altri Maria Francesca Pricoco, presidente associazione nazionale dei magistrati per i minorenni e la famiglia e Gianmario Gazzi, presidente Consiglio nazionale ordine assistenti sociali. La notte della memoria. Crescono razzismo, antisemitismo, negazionismo di driana Pollice Il Manifesto, 31 gennaio 2020 Il virus dell’odio. Rapporto Eurispes, per il 15,6% la Shoah non c’è mai stata. Nel 2004 i negazionisti erano 2,7%. Migranti nel mirino. Tra il 2004 e il 2020 gli italiani che negano l’Olocausto sono passati dal 2,7 al 15,6%. Parallelamente, la convinzione che gli stranieri ci tolgano il lavoro, rispetto a dieci anni fa, è cresciuta dal 24,8% al 35,2% mentre la percentuale di chi vede negli immigrati una minaccia all’identità nazionale è aumentata dal 29,9% al 33%. Sono i numeri contenuti nel rapporto “Italia 2020” presentato ieri dall’Eurispes. Per l’istituto di ricerca siamo “un paese che galleggia” con una popolazione che “si è adattata allo stato di perenne crisi, che brucia ricchezza e risparmi”, un paese “incattivito” che guarda con diffidenza gli stranieri e, con più frequenza, giustifica razzismo e antisemitismo. “È nefasto ritenere che si possa riprendere un accettabile assetto di navigazione grazie alla vittoria di una minoranza sull’altra, e ‘senza fare prigionieri’ - ha spiegato il presidente Gian Maria Fara. La politica bellicista sa distruggere ma non ricostruire”. I pregiudizi antisemiti si stanno diffondendo: il 16,1% degli italiani sminuisce la portata della Shoah, il 15,6% la nega. L’affermazione secondo la quale gli ebrei controllerebbero il potere economico e finanziario trova consenso nel 23,9% della popolazione. Per il 61,7% i recenti episodi di antisemitismo sono casi isolati e non rappresentano un problema. Il 60,6%, però, ritiene che siano la conseguenza di un diffuso linguaggio basato su odio e razzismo. Sono soprattutto i più giovani a non considerarli atti isolati mentre dai 35 anni in su vengono derubricati a bravate. Inoltre, il 19,8% ritiene che “Mussolini sia stato un grande leader che ha commesso qualche sbaglio”; il 14,3% ritiene che “gli italiani amano le personalità forti” e che “siamo un popolo di destra”. Capitolo migranti: per il 77,2% vengono sfruttati dai datori di lavoro ma gli italiani sono anche convinti che ci tolgano il lavoro. Il 38,3% pensa che provochino l’aumento delle malattie. Crolla di 17 punti la posizione secondo la quale gli stranieri portano un arricchimento culturale (dal 59,1% al 42%), diminuisce dal 60,4 al 46,9% la convinzione che contribuiscano alla crescita economica. Un decimo trova gli immigrati ostili (10,1%), l’8,1% li trova insopportabili. Secondo il 45,7% un atteggiamento di diffidenza nei confronti degli immigrati è “giustificabile solo in alcuni casi”. Per il 17,1% (più 6,7% rispetto al 2010) è condivisibile “guardarli con diffidenza”. Per contrastare l’immigrazione clandestina, il 26,2% ritiene che il governo dovrebbe erogare aiuti ai paesi di provenienza (più 7,7% rispetto a dieci anni fa), il 24% (a fronte del 33,6% del 2010) ritiene che il governo dovrebbe inasprire i controlli alle frontiere; per il 16% la priorità è agevolare la regolarizzazione dei clandestini (nel 2010 era il 25,5%). Rispetto al 2010, sono diminuiti gli italiani favorevoli allo ius soli (dal 60,3% al 50%) e sono aumentati i sostenitori dello ius sanguinis (dal 10,7% al 33,5%). In calo coloro che auspicano lo ius culturae cioè la cittadinanza per chi è nato qui purché educato in scuole italiane (dal 21,3% al 16,5%). “Gli immigrati regolari in Italia sono circa 5,2 milioni, pari all’8,7% della popolazione, e gli irregolari circa 500mila - ricorda Fara -. Producono il 9% del Pil, circa 139 miliardi di euro annui. Il denaro che spediscono ai loro familiari (6,2 miliardi annui) è molto più importante di quanto l’Italia destina agli aiuti internazionali. Le loro imprese (oltre 700mila) assumono centinaia di migliaia di italiani. Versano 14 miliardi annui di contributi sociali e ne ricevono solo 7: i loro contributi ci permettono di pagare oltre 600mila pensioni”. Infine, gli sbarchi nel 2019 sono calati del 50,4% rispetto al 2018 ma la copertura mediatica è stata da record, “accreditando la rappresentazione di un’emergenza”. Dal 2018 è la politica a presidiare il tema immigrazione: “La viva voce dei suoi esponenti è risultata centrale nel 38% dei servizi del prime time (48% per i tg Rai e 24% su Mediaset)”. Il risultato è che il 30,4% giudica la propria città come poco o per niente sicura. Infine, gli italiani si fidano sempre meno della politica, del governo e del parlamento, preferendo le forze armate e le forze dell’ordine. “Il linguaggio di odio e razzismo - sottolinea il ministro del Lavoro, Stefano Patuanelli - non è sconnesso né dai crescenti episodi razzisti né dal crollo della consapevolezza di ciò che avvenne nei lager nazisti”. E la collega all’Istruzione, Lucia Azzolina: “Sono dati che spaventano. La scelta di potenziare lo studio della Storia è quanto mai necessaria”. Quando il razzismo è istituzionale di Giovanni Russo Spena Left, 31 gennaio 2020 Creati con la legge Turco-Napolitano, i centri di detenzione per stranieri sono prigioni etniche usate dallo Stato contro esseri umani che non hanno compiuto alcun reato. Persone che i governi di qualsiasi colore vedono solo come manodopera o nemici da contenere. È una vergogna per il nostro ordinamento: nelle “galere etniche” si continua a morire. E ad essere uccisi. Quando sei nelle mani degli apparati dello Stato, che hanno la responsabilità assoluta della tua vita, non puoi, non devi morire. Il principio dell’habeas corpus, che già conosceva il pretore romano, è al centro del nostro Stato di diritto. Eppure, dal Serraino Vulpitta a Trapani, a Gradisca d’Isonzo, si continua a morire nelle carceri per migranti. Non accoglienza è ma detenzione, dura detenzione senza controlli né sociali né giurisdizionali. Queste strutture sono assolutamente in contrasto con quanto prescrive la Costituzione, all’articolo 10. Eppure sono sostanzialmente dimenticate, anche da larga parte della coscienza democratica. Allora bisogna forse ripartire da alcune domande fondamentali. Perché la legge Turco-Napolitano istituì questi luoghi di detenzione per migranti che nessun reato avevano commesso? Prigioni peggiorate, per tempi e condizioni di detenzione, dai successivi ministri dell’Interno leghisti e di centro sinistra. Perché, da un lato, nei confronti di un fenomeno migratorio globale, l’unica politica che i governi hanno saputo concepire è quella del contenimento e dello sfruttamento schiavistico; dall’altro lato, connesso, è stato costruito, legge dopo legge, ordinanza sindacale dopo ordinanza, un perfido e complesso corpo normativo, un vero e proprio “diritto del nemico”, ove il nemico offerto al ludibrio di un’opinione pubblica spaesata ed impaurita dal fenomeno migratorio è, per l’appunto, il migrante, il più ovvio dei capri espiatori. Nasce così il “diritto penale del nemico”, con una torsione del concetto stesso di penalità. I migranti diventano cinico oggetto di vergognose contese elettorali. Ma anche metafora di una incapacità di governo. Non a caso siamo giunti alle leggi Minniti-Orlando e, poi, alla perfidia giuridica dei pacchetti securitari di Salvini. Sono incostituzionali. Sono certo che la Corte costituzionale accoglierà, per lo meno parzialmente, i ricorsi che come Giuristi democratici e Associazione per gli Studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) abbiamo presentato. Eppure l’attuale governo non ha il coraggio di assumere un provvedimento abrogativo. Eppure la mobilitazione democratica, pur osteggiata dai partiti più grossi, qualche risultato, nel corso degli anni, ha raggiunto. Cito solo due temi. Il primo concerne i diritti spettanti ai detenuti in base agli stessi regolamenti carcerari. Ebbene, quando entrammo per la prima volta nei Centri di permanenza temporanea (Cpt), appena varati dalla Turco-Napolitano, dovemmo mettere in atto azioni di disobbedienza civile per ottenere un provvedimento ministeriale che fissasse un minimo di regole non aleatorie. Il secondo tema, altrettanto importante, riguarda la battaglia culturale e giuridica per far chiudere alcune strutture, lautamente convenzionate con i governi, in diversi casi gestite da associazioni della galassia cattolica, che attuavano permanentemente illeciti amministrativi e azioni perfide azioni di aggressione e punizione nei confronti dei migranti detenuti (ipocritamente venivano chiamati “migranti ospitati”). Non lo abbiamo fatto per buonismo, stupida ed insulsa accusa che i razzisti vorrebbero rovesciarci addosso. Noi abbiamo una concezione altra sull’immigrazione: siamo per il diritto a migrare (riconosciuto dal diritto internazionale) e per il diritto ad arrivare (riconosciuto dalle convenzioni internazionali). Occorre predisporre, quindi, accoglienza, non strutture carcerarie. Il discrimina verte sulla concezione della società. Mi permetto di citare il Marx del libro primo del Capitale: “Il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi in un Paese in cui viene marchiato a fuoco quand’è in pelle nera”. I soggetti migranti diventano, per i governi europei, troppo spesso merci inerti, mera funzione dei processi di accumulazione e di valorizzazione del capitale. Sono individui viventi che subiscono un processo di reificazione. Sono l’architrave del lavoro servile contemporaneo, i “meteci” contemporanei. Braccia di lavoro, non soggetti titolari di diritti. I quali non devono ribellarsi. Le galere etniche questo sono: un luogo di educazione repressiva (in cui è sottinteso il motto: “Sappiate che se vi ribellate e pretendete diritti sarete repressi”). A Rosarno, quando i migratiti si ribellarono precisamente dieci anni fa al caporalato padronale-mafioso, scattò la caccia all’uomo, da parte dei mafiosi ma anche delle forze militari e di polizia. Si interseca qui, con il tema della repressione, l’altro grande tema, connesso, del consenso popolare al razzismo istituzionale. Qui emerge il ruolo che dobbiamo saper svolgere, nelle riviste, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e di studio. Lo ha sintetizzato molto bene il filosofo francese Etienne Balibar: “La distruzione del sistema razzista non presuppone solo la rivolta delle sue vittime, ma la trasformazione dei razzisti e della comunità istituita dal razzismo”. Proprio perché questa inciviltà è dentro la pancia della cosiddetta modernità liberista. Il sovranismo nazionalista fonda umori xenofobi nei confronti dell’“altro da noi”. Vi è, insomma, la costruzione simbolica del nemico. La società pretende che il migrante si trasformi in nemico, per rassicurare se stessa. Al sovranismo populista si è, molto negativamente, aggiunto il populismo giustizialista del grillismo. Esso si è caratterizzato per quel mostro morale e giuridico che è il “reato di solidarietà”, contro le Ong e tutte e tutti coloro che salvano vite e praticano solidarietà. I movimenti migranti sono, per costoro, le nuove “classi pericolose”, come descritte, con infame definizione, dalle scienze sociali positiviste ottocentesche. Le galere etniche sono parte di un contemporaneo sistema coloniale gestito dall’Unione Europea con una forte torsione autoritaria e securitaria. Condivido la recente sentenza del Tribunale permanente dei popoli, riunitosi a Palermo: “La situazione configura corresponsabilità in crimini contro l’umanità”. Non rimuoviamo la gravità; è da qui che dobbiamo ripartire. Migranti. I rilievi del Colle lettera morta: sui decreti sicurezza da 6 mesi governo paralizzato di Antonella Rampino Il Dubbio, 31 gennaio 2020 Che si debba riportare l’Italia nell’alveo del rispetto delle normative internazionali e del diritto umanitario lo ripetono tutti gli esponenti del Pd, mentre i Cinque Stelle tacciono. Dall’8 agosto 2019 i rilievi di Sergio Mattarella ai decreti voluti da Matteo Salvini in nome della “sicurezza” sono rimasti lettera morta. Tutte le forze di governo, Cinque Stelle compresi per ripetute dichiarazioni di Luigi Di Maio, hanno asserito di voler dare pronto seguito, ma quasi 6 mesi a quanto pare non son bastati per passare dalle parole ai fatti. Cosa aveva messo per iscritto il presidente della Repubblica promulgando quella legge? Che andava perlomeno corretta, e perlomeno in due punti. Là dove innalza in maniera abnorme le “multe” per le ong che salvino migranti in mare (e la ministra dell’Interno Lamorgese si trova in questi giorni con la grana di un comandante tedesco che si è visto recapitare una cartella da 300mila euro per aver tratto in salvo 104 persone). E là dove lede anche i diritti degli italiani, estendendo oltre misura attraverso la cancellazione delle attenuanti il reato di resistenza a pubblico ufficiale, categoria che comprende pure chi controlla i biglietti sugli autobus ma non - assurdamente- i magistrati. E diciamo “perlomeno” perché Mattarella ha messo per iscritto di non poter entrare “nel merito della valutazione della norma”, ma anche che per l’Italia resta l’ovvio obbligo (di legge) di salvare vite umane. Sei mesi dopo, quei richiami che arrivarono solo pochi giorni prima del ferragostano precipizio aperto da Salvini e nel quale precipitò il Conte 1, son rimasti lettera morta. Si sarebbero invece dovuti e potuti attuare subito, non limitandosi a proclamare - come ha fatto pure Conte diventato 2 - di volerlo fare. Adesso siamo alla verifica di maggioranza, dalla quale nelle intenzioni dovrebbe partire una nuova fase propulsiva dell’azione di governo: pare durerà alcune settimane, e naturalmente già di per sé questo non è un buon segno. Né può esser preso come un viatico l’idea, lanciata mercoledì scorso in Parlamento dalla componente renziana, di congelare per un annetto (o due) il confronto sulla prescrizione. Non vorremmo che il metodo, spingere la polvere sotto il bordo del tappeto sperando che poi col tempo non tracimi, finisse per riguardare anche un tema, cruciale dal punto di vista del profilo politico e in particolare della riserva valoriale che deve connotare la politica di governo quanto quello della prescrizione, quale è appunto quello che riguarda i decreti sicurezza. I decreti che sull’autobus come in tv non a caso li si chiama decreti-Salvini: sono il simbolo della discontinuità tra il Conte 1 e il Conte 2, perché erano provvedimenti insensati ma imposti al Paese da chi li ha usati per affermare il proprio profilo come preminente nell’azione di governo, l’ex ministro dell’Interno e vicepremier Matteo Salvini. Che si debba riportare l’Italia nell’alveo del rispetto delle normative internazionali e del diritto umanitario (che è legge pure quello), dopo i richiami di Mattarella lo ripetono tutti gli esponenti del Pd, a partire da Nicola Zingaretti che ha pure notato come il tema sia già nel programma di governo, mentre i Cinque Stelle tacciono. Il generico pensiero in materia del “reggente politico” Crimi purtroppo lo si conosce, mentre di Di Maio son ben noti gli atti: da responsabile della Farnesina ha fatto scadere i termini entro i quali l’Italia avrebbe potuto disdettare il patto con la Libia in base al quale la Guardia costiera di Tripoli - infiltrata di trafficanti di uomini - riporta i migranti in quelli che oggi sappiamo essere - grazie alla certificazione Onu, sulla scia di inchieste giornalistiche e denunce delle organizzazioni umanitarie veri e propri lager. Disdettare quell’accordo, che ha rivelato i propri vergognosi effetti, e non modificarlo come proponeva la ministra Lamorgese, affidando i centri di detenzione libici all’Onu. Una proposta che se attuata avrebbe permesso al governo - e a Di Maio - di salvarsi l’anima. E all’Italia di rientrare nell’alveo dei paesi civili. E mentre la magistratura applica le leggi con l’autonomia che le è propria, facendo valere le norme di rango superiore (è recente la sentenza della Cassazione per la quale la comandante Carola Rackete non avrebbe dovuto essere arrestata, in base ai recenti decreti, perché salvare vite umane è interesse prioritario, e un obbligo per chi va per mare), resta nel cassetto anche un altro piano della ministra dell’Interno Lamorgese, quello per un pieno superamento proprio di quei decreti- Salvini. È vero che intanto si è aperta la discussione, nel governo, per regolarizzare i migranti che sono già in Italia, che magari hanno già un lavoro e pagano pure le tasse, ma che ai sensi della legge Bossi- Fini sono “immigrati clandestini”. Ma il tempo per il cambiamento di passo si è ormai fatto breve, anzi brevissimo. Sicuri che a Conte, gran mediatore della non- coalizione, e soprattutto a Zingaretti la cui leadership s’è appena rafforzata con il risultato in Emilia e Romagna, convenga assecondare le paturnie e l’agonia politica che si fatto affligge i 5S? E se per mettere a punto un superamento radicale dei decreti- Salvini, cancellandone anche l’impronta feroce, son proprio necessarie quelle annunciate tre settimane di “verifica”, non sarebbe il caso di accogliere intanto quei rilievi del Capo dello Stato, e farlo al più presto, nel più vicino consiglio dei Ministri? Perché di buoni propositi è lastricata la via del mai, genere ius soli. E perché lasciare a Di Maio, al tavolo della “verifica”, l’argomento “accogliere i rilievi di Mattarella sí, cancellare i decreti Salvini no”, proprio non sembrerebbe una buona tattica. Né per il Pd, né per l’Italia alla quale il salvinismo ha cercato di cambiare i connotati. “L’Italia vera - ha scandito Mattarella nel discorso agli italiani per la fine dell’anno - è una sola: quella del civismo, della solidarietà, del dovere, dell’altruismo”. E il futuro, ha ripetuto nel discorso alle Alte Cariche, non è domani: è oggi. Sul dossier immigrazione è necessario scegliere di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 31 gennaio 2020 La cartina di tornasole della capacità del Partito democratico di riconnettersi con il sentimento degli italiani sarà l’atteggiamento sui decreti Sicurezza. Il Pd, festeggiato come un successo nazionale lo scampato pericolo in Emilia-Romagna, ha davanti alcuni passaggi critici nel rapporto con l’alleato di governo ormai in apnea, i Cinque Stelle: dalla prescrizione al dossier autostrade. Ma la cartina di tornasole della sua capacità di riconnettersi con il sentimento degli italiani, tentando magari di indirizzarlo verso approdi meno intolleranti, sarà la gestione dell’immigrazione. Lo scorso settembre, alla nascita della coalizione giallorossa, i democratici chiesero per bocca del loro segretario Zingaretti la cancellazione dei due provvedimenti più simbolici della stagione salviniana, i decreti Sicurezza. Di fronte all’aperta ostilità di Luigi Di Maio (che aveva avallato tutte le iniziative di Salvini e coniato di suo l’assai controversa definizione di “taxi del mare” per le navi Ong che salvano i naufraghi), il timore di mandare all’aria il delicato castello di carte del Conte 2 li ha poi indotti ad attestarsi su più modeste “modifiche” che avrebbero al massimo ricalcato i rilievi mossi dal presidente Mattarella al momento di firmare i provvedimenti. Col trascorrere delle settimane e con l’ingarbugliarsi della matassa governativa, anche questa messa a punto è stata dimenticata, almeno fino alle cruciali elezioni emiliano-romagnole: i vertici del Nazareno hanno preferito in sostanza fingere che il problema non ci fosse più, smettendo di parlarne e sostenendo, col conforto di alcuni sondaggi, che il tema più caldo nella stagione di Salvini fosse finito al quarto o quinto posto nelle preoccupazioni nazionali (dopo le questioni economiche). Nulla di più sbagliato. Non solo perché, come dice saggiamente Anne Applebaum, premio Pulitzer e attenta osservatrice della realtà italiana, l’immigrazione da noi è “un talismano che racchiude tutte le altre paure”. Non solo perché Salvini, fresco di sconfitta in Emilia-Romagna, mostra di voler riappropriarsene e tornare a cavalcarla (a febbraio si deciderà sul suo processo per l’ipotesi di sequestro di persona dei migranti sulla nave Gregoretti ma nel frattempo lui annuncia denunce al governo in carica per analogo reato contro i naufraghi della Ocean Viking). Ma soprattutto perché la questione non è eludibile: la base spinge (e la giovane pasionaria del voto di domenica, Elly Schlein, già chiede una “scelta chiara tra Minniti e Bartolo”), gli sbarchi stanno riprendendo (i 403 della Ocean Viking sono finiti a Taranto, altri 237 arrivano sulla Alan Kurdi) ed è plausibile che a breve esplodano per effetto del caos libico. Ora il Pd ha davanti a sé tre strade. La prima consiste nell’assecondare la linea della ministra Lamorgese: una parziale disapplicazione de facto del decreto Sicurezza bis contro le Ong. Questo approccio, diciamo così, molto pragmatico, porta con sé due problemi: non è risolutivo e soprattutto non può rimediare ai danni del primo decreto Sicurezza, quello che ha messo in ginocchio il sistema Sprar (l’accoglienza comunale, poco diffusa ma unica a funzionare) e cancellato la protezione umanitaria, spedendo nel limbo della clandestinità e nelle braccia della malavita migliaia di migranti. Timidamente Graziano Delrio ha sostenuto sulla Stampa che, pur “senza chiedere abiure o pentimenti” ai grillini, vadano “riattivati gli Sprar” e vada “migliorato il sistema delle espulsioni” (eufemismo: al momento il sistema è fallimentare). Si tratta di pannicelli caldi, inutili perché disorganici. La seconda via, del resto, quella della cancellazione tout court dei provvedimenti, evocata da Zingaretti la scorsa estate ed invocata ora dal movimentismo radicale verso cui il Pd sembra tributario, sarebbe molto pericolosa. Gli italiani non la capirebbero e si tornerebbe a un modello di accoglienza che, prima di essere peggiorato dagli interventi di Salvini, aveva palesato già disfunzioni assai gravi. Resta una terza via: quella di una vera riforma, che andrebbe intrapresa con equilibrio e illustrata con coraggio. Un nuovo pacchetto sulle migrazioni basato, per dirla ad acronimi, su Sprar e Cie, integrazione vera (e rifinanziata) per chi può stare sul nostro territorio ed espulsioni (effettive) per chi non ha titolo e non va comunque dimenticato sui nostri marciapiedi, nelle nostre stazioni, nei nostri giardinetti. Chi guarda dalla parte della “eroina” antisalviniana Schlein dovrebbe capire che gli italiani non accetteranno mai di tornare a decenti livelli di solidarietà se non vedranno coi loro occhi aumentare la sicurezza e diminuire la pletora di 600 mila disperati che vaga nelle nostre periferie. A quel punto, perché immigrazione non faccia più rima con disperazione, si potranno riaprire i canali di ingresso legali, sciogliendo il binomio micidiale che confonde il rifugiato col migrante in un Paese dove chi voglia lavorare può entrare solo fingendosi profugo e restando poi intrappolato nel sommerso: contraddizione ancor più stridente quando l’Ibrahim Forum Report 2019 ci spiega che all’80% i ragazzi africani tentati dalla partenza non sono profughi, cercano di accrescere la propria qualità della vita delusi dal Paese d’origine. Per il Pd si tratterebbe insomma di governare i fenomeni recuperando un profilo riformista, in verità assai offuscato, anziché lasciarsi trascinare dal movimentismo di piazza. Ma, tra le due scelte, è purtroppo probabile (e forse consono alla natura di Zingaretti) che si continui invece a non scegliere, barcamenandosi sottovento tra posture estremiste e accordicchi di corridoio. Così disegnando per i migranti e per noi un futuro conforme allo spirito di questa stagione: salvo intese. I Decreti sicurezza vanno cambiati, la propaganda ha distrutto integrazione e sviluppo di Mario Morcone Il Riformista, 31 gennaio 2020 Dissolto l’incubo della sconfitta alle elezioni regionali dell’Emilia Romagna, il governo si trova ora, come ha più volte ripetuto il segretario del Pd Nicola Zingaretti, di fronte a una nuova fase che dovrà sciogliere una serie di importanti nodi del programma della maggioranza, evitando ulteriori rinvii che non sarebbero più compresi, per avviare effettivamente una nuova stagione più volte promessa. Non mi avventuro sul dibattito, centrale in questo momento, dei nuovi sistemi elettorali, ferma restando la necessità di una scelta che assicuri effettiva governabilità a questo Paese, anche se non fosse quella auspicata da ciascuno di noi. Punto sulla professionalità e saggezza del presidente Conte perché si trovi una soluzione digeribile e in linea con la nostra civiltà giuridica per quanto riguarda il tema della prescrizione, senza renderci tutti prigionieri di un’ansia giustizialista che non mi pare abbia risolto alcun problema. Quello che tuttavia, per quanto mi riguarda come Direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati, attende da tempo una urgente svolta di buon senso è tutto il tema dell’immigrazione e dell’accoglienza. In primo luogo, va contrastata quest’idea del binomio immigrazione-sicurezza che non solo è assolutamente senza fondamento, come dimostrano i dati ufficiali del ministero dell’Interno, ma è esattamente il frutto malato di una manipolazione mediatica portata avanti dalla destra negli ultimi anni. Nessuna fuga in avanti, nessuna avventura umanitaria, ma la consapevolezza di doverci strutturare in maniera coerente ai nostri valori e alle necessità di un Paese, peraltro condannato da dati demografici che descrivono un inesorabile declino. Ripartiamo allora dai sindaci, da quei progetti dello Sprar (mi ripugna parlare di Siproimi) che hanno costituito e ancora costituiscono una best practice della nostra organizzazione. È quello il riferimento in chiave di servizi, di diritti, di percorsi di integrazione, di coesione sociale e di responsabilità politica che meglio garantisce la governabilità del fenomeno. Superare una discriminazione aprioristica in termini di servizi, tra coloro che sono in attesa della protezione internazionale e coloro che l’hanno già ricevuta è già un primo passo fondamentale per circoscrivere il rischio di un’ulteriore crescita dell’irregolarità, della marginalità sociale e della frustrazione. Il presunto risparmio, esibito dal governo giallo-verde come una bandiera di vittoria, finisce per essere tutti i giorni solo un modo per scaricare costi e problematiche sui territori. Una norma che, senza ricorrere alle tradizionali procedure di emersione o regolarizzazione, consentisse il rilascio di un permesso di soggiorno provvisorio a chi è nelle condizioni di dimostrare il proprio impegno lavorativo o un positivo percorso di integrazione, ci aiuterebbe ad avviarci verso una normalità auspicata da tutti. Allo stesso modo, se le aziende che rivendicano una necessità di personale fossero disponibili a essere sponsor sulla base di garanzie chiare per le persone che intendono assumere, contrasteremmo forme di sfruttamento lavorativo e potremmo dare una risposta a una richiesta più volte sottolineata dalle associazioni datoriali. Migranti. L’Unhcr costretto a sospendere l’attività nel centro di Tripoli che ospita rifugiati di Alessandra Ziniti La Repubblica, 31 gennaio 2020 Mentre il ministro degli Esteri Di Maio annuncia il prossimo avvio della negoziazione con Al Serraji per migliorare il Memoramdum con la Libia, lo staff dell’agenzia dell’Onu abbandona la struttura in cui nelle ultime settimane hanno trovato rifugio 1.700 persone. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio assicura che “nei prossimi giorni l’Italia avvierà il negoziato per Al Serraji per portare avanti la condizione dei migranti in Libia” ma intanto, alla vigilia del rinnovo per tre anni alle vecchie condizioni del Memorandum, l’Unhcr annuncia da Ginevra l’interruzione delle operazioni nel centro di transito di Tripoli nel quale, nelle ultime settimane, hanno trovato rifugio oltre 1700 migranti. Troppo pericoloso. La decisione, spiega una nota dell’ageniza Onu per i rifugiati, è stata presa a causa dei timori per la sicurezza e la protezione delle persone ospitate nella struttura, del suo staff e dei suoi partner, in considerazione anche dell’aggravarsi del conflitto a Tripoli, in Libia. “Purtroppo l’Unhcr non ha avuto altra scelta se non quella di sospendere le operazioni presso la Gdf di Tripoli, dopo aver appreso che le esercitazioni di addestramento, che coinvolgono personale di polizia e militare, si svolgono a pochi metri dalle strutture che ospitano i richiedenti asilo e i rifugiati”, ha detto Jean-Paul Cavalieri, capo della missione in Libia. “Temiamo che l’intera area possa diventare un obiettivo militare, mettendo ulteriormente in pericolo la vita dei rifugiati, dei richiedenti asilo e di altri civili”, ha aggiunto. L’Unhcr ha iniziato a trasferire decine di rifugiati altamente vulnerabili, che sono già stati identificati per il reinsediamento o l’evacuazione in paesi terzi, dalla struttura in luoghi più sicuri. L’Unhcr faciliterà anche l’evacuazione di centinaia di altre persone verso le aree urbane. Tra questi, circa 400 richiedenti asilo che avevano lasciato il centro di detenzione di Tajoura dopo che questo era stato colpito da un attacco aereo lo scorso luglio, e circa 300 richiedenti asilo del centro di detenzione di Abu Salim che sono entrati nel Gdf lo scorso novembre dopo essere stati rilasciati spontaneamente dalle autorità. Tutti riceveranno assistenza in contanti, beni di prima necessità e assistenza medica presso il Community Day Centre dell’Unhcr a Tripoli. Di Maio, intanto, prova a rassicurare sui contenuti del Memorandum. “Non è vero che se non lo rinegoziamo entro il 2 febbraio non si può più rinegoziare”, dice omettendo però di spiegare che se è vero che le modifiche che l’Italia non ha ancora neanche richiesto potranno subentrare in qualsiasi momento è altrettanto vero che se la trattativa non dovesse avere l’esito sperato, l’Italia non potrà più tirarsi indietro per i prossimi tre anni. E quindi, nella sostanza, il 2 febbraio l’Italia accetterà di confermare l’accordo vigente al buio. Modifiche auspicate o meno. “Non possiamo più farci condizionare dallo scenario di guerra e le tensioni che anche in queste ore si presentano in Libia, scegliendo il ricatto di Al Sarraji che non accetta condizioni basilari e pretende il rinnovo del Memorandum così com’è - dichiara Silvia Stilli, portavoce dell’Associazione ong italiane - Se il governo italiano accetterà di firmare l’accordo senza alcuna reale discontinuità con il precedente, avendo certezza delle inenarrabili violenze di cui la Libia è protagonista, metterà in discussione la sua stessa adesione alla Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite”. E la campagna “Io accolgo”, promossa da 46 organizzazioni sociali, chiede di cancellare il Memorandum, l’evacuazione di tutti i migranti trattenuti nei centri libici, l’apertura di corridoi umanitari europei, il ripristino di un’operazione vera di soccorso in mare, un’Italia e un’Europa impegnate nell’accoglienza, il rispetto dei diritti umani fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita. E per domani lancia un’iniziativa di mail bombing a Di Maio e alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese con queste richieste. Migranti. Si moltiplicano gli sbarchi in Italia. Trattativa segreta con Tripoli sui flussi di francesco grignetti La Stampa, 31 gennaio 2020 A gennaio incrementati del 1000%: oltre 1.200 gli arrivi. In bilico gli accordi di redistribuzione in Europa. I crudi numeri dicono che nel mese di gennaio sono ricominciate alla grande le partenze dalla Libia. In un mese sono sbarcate in Italia 1.273 persone; un anno fa, in piena era Salvini, erano stati 155. Un incremento del 1000 per cento che spaventa il ministero dell’Interno. Anche perché non finisce qui. C’è in navigazione la “Open Arms” con altri 282 naufraghi a bordo, che finora non ha chiesto all’Italia l’indicazione di un porto sicuro, ma domani chissà. E dopodomani? Al Viminale non si fanno illusioni, ma nemmeno pensano di essere alla vigilia di una nuova catastrofe, ossia di un nuovo 2015, quando arrivarono quasi 200mila migranti. E comunque il Viminale si sente rassicurato perché sta tenendo l’intesa con Francia e Germania, che sulla base della bozza di Malta si fanno carico realmente di una quota di ricollocamenti: il 21 gennaio, per dire, è partito da Roma un volo diretto a Parigi con a bordo 68 richiedenti asilo accettati dalla Francia. Sono stati 464 i migranti redistribuiti in Europa da settembre in poi. Ma al Viminale sanno anche che l’intesa potrebbe traballare se arrivassero a migliaia. Certo, la situazione in Libia è malmessa. La tregua regge a malapena e i due schieramenti stanno approfittando della pausa per rafforzarsi. La guerra continua con piccole scaramucce, con il blocco dei pozzi, e forse anche con qualche spregiudicata spintarella alle partenze. La Libia, insomma, è in cima alle preoccupazioni del governo italiano. La ministra Luciana Lamorgese ha raccontato ieri di essere in contatto con il ministero dell’Interno libico e lì “c’è una situazione di instabilità, e questo determina anche un aumento dei flussi”. Dicono fonti del ministero che in effetti la settimana scorsa, subito dopo la Conferenza di Berlino, c’è stata una “falla” nel meccanismo che aveva retto negli ultimi due anni. Un eufemismo per dire che la Guardia costiera libica stavolta non ha fatto il suo dovere. Complice la guerra, ma non solo, i clan che dominano il mercato dei flussi illegali nelle cittadine di Zuara e Zawaya hanno subito approfittato del calo di tensione. Dalla Libia, però, si allude anche a un ostentato disinteresse del governo Sarraj per il problema migratorio. Una rappresaglia visto che il governo italiano ha cambiato linea e ora ostenta una totale equidistanza tra i due schieramenti? Potrebbe essere. Il ministro Luigi Di Maio, però, ieri in Parlamento ha spiegato che sono in corso “trattative”. A dispetto di quanto vuole la vulgata dei social, infatti, non è vero che il 2 febbraio sarà rinnovato tacitamente il memorandum tra i due governi, stipulato ai tempi di Marco Minniti, che regola la cooperazione con Tripoli su molti piani, contrasto all’immigrazione clandestina compreso. Il nostro governo ha rispettato i tempi per presentare alla controparte le sue richieste. Lo stesso ha fatto Tripoli. E ora si discute. Lo si fa in segreto, perché non è materia da farci sopra i comunicati. Da quel poco che si sa, l’Italia ha chiesto di rivedere il trattamento dei migranti, gli standard dei centri di accoglienza, il controllo in mare. Il governo di Tripoli, a sua volta, chiede aiuti materiali, specialmente per le forze di sicurezza. Ma come è noto, ci si scontra con i termini dell’embargo imposto dall’Onu. Lunedì sarà a Roma il ministro libico Fathi Bishaga. Nelle more della trattativa, però, si è inserita la variabile turca. È Erdogan ora il gran protettore di Tripoli e di Misurata. Uno che non si fa scrupoli a schierare navi, batterie missilistiche, droni e anche mercenari. Potrebbe avere interesse a far naufragare questo riavvicinamento. A Roma si rendono conto che la situazione si è ulteriormente complicata. Africa, i fondi per lo sviluppo del continente ostaggio della fortezza Europa di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 31 gennaio 2020 Più di un miliardo di euro del Trust fund Ue è stato destinato a politiche nazionaliste e di contenimento dei flussi migratori. La denuncia di Oxfam. Aiutarli a casa loro. Con questo fine l’Unione Europea nel 2015 ha istituito il ‘Fondo fiduciario di emergenza dell’UE per promuovere la stabilità a lungo termine e contrastare le cause profonde della migrazione irregolare e dei trasferimenti forzati in Africa’ (EUTF Africa)’, ovvero uno strumento per ridurre i fenomeni alla base dei flussi migratori e implementare lo sviluppo dei paesi di partenza e di transito più esposti. Meno sostegno, più difesa. Eppure, dopo quattro anni, i risultati stentano ad essere visibili. Uno dei motivi, secondo Oxfam, è da ricercare nella mala gestione del fondo. Il rapporto “Il Trust Fund Ue per l’Africa intrappolato tra difesa delle frontiere e politiche di aiuto” denuncia come negli ultimi 4 anni oltre 1 miliardo di euro, il 26% degli aiuti totali, siano stati deviati dal loro scopo umanitario “per finanziare politiche nazionali di brutale contenimento dei flussi migratori”. Un esempio dell’inefficacia del progetto è la percentuale esigua destinata a finanziare canali migratori regolari: 56 milioni di euro (meno dell’1,5% del valore totale del Trust Fund). Il fondo. Nato alla Valletta nel 2015 in seguito al vertice euro-africano, il Trust fund era destinato a 23 paesi africani. A differenza di quanto accade per altri fondi europei, il Parlamento europeo non ha potere di controllo sul Trust Fund. Le risorse arrivano principalmente dal Fondo europeo per lo sviluppo e altre iniziative volte allo sviluppo. Scandalo Libia. Come sempre succede quando si parla di iniziative europee sulla migrazione, la Libia gioca un ruolo di primo piano. In negativo. Degli oltre 4,5 miliardi di euro stanziati, le sono stati destinati 328 milioni diventando così primo beneficiario, con precedenza su paesi come Somalia e Niger. Ma non solo. Di questi, 160,13 milioni sono esplicitamente stati usati per la gestione dei flussi migratori e il rafforzamento delle frontiere, ovvero sono stati usati per finanziare la Guardia costiera libica, rea da tempo di una gestione a dir poco piena di ombre dei flussi migratori. Secondo lo ong, quest’ultima negli ultimi tre anni “ha operato in mare per riportare, in tre anni, circa 40 mila uomini, donne e bambini innocenti verso i ‘lager libici’, dove sono quotidianamente esposti a torture e abusi indicibili”. “La natura flessibile del Trust Fund - spiega Paolo Pezzati, policy advisor per la crisi migratoria di Oxfam Italia - consente infatti ai singoli stati di perseguire le loro priorità di politica interna, chiudendo i confini e accelerando i rimpatri. Il risultato è che finiscono in secondo piano gli obiettivi di miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni africane, di sviluppo e crescita economica, che possono alla radice prevenirne la necessità di migrare”. Dietro la maschera. Nato per aiutare i paesi più deboli, il fondo si è rivelato per quello che è: l’ennesimo strumento europeo per contrastare in modo immediato gli arrivi di migranti e richiedenti. E questo a scapito di altre finalità come la salvaguardia degli equilibri del continente africano, il suo sviluppo economico e la facilitazione della mobilità delle persone. “Molti progetti nell’ambito del Trust Fund - continua Pezzati - fanno più male che bene, ostacolando attivamente la migrazione invece di riconoscerne le cause. Inoltre, questa pressione sta causando notevoli tensioni tra l’Unione Europea e le nazioni africane, limitando il potenziale diplomatico dell’Europa di promuovere la democrazia, il rispetto dei diritti umani e lo spazio di partecipazione civile in paesi estremamente fragili”. E l’Italia? Al centro del Mediterraneo, l’Italia gioca un ruolo di primo piano. Non solo per aver finanziato l’accordo Italia-Libia (dalla firma, sono stati spesi 570 milioni euro per esternalizzare la gestione dei flussi migratori e per finanziare le missioni navali italiane ed europee, ma anche per aver gestito in modo diretto le risorse del Trust Fund. Un enorme flusso di denaro che ad oggi ha contribuito alla destabilizzazione del paese e “spinto i trafficanti di persone - scrive la ong - a convertire l’industria del contrabbando e tratta in industria della detenzione con abusi e violenze oramai note a tutti”. “I migranti - conclude Pezzati - sono usati come scudi umani[…]È urgente un piano di evacuazione dal paese per i migranti detenuti nei centri ufficiali e non ufficiali. Chiediamo che l’Europa trovi subito un accordo per portare fuori dal paese tutte le persone che a vario titolo si trovano lì e mostrino la volontà di richiedere protezione”. Libia senza tregua, la guerra la combattono i mercenari di Roberto Prinzi Il Manifesto, 31 gennaio 2020 Con il governo di al-Sarraj 3mila miliziani islamisti siriani inviati dalla Turchia, con il generale Haftar gruppi di giovani sudanesi mandati dagli Emirati. L’Unhcr sospende le operazioni nel centro di Tripoli e trasferisce decine di rifugiati. Il generale libico Haftar è un “mercenario, un soldato a libro paga dell’Egitto e degli Emirati arabi uniti”. Non ha usato mezzi termini l’altro giorno il presidente turco Erdogan per descrivere Haftar, l’autoproclamato capo dell’Esercito nazionale libico (Enl), nemico giurato del Governo di accordo nazionale (Gna) di al-Sarraj riconosciuto internazionalmente. Per il leader turco, “Haftar va fermato” perché è lui il responsabile delle violazioni del cessate il fuoco raggiunto lo scorso 12 gennaio su mediazione russa e turca. Una posizione condivisa dal Gna, sponsor di Ankara, che due giorni fa ha minacciato di rivedere la sua partecipazione “a qualunque dialogo” qualora l’Enl non dovesse porre fine alla sua offensiva contro al-Sarraj. Ma il “sultano” non può fare la morale a nessuno per il fallimento della tregua in Libia. A ricordarglielo è stato l’altro giorno il presidente francese Macron (pro-Haftar) che lo ha accusato di “non mantenere la parola sulla non ingerenza straniera” nel paese nordafricano. “Abbiamo visto nei giorni scorsi navi turche che accompagnavano mercenari siriani che arrivavano in Libia”, ha detto il capo dell’Eliseo. Parole confermate dalla tv saudita al-Arabiyya che, citando un rapporto dell’intelligence militare dell’Enl, ha parlato di decine di corpi di miliziani siriani nella camera mortuaria del principale nosocomio di Tripoli. Secondo il portavoce di Haftar, Ahmed al-Mismari, in Libia sarebbero operativi già 3mila combattenti provenienti dalla Siria. Per lo più disertori dell’esercito di al-Asad o jihadisti legati al ramo siriano di al-Qa’eda o a ciò che resta dell’Isis, sarebbero dispiegati tra Ain Zara, Mouz e Ponte Zahra. Dettagli in più sui 3mila mercenari siriani attivi in Libia li ha offerti qualche giorno fa il quotidiano d’opposizione turco Ahval: finanziati da Ankara dal 2016 per combattere le unità curde-siriane Ypg del Rojava, molti di loro avrebbero accettato di andare a combattere in Libia ingolositi dai ricchi salari promessi dai turchi (2mila dollari al mese a fronte dei 90 dollari percepiti in Siria). Non tutti però: alcuni avrebbero preferito un sostegno di Ankara contro il presidente siriano al-Asad nella battaglia di Idlib, l’ultima roccaforte dell’opposizione islamista in Siria. Il coinvolgimento militare turco in Libia non si limiterebbe però solo ai mercenari: due giorni fa fonti vicine ad Haftar hanno rivelato al quotidiano al-Hadath l’arrivo nel porto di Tripoli di almeno due navi militari turche con a bordo armamenti e soldati. Per ora il Gna non commenta, ma accusa gli Emirati di violare i termini della tregua con il trasferimento nel paese nordafricano di gruppi di giovani sudanesi a fianco dell’Enl (soprattutto in difesa dei campi petroliferi). Più armi e più combattenti in circolazione vuol dire solo una cosa: che la guerra - contrariamente a quanto ha affermato il Convegno di Berlino lo scorso 19 gennaio - continuerà ancora per molto. Gli effetti sono nefasti: un razzo lanciato da ignoti è caduto tre giorni fa su una scuola di Tripoli, ha ucciso due bambini e ne ha feriti due. Il Gna ha poi detto di aver abbattuto un drone “nemico” a Misurata (l’Enl nega e parla al contrario di un drone turco abbattuto) e di aver inviato ieri rinforzi verso la strategica città costiera di Sirte conquistata nelle ultime settimane dall’esercito di Haftar. Nuovi scontri si sono registrati ieri nella zona di Trek al-Matar, a sud della capitale. Continua, inoltre, da 13 giorni il blocco dell’Enl dei giacimenti petroliferi del paese che ha causato finora perdite pari a 502 milioni di dollari. In questo caos aumentano i rischi per i civili e per i migranti rinchiusi nel lager libici. Ieri l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha annunciato che sospenderà le sue operazioni presso la Struttura di raccolta e partenza di Tripoli “per il timore che possa diventare un obiettivo militare”. L’Unhcr ha comunicato di aver già trasferito in luoghi più sicuri decine di rifugiati altamente vulnerabili. Sudafrica, a processo gli aguzzini dell’apartheid di Francesco Malgaroli La Repubblica, 31 gennaio 2020 Per la prima volta un tribunale giudica il braccio violento del potere razzista. Dal 1960 al 1990, nella “Security Branch” di Johannesburg sono state torturate e uccise 73 persone. Piazza John Vorster a Johannesburg era la sede della polizia sudafricana e del cosiddetto “Security Banch”, una struttura apposita per la sicurezza dello Stato. In città il profilo blu del palazzo era sinonimo di paura. Molti di quelli che hanno combattuto l’apartheid sono passati in manette da lì. Al decimo piano si trovavano le celle e le stanze per gli interrogatori. Neil Aggett, 28 anni, bianco, sindacalista e medico, morì lì in una cella, con una corda al collo. Suicidio, dissero, ma grazie alla cocciutaggine dei genitori, il suo fascicolo è stato riaperto ed è cominciato un processo. Il 27 novembre 1981 Aggett viene portato via dalla polizia. I suoi sono preoccupati. Un mese dopo, il 31 dicembre, la polizia avverte che da lì a poco verrà liberato. La notte tra il 4 e il 5 febbraio del 1982 viene trovato appeso con una “kikoi”, una sciarpa colorata comune in Africa dopo 70 giorni di detenzione. “Una messa in scena perché sembrasse suicidio. È invece omicidio”, dice la sorella di Aggett. Arthur Cronwright, maggiore del Security Branch, aveva trovato una lettera “ai compagni” redatta da Barbara Hogan, detenuta al decimo piano. “Hitler, come era soprannominato da tutti Cronwright, aveva torturato anche Aggett a quel fine. Io stessa avevo cercato di togliermi la vita per le torture subite. Tornare a quei giorni - ha osservato in tribunale Hogan, dieci anni di prigione alle spalle - è stato per me un supplizio, ma è giunto il tempo di farlo”. Cronwright, morto nel 2012, in vita non aveva mai chiesto scusa per i suoi reati di fronte alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione. Al banco dovrebbe arrivare un altro esponente del Security Branch, Nicolaas Johannes Deetlefs, che interrogò Hogan e Aggett. Attraverso i suoi avvocati ha però già negato ogni responsabilità. Al decimo piano il 27 ottobre 1971 morì anche Ahmed Timol, indiano, tren’anni, esponente in esilio del Partito comunista. Al decimo piano il 16 febbraio 1977 morì Matthews Mabelane, nero, 23 anni, studente. Dal 1960 al 1990 sono stati uccisi in prigione 73 detenuti e di tanti neri non si sa dov’è sepolto il cadavere. Non si è mai trovato, per esempio, il corpo di Nokuhula Simelane, 23 anni, arrestata il 23 settembre 1983, torturata per due anni e poi uccisa. Ora, con il processo per la morte di Timol, il primo a essere intentato contro il potere razzista, e poi di Aggett, il vaso dei serpenti si è dischiuso. Nessuno aveva intenzione di aprire quelle pagine pur sapendo che i morti pesano sulla coscienza del Paese. A 49 anni dall’uccisione di Timol e a 38 da quella di Aggett forse è venuta l’ora di fare un po’ di conti con l’apartheid. “I familiari hanno aspettato proprio per sapere la verità”, dice l’arcivescovo Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace. Ora il palazzo in Piazza John Vorster si chiama Centrale di Polizia e cerca di scrollarsi di dosso quei tempi.