Ci siamo di nuovo dimenticati del carcere? di Marco Magnano riforma.it, 30 gennaio 2020 Un rapporto del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa evidenzia la fine della spinta riformatrice in moltissimi aspetti della detenzione. La scorsa settimana il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, organo del Consiglio d’Europa, ha pubblicato un rapporto sulla visita effettuata in Italia nei mesi scorsi durante la quale i membri del Comitato avevano visitato alcune carceri del nostro Paese. È uno sguardo interessante, perché come succede con molti rapporti internazionali ci permette di vederci dall’esterno, privarci di alcuni preconcetti, di alcune convinzioni che normalmente ci portiamo dietro. A differenza degli esami ordinari, che avvengono con visite periodiche che ogni quattro anni toccano tutti i Paesi membri del Consiglio d’Europa, in questo caso si è trattato di una iniziativa ad hoc, mirata a verificare le condizioni di un aspetto specifico. In particolare, l’intenzione di questa visita, che ha toccato le strutture di Biella, Saluzzo, Milano Opera e Viterbo, è stata quella di esaminare la situazione delle persone che si trovano nei regimi di alta o massima sicurezza, come il 41-bis o le varie forme di isolamento o di segregazione. A differenza di molti altri casi, questa volta il governo italiano ha dato l’autorizzazione alla pubblicazione in tempi molto brevi, consentendo quindi a questo rapporto di parlare di attualità, più che di storia. Attenzione particolare è stata dedicata alle numerose denunce di detenuti che segnalavano episodi di violenza subiti da parte degli agenti di polizia penitenziaria. Il Comitato ha ritenuto che la documentazione supportasse la veridicità delle accuse di maltrattamenti. Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone, chiarisce che “molti detenuti dicono di essere stati trattati benissimo dalla polizia penitenziaria e dall’amministrazione, però si sono riscontrati segni di violenza episodica nelle carceri di Biella, Opera e Saluzzo”. Un problema più profondo riguarda invece Viterbo, dove è emersa una dimensione sistematica. “Purtroppo - ricorda Marietti - noi di Antigone avevamo già avuto modo di denunciare ciò che succede a Viterbo, e il comitato raccomanda di fare più attenzione a quello che succede in carcere e di procedere più rapidamente alle indagini nel caso di denunce”. Tra i punti-chiave dell’analisi del Comitato si trova poi il concetto di sorveglianza dinamica, ovvero la possibilità per i detenuti di poter uscire dalle proprie celle durante il giorno. A questo proposito, la raccomandazione per l’Italia è quella di restituire forza al progetto, avviato alcuni anni fa con la riforma dell’ordinamento penitenziario sviluppata durante il mandato di Andrea Orlando come ministro della Giustizia e oggi messo ai margini, addirittura non applicato in diverse strutture. Sui regimi più segreganti, invece, la presa di posizione è stata netta, chiedendo l’abolizione dell’isolamento diurno, in linea con una proposta di legge che, al suo interno, aveva proprio la richiesta di abolire questa pena. C’è poi una dimensione di invisibilità nell’invisibilità delle carceri italiane, ovvero i reclusi con patologie psichiatriche. Una riforma avviata nel 2011 e resa operativa dal 2015, infatti, ha portato alla chiusura degli Opg, gli Ospedali psichiatrici giudiziari, sostituiti dalle Rems, Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Tuttavia, il Comitato ha ravvisato come alcune persone che da un punto di vista formale sono state giudicate incapaci di intendere e volere si trovino oggi in carcere. “Per queste persone - chiarisce Susanna Marietti - non ci dovrebbe essere una pena vera e propria, ma una misura di sicurezza da scontare in Rems. Sono detenuti in carcere in modo illegittimo, perché non hanno un ordine di detenzione e dovrebbero stare in una struttura a vocazione sanitaria. Purtroppo sul territorio l’accoglienza delle Rems è numericamente molto limitata”. Insomma, da questo rapporto emerge un quadro abbastanza desolante, e soprattutto una considerazione: la spinta riformatrice degli anni scorsi sembra essersi fermata e l’onda lunga della sentenza Torreggiani non sembra più particolarmente vivace. “Purtroppo è qualcosa di già visto”, commenta la coordinatrice nazionale di Antigone. “È finita l’attenzione che l’Europa, e di conseguenza le autorità italiane, dedicavano alle carceri dopo la condanna della Cedu, un’attenzione che aveva portato a una serie di riforme, anche strutturali, anche importanti, che avevano permesso una riduzione di ben 15.000 unità della popolazione detenuta. Dal 1 gennaio 2016 la popolazione carceraria ha ricominciato a crescere, e questo tra l’altro il Comitato lo nota con preoccupazione. Il carcere è qualcosa di scomodo, che conviene dimenticare, e quindi quando non c’è un fatto tragico o una sentenza che ci impone di guardare a quei luoghi, ce ne dimentichiamo”. La pena fuori dal carcere, è emergenza rassegna.it, 30 gennaio 2020 Oltre 94 mila i soggetti in esecuzione penale esterna, appena 1.299 i lavoratori coinvolti. Oliverio (Fp-Cgil): “Gli organici, già totalmente insufficienti, sono in costante riduzione per effetto di quota 100 e dell’età elevata” Sono oltre 94.000 i soggetti in carico al segmento dell’esecuzione penale esterna, a fronte di una mole di lavoratrici e lavoratori interessati, tra funzionari sociali e agenti di polizia penitenziaria, pari a 1.300. È questo lo stato in cui versa l’esecuzione penale esterna, ovvero quel segmento del complesso mondo dell’esecuzione penale che si occupa, in prevalenza, di chi sconta la pena fuori dalle mura carcerarie. A denunciarlo è la Funzione pubblica della Cgil nazionale che ha oggi (mercoledì 29 gennaio) promosso una iniziativa sul tema, dietro le parole ‘Fuori a metà - L’altra pena, fuori dalle mura’. Al centro dell’iniziativa un settore che dipende dal Dipartimento di giustizia minorile e di comunità del dicastero di via Arenula e che persegue il potenziamento e l’implementazione di misure alternative al carcere, come previsto dalla legge 67 del 2014 con l’istituzione della messa alla prova. Quest’ultima rappresenta la possibilità di richiedere la sospensione del procedimento penale per reati considerati di minore gravità, possibilità già prevista per i minorenni e, dalla legge citata, ora anche per gli adulti. Il settore dell’esecuzione penale esterna comprende una serie di attività e interventi, tra cui il controllo, il consiglio e l’assistenza, mirati al reinserimento sociale dell’autore di reato e volti a contribuire alla sicurezza pubblica. Insomma l’obiettivo, spiega la Fp Cgil, è rendere il carcere l’ultima ratio e di perseguire, attraverso la pena da scontare fuori dalle mura, l’attuazione piena dell’articolo 27 della Costituzione, ovvero la rieducazione e il reinserimento del reo nella società. Ma i numeri rendono improbo questo compito. Il bacino di utenza dell’esecuzione penale esterna, dalla sua istituzione, ha registrato un progressivo aumento che non è soltanto determinato dall’introduzione della misura della ‘messa alla prova’, ma anche dal costante aumento del numero di persone che fruiscono delle misure alternative e sanzioni sostitutive. Si è passati così, rilevano i numeri della Funzione pubblica Cgil, dalle 32 mila persone (31.404 in misure alternative e 804 messe alla prova) del 2015 alle oltre 55 mila (39.843 e 15.171) del 2019. Ma non solo, precisa il sindacato, si deve considerare che una funzione fondamentale dell’esecuzione penale esterna è quella della consulenza sia nei confronti della magistratura che nei confronti degli istituti di pena. Un carico di lavoro rappresentato da altre 39 mila persone che si aggiungono alle 55 mila che già fruiscono di una misura. Si tratta di un totale quindi di 94.537 soggetti in carico al segmento dell’esecuzione penale esterna, a fronte di una mole di lavoratori coinvolti pari a 1.299, così suddivisi: 1.114 funzionari dei servizi sociali e 185 di polizia penitenziaria, suddivisi in 167 agenti assistenti, 11 sovraintendenti e 7 ispettori. Numeri, questi ultimi, osserva il segretario nazionale della Fp Cgil, Florindo Oliverio, “totalmente insufficienti, in costante riduzione, per quanto riguarda i funzionari di servizio sociale, per effetto di quota 100 e un’età media molto elevata. Una situazione grave che si prova a coprire ricorrendo a volontari del servizio civile e all’utilizzo di agenti o personale tecnico per coprire mansioni amministrative”. Serve, secondo il dirigente sindacale, “non solo riconoscere la giusta professionalità al personale, come ad esempio riconoscere la specificità della dirigenza di servizio sociale. Ma soprattutto chiediamo con forza al ministro della Giustizia e al governo di riavviare l’interrotto confronto sull’esecuzione penale e mettere in campo una concreta opera di potenziamento del settore”. Per la Fp Cgil serve un piano straordinario assunzionale, spiega Oliverio, “finalizzato a garantire il mandato istituzionale del settore sia per quanto riguarda le misure alternative sia per quanto riguarda la ‘messa alla prova’. Questo è il modello di esecuzione della pena che vogliamo per il nostro Paese. Un modello che sostenga il mandato costituzionale affidato a tutti i lavoratori che rappresentiamo e garantisca loro la possibilità di lavorare in modo dignitoso e di crescere professionalmente”. Assistenza sanitaria negata ai detenuti, significativa carenza di cure carcerarie in tutto il Paese informamolise.com, 30 gennaio 2020 Di Giacomo (Spp) scrive al Ministro della Giustizia e della Salute. “Il Garante nazionale dei detenuti, di solito sempre pronto ad intervenire su tutto, questa volta continua ad ignorare la drammatica situazione che si registra nel carcere di Campobasso, dove sono negati i diritti elementari di tutela della salute dei detenuti, innanzitutto a causa della carenza di personale medico ed infermieristico. Al terzo giorno di legittime poteste degli stessi detenuti, ai quali è impedito ogni possibilità di analisi cliniche e visite specialistiche, mi vedo costretto a sostituire il Garante a riprova che la nostra iniziativa è sempre rivolta all’ “emergenza carcere” che tocca direttamente il personale penitenziario come i detenuti, con le dovute differenze ma senza distinzione”. Lo sostiene il segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria (Spp), Aldo Di Giacomo che ha inviato una lettera aperta al Garante dei Detenuti e per conoscenza ai Ministri di Grazia e Giustizia Bonafede e alla Salute Speranza. Il “caso Campobasso” è emblematico e al tempo stesso significativo dei problemi che riguardano l’assistenza sanitaria della popolazione carceraria di tutti gli istituti penitenziari italiani. Si sottovaluta che due detenuti su tre sono malati e che sono in aumento Hiv e tubercolosi. Si stima che -riferisce Di Giacomo-gli Hiv positivi siano circa 5.000, mentre intorno ai 6.500 i portatori attivi del virus dell’epatite B. Tra il 25 e il 35% dei detenuti nelle carceri italiane sono affetti da epatite C: si tratta di una forbice compresa tra i 25mila e i 35mila detenuti all’anno. Risulta poi dai dati ufficiali del Ministero della Giustizia che un terzo della popolazione sia straniera, e, con il collasso di sistemi sanitari esteri, con il movimento delle persone, si riscontrano nelle carceri tassi di tubercolosi latente molto più alti rispetto alla popolazione generale. Se in Italia tra la popolazione generale si stima un tasso di tubercolosi latenti, cioè di portatori non malati, pari al 1-2%, nelle strutture penitenziarie sono stati rilevati il 25-30%, che aumentano ad oltre il 50% se consideriamo solo la popolazione straniera. La situazione - commenta il segretario del S.PP. - è ancor più preoccupante in quanto, secondo i medici, un detenuto su due risulta essere tubercolino positivo e questo sottintende una maggiore circolazione del bacillo tubercolare in questo ambito. È, quindi, indispensabile effettuare controlli estesi in questa popolazione, perché il rischio che si possano sviluppare dei ceppi multi resistenti è molto alto, con conseguente aumento della letalità nei pazienti in cui la malattia si sviluppa in modo conclamato. In questa situazione - conclude Di Giacomo - è intollerabile che si parli solo ed esclusivamente di assicurare i Lea (Livelli essenziali di assistenza) ai detenuti escludendo il personale penitenziario, continuando a sottovalutare i rischi. Per questo le promesse del Ministro Speranza per rafforzare i servizi della sanità carceraria devono tradursi in fatto coinvolgendo le Regioni a cui sono delegate specifici compiti che non riescono ad assolvere per carenza di personale e di fondi”. Una finestra diretta sul carcere-catacomba di Lucio Boldrin* Avvenire, 30 gennaio 2020 Quando una realtà la vedi dall’interno, ti accorgi in pochi attimi che quanto pensavi non corrisponde alla realtà. Entrando in carcere tutte le mie idee si sono frantumate. Il mondo delle carceri fa paura e inquieta perché è parte del volto triste e sfigurato della società a cui apparteniamo. Ma davvero sono solo le persone detenute ad avere sbagliato? La frequentazione del carcere, in questi quattro mesi che sono cappellano a Rebibbia, mi ha permesso di conoscere un tipo di umanità diversa: non vedo più criminali, ma solo persone. Entrare in carcere, ogni giorno, è come scendere nelle catacombe di una città dove queste persone vengono allontanate alla nostra vista per fare finta che non esistano. Ma non è così! Esistono, non sono invisibili. È quello che cercherò di far comprendere meglio - i lettori di Avvenire sono già molto ben informati su questo - aprendo una volta al mese una finestra diretta sul carcere, con alcune testimonianze degli stessi carcerati. Sarà il loro grido per chiedere una giustizia equa. Già, perché i poveri, in carcere, sono ancora più poveri. Una percentuale minima è fatta da grandi criminali. Migliaia sono “dentro” per reati minori. Molti ruotano attorno al mondo della tossicodipendenza, per non dire degli analfabeti, degli stranieri (meno degli italiani), del numero elevato dei senza dimora e dell’1% (forse) di laureati. Il tasso dei suicidi in carcere, secondo l’Istat, è del 18% superiore a quello di “fuori”. Mi chiedo se abbia senso lasciare in carcere giovani prostitute africane vittime della tratta, oppure persone senza dimora per aver rubato un cappotto o dormito in un’auto, anziani (perfino 80enni), uomini affetti da Hiv o bisognosi di muoversi in carrozzella o con le stampelle. Si può pensare di recuperare le persone alla società lasciandole in cella, in certi reparti, 22 ore su 24? Pochissimi coloro che hanno la possibilità di lavorare o di studiare, occupando meglio il tempo. Tra l’altro, sembra incredibile che un edificio di proprietà dello Stato sia lasciato in simili condizioni: se fosse un immobile privato, probabilmente non sarebbe autorizzato a ospitare persone. Ovviamente, tutte queste situazioni creano problemi agli stessi agenti penitenziari, che sono sotto organico, con orari prolungati e turni difficili da gestire di notte e nei fine settimana. Non può essere sottovalutato che dal 2000 il numero di suicidi tra gli agenti penitenziari ha superato quota 100. Insomma, sono molti i punti sui quali riflettere e far sì che i riflettori restino accesi. *Padre stimmatino, cappellano della Casa circondariale maschile “Nuovo Complesso” di Rebibbia Teresa è morta. Adesso Rosa è sola in cella di Gioacchino Criaco Il Riformista, 30 gennaio 2020 È una storia di donne questa, di madre e figlia: di Teresa e di Rosa. Ve ne abbiamo parlato il 1° novembre, Rosa era in carcere con una frattura vertebrale e Teresa scriveva accorate lettere perché la figlia venisse curata. Rosa dentro ci è finita per amore, e l’amore non si giudica in base a chi sia l’amato. Anzi, nessuno può dar giudizi sull’amore. La persona che Rosa ama è un ex superlatitante, Ernesto Fazzalari, la vicinanza a lui è costata a Rosa una condanna a otto anni, con una sentenza che è tuttora riformabile, non definitiva. Rosa in carcere è scivolata nella doccia un anno fa, da un carcere e stata spostata in un altro ma è stata lasciata dentro a curarsi, e curarsi dentro, quando si ha una malattia vera, anche se fingiamo tutti di non saperlo, sappiamo benissimo che significa. Per sapere cosa sia il carcere in Italia basta guardarsi i report continuamente negativi di organismi nazionali o europei, le condanne subite dall’Italia in sede comunitaria. L’ultimo rapporto parla di violenze ai detenuti, di isolamento usato come tortura, occupiamo i posti finali nella civiltà delle prigioni, ma di questo l’orgoglio italico impregnato d’odio non si lagna. In questa storia, però, a dominare è l’amore, quello fra donne, fra madre e figlia: Teresa Moscato non si dà pace, non riesce ad avere pace, è convinta che Rosa Zagari finirà male, bloccata per sempre. E del resto nelle loro vite la fiaba non è mai stata protagonista, una comparsa svogliata e spilorcia che ha sborsato felicità da contare in secondi. Il carcere ha segnato la loro storia famigliare, dare giudizi è un affare di giudici, affare di tutti è l’umanità, quella riguarda ognuno di noi, darla e pretenderla appartiene a una responsabilità collettiva. Del gioire per chi sta dentro, a prescindere dalla colpevolezza o meno, in un modo o in un altro ne risponderemo. Teresa non sì è data pace per mesi, della condizione della figlia, e non se ne dà nemmeno adesso che non sente più il cuore batterle in petto. Teresa è morta senza pace da un paio di settimane. Se ne sta, stesa, al freddo di un refrigeratore mortuario: aspetta i figli, in galera, per farsi accompagnare al cimitero. È una storia d’amore di donne calabre, qualcuno che d’amore non capisce ha detto che le madri calabresi crescono i figli a ninna nanne di ndrangheta, ci fosse stato nel cuore delle donne calabresi, capirebbe la loro lotta secolare per guadagnarsi il paradiso e portarci dentro gli uomini che amano. Che senza queste donne, la deriva morale sarebbe stata totale. Ora una “Giornata sugli errori giudiziari”. Tutti d’accordo, tranne Pd e 5Stelle di Valentina Stella Il Dubbio, 30 gennaio 2020 La proposta di legge promossa dal Partito Radicale. A seguito dell’affermazione del Ministro della Giustizia Bonafade, secondo il quale “non ci sono innocenti in carcere”, il Partito Radicale ha organizzato ieri una Giornata sugli Errori Giudiziari. L’evento dal titolo “Anche gli innocenti vanno in carcere” è stata l’occasione per presentare la Proposta di Legge, promossa dal Partito e sottoposta all’attenzione di tutti i capigruppo, per indire la giornata nazionale delle vittime degli errori giudiziari per il 17 giugno, anniversario dell’arresto di Enzo Tortora. Per ora hanno risposto positivamente Forza Italia, Lega e Italia Viva. Il Partito Democratico invece, nonostante numerosi solleciti alla segreteria del capogruppo Delrio, non si è reso al momento disponibile a sostenere la proposta di legge. Ad aprire la conferenza Maurizio Turco, Segretario del Partito Radicale: “questa iniziativa si inserisce nella lotta per la giustizia giusta iniziata con Enzo Tortora. Da allora sono pochi i magistrati che pagano per gli errori commessi”. Ha moderato poi Irene Teste, tesoriera del Partito: “abbiamo scelto di far raccontare le storie direttamente dai protagonisti per far dire loro cosa significhi perdere mesi e anni in carcere da innocenti, cosa significhi l’infamia di finire sui giornali ed essere dipinti come mostri. Se è vero che Bonafede - ha proseguito Testa - è stato mal interpretato, credo allora che il Ministro, dopo aver detto di aver avviato un capillare monitoraggio delle ingiuste detenzioni, possa fare di più e con il Movimento 5 Stelle può adoperarsi per far sì che la proposta diventi legge entro il 17 giugno”. Prima firmataria della proposta di legge è Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera: “grazie al Partito Radicale che è sempre in prima linea per queste battaglie. I giornali sono pieni di storie simili a quelle raccontate oggi. Dal 1992 ci sono circa 1000 casi accertati all’anno di vittime di malagiustizia, tre al giorno, uno ogni 8 ore. Lo Stato ha già speso più di 740 milioni di euro in risarcimenti, e il conto continua a crescere di circa 8100 euro al giorno. La battaglia che portiamo davanti è battaglia di libertà che va combattuta in maniera trasversale. Dobbiamo lottare contro il populismo penale”. Anche la Lega presente con l’onorevole Riccardo Molinari, capogruppo alla Camera: “le scelte erronee fatte dal passato dai partiti possono essere corrette: ogni partito si è macchiato di giustizialismo becero. Nel mio partito in base alla classe sociale della persona che viene toccata, la sinistra lo ha usato per attaccare qualche avversario politico. Quindi quando è arrivata la proposta di legge l’ ho subito fatta firmare dai colleghi, perché alla base c’è un tema: ragionare su quali sono i valori che non possono essere intaccati a prescindere dalla stagione politica che si sta vivendo”. Per Italia Viva è intervenuto l’onorevole Roberto Giachetti: “penso che questo Paese sia malato di giustizia come diceva Pannella. Oltre alla responsabilità civile dei magistrati, occorre interrogarsi sulla progressione di carriera dei magistrati che hanno commessi gravi errori in passato. Si tratta di un problema culturale: se qualcuno viene coinvolto in una indagine si pensa che egli debba dimostrare la propria innocenza e invece sono altri che devono provare la colpevolezza. Si crea purtroppo una torsione culturale e giuridica”. Ispiratore della proposta di legge è stato l’avvocato Giuseppe Rossodivita, membro del consiglio generale del Partito Radicale: “non va sottovalutata la portata di questa proposta in termini di informazione e cultura. Ci sono magistrati che sono diventati delle vere star, come il dottor Davigo, che non rappresentano tutta la magistratura. Ormai sono sempre nei salotti televisivi: un magistrato non ha bisogno di fare questo, di cercare potere e consenso popolare. Questo è anche responsabilità della politica che non ha la forza di fare riforme sull’obbligatorietà dell’azione penale, sui magistrati fuori ruolo.La politica non ha il coraggio di nominare neanche gli avvocati nei vertici apicali come nei Gabinetti o al Ministero. La strada è quella di Marco Pannella: non avere scheletri nell’armadio e puntare verso le riforme”. Il senatore leghista Andrea Ostellari, presidente della Commissione Giustizia, ha annunciato che la proposta di legge è stata depositata ieri mattina in commissione a Palazzo Madama. Ha chiuso gli interventi politici l’onorevole Enrico Costa di Forza Italia, autore del ddl per cancellare la riforma Bonafede sulla prescrizione, e co-firmatario della proposta di legge: “il tema delle ingiuste detenzioni è legata a diverse temi, tra cui il processo mediatico. È inaccettabile l’uso che fanno le procure e gli inquirenti delle conferenze stampa con video, immagini, intercettazioni neanche mai vagliate e periziate. Il rapporto particolare tra stampa e magistratura crea un marchio sugli indagati e la presunzione di innocenza viene vanificata. Parte della responsabilità è anche di alcuni politici che quando sanno che un collega è stato raggiunto da un avviso di garanzia dicono ‘siamo garantisti ma…’: il ‘ma’ non deve esistere. Il tema della ingiusta detenzione è legato anche alla disinvoltura nell’applicare la custodia cautelare”. Prescrizione: come correggere la riforma senza cancellarla di Ernesto Lupo* Avvenire, 30 gennaio 2020 La prescrizione del reato è un argomento tecnico diventato di massima attualità politica. Si è prodotta un’ampia e accesa discussione, ma, per lo più, non chiara. Da qui l’utilità di porre innanzitutto qualche punto fermo. Il primo: occorre distinguere tra le diverse prescrizioni. Il fenomeno negativo più grave, e quindi da combattere in via prioritaria, è la prescrizione del reato che si verifica durante lo svolgimento del processo, quando è stata già esercitata l’azione penale. Un processo iniziato deve pervenire al suo risultato naturale, che è l’accertamento della verità (più precisamente: della fondatezza dell’accusa). Un processo ancora in corso che si conclude con la dichiarazione di prescrizione va considerato un ‘aborto’. Evidentemente è più grave che l”aborto’ si verifichi non durante il giudizio di primo grado, ma nel corso delle fasi di impugnazione (appello o Cassazione). In quest’ultimo caso si ha sempre uno spreco delle attività precedentemente compiute e, in aggiunta eventuale, l’ingiustizia di mandare esente da pena una persona dichiarata responsabile in una o più sentenze precedenti e, se mai, rea confessa (potendo l’impugnazione riguardare soltanto il tipo di reato commesso). Con il grave fenomeno qui considerato non va confusa la prescrizione del reato che matura prima della eventuale instaurazione del processo. In questo secondo caso il tempo non breve trascorso dal fatto può averne determinato nella collettività l’oblio (che è la giustificazione principale della prescrizione). Il sentimento di oblio del fatto è incompatibile con la sua memoria che, al contrario, si rinnova attraverso la celebrazione del processo. La prescrizione che si verifica prima dell’eventuale inizio del processo è un fenomeno diverso, molto meno grave, e richiede un discorso del tutto differente, da fare semmai in altra sede. Il secondo punto fermo: il Parlamento ha approvato, nel 2017, un rimedio di cui non si possono ancora conoscere gli effetti. Per impedire la prescrizione che maturi nel corso delle impugnazioni (e quindi la situazione nettamente più grave), è stata approvata, nel giugno 2017, la legge n.103, la quale ha allungato, in determinate ipotesi, i tempi previsti per queste fasi processuali. È impossibile ancora oggi conoscere se questa legge avrebbe raggiunto il suo scopo, perché è troppo breve il tempo trascorso da essa. Non ostante l’ignoranza dei suoi effetti, essa è stata superata da una successiva legge (n. 3 del gennaio 2019), entrata in vigore all’inizio di quest’anno. Eccoci dunque al terzo punto: al precedente rimedio se ne è sovrapposto un altro, che però non ha effetti immediati, né potrà averne nei prossimi quattro anni. La legge entrata in vigore il 1° gennaio 2020 si differenzia dalla precedente del 2017 perché, anziché allungare il periodo di tempo necessario per il maturarsi della prescrizione, ha disposto, più radicalmente, che la prescrizione non può essere più dichiarata dopo la sentenza di primo grado (di condanna o di assoluzione dell’imputato). Si è pubblicizzata la legge affermando che essa ha abolito la prescrizione. Ma la verità è che essa non può produrre alcun effetto nell’anno in corso e nei prossimi anni, perché si applica soltanto ai reati commessi dal 2020 in poi, mentre per i reati commessi anteriormente trova applicazione la legge precedente, anche se per essi il processo si celebrerà quest’anno o negli anni successivi. Poiché il tempo minimo di prescrizione è di quattro anni (per le contravvenzioni), un fatto commesso quest’anno non potrà maturare il periodo di prescrizione prima del prossimo quadriennio (salvi gli allunghi determinati da eventuali atti interruttivi). Quarto punto: il nuovo rimedio non è conforme alla Costituzione. La legge in vigore dall’inizio di questo anno non è conforme, infatti, all’ art. 111 della Costituzione, che impone al legislatore di assicurare la “ragionevole durata” del processo. La nuova legge non ne prevede più un limite di durata, onde può aversi una situazione - non probabile, ma possibile - di “fine processo mai”. Perciò, e siamo al quinto punto, occorre rendere il nuovo rimedio conforme alla Costituzione, ma senza tornare a soluzioni ‘abortivè. L’inaccettabile situazione indicata nel punto precedente non può infatti mutare la valutazione di effetto ‘abortivo’, anche esso inaccettabile, che si è data alla dichiarazione di prescrizione che intervenga nel corso delle fasi di impugnazione. Con la differenza che questo secondo effetto si è finora verificato molto più frequentemente di quanto sia prevedibile che possa aversi in futuro il primo, e cioè la durata indefinita di un processo. Accettano, invece, l”aborto’ del processo per effetto del solo decorso del tempo le proposte, da più parti formulate, che aggiungono alla prescrizione del reato la possibilità di estinzione del processo o di prescrizione processuale. Queste proposte non mutano l’effetto sostanziale della prescrizione del reato: anche esse rendono inutile un processo che si è svolto in uno o più gradi, rinunziando alla finalità di accertamento per cui esso è stato instaurato, e mandano esente da pena un possibile o, in alcuni casi, sicuro responsabile. In qualche proposta (come in quella n.2306, presentata alla Camera il 18 dicembre 2019), non sono esclusi dalla estinzione del processo neanche i reati da sempre imprescrittibili (come, per esempio, la strage). Si può perciò concludere che occorre assicurare la durata ragionevole del processo, ma senza accettare che la prescrizione del reato (effetto ed espressione dell’oblio del fatto) possa maturare quando si celebra, attraverso il processo, la memoria di quel fatto. Ben venga, ovviamente, ogni tentativo di rendere il processo penale meno lungo, ma ciò richiede personale e strutture materiali più che modifiche legislative. Qualunque intervento migliorativo non potrà, però, escludere che si verifichino casi in cui si abbia una violazione del diritto dell’imputato alla durata ragionevole del processo, senza che ciò sia a lui addebitabile. Per prevenire e, se necessario, risarcire tale violazione occorre prevedere dei rimedi, nella consapevolezza che la lunghezza di un processo penale produce normalmente effetti più gravi del protrarsi di un giudizio civile. Al riguardo, proposte interessanti sono state elaborate dalla dottrina giuridica. È qui sufficiente un loro rapido richiamo. Nel caso di un processo che abbia avuto una durata non ragionevole si è proposta una riduzione della pena commisurata alla entità della sua durata e determinata dalla stessa sentenza di condanna. Nell’ipotesi di assoluzione dell’imputato, ma in esito a un processo di durata eccessiva, può ipotizzarsi un risarcimento pecuniario ben maggiore dell’indennizzo previsto per la lunghezza degli altri tipi di processo, che, soprattutto, venga liquidato dallo stesso giudice che pronunzia la sentenza tardiva, anziché nell’apposito giudizio che occorre, invece, instaurare per ottenere, negli altri casi, il detto indennizzo. *Primo Presidente emerito della Suprema Corte di Cassazione La vera prescrizione che serve non è quella di M5S e Conte di Antonio Pagliano ilsussidiario.net, 30 gennaio 2020 Solo l’introduzione di una “prescrizione processuale” a seconda dei gradi di giudizio o della sentenza può adeguatamente bilanciare l’introdotto blocco della prescrizione. Non si può non partire dalla prescrizione di cui, in tanti oltre chi scrive, qui si sono già interessati, come d’altronde hanno praticamente fatto tutti o quasi i laureati in giurisprudenza di questo paese, che grosso modo risultano di poco inferiori al numero di commissari tecnici della Nazionale di calcio. Ebbene, ciò che subito colpisce è che moltissimi di questi hanno espresso opinioni molto affini fra loro. Professori universitari, molti giudici, avvocati hanno sostanzialmente espresso grandi perplessità, per usare un eufemismo, nei riguardi dell’oramai legge che blocca la prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado. Dal 1930 all’avvento di Berlusconi, le norme del codice penale che di tale argomento si occupano non sono state mai sfiorate da alcun intervento legislativo. I processi evidentemente non si prescrivevano o, se accadeva, non interessava a nessuno. I più esperti potranno subito obiettare che almeno fino al 1988 le prescrizioni erano rarissime, perché con il vecchio codice i processi erano più celeri. Poi, certo, con il nuovo codice, la dilatazione dei tempi è diventata un’arma processuale. Tuttavia ciò che non si dice con abbastanza chiarezza è che quest’arma funziona solo in circoscritte situazioni, ovvero in presenza dell’inizio di un processo in prossimità della data di prescrizione. Se, per dirla in termini pratici, oggi inizia a celebrarsi un processo la cui prescrizione avverrà fra 5 anni, difficilmente la strategia sarà improntata alla dilatazione dei tempi. Se invece inizia oggi un processo che fra uno o due anni si prescriverà, allora la strategia processuale potrà giovarsi di una probabile prescrizione. A fronte di ciò, finora non si è mai intervenuti sulle vere cause che producono un rinvio a giudizio dopo anni dai fatti in contestazione. Questi tempi, quelli relativi allo svolgimento delle indagini e del conseguente esercizio dell’azione penale, sono assai spesso enormemente dilatati. Questo è il male principale del nostro sistema. Questo produce sentenze che arrivano poco prima o poco dopo la maturazione della prescrizione, ma ciò che davvero deve essere spiegato all’opinione pubblica è che un verdetto troppo lontano dal momento dei fatti non può essere quasi mai considerato giusto e pertanto provoca sempre ulteriore malanimo e nuovo risentimento nei confronti dello Stato e dei suoi rappresentanti. Si pensi a un soggetto che dopo anni da un fatto di reato commesso non in modo seriale e reiterato, magari in giovane età, si veda irrogare una pena che compromette la sua stabilità professionale e familiare, pure faticosamente raggiunta. Si badi, il “fine processo mai” esiste già ed esiste, giustamente, per i reati più gravi. Per un omicidio, l’oblio non scatta mai e questo è da tutti i consociati considerato giusto. Se ho ucciso, anche dopo 20 anni, posso, anzi devo essere condannato se colpevole e se nel frattempo ho cambiato vita resta comunque giusto che a fronte dell’azione che ho commesso venga comunque sottoposto alla relativa pena. Ma il colpevole di una corruzione, di un furto, di un abuso edilizio, è giusto che venga condannato dopo anche 20 anni dai fatti commessi? Su questi aspetti, cruciali, la proposta del governo di contenere i tempi dei tre gradi di giudizio senza introdurre la prescrizione processuale appare molto velleitario. La verità è che uno Stato serio non copre le sue inefficienze con rimedi retorici. Chi afferma a gran voce che in molti paesi la prescrizione non esiste, dovrebbe anche dire qual è in quei paesi la durata media dei giudizi. Su temi così delicati, come la vita delle persone, non si può intervenire con provvedimenti parziali, in attesa di futuri correttivi o di ipotetiche integrazioni. Come invece si è già avuto occasione di rappresentare anche in sede di audizione in Commissione Giustizia, occorre, se si vuole provare ad agire sul sistema in modo equilibrato e organico, tenere ben distinti gli istituti della prescrizione del reato dalla prescrizione processuale, agendo su quest’ultima per fissare preclusioni di fase vere. Allo stesso modo occorre intervenire contestualmente con un progetto organico sui temi delle priorità delle indagini nei programmi organizzativi degli Uffici di Procura, sulle priorità nella trattazione dei processi, sul processo telematico penale, sui meccanismi di rinnovazione del dibattimento e sull’appello. Su questi ultimi aspetti, per la verità, le formulate governative proposte sembrano già più interessanti e aderenti al dato reale. Ben si comprendono le ragioni per le quali autorevoli fonti del Governo hanno nei giorni scorsi dichiarato, all’esito di un precedente confronto fra le parti, che si è aperta una fase nuova. Aggiungendo, poi, che risultava significativo l’abbandono di rigidità e che la riforma del processo sarebbe andata in Consiglio dei ministri la settimana successiva, come è in effetti accaduto. Tuttavia, resta fermo che solo l’introduzione di una “prescrizione processuale” a seconda dei gradi di giudizio o della sentenza di assoluzione o condanna possa adeguatamente bilanciare l’introdotto blocco della prescrizione. E di tale evenienza non si rinviene traccia. Compare, invece, nella proposta la differenziazione tra la sentenza di assoluzione e quella di condanna, limitando solo a quest’ultima la sospensione, rectius il blocco, della prescrizione. La proposta, formulata dal Presidente del Consiglio, non ci sembra risolutiva, al di là dei dubbi di costituzionalità che ne derivano. Per la Costituzione, la presunzione di innocenza resta tale fino alla sentenza definitiva. E questo vale tanto per l’innocente quanto per il colpevole. L’auspicio, allora, non può che essere che si vada ben oltre questa proposta, ragionando in termini di prescrizione processuale. Guarda caso, una proposta elaborata dalla Commissione Riccio nell’ultima proposta organica di riscrittura del sistema processuale. Il ministro era Mastella e quel governo cadde proprio per un’inchiesta giudiziaria a carico del ministro stesso e della di lui moglie, poi entrambi assolti. Con un appello della Procura della Repubblica, quelle assoluzioni, forse, sarebbero ancora in attesa di passare in giudicato. Ha ragione il responsabile del Pd quando dice che un processo che dovesse durare non più di 5 anni rappresenterebbe un traguardo epocale e che così la bomba atomica del blocco della prescrizione non esisterebbe più. Il punto è come si decide di provare a raggiungere questo più che condivisibile obiettivo e per farlo crediamo occorrerebbe uno sforzo ulteriore, magari abbracciando un approccio da visionari, avendo la forza di guardare lontano. Bullismo, primo sì della Camera alla legge: il colpevole sarà affidato ai servizi sociali di Barbara Acquaviti Il Mattino, 30 gennaio 2020 Nessun nuovo reato, ma arrivano comunque pene più severe, al pari di quelle previste per lo stalking. Un numero d’emergenza e un’app. E, soprattutto, si evidenzia lo stato di “emarginazione” in cui finiscono per ritrovarsi le vittime. L’aula della Camera ha approvato ieri in prima lettura, con il sì della maggioranza, la legge contro il bullismo che, di fatto, riprende e completa il provvedimento varato nella scorsa legislatura contro il cyberbullismo. Il testo - che adesso passa al Senato - si muove su un doppio binario: da una parte quello dell’inasprimento sanzionatorio, dall’altro quello della rieducazione e della prevenzione. In tutto otto articoli, un provvedimento corposo, particolarmente incisivo quando si parla di atti che coinvolgono dei minorenni. Al punto che, tra le ipotesi più radicali, c’è anche quella dell’affidamento a una casa famiglia. Si tratta di una misura estrema, solo per i casi più gravi in cui il percorso di recupero non abbia dato risultati utili. Chiunque, dentro e fuori la scuola può segnalare i casi di bullismo al Procuratore che gira la segnalazione al Tribunale dei minori. Cosa accade a quel punto? Viene aperto il procedimento in cui vengono fissati “gli obiettivi” di un percorso di rieducazione mentre i dettagli del “progetto rieducativo vengono definiti dai servizi sociali insieme alla famiglia del bullo. ùConcluso il “progetto”, e “comunque con scadenza annuale”, il servizio sociale “trasmette al Tribunale per i minorenni una relazione che illustra il percorso e gli esiti dell’intervento”. È quello il momento in cui il Tribunale, sulla base della relazione e dopo aver sentito il minorenne e i genitori, ha di fronte quattro opzioni: dichiarare concluso il percorso rieducativo, decidere che è il caso di proseguirlo, ricorrere ai servizi sociali o - come si diceva - prevedere addirittura l’affidamento a una comunità. La parte della legge che tratta l’inasprimento delle pene, modifica l’articolo 612 bis del codice penale sullo stalking. Viene prevista una nuova aggravante che interviene quando il fatto viene commesso da più persone: in quel caso c’è un aumento della pena fino alla metà. Inoltre, in caso di condanna per il reato di atti persecutori commessi con l’uso di strumenti informatici o telematici, si stabilisce la confisca obbligatoria degli stessi. Ma la novità più importante sta in quella integrazione che definisce il reato anche in virtù della condizione di emarginazione che la vittima vive come conseguenza degli atti di bullismo. La parte più articolata della legge, tuttavia, è quella che riguarda la prevenzione e la rieducazione. Un ruolo di rilievo viene affidato, oltre che alla famiglia, anche alla scuola. Il dirigente deve diventare una sorta di “sentinella”: se viene a conoscenza di qualsiasi tipo di atto di bullismo che coinvolga studenti iscritti all’istituto, può valutare se coinvolgere i rappresentanti dei servizi sociali e sanitari. È previsto anche un lavoro di monitoraggio della percezione dei fenomeni di bullismo e cyberbullismo e per questo il ministero dell’Istruzione, attraverso proprie piattaforme nazionali, mette a disposizione delle scuole strumenti di valutazione e questionari da somministrare a docenti e studenti. Si prevede anche un servizio di assistenza delle vittime accessibile tramite il numero pubblico di emergenza infanzia 114, gratuito e attivo 24 ore su 24, e un’app ad hoc. Tra le novità inserite durante l’esame in aula, c’è anche un rifinanziamento con tre milioni di euro per il triennio 2021-2023, del Fondo per i ragazzi “careleaver”, ossia i giovani cresciuti in comunità residenziali o in famiglie affidatarie, con un ampliamento dell’età limite dei destinatari fino a 25 anni dagli attuali 21. Soddisfatta la maggioranza: “Da oggi ci sono strumenti più efficaci”, affermano i grillini. Mentre l’opposizione si è astenuta parlando di “occasione mancata”. I penalisti contro Davigo: “Stia fuori dall’inaugurazione dell’anno giudiziario” di Simona Musco Il Dubbio, 30 gennaio 2020 La richiesta della Camera penale di Milano. A pochi giorni dall’inaugurazione dell’anno giudiziario scoppia la “grana” Piercamillo Davigo. Con la richiesta, da parte della Camera penale di Milano, di annullarne la partecipazione alla cerimonia di Milano in qualità di rappresentante del Csm, e la secca risposta da parte dell’organo di autogoverno delle toghe, che ha bollato come “irricevibile” l’istanza, paragonandola ad una censura. Un dibattito che ruota tutto attorno alle posizioni di Davigo sulla Giustizia e, in particolare, sulla prescrizione, attaccate dai penalisti di tutt’Italia come un attentato al principio del giusto processo. Tutto parte dalla lettera inviata il 24 gennaio dalla Camera penale di Milano “Giandomenico Pisapia”, guidata da Andrea Soliani, al Capo dello Stato Sergio Mattarella, in qualità di presidente del Csm, al primo presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Mammone e al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. Una lettera con la quale i penalisti hanno definito la presenza del magistrato a Milano una “inopportunità istituzionale”, considerate “le posizioni ideologiche pubblicamente manifestate dal consigliere Davigo”. L’ultima occasione è data dall’intervista al Fatto Quotidiano, sulle cui colonne il magistrato ha proposto una sorta di “multa” per gli avvocati autori di ricorsi in Cassazione giudicati inammissibili. Parole alle quali aveva replicato, nei giorni scorsi, anche il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin, secondo cui il giusto processo “non può essere inteso come un percorso a ostacoli per la difesa, disseminato di sanzioni processuali e pecuniarie”, bensì “si fonda sul riconoscimento del ruolo costituzionale dell’avvocato oltre che sulla necessaria autonomia e indipendenza della magistratura”. Per i penalisti, dunque, quelle di Davigo sono “esternazioni che negano i fondamenti costituzionali del giusto processo, della presunzione di innocenza e del ruolo dell’avvocato nel processo penale, che viene marchiato come soggetto sodale con gli interessi più negativi e lucrativi nell’innestare meccanismi difensivi pretestuosi e dilatori”. Ma non solo: tali affermazioni, già “di per sé molto gravi”, continua la lettera, “diventano inaccettabili se pronunciate, come nel caso del consigliere Davigo, da un magistrato che riveste l’alta funzione istituzionale di consigliere del Csm”. Dichiarazioni, sottolineano ancora i penalisti, già sottoposte al vaglio dell’organo preposto per indagare eventuali profili di responsabilità disciplinare e che stanno alla base della “contrarietà” manifestata dagli avvocati milanesi, che hanno auspicato “una rivalutazione della designazione a suo tempo effettuata”. Ma la richiesta è stata fermamente respinta dal Comitato di presidenza del Csm, composto dal vicepresidente David Ermini, dal presidente Mammone e dal pg Salvi che, con un gesto raro rispetto alla grammatica istituzionale del Consiglio superiore, hanno replicato ai penalisti con una nota. Un modo per sottolineare la gravità attribuita all’uscita della Camera penale. “Stupisce che venga proprio da una associazione di avvocati - si legge nella nota - la richiesta di censurare la libera manifestazione del pensiero”. Una richiesta “irricevibile, sia per i suoi contenuti, volti a sanzionare la libera manifestazione del pensiero, sia perché irrispettosa delle prerogative di un organo istituzionale”. Parole fatte proprie anche dal membro laico del Csm in quota M5s, Fulvio Gigliotti, che manifestando “grande stupore” ha preso pubblicamente le distanze dalla Camera penale, ha dichiarato “il più fermo rigetto della sollecitazione ricevuta, la quale riesce, in un colpo solo, a mettere inusitatamente in discussione l’equilibrio delle delibere di un organo a rilevanza costituzionale e la libertà di opinione individuale, oltre che la figura di un degnissimo magistrato che, proprio dalla sede di Milano, ha contribuito a scrivere pagine tra le più significative della storia giudiziaria del Paese”. ulla Camera penale milanese si sono abbattute anche le proteste di Area democratica per la giustizia e Autonomia& Indipendenza, che hanno tacciato come inopportuna l’iniziativa degli avvocati. “Le idee non condivise si contrastano con argomenti nell’ambito del confronto e del dibattito. Tutto il resto è frutto della degenerazione culturale che il nostro Paese sta vivendo, e gli avvocati italiani dovrebbero esserne ben consapevoli”, si legge in una nota del coordinamento di Area. Che pur sottolineando la distanza dalle posizioni di Davigo, più volte “confutate pubblicamente”, ha definito “contrario alle regole fondamentali del vivere democratico discriminare chiunque in base alle opinioni espresse, e ancor di più tentare di privarlo del diritto di parola”. Più polemica la nota di A& I, gruppo di appartenenza di Davigo, che ha accusato i penalisti di non aver “alcuna volontà di concorrere a rendere la giustizia italiana più efficiente e più giusta trovando assai più comodo giocare il ruolo degli offesi (da cosa non si sa). Abbiamo sempre pensato che l’avvocatura dovesse rendersi interprete del diritto di difesa costituzionalmente garantito - continua la nota. Oggi abbiamo capito che, nella realtà, non è così. Ma noi magistrati non ci perdiamo d’animo e continueremo nella nostra incessante opera di tutela dei principi fondanti della giurisdizione”. Critica anche la giunta dell’Associazione nazionale magistrati, secondo cui la richiesta della Camera penale è “contraria a elementari regole di correttezza istituzionale”. Invece di confrontarsi con il merito delle dichiarazioni altrui, sottolinea la nota dell’Anm, “si pretende che al soggetto portatore di opinioni divergenti venga tolta la parola. L’iniziativa, mera provocazione, contraddice i valori che predica di tutelare e si inscrive nella sgradevole ma purtroppo diffusa tendenza di alimentare inutili polemiche al solo fine di fare scalpore”. Avvocati milanesi e torinesi contro Davigo: “Non lo vogliamo all’anno giudiziario” di Paolo Colonnello La Stampa, 30 gennaio 2020 Il Csm: “Richiesta irricevibile”. È scontro totale. “Le esternazioni” del giudice Piercamillo Davigo “negano i fondamenti costituzionali del giusto processo, della presunzione di innocenza e del ruolo dell’avvocato nel processo penale”. La Camera penale di Milano (l’organismo che raccoglie gli avvocati penalisti del distretto giudiziario del capoluogo lombardo) prende posizione e chiede che il Csm non mandi in sua rappresentanza il consigliere togato Davigo all’inaugurazione dell’anno giudiziario che si svolgerà sabato e alla quale ha annunciato la propria partecipazione anche il ministro della Giustizia Bonafede. “Stupisce - scrive il Csm in una nota - che venga proprio da un’associazione di avvocati la richiesta di censurare la libera manifestazione del pensiero”. E, dunque, il comunicato dei penalisti viene giudicato “irricevibile” dal Csm che lo considera “irrispettoso delle prerogative di un organo costituzionale”. La richiesta degli avvocati inevitabilmente ha suscitato un putiferio nelle acque perennemente agitate del mondo della giustizia italiana, aggiungendo benzina al fuoco delle polemiche che vanno dalla sospensione della prescrizione, alla riforma delle intercettazioni, al carcere preventivo. A far esplodere le polveri sono state in particolare alcune interviste di Davigo, celebre magistrato del pool Mani Pulite, durante le quali il consigliere del Csm a capo della corrente togata di Autonomia e Indipendenza, ha in sostanza attribuito la maggior parte delle colpe nei ritardi dei processi agli avvocati, interessati alle dilazioni per maggiori guadagni, proponendo anche che siano i legali a pagare in solido nel caso il ricorso in appello o in Cassazione del loro cliente venga respinto. Affermazioni che hanno fatto infuriare i legali e spinto la Camera Penale a prendere una posizione contro un singolo giudice senza precedenti nella storia della giustizia in Italia. Unanime la solidarietà a Davigo da parte di tutto il Csm, avvocati compresi, mentre l’avvocatura milanese sembra compatta nella posizione contro il magistrato. Contro cui sono critiche anche le toghe torinesi.”Le dichiarazioni di Davigo, sistematicamente ostili ai principi del giusto processo, rischiano di gettare discredito su tutti quei magistrati che quotidianamente ed in assoluto silenzio si impegnano per cercare la verità, assolvere gli innocenti, condannare i colpevoli con il massimo rispetto per il diritto di difesa ed il contraddittorio” dice Alberto De Sanctis, presidente Camera Penale Vittorio Chiusano. Davigo, comunque, sabato mattina sarà presente all’inaugurazione dell’anno giudiziario milanese, dove si prevedono gesti di protesta clamorosi. Davigo rappresenterà il Csm a Milano: no alla richiesta degli avvocati di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2020 “Volete sanzionare la libera manifestazione del pensiero”. Irricevibile. Il Consiglio superiore della magistratura rispedisce al mittente la richiesta di revocare la designazione del consigliere Piercamillo Davigo a rappresentare l’organo autogoverno delle toghe all’inaugurazione dell’anno giudiziario nel distretto di Milano. Una richiesta che va respinta sia “per i suoi contenuti, volti a sanzionare la libera manifestazione del pensiero, sia perché irrispettosa delle prerogative di un organo istituzionale”. Il Comitato di presidenza del Csm ha quindi risposto no alla Camera penale di Milano che chiedeva che l’ex pm di Mani Pulite a Milano, poi presidente di sezione in Cassazione e ora componente del Csm non presenziasse il primo febbraio nel capoluogo lombardo. “Stupisce che venga proprio da una associazione di avvocati - si legge in una lettera inviata dal vertice del Csm al presidente dei penalisti milanesi Andrea Soliani - la richiesta di censurare la libera manifestazione del pensiero”. Davigo è finito nel mirino degli avvocati dopo l’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano sul tema della prescrizione e in generale sulla riforma della giustizia. La richiesta degli avvocati era fondata sulle opinioni più volte espresse dal Consigliere Davigo, da ultimo ribadite in una intervista. Per la Camera penale di Milano le “esternazioni” di Davigo “negano i fondamenti costituzionali del giusto processo, della presunzione di innocenza e del ruolo dell’Avvocato nel processo penale” e “tali dichiarazioni pubbliche da parte di un magistrato sarebbero di per sé gravi, ma diventano inaccettabili se pronunciate, come nel caso del Consigliere Davigo, da un magistrato che riveste l’alta funzionale istituzionale di Consigliere del Csm”. Nella lettera inviata ieri, tra gli altri anche al presidente della Repubblica e presidente del Csm Sergio Mattarella e al vicepresidente David Ermini, per chiedere una “rivalutazione della designazione” di Davigo, si ricordava anche che “sono già state da altri sottoposte all’attenzione dell’organo titolare dell’esercizio dell’azione per eventuali profili di responsabilità disciplinare”. Alla richiesta degli avvocati aveva replicato il Coordinamento di Area (il gruppo delle toghe progressiste), che critica l’iniziativa. “Non ci ritroviamo in diverse sue posizioni, e anzi in più occasioni le abbiamo confutate pubblicamente. Tuttavia, riteniamo inaccettabile e contrario alle regole fondamentali del vivere democratico discriminare chiunque in base alle opinioni espresse, e ancor di più tentare di privarlo del diritto di parola. Le idee non condivise si contrastano con argomenti nell’ambito del confronto e del dibattito. Tutto il resto è frutto della degenerazione culturale che il nostro Paese sta vivendo, e gli avvocati italiani dovrebbero esserne ben consapevoli”. Dura la reazione anche di Autonomia e Indipendenza, la corrente di Davigo. “Abbiamo creduto che si trattasse di uno scherzo. Poi ci hanno detto che era tutto vero. Coloro difendono il sacro principio del contraddittorio non sopportano che un magistrato esprima una propria opinione tecnica e pretendono che venga zittito, scacciato dal suo ruolo istituzionale che ogni giorno interpreta con onore. Coloro che asseritamente si battono per il giusto processo e la presunzione d’innocenza hanno già emesso un verdetto di condanna disciplinare. Certo, siccome il Consigliere Davigo pensa e, addirittura parla, deve essere “tolto di mezzo”. La lettura della nota prova una triste verità: gli avvocati della Camera Penale non vogliono confrontarsi con lealtà e correttezza sulle spinose difficoltà (quelle vere) che impediscono il funzionamento della giustizia; non hanno alcuna volontà di concorrere a rendere la giustizia italiana più efficiente e più giusta trovando assai più comodo giocare il ruolo degli offesi (da cosa non si sa). Abbiamo sempre pensato che l’Avvocatura dovesse rendersi interprete del diritto di difesa costituzionalmente garantito. Oggi abbiamo capito che, nella realtà, non è così. Ma noi magistrati non ci perdiamo d’animo e continueremo nella nostra incessante opera di tutela dei principi fondanti della giurisdizione. Insieme con Piercamillo Davigo, e orgogliosamente al suo fianco”. Criticare una procura? Vietato anche al procuratore generale di Ermes Antonucci Il Foglio, 30 gennaio 2020 La sezione disciplinare del Csm ha disposto il trasferimento d’ufficio per il procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini, destinandolo alla procura generale di Torino e declassandolo a sostituto pg. La sezione disciplinare ha accolto la richiesta avanzata dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal pg della Cassazione Giovanni Salvi, che avevano avviato l’azione disciplinare nei confronti di Lupacchini accusandolo di aver “delegittimato” il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Tutto era nato prima di Natale, all’indomani della maxi operazione contro la ‘ndrangheta, denominata “Rinascita-Scott”, annunciata in conferenza stampa da Gratteri, e che ha portato all’applicazione di addirittura 334 misure di custodia cautelare. La colpa di Lupacchini è di aver rilasciato, dopo il maxi blitz, un’intervista a Tgcom24 in cui ha criticato l’assoluta mancanza di coordinamento da parte della procura di Catanzaro: “Sebbene possa sembrare paradossale - aveva dichiarato Lupacchini - non so nulla di più di quanto pubblicato dalla stampa, in quanto c’è la buona abitudine da parte della procura distrettuale di Catanzaro di saltare tutte le regole di coordinamento e collegamento con la procura generale. I nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione della stampa, che è molto più importante della procura generale da contattare e informare”. Il pg di Catanzaro aveva inoltre fatto riferimento all’“evanescenza di molte operazioni” condotte in passato proprio dalla procura guidata da Gratteri. Prima del Guardasigilli e del pg della Cassazione si erano mossi pure i consiglieri di Palazzo dei marescialli, che sempre per l’intervista avevano aperto a carico del magistrato la procedura di trasferimento d’ufficio per incompatibilità funzionale. Anche l’Associazione nazionale magistrati si era schierata in difesa di Gratteri, definendo “sconcertanti” le parole di Lupacchini. Davanti alla Prima commissione e alla Sezione disciplinare del Csm, Lupacchini - difeso dall’avvocato Ivano Iai - aveva assicurato che non intendeva denigrare Gratteri, ma semmai sollecitare una riflessione sulle criticità presenti nei rapporti istituzionali tra le procure. Le storture denunciate da Lupacchini, però, sembrano non interessare nessuno al Csm, che ha invece deciso di punire il pg spedendolo a mille chilometri di distanza, a Torino, e sottraendogli le funzioni direttive. Insomma, in un paese dominato dalla giustizia mediatica, in cui i pubblici ministeri sono ospiti fissi di trasmissioni televisive e continuano a tenere conferenze stampa show per celebrare i numeri delle proprie inchieste, rappresentando gli indagati come dei colpevoli già accertati (e pure lamentandosi, come ha fatto Gratteri, delle poche prime pagine dedicate dai giornali agli arresti), a fare notizia, e a essere punito, è un magistrato che rilascia un’intervista e si permette di segnalare pubblicamente alcune gravi disfunzioni presenti nei rapporti tra due uffici inquirenti. Ma evidentemente un’altra delle colpe di Lupacchini è quella di aver interrotto, indirettamente, il processo di beatificazione che aveva avvolto Gratteri, che in conferenza stampa si era pure -molto modestamente - paragonato agli eroi antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, definendo la sua indagine “la più grande operazione dopo il maxi processo di Palermo”. A confermarlo, in fondo, è la valanga di insulti ricevuti da Lupacchini sui social network negli ultimi giorni. Commenti che hanno aggravato le preoccupazioni sull’incolumità del magistrato. Se le segnalazioni di Lupacchini sono state ignorate, ci sono alcuni numeri che dovrebbero far riflettere. Ad oggi, oltre 140 misure di custodia cautelare (su 334) chieste e ottenute dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro nell’ambito dell’operazione Rinascita-Scott sono state annullate, revocate, sostituite o riformate dal gip e dal tribunale del Riesame. Ciò significa che circa il 40 per cento dei provvedimenti sono stati ritenuti eccessivamente restrittivi della libertà degli indagati. Quasi novanta persone sono tornate completamente in libertà, dopo essere state sbattute in carcere o ai domiciliari ingiustamente. Si tratta di cifre abnormi: possiamo parlarne o è lesa maestà? Furia del Csm su Lupacchini: punito per aver parlato di ingiuste detenzioni e risarcimenti? di Giovanni Altoprati Il Riformista, 30 gennaio 2020 Perché la Procura generale della Cassazione e il ministero della Giustizia non rispondono alle denunce di Otello Lupachini, l’ormai ex procuratore generale di Catanzaro? Si tinge di giallo il procedimento disciplinare che ha portato il Csm a disporre il trasferimento di Lupacchini alla Procura di Torino dopo averlo “degradato” a semplice sostituto. L’accusa formulata nei confronti di Lupacchini è quella di aver violato, criticando in una intervista l’operato del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, il dovere di imparzialità, correttezza e riserbo che deve contraddistinguere il magistrato. Lupacchini aveva dichiarato, in occasione della maxi-retata anti ‘ndrangheta di dicembre organizzata da Gratteri, di averne avuto conoscenza solo attraverso i giornali e di avere perplessità sulla tenuta in giudizio di molte delle accuse contestate agli indagati. Lupacchini, come riferito dal suo difensore, l’avvocato Ivano Iai, negli ultimi anni aveva ripetutamente segnalato al ministro della Giustizia e al procuratore generale diverse “disfunzioni” all’interno della Procura di Catanzaro. In particolar modo l’assenza, o quasi, del coordinamento info-operativo fra uffici a cui il pg è preposto per legge. L’avvocato Iai aveva chiesto di conoscere quali fossero stati i provvedimenti presi, ricevendo però, sia dalla Procura generale della Cassazione che dal ministero della Giustizia, un secco no. Come mai? Cosa si nasconde dietro questo silenzio? Il “mutismo” di piazza Cavour e di via Arenula lascia spazio alle più disparate interpretazioni. Ad esempio che non sia criticabile, in questo momento storico, un certo modo di contrastare i fenomeni criminali di stampo associativo da parte della magistratura. Ma non solo. Se la Procura generale della Cassazione e il ministero della Giustizia “non rispondono” a un procuratore generale che ha denunciato criticità negli uffici alle proprie dipendenze, figuriamoci quale esito potranno avere le segnalazioni di mala giustizia di un semplice cittadino. La severità del Csm verso Lupacchini ha poi pochi precedenti. Non si contano, infatti, i procuratori che esternano a ruota libera su tutto. E mai nessuno che abbia avuto alcuna contestazione. Un pg arrivò addirittura a definire “eversive” le indagini di un procuratore e venne scagionato dalla disciplinare del Csm. Il trasferimento a mille chilometri da Catanzaro e la degradazione rappresentano un’onta per Lupacchini al termine di una carriera brillante. A luglio il magistrato romano dovrà lasciare la toga per raggiunti limiti di età. Uno smacco che rende dunque ancor più indigesto il provvedimento disciplinare. Il tempismo della decisione del Csm, che è arrivata nella serata di lunedì scorso, ha invece una risposta. Molto concreta. Fra 72 ore si terrà l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Dopo la cerimonia in Cassazione alla presenza del capo dello Stato si svolgeranno analoghe manifestazioni nei vari distretti di Corte d’Appello. Lupacchini, in qualità di procuratore generale, avrebbe dovuto prendere la parola per un intervento sullo stato della giustizia a Catanzaro. Con il rischio dell’incidente diplomatico con Gratteri. Lo scorso anno Lupacchini tenne un intervento durissimo che fece storcere la bocca ai molti magistrati presenti. Evidenziò, dati alla mano, che Catanzaro era il distretto con il più alto numero di risarcimenti per ingiusta detenzione. Chissà cosa dirà invece chi lo sostituirà quest’anno. Stefano Cucchi, depistaggi “per salvare l’immagine dell’Arma” di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 gennaio 2020 Processo ter. Autorizzata la registrazione integrale da parte di Radio Radicale. Nel giorno in cui entra nel vivo il processo Cucchi ter, con la testimonianza del capo della Squadra mobile di Roma Luigi Silipo che ha svolto le indagini sul depistaggio e sui falsi confezionati secondo l’accusa a vario titolo dagli otto carabinieri imputati, la giudice monocratica Giulia Cavallone ritorna sulla sua decisione di vietare ogni ripresa audio e video delle udienze e concede alla sola Radio Radicale l’autorizzazione alla registrazione integrale del dibattimento. Un processo che si presenta fin da subito imponente - con più di cento testi chiamati a deporre -, un’attenzione mediatica rilevante (dovuta anche all’imputazione del generale di brigata Alessandro Casarsa), e altrettanta pressione per metterlo in sordina. Gli avvocati difensori hanno subito chiesto di distanziare maggiormente le udienze, lamentando un ritmo troppo serrato, ma la giudice ha tenuto duro: “Non posso trascinare il processo per anni”. D’altronde, c’è voluto già quasi un decennio perché un pm - Giovanni Musarò - aprisse le indagini sulla coltre di silenzio che aveva seppellito la verità sulla morte del giovane geometra romano pestato da due dei militari che lo avevano arrestato il 15 ottobre 2009, condannati in primo grado nel novembre scorso per omicidio preterintenzionale. Alla base degli insabbiamenti, secondo quanto riferito ieri in aula da Silipo, c’era fondamentalmente la preoccupazione di non infangare ulteriormente con il caso Cucchi “l’immagine dell’Arma, già sporcata dalla storia della tentata estorsione ai danni dell’allora governatore del Lazio”. “Il ragazzo infatti - ha ricordato il capo della Squadra mobile citando tra l’altro varie conversazioni intercettate o registrate attraverso la radio di servizio - morì il 22 ottobre 2009 e il giorno dopo quattro carabinieri della Compagnia Roma Trionfale vennero arrestati per la vicenda Marrazzo”. E naturalmente da parte dei militari coinvolti c’era il bisogno di proteggere se stessi, il proprio operato, l’immagine della caserma o del gruppo d’appartenenza. Ecco perché, dopo la morte di Stefano, ai piantoni Gianluca Colicchio e Francesco Di Sano che erano di turno nella caserma di Tor Sapienza, dove Cucchi aveva passato la notte dolorante per le violenze subite, venne ordinato di correggere le annotazioni di servizio in modo da nascondere il reale stato di salute del giovane arrestato. Riferisce Silipo che durante alcune conversazioni registrate nel 2018 il luogotenente Colombo Labriola, all’epoca dei fatti comandante della stazione di Tor Sapienza, parlò a suo fratello di quelle correzioni definendole “sostanziali e non di forma”. E, ricordando che le modifiche vennero ordinate tramite mail dall’allora vice comandante del Gruppo Roma Francesco Cavallo, racconta di aver girato perfino un video per immortalare quelle mail. Materiale che poi spontaneamente consegnò ai poliziotti della Squadra mobile durante una perquisizione. Quelle mail, e quei video, confidò a suo fratello, “sono il mio salvavita”. Macelleria carceraria: non è detto che sia sempre la pena più adeguata di Carmelo Musumeci agoravox.it, 30 gennaio 2020 “L’articolo 27 della Costituzione parla di pena, non di carcere. Noi abbiamo una tradizione centrata sul carcere, ma la Costituzione lascia un campo molto aperto e non è detto che il carcere sia sempre la pena più adeguata” (Presidente della Corte Costituzionale). Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose, pestaggi, abusi, soprusi, sovraffollamento. Eppure nessuno ne parla, (o quasi, ma lo fanno in pochi) nessuno affronta il problema delle molte Guantanamo che ci sono in Italia. Non starebbe a me dire certe cose, io non ho la moralità e l’intelligenza dei nostri governati, politici, intellettuali e uomini di chiesa. Io sono un avanzo di galera, un delinquente, e per giunta pure ergastolano in liberazione condizionale, eppure sento il dovere di farlo lo stesso. Tutti sanno che in Italia il carcere quando va bene è una fabbrica di stupidità umana e quando va male è una fabbrica di ingiustizia. È come se chi andasse all’ospedale morisse, invece di guarire. Il carcere così com’è produce carcere, si nutre di male per produrre altro male e nuovi detenuti. La privazione della libertà non dovrebbe essere considerata l’unica forma di pena, non lo dico io ma lo afferma l’attuale Presidente della Corte Costituzionale. Sì, è vero, il carcere, per qualsiasi classe politica e per qualsiasi governo, porta consensi e voti elettorali, ma sono consensi e voti che grondano sangue, morti e odio. Questa, a mio parere, non è più giustizia, è solo vendetta sociale, di uno Stato ingiusto che guadagna sulla sofferenza, sia delle vittime sia degli autori dei reati. Nei miei 29 anni di carcere ho capito che spesso i “buoni” fanno i criminali per nascondere di non essere buoni mentre i veri criminali fanno i forcaioli per continuare ad essere criminali. Con il decreto di sicurezza bis si è andati a gettare benzina in fondo all’inferno. Ma proprio in fondo, nel girone più basso. Sembra che la società italiana davvero non voglia conoscere la verità sulle sue prigioni. Ai politici italiani non interessa sapere che le carceri scoppiano in tutta Italia, che i detenuti muoiono, che alcuni si tolgono la vita e che altri crepano psicologicamente. I politici, nella stragrande maggioranza, hanno dimenticato che anche i prigionieri sono uomini, e mai una parola o una riga sui 60.000 detenuti abbandonati a se stessi che vivono accatastati uno sopra l’altro. Vivere in questo modo toglie ogni rimorso per quello che si è fatto fuori. I “muri” sono abbastanza alti da permettere di poter far finta di non vedere e udire la disperazione e le grida d’aiuto che vengono da dentro. Sembra che a nessuno importi sapere che nelle carceri italiane non c’è più spazio per vivere; che vivere uno sopra l’altro è una condanna aggiuntiva, una condanna moltiplicata dal punto di vista fisico, psichico, morale e sanitario; che il carcere in Italia non è solo il luogo dove vanno i delinquenti, (non tutti, quelli veri stanno fuori) ma è soprattutto la discarica sociale per gli emarginati, i diseredati, gli emigrati, i tossicodipendenti, i figli di un Dio minore, i ribelli. Basti pensare a Nicoletta Dosio, l’attivista No Tav di 73 anni, condannata a un anno di carcere dal tribunale di Torino, perché accusata insieme ad altri attivisti di aver aperto le sbarre di un casello autostradale durante una manifestazione di protesta. In cella 18 ore su 24, ho avuto la conferma: il carcere va abolito di Nicolatta Dosio Il Dubbio, 30 gennaio 2020 Ecco la lettera che Nicoletta Dosio ha inviato a “Potere al Popolo”. La militante 74enne No Tav è in carcere dalla fine di dicembre del 2019 dopo la condanna a un anno, accusata insieme a altri attivisti di aver aperto le sbarre dei un casello autostradale durante una manifestazione di protesta. “Carissime compagne e compagni, Eccomi a voi per un saluto, sia pure da lontano, dal mondo capovolto che da venti giorni mi tiene carcerata. “Carcerata”, si, non “detenuta”: “detenuta” è un eufemismo che non rende bene la realtà; lo stridere ferrigno delle chiavi che chiudono a doppia mandata il cancello della cella; i colpi di spranga della “battitura” alle inferriate, nelle ore più disparate del giorno e della notte, a prevenire evasioni impossibili; la convivenza forzata, a due a due, in cubicoli di due metri per quattro, il cui fine non è certo favorire la socialità, ma privarci di momenti indispensabili di solitudine, del silenzio buono che rigenera, che ti permette di riordinare i pensieri e i ricordi. Qui siamo come uccellini chiusi in gabbia, in una gabbia troppo stretta. In questi luoghi, più che la violenza cieca dello stato che ci reprime (che pure esiste) colpisce la violenza subdola dei divieti immotivati, delle regole ad arbitrio, pesa la perdita della dimensione spazio- temporale e soprattutto, per chi come me è ancora nella sezione delle “nuove aggiunte” in stato di “media osservazione”, la chiusura delle celle diciotto ore su ventiquattro. Eppure, nonostante tutto, la solidarietà tra recluse, magari un po’ “petrosa”, ma salda e immancabile, riesce a vincere anche la disumanizzazione del carcere: per tutte da parte di tutte, nei momenti bui, c’è la mano tesa, la parola che riesce a sdrammatizzare, il cibo offerto da cella a cella. Certo, non sono questi i momenti delle grandi lotte per i diritti nelle carceri, eppure non riesce a prevalere la ‘ guerra tra poveri’ su cui il sistema fonda da sempre il proprio dominio. Per questo, care compagne e compagni, sono serena e sperimento di persona, alla scuola del carcere, quanto da sempre andiamo teorizzando: che il carcere non è se non luogo di controllo sociale, di repressione contro gli ultimi, chi non ha voce e chi, individualmente e collettivamente si ribella; dunque da abolire. Quest’esperienza conferma che le nostre ragioni sono giuste e che la guerra infinita contro gli errori umani e contro la natura non può portare se non alla catastrofe sociale e ambientale. Contro un sistema irriformabile non serve aspettare dalla delega la salvezza che non verrà: serve allargare il conflitto, senza farsi spaventare da un potere che, più che mai, è un gigante dai piedi d’argilla. Mentre vi scrivo, si fa sera. La mia finestrella è in ombra, ma fuori i cortili sono inondati dal sole al tramonto. Anche il cemento, gli alberi polverosi addossati ai muri sembrano accarezzati da una precoce primavera. I passeri vanno e vengono dal davanzale oltre sbarre e reti, becchettano le briciole che riesco a spargere per loro. Mi fanno compagnia i miei libri più cari, che sono riuscita a portare con me, e le centinaia di lettere che mi giungono ogni giorno: le guardo e sono felice perché vi sento tutte e tutti qui vicini, voi, la mia grande famiglia di lotta. E sento la profonda, emozionante verità che Rosa ci lascia in una sua lettera dal carcere di Wronke ‘… Rimanere umani significa gettare con gioia la propria vita nella grande bilancia del destino, quando è necessario farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola’. Questo il mio messaggio di saluto, con tenerezza. Messina. Muore nel carcere di Barcellona P.G., la procura apre un’inchiesta di Rosaria Brancato tempostretto.it, 30 gennaio 2020 Carmelo Marchese era stato trasferito nei giorni scorsi dal Paglierelli di Palermo al Madia. Le sue condizioni di salute non erano compatibili con il regime carcerario, ma in attesa che si svolgesse l’incidente probatorio richiesto dal suo difensore, è stato trovato morto nella sua cella nel carcere di Barcellona. Il cadavere di Carmelo Marchese è stato trovato lunedì poco dopo mezzogiorno, nel letto della sua cella e sarà l’autopsia a chiarire la causa della morte. Il detenuto messinese infatti soffriva di una serie di patologie, anche al cuore, aveva difficoltà respiratorie e assumeva farmaci. Precarie condizioni di salute - Marchese era stato trasferito nei giorni scorsi da una comunità al carcere Pagliarelli di Palermo. Dopo la visita d’ingresso i medici avevano stabilito che viste le sue condizioni di salute sarebbe stato necessario il trasferimento in un carcere dotato di struttura sanitaria. Marchese quindi è stato portato a Barcellona. Nel frattempo il suo difensore, l’avvocato Giovanni Villari, aveva richiesto dapprima il ricovero in struttura adeguata e successivamente al rigetto dell’istanza aveva presentato richiesta di incidente probatorio (che avrebbe dovuto svolgersi la prossima settimana). Ipotesi: omicidio colposo - Le condizioni di Marchese però evidentemente sono peggiorate e lunedì in tarda mattinata è stato trovato il suo corpo. La procura di Barcellona ha aperto un’inchiesta con l’ipotesi di omicidio colposo a carico di ignoti. La famiglia Marchese ha dato mandato all’avvocato Villari per la difesa. L’autopsia sarà eseguita dal medico legale Elvira Ventura Spagnolo mentre il perito per la difesa è il dottor Fabrizio Perri. Resta da accertare cosa sia accaduto e quando e quali siano le cause che hanno portato alla morte del deceduto. Pordenone. Ancora bloccato il cantiere del nuovo carcere da 300 posti di Emanuele Minca Il Gazzettino, 30 gennaio 2020 Ancora bloccato il cantiere del nuovo istituto penitenziario da 300 posti del Friuli Occidentale, la cui costruzione è prevista a San Vito al Tagliamento: si attende il pronunciamento dei giudici del Consiglio di Stato. Un progetto che doveva essere ormai a buon punto nella sua realizzazione, ma che oggi è ancora fermo al palo. Le ultime novità sul fronte giudiziario - perché è in tribunale che da mesi si sta decidendo il futuro del nuovo carcere - risalgono a metà novembre quando a Roma, al Consiglio di Stato, c’è stata l’udienza per il carcere sanvitese. Da allora non ci sono novità conferma il sindaco Antonio Di Bisceglie. Da quel pronunciamento si attende lo sblocco dell’iter per il ritorno delle ruspe nell’ex caserma Dall’Armi. Decisione particolarmente attesa in municipio a San Vito, che fa riferimento al ricorso per ottemperanza promosso da Kostruttiva, impresa che aveva vinto la gara d’appalto indetta dal Provveditorato interregionale per le opere pubbliche del Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia. Il ricorso contro la sentenza del Consiglio di Stato, rovesciando il pronunciamento del Tar, aveva accolto la richiesta dell’impresa Pizzarotti, la quale aveva partecipato alla gara posizionandosi al secondo posto. Il Consiglio di Stato ha deciso che l’opera andasse assegnata alla Pizzarotti: Kostruttiva ha quindi stoppato il cantiere che si era ormai insediato e aveva mosso i primi passi con l’operazione di bonifica dell’ex sito militare e aveva presentato il ricorso in ottemperanza per ottenere chiarezza in merito al pagamento dei lavori che ha eseguito prima del subentro. Al contempo, il Comune si era costituito in giudizio per far valere le proprie ragioni. Il pronunciamento è molto atteso - spiega il sindaco - perché chiarirà il costo delle opere già realizzate dopo la posa della prima pietra e l’apertura del cantiere. Attendiamo la decisione dei giudici con l’auspicio che ripartano quanto prima i lavori di costruzione della struttura. L’iter della casa circondariale di San Vito era stato avviato il 18 dicembre 2013. La spesa prevista è 25 milioni di euro circa, per un carcere innovativo da 300 posti. Anche il mondo della giustizia ha fatto sentire la propria voce affinché il carcere sanvitese venga costruito quanto prima. In particolare lo scorso settembre il procuratore Raffaele Tito, assieme al pm Federico Facchin, ha evidenziato al sindaco Antonio Di Bisceglie, in un incontro specifico che si è tenuto in tribunale, la necessità di una rapida realizzazione del nuovo carcere. Siena. Emergenza personale al carcere Santo Spirito, interrogazione al ministro Bonafede radiosienatv.it, 30 gennaio 2020 L’ha presentata la senatrice della Lega, Tiziana Nisini: “Da febbraio 2020 ulteriore peggioramento”. “Ho rivolto al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede un’interrogazione urgente per sapere come intenda rimediare agli evidenti problemi che ad oggi sono presenti presso la casa circondariale di Santo Spirito a Siena e all’evidente carenza di risorse umane in servizio”, dichiara la senatrice della Lega e commissario provinciale di Siena, Tiziana Nisini. “Poco tempo fa durante una visita presso la casa circondariale sono stata messa al corrente di questa angosciante situazione. Infatti, anche le organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria senese hanno più volte manifestato sulla situazione di grave carenza di organico, dove l’ambiente lavorativo sta diventando incontrollabile, sia per il sovraccarico di lavoro a cui sono sottoposti gli agenti, sia per la carenza di organico in rapporto alla qualità e alla quantità dei servizi di polizia richiesti”, continua Nisini. “La cosa ancora più grave è che a partire dal mese di febbraio 2020 ci sarà un ulteriore peggioramento, in quanto le 3 unità inviate come supporto dal carcere di San Gimignano torneranno in sede. Negli ultimi due anni si sono perse 8 unità di personale di Polizia penitenziaria (erano 45 nel 2017 e sono 37 nel 2020) a causa di un mancato completamento del turnover. Ad oggi - evidenzia la senatrice - mancherebbero ancora un commissario, 4 ispettori, 3 sovrintendenti e 5 agenti assistenti e l’età media degli operatori di Polizia penitenziaria nel carcere di Siena va progressivamente aumentando. Ci aspettiamo - in conclusione - che il Ministro possa rispondere nel più breve tempo possibile e dica come intenda rimediare all’evidente carenza di risorse umane e se ritenga urgente l’incremento del personale organico dell’istituto. Situazioni come questa sono analoghe nella maggior parte delle case circondariali italiane, il Ministro Bonafede non continui a fingere di non esserne a conoscenza”. Opera (Mi). Al di là delle barriere della disabilità, oltre i confini del carcere superando.it, 30 gennaio 2020 Nato da una collaborazione tra la Fondazione Istituto Sacra Famiglia e l’Associazione In Opera della Casa di Reclusione di Milano-Opera, il bel progetto denominato “Legàmi in Opera”, nel corso del quale le fragilità di ciascuno sono diventate occasioni di esperienza e vita comune, ha visto sette uomini con difficoltà cognitive medio-lievi realizzare alcuni strumenti musicali insieme a quindici detenuti, italiani e stranieri. L’iniziativa si ripeterà nella primavera prossima. È nato da una collaborazione tra la Fondazione Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone (Milano) e l’Associazione In Opera della Casa di Reclusione di Milano-Opera, il bel progetto denominato Legàmi in Opera, che ha visto sette uomini tra i 55 e i 70 anni, con difficoltà cognitive medio-lievi e un vissuto decennale in Sacra Famiglia, realizzare alcuni strumenti musicali insieme a quindici detenuti, italiani e stranieri, il più giovane dei quali di 23 anni, il più anziano di 65. Durato tre mesi, il percorso si è strutturato attraverso una serie di incontri a cadenza settimanale e gli strumenti sono stati poi utilizzati durante il Recital di Natale della Fondazione Istituto Sacra Famiglia. Visto poi il grande successo ottenuto, il progetto si ripeterà nella primavera prossima. “Siamo molto orgogliosi di avere partecipato a questo progetto - ha dichiarato alla rivista “Vita” Barbara Migliavacca, responsabile dell’iniziativa - nel corso del quale le fragilità di ciascuno sono diventate occasioni di esperienza e vita comune, l’iniziale “lontananza” tra persone con disabilità e carcerati è sparita, per fare spazio a canzoni, lavoro insieme e nuove amicizie. E così, mentre i detenuti hanno vissuto l’esperienza in maniera positiva, gli ospiti con disabilità sono riusciti, grazie all’aiuto di questi nuovi amici, a creare uno strumento musicale bello e vivo. Ne è nata un’esperienza unica e toccante e di questo non possiamo che ringraziare l’Associazione In Opera e il direttore della Casa di Reclusione Silvio Di Gregorio, per averci aiutato a realizzarla. Ogni barriera o prigione fisica, psichica e sociale può essere superata insieme nella solidarietà di un progetto comune”. Come leggiamo ancora nella rivista “Vita”, “i detenuti, a seguito di questa esperienza hanno scritto diverse lettere, di cui uno stralcio recita: “Lo sguardo buono e il sorriso sincero di questi nuovi amici mi ha spiazzato. Prima di conoscerli avevo l’idea che fossero gravemente malati e che questo fatto costituisse un peso schiacciante. Con le mie parole “di prima” avrei detto che, senza nemmeno un processo, erano stati messi “all’ergastolo”. E da un ergastolano ti aspetti volto cupo e pensieri oscuri. Invece...”. Andra (Bat). I taralli fatti a mano dai detenuti donati a Papa Francesco Gazzetta del Mezzogiorno, 30 gennaio 2020 In Sala Nervi, in Vaticano i partecipanti al progetto diocesano “Senza sbarre”. I taralli andriesi, realizzati dai detenuti, direttamente nelle mani di Papa Francesco. Una delegazione con alcuni detenuti pugliesi accompagnati da don Riccardo Agresti ha fatto visita al pontefice nell’Aula Paolo VI, per l’udienza generale. Poi l’incontro in Sala Nervi. Il gruppo ha portato con sé taralli e pasta, i prodotti che realizzano artigianalmente con le loro mani nella masseria ad Andria, nell’ambito di “Senza sbarre”: un progetto diocesano che è molto più di un reinserimento sociale di chi ha commesso un reato. Al Papa lo ha fatto presente Matteo, un ragazzone che viene dal Senegal e che, per l’occasione, ha indossato il suo vestito migliore, il più elegante. Matteo parla anzitutto di “dignità” e “speranza”. E lo fa in un italiano impeccabile, persino con qualche sfumatura in dialetto pugliese. “Per Francesco - confida Matteo - ho preparato i taralli migliori e la pasta più buona! Ce l’ho messa tutta, e volete sapere perché? Il Papa ripete sempre ai potenti che nessuno deve essere scartato, sì, mai più una persona deve essere scartata”. Matteo è il nome che il giovane senegalese ha scelto per sé al momento del battesimo in carcere, dove si è convertito. Racconta che i suoi colleghi - “sono amici, anzitutto” - dopo una giornata di lavoro al pastificio “la sera rientrano in carcere o, comunque, a casa se sono agli arresti domiciliari”. Non nasconde “la pesantezza” ma “non c’è da lamentarsi” ammette. Le parole “rassegnazione” e “scoraggiamento” non fanno parte del vocabolario dei protagonisti di “Senza sbarre”, sostenuti dal vescovo di Andria, mons. Luigi Mansi. Con don Riccardo Agresti e don Vincenzo Giannelli c’è anche Giannicola Sinisi, magistrato della corte di appello di Bari. Ma soprattutto un agguerrito esercito di volontari. Al gentile omaggio Papa Francesco ha risposto così: “Ragazzi che cosa non ho fatto per non stare nelle vostre condizioni. Mi raccomando non demordete, bisogna cambiare il mondo”. Il progetto prevede la produzione di prodotti tipici pugliesi come pasta, taralli e olio che vengono interamente prodotti dai detenuti nella masseria San Vittore. “Un grazie speciale - racconta don Riccardo Agresti - va al tribunale di sorveglianza di Bari che ha permesso ai detenuti di fare quest’esperienza”. Roma. “Gli Ultimi saranno” arriva alla Camera: musica e teatro per i detenuti di Daniele Fiori Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2020 “Così l’arte abbatte i pregiudizi e dà una speranza”. Il 10 febbraio il convegno/spettacolo in cui interverranno alcuni direttori di istituto, operatori e detenuti. Il deputato Raffaele Bruno racconta la sua esperienza e la mozione presentata per chiedere al governo di “istituzionalizzare” il teatro all’interno delle carceri. Uno spettacolo di musica e teatro, un “rito di improvvisazione che abbatte distanze e pregiudizi”. Ma anche una via per ribadire quanto scritto all’articolo 27 della Costituzione, dove si riconosce la funzione rieducativa del carcere. Questo è “Gli Ultimi saranno”: musicisti e attori che si uniscono ai detenuti e tramite l’arte consentono loro di condividere storie di vita, speranze e difficoltà. Un’iniziativa diretta da Raffaele Bruno, deputato del M5s, con lo scopo di accendere un faro su tutte le associazioni e i laboratori teatrali che quotidianamente operano nelle carceri, affinché abbiano maggiori tutele e sostegno. Dopo 20 eventi realizzati in 15 diverse strutture, il convegno/spettacolo è pronto il prossimo 10 febbraio a fare il suo esordio alla Camera, alle ore 16 nella Nuova Aula dei gruppi parlamentari. “Se una società è una comunità, bisogna stare dalla parte degli ultimi”, spiega Bruno a ilfattoquotidiano.it. Tramite questo progetto, racconta, “ho voluto toccare con mano la realtà delle carceri in Italia, per ‘sentirè quello che occorre fare”, convinto della necessità di “un impegno delle istituzioni per dare una nuova prospettiva” ai detenuti. Durante gli spettacoli “creiamo un’empatia, un ponte tra il dentro e il fuori che aiuta a sciogliere un po’ della tensione che si crea in una realtà difficile come quella delle carceri”, racconta uno degli artisti coinvolti, Maurizio Capone. Dagli spettacoli infatti è nata una mozione che verrà discussa alla Camera, a partire da inizio marzo, per chiedere al Governo di “supportare le amministrazioni penitenziarie nell’organizzazione di progetti con finalità culturali, concentrandosi in particolare sui laboratori teatrali”, con la prospettiva di definire un quadro normativo per gli operatori all’interno delle carceri e rendere il teatro “parte integrante delle strutture”. La mozione, di cui Bruno è primo firmatario, chiede infine “una mappatura dei diversi progetti” per verificare le correlazioni con il tasso di recidiva dei detenuti, nella convinzione che “l’arte ha un valore enorme” nel ridare speranza “a una persona che non è rinchiusa in un pozzo ma prima o poi uscirà dal carcere”. Il 10 febbraio a Montecitorio, oltre allo spettacolo, interverranno alcuni direttori di istituto, operatori e detenuti per raccontare “il senso di trasporto e condivisione che si vive durante i nostri eventi”, racconta sempre Bruno. Il primo fu ad Aversa, a dicembre 2018. Tra gli artisti di “Gli Ultimi saranno” ci sono Federica Palo, Maurizio Capone, Luk (Enzo Colursi) e Blindur (Massimo De Vita). I loro spettacoli nascono dalla collaborazione con i laboratori teatrali e ricreativi presenti nelle strutture carcerarie: sono “una scintilla”, racconta Capone a ilfattoquotidiano.it, “coinvolgiamo i detenuti senza usare la retorica o la morale, ma con la creatività: così gli facciamo sentire esseri umani, con i loro nomi e cognomi”. Non hanno lo scopo di fare uno spettacolo in carcere: “Siamo tutti sul palco, gli facciamo capire che siamo lì per stare insieme e interveniamo nelle loro performance per dargli sicurezza e tranquillità”. Capone sottolinea come tramite la musica e il teatro i detenuti “sentano di nuovo la fiducia e vedano uno spiraglio, una speranza verso una nuova prospettiva per la loro vita”. In questo modo, aggiunge, “ riusciamo ad avvicinarci molto di più a loro”. Un aspetto sottolineato anche dal deputato Bruno che racconta come dalle esperienze nelle carceri siano nate anche altre due iniziative. “A Salerno, ad esempio, un agente penitenziario ha raccontato il problema dei figli dei detenuti che non avevano la possibilità di giustificare le loro assenze a scuola per fare visita alla madre o al padre in carcere”. Da quella denuncia è nata una circolare emanata dal Miur lo scorso ottobre proprio sulla deroga per le assenze dei figli di detenuti in visita ai genitori. Un’altra iniziativa - “Dona un libro” - è nata su proposta del presidente della Camera, Roberto Fico: una campagna di raccolta e distribuzione di libri con dedica destinati alle biblioteche carcerarie. L’obiettivo finale, spiega Bruno, è far capire che “il carcere ci riguarda e i detenuti fanno parte della nostra comunità”. Un concetto che Capone cerca di trasmettere anche tramite la sua arte: con il suo gruppo musicale, i Capone & BungtBangt, suona utilizzando solo strumenti fatti con materiali riciclati. Per spiegare che “niente e nessuno è un rifiuto”, Capone porta sempre con sé nelle carceri l’esempio del suo”bidet”, ovvero un bidone usato come djembe. Il “bidet” è perfino salito sul palco di Sanremo nel 2007, accompagnando Daniele Silvestri nella sua “La paranza”. “Un rifiuto che stava per essere buttato è finito in televisione, davanti a milioni di persone. Lo uso per raccontare che anche se si proviene dalla strada, si può arrivare in alto”, racconta Capone. Che il 10 febbraio alla Camera porterà anche altri strumenti, frutto di anni di studio e ricerca “nati da una motivazione artistica, ma anche ambientale e sociale”. Ci saranno la “scopa elettrica”, i “bongattoli”(bonghetti fatti con i barattoli), la “Cuicattola” (una Cuica fatta con un barattolo di pomodoro e bacchette cinesi) che è “simbolo della bellezza del melting pot”. Cuneo. Se la giustizia per autori di reato può essere “riparativa”: incontro-dibattito cuneocronaca.it, 30 gennaio 2020 Si svolgerà sabato 8 febbraio, dalle 9 alle 13, presso la Sala San Giovani di via Roma 4 a Cuneo, l’incontro-dibattito dal titolo “Quale giustizia per quale società: giustizia riparativa, inclusione e percorsi di riconciliazione”, con gli interventi di Luciano Violante, presidente emerito della Camera dei Deputati, e Claudio Sarzotti, professore ordinario di Sociologia del diritto all’Università di Torino. L’incontro è organizzato dal progetto Comuni-care: diversi enti pubblici (Uiepe Torino, Uepe Cuneo, Città e Provincia di Cuneo, Comune di Torino, e Garante diritti persone private della libertà della città di Torino), insieme a un raggruppamento di soggetti del Terzo settore (coordinato dalla Cooperativa Animazione Valdocco e tra cui figurano la Cooperativa Sociale Emmanuele di Cuneo e la Compagnia Iniziative sociali di Alba), stanno realizzando percorsi di giustizia riparativa che prevedono attività di riflessione critica e di restituzione (volontariato e lavori di pubblica utilità) da parte degli autori di reato. Comuni-care, in quanto progetto di giustizia di comunità, guarda anche all’orizzonte della riconciliazione che può dirsi pienamente compiuta solamente se sappiamo creare, nelle nostre comunità, luoghi di incontro e mediazione tra autori di reato e società tutta. L’incontro intende dunque stimolare una riflessione sul ruolo della società civile e dei cittadini nel superare le visioni stereotipate e le stigmatizzazioni degli autori di reato, in genere separati dalla società, e sul capitale relazionale della comunità, risorsa cruciale per la realizzazione di veri percorsi di inclusione sociale. Per informazioni: marina.marchisio@emmanuele-onlus.org, attivatrice di comunità del progetto Comuni.care per il territorio di Cuneo. Bergamo. Nuova tappa per il “Percorso 5 sensi’” nel carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 30 gennaio 2020 Dopo gli istituti penitenziari di Milano Opera, Sondrio, Cremona e il minorile Beccaria, il Percorso dei 5 sensi, progetto promosso da Regione Lombardia, ha raggiunto mercoledì 29 la Casa circondariale di Bergamo. L’iniziativa, finanziata con le risorse del Fondo Sociale Europeo e realizzata di concerto con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e il Centro per la Giustizia Minorile di Milano, intende far conoscere alla cittadinanza e alle amministrazioni locali il mondo delle carceri, mostrando alcune tra le più rilevanti attività organizzate da enti pubblici e del terzo settore. Un itinerario esperienziale che illustra le varie attività associandole ai cinque sensi. Così la “vista” è collegata al percorso artistico-teatrale, l’”udito” a esperienze musicali, il “gusto” alle iniziative gastronomiche, di panificazione e pasticceria, il “tatto” ai lavori manuali, l’”olfatto” alle attività vivaistiche. In programma mercoledì, nella cCsa circondariale di Bergamo, proiezione del documentario realizzato da ABCittà e Formattart “Un assaggio di prossimità: territorio tra il dentro e il fuori” e animazione teatrale a cura dell’Associazione il Piroscafo. Intervengono Adriana Lorenzi, direttrice editoriale di Spazio Diario Aperto dalla prigione, Ivo Lizzola, docente di Pedagogia sociale e della marginalità all’Università di Bergamo, Silvia Piani, assessore regionale alle Politiche per la Famiglia, Genitorialità e Pari Opportunità di Regione Lombardia. Prossima e ultima tappa del Percorso 5 sensi il 4 febbraio nella casa circondariale di Vigevano. Bergamo. Percorso di formazione 2020 per volontari in carcere: incontro informativo csvlombardia.it, 30 gennaio 2020 Csv Bergamo e la Casa Circondariale di Bergamo, in collaborazione con l’Associazione Carcere-Territorio, con la Diocesi di Bergamo e con la supervisione dell’Università degli Studi di Bergamo, organizzano una serata di presentazione del percorso di formazione per volontari in carcere, in programma per giovedì 30 gennaio 2020 alle 17.30 nella sede di Csv Bergamo, in via Longuelo 83. Il percorso di formazione, in partenza a marzo 2020 e della durata di 8 incontri, si rivolge alle persone desiderose di intraprendere un’esperienza di volontariato in carcere, oltre che ai volontari già impegnati nelle attività della Casa Circondariale di Bergamo. Gli incontri introdurranno i partecipanti all’esperienza dell’esecuzione penale, permettendo loro di conoscere questo mondo, le persone in esso coinvolte, i ruoli e le funzioni, il disegno delle normative e delle pratiche trattamentali e le recenti riflessioni sulla giustizia. Il corso alternerà momenti di conoscenza, incontro e visita con le realtà dell’esecuzione penale (carceraria e non solo) a momenti di riflessione ed approfondimento. Ai partecipanti saranno forniti materiali, documentazioni e indicazioni in merito a incontri di approfondimento e confronto sul territorio lombardo. La partecipazione al corso è gratuita e le sedi del percorso saranno la Casa Circondariale di Bergamo, il Csv Bergamo e i luoghi dell’esecuzione penale esterna. Per partecipare è richiesta una lettera di motivazione da inviare entro il 21 febbraio 2020 e i partecipanti ammessi saranno al massimo 35. Per informazioni e candidature scrivere a a.porretta@csvlombardia.it. A breve saranno disponibili le date e i temi degli incontri. La giustizia sociale e il grande inganno della meritocrazia di Fabrizio Moscato Left, 30 gennaio 2020 La democrazia si fonda sul principio di uguaglianza, cioè sul riconoscimento a ognuno di uguali diritti e doveri. Tuttavia questa enunciazione formale non determina una reale parità fra cittadini per l’intervento di altri elementi ostativi, come il diverso ceto di provenienza. È evidente infatti come a fronte di un diritto uguale per tutti, possano intervenire fattori esterni capaci di condizionarne il godimento: così laddove è riconosciuto formalmente a tutti il diritto allo studio, sussistono differenze nelle reali possibilità di goderne in uguale misura tra chi ha un reddito o un patrimonio tale da poter impegnare tempo e risorse nella propria formazione e chi invece questa possibilità non ce l’ha, stretto dalla necessità di percepire un reddito o alleggerire il peso del proprio sostentamento sulle spalle della famiglia di provenienza. Si tratta di una condizione che era ben presente ai membri dell’Assemblea costituente, che dopo aver enunciato il principio di uguaglianza quale cardine su cui si fondava la nuova Repubblica, avevano previsto anche un impegno pratico, un compito concreto cui lo Stato era chiamato, nella seconda parte dell’art. 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Eppure in Europa e negli Stati Uniti il mito della crescita infinita e della mobilità sociale aveva illuso molti, nel trentennio successivo al secondo dopoguerra, definito “glorioso” dall’economista francese Thomas Piketty, che tali discrepanze sarebbero state gradualmente diminuite, fino ad essere assorbite dalla progressiva crescita sociale dei ceti più deboli, con i figli destinati a guadagnare una qualità della vita migliore di quella dei propri genitori. In Italia in particolare, con il boom economico, molti pensarono che il conflitto fra classi sociali sarebbe stato sedato dal progressivo miglioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici. Un mito, quello della crescita infinita, che si scontra con le ripetute crisi finanziarie globali: difficile ipotizzare che sia un caso che i “gloriosi trent’anni” di cui parla Piketty terminino quasi in perfetta coincidenza con la crisi inflazionistica del 1974, dovuta all’aumento del prezzo del petrolio. D’altronde anche un rapporto Unicef del 2014 dimostrava come la crisi economica del 2008 avesse determinato nei cosiddetti “Paesi ricchi”, una diminuzione del benessere dei bambini rispetto a quelli della generazione precedente. I numeri dunque restituiscono l’immagine di un sistema non solo incapace di creare ricchezza continua, ma anche inefficiente quando si tratta di distribuire la stessa all’interno dei singoli sistemi-Paese. I dati raccolti da Istat e Ocse circa la mobilità sociale in Italia non sono confortanti: l’elasticità di guadagno intergenerazionale, cioè la possibilità che i figli guadagnino quanto i propri genitori, risulta molto elevata, tanto che passare da una fascia di reddito bassa ad una media potrebbe rendere necessario l’impiego di cinque generazioni nel corso di cento anni. Uno studio degli economisti Guglielmo Barone e Sauro Moccetti, pubblicato sul sito della Banca d’Italia, descrive una situazione ancora più cristallizzata: prendendo in esame i dati disponibili per la città di Firenze sin dal 1427, i patrimoni familiari sarebbero pressoché invariati da addirittura seicento anni, circa venti generazioni, con una certa tendenza di avvocati, banchieri, medici, farmacisti e orafi ad avere discendenti che praticano il loro stesso mestiere, l’accesso al quale è invece più difficile per discendenti di famiglie collocate in un ceto sociale più basso. Questa scarsa mobilità sociale incide negativamente non solo sulla democrazia reale, impedendo di fatto che tutti godano effettivamente dei diritti garantiti dalle costituzioni democratiche, ma anche sul sistema economico, limitando fortemente la possibilità di elementi validi ma di estrazione sociale medio bassa, di ricoprire ruoli nei quali sarebbe maggiore l’apporto garantito al progresso collettivo: un fenomeno che finisce per frenare lo sviluppo quasi in ogni campo e che si pone in totale opposizione a quel “pieno sviluppo della persona umana “ cui ogni sistema dovrebbe tendere. Anche nel campo della cultura e della creatività c’è chi lancia l’allarme: Tiziano Bonini, autore radiofonico, scrittore e ricercatore in Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso il dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive dell’Università di Siena, ha denunciato la presenza di “una classe che continua a produrre simboli, rappresentazioni del mondo, opinioni, narrazioni e una classe che le consuma, senza avere accesso ai mezzi di produzione”. E quale sarebbe l’elemento distintivo fra queste due categorie? Ancora una volta la provenienza da famiglie che vivono in zone urbane, colte e con maggiore disponibilità economica, che permette ai più ricchi di formarsi, fare esperienze all’estero, partecipare a stage non retribuiti presso industrie culturali (case editrici, giornali, radio, tv) e rende la cosiddetta “gavetta” non più solo un dovere, ma un vero privilegio che, come tale, è riservato a pochi. Questo aspetto non dovrebbe essere sottovalutato dalle forze progressiste che dichiarano di volersi far carico dell’elevazione morale e materiale della “working class”, contrapponendo al privilegio la meritocrazia, invocata quale panacea di tutti i mali. È evidente infatti come, sebbene la meritocrazia rappresenti un valore irrinunciabile, essa si riveli un grande inganno se chi misura l’ordine di arrivo non ha vigilato che le condizioni di partenza siano state le stesse per tutti. Se studiare è più facile per chi proviene dai ceti più abbienti, è facilmente prevedibile chi sarà ad ottenere i risultati migliori, in minor tempo, presso istituti di maggior prestigio. In Italia fu proprio il primo segretario del neonato Partito democratico, Walter Veltroni, a denunciare in apertura di un congresso la “rottura dell’ascensore sociale”: peccato che poi le scelte politiche dei i governi sostenuti dal Pd non abbiano mai dato in merito segni di sostanziale discontinuità rispetto alla destra, con la suddivisione fra chi ha maggiori possibilità di successo e chi non le ha che non è stata nemmeno scalfita. Un aspetto che sembra permeare la vita di ognuno sin dai primissimi passi, come dimostra l’episodio che ha visto la scuola elementare IC di Via Trionfale a Roma presentare il proprio istituto dividendo in distinte classi sociali i bambini che frequentano le diverse sezioni, descrivendo quali siano quelle frequentate da professionisti e quali quelle con una maggiore presenza di bambini appartenenti a famiglie immigrate. Tutto ciò contribuisce a costruire una visione della società, dei modelli economici e della convivenza, imperniata sull’assunto che il successo rappresenti di per sé un elemento meritocratico, senza alcun riguardo verso le difficoltà che le classi svantaggiate devono affrontare per arrivare allo stesso punto sul traguardo, con una distorsione della realtà che arriva ad imputare l’insuccesso come una responsabilità di chi non ce la fa, non è competitivo, è incapace di adeguarsi agli standard richiesti o non ha voluto investire su sé stesso, anche quando, semplicemente, non era nelle condizioni di poterlo fare. Ripartire dal riconoscimento delle diverse condizioni di partenza e impegnarsi nella rimozione degli ostacoli reali che incontra chi non proviene da una famiglia agiata, colta, in grado di sostenere ogni legittima aspirazione di miglioramento, è il dovere principale di chiunque oggi voglia rappresentare le istanze progressiste: per essere di sinistra non basta richiamarsi a valori come tolleranza e accoglienza, se non si comprende che sono figlie di questa visione anche le aberrazioni che spingono a vedere nella povertà una colpa, producendo ordinanze che vietano l’accattonaggio o multano chi rovista nei cassonetti, come se chi è costretto a farlo fosse nelle condizioni di poter pagare la propria indigenza. Non mettere questo aspetto al centro della propria azione politica sarebbe invece funzionale soltanto a chi trae vantaggio dalle disuguaglianze, per speculazioni economiche o politiche, fondate sulla stigmatizzazione di chi rimane indietro che, nel migliore dei casi approdano a soluzioni assistenzialistiche che poco si discostano concettualmente dall’elemosina del ricco verso il povero, mentre nel peggiore finiscono con la demonizzazione di chi non ha nulla, vissuto come una minaccia per chi invece ha una posizione privilegiata, fosse anche di pochissimo. Rinunciare al contributo di quanti, per origini o vissuto, a parità di talento sarebbero in grado di garantire un approccio meno conforme alle cose e portare una sensibilità arricchita da un’esperienza diversa, sarebbe una responsabilità gravissima per chiunque creda ancora nell’idea di progresso collettivo e democrazia. Una responsabilità che, al netto di ogni valutazione legata al concetto stesso di giustizia sociale, non possiamo più evitare di assumerci. Privacy e cybersecurity diritto umano fondamentale di Arturo di Corinto Il Manifesto, 30 gennaio 2020 Offrire in pasto a sistemi di intelligenza artificiale i dati che produciamo ci espone a un potere incontrollabile. Le istituzioni però possono guidare lo sviluppo di politiche efficaci per impedirlo senza bloccare l’innovazione tecnologica. La privacy è l’altra faccia della cybersecurity. Però mentre la privacy è un diritto fondamentale dell’Unione Europea, la cybersecurity è ancora sottovalutata. Eppure, in un mondo in cui ogni comportamento viene datificato diventando un dato digitale, proteggere quei dati che rimandano ai comportamenti quotidiani è cruciale proprio per la loro capacità di spiegare i comportamenti passati e di predire quelli futuri. Se non riusciamo a proteggere i dati che ci definiscono come cittadini, elettori, lavoratori, e vicini di casa, potremmo essere esposti a un potere incontrollabile, quello della sorveglianza di massa, della manipolazione politica e della persuasione commerciale. Privacy e cybersecurity sono la precondizione per esercitare il diritto alla libertà d’opinione, d’associazione, di movimento e altri diritti altrettanto importanti. Perciò pensare alla sicurezza informatica dei nostri dati come a un diritto umano fondamentale non dovrebbe sembrare eccessivo. In fondo è questo il ragionamento che fanno gli studiosi che in questi giorni hanno criticato l’Unione Europea per come sta gestendo i fondi per l’intelligenza artificiale. Due ricercatori, Daniel Leufer e Fieke Jansen, citano l’esempio iBorderCtrl, un progetto finanziato dal programma europeo Horizon 2020 e che mira a creare un sistema automatizzato di sicurezza delle frontiere basato sulla tecnologia di riconoscimento facciale e sulla misurazione delle micro-espressioni per rilevare falsi e bugie. L’Ue ha speso 4,5 milioni di euro per un progetto che “rileva” se chi entra in Europa sta mentendo o meno ponendo loro 13 domande davanti a una webcam. Nella comunità scientifica non c’è però nessuna certezza che le emozioni umane possano essere dedotte in modo affidabile dall’analisi biometrica. Un altro esempio di AI discutibile finanziata da Horizon 2020 è il progetto SEWA. Ha ricevuto 3,6 milioni di euro per sviluppare una tecnologia in grado di leggere le profondità dei sentimenti umani per commercializzare in modo efficace i prodotti da vendere ai consumatori utilizzando un “motore di annunci” basato sulla raccomandazione, cioè su dettagliati profili relativi a emozioni e comportamenti d’acquisto. È accettabile sviluppare una tecnologia che sfrutti gli stati emotivi delle persone per fini commerciali? Nel white paper europeo sulla regolamentazione dell’IA trapelato due settimane fa, ci sono piani per investire ulteriormente in “servizi di intelligenza artificiale basati su cloud mirati”, “offrire programmi leader a livello mondiale nell’intelligenza artificiale” e garantire “l’accesso finanziario agli innovatori dell’intelligenza artificiale”. Queste intenzioni fanno a pugni con la protezione promessa ai cittadini europei di fronte all’invasività delle tecniche di intelligenza artificiale. La Commissione è attualmente incerta se introdurre o meno un divieto di 3-5 anni sul riconoscimento facciale: da un lato, tale divieto introduce un principio di precauzione, per evitare futuri abusi, ma dall’altro teme che un divieto “potrebbe ostacolarne lo sviluppo e l’adozione”. Una risposta a questi dilemmi potrebbe essere data dall’impegno dichiarato della Commissione nei confronti dell’IA affidabile o “trustworthy AI”, attraverso le Linee guida etiche per l’IA e il famoso “Regolamento AI” promesso per i 100 giorni della neonata Commissione. Gli appalti pubblici hanno infatti un enorme potenziale per promuovere lo sviluppo di sistemi di intelligenza artificiale “affidabili” che rispettino i diritti umani, aderiscano alle linee guida etiche e promuovano lo sviluppo umano. Basta volerlo. Le nuove tecnologie hanno un potere enorme, ma c’è il rischio di ingigantire diseguaglianze di Mons. Vincenzo Paglia Il Riformista, 30 gennaio 2020 L’orizzonte che abbiamo davanti è quello di un cambiamento d’epoca, come ama dire papa Francesco, al cui interno assistiamo a una rivoluzione tecnica permanente. Non mancano studi che continuano ad avvertirci, preoccupati per il futuro della società. Non ci troviamo di fronte a un nuovo capitalismo? Il “capitalismo della sorveglianza”? I capitalisti della sorveglianza sanno tutto di noi, mentre per noi è impossibile sapere quello che fanno. Come si può intuire è urgente comprendere quanto sta avvenendo già sotto i nostri occhi: dobbiamo aprirli meglio, non rassegnarci all’inevitabile, al contrario intervenire perché la stella polare resti sempre la centralità della persona e della intera famiglia umana. Non dobbiamo dimenticare che - senza un’adeguata attenzione - le disuguaglianze che si produrrebbero sarebbero ben più gravi e drammatiche di quelle prodotte da una globalizzazione selvaggia del mercato. La tecnologia oggi - Quali sono le caratteristiche della tecnologia, oggi? Nel suo cammino l’umanità ha visto molti profondi cambiamenti che hanno modificato sia le sue conoscenze sull’universo, sia la propria posizione nel mondo. L’uomo si è trovato sospinto sempre più verso regioni periferiche: con Copernico il nostro pianeta ha perso la sua posizione centrale nel sistema solare; con Darwin la specie umana è stata inscritta nella concatenazione evolutiva delle altre specie animali; con Freud l’Io ha scoperto che quel controllo totale che credeva di avere sulle proprie facoltà era illusorio, si trova in realtà sottomesso a spinte inconsce che influiscono su decisioni e comportamenti. Ognuno di questi passaggi ha comportato non solo trasformazioni sul modo di comprendere la realtà fisica, biologica o psichica, ma anche una nuova comprensione di se stesso o, come dicono i filosofi, una nuova auto-comprensione. Anche la storia della tecnica ha conosciuto vere e proprie rivoluzioni. Pensiamo al campo dell’energia: con la macchina a vapore e poi con l’elettricità si sono prodotti profondi cambiamenti nel modo di vivere e di lavorare dell’intera umanità. Ognuna di queste rivoluzioni ci ha sollecitato a ripensare il concetto stesso di unicità dell’essere umano con nuove categorie. Le tecnologie dell’informazione (ICT), inoltre, non sono solo strumenti; esse trasformano il nostro modo stesso di vivere. Se poi si lascia spazio alle cosiddette “tecnologie emergenti e convergenti” (nanotecnologie, biotecnologie, scienze cognitive…), si comprende ancor più la forza della tecnica nella trasformazione del vissuto umano. La comprensione di noi stessi che va affermandosi pone l’accento sulla centralità dell’informazione: la persona umana è un “organismo informazionale” (inforg), reciprocamente connesso con altri organismi simili ed è parte di un ambiente informazionale (l’infosfera), che condividiamo con altri agenti, naturali e artificiali, che processano informazioni in modo logico e autonomo. Nella realtà “iperconnessa” nella quale siamo immersi non ha più neanche senso porre la domanda se si è online o offline, perché attraverso la molteplicità di dispositivi con cui interagiamo e che interagiscono tra loro, spesso a nostra insaputa, sarebbe più corretto dire che siamo onlife: un neologismo che alcuni pensatori usano per dire l’inestricabile intreccio tra vita umana e universo digitale. Quale etica? - All’interno di questo scenario, quale etica dobbiamo sviluppare per avere un impatto reale sulla tecnologia? È una domanda che richiede anzitutto una chiarezza di linguaggio. A partire dalla cosiddetta “Intelligenza artificiale”. Dobbiamo stare attenti alla terminologia. Papa Francesco nel discorso tenuto all’ultima Assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita sulla roboetica (2019) diceva a tale proposito: “La denominazione “intelligenza artificiale”, pur certamente di effetto, può rischiare di essere fuorviante. I termini occultano il fatto che - a dispetto dell’utile assolvimento di compiti servili (è il significato originario del termine “robot”) -, gli automatismi funzionali rimangono qualitativamente distanti dalle prerogative umane del sapere e dell’agire. E pertanto possono diventare socialmente pericolosi. È del resto già reale il rischio che l’uomo venga tecnologizzato, invece che la tecnica umanizzata: a cosiddette “macchine intelligenti” vengono frettolosamente attribuite capacità che sono propriamente umane. Dobbiamo comprendere meglio che cosa significano, in questo contesto, l’intelligenza, la coscienza, l’emotività, l’intenzionalità affettiva e l’autonomia dell’agire morale. I dispositivi artificiali che simulano capacità umane, in realtà, sono privi di qualità umana. Occorre tenerne conto per orientare la regolamentazione del loro impiego, e la ricerca stessa, verso una interazione costruttiva ed equa tra gli esseri umani e le più recenti versioni di macchine”. In effetti questi dispositivi computazionali sono privi di corpo; sono fondamentalmente delle macchine calcolatrici che si limitano a elaborare flussi informativi astratti. E anche nel caso in cui siano munite di sensori, lavorano riducendo certi aspetti del reale a codici binari, escludendo un’infinità di dimensioni che invece la nostra sensibilità coglie e che sfuggono ai principi di una modellizzazione matematica. Quindi questo linguaggio amputa e distorce ciò che è presupposto al processo dell’intelligenza, il quale è inseparabile dalla sua tensione all’apprendimento multisensoriale e non sistematizzabile dell’ambiente esterno: “per dirla semplicemente: cervello e corpo sono nella stessa barca e insieme rendono possibile la mente” (A. Damasio, Lo strano ordine delle cose, Milano 2018, p.274). Il governo studia sanatoria per i migranti. “Regolarizziamo chi ha un contratto di lavoro” di Grazia Longo La Stampa, 30 gennaio 2020 L’ipotesi del pagamento di una cifra forfettaria. In Italia si stimano 700 mila irregolari. Il pressing dei vescovi. Via libera a una sanatoria per gli immigrati clandestini che hanno un’occupazione regolare. L’apertura arriva dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese: “Il governo si è impegnato con un ordine del giorno a valutare un provvedimento che consenta la regolarizzazione degli stranieri con un contratto di lavoro dietro il pagamento di una cifra forfettaria”. Sul provvedimento straordinario annunciato dalla titolare del Viminale interviene Riccardo Magi, esponente dei Radicali e deputato di +Europa che pur esprimendo soddisfazione per la sanatoria si augura un intervento più strutturato e duraturo. Si riferisce alla proposta di legge d’iniziativa popolare “Ero straniero”, di cui è relatore, in discussione in Commissione affari costituzionali alla Camera. “Le sanatorie sono importanti - precisa Magi - e nel nostro Paese ce ne sono già state altre, anche a firma di un governo di centrodestra, tanto che tra il 2002 e il 2012, dal governo Berlusconi a quello Monti, è stato messo in regola quasi 1 milione di clandestini”. Ma l’auspicio, più a lungo termine, è quello di una riforma strutturale, organica e definitiva. “La nuova legge ruota intorno ai due perni - precisa Magi. Il primo è una riforma della Bossi-Fini in modo che possano essere consentiti ingressi di immigrati in base al fabbisogno lavoro del nostro Paese. Si punta, in altre parole, a un permesso di soggiorno temporaneo per poter cercare un’occupazione. Il secondo obiettivo riguarda invece la possibilità di regolarizzare chi già vive e lavora in Italia”. Nel complesso sono circa 700 mila gli extracomunitari irregolari, molti dei quali hanno già un lavoro. “L’emersione di questi lavoratori risponderebbe alle esigenze del sistema produttivo italiano e porterebbe notevoli risorse in termini di gettito fiscale e contributivo. Nessuno Stato democratico può consentirsi di avere nel proprio Paese così tante persone che sono dei fantasmi e degli irregolari, e che, magari, hanno un datore di lavoro pronto ad assumerli domani. I benefici per la collettività quindi sarebbero molteplici, anche in termini di maggiore sicurezza per tutti”. I segnali Del resto anche dal mondo produttivo arrivano segnali positivi in questa direzione. “Due esempi chiarificatori sono rappresentati dall’Assindatcolf, l’associazione sindacale dei datori di lavoro domestici e Number one logistica, azienda leader nel trasporto merci: entrambi contano molto sulla prestazione professionale degli immigrati”. Dai dati Assindatcolf, tanto per capirci meglio, emerge che tra il 2020 e il 2025 in Italia avremo bisogno di 60 mila nuovi ingressi di lavoratori extracomunitari nel settore domestico. Mentre oggi si registra che questi ultimi sono il 67,7 per cento del totale della forza lavoro straniera impiegata, che a sua volta pesa per il 70 per cento sul totale degli addetti. L’iter affinché la proposta di legge “Ero straniero” diventi realtà è però ancora lungo, perché deve essere terminato il ciclo di audizioni, poi ci sarà la fase del testo base ma soprattutto occorre la volontà politica. Intanto anche il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, insiste sull’importanza dell’integrazione: “Gli immigrati che non sanno dove andare e cosa fare, diventando facile preda dello sfruttamento e della criminalità. E, purtroppo, gli ultimi interventi legislativi non sembrano sufficienti a ridurre tale cifra. Non basta quindi accoglierli ma occorre integrarli realmente”. Migranti. Cambiamo passo: diritti e buone leggi di Filippo Miraglia Il Manifesto, 30 gennaio 2020 Bisogna ribaltare la logica dei Decreti Sicurezza e cancellare subito il Memorandum con la Libia, che altrimenti il prossimo 2 febbraio verrà automaticamente rinnovato senza modifiche. In Libia la guerra continua e tutti abbiamo potuto vedere in questi anni gli orrori che lì vengono perpetrati contro i migranti, con il vergognoso sostegno, i mezzi e le risorse dell’Italia e dell’Ue. Se Salvini avesse vinto anche in Emilia Romagna la cultura xenofoba e razzista ne sarebbe uscita indubbiamente rafforzata. Lo scampato pericolo può rappresentare un’opportunità reale di cambiamento, per rilanciare le ragioni della sinistra e della democrazia. La forte partecipazione al voto, il movimento delle sardine, la mobilitazione straordinaria delle piazze, la reazione delle grandi città (Bologna in testa) hanno giocato un ruolo determinante, motivando decine di migliaia di persone ad andare a votare per contrastare il rancore, la paura e l’odio. Inseguire la destra sul suo terreno, con ricette simili, senza proposte alternative, la rafforza, allontanando tante donne e uomini di sinistra dalla politica, perché le differenze non si percepiscono più. È il momento di cambiare decisamente passo, sfruttando questa indubbia battuta d’arresto sia nei consensi che sul piano simbolico. E quale terreno migliore della questione immigrazione su cui l’ex ministro della propaganda ha costruito le sue fortune? Bisogna ribaltare la logica dei Decreti Sicurezza, passando dalla sottrazione dei diritti all’allargamento degli spazi di cittadinanza. Va reintrodotta una forma di protezione umanitaria che consenta di tenere conto della condizione personale di ciascun richiedente, come previsto dalla nostra Costituzione e come lo stesso Presidente Mattarella aveva raccomandato. Va ripristinato il sistema pubblico e unitario d’accoglienza in capo ai comuni, lo Sprar, chiudendo definitivamente la stagione dell’emergenza e dei grandi centri, che rischiano di finire in mano a multinazionali e privati che li gestiscono senza alcuna competenza e senza scrupoli, come campi di contenimento. Va approvata la legge d’iniziativa popolare della campagna Ero Straniero, consentendo finalmente alle persone di rivolgersi allo Stato per attraversare le frontiere e di poter accedere a un titolo di soggiorno in qualsiasi momento, se le condizioni sul territorio italiano lo consentono. Bisogna modificare finalmente la legge sulla cittadinanza, consentendo a chi nasce o cresce in Italia di diventare italiano prima della maggiore età, per poter vivere la propria infanzia e adolescenza con serenità, senza la spada di Damocle dell’irregolarità. Una riforma che deve sottrarre all’arbitrio della pubblica amministrazione l’accesso alla cittadinanza: la precarietà, nella quale crescono centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze di origine straniera, scava un fossato, che va al più presto colmato, tra un pezzo importante di questo Paese e lo Stato. Sul piano internazionale, poi, l’Italia svolga un ruolo positivo all’interno dell’Ue per cambiare rotta e imboccare una strada diversa: chiudere la stagione dell’esternalizzazione delle frontiere, slegare i fondi per la cooperazione dal ricatto dei rimpatri e dalla militarizzazione delle frontiere, riformare il regolamento Dublino, introdurre vie d’accesso sicure e legali sia per ricerca di lavoro che per richiesta di protezione, cancellare subito il Memorandum con la Libia, che altrimenti il prossimo 2 febbraio verrà automaticamente rinnovato senza modifiche. In Libia la guerra continua e tutti abbiamo potuto vedere in questi anni gli orrori che lì vengono perpetrati contro i migranti, con il vergognoso sostegno, i mezzi e le risorse dell’Italia e dell’Ue. Infine una nota di metodo: se si vuole valorizzare davvero la società civile che si mobilita, i partiti, le istituzioni comincino ad ascoltare davvero le organizzazioni sociali, il terzo settore, i movimenti. Si promuova subito un tavolo di confronto che tenga conto delle proposte concrete e praticabili avanzate in questi mesi, tra cui ad esempio quelle della campagna Io Accolgo che riunisce oltre 50 sigle nazionali. Il tempo è una variabile decisiva: il momento per riconquistare uno spazio è adesso. Tra poche settimane ripartirà il dibattito sulle regionali, sui candidati, sulle liste e ci si troverà di nuovo di fronte al muro di chi non vuol capire che quello dei diritti è un tema sul quale andare all’attacco e non restare fermi a subire l’iniziativa della destra. Noi ci siamo. Migranti. Accordo Italia-Libia, Bartolo (Pd): “Disumano finanziare i lager” di Giansandro Merli Il Manifesto, 30 gennaio 2020 7Il medico di Lampedusa eletto all’europarlamento nelle liste del Partito democratico contro l’accordo con Tripoli. “Sui corpi delle persone fuggite da quel paese ho visto i segni di sofferenze immani”. Tra 72 ore il memorandum tra Roma e Tripoli sul contenimento dei flussi migratori sarà prorogato per altri tre anni. Finora senza alcuna modifica, nonostante le promesse dei mesi precedenti. “Tutto questo è inaccettabile e disumano”, dice Pietro Bartolo, medico di Lampedusa dal 1992 al 2019, eletto all’europarlamento nelle liste del Pd come candidato più votato nella circoscrizione insulare. Il memorandum d’intesa fu siglato a febbraio 2017 dall’allora premier Paolo Gentiloni e dal primo ministro del governo di riconciliazione nazionale libico al-Serraj. Ministro dell’Interno era Marco Minniti. Gli accordi garantiscono sostegno economico, tecnologico, formativo e di mezzi alla cosiddetta Guardia costiera libica, al centro di inchieste giornalistiche e segnalazioni da parte di istituzioni internazionali per le collusioni con i trafficanti. Per chiederne la sospensione, i Radicali Italiani saranno in piazza Montecitorio domenica. La ministra Lamorgese e il Pd avevano assicurato modifiche per tutelare i diritti umani. Ora si parla di difficoltà a interloquire con Tripoli. L’accordo comunque andrà avanti. Che ne pensa? A maggior ragione perché non si può interloquire con un paese in guerra questo memorandum non si deve rinnovare. È sbagliato fin dall’inizio e lo è ancora di più oggi, con la situazione di conflitto militare e l’accertamento da parte dell’Onu che anche nei centri governativi ci sono violenze e torture. Qualcuno sostiene che grazie a esso i flussi migratori siano diminuiti, ma non è così. A causa di questo accordo ci sono stati più morti nel Mediterraneo. Per non parlare di tutti quelli che vengono fermati e riportati nei lager. Tutto questo è inaccettabile e disumano. Bisogna strappare i decreti sicurezza e fare un passo indietro rispetto ad accordi che servono solo a finanziare la guardia costiera libica e i campi di concentramento. Secondo lei è migliorabile un accordo con le attuali autorità libiche? Non credo ci siano le condizioni. In Libia non c’è un governo con cui fare accordi accettabili, che rispettino i diritti umani. Né da una parte, né dall’altra. L’Italia e l’Europa devono fare in modo che le persone prigioniere nei campi arrivino attraverso i canali legali dei corridoi umanitari, evitando il mare. Possiamo mettere tutte le navi di questo mondo, ma il mare appena sbagli ti punisce. In questi anni il mare nostrum è diventato una fossa comune. Non è accettabile. Oggi al parlamento europeo si è parlato di Shoah, Liliana Segre ha fatto commuovere i deputati dicendo cose straordinarie. E poi noi ci comportiamo in questo modo, ci giriamo dall’altra parte e non riusciamo a trovare una soluzione affinché queste persone non perdano la vita, non vengano sfruttate o stuprate. Affinché siano considerate esseri umani. Il Pd accusa le destre di razzismo, violazione dei diritti dei migranti, mancanza di rispetto del Giorno della memoria, ma poi continua a finanziare i centri libici. È un atteggiamento credibile questo? Io non sono d’accordo né con i finanziamenti ai libici, né con il memorandum. Bisogna che partito e governo prendano la posizione giusta, anche se questi accordi sono stati fatti precedentemente e ora è più difficoltoso cancellarli. La posizione giusta è non fare accordi con la Libia. Anche perché al momento la Libia non esiste. Ma con chi parliamo? Con chi tortura e rinchiude le persone? Non possiamo fare lo stesso lavoro di chi ci ha preceduto. Dobbiamo dare un senso di discontinuità ma soprattutto di umanità, che appartiene al mondo della sinistra. Non è quello che stiamo facendo. In questi anni lei ha curato migliaia di persone che arrivavano dal paese nordafricano. Quali segni dei centri di detenzione portavano addosso? Ho visitato circa 350mila persone. Dai centri di detenzione ho visto arrivare sofferenze immani. Persone denutrite. Adulti di 30 kg. Bambini violentati. Donne stuprate. Ragazzi scuoiati vivi. Ferite inferte da torture inenarrabili. Non parlo per sentito dire, ma perché ho visto queste persone, le ho curate, le ho ascoltate. E ovviamente queste cose non le dico solo io, ma anche chi ha visitato i campi. In alcuni non può entrare nessuno, ma anche in quelli governativi, che dovrebbero essere i migliori, ci sono violenze e torture. Chi ha fatto gli accordi sa bene quali sono le condizioni là dentro.