Così le sentenze sul 4bis hanno svelato la difficile coesione dell’Europa sui diritti di Massimiliano Nespola Il Dubbio, 2 gennaio 2020 Le reazioni dure venute dall’Italia alla pronuncia della Cedu sull’ergastolo “ostativo” nascono anche da un’idea del crimine che pare insuperabile: quella del nemico da battere con i mezzi dello stato d’eccezione. La giustizia europea si manifesta attraverso l’interazione tra più organi. Spesso, ci si può fare un’idea solo considerando insieme quanto deciso sia in sede europea che in quella dello Stato membro. Questo è il caso di un tema delicato come quello della pena massima attribuita dal sistema penitenziario: l’ergastolo. Se ripercorriamo l’ultimo semestre trascorso, per quanto riguarda l’Italia nel suo rapporto con l’Europa, rinveniamo due fatti davvero molto importanti. Il 13 giugno scorso, infatti, si è avuta la sentenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo, intervenuta sul caso del detenuto Marcello Viola. Quest’ultimo è stato infatti riconosciuto responsabile di reati che gli hanno comportato la pena dell’ergastolo ostativo, per il suo ruolo di “capo dell’organizzazione criminale e di promotore delle sue attività” nell’ambito della seconda faida di Taurianova, tra la metà degli anni 80 e l’ottobre 1996. La sentenza Cedu si è espressa sul ricorso presentato dagli avvocati di Viola, secondo cui un tale trattamento sarebbe disumano e degradante, in quanto non ammetterebbe in alcun modo la possibilità di recupero, uscendo dal carcere. In particolare, il ricorrente ha contestato l’articolo 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario italiano (la 354 del 1975), che prevede tale regime detentivo. Con sei voti a favore e uno contrario, la Cedu ha affermato, nella suddetta sentenza, alcuni principi che riconoscono le ragioni del detenuto. Uno su tutti, quello secondo cui “l’ergastolo ostativo impedisce ogni progresso del detenuto “non collaborante” nel percorso di reinserimento graduale nella società”. Inevitabilmente, una determinazione simile ha generato un consistente dibattito nell’opinione pubblica. In sintesi, la domanda centrale che ci si pone è se sia possibile ammettere l’uscita dal carcere di un condannato “non collaborante” con la giustizia. Ebbene, su questo aspetto, è intervenuta il 23 ottobre 2019 la Corte costituzionale italiana, in Camera di Consiglio. La Suprema Corte ha affermato “l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo”. Sintonia, quindi, tra magistratura europea ed italiana: il diritto alla speranza di uscire dal carcere non può essere condizionato al pentimento e alla collaborazione con la giustizia. Che cosa succede adesso? Potrebbe, il Parlamento, intervenire su una materia così delicata? Con quali effetti? Quanto sancito a Strasburgo e poi a Roma costituirà un dato di diritto insuperabile per le Camere. Certo, quanto sancito dalla Cedu ha toccato le sensibilità di molti. Primi fra tutti, di coloro che si trovano in prima linea nel contrasto alle mafie del nostro Paese e che rischiano sulla propria pelle. Secondo il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, intervistato dal Fatto Quotidiano, “i mafiosi tireranno un bel sospiro di sollievo; è passata l’idea che puoi commettere qualunque crimine, anche il più abietto, poi alla fine esci di galera”. Una lettura così severa di una pronuncia sancita innanzitutto da quella che, a livello europeo, è la massima giurisdizione in tema di diritti umani, riflette la diversità di contesti in cui operano gli apparati di sicurezza dei vari Stati. Diversa, quindi, è la modalità operativa delle organizzazioni criminali. Per esempio, è noto che le cosche di ‘ ndrangheta, originariamente calabresi, si sono trasferite anche in altre regioni d’Italia e all’estero: nelle aree di insediamento, si è constatata la tendenza a nascondersi attraverso strumenti silenti quali il riciclaggio, piuttosto che ad affermare la supremazia sul territorio, con delitti efferati, come spesso è successo nelle regioni di provenienza. Comprendere i diversi contesti è quindi fondamentale e una legislazione efficace - quale quella che potrebbe derivarne nell’anno che verrà e anche dopo - deve poter tener conto delle varie specificità ambientali; questo perché nella figura del mafioso non c’è solo l’elemento dell’intimidazione e della violenza, ma anche il suo agire camaleontico, il mimetizzarsi. Con tutto ciò il mondo politico e quello giuridico dovranno confrontarsi a lungo, perché il giorno in cui le mafie non esisteranno più, spazzate via dal diritto, dall’educazione e dalla cultura, appare ancora lontano. Il paradosso delle carceri: calano i reati, aumentano i detenuti today.it, 2 gennaio 2020 In calo anche il numero degli stranieri detenuti nelle carceri italiane. Il problema del sovraffollamento resta irrisolto: cosa dice l’ultimo rapporto di Antigone. Il numero dei detenuti nelle carceri italiane è in costante crescita. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, al 30 novembre 2019 erano infatti 61.174, circa 1.500 in più della fine del 2018 e 3.500 in più del 2017. Un aumento su cui non pesano gli stranieri che, sia in termini assoluti che percentuali, sono diminuiti rispetto allo scorso anno. Se al 31 dicembre 2018 erano infatti 20.255, pari al 33,9% del totale dei detenuti, al 30 novembre 2019 erano 20.091, pari al 32,8% del totale dei ristretti. Il tasso di affollamento ufficiale - spiegano da Antigone - è del 121,2%, tuttavia circa 4.000 dei 50.000 posti ufficiali non sono al momento disponibili è ciò porta il tasso al 131,4%. Un esempio è quello che riguarda il carcere milanese di San Vittore, dove 246 posti non sono disponibili e dove il tasso di affollamento effettivo è del 212,5%, cioè ci sono più di due detenuti dove dovrebbe essercene uno solo. Anche senza posti non disponibili, tuttavia, ci sono istituti dove le cose non vanno meglio, ad esempio Como e Taranto, dove il tasso di affollamento è del 202%. In generale, al momento, la regione più affollata è la Puglia, con un tasso del 159,2% (il 165,8% se consideriamo i posti conteggiati ma non disponibili), seguita dal Molise (150% quello teorico, 161,4% quello reale) e dal Friuli Venezia Giulia (144,1% teorico e 154,7% reale). “Ancora una volta dobbiamo constatare come, a fronte di un calo dei reati, aumenti il numero dei detenuti” dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, associazione che dal 1991 si occupa di diritti e garanzie nel sistema penale e penitenziario. “Questo dato si spiega con un aumento delle pene, frutto di politiche che, guardando ad un uso populistico della giustizia penale, hanno risposto in questo modo ad una percezione di insicurezza che non trova riscontro nel numero dei delitti commessi. Quello della crescita dei reclusi è un trend che nell’arco di poco tempo potrebbe portarci nuovamente ai livelli che costarono all’Italia la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per trattamenti inumani e degradanti”, specifica il presidente di Antigone. Nel corso del 2019 Antigone, grazie alle autorizzazioni che dal 1998 riceve dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha visitato con i propri osservatori 106 istituti penitenziari (oltre la metà di quelli presenti in Italia). L’elaborazione dei dati raccolti è ancora in corso ma i dati che emergono dalle 66 schede già lavorate restituiscono un panorama preoccupante per la vita negli istituti. Innanzitutto, nel 27,3% degli istituti visitati, più di un quarto, sembrerebbero esserci celle in cui i detenuti hanno a disposizione meno di 3mq a testa di superficie calpestabile, una condizione che secondo la Cassazione italiana è da considerare inumana e degradante, in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Inoltre in più della metà degli istituti sono state trovate celle senza acqua calda disponibile e, in altri cinque, celle in cui il wc non era nemmeno in un ambiente separato dal resto della stanza. Anche sulla situazione sanitaria delle carceri emerge preoccupazione. In un terzo degli istituti visitati non era presente un medico h24 ed in media per ogni 100 detenuti c’erano a disposizione 6,9 ore settimanali di servizio psichiatrico e 11,6 di sostegno psicologico. Una presenza bassissima se si considerano le patologie psichiatriche di cui soffre parte della popolazione detenuta. Dalle rilevazioni dell’osservatorio di Antigone è infatti emerso che il 27,5% degli oltre 60.000 reclusi assumeva una terapia psichiatrica. Inoltre 10,4% erano tossicodipendenti con un trattamento farmacologico sostitutivo in corso. Anche per quanto riguarda il lavoro la situazione non è migliorata rispetto agli anni passati. I detenuti che lavoravano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria sono, in media, circa il 25% e, nella maggior parte dei casi, questo impegno è solo di poche ore al giorno e non in tutti i giorni della settimana. Solo il 2,2% lavora per una cooperativa privata o per un datore di lavoro esterno. Infine, nel 30% degli istituti visitati, non c’è alcun corso di formazione professionale. “Se il lavoro è uno degli strumenti di maggior importanza per una effettiva risocializzazione del condannato, questi numeri testimoniano un sistema spesso schiacciato sulla funzione custodiale” sottolinea ancora il presidente di Antigone. “Un fattore quest’ultimo che emerge anche dando uno sguardo alla distribuzione del personale penitenziario, in maggioranza composto da agenti di polizia. In media, nelle nostre visite, abbiamo trovato un agente ogni 1,9 detenuti (uno dei dati più bassi in Europa), ed un educatore ogni 94,2 detenuti. Inoltre solo in poco più della metà degli istituti c’era un direttore a tempo pieno, con tutte le difficoltà di gestione della vita interna che questa mancanza comporta”. L’aumento delle pene non serve a ridurre i reati, ma il giustizialismo premia i politici di Vittorio Supino La Discussione, 2 gennaio 2020 Voci autorevolissime nel mondo della Giustizia Italiana quali Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, ieri come oggi sulla stessa lunghezza d’onda, sono d’accordo nel ritenere che il mero aumento delle pene non serva a scongiurare la commissione dei reati che più toccano nel profondo il senso del sentire di ogni comunità ed in particolare la nostra. In epoca non troppo recente tutti ricorderete la recrudescenza per i reati di sequestro di persona e di usura, oggi quasi scomparsi i primi e del tutto ignorati, anche dal Legislatore, i secondi nonostante si siano registrate sentenze di condanna anche nei confronti di vertici bancari e delle banche. Ha affermato testualmente Colombo: il carcere non risolve. Dopo anni mi sono ricreduto. Nonostante l’aumento delle pene per particolari reati questi non sono diminuiti, anzi sono aumentati. Ritiene che il fenomeno della lievitazione della commissione di reati possa effettivamente ridursi in presenza di strumenti idonei a dissuadere i potenziali rei dal beneficio illecito che ne potrebbero trarre. Il fenomeno dei sequestri di persona a scopo di riscatto è praticamente scomparso. Non credo, dicono Colombo e Davigo, che ciò sia dovuto all’aumento delle pene, ma all’introduzione del blocco dei beni, del divieto di pagare il riscatto. Il reato è diventato infruttifero, quindi si è smesso di commetterlo. Ha aggiunto, quasi come monito ai politici-legislatori occasionali: “l’aumento delle pene serve a farci sentire innocenti” ed aggiungo, a placare la sete di vendetta di coloro che si sentono inermi ed indifesi di fronte al dilagare della criminalità ed all’aumento dei reati. Mutatis mutandis il concetto espresso dagli illustri giuristi che hanno operato sul campo può essere parimenti enunciato per quel che concerne altri tipi di reato dove sull’onda del “furor di popolo” sono state aumentate notevolmente le pene. Ci riferiamo al delitto, nella nuova figura, di omicidio stradale che avrebbe dovuto dopo l’aggravamento delle pene ottenere l’effetto di ridurre gli incidenti mortali. E così dicasi per il femminicidio. D’altronde nella civile e moderna America, dove nella maggior parte degli Stati vige ancora la pena di morte, si rileva che anche questa non funge e non è sufficiente quale deterrente per la commissione di reati gravi che la prevedono come punizione. Le statistiche ci dicono che i delitti di omicidio stradale, al pari dei femminicidi, pur dopo la introduzione di specifiche forme di reato aggravate, infatti, sono aumentati. Forse bisognerebbe agire, come suggerisce il PM Colombo, allo stesso modo e cioè intervenire ed investire molto di più in tema di informazione, educazione e creazione di coscienza del rispetto delle regole da parte di tutti coloro che circolano su una strada pubblica ivi compresi i pedoni, i ciclisti ed i nuovi mezzi elettrici non muniti di identificazione e senza necessità di patente per la guida. Aggiungo forse sarebbe il caso di destinare un po’ di risorse nell’applicazione delle nuove tecnologie quali le strisce pedonali auto-illuminanti con materiali di ultima generazione. Con l’iniziare ad applicare sanzioni ai pedoni ed ai ciclisti lì dove i primi attraversano la strada sistemicamente fuori delle strisce, in mezzo a rotatorie, in maniera obliqua, senza guardare o continuando a parlare al cellulare anche se le stesse sono a pochi metri. Le statistiche italiane ed internazionali in merito a decessi da investimenti di pedoni che parlavano al cellulare sono impressionanti. Oltre alle sanzioni che potrebbero subire, i pedoni ed i ciclisti debbono sapere che in caso di investimento anche sulle strisce pedonali, ove i secondi non procedano a piedi con la bici a fianco, ed i primi con la massima attenzione guardando i movimenti dell’auto, accertata la distrazione e/o la violazione delle norme da parte degli stessi, non verranno risarciti o lo saranno in misura inferiore. Come: è facile criticare e/o identificare i fenomeni ma è certo più difficile formulare proposte concrete ed attuabili che non siano rimesse alle mere e vane dichiarazioni di principio della classe politica ed in particolare di quella che Governa il Paese. Faremo, stiamo facendo, dobbiamo fare ecc. di qualsivoglia politico e/o uomo di Governo e/o delle Istituzioni. Ritengo quindi che prima di ogni questione e come ogni questione che coinvolge una comunità si debba procedere con il creare una cosiddetta coscienza popolare del problema attraverso un acculturamento di ciascun individuo che forma il Consorzio sociale, alias la collettività, in merito al problema e/o questione che dir si voglia. Infatti oggi il costo indiretto per le spese che lo Stato sostiene per far fronte alla emergenza degli incidenti mortali che spesso si accompagnano a feriti gravi e non per il sistema sanitario e del mondo del lavoro e delle famiglie è pari a 1.504.000 euro per ciascun decesso e 42.220 euro per ciascun ferito, costi di certo superiori a quelli che si sosterrebbero per i fini di cui sopra mediante istituzione di corsi e di istruttori/ insegnanti che coscienziosamente riuscirebbero a far capire a ciascuno di noi che rispettare le regole della circolazione stradale in senso lato è sicuramente meglio e meno costoso che subirne le conseguenze dirette e/o indirette. Identico discorso e risultati si hanno, ad esempio, come ha evidenziato l’ex PM. Gherardo Colombo, per l’evasione fiscale e noi aggiungiamo per i disastri ambientali dove si spende di più per riparare gli effetti dannosi e devastanti dei reati che non quanto sarebbe necessario per prevenirli. Ma questa è un’altra storia. Detenuti in attesa di rimpatrio: la vergogna dei Cpr di Stefano Galieni Il Riformista, 2 gennaio 2020 Quella dei Centri di “accoglienza” per migranti è una storia ventennale sanguinosa: anni di suicidi, morti violente e soprusi però non ci hanno insegnato nulla. Anzi il modello è stato peggiorato. Prima da Minniti e poi da Salvini. Rabah, Nashreddine, Jamel, Ramsi, Lotti e Nasim, sei nomi che oggi forse non dicono nulla. Erano i nomi di 6 ragazzi tunisini rinchiusi nel dicembre 1999 nell’allora Centro di Permanenza Temporanea ed Assistenza, (Cpta), “Serraino Vulpitta” a Trapani, un mini carcere ricavato da un’ala di un vecchio ospizio. Stavano per essere rimpatriati, tentarono la fuga il 28 dicembre, vennero presi e rinchiusi insieme ad altri due connazionali. Uno di loro diede fuoco a un materasso, non si rassegnavano alla sconfitta. Il risultato fu una morte orribile, resa possibile dal fatto che non si trovavano le chiavi per aprire la cella in cui erano rinchiusi, nessuno si volle assumere la responsabilità di farli uscire, gli estintori erano vuoti o non funzionanti. Nessuno ha pagato per le loro morti anche se i due superstiti hanno ottenuto un indennizzo che non potrà certo cancellare l’orrore. Non ricordiamo questo solo perché sono passati 20 anni da un plurimo omicidio, tante altre morti fra “malori”, suicidi, tentativi di evadere ci sono stati negli anni successivi nei diversi centri di detenzione in Italia che cambiavano denominazione e acronimo ma producendo gli stessi osceni disastri. E a dire il vero la prima vittima delle galere create da un governo di centro sinistra, c’era già stata a Roma, nel Cpta di Ponte Galeria. Era la notte di Natale del 1999, si chiamava Mohammed Ben Said, venne ritrovato all’alba con la mascella rotta ed ecchimosi in tutto il corpo. Un’altra morte impunita, pochi giorni prima della strage di Trapani. Venti anni dopo cosa è cambiato? I Centri hanno cambiato, si diceva, più volte denominazione, prima Cie (Centri di Identificazione ed Espulsione) con il ministro Maroni, nel 2009 e ora Cpr. Centri Permanenti per il Rimpatrio, con il ministro Minniti. In 20 anni si è tentato in ogni modo di chiudere queste strutture, utilizzando dapprima una parte del mondo politico che conservava una idea di diritto, contemporaneamente grazie alle piazze che hanno visto grandi mobilitazioni per chiedere o la chiusura di un centro appena aperto o per impedirne l’apertura. E insieme si mossero giuristi, avvocati, giornalisti, uomini e donne che, cercando di creare un fronte ampio di consapevolezza, aspiravano a far comprendere i danni ed i costi umani, economici, culturali e politici che il rinchiudere e deportare persone per il solo fatto di esistere, avrebbero portato. Sono migliaia in tanti anni gli uomini, le donne e a volte anche i minorenni, che sono stati “ospiti”, fra queste gabbie di ferro e cemento sparse per l’Italia, spesso ex caserme, a volte strutture create ex novo, da Torino a Caltanissetta, da Gradisca D’Isonzo a Lamezia, a Palazzo S. Gervasio, Bari, Brindisi, Lecce, Crotone, Milano, Modena, Bologna ed altri ancora. Nel periodo del loro massimo “successo” furono 14 i centri sparsi per la penisola. Dal 2007 numerose ragioni portarono lentamente a chiudere alcuni centri. In primis le rivolte che scoppiarono soprattutto quando aumentarono i tempi di trattenimento, rivolte che portarono spesso a rendere inagibili interi settori, denunce per mala-gestione, suicidi, difficoltà rendere effettivi i rimpatri. Per un breve periodo addirittura si auspicò il superamento dell’istituto della detenzione amministrativa e il numero dei centri operativi, lentamente, si ridusse. Nel 2011, all’inasprirsi delle tensioni nei centri rimasti operativi il Viminale reagì con una circolare che inibiva totalmente l’ingresso a operatori dell’informazione e ad associazioni di sostegno non riconosciute, la maggior parte. Nacque una campagna “LasciateCIEntrare” per provare a rompere la cappa di silenzio che era ormai caduta sui centri, a cui rimanevano ad opporsi pochi attivisti. Intervenne anche Unsi, l’Ordine dei Giornalisti e, con la crisi del governo Berlusconi-Maroni si giunse a una sospensione della circolare. Di fatto l’accesso ai centri resta ancora oggi limitato ed a totale discrezione delle prefetture e quindi del competente ministero dell’Interno. Ma il vero peggioramento è iniziato nel 2015 ed è in fase di realizzazione. Prima, attraverso il Migration Compact, concordato con l’Unione Europea, vennero realizzate ulteriori strutture di identificazione, gli hotspot. destinate a separare i richiedenti asilo sbarcati che potevano aver diritto ad alcune forme di protezione o allo status di rifugiato da quelli da rimpatriare. In assenza di una loro definizione giuridica non sono mai state ufficialmente spazi di privazione delle libertà personali ma, la loro collocazione. la lentezza delle prime procedure di fotosegnalazione e identificazione, a volte il sovraffollamento hanno soventemente bloccato gli “ospiti” per tempi mai regolamentari, anche nell’ordine di settimane. non è bastata una condanna dell’Italia, da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, sul caso Khalifa, per impedire queste prassi che violano le garanzie costituzionali ed internazionali in materia di libertà personale. L’aumento temporaneo degli arrivi del 2016, il Memorandum con la Libia del febbraio 2017, l’assenza di politiche di regolarizzazione di chi perdendo il lavoro, perdeva anche il diritto a restare in Italia, ha fatto rilanciare l’idea che nuovi centri di detenzione fossero “necessari”. Il “piano Minniti”, reiterazione di quanto già affermato da precedenti inquilini del Viminale. prevedeva l’apertura di Centri Permanenti per il Rimpatrio in ogni regione. Si è iniziato ripristinando la sezione maschile di Ponte Galeria (Roma). poi riaprendo Palazzo San Gervasio (Potenza). Da tempo era decisa l’apertura di almeno 4 o 5 Cpr ed erano già stati individuati i siti. Il primo ad aprire è stato quello di Gradisca D’Isonzo, in provincia di Gorizia, nell’ex caserma Polonio. La classe politica sembra voler ignorare che i Cpr, in cui si potrà restare rinchiusi anche per sei mesi rischiano di divenire vere e proprie bombe ad orologeria in cui potrebbero facilmente riaccadere tragedie come quella con cui abbiamo iniziato questo racconto e che per il mondo antirazzista resta indimenticabile e inaccettabile. In 20 anni è stata prodotta una ampia letteratura sull’argomento. dai rapporti realizzati prima da Msf e poi da Medu, al Libro Bianco realizzato grazie al Comitato diritti Umani del Senato. a relazioni delle istituzioni e del Garante per i detenuti. Da ultimo un volume divulgativo edito dal settimanale Left di cui Adif è fra le forze che hanno contribuito a realizzarlo e dal titolo “Mai Più”. Una corretta comunicazione su queste strutture è determinante per svelarne il carattere nocivo, ma altrettanto importante è riprendere le mobilitazioni. L’11 gennaio, dopo un primo presidio a pochi giorni dall’apertura, si terrà una manifestazione a Gradisca D’Isonzo, il 18 una assemblea regionale a Milano per fermare l’apertura di Corelli. Ci auguriamo sia solo l’inizio. Buon Anno: che sia di giustizia anziché di impunità di Paolo Flores d’Arcais La Repubblica, 2 gennaio 2020 Giustizia sociale, cioè aggressione efficace, costante, progressiva, contro le diseguaglianze di ricchezze, reddito, potere, la cui hybris grida sempre più vendetta agli occhi di Dio e degli uomini. E giustizia nei tribunali, eguaglianza dell’ultimo degli emarginati e del primo dei ricchi-e-potenti di fronte alla violazione della legge. Cioè aggressione efficace e incalzante contro tutte le forme di impunità, a cominciare dalle più gravi, secondo caratura di violenza, prepotenza, opulenza di chi se le riesce a garantire. Perché da quasi trent’anni, Italia omnia divisa est in partes tres: il partito della giustizia, il partito delle impunità, la palude delle anime morte ovvero il partito dell’indifferenza. E il partito delle impunità, grazie anche alla servitù volontaria degli indifferenti che li spinge a farsi rappresentare dai propri peggiori nemici, ha fin qui vinto, recuperando e annegando i rari momenti in cui la legge si è imposta davvero come eguale per tutti: le troppo brevi stagioni di Mani Pulite e dei pool antimafia. Sulla politica della giustizia, nella fattispecie sulla prescrizione, si era già consumata la rottura del governo Conte1, che lo spurgo verbale del Papeete ha solo anticipato (e oscurato). E sta per segnare la fine del Conte2, a meno che il M5S non cali le brache anche sull’ultimo scampolo di riforma che l’aveva portato a vincere le elezioni (“onestà, onestà”, ricordate?). La riforma della giustizia avanzata dal M5S è in realtà meno di una mezza riforma. È una riformicchia, ma tanto basta per scatenare alti lai e minacciose chiamate alle armi del partito delle impunità. Riformicchia, perché neppure si è ventilata l’introduzione del reato di ostruzione di giustizia, secondo fattispecie e pene deterrenti di stampo americano, neppure si è impostata la discussione sulla abrogazione di un grado di giudizio e la radicale restrizione degli interventi di Cassazione, e quanto alla prescrizione non si tratta neppure di una riforma a metà, ma al 20 per cento, visto che tale è, con la proposta Bonafede, la percentuale di quanti grazie ad essa non potranno più godere della scampata condanna. La riforma, ovviamente, andava fatta sul modello occidentale più diffuso, che di fatto vanifica la prescrizione una volta iniziato l’iter processuale incardinato con il rinvio a giudizio. Sono le tre misure che, accompagnate da altri facili accorgimenti semplificatori mille volte enumerati e catalogati su MicroMega da magistrati come Scarpinato, Davigo, Caselli, creerebbero le precondizioni, l’humus, per una radicale riduzione dei tempi dei processi, visto che nessuno avrebbe più interesse a “tirarla per le lunghe”, che per i ricchi-e-potenti equivale quasi sempre alle calende greche e al paradiso delle impunità. Buon Anno, perciò, un anno buono se e perché il partito giustizia-e-libertà comincerà a prevalere sul partito delle impunità grazie al risveglio di una parte della società civile, alla metamorfosi di una parte sempre crescente (si spera) del partito degli indifferenti. Per ora non se ne vedono i sintomi. È vero infatti che l’anno si chiude con il duro colpo che le inchieste della Procura di Catanzaro del dottor Gratteri e dei suoi collaboratori ha inferto non solo alle ‘ndrine ma all’intreccio politico-finanziario-imprenditoriale-mafioso che trova nella massoneria il suo luogo fusionale. Ma è ancor più vero, purtroppo, che questo straordinario risultato di tre anni di indagini difficilissime (perché, come si è visto, e del resto non è la prima volta, i tentacoli del suddetto intreccio arrivavano fino a vertici delle forze dell’ordine e lambivano gli stessi uffici giudiziari), non è stato affatto salutato e incoraggiato dal giornalismo televisivo e scritto, cioè dagli artefici della opinione pubblica. Comportamento che sarebbe stato ovvio e doveroso attendersi, visto che, come insegnava il grande storico Michelet già nel 1848, il giornalismo “persegue una missione estremamente utile, estremamente seria e faticosa, quella d’una censura continua sugli atti del potere”, e che in fondo il kombinat affaristico-politico-mafioso che viene colpito anziché dominare incontrastato è proprio “l’uomo che morde il cane” che fin dall’apprendistato del giornalista indica la necessità della prima pagina con titolo a nove colonne. E mentre i responsabili per atti od omissioni dei crolli di ponti o di banche brindano al nuovo anno nella opulenza e nel fasto delle buonuscite che li hanno locupletati, in vece loro nelle italiche galere viene ristretta la professoressa Nicoletta Dosio, di anni settantatré, condannata ad un anno di carcere per una manifestazione No Tav consistente nell’aver aperto i varchi di un’autostrada facendo passare gratuitamente gli automobilisti, per un danno ai gestori di ben 700 euro (dicesi 700, sui milioni di profitti). E che ha coraggiosamente rifiutato ogni misura alternativa. Una vergogna, una indecenza, una ignominia per l’Italia, anche “vista dallo spazio”, per cui ci aspettiamo che il Presidente Mattarella vi ponga immediatamente fine attraverso l’istituto della grazia. Fermare la deriva punitivista di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 2 gennaio 2020 La politica ha delegato le scelte ai giudici e le élite non hanno cultura giuridica. Con ripetuti interventi sul Corriere della Sera Angelo Panebianco insiste nel tematizzare il problema dello squilibrio tra politica e giustizia. Questa insistenza è opportuna, e lo è anche perché gli spazi di operatività della macchina giudiziaria sono destinati a dilatarsi ulteriormente a causa l’entrata in vigore, col nuovo anno, della riforma Bonafede che, com’è noto, blocca la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Eppure si ha l’impressione che, di fronte all’incombere di una giustizia penale invasiva al di là di ragionevoli limiti, prevalga nella maggioranza delle persone un atteggiamento, se non di entusiastica approvazione come accade ai non pochi adepti del fanatismo punitivista, di accettazione quasi rassegnata del presente andazzo iper-repressivo. Nei suoi articoli più recenti (rispettivamente, del 9 e 27 dicembre scorsi) Panebianco, da politologo, prospetta ipotesi interpretative che fanno appunto leva sulle cause politiche della situazione attuale. In sintesi, l’idea di fondo è questa: l’enorme e abnorme crescita del fenomeno punitivo, con il connesso estendersi del diritto penale quasi a ogni aspetto della vita pubblica e privata, non sarebbe stato possibile se, specie da un certo punto in poi (com’è intuibile, ci si riferisce alla rivoluzione giudiziaria di Mani pulite e alle sue perduranti ricadute distorsive), non fosse avvenuto “un radicale ribaltamento dei rapporti di forza fra potere politico-rappresentativo e potere giudiziario”. Ma a questa progressiva trasformazione della nostra democrazia in una sorta di democrazia giudiziaria non avrebbe contribuito soltanto il forte indebolimento delle élite politiche. Un’altra causa non meno rilevante, sempre secondo Panebianco, andrebbe individuata nel fatto che un ampio segmento del pubblico italiano (comprensivo sia di elettori comuni, sia di consistenti parti delle stesse élite non solo politiche ma anche intellettuali, del mondo della comunicazione ecc.) difetterebbe in realtà di una autentica e matura cultura democratica: da qui una diffusa incomprensione dei princìpi che presiedono al funzionamento di uno Stato di diritto degno di questo nome e, altresì, una altrettanto diffusa insensibilità rispetto all’esigenza garantistica di sottoporre qualunque potere, incluso quello giudiziario, a limiti e contrappesi volti a prevenirne arbitrari straripamenti. Riguardata con le mie lenti di giurista, e in particolare di penalista, questa analisi di Panebianco mi sembra convincente soltanto fino a un certo punto. Sotto il profilo causale, infatti, si potrebbe per certi versi rovesciare la prospettiva. Nel senso che la progressiva crescita di peso del potere giudiziario è leggibile, piuttosto che come causa principale, anche come effetto di una dilatazione dell’uso del diritto penale a sua volta riconducibile a un insieme eterogeneo di fattori: cioè fattori storici, sociali, culturali, politici e persino psicologici, che stanno a monte o a valle delle dinamiche relative ai rapporti e agli equilibri tra potere politico e magistratura. Insomma, se punire è diventato “una passione contemporanea”, per richiamare il titolo dell’ancora recente saggio di Didier Fassin, ciò si spiega sulla base di processi complessi la cui comprensione rimanda a interazioni causali multiple e al tempo stesso circolari. Ora, tra i fattori storico-politici e sociopsicologici responsabili dell’espansione dell’intervento penale, mi limito qui a menzionare, oltre a una inevitabile crescita delle esigenze di tutela di una società divenuta sempre più complessa, i dati seguenti: la frequente tendenza del potere politico a delegare di fatto al potere giudiziario la soluzione di questioni che esso è sempre meno in grado di affrontare, e la disponibilità per altro verso di una parte almeno della magistratura a svolgere non di rado di propria iniziativa (cioè senza preventive deleghe espresse o tacite) funzioni di supplenza politica e/o compiti di moralizzazione pubblica; l’affermarsi e consolidarsi nella cultura dominante e nella comunicazione mediatica del paradigma vittimario, col conseguente protagonismo delle vittime nella scena pubblica e la loro accresciuta pretesa di ottenere soddisfazione e risarcimenti morali mediante un ricorso il più possibile ampio e rigoroso agli strumenti repressivi; la propensione delle forze politiche non solo a venire incontro alle aspettative delle vittime, ma più in generale a strumentalizzare e manipolare, per facile tornaconto elettorale, i sentimenti e le pulsioni emotive sottostanti ai meccanismi della punizione (alludiamo all’uso politico del diritto penale in funzione di “ansiolitico” collettivo contro l’allarme-criminalità, o di medium anche simbolico volto a canalizzare in forma retributiva o di rivalsa sentimenti di rabbia, frustrazione e rancore socialmente diffusi specie in periodi di crisi come quello in cui viviamo) E il discorso potrebbe continuare, per cui rimandiamo ad ulteriori spunti di analisi e momenti di confronto anche recenti rinvenibili su questo stesso giornale (cfr. ad esempio le diverse opinioni di qualificati interlocutori riportate da Annalisa Chirico in “Contro la Repubblica dei pm”, nel Foglio del 2 dicembre, nonché il dialogo tra Alessandro Barbano e Vittorio Manes pubblicato nell’edizione del 16 dicembre). Tutto ciò premesso, penso tuttavia che Panebianco abbia senz’altro ragione nel denunciare la scadente cultura democratica di una parte non piccola delle élite del nostro paese. Dal canto mio, aggiungerei che risulta scarsa la cultura (non solo politica, ma) anche “giuridica”, oltre che dei ceti dirigenti, dei cittadini in genere. Come ho avuto più volte occasione di sperimentare, molte persone, pure se appartenenti agli strati più colti, non hanno idee chiare sui principi basilari della responsabilità penale, e neppure sulle implicazioni derivanti dal principio costituzionale della divisione dei poteri. Questa ignoranza giuridica di fondo spesso induce a considerare “giusta” anche in diritto la soluzione desiderata in base ad aspettative politiche o a premesse morali; oppure, ad esempio, a considerare normale, anzi meritorio che un pubblico ministero occupi la scena politico-mediatica come un tribuno del popolo e simili. Così stando le cose, si comprende bene allora come le contrapposte tifoserie pro-giudici e anti-giudici abbiano potuto prendere il piede che hanno preso per lo più sulla scorta di motivazioni per dir così eteronome, cioè che nulla o poco hanno a che fare con il diritto o la giustizia in sé considerati. In conclusione riterrei, dunque, che un recupero dei principi della democrazia liberale abbia tra i suoi presupposti un miglioramento qualitativo sia della cultura politica, sia delle conoscenze giuridico-costituzionali dei ceti dirigenti (e - direi - dei cittadini in genere). Da professore ormai di lungo corso, vagheggio da tempo l’idea che le stesse università dovrebbero farsi carico di rendere obbligatorio per tutti gli studenti - a prescindere dallo specifico indirizzo di studio prescelto - l’apprendimento dei principi di fondo del sistema costituzionale e dell’intero ordinamento giuridico, compresi - e non ultimi - quelli relativi alla materia dei delitti e delle pene (che ve ne sia estremo bisogno possiamo tra l’altro desumerlo dall’increscioso scivolone in cui è incappato persino il ministro della Giustizia Bonafede, il quale nel corso di una trasmissione televisiva ha mostrato di non conoscere elementari regole di disciplina relative al dolo e alla colpa!). Antidoto efficace o misura illusoria? Forse, varrebbe la pena discuterne. Ma credo che sia necessario, soprattutto, sviluppare la discussione pubblica sulle cause e sui rischi della gravissima nevrosi punitiva che da tempo ci affligge e che purtroppo minaccia di aggravarsi. In mancanza di analisi sempre più approfondite, da condurre secondo prospettive disciplinari differenti e concorrenti, risulterà più difficile escogitare terapie idonee a farci raggiungere l’obiettivo cui dovremmo responsabilmente tendere: bloccare - prima che sia troppo tardi - l’avanzata di una deriva punitivista che, come un cancro produttivo di metastasi in più organi vitali del sistema sociale e politico complessivo, può infine danneggiare in modo irreversibile il funzionamento della democrazia italiana. Dalle? leggi “postdatate” alle leggi “cabriolet” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 2 gennaio 2020 Si moltiplicano le normative che entrano in vigore anche un anno dopo l’approvazione e ora pure quelle dove l’assegno normativo si rivela “scoperto” allo scadere dell’annata. Dalla “legge postdatata” alla “legge cabriolet”. Il Capodanno 2020, con l’entrata in vigore della nuova prescrizione dei processi, lungo la scala del progressivo scadere di qualità dell’iter legislativo scende l’ulteriore gradino del passaggio appunto dalla “legge postdatata” - cioè approvata il 9 gennaio 2019 ma, proprio come per l’incasso degli assegni problematici, rinviata di 12 mesi nell’entrata in vigore - alla “legge cabriolet”: quella dove l’assegno normativo si rivela “scoperto” allo scadere dell’annata, non servita (a chi pure l’aveva solennemente promesso) ad approvare intanto la mille volte annunciata riforma parallela della giustizia penale. Scena tuttavia surclassata dal record assoluto di un’altra legge (quella sulle intercettazioni) che, benché dall’approvazione nel 2017 già rinviata per tre volte nella sua entrata in vigore al primo gennaio 2020, solo 24 ore prima - il 31 dicembre 2019 - ha visto in Gazzetta Ufficiale l’affannata quarta proroga al 29 febbraio: varata dal governo sotto Natale con sprezzo del ridicolo per l’asserita “straordinaria urgenza” (formale presupposto dell’ennesimo disinvolto ricorso allo strumento del decreto legge) di completare in meno di due mesi quelle dotazioni tecnologiche non predisposte in tre anni da tre governi. “Postdatate” e “cabriolet”, a loro modo, sono pure le modifiche ai due cosiddetti decreti sicurezza e al nuovo testo sulla legittima difesa, tuttora disperse a dispetto delle “rilevanti criticità” additate dal presidente della Repubblica ormai 5 e 9 mesi fa. E il baldanzoso azzeramento della riforma dell’ordinamento penitenziario, operato dagli ultimi due governi e sostituito da niente, come risultato ha chiuso il 2019 con sempre più detenuti (61.174) in sempre meno posti (49.476, da cui detrarne 3.000 inagibili). Palla avanti e poi si vede, insomma. Che però di rado è il modulo per vincere le partite. Dopo la riforma della prescrizione lo scontro si sposta sui tempi del processo penale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2020 Martedì il vertice di governo. Restano distanti le posizioni tra Pd e Cinque Stelle. È tutt’altro che stemperata la polemica sulla prescrizione all’interno della maggioranza. Ma, assodata l’entrata in vigore del blocco dopo il primo grado, ora la linea di scontro si sposta sul processo penale e sulle misure per dare concretezza alla asserita volontà di tutte le forze politiche di assicurare tempi certi ai giudizi penali. Con un vertice già fissato per martedì prossimo, 7 gennaio, e con un paletto sostanziale messo dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, “quello che è uscito dalla porta non può rientrare dalla finestra”. E cioè: qualsiasi tentativo di resuscitare la prescrizione appena soppressa, deve essere accantonato. No secco quindi alla proposta Pd, cristallizzata nel disegno di legge depositato venerdì alla Camera e al Senato, per una semplice, seppure ampia, sospensione dei termini, nemmeno se scollegata dall’esito del giudizio di primo grado (come invece prevedeva la Orlando, che il temporaneo stop dei tempi lo contemplava solo in caso di condanna). Ma no anche a quella prescrizione processuale, suggerita dal Pd, con decadenza dell’azione penale in caso di mancato rispetto dei (predeterminati) tempi di ogni grado di giudizio. Bonafede ha “concesso” al massimo una corsia preferenziale per lo svolgimento degli appelli di chi è stato prosciolto in primo grado e una forma agevolata di accesso al risarcimento per eccessiva durata, già previsto dalla Legge Pinto. Proposta considerata indigeribile dal Pd e assolutamente al di sotto del necessario. Così sul tavolo restano in vista del summit le indicazioni messe a punto dal ministero della Giustizia nel disegno di legge di riforma del processo penale. Dove si prevede una durata non superiore a 6 anni (3 per il primo grado, 2 per l’appello, i per la Cassazione, come stabilito dalla legge Pinto) per i procedimenti penali a più elevato tasso di complessità, per esempio quelli in materia di criminalità organizzata e terrorismo, ma anche i più gravi delitti contro la pubblica amministrazione e l’economia. La durata, sempre nel penale, scende a 4 anni complessivi per i fascicoli di competenza del giudice unico, con l’ulteriore precisazione che, dal 2022, la durata complessiva scenderà ancora sino a 3 anni, 1 anno per grado di giudizio. A 5 anni è prevista la durata per i residui giudizi attribuiti al tribunale in composizione collegiale. A presidio l’eventuale sanzione disciplinare per il magistrato che, per negligenza, non rispetti i tempi in più di un quanto dei fascicoli a lui assegnati. Prescrizione, riforma al via: 30mila processi ogni anno non avranno più scadenza di Valentina Errante Il Messaggero, 2 gennaio 2020 Adesso è davvero legge. Esulta Luigi Di Maio e, soprattutto, manifesta tutta la sua soddisfazione il Guardasigilli, Alfonso Bonafede: la prescrizione è stata abolita. E mentre il Pd resta scettico e l’Unione camere penali annunciano battaglia “per arrivare all’abrogazione della legge Bonafede”, che sembra non piacere a nessuno se non ai pentastellati, bisogna fare i conti con l’appesantimento del carico di lavoro per i Tribunali: secondo i dati 2018, diffusi dal ministero della Giustizia, sono circa 30mila i processi che, con lo stop dopo il primo grado, rischiano di rimanere “aperti” senza termine. Un numero che potrebbe crescere, se si considerano i procedimenti in corte d’appello. Gli effetti non saranno immediati, dal momento che la norma non è retroattiva. E i tempi sono ancora più lunghi di quanto valutato dal premier Giuseppe Conte: le conseguenze della nuova legge si potranno avvertire nel 2028, visto che la prescrizione, per i reati meno gravi, è attualmente di sette anni. Secondo i dati forniti dal ministero della Giustizia, i procedimenti penali prescritti in Corte d’appello e Cassazione, nel 2018, sono stati 29.862. I numeri sono in calo: dal 2016 al 2018 da 136.888 si è passati a 117.367 (-14 per cento). L’imbuto è la Corte d’Appello, dove i processi che si chiudono con la prescrizione negli ultimi due anni sono aumentati del 12 per cento. Una media di un processo su quattro. A determinare la flessione complessiva, comunque, è il numero dei procedimenti interrotti durante le indagini preliminari (dai 72.840 del 2016 si è passati a 48.735 del 2018). Una cifra che resta comunque molto elevata, perché riguarda quasi il 41 per cento dei procedimenti. La riforma non riguarderà, almeno in primo grado, il 75 per cento dei processi che in questa fase, finora, vengono definiti. E lo stop non avrà gli stessi effetti nei diversi distretti del Paese. Le statistiche, infatti, variano a seconda delle Corti d’Appello. A Milano, Lecce, Palermo, Trieste, Caltanissetta e Trento, durante il secondo grado di giudizio, la percentuale di prescrizioni non raggiunge il 10 per cento. A Venezia e Torino, invece, i giudizi che si interrompono in corte d’Appello superano il 40 per cento dei procedimenti definiti. L’appesantimento potrebbe riguardare anche Catania, che nel 2018 aveva raggiunto il 37,8 per cento di estinzioni per prescrizioni, seguita da Perugia e Roma con il 36 per cento. “Il primo gennaio del 2020 - commenta Di Maio, in una diretta Facebook - è un giorno importante perché entra finalmente in vigore la legge sulla prescrizione. Prima si perdeva tempo e si riusciva a farla franca, ora se vieni condannato in primo grado la prescrizione non esiste più, devi arrivare a sentenza”. Il leader del Movimento Cinque Stelle rivela che “Se è saltato il governo ad agosto è anche perché non si voleva approvare la prescrizione” e annuncia la legge per accorciare i tempi del processo. Bonafede, si dice orgoglioso ma anche lui punta a una riforma complessiva: “Adesso dobbiamo metterci al lavoro - ha sottolineato il Guardasigilli - compatti per la riduzione dei tempi del processo perché è giusto che tutti i cittadini abbiamo diritto a un processo che abbia una durata breve e ragionevole nel penale e nel civile”. E dopo le critiche arrivate dall’Anm, l’Unione camere penali torna ad annunciare la propria mobilitazione: “Prosegue la battaglia contro l’abolizione della prescrizione”. Comincia così la nota con la quale gli avvocati penalisti, presieduti da Domenico Caiazza, comunicano “lo stato di agitazione a sostegno di questa campagna politica che, lungi dall’essersi conclusa, prosegue ora con obiettivi ancora più ambiziosi e determinati”. L’attacco a Bonafede è diretto: “Nonostante il prossimo e preannunciato vertice di maggioranza - si legge nella nota - perdura il silenzio del ministro della Giustizia in ordine alla richiesta dei dati statistici su quali siano i reati che ogni anno si prescrivono, fino ad oggi non a caso sistematicamente nascosti alla pubblica opinione”. Gli avvocati paventano un ricorso giurisdizionale e ribadiscono il proprio sostegno al progetto di legge Costa (Forza Italia) per l’abrogazione di quella che definiscono “la controriforma Bonafede della prescrizione”. L’obiettivo è il referendum. Il M5S festeggia lo scalpo della prescrizione, trattativa in salita di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 2 gennaio 2020 Di Maio: “L’abbiamo tolta di mezzo”. Bonafede: “Sono orgoglioso”. Martedì il vertice con Conte, il Pd indica una via d’uscita al ministro ma la trattativa è molto difficile. Cos’è cambiato da ieri mattina nel processo penale lo spiega con incontrollata franchezza il ministro Di Maio, naturalmente in diretta Facebook: “Dal primo gennaio è entrata in vigore la legge che toglie di mezzo la prescrizione”. È quello che tutti i critici della riforma introdotta quasi un anno fa dal governo M5S-Lega, ma rimasta sospesa fino a ieri, hanno sempre spiegato. I 5 Stelle hanno cancellato, “tolto di mezzo”, l’istituto della prescrizione. Che adesso dopo la sentenza di primo grado non esisterà più e i reati si potranno perseguire a vita. Per tutti, non solo “se vieni condannato”, come dice Di Maio, ma anche se vieni assolto in primo grado. La prescrizione non viene “sospesa”, come pure recita testualmente l’articolo uno della legge anti corruzione, semplicemente perché non c’è un termine di conclusione della sospensione. Viene cancellata, “così come siamo stati abituati a conoscerla non esiste più”, dice - in un’altra diretta Facebook - il Ministro della giustizia Alfonso Bonafede non usa alcuna cautela nel maneggiare l’argomento che pure divide di netto la sua maggioranza: da una parte i 5 Stelle dall’altra Pd, Italia viva e Leu. “Io rispetto l’opinione di tutti”, premette, e prontamente si smentisce: “Devo dire che sono molto orgoglioso”. Orgoglioso di una riforma che per i suoi alleati è niente di meno che incostituzionale. Con queste premesse, il primo appuntamento politico del nuovo anno si conferma molto difficile. Martedì 7 gennaio davanti al presidente del Consiglio torneranno a litigare Bonafede, il sottosegretario Giorgis che è un esponente del Pd e i rappresentanti dei partiti della maggioranza. Italia viva addirittura ha intenzione di non farsi vedere, considerando inutile un vertice a riforma della prescrizione già entrata in vigore. Vero è che, trattandosi di norma di diritto sostanziale, si applicherà solo ai reati commessi dal 1 gennaio, e dunque i suoi effetti pratici si vedranno tra qualche anno. Resta il fatto che una eventuale correzione lascerebbe in vigore, per tutto il tempo che servirà a farla diventare legge, il regime che da ieri si applica ai nuovi reati. Portato a casa il risultato e consentito a tutti i social di marca grillina di rivendicare il successone, nelle intenzioni di Bonafede di prescrizione non bisognerebbe più parlare. Ma solamente mettersi “al lavoro compatti per la riduzione dei tempi del processo perché è giusto che tutti i cittadini abbiano diritto a un processo che abbia una durata breve e ragionevole”. Più che giusto è un preciso obbligo costituzionale, per raggiungere il quale Bonafede si affida alla più volte annunciata riforma del processo penale. Nelle bozze che circolano da mesi, dal tempo del precedente governo, non si va oltre qualche accelerazione in tema di notifiche. Ecco allora che il dissenso tra i 5 Stelle e gli altri partiti di governo verte sulle conseguenze da prevedere nel caso questa durata “ragionevole” non dovesse essere garantita. Per i grillini prevale l’interesse dello stato: “Nessuna rinuncia dello stato a una verità definitiva”, hanno scritto ieri sul blog. Per gli altri deve prevalere il diritto dell’imputato che non può essere sottoposto all’”ergastolo processuale”, a un procedimento cioè potenzialmente eterno. Con molto ottimismo, il Pd tiene aperta una via d’uscita per Bonafede: “Non chiediamo abiure”, ripete il responsabile giustizia Verini. I dem offrono un loro disegno di legge che dà un senso alla “sospensione” della prescrizione: congelata per un temine massimo di due anni e mezzo tra il processo di primo grado e l’appello e di un altro anno tra l’appello e la Cassazione. Avendo una proposta agli atti, il Pd troverà più semplice non votare il disegno di legge di Forza Italia che invece cancella semplicemente la riforma Bonafede (e così riporta in vita quella dell’ex guardasigilli Pd Orlando). Ma dal giorno successivo al vertice, l’8 gennaio, il testo di Forza Italia si farà strada in commissione alla camera; i renziani si dicono pronti a votarlo e allora il Pd dovrà bere fino in fondo l’amaro calice, votando contro e schierandosi in difesa della riforma Bonafede. Altrimenti il governo andrà sotto. Prescrizione. Dal no alla norma del M5S la nuova sfida dei penalisti di Errico Novi Il Dubbio, 2 gennaio 2020 Nella delibera dell’Ucpi il piano per ribaltare le “mistificazioni populiste”. I fronti, sulla nuova prescrizione, sono due: uno politico, l’altro strettamente parlamentare. Ma nella controffensiva alla riforma in vigore da ieri, il primo livello è presidiato dai penalisti prima che dai partiti. È una delibera dell’Ucpi, approvata a San Silvestro, a fissare infatti la road map: “Pieno sostegno alla legge Costa”, che cancella appunto la norma voluta dal guardasigilli Bonafede, e “incontri con le forze politiche sulla possibilità di costituite un comitato promotore del referendum”, ovviamente abrogativo. Due passaggi che non a caso coincidono con i “piani” del parlamentare oggettivamente più attivo nell’opporsi alle nuove regole sull’estinzione dei reati, Enrico Costa. A Capodanno il deputato di FI individua gli stessi snodi: “Abrogazione lampo”, con il sì alla sua proposta in un solo articolo, oppure “non resterà che il referendum abrogativo”. Ma è ancora nella delibera con cui l’Ucpi proclama lo “stato di agitazione degli avvocati penalisti italiani” che si coglie la possibile svolta per la battaglia garantista, a partire proprio dalla legge che abolisce la prescrizione dopo il primo grado. L’associazione presieduta da Gian Domenico Caiazza individua infatti un ulteriore obiettivo, che sembra strettamente funzionale all’iniziativa contro la norma Bonafede, ma che in realtà può aiutare a promuovere una visione liberale di giustizia finora messa in minoranza nel Paese. Si tratta dell’”impegno dei penalisti italiani contro la incivile campagna di mistificazione e di inganno della pubblica opinione sulle reali dinamiche e sulla effettiva incidenza dell’istituto della prescrizione”. Ecco: è forse il terreno più interessante. Perché supera le stesse modifiche al codice in vigore da ieri: può coinvolgere forze politiche e culturali nello sforzo di contrastare la più generale deriva giustizialista nell’opinione pubblica, e può farlo a partire appunto dall’impegno degli avvocati. Non è una sfida semplice. Ma la riforma che rende i processi penali potenzialmente infiniti è un colpo di tale durezza da poter scuotere una mobilitazione trasversale. La maggiore “consapevolezza” delle “gravi implicazioni” prodotte dalla nuova prescrizione, secondo l’Unione Camere penali, “ha consolidato il formarsi di un trasversale consenso parlamentare alla posizione di ferma contrarietà a quella riforma” anche tra “autorevoli componenti della attuale maggioranza”. Tanto che “la legge Costa vede ogni giorno crescere concrete prospettive di approvazione”. Ed ecco il secondo livello, quello strettamente parlamentare. Che i penalisti pure leggono in chiave positiva. Non senza qualche buon motivo. Perché tra meno di una settimana, l’8 gennaio, scadrà in commissione Giustizia il termine per presentare emendamenti alla proposta di FI. Dopodiché si potrebbe andare in aula in tempi brevi. I numeri non lo escludono: sono sul filo. Pure a voler dare per scontato che il Pd resterà fermo nel no alla legge Costa, i componenti di 5 Stelle e dem, messi insieme, non sarebbero maggioranza: 22 su 45. Dipende dunque da cosa faranno le altre forze di governo: nella sua intervista di fine anno alla Stampa, Matteo Renzi ha ribadito che i suoi deputati saranno “costretti a votare assieme a Forza Italia” se Bonafede non “capisce che deve cambiare approccio”. Dato per certo il sì dell’intera opposizione al testo forzista, bisogna capire se con Italia viva sarebbero disposti a votare contro la nuova prescrizione anche i due nomi-cuscinetto (e decisivi): l’ex salviniano Carmelo Lo Monte e Federico Conte di Leu. Realistico che il primo si schieri contro la riforma dei 5S, più difficile che lo faccia il deputato di un gruppo che, come Liberi e uguali, annovera anche voci pro-Bonafede, Pietro Grasso in primis. Difficile ma non impossibile, visto che Costa ieri si è detto pronto a mettere il suo testo “a disposizione di tutti, affinché si trovi la sintesi”. Vuol dire apertura a trasformare il suo unico articolo, meramente abrogativo, in qualcosa di più ampio, in cui potrebbero trovare spazio ipotesi interessanti proprio come quelle già offerte a Bonafede da Federico Conte. E certo sarebbe davvero clamoroso se a Montecitorio si compisse subito il passaggio dal piano politico a quello parlamentare nella battaglia disegnata dai penalisti. Penalisti in campo con Costa: appello ai partiti democratici di Paolo Comi Il Riformista, 2 gennaio 2020 Delibera delle Camere penali: la legge sostenuta dal parlamentare di Forza Italia va approvata. Polemica durissima con Bonafede. Le Camere penali continuano la battaglia contro l’abolizione della prescrizione. La misura Che rende eterno il processo è entrata in vigore ieri. E proprio ieri, nel giorno di Capodanno, la giunta della Camere penali ha consegnato alla stampa una delibera, molto articolata e molto polemica, nella quale chiede alle forze politiche favorevoli alla democrazia e al diritto di appoggiare la proposta di legge presentata dal parlamentare di Forza Italia Enrico Costa. Cioè la misura per abrogare la cancellazione della prescrizione. Il documento dell’Ucpi, firmato dal Presidente Gian Domenico Caiazza e dal segretario Eriberto Rosso, inizia con una nota polemica diretta al ministro: “Nonostante il prossimo e preannunciato vertice di maggioranza, perdura il silenzio del Ministro di Giustizia in ordine alla richiesta dei dati statistici su quali siano i reati che ogni anno si prescrivono, fino ad oggi non a caso sistematicamente nascosti alla pubblica opinione e al Parlamento della Repubblica, e incredibilmente persino al Governo che il prossimo 7 gennaio 2020 dovrà discutere sul tema della prescrizione senza conoscerne i dati”. Per questa ragione le Camere penali annunciano un formale ricorso giurisdizionale “per ottenere una semplice verità statistica sulla prescrizione che demolirebbe il castello di menzogne sulle quali è stata costruita una delle più sgangherate e pericolose riforme della storia repubblicana”. Le Camere penali sono convinte che se si conoscessero i dati si ribalterebbe l’idea che la prescrizione protegge i potenti, in realtà protegge i “poveri cristi” e gli imputati di piccolo reati. Subito dopo il documento annuncia “pieno sostegno al progetto di legge Costa per l’abrogazione della controriforma Bonafede della prescrizione” e conferma l’idea, lanciata nei giorni scorsi, di promuovere un referendum per abrogare la riforma Bonafede. Poi la giunta polemizza con l’informazione “per i monologhi a senso unico sui media e la incivile campagna di mistificazione e di inganno della pubblica opinione sulla prescrizione, condotta senza ritegno dal fronte populista, perfino con la manipolazione spudorata degli scritti di Cesare Beccaria - e qui il riferimento è al Fatto Quotidiano - per acquisire falsamente il grande giurista - simbolo dell’Ucpi”. La delibera approvata dai penalisti è articolata in diversi punti. Possiamo riassumerla in cinque capitoli. 1- L’entrata in vigore della riforma della prescrizione era stata rinviata di un anno, a fine 2018, in modo da permettere la riforma del processo. La riforma del processo non c’è stata. Tuttavia, sebbene siano rimaste inalterate dopo un anno le condizioni che avevano giustificato il rinvio da parte del precedente governo e del medesimo Ministro di Giustizia, la nuova compagine governativa, ad onta delle ripetute dichiarazioni di ferma censura nei confronti di detta riforma da larga parte della nuova maggioranza, ne ha invece consentito la promulgazione, cedendo in tal modo a ragioni di mera propaganda e comunicazione politica esplicitamente rivendicate dal Ministro Bonafede e dai parlamentari del suo movimento di appartenenza. 2- Grazie soprattutto alla battaglia delle Camere penali si è creato “un trasversale consenso parlamentare e politico alla posizione di ferma contrarietà a quella riforma, non solo nelle fila della opposizione ma anche nell’ambito di forti ed autorevoli componenti dell’attuale maggioranza parlamentare; e la proposta di legge abrogativa della riforma, primo firmatario l’On. Enrico Costa, già calendarizzata, vede ogni giorno crescere consenso e dunque concrete prospettive di approvazione”. 3- “L’ obiettivo politico prioritario dei penalisti italiani è l’abrogazione della riforma della prescrizione, e tutte le energie e le capacità di iniziativa politica di Ucpi saranno ora rivolte alla realizzazione, nei tempi più ravvicinati possibile, di tale obiettivo, innanzitutto promuovendo e sostenendo in ogni modo la proposta di legge Costa. Per le stesse ragioni, l’Unione delle Camere penali Italiane intende promuovere nelle prossime settimane una serie di incontri con le forze politiche e parlamentari che si vanno raccogliendo intorno a detto disegno di legge, per valutare la concreta ed effettiva possibilità di costituire un Comitato Promotore del referendum abrogativo della riforma Bonafede della prescrizione”. 4- “Sono trascorsi, senza esito, oltre dieci giorni dalla formale richiesta avanzata dall’Ucpi al Ministro Bonafede di rendere noti, tramite l’Ufficio Statistica del Ministero di Giustizia, i dati fino ad oggi non a caso sistematicamente nascosti alla pubblica opinione e al Parlamento della Repubblica, che possano finalmente chiarire quali siano i reati che ogni anno si prescrivono nel nostro Paese, in modo da confermare o invece sconfessare la vulgata mistificatoria e populista che afferma essere la prescrizione lo strumento dei potenti e dei privilegiati per sottrarsi alla giustizia penale”. 5- “Perdurando il silenzio del Ministro di Giustizia sulla richiesta dell’Ucpi, l’Unione procederà con una formale richiesta di accesso ai dati della Pubblica Amministrazione con conseguente ricorso giurisdizionale, a tutela e garanzia del diritto alla conoscenza ed alla trasparenza della cosa pubblica, retoricamente invocata ma prudentemente rinnegata da parte di chi evidentemente è consapevole che la semplice verità statistica sulla prescrizione demolirebbe il castello di menzogne sulle quali è stata costruita una delle più sgangherate e pericolose riforme della storia repubblicana. P.S. Proprio ieri il ministro Bonafede ha esultato sui social per l’entrata in vigore della sua riforma. La distopia della prescrizione di Piero Tony Il Foglio, 2 gennaio 2020 Terminare un processo nei tempi era l’unico assillo di giudici e avvocati. E ora? Distopia e prescrizione. Se il ministro della Sanità, al fine di combattere l’anomala morìa di pazienti in un ospedale disastrato, si limitasse ad abolire le certificazioni di morte, il provvedimento verrebbe definito abnorme ossia tanto aberrante da meritare di essere considerato pericolosamente bizzarro. Lo stesso se il ministro dei Trasporti, ossessionato dai continui ritardi ferroviari, per farla finita abolisse i treni. Più o meno quello che si rischia possa accadere in relazione all’ultima riforma della prescrizione: visto che il sistema è tanto disorganizzato e tanto lento da non riuscire nemmeno in 25 anni a provare la responsabilità del signor Tizio e da incappare dunque troppo spesso nella prescrizione, il ministro della Giustizia ed i suoi accoliti hanno deciso di risolvere la questione a modo loro. Tenteranno di risanarlo? Non sia mai, sarebbe davvero troppo complicato! Pare abbiano pensato di risolvere i problemi assicurando al sistema tutto il tempo che vuole, anche l’eternità se necessaria per capire. È l’uovo di Colombo e nessuno se ne era accorto prima. C’è da non credere! In buffa assenza di qualsiasi previsione transitoria o di chiusura (ad esempio mediante un regime di prescrizione processuale negli eventuali ulteriori gradi di giudizio) e prima di un qualsiasi intervento migliorativo (ultra note le lentezze e le incancrenite disfunzioni, stra-noto il sottodimensionamento di organici e risorse sia umane che tecnologiche, tanto grave da rendere vano il serio impegno della grande maggioranza degli operatori), che ti farà con grande giubilo il sorridente ministro della Giustizia? Da ieri, 1° gennaio 2020, farà piombare dal cielo come fulmine la sua trovata - tanto strepitosa che nessuno degli imbecilli dei suoi predecessori l’aveva mai nemmeno immaginata - congelando i termini di prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Con la differenza che nel primo caso bizzarro la morìa ospedaliera continuerebbe come prima e bastantemente, nel caso della brillante pensata sull’eternità, sia l’inefficienza del sistema sia le condizioni delle persone in esso sistema coinvolte come già non bastasse si aggraverebbero ancor più, anzi si aggraveranno visto che è ormai cosa certa. Se il giovane ministro della Giustizia avesse avuto il tempo di maturare maggiore esperienza nelle aule saprebbe, infatti, che nella quotidianità giudiziaria l’approssimarsi della prescrizione è da sempre un incubo per magistrati e cancellerie, ma anche l’unico sprone a non perdere ancor più tempo ed anzi ad accelerare i lavori nei limiti del possibile, ossia quasi impercettibilmente, nella speranza di riuscire a sottrarsi ad una fine ingloriosa. Niente più che un pannicello, forse, visto l’irragionevole stato di una giustizia imperiosamente bradisistemica, ma meglio che niente. Se il giovane ministro della Giustizia avesse avuto il tempo di riflettere, avrebbe sicuramente capito che bloccare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado senza aver portato a regime, prima, una adeguata riforma sistemica comporterà l’eliminazione di quell’unico assillo e, come sicura conseguenza, affollamenti ed accumuli sempre più congestionati ed un acquietarsi ancora più carico di tempi morti sulle nuvole dell’indecisione… un procedimento quasi eterno. Ed avrebbe anche compreso - altrimenti non avrebbe sponsorizzato riforma così assurda - cosa esattamente significhi restare per anni, a volte oltre i 20, sotto schiaffo come indagato o in speranzosa attesa di giustizia come vittima. Perché nell’impari gioco delle parti del procedimento penale ci sono autorità sovraordinata e sottoposti dipendenti, incudine e martello. Per il solo fatto della pendenza da una parte esercizio di sommo potere dall’altra stato di sottomissione pressoché assoluta. Perché ogni persona sottoposta ad un procedimento penale resta per ciò solo svalutata e sospesa dal diritto di vivere la propria vita in modo pieno e libero, marcatamente diminuita quanto ad immagine, autorevolezza, prerogative di cittadinanza. Insomma un menomato sociale. A causa di questa riforma il nostro paese è ad un passo da una svolta epocale. Cambia l’intero genoma della nazione, da una parte i fortunati cittadini risparmiati dal caso e dall’altra quelli di serie B, una infinita schiera di anime dannate volteggianti alla Gustavo Doré per intenderci, coloro che “misericordia e giustizia li sdegna, non ragioniam di lor ma guarda e passa” (Inferno, canto III, v. 5051), zombi in eterna attesa dell’esito del processo, insicuri e sfiduciati, un po’ timorosi di qualche visita all’alba un po’ speranzosi della buona notizia dell’avvocato un po’ anestetizzati d’assurdo. La prescrizione - come si sa - estingue un reato che non c’è in quanto non ancora provato nella sua sussistenza e proscioglie un cittadino imputato che è ancora presunto non colpevole, ossia non colpevole alla pari di tutti quelli che non hanno mai avuto beghe con la giustizia; è insomma nient’altro che una fictio resa sacrosanta dal tanto tempo trascorso inutilmente, una sorta di “vabbè chiudiamo, non c’è trippa per gatti”. E come mai il tanto tempo trascorso ha indotto i legislatori, da sempre e dappertutto nel caso di lentezze pregiudizievoli fino al disumano, ad introdurre nell’ordinamento una fictio tanto radicale? Si dice perché dopo tanti anni al vento non può non essere cessato l’interesse punitivo dello Stato, o perché lo scorrere del tempo ha modificato il contesto denunciato e soprattutto la necessità di rieducazione del responsabile, o perché vuolsi che il pubblico ministero possa manifestare - mediante comportamento concludente quale la lentezza - una sorta di benevolente comprensione in ordine a reati di non eccezionale gravità… e così via. Se ne dicono di tutti i colori. Tutto ma non quello che appare unica certezza: prescrizione dopo tempi lunghissimi - decenni per i delitti più gravi (artt. 157161 del Codice penale) - presuppone disorganizzazione, inefficienza, inadeguatezza prognostica degli inquirenti su quando sia il caso di chiedere l’archiviazione e non sprecare tempo insistendo in investigazioni prevedibilmente infruttuose (art.125 disp. att. Codice di procedura prnale), soprattutto incapacità di provare, nonostante tutti quegli anni, la responsabilità del presunto non colpevole. Un po’ come la storia della volpe e l’uva, a pensarci bene. Sicché fictio e prescrizione, al solo fine di non far pagare a Tizio l’incapacità degli altri. Se le cose stanno così - e che stiano così lo comprovano documentalmente codici e dati statistici - c’è solo da sperare che i governanti prima o dopo se ne rendano conto e, anche in sintonia con una loro posizione di garanzia quantomeno etica, come convertiti sulla via di Damasco riformino… la riforma almeno almeno almeno predisponendo ragionevoli prescrizioni processuali. Mirabelli: “Legge che va contro la Costituzione, si viola la ragionevole durata dei processi” di Barbara Acquaviti Il Messaggero, 2 gennaio 2020 Il Presidente emerito della Consulta: “si riducono soltanto le garanzie per i cittadini”. La legge che prevede lo stop della prescrizione dopo il primo grado di giudizio “va contro i principi costituzionali per più di una ragione” a cominciare dall’assunto che “l’esercizio del potere punitivo dello Stato non può essere indefinito nel tempo”. Il presidente emerito della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli, sottolinea più di una volta il concetto di “ragionevole durata” inserito nella Carta dai padri costituenti. A suo giudizio presidente è anche “irragionevole” pensare che “se lo Stato non riesce a rispettare i tempi dei processi, per evitare che ci sia la prescrizione, decida di eliminarla”, anche perché “c’è un altro principio costituzionale per il quale l’imputato non è considerato colpevole fino alla sentenza definitiva”. Insomma, presidente, lei è d’accordo sulla diagnosi della malattia ma non sulla cura scelta? “Esattamente. Mi pare ci sia un impegno forte di tutte le forze politiche di governo a ricondurre i processi, e quelli penali in particolare, a una ragionevole durata. Ma, paradossalmente, se questo è l’impegno diventa inutile proprio la norma che ferma la prescrizione”. Quindi la considera una legge sbagliata a prescindere dagli interventi che si posso fare sulla riforma della giustizia? “Ci possono essere altri strumenti che sterilizzano alcuni tempi del processo o dell’impugnazione ai fini del calcolo della prescrizione, ma sempre in un ambito di ragionevolezza. Eliminarla del tutto significa diminuire le garanzie per i cittadini, non accrescerle”. Quali altri strumenti ci possono essere? “Ricordo che la Costituzione dice che la legge assicura una ragionevole durata del processo, non è una previsione generica. Questo vuole dire che è un dovere assicurare per ogni processo questo risultato. E durata ragionevole vuol dire processi che si concludano in tempi brevi e certi e che non diano luogo possibilmente alla prescrizione. La prescrizione dovrebbe essere l’ultimo rimedio. C’è poi un altro aspetto”. Quale? “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Ma si può parlare di rieducazione del condannato quando l’accertamento del fatto avviene dopo un numero enorme di anni rispetto a quando l’atto è stato compiuto?”. C’è anche il rischio che si annulli la differenza tra reati più o meno gravi? “Certo, ci sono reati molto gravi, come i crimini contro l’umanità, per cui la prescrizione non c’è, ma anche altri per cui è di così lunga durata da consentire di svolgere in maniera ampia il processo e arrivare all’accertamento dei fatti. Toglierla totalmente, di certo assimila situazioni che sono molto diverse e questo è un altro aspetto di dubbia legittimità costituzionale”. Pensa che la controproposta del Pd possa essere utile per mitigare gli effetti dello stop alla prescrizione? “Quella proposta ha una logica, nel senso che salvaguarda il principio costituzionale e prende atto di alcune difficoltà che ci possono essere nella celebrazione dei diversi gradi di giudizio, sospendendo la prescrizione in quel lasso di tempo. Questo rientra nella discrezionale valutazione del legislatore nel determinare i tempi della prescrizione in un ambito di ragionevolezza. Del resto, possibilità di sospensione ce ne sono già se, per esempio, l’allungamento dipende da condotte dilatorie”. Il ministro della Giustizia Bonafede esulta per l’entrata in vigore di questa riforma che piace a molti magistrati ma per niente agli avvocati. Crede che la sua sia una posizione sbilanciata? “Non leggerei la questione come una partita tra magistrati e avvocati. Qui c’è un interesse dello Stato a punire i colpevoli, e a farlo con un giusto processo, e il diritto dei cittadini a non essere sottoposti a giudizio senza limiti di tempo”. “No a questo ergastolo processuale. Ci ascoltino e Conte trovi una sintesi” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 2 gennaio 2020 Verini, responsabile Giustizia dem: noi abbiamo fatto la nostra proposta. Il ministro Alfonso Bonafede è “orgoglioso” dell’abolizione della prescrizione. Walter Verini, da responsabile giustizia del Pd, cosa ne pensa? “Sventola la bandiera identitaria. Lo capisco. Ma se si parla solo alle curve delle tifoserie non si va lontano”. Che intende dire? “Occorre rimuovere il macigno identitario e passare alla fase dell’ascolto delle ragioni degli altri”. Ma anche il leader M5S Luigi Di Maio esulta. Ci saranno ripercussioni nel governo? “Di Maio dice che bisogna fare un nuovo “contratto”. Espressione superata. Ne siglò uno con la Lega mettendo insieme punti di ispirazione opposta provocando gravi danni al Paese con Salvini. Noi siamo una coalizione con obiettivi comuni, senza bandierine da issare a turno. E comunque...”. Comunque? “Tre forze politiche su quattro che sostengono il governo considerano la legge oggi in vigore sbagliata: non chiediamo abiure, ma non accettiamo diktat. Bonafede ha la responsabilità di fare un passo avanti e al premier Conte di trovare la sintesi”. Conte non ha annunciato retromarce… “Non ha detto che è un obbrobrio. Però ha ammesso che se non accompagnata da altre riforme (che non ci sono) rischia di ledere le garanzie dei cittadini”. Quindi cosa chiederete il 7 gennaio? Di portare la riforma del processo subito in Consiglio dei ministri? “Quello è un tema. Ma l’ergastolo processuale” di Bonafede così com’è non va. Abbiamo fatto la nostra proposta. Non siamo rigidi. Ora tocca agli altri”. Quando il presidente Mattarella ha chiesto di “non lesinare sforzi sulla giustizia” parlava anche a voi? “Il Presidente ha fatto un discorso di coesione al Paese per raggiungere l’obiettivo la politica dovrebbe dare il buon esempio. Se la maggioranza riuscisse ad avere un’anima sui grandi temi e le rigidità venissero meno si potrebbe aprire un grande dibattito sul sistema giustizia e la riforma del processo penale. E non dell’uso strumentale della giustizia come si fa da una parte e dall’altra”. Un punto di caduta potrebbe essere la prescrizione processuale invece che la prescrizione dei reati? “Per noi la via maestra è trovare una sintesi. Differenziare tra assoluzione o condanna. Differenziare a seconda della gravità del reato. Ma credo che dobbiamo smettere di parlarci attraverso i giornali. Invece dobbiamo metterci intorno a un tavolo per trovare la sintesi”. E se la sintesi non si trovasse? Votereste con Forza Italia la proposta di abolizione? “Voteremmo la nostra proposta che abbiamo già depositato e che non andrà alle calende greche”. La proposta Costa (Fi) arriverebbe prima. E con i voti della Lega farebbe cadere subito la legge Bonafede… “La Lega ha fatto passare la legge Bonafede-Bongiorno sulla prescrizione in CdM, e l’ha votata in Parlamento. Costa ha molto da farsi perdonare in tema di giustizia: dal garantismo a fasi alterne del suo partito con le leggi ad personam al fatto che da sottosegretario si dimise contro la riforma Orlando e ora ne invoca il ritorno. Noi non amiamo queste furbizie”. Ma anche Matteo Renzi, in nome del garantismo, è pronto a votarla. Voi? “Sottovaluta la strumentalizzazione: Forza Italia ha l’obiettivo di far cadere il governo e far tornare Salvini che diceva: “In galera e buttiamo la chiave” ed “è sempre legittimo sparare in casa”. Che c’è di garantismo in questo?”. Intercettazioni, riforma in vigore dal 1° marzo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2020 Scelta delle intercettazioni rilevanti al Pubblico ministero, copia degli atti rilevanti ai difensori, uso dei captatori informatici più ampio, cade il rischio di incriminazione per il giornalista che pubblica l’intercettazione. Queste alcune delle novità più significative contenute nel decreto sulle intercettazioni (Dl 161/2019) in vigore dal 1 marzo 2020. Il decreto, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 31 dicembre scorso, interviene con diverse modifiche sulla riforma Orlando (Dlgs 216/2019), la cui operatività era stata fatta slittare più volte. Le nuove regole affidano al Pubblico ministero e non più alla polizia giudiziaria, la selezione delle intercettazioni che interessano le indagini “il pubblico ministero - si legge nel testo - dà indicazioni e vigila affinché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge, salvo che si tratti di intercettazioni rilevanti ai fini delle indagini”. Non ci sarà l’introduzione del nuovo delitto, previsto nel testo dell’ex guardasigilli, di diffusione di immagini o registrazioni acquisite in modo fraudolento, con il solo fine di danneggiare la reputazione. Un crimine che avrebbe colpito prevalentemente i giornalisti, per i quali restano le regole attuali. I verbali e le registrazioni sono immediatamente trasmessi al Pm per la conservazione nell’archivio informatico. E il deposito deve avvenire entro cinque giorni dalla fine delle operazioni, salvo il rischio di un grave pregiudizio per le indagini: in tal caso il Pm può ritardarlo, non oltre la chiusura delle indagini preliminari. Le conversazioni non importanti ad avviso del Pm saranno segrete ma potranno essere ascoltate dai difensori che potranno anche vedere i verbali al solo scopo di farle inserire tra quelle rilevanti. In caso di dissenso con il Pm la decisione spetterà al giudice. I difensori possono invece ottenere la copia dei colloqui rilevanti. Per quanto riguarda l’impiego dei virus trojan le intercettazioni tra presenti saranno utilizzabili, anche come prova, per reati diversi da quelli per i quali l’ascolto è stato autorizzato, se compresi tra quelli indicati dall’articolo 266 comma 2-bis del Codice penale, tra i quali rientrano anche i delitti contro la Pa commessi da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio. Una misura a completamento del percorso di sostanziale parificazione ai delitti di criminalità organizzata, almeno per quanto riguarda la disciplina delle intercettazioni. Va al procuratore della Repubblica la responsabilità di dirigere e sorvegliare l’archivio digitale. Le registrazioni sono conservate fino alla sentenza non più soggetta ad impugnazione. Ma gli interessati, se la documentazione non è più necessaria, possono chiederne la distruzione, a tutela della privacy, al giudice che ha autorizzato l’ascolto che decide in camera di consiglio. Il provvedimento, che seguirà l’iter parlamentare per la conversione, chiarisce che per le indagini in corso valgono le regole ora in vigore, mentre le nuove scattano per le iscrizioni di reato successive al 29 febbraio 2020. “Ho scelto il carcere per una giusta causa”. La lettera della no-tav arrestata di Francesca Spasiano Il Dubbio, 2 gennaio 2020 Capelli rosso fuoco e l’immancabile bandiera No Tav attorno al collo: il volto storico della lotta in Val di Susa, Nicoletta Dosio, 73 anni, si stampa sugli striscioni dei militanti raccolti nella notte di capodanno davanti al carcere Lorusso e Cotugno di Torino in cui la donna è detenuta da lunedì. “Sto bene, sono contenta della scelta che ho fatto perché è il risultato di una causa giusta e bella, la lotta NoTav che è anche la lotta per un modello di società diverso e nasce dalla consapevolezza che quello presente non è l’unico dei mondi possibili”, fa sapere Nicoletta in una lettera dal carcere indirizzata ai tanti che in queste ore le stanno esprimendo solidarietà e sostegno. In tutta Italia infatti i militanti che si oppongono all’alta velocità si sono raccolti nelle piazze per “brindare simbolicamente con Nicoletta” nella notte più lunga dell’anno ed esprimerle vicinanza e affetto. Dopo il presidio del 31 dicembre a Susa, il fitto programma di incontri è proseguito nella giornata di ieri con una fiaccolata serale a Bussoleno. “Sento la solidarietà collettiva e provo di persona cosa sia una famiglia di lotta. L’appoggio e l’affetto che mi avete dimostrato quando sono stata arrestata, e le manifestazioni la cui eco mi è arrivata da lontano, confermano che la scelta è giusta e che potrò portarla fino in fondo con gioia. Parlo di voi alle altre detenute e ripeto che la solidarietà data a me è per tutte le donne e gli uomini che queste mura insensate rinchiudono”, scrive ancora Dosio, arrestata lunedì nella sua casa di Bussoleno, dove i cittadini si sono riversati in strada per rallentare l’auto che la trasportava. Ex insegnante in pensione, la pasionaria del movimento Notav, da due anni anche tra le coordinatrici nazionali di Potere al Popolo, era stata condannata di recente in via definitiva a un anno di carcere per violenza privata e blocco autostradale per una dimostrazione del 2012 sull’autostrada del Frejus: un gruppo di manifestanti aveva aperto le sbarre di un casello autostradale della Torino- Bardonecchia, causando danni alla società autostradale. A differenza degli altri undici attivisti condannati, Dosio aveva sempre dichiarato di essere pronta ad andare in carcere e di non voler chiedere misure alternative come i domiciliari. “Per ottenerle dovrei riconoscere il disvalore della mia condotta, esercito così, ancora una volta, la mia libertà”, aveva ripetuto la donna in questi mesi. Le reazioni di sdegno e denuncia per la sua carcerazione hanno attraversato la politica e le istituzioni, e non solo negli ambienti più vicini al movimento NoTav. “C’è davvero uno strano concetto di giustizia in questo Paese”, ha affermato Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana-Leu, mentre l’esponente Pd e sottosegretario all’Ambiente, Roberto Morassut, ritiene l’arresto “sproporzionato, una misura sbagliata e senza senso”. “Non condivido nulla del movimento No Tav, ma le proteste anche scomode e con le quali non si è d’accordo non vanno ignorate”, ha commentato Morassut. Rifondazione comunista e Partito comunista italiano invece parlano di decisione “ingiustificabile” da parte della Procura Generale di Torino che avrebbe dato “dimostrazione dell’ossessione repressiva contro il movimento No Tav”. L’unica “colpa” della donna, prosegue Rifondazione “è di essere irriducibilmente No Tav, di continuare ad anteporsi alla realizzazione di un’opera affaristica, inutile, dissipativa di colossali somme di denaro pubblico”. Anche l’Unione sindacale di base esprime piena solidarietà a Nicoletta e “invita tutte le proprie strutture a mobilitarsi per la sua liberazione”. Intanto il procuratore generale di Torino, Francesco Enrico Saluzzo, che ha “personalmente emesso il provvedimento di revoca della sospensione dell’esecuzione della pena” replica alle espressioni di critica sulla vicenda definendole “infondate ed anche inappropriate”. “Il mio Ufficio ha applicato con rigore, come fa ogni giorno, le norme che ci sono date e che sono presidio di legalità e di imparzialità”, ha spiegato Saluzzo, sottolineando che “la signora Dosio ha avuto molte possibilità di scelta, decisioni, esclusivamente sue, che, come per ogni altro condannato in situazione simile, le avrebbero consentito di non espiare la pena in carcere. Dopo la sospensione dell’ordine di esecuzione, disposta dal mio Ufficio, ha avuto trenta giorni di tempo per chiedere una delle misure alternative previste dal nostro ordinamento. Non lo ha fatto; anzi, ha pubblicamente proclamato anzi di non avere alcuna intenzione di presentare istanze”. Per i Giuristi Democratici si tratta invece di “una storia sbagliata” e intervengono sul caso per esprimere il loro impegno “a difesa del sacrosanto diritto alla protesta contro la regina delle grandi opere inutili”. “I giuristi democratici - si legge in una nota chiedendo un radicale cambio di rotta nella gestione dei conflitti sociali e ambientali, quale è certamente quello relativo al progetto Tav, che dovrebbe tornare a essere materia di un serio, civile, realistico e produttivo confronto tra comunità e governi locali e centrali, anziché materia di giudizi penali e ostentazione di potere militare e di ordine pubblico”. Una campagna per la grazia a Nicoletta Dosio di Livio Pepino Il Manifesto, 2 gennaio 2020 No Tav. Chiediamo al Capo dello Stato di concederle la grazia: non come provvedimento di clemenza ma come atto, sia pur tardivo, di giustizia e come segnale di cambiamento di una politica e di un intervento giudiziario che mostrano sempre più il loro fallimento. L’arresto di Nicoletta Dosio non sarà indolore. In valle e in decine di città si rincorrono manifestazioni e presidi di protesta mentre lo slogan “Nicoletta libera!” riempie i social. Tutti del resto colgono l’assurdità di rinchiudere in carcere Nicoletta mentre sono in libertà bancarottieri, condannati per corruzione, politici che hanno fatto strame del bene comune. L’ingiustizia è stridente e apre gli occhi su quel che davvero è accaduto e accade in Val Susa. Con il rifiuto di chiedere misure alternative al carcere Nicoletta - come il Bartleby di Melville con il suo irremovibile “preferirei di no” - ha messo a nudo le prevaricazioni del sistema e la pratica, contro i dissenzienti, di un “diritto penale del nemico” fatto di attenuazione del carattere personale della responsabilità (Nicoletta è stata condannata non per comportamenti specifici ma “perché ha partecipato scientemente alla manifestazione”), di deliberata confusione tra presenza e concorso nel reato, di applicazione spropositata della custodia cautelare in carcere (definita, in alcuni casi di violenza a pubblico ufficiale, “il minimo presidio idoneo a fronteggiare in modo adeguato le consistenti ed impellenti esigenze cautelari”), di mancata concessione di misure alternative per la il solo fatto di “essere No Tav e di abitare in Valle” (come accaduto a Luca Abbà) e di molto altro ancora. Grazie a Nicoletta “il re è nudo”. Non è certo la prima volta in cui le istituzioni reagiscono alle lotte sociali con un surplus di repressione. Ma, nella storia nazionale, ci sono stati momenti in cui la politica (una politica interessata, in qualche misura, al bene comune) ha saputo riprendere il suo ruolo. È accaduto, per esempio, nella primavera del 1970 quando un Parlamento pur a maggioranza moderata (con un governo a guida democristiana) colse che l’aspra conflittualità dell’autunno caldo dell’anno precedente, con oltre 10.000 denunciati per una pluralità di reati, non poteva canalizzarsi, senza ferite permanenti, nelle aule dei tribunali. Venne così varata l’ultima amnistia politica (concessa con l’art. 1 del decreto presidenziale 22 maggio 1970) estesa a tutti i reati “commessi, anche con finalità politiche, a causa e in occasione di agitazioni o manifestazioni sindacali o studentesche, o di agitazioni o manifestazioni attinenti a problemi del lavoro, dell’occupazione, della casa e della sicurezza sociale e in occasione ed a causa di manifestazioni ed agitazioni determinate da eventi di calamità naturali” punibili con una pena non superiore nel massimo a cinque anni e, sempre alle stesse condizioni, per la violenza o minaccia a corpo politico o amministrativo, la devastazione, gli attentati alla sicurezza di impianti, il porto illegale di armi o parte di esse e l’istigazione a commettere taluno dei reati anzidetti. Disse, allora, il relatore della legge autorizzativa dell’amnistia che occorreva dare risposta al “disagio diffuso nella pubblica opinione che, pur deprecando taluni episodi di autentica delittuosità e pericolosità sociale, ritiene in gran parte sproporzionata e sostanzialmente ingiusta la rubricazione di quelle vicende sotto titoli di reato che erano stati dettati in un’epoca in cui era sconosciuta la realtà storica dei conflitti che caratterizzano tutti gli Stati moderni”. Oggi il clima, avvelenato da furori repressivi di diverso segno, è assai diverso. I decreti sicurezza approvati dalla maggioranza gialloverde (e rimasti immodificati con quella giallorosa) hanno nuovamente penalizzato il blocco stradale, aumentato le pene per le occupazioni di stabili e previsto specifici e abnormi aggravamenti sanzionatori per la resistenza o violenza a pubblico ufficiale e reati consimili se commessi “nel corso di manifestazioni”, così ribaltando persino l’impostazione del codice fascista che prevedeva (e formalmente prevede) come attenuante “l’aver agito sotto la suggestione di una folla in tumulto”. Quanto all’amnistia, la sua stessa evocazione è considerata blasfema, tanto che, a seguito della demagogica riforma costituzionale del 1992, occorrono, per vararla, maggioranze parlamentari più ampie di quelle previste per le modifiche della Carta fondamentale. La politica si guarderà bene dal riprendere un ruolo di governo lungimirante della società. E tuttavia la scelta di Nicoletta non può restare relegata nell’ambito di una coerenza etica individuale. Il suo è un gesto politico e deve avere un seguito politico. Nell’immediatezza dell’arresto l’associazione “Volere la luna” ha chiesto al Capo dello Stato di concederle la grazia: non come provvedimento di clemenza ma come atto, sia pur tardivo, di giustizia e come segnale di cambiamento di una politica e di un intervento giudiziario che mostrano sempre più il loro fallimento. Non ci sarà l’amnistia e, probabilmente, neppure la grazia, riservata nel Belpaese a chi è organico al potere di sempre (da Sallusti, a Bossi, agli agenti della Cia condannati per il sequestro di Abu Omar). Ma l’apertura di una campagna per la grazia avrebbe comunque l’effetto di costringere la politica, la cultura, il mondo del lavoro a schierarsi sulla libertà di dissentire, sul valore della libertà personale, sull’entità del potere punitivo. E non sarebbe poca cosa. Sequestro beni delle aziende: competenza del giudice senza retroattività di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2020 In caso di sequestro dei beni delle aziende il giudice che ha emesso il provvedimento può decidere sulle modifiche al regime di amministrazione dei beni sottoposti al vincolo anche durante la pendenza del procedimento. Una regola che, precisa la Cassazione con la sentenza 51973 del 24 dicembre scorso, vale solo per i sequestri disposti nel vigore della nuova normativa: la legge 161 del 2017, entrata in vigore il 19 novembre del 2017, con il quale è stato modificato il Codice antimafia. Per i sequestri precedenti, come il caso esaminato, il giudice chiamato a risolvere tutte le questioni che riguardano il sequestro preventivo è quello che procede. La Suprema corte precisa, infatti, che la nuova normativa processuale è priva di una disciplina transitoria, ed è dunque sottoposta al criterio del tempus regit actum, secondo il quale la legge non dispone che per l’avvenire ed è priva di effetto retroattivo. Il chiarimento si è imposto dopo che il Gip del Tribunale di Napoli - che doveva decidere su questioni relative all’amministrazione giudiziaria dei beni aziendali sottoposti a sequestro per equivalente, nell’ambito di un procedimento per reati finanziari - dopo la dichiarazione di incompetenza del Tribunale partenopeo, ha ritenuto a sua volta la propria incompetenza funzionale e trasmesso gli atti alla Cassazione per la soluzione del conflitto negativo di competenza. E l’indicazione della Cassazione è arrivata. I giudici di legittimità precisano, infatti, che essendo del tutto innovativa la competenza del giudice che ha emesso il decreto di sequestro, per reati diverso da quelli previsti dall’articolo 416-bis comma 1 del codice penale, non ha effetto retroattivo secondo le disposizioni dettate dall’articolo 11 delle disposizioni sulla legge in generale. Bancarotta fraudolenta se manca la prova sull’effettivo utilizzo dei beni aziendali di Andrea Magagnoli Il Sole 24 Ore, 2 gennaio 2020 Cassazione -Sezione V penale -Sentenza 3 dicembre 2019 n. 49136. Bancarotta fraudolenta configurabile se manca la prova relativa all’effettivo utilizzo dei beni aziendali. Lo afferma la Corte di cassazione con la sentenza 49136/2019 depositata il giorno 3 dicembre 2019. Il caso di specie - Il caso di specie trae origine dalla condanna di un imputato per il reato di bancarotta fraudolenta. Si trattava in particolare dell’amministratore di una società condannato per avere distratto una parte dei beni aziendali, tanto da sottrarli alla loro funzione di garanzia della ragioni di eventuali creditori della persona giuridica. Ad avviso dei giudici di merito dall’accertamento di tale condotta conseguiva la configurabilità della condotta criminosa sanzionata dall’ articolo 216, comma 1, n.1 della legge fallimentare. L’imputato, tuttavia ritenendosi leso nei propri diritti, ricorreva allora per cassazione con apposito atto del proprio legale, ove vi deduceva che nulla gli poteva essere contestato né tantomeno il reato di bancarotta fraudolenta, erroneamente ritenuto sussistente nel caso di specie, da parte dei giudici di merito. In particolare osservava il ricorrente nella propria tesi difensiva, di non aver mai distratto i beni facenti parte del capitale sociale tanto da non farne venir meno la loro funzione di garanzia alle ragioni di eventuali creditori della persona giuridica che avrebbero potuto ottenere il pagamento di eventuali crediti sui beni costituenti il capitale sociale. Dopo aver compiuto il proprio corso il procedimento veniva deciso dagli ermellini con la sentenza qui in commento. Il reato di bancarotta fraudolenta - La questione di una certa importanza riguarda un reato di frequente applicazione nel corso delle procedure fallimentari; l’illecito di bancarotta fraudolenta può consistere infatti (in una delle sue configurazioni ai sensi del n. 1 comma 1 articolo 216 della legge fallimentare) in una condotta distrattiva dei beni facenti parte del capitale sociali tanto da farli venir meno alla loro funzione di garanzia delle ragioni dei creditori sociali, in fase applicativa pertanto diviene necessario delimitare con esattezza i contorni della condotta criminosa definendo quando si possa ritenere sussistente la distrazione dei beni della persona giuridica. Tale condotta deve in particolare estrinsecarsi in un comportamento che determini l’impossibilità di reperire i beni sociali, così da ledere in maniera definitiva le ragioni di eventuali creditori della persona giuridica. In un solo modo osservano i giudici della Corte suprema di cassazione è possibile che venga meno la responsabilità del soggetto al quale è imputabile l’attività di distrazione, si tratta dell’ipotesi in cui esso dà prova che i beni siano stati destinati a un fine legittimo e conferente con la funzione loro assegnata dalla normativa. In tale caso non si potrà dare corso alla contestazione del reato di bancarotta fraudolente venendo meno i presupposti oggettivi. La responsabilità dell’imputato - Nel caso di specie l’imputato era sicuramente responsabile per due ordini di motivazioni: relativa alla sua posizione in seno alla persona giuridica e alla mancanza della prova circa una legittima destinazione dei beni dei quali era stata contestata la distrazione. Infatti al momento dell’esecuzione della procedura fallimentare l’amministratore svolgeva tale funzione nei confronti della società della quale era stato dichiarato il fallimento e proprio per tale posizione avrebbe dovuto avere un compito di tutela del capitale sociale in modo da garantirne l’integrità e la salvaguardia, invece egli aveva tenuto una condotta palesemente contraria. In Campania diritti negati ai minori affidati alle Comunità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 gennaio 2020 La denuncia arriva dal Garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello. “Nelle Comunità campane per i minori, il diritto alla salute è negato”, ha denunciato il Garante regionale delle persone private della libertà Samuele Ciambriello durante la sua conferenza stampa di fine anno relativa alla relazione sui minorenni e i giovani detenuti. Il Garante in sintesi denuncia il rischio che alcuni diritti fondamentali siano assicurati per chi è in carcere, mentre siano totalmente negati per chi è affidato alle comunità per minori o per adulti con problemi di tossicodipendenza. Ciambriello e le comunità residenziali della Campania hanno ribadito l’importanza di alcuni diritti fondamentali, e per quanto riguarda il diritto alla salute, il ripristino dell’esenzione del ticket per i minori dell’area penale e corsi di formazione. “Noi comunità alloggio, insieme al Garante dei detenuti chiediamo aiuto perché stiamo portando avanti una battaglia di civiltà e di giustizia che, al momento, ci vede soccombere. Stiamo provando a riaffermare il diritto alla salute pubblica gratuita per i minori dell’area penale che accogliamo nelle nostre comunità e che viene negato. Una discriminazione ancora più forte se si pensa che per i loro coetanei ristretti presso gli Istituti penali minorili questo diritto è invece garantito”, così hanno scritto in una lettera aperta al ministro della Salute Roberto Speranza, e al presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca. “La comunità non può essere una panacea e/o vivere l’isolamento istituzionale e degli enti locali”, si legge sempre nella lettera aperta illustrata dal garante Ciambriello che ha fortemente sottolineato un dato allarmante: 7.600 persone detenute nell’area esterna. Nell’ultimo anno si sono verificati tre suicidi per persone sottoposte ad arresti domiciliari. Gli assistenti sociali per quest’area sono solamente ventiquattro. Altri dati importanti emergono dalla relazione aggiornata al 15 novembre 2019 sui minorenni ed i giovani adulti in carico ai servizi minorili. In Campania vi sono 70 detenuti minorenni detenuti a Nisida e Airola. 1130, invece, sono i minorenni e giovani adulti in carico agli Uffici di servizio sociale per i minorenni a Napoli di cui 387 presi in carico per la prima volta nel 2019. Minorenni ai quali i diritti alla sanità ed alla formazione professionale citati dal garante Ciambriello e dalle comunità sono negati. La questione centrale sul diritto alla salute è il ripristino dell’esenzione assicurata da leggi nazionali e dal Dpr 448/88, dove vengono descritte le finalità istituzionali rappresentate dall’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria, soprattutto la garanzia dei diritti soggettivi dei minori come il diritto alla salute ed ad una crescita armonica, sia fisica che psicologica; diritto all’istruzione, al lavoro, alle attività ludiche, alla socializzazione e il diritto alla non interruzione dei processi educativi in atto ed al mantenimento dei legami significativi. Firenze. Detenute madri, appello al ministro: “Sblocchi la casa” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 2 gennaio 2020 Bambini in carcere, da Sollicciano parte un appello al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede affinché si sblocchi la situazione dell’Icam, l’istituto a custodia attenuata per le detenute madri il cui progetto è stato ratificato nel 2010 da Ministero, Regione e Comune ma i cui lavori non sono mai partiti. A lanciarlo è l’associazione Progetto Firenze insieme al cappellano del penitenziario don Vincenzo Russo, che si rivolgono anche al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini. “A Firenze i tempi per l’apertura dell’Icam si sono dilatati all’infinito - ha detto Massimo Lensi di Progetto Firenze - Da quando furono compiuti i primi passi nel lontano 2006, poco è stato fatto di concreto: solo una lunga fila di rinvii a tempo illimitato, burocrazie e tante promesse. Siamo nel 2020 e l’unica struttura territoriale per i bambini e le loro madri detenute è tuttora il nido del carcere di Sollicciano”. L’Icam, secondo l’iniziale progetto, doveva sorgere sulla palazzina di Rifredi donata gratuitamente dalla Madonnina del Grappa. Oggi però l’immobile, la cui gestione spetterebbe alla Società della Salute, affonda nel degrado e la gara d’appalto per iniziare la ristrutturazione non è stata fatta. “Nel nostro ordinamento - ha proseguito Lensi - esiste una legge, la numero 62/2011, rivolta a favorire il rapporto tra madre e figlio minore, nel corso del processo penale e durante l’esecuzione della pena. Una legge dello Stato che contiene dei limiti e delle incertezze, certo, ma che a Firenze potrebbe essere applicata con facilità grazie alla disponibilità di una struttura di accoglienza e a una forte coesione politica territoriale”. Secondo il cappellano don Russo, “da anni si continua a giocare sulla pelle dei bambini, farli crescere in carcere è gravissimo, oltre che incostituzionale”. Nel frattempo, per migliorare le condizioni di vita dei bambini di Sollicciano, Palazzo Vecchio ha raccolto la proposta lanciata al Corriere Fiorentino del direttore del carcere Fabio Prestopino di portare all’asilo nido o in ludoteca i piccoli. “Stiamo lavorando a un progetto comune - ha detto l’assessore all’istruzione Sara Funaro - per permettere ai bimbi in carcere di vivere più tempo lontano dalle sbarre”. Questo progetto però, secondo l’associazione Progetto Firenze, “non può che essere una misura temporanea”. Firenze. In carcere non si vota, per questo interessa poco alla politica di Enrico Nistri Corriere Fiorentino, 2 gennaio 2020 Il mondo del carcere interessa relativamente poco all’opinione pubblica. È un mondo chiuso e prevale spesso la convinzione che chi vi è recluso se la sia cercata, anche se buona parte dei carcerati è costituita da detenuti in attesa di giudizio, per cui vale la presunzione d’innocenza. A maggior ragione, il mondo del carcere sembra interessare poco ai politici. I detenuti non votano, anche perché larga parte di loro è costituita da stranieri; se poi si tratta di bambini, detenuti al seguito delle madri, il disinteresse non cambia. Se non votano i grandi, figuriamoci i piccoli, condannati da colpe non loro a vivere i primi anni della loro vita dietro le sbarre. Quanto è successo, e soprattutto quanto non è successo a Firenze nella casa di reclusione di Sollicciano ne costituisce una conferma. I servizi sul Corriere Fiorentino lo documentano ampiamente. Esisterebbe una legge dello Stato, la 62 del 2011, che prevede la possibilità di favorire il rapporto fra mamme e figli minori durante l’attesa di giudizio o l’espiazione della pena attraverso l’istituzione di Istituti a custodia attenuata per madri detenute. Ma a Firenze ci sarebbe molto di più: una palazzina, a Rifredi, che la Madonnina del Grappa ha donato dieci anni fa alla Società della Salute per la realizzazione di una casa accoglienza. E ci sarebbe anche un protocollo d’intesa con le firme di ministero della Giustizia, Tribunale di sorveglianza, Istituto degli Innocenti, nonché della Regione, che ha stanziato 700.000 euro per i lavori di ristrutturazione. Invece tutto è rimasto bloccato, per le more burocratiche, in un disinteresse generale scosso solo nelle ultime settimane dalle dichiarazioni di don Vincenzo Russo, nella sua duplice veste di direttore della Madonnina del Grappa e di cappellano del carcere di Sollicciano, e di Massimo Lensi, dell’associazione “Progetto Firenze”. Esiste, è vero, la disponibilità del Comune a lavorare su un progetto per consentire alle associazioni di volontariato di accompagnare i figli delle detenute all’esterno del carcere, ma si tratta comunque di una soluzione provvisoria. C’è da sperare che, anche una volta venuto meno il clima di commozione legato alle festività natalizie, politica e burocrazia riescano a superare i residui intralci. Chi ha sbagliato è giusto che paghi, anche perché per reati bagatellari è difficile oggi andare in carcere, ma senza pregiudicare il diritto dei bambini a vedere un cielo senza grate. In un’arcaica etica veterotestamentaria le colpe dei padri potevano ricadere sui figli. Le colpe delle madri, nemmeno lì. Palermo. “Anche i detenuti hanno dei diritti”: protesta davanti al carcere Ucciardone palermotoday.it, 2 gennaio 2020 Organizzato un presidio davanti all’istituto penitenziario “in nome di Papa Francesco e Marco Pannella” per ribadire “la necessità e l’urgenza dell’istituzione della figura del garante”. Presidio davanti al carcere Ucciardone ieri per il Comitato ‘Esistono i diritti’. Dopo aver manifestato davanti Palazzo delle Aquile, sede del Comune, nel 2019 per chiedere al Consiglio comunale che il regolamento sul garante comunale per i diritti delle persone detenute “venga con urgenza messo in discussione”, il nuovo anno per il comitato è iniziato con un sit-in davanti all’istituto penitenziario “in nome di Papa Francesco e Marco Pannella” per ribadire “la necessità e l’urgenza dell’istituzione della figura del garante”. “Abbiamo consegnato una lettera al presidente del Consiglio comunale Orlando con la quale chiediamo di convocare con urgenza la conferenza dei capigruppo affinché venga messa all’ordine del giorno la discussione del regolamento per la sua approvazione. Palermo sia città pilota per tutte le città siciliane”, dice il presidente del comitato Gaetano D’amico. Per il vice presidente, Alberto Mangano, “un atto come questo, che tutela diritti fondamentali della persona, non può essere oggetto di tatticismi d’aula o di interessi di partiti e deve vedere un voto di approvazione unanime”. “Le carceri stanno vivendo un momento storico negativo, non solo per il sovraffollamento che rappresenta già un grave problema, ma per la mancanza di una visione generale del sistema carcerario - dice l’ex parlamentare regionale Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia. Diminuiscono i reati e aumentano, in maniera sproporzionata, i detenuti. L’area metropolitana di Palermo ospita quattro carceri e circa 1.800 fra uomini, donne e minori detenuti, per questo urge nominare il garante”. All’iniziativa hanno aderito l’Osservatorio sulle carceri della Camera penale, l’associazione dei Giuristi siciliani, il movimento No Muos, Antigone e l’associazione Mete Onlus. Oristano. Presidio della Polizia penitenziaria: “Servono le camere di sicurezza in ospedale” di Elia Sanna L’Unione Sarda, 2 gennaio 2020 I sindacati unitari della Polizia penitenziaria manifesteranno il prossimo 7 gennaio sotto la Assl di Oristano per chiedere di istituire le camere di sicurezza nell’ospedale San Martino. Sono anni che le organizzazioni sindacali di categoria sollecitano la politica e i vertici della sanità oristanese a mettere mano alla realizzazione delle camere di sicurezza nel principale presidio sanitario della città. L’obiettivo dei sindacati (Sappe, Osapp, Uilpa, Sinappe, Uspp, Cisl, Cgil e Cnpp) è quello di assicurare la tutela dell’incolumità, non solo al personale della polizia penitenziaria, ma anche agli operatori sanitari e degli utenti. “Ci troviamo costantemente a piantonare detenuti di ogni tipologia e grado di pericolosità nelle corsie degli ospedali - si legge in una nota - senza che possano essere garantiti gli standard minimi di sicurezza. La camera di degenza dei detenuti piantonati può essere raggiunta da chiunque, in qualsiasi momento senza che possa impedirlo con conseguenze gravissime. Il personale ha giù subito delle aggressioni da qualche paziente ricoverato, esponendosi a rischi e alle criticità conseguenti di eventuali malori dei componenti della scorta come accaduto anche di recente. Le camere di sicurezza danno maggiori garanzie a tutti coloro che all’interno degli ospedali si prodigano per tutelare la salute dei pazienti e l’incolumità del personale civile”. La manifestazione è fissata per martedì alle ore 9,30 in via Carducci davanti alla Assl. Milano. I detenuti-stilisti di Bollate creano abiti ispirati a Leonardo di Carolina Masserani Il Giornale, 2 gennaio 2020 Un incontro d’arte e storia con il genio da Vinci, grazie anche a una collaborazione tra l’ambiente artistico e quello carcerario. In programma nelle sale di Palazzo Morando fino al 5 gennaio (ingresso libero), la mostra “Leonardo prigioniero del volo”: esposti 30 abiti ispirati alla creatività leonardesca, un evento per le celebrazioni dei 500 anni dalla morte dello scienziato-artista. Già, proprio così: la moda e l’arte rendono omaggio al grande personaggio. I “maghi di ago e filo” hanno costruito via via una vera e propria narrazione, ricreando le macchine e le invenzioni di Leonardo da Vinci. Il percorso della mostra si snoda nelle sontuose stanze del Palazzo, dedicate a questi capi di abbigliamento di alta sartoria che raccontano pure mesi di ricerca, precisione, abilità, tecnica e creatività. Le sculture in tessuto riaccendono la macchina dei sogni di Leonardo e sollecitano la fantasia dei visitatori che volano dal passato al presente, attraverso geometrie di stoffa, legno, metallo. In particolare, qualche abito ricorda la passione del genio rinascimentale per il volo e le leggi dell’aerodinamica. Alla realizzazione dell’esposizione hanno contribuito la onlus Catena in Movimento, con Cristian a capo del laboratorio sartoriale presente all’interno della seconda Casa di Reclusione di Milano Bollate e il Teatro della Moda che ha messo a disposizione dieci creazioni dei suoi allievi. In campo anche stilisti e pittori emergenti e affermati, la mostra è stata curata dal funzionario giuridico-pedagogico del carcere di Bollate, Simona Gallo. Il progetto di rieducazione e re-inserimento sociale ha coinvolto 40 detenuti che si sono ispirati ai quadri e alle macchine per volare, da guerra e da lavoro di Leonardo. Catena in Movimento, associazione nata circa due anni e mezzo fa, ha già portato avanti dei progetti, tra questi due mercatini il cui ricavato è stato devoluto a fondazioni o associazioni di promozione sociale. Tutti gli abiti saranno messi all’asta a sostegno della Casa Sollievo Bimbi, hospice pediatrico per l’accoglienza di minori gravemente malati e il sostegno alle loro famiglie aperto ad aprile 2019 da Vidas (“Leonardo prigioniero del volo”, allestita a Palazzo Morando Costume Moda Immagine in via Sant’Andrea 6, è visitabile da martedì a domenica dalle 9 alle 13 e dalle 14 alle 17,30, informazioni al numero 02.88465735). Napoli. Il regalo di Natale per le detenute del carcere femminile di Amalia De Simone Corriere della Sera, 2 gennaio 2020 Giuseppina è libera dopo sei anni, Giovanna per la prima volta rivede le sue figlie. E all’interno del carcere si organizza un presepe vivente aperto alla città. Festeggiare il Natale con la libertà è il regalo più grande, talmente grande che non ti fa sentire il freddo. E così Giuseppina varca la soglia del carcere con una t-shirt e una felpa sbottonata, le buste in mano e alle spalle sei anni dietro le sbarre, di sofferenza ma anche di rinascita. In prigione ha imparato e trovato un lavoro che comincerà appena dopo le feste. Il Natale ha un regalo anche per Giovanna che per la prima volta ottiene un permesso per poter vedere le sue figlie e trascorrere tre giorni con loro. Entrambe escono dal carcere femminile di Pozzuoli dove solo pochi giorni prima avevano avuto l’opportunità di avere un contatto con l’esterno. Grazie all’educatrice Adriana Intilla, al direttore Carlotta Giaquinto e alle insegnanti, le detenute hanno portato in scena un presepe vivente multietnico e multi culturale, aprendo le porte della prigione alla città. E così il mondo di “fuori” ha visto cosa succede “dentro” e ha potuto capire che dietro ogni detenuto ci può essere una storia e una volontà di cambiare. Nel carcere femminile di Fuorni le detenute hanno fatto un piccolo albero di Natale e poi hanno addobbato le loro stanze con delle palline e dei pupazzi creati con pezzi di stoffa e il polistirolo. “Abbiamo fatto tanti regali per i nostri bambini e per i nipoti”, dice Anna mostrando dei pupazzi. Nel carcere si sente la musica di Assia Fiorillo, una cantautrice che sta lavorando con le detenute e che per il Natale prova ad insegnare loro la canzone “Happy Xmas (War is over)” di John Lennon. “La guerra non è solo quella dei paesi lontani, ci sono tanti tipi di guerra: quelle con sé stessi, quelle in casa e poi le guerre sui nostri territori come quelle di camorra”, spiega alle ragazze Assia, che tra uno scherzo e l’altro l’ascoltano con attenzione e poi raccontano le loro battaglie. “La peggior guerra è quella dei cuori bui”, dice Giusy. “Questa sofferenza deve aiutarci a non sbagliare più”, racconta Giovanna, riflettendo sui tanti errori. Anna pensa ai suoi due figli: di Mario non ha più saputo nulla perché ne ha perso la patria potestà; Carlo invece potrà vederlo per Natale dopo quattro anni lunghissimi. Il direttore del carcere Rita Romano insieme all’educatrice Monica Innamorato, ha voluto creare un’occasione di incontro tra le detenute e loro figli con uno spettacolo di magia e la distribuzione di regali arrivati da tutta Italia grazie al progetto gli “Ultimi saranno...”. E così molte detenute hanno potuto regalare giocattoli, vestitini e dolci a nipoti, pronipoti e figli. “È un momento bellissimo - dice Giovanna - perché possiamo fare qualcosa insieme ai nostri bambini come se fosse un giorno normale, come guardare questo bellissimo spettacolo”. Anche Vincenza è contenta perché suo figlio adolescente è andato a trovarla ed è rimasto per lo show. “È un po’ cresciutello e ora si è anche fidanzato - dice mal celando la gelosia - ma tanto lui lo sa che c’è sempre prima la mamma”. “Mi è piaciuto che il mago trasformista richiamasse Mary Poppins - dice Rita Romano direttore del carcere - perché Mary Poppins diceva che quando ci credi tutto può accadere e io voglio portare questo messaggio all’interno del nostro carcere perché io ci credo. Io credo che anche qui possono succedere delle cose belle e la cosa più bella che può accadere è che loro non ritornino più in carcere”. Rimini. Babbo Natale in carcere per festeggiare con detenuti e famiglie riminitoday.it, 2 gennaio 2020 Iniziativa della Caritas riminese voluta fortemente dall’area educativa dell’istituto e organizzata dall’amministrazione penitenziaria. Anche alla Casa circondariale “Casetti” di Rimini si è festeggiato il Natale, grazie a un’iniziativa voluta fortemente dall’area educativa dell’istituto e organizzata dall’amministrazione penitenziaria assieme al Centro per le famiglie del Comune di Rimini (Cpf) e con l’associazione Caritas Rimini, per cercare di accorciare le distanze fra le persone recluse e i loro familiari. Il Cpf ha svolto il consueto laboratorio a sostegno della genitorialità in quattro pomeriggi all’interno del gruppo settimanale di parola “Caffè corretto” della Caritas Rimini Odv per organizzare con alcune persone detenute le letture da fare ai bambini che quel giorno sono entrati con tanta gioia in carcere assieme alle madri e alle nonne, fidanzate, mogli e madri dei loro padri detenuti. L’animazione è stata coordinata da Monica Raguzzoni, che con grande abilità e sensibilità ha saputo catturare l’attenzione dei più piccoli con giochi di prestigio. Momento clou le rappresentazioni delle storie del postino, della cena di natale, dell’anfora e l’acqua, del pesce triste e dell’uovo che si trasforma in gallina, seguite con attenzione ed entusiasmo da tutti i presenti grandi e piccoli, una trentina tra familiari, detenuti e volontari. Al termine dell’iniziativa un attesissimo Babbo Natale rappresentato dallo storico volontario Tino - del gruppo diocesano di Rinnovamento nello Spirito Santo - è comparso da dietro le quinte per regalare a tutti i figli più piccoli un pensiero da portare a casa con sé”. Libia. L’Europa pensa alle no-fly zone. Guerini: “Occorre imporre il cessate il fuoco” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 2 gennaio 2020 Una no-fly zone imposta da Germania, Italia e Francia, con l’eventuale sostegno britannico, per cercare di far tacere le armi e dettare invece la via del dialogo politico in Libia? Il 24 sera ad Erbil il ministro della Difesa Lorenzo Guerini al Corriere della Sera ha sostenuto la necessità che i Paesi europei “impongano il cessate il fuoco in Libia”. Ce lo ha ribadito durante la sua visita natalizia ai 926 militari del contingente italiano in Iraq. “L’opzione militare in Libia ha dimostrato che anziché risolvere i problemi li ha aggravati. C’è bisogno di una forte iniziativa diplomatica europea che per essere efficace non può che passare anche dall’imposizione di un cessate il fuoco”, ha dichiarato. Guerini non ha menzionato espressamente l’iniziativa della no-fly zone. Sono temi che vanno ancora discussi dal governo italiano ed in ambito europeo. Ma è da tempo che se ne parla negli Stati Maggiori europei. Il tema è complicato dal fatto che la Turchia è un membro Nato e comunque resta il tabù delle conseguenze dell’intervento militare internazionale che nel 2011 portò alla caduta del regime di Gheddafi e alla destabilizzazione della Libia. Luigi Di Maio sta organizzando una Missione Europea “per il cessate il fuoco” per gli inizi di gennaio in Libia, che sarà condotta dall’Alto Rappresentante per la Politica Estera e della Sicurezza Joseph Borrel assieme ad altri ministri europei. In effetti il tema Libia si inserisce nel contesto del ripensamento delle strategie di difesa europee di fronte ad equilibri internazionali sempre più precari, dove gli Stati Uniti e le loro forze militari da tempo ormai non forniscono più quella protezione armata che aveva garantito sicurezza e stabilità al tempo della Guerra Fredda dal 1945 e sino ai primi anni del secondo millennio. Tra gli scenari che più da vicino preoccupano gli Stati Ue, ed in particolare l’Italia, la Libia è senza dubbio quello centrale. L’incremento rapido degli interventi militari di Russia, a fianco del maresciallo Khalifa Haftar, e della Turchia, a sostegno invece della pletora di milizie schierate col governo di Accordo Nazionale guidato da Fayez Serraj a Tripoli, ha largamente spiazzato la politica europea nella regione. Non è dunque solo l’Italia oggi che rischia l’irrilevanza. La visita natalizia ai contingenti italiani all’estero diventa così uno stimolo a riflettere sul significato delle missioni militari. Sono al momento 34 quelle internazionali che vedono impegnati oltre 5.600 militari italiani. Il contingente più numeroso conta 1.100 soldati nel Libano del sud. Ma in Afghanistan ne restano ancora 800, concentrati soprattutto ad Herat. Oltre 530 soldati sono inoltre basati a Pristina per garantire la pacificazione del Kosovo. Ma non sono esclusi mutamenti della disposizione delle forze. “Vorremmo rafforzare il nostro contributo nel Sahel”, ha detto Guerini. I circa 100 soldati in Niger potrebbero dunque aumentare. Si sta anche guardando al Mali e a tutte quelle zone dell’Africa sub-sahariana dove la presenza dell’Isis e dei gruppi jihadisti si sta facendo sempre più forte e minacciosa, diventando tra l’altro motore primo dei flussi migratori verso la Libia e dunque le coste europee. Quanto all’Iraq uno dei rischi per le missioni italiane di addestramento dell’esercito e della polizia locali è che diventino complici delle gravissime politiche di repressione contro le rivolte della popolazione in corso da fine settembre. Si tratta della crisi più grave nel Paese dalla caduta di Saddam Hussein nel 2003. I bilanci ufficiali parlano di quasi 600 morti e 20.000 feriti, ma i numeri reali potrebbero essere almeno il triplo. “Stiamo valutando di aumentare il numero di addestratori dei Carabinieri in modo che insegnino alla polizia irachena a controllare i disordini senza causare vittime tra i manifestanti. L’ordine pubblico va gestito non represso nel sangue”, ha chiarito Guerini. Le sfide non finiscono qui. Proprio nelle zone a ridosso tra le regioni irachene e curde stanno infatti rinascendo numerose cellule di Isis. Agli inizi di novembre cinque soldati italiani sono rimasti gravemente feriti nella zona di Kirkuk. Segno che l’Iraq è ben lontano dall’essere stabilizzato. Iraq. Trump invia 750 soldati a Baghdad, cresce la tensione con l’Iran di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 2 gennaio 2020 Marcia indietro americana sul ritiro dei soldati dall’Iraq. Il presidente Usa: “L’Iran pagherà, è una minaccia”. Khamenei: “Colpiremo senza esitazione”. L’Iraq diventa sempre più luogo privilegiato dello scontro tra Stati Uniti e Iran. E ciò non può lasciare indifferenti neppure i responsabili della Difesa a Roma, visto che in Iraq sono stazionati quasi mille soldati italiani sotto il comando americano: una missione volta ad addestrare le forze di sicurezza irachene, oltre a monitorare l’eventualità di un ritorno in forze di Isis. Donald Trump annuncia l’invio di altri 750 soldati americani, destinati ad aggiungersi ai 5.000 che già stazionano in Iraq. Un netto mutamento di strategia, dopo i ripetuti annunci di voler ridurre drasticamente le truppe Usa nella regione. Ciò avviene mentre la retorica della guerra vede una drammatica impennata. “L’Iran sarà ritenuto pienamente responsabile per le vite perse e i danni di qualsiasi delle nostre sedi. Pagheranno un prezzo salato! Non è un avvertimento, è una minaccia. Buon Anno Nuovo!”, ha twittato la sera di Capodanno il presidente Usa. “Se qualcuno ci minaccia, con confronteremo senza esitazione e lo colpiremo”, replica dura la Guida Suprema dell’Iran, Ayatollah Ali Khamenei. Le tensioni sono cresciute dopo che la difficile e controversa alleanza dei soldati americani con esercito iracheno e milizie sciite irachene alleate e sovvenzionate dall’Iran nella comune guerra contro Isis era venuta a scemare con la sconfitta di quest’ultimo a Mosul oltre due anni fa. Negli ultimi tre mesi però lo scenario iracheno si è ulteriormente destabilizzato. È dalla fine di settembre infatti che le piazze si sono sollevate per chiedere pane, lavoro, lotta alla corruzione e un mutamento radicale dei vertici politici alla guida del Paese. La dura repressione voluta dai vertici militari ha poi causato circa 600 morti e migliaia di feriti tra i manifestanti. Originariamente nate come “apartitiche”, le rivolte hanno però gradualmente visto la crescita tra i loro ranghi di gruppi guidati dalle varie fazioni in lotta. Gli attacchi contro i consolati iraniani di Najaf e Karbala hanno avuto come reazione l’arrivo nelle piazze di miliziani armati legati all’Iran privi di qualsiasi scrupolo nell’uso di mitra contro la folla. La settimana scorsa la situazione è poi degenerata quando un missile sparato contro una base irachena ha provocato la morte di un contractor statunitense. I jet americani hanno replicato domenica bombardando le basi nell’Iraq occidentale e Siria orientale della milizia sciita filo-Teheran Kataib Hezbollah. Raid mirati, ben coordinati, che hanno causato almeno 25 morti tra i guerriglieri. Le piazze irachene, istigate da elementi fedeli all’Iran, hanno dunque reagito: la folla ha dato l’assalto al compound difeso da alti muri di cemento dell’ambasciata americana nella “zona verde” di Baghdad. Ieri e nelle ultime ore gli attacchi sono stati molto violenti. Alcuni manifestanti sono riusciti a penetrare le prime barriere e a dare fuoco ad un’area destinata al ricevimento del pubblico. Tanto che i soldati americani di guardia hanno dovuto reagire facendo largo uso di gas lacrimogeni. La polizia irachena è stata quindi inviata in forze a controllare il quartiere. Ma le manifestazioni continuano anche oggi.