Emma Bonino: “Lei, ministro, vuole solo più carcere” Il Riformista, 29 gennaio 2020 “Diminuiscono i reati, ma le galere scoppiano. In un Paese normale in carcere non marcisce nessuno”. L’intervento della senatrice di +Europa dopo la relazione del Guardasigilli sullo stato della giustizia in Italia. Signor Presidente, signor Ministro, è veramente spiacevole che questo dibattito, fondamentale, a mio avviso, in un Paese democratico, venga seguito con tale livello di distrazione. E lasciamo distrazione, che basta e avanza. Lei sa che, per cultura e per storia, il problema della malagiustizia nel nostro Paese è stato, per i Radicali tutti, il punto centrale su cui focalizzare (ma non da Tortora, da ben prima) il rapporto tra Stato e cittadini. Perché questa è una delle istituzioni principali: anzi, è l’istituzione principale in cui si sviluppa il rapporto, fiduciario o meno, tra Stato e cittadino. Io non amo, per costume, speculare su incidenti altrui, di chi inciampa su qualche svarione. Il problema è che “non ci sono innocenti in carcere” non è un suo svarione, ma è esattamente quello che lei pensa, in base a un’impostazione politica lontana da ogni impostazione liberale, che lei segue - glielo devo riconoscere - con grande trasparenza, senza nascondersi dietro niente. In base a questa impostazione di populismo giustizialista, per lei la cosa peggiore è che un colpevole sia impunito; no, per me, per la giustizia liberale in cui io credo, il dramma maggiore è che un innocente sia ingiustamente in carcere. Questa è la differenza tra noi e non risale a quest’anno, ma viene da lontano. Lei ha presente la formula “in dubio pro reo” del 533 dopo Cristo? Oppure il più contemporaneo “al di là di ogni ragionevole dubbio”? Ecco, per me, per quelli come me, l’innocente in galera è davvero l’unica violenza intollerabile. Mille e più all’anno sono le ingiuste detenzioni. Ammettiamo che ci siano rimborsi, ma del danno reputazionale, del danno emotivo, del danno familiare, del danno agli imprenditori nel loro lavoro chi risponderà? Eppure pare che semplicemente occorra aumentare le pene; più carceri e più pene, come se questa fosse la soluzione. Lei ha accennato di striscio alla situazione carceraria: faremo, diremo, vedremo, eccetera. Ma intanto, di fronte alla diminuzione di reati denunciati, noi abbiamo avuto un aumento della popolazione carceraria a 60.000 individui (circa il 130 per cento) a fronte di 47.000 posti disponibili, perché 3.000 sono inagibili. Qualcuno che era suo collega poco tempo fa ha ripetutamente detto “voglio vederli marcire in carcere”. No, in un Paese normale in carcere non marcisce nessuno. Il carcere è la privazione della libertà, non è la privazione della dignità. Mi faccia il piacere. Quando in una cella lei ha sei persone, in letti a castello, tre e tre, come la chiama? Io la chiamo privazione della dignità dell’essere umano. Se poi è anche vittima di un’ingiusta detenzione, si immagini. Ma io difendo anche i diritti alla dignità dei colpevoli. Come le dicevo, lei non si è mai nascosto dietro frasi più o meno ambigue; lei questo ha sostenuto e questo ritiene. Mi dispiace di più - e spero anzi di sbagliare - che qualche nuovo alleato si infili in situazioni compromissorie, che sono inaccettabili. Avete inventato l’imputato a vita. Sul decreto spazza corrotti le devo solo fare i complimenti, considerati i brillanti risultati che sono sulla stampa ogni giorno. Io penso che sia veramente ora di cambiare strada. Non è un piccolo aggiornamento. Lei ci ha seppellito sotto una marea di numeri e di cifre, ma il problema è che la riforma del processo penale che circola, se resta così com’è, è incostituzionale ed è una regressione rispetto all’attuale già malagiustizia. Fact-checking. Quanti innocenti finiscono in carcere e perché agi.it, 29 gennaio 2020 Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (M5S) ha sostenuto (min. 25.00) il 23 gennaio, intervistato su La7 a Otto e mezzo, che “gli innocenti non finiscono in carcere”. Questo però, come vedremo, non è vero e, dopo la polemica che è nata dalle sue parole, lo stesso Bonafede è tornato sulla questione il 24 gennaio per specificare che lui si riferiva solo a “coloro che vengono assolti (la cui innocenza è, per l’appunto, “confermata” dallo Stato)”. Vediamo allora in primo luogo perché non è vero che gli innocenti non vanno in carcere e quali sono i numeri del fenomeno negli ultimi due decenni. Perché gli innocenti finiscono in carcere - Prima di addentrarci nei dettagli delle singole ipotesi, diamo una rapida panoramica sui casi in cui un innocente può finire in carcere. In primo luogo è possibile che un imputato venga prima portato in prigione per effetto di una “misura cautelare”: già in questo caso, come vedremo, un “innocente” si trova in carcere. Se poi l’imputato viene assolto al termine del processo, parliamo di “ingiusta detenzione”. In secondo luogo è possibile che una persona condannata al carcere - con sentenza definitiva, dopo tre gradi di giudizio - venga successivamente scagionata, in questo caso parliamo di “errore giudiziario”. Andiamo a vedere meglio i presupposti normativi di queste due ipotesi. L’ingiusta detenzione - In base all’articolo 27, comma 2 della Costituzione, “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Vige insomma una presunzione di innocenza, nei confronti dell’imputato, fino a che il processo non si è concluso e la sentenza non è diventata non impugnabile. Per esigenze di prevenzione, tuttavia, è possibile che i giudici dispongano, prima che il processo si sia concluso, delle “misure cautelari” nei confronti dell’imputato, la più severa delle quali è la “custodia cautelare in carcere” (art. 285 del codice di procedura penale). In questo caso finisce in carcere un soggetto che è formalmente innocente. Si richiedono due presupposti per disporre le misure cautelari: i gravi indizi di colpevolezza da un lato e il pericolo nel lasciare a piede libero l’indagato dall’altro (in particolare pericolo di fuga, di reiterazione del reato o di inquinamento delle prove). Se al termine del processo l’imputato viene condannato, il tempo che ha trascorso in carcere - per effetto della misura cautelare - da formalmente “innocente” viene sottratto (art. 657 c.p.p.) dalla durata della pena definitiva. Ma, al di là della forma, possiamo dire che in sostanza non è stato messo in carcere un innocente. Se al termine del processo l’imputato viene invece assolto, e nel frattempo ha subito la misura cautelare della custodia in carcere, siamo sicuramente di fronte a un caso di innocente che è finito in prigione, un caso insomma di “ingiusta detenzione”. Il codice di procedura penale prevede (artt. 314 e 315) che chi ha subito un’ingiusta detenzione abbia diritto a “un’equa riparazione” per la custodia cautelare subita, un risarcimento economico che può arrivare massimo a circa mezzo milione di euro. L’errore giudiziario - Nel caso in cui il processo si sia concluso con una sentenza definitiva di condanna, non opera più la presunzione di innocenza dell’art. 27 della Costituzione e il soggetto è anche formalmente colpevole. È però possibile che anche al termine dei tre gradi di giudizio sia stato commesso un errore (e dunque in carcere si trovi un innocente che non è stato assolto, come invece ha sostenuto Bonafede anche nella sua precisazione). L’ordinamento penale italiano prevede uno strumento per impugnare straordinariamente anche la sentenza definitiva, la “revisione”, disciplinata dall’art. 630 del codice di procedura penale. Si può chiedere la revisione della sentenza definitiva solo in alcuni casi precisi: se i fatti alla base della condanna sono inconciliabili con quelli posti alla base di un’altra sentenza definitiva; se dopo la condanna si scoprono nuove prove che dimostrano che il condannato deve essere prosciolto; se viene dimostrato che la condanna è dipesa da falsità in atti o in giudizio o da un altro fatto previsto dalla legge come reato (per esempio si scopre che i testimoni chiave erano stati corrotti o minacciati). Se la revisione porta all’assoluzione della persona che era stata ingiustamente condannata, questa ha diritto (art. 643 c.p.p.) a una riparazione economica, commisurata al tempo della pena subita e alle conseguenze familiari e personali subite, in forma di somma di denaro o di vitalizio. Andiamo ora a vedere quali sono i numeri sulle ingiuste detenzioni e sugli errori giudiziari disponibili, con l’ovvio avvertimento che per quanto riguarda i secondi è sempre possibile che esistano innocenti in carcere che non sono ancora stati riconosciuti tali da un giudizio di revisione. Quanti sono gli innocenti in carcere - Il Ministero della Giustizia ha presentato alla Camera ad aprile 2019, quindi con Bonafede ministro della Giustizia del primo governo Conte, un rapporto sull’applicazione delle misure cautelari e sulle riparazioni per ingiusta detenzione. Vi si legge che nel 2018, dati più recenti, 257 volte è stata pronunciata una sentenza definitiva di assoluzione in procedimenti in cui era stata disposta la misura cautelare del carcere. Se includiamo anche le sentenze di assoluzione non definitiva e le altre sentenze di proscioglimento, il totale arriva a 1.355 custodie cautelari in carcere in un anno che hanno coinvolto soggetti poi scagionati dalle accuse: il 2,53 per cento del totale delle misure cautelari in procedimenti definiti nel 2018 (53.560). Possiamo poi allargare lo sguardo a quanto successo negli ultimi due decenni abbondanti, grazie al lavoro dei due giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, che hanno creato il progetto chiamato Errori giudiziari, che si definisce come “il primo archivio su errori giudiziari e ingiusta detenzione”. Vi si legge che “dal 1992 (anno da cui parte la contabilità ufficiale delle riparazioni per ingiusta detenzione presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze) al 30 settembre 2018, si sono registrati oltre 27.200 casi: in media, 1.007 innocenti in custodia cautelare ogni anno”. La popolazione carceraria complessiva, che comprende cioè sia condannati sia indagati sottoposti a misura cautelare, ha oscillato negli ultimi anni tra i 30 e i 60 mila detenuti circa: quindi un trentesimo/un sessantesimo di questi risulta poi innocente. Se poi guardiamo solo alla popolazione degli indagati presenti in carcere, l’incidenza degli innocenti ingiustamente detenuti sale a un diciassettesimo/un trentesimo a seconda degli anni. I risarcimenti dovuti a queste persone hanno comportato per lo Stato “una spesa che sfiora i 740 milioni di euro in indennizzi, per una media di 27,4 milioni di euro l’anno”. Per quanto riguarda i casi di errore giudiziario, i numeri sono significativamente più bassi: dal 1991 al 30 settembre 2018 si stima siano stati 144, cinque casi all’anno di media. L’impatto economico dei risarcimenti, riferisce Errori giudiziari, è stato - tra il 1991 e il 2017 - poco superiore “a 46 milioni e 733 mila euro”. Conclusione - In Italia finiscono in carcere anche tanti innocenti. Da un punto di vista formale, tutti gli imputati che si trovano in carcere per via di una misura cautelare e non di una sentenza definitiva sono - a norma dell’articolo 27 della Costituzione - innocenti. Ma il problema è anche sostanziale. Se infatti la maggioranza di chi va in carcere in custodia cautelare viene poi condannato definitivamente, c’è una minoranza che dopo essere stata in carcere viene assolta: secondo le stime si tratta di più di mille persone ogni anno, vittime di “ingiusta detenzione”. Un detenuto su cinquanta/sessanta, a seconda degli anni. A queste vanno poi aggiunti anche i casi, circa cinque all’anno negli ultimi decenni, in cui viene scoperto innocente un soggetto che era in precedenza stato condannato con sentenza definitiva. In questa situazione si parla di “errore giudiziario”. In entrambi i casi, ingiusta detenzione o errore giudiziario, lo Stato è obbligato a risarcire le persone che hanno sofferto la prigione senza motivo. Rita Bernardini: “Detenuti lavoratori: i dati smentiscono il ministro” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 gennaio 2020 Bonafede nella relazione al Parlamento ha ricordato che, al 30 giugno 2019, sono 16.850. Ma l’esponente Radicale Rita Bernardini ha verificato sul sito del ministero della giustizia che dal 2017 sono diminuiti di 1.554 posti. “Il ministero della Giustizia ha investito la maggior parte delle proprie energie puntando sul lavoro dei detenuti, come forma privilegiata di rieducazione”. Lo ha ricordato il Guardasigilli Alfonso Bonafede nella sua relazione al Parlamento ricordando che, alla data del 30 giugno scorso risultano 16.850 detenuti lavoranti, “frutto anche dei circa 70 protocolli con Enti per lavori di pubblica utilità”. Però secondo l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini le cose non stanno così. E per rispondere ha preso i dati proprio sul sito istituzionale del ministero della Giustizia. Al 31 dicembre 2017, risultavano 15.924 detenuti lavoranti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e 2.480 detenuti lavoranti non alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Quindi risultavano 18.404 detenuti lavoranti su 57.608 detenuti presenti, pari al 32%. Però al 30 giugno del 2019, risultano 14.391 detenuti lavoranti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, 2.459 detenuti lavoranti non alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Il totale è presto detto; 16.850 detenuti lavoranti su 60.522 detenuti presenti, pari al 28%. “Ciò significa - denuncia Rita Bernardini - che in un anno e mezzo, con i governi Conte I e Conte 2 sono stati persi 1.554 posti di lavoro in carcere”. Il ministro, davanti alla Camera, ha anche voluto sottolineare che la “finalità principale” è quella di “migliorare contemporaneamente, da un lato, le condizioni di lavoro della polizia penitenziaria e di tutti coloro che operano all’interno delle strutture; dall’altro lato, le condizioni di vita dei detenuti”. Per questo, “le risorse riconosciute per il finanziamento degli interventi a cura dell’amministrazione, per gli anni dal 2018 al 2033, ammontano a poco meno di 350 milioni di euro per creare nuovi posti detentivi e per aumentare la sicurezza degli istituti penitenziari e ammodernare tutto il sistema impiantistico e le dotazione della Polizia Penitenziaria”. Il guardasigilli ha anche evidenziato che per la prima volta un ministro della Giustizia predispone, in modo strutturale, un capillare monitoraggio sulle ingiuste detenzioni, ricordando che “per quanto concerne il tema delle ingiuste detenzioni, su mio diretto impulso, nei primi mesi del 2019 è stato ampliato lo spettro degli accertamenti dell’Ispettorato generale sulla applicazione e gestione delle misure custodiali, estendendo la verifica a tutte le ipotesi di ingiusta detenzione e non soltanto alle cosiddette scarcerazioni tardive”.ù L’Ispettorato, nei primi mesi del 2019, ha provveduto dunque, “all’acquisizione dei dati di flusso relativi ai procedimenti iscritti nell’ultimo triennio (2016-2018) presso le Corti d’Appello, che permettono di valutare analiticamente l’incidenza delle domande indennitarie su base distrettuale, oltre che nazionale e aggregata per macroaree omogenee”. Per quanto riguarda le strutture per detenute con figli, Bonafede non fa cenno alle case famiglia, ma alle Icam, spiegando che sono “in corso di esecuzione due progetti finalizzati all’apertura di nuove sedi, rispettivamente a Firenze e Roma”. Il guardasigilli ha anche evidenziato che si è occupato di rilanciare la professionalità degli agenti penitenziari “grazie alla predisposizione del testo normativo per il riordino delle carriere del personale delle Forze dell’ordine”. La relazione di Bonafede ha suscitato anche la reazione del segretario della Fns Cisl, la Federazione nazionale della Sicurezza della Cisl, Pompeo Mannone: “Abbiamo preso atto delle dichiarazioni fatte alla Camera dal ministro Bonafede riguardo la situazione delle carceri italiane, avremmo gradito in merito che le iniziative assunte dal ministero della Giustizia fossero oggetto di una doverosa informazione al sindacato”. Imputabilità. Dopo 90 anni cambiamo il Codice Rocco di Michele Passione* Il Manifesto, 29 gennaio 2020 Alla fine dell’anno appena trascorso è stato presentato un prezioso volume, Il muro dell’imputabilità. Dopo la chiusura dell’Opg, una scelta radicale, curato da Franco Corleone con il fondamentale contributo di Giulia Melani. Il volume è stato preceduto da una importante ricerca condotta nella Casa lavoro di Vasto e nella Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) di Volterra, pubblicata nel volume Archeologia criminale. Le misure di scurezza psichiatriche e non psichiatriche (scritto da Evelin Tavormina e Katia Poneti, oltre alla stessa Giulia Melani). Entrambe le opere rappresentano un contributo alla discussione offerto dal Gruppo di lavoro costruito dall’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Regione Toscana. Nei due volumi si afferma un principio, elementare ma rivoluzionario: “La responsabilità è terapeutica”. Riprendendo (e affinando) precedenti disegni di legge, viene presentato un articolato ambizioso, che si propone innanzitutto di superare assunti ascientifici (come la supposta incapacità di intendere e volere e la pericolosità della persona con disturbo mentale) debitori di influenze positivistiche; e con essi la (il)logica del “doppio binario”, che separa gli imputabili dai non imputabili. All’evidenza, sebbene sia molto di moda il tratto di penna (con il quale si pensa di abolire la povertà, o il tempo, conferendo prebende o abolendo la prescrizione), la proposta ha il pregio di misurarsi con la realtà, non limitandosi alla critica dello stato dell’arte. Così, anche disvelando l’aporia (sia pur ispirata al superamento degli ergastoli bianchi) della previsione della durata delle misure di sicurezza, agganciata al massimo edittale previsto per il reato commesso, viene nuovamente presentata la proposta che il “folle reo” sia trattato come chi delinque in stato emotivo o passionale, o di ebrezza, o per assunzione di sostanze, cioè capace e responsabile, sia pur nei limiti derivanti dalla propria condizione. Del fatto commesso si è chiamati a rispondere, ma con la sicurezza della cura, non più con la cura della sicurezza; lungi dal costituire una semplice inversione semantica, il paradigma rovesciato assume un’assiologia speculare alla situazione attuale, che le acute riflessioni di Giulia Melani, nel capitolo Abolire il doppio binario, propone efficacemente di superare. Si prevedono dunque misure alternative alla detenzione con finalità terapeutica (come nell’articolato licenziato dalla Commissione Ministeriale Pelissero, all’interno dei confini della delega), si solidifica la pronuncia n.99/2019 della Corte Costituzionale, in tema di equiparazione tra infermità fisica e psichica, si aboliscono le misure di sicurezza provvisorie, si implementa il ruolo dei Dipartimenti di salute mentale, si facilita l’accesso alle misure dalla libertà, ed infine si fa opera di igiene linguistica, ripulendo il codice penale da ogni riferimento a logiche manicomiali. Come talvolta accade, al naufragio segue l’approdo; navighiamo in acque melmose, ma dopo la (pur fondamentale) Legge 81/2014 è giunta l’ora di riformare il sistema delle misure di sicurezza, rovesciando la logica esistente, trovando riparo protettore nella limpida disposizione costituzionale di cui all’art.32. Proprio in questi giorni è scaduto il periodo di prorogatio concesso dalla Legge regionale toscana per il ruolo di Garante ricoperto dal 2013 da Franco Corleone, il cui impegno per la tutela dei diritti delle persone non è mai venuto meno; dobbiamo un grazie a chi si è sempre fatto promotore di campagne di progresso, a chi non ha mai smesso di proporre cambi di rotta, anche quando la strada principale era più breve e più comoda da seguire, e siamo certi che la Toscana, che per prima abolì la pena di morte, saprà essere protagonista nel cammino riformatore. *Avvocato La prescrizione paralizza i giallo-rossi di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 29 gennaio 2020 Nuovo rinvio sulla giustizia. Anche Italia viva vota lo stop alla proposta di legge che avrebbe fermato la contestata riforma del ministro Bonafede. Ma dà dieci giorni al governo: “Poi voteremo il nostro emendamento al decreto milleproroghe”. Il guardasigilli costretto a sorvolare sull’argomento nella sua relazione sull’anno giudiziario. Divisa come prima e più di prima sulla prescrizione, la maggioranza riesce per la terza volta ad aggirare l’ostacolo del disegno di legge Costa (Forza Italia), quello che cancellerebbe la riforma firmata dal ministro Bonafede in attesa di misure concrete per velocizzare i processi - principio che a parole tutti gli alleati di governo, 5 Stelle esclusi, condividono. L’aula della camera ieri pomeriggio ha approvato il ritorno in commissione del provvedimento, con l’astensione non decisiva di Italia viva, partito che da tempo dichiara di essere pronto ad andare fino in fondo contro l’abolizione della prescrizione, firmata dai grillini con la Lega un anno fa ed entrata in vigore il 1 gennaio 2020. La prima volta a dicembre, quando stava cercando di fermare blocco della prescrizione, il Pd aveva deciso comunque di respingere la dichiarazione di urgenza del disegno di legge Costa. Poi, all’inizio di questo mese, in commissione giustizia con il voto decisivo della presidente grillina, era passato un emendamento interamente soppressivo del disegno di legge Costa. In quell’occasione la maggioranza si era divisa, con i renziani schierati su posizioni garantiste a votare - invano - con il centrodestra. Ieri il terzo atto. Questa volta Italia viva ha deciso di non votare contro la maggioranza, ma di astenersi, motivando la scelta con pragmatismo: non saremmo stati determinanti e non aveva senso votare contro il ritorno in commissione del disegno li legge Costa solo per attirarci la solita accusa di spaccare la maggioranza, spiega un deputato di Iv al termine della votazione. Con un Pd in piena euforia per la vittoria ritrovata (in Emilia Romagna), i renziani hanno preferito rinunciare per un giorno al ruolo di spina nel fianco della maggioranza, non senza qualche malumore interno. Limitato però a pochi volti scuri tra i deputati che appena prima erano andati incontro alla piazza degli avvocati penalisti, radunati davanti a Montecitorio proprio per chiedere lo stop alla riforma Bonafede. In ogni caso i 29 voti del gruppo renziano non sarebbero stati decisivi. Complici le assenze nel centrodestra il ritorno in commissione è passato con 72 voti di margine. In fondo anche questa è stata una mediazione, visto che i 5 Stelle avrebbero voluto approfittare dei numeri favorevoli alla maggioranza per bocciare definitivamente la proposta Costa. Che invece adesso resta sospesa: in assenza di accordo complessivo sulla riforma del processo penale il problema per i giallo-rossi può ripresentarsi a febbraio. Se non prima, perché Italia viva ha annunciato che la scelta di rottura che non ha fatto ieri è pronta a farla tra una decina di giorni, quando in commissione si dovranno votare gli emendamenti al decreto milleproroghe. Tra questi ce n’è uno dei renziani che sospende l’entrata in vigore della riforma Bonafede fino a fine anno. Ma ci sono anche emendamenti del radicale di +Europa Magi che, come il disegno di legge Costa, cancella del tutto la riforma, di Forza Italia che la sospende fino a luglio 2021 e della Lega fino a gennaio 2024. Il ministro e la maggioranza hanno tempo una settimana per trovare un accordo sulla prescrizione e sul processo penale, dice in sostanza Renzi, che però alla mediazione fin qui raggiunta da Pd, Leu e 5 Stelle resta contrario. Si tratta di quello che è passato nelle cronache come il “lodo Conte”, che il presidente del Consiglio ha mutuato dalla proposta di legge presentata da un altro Conte, Federico, deputato di Leu. Prevede un regime differenziato della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, a seconda che si tratti di assoluzione (in questo caso scattano tempi massimi di durata per i gradi successivi) o di condanna (in questo caso resta la riforma Bonafede e la fine ad aeternum della prescrizione). Nel frattempo il guardasigilli per evitare di provocare la maggioranza ha dovuto sorvolare sul tema prescrizione e sulla riforma del processo, malgrado il calendario di ieri mattina l’abbia portata davanti alle camere per l’annuale relazione sulla giustizia. La materia continua a tenere bloccati i giallo-rossi e la nomina di Bonafede a capo delegazione dei ministri grillini non semplificherà le mediazioni. Nuovi vertici sulla giustizia - dopo i tanti falliti - non sono convocati. La prossima settimana dovrebbe invece tenersi un incontro sulle riforme costituzionali: i grillini immaginano di risvegliare dal sonno il testo sul referendum propositivo. Un dito nell’occhio per gli alleati. I penalisti scendono in piazza: “Questa prescrizione è una sciagura” di Giulia Merlo Il Dubbio, 29 gennaio 2020 La manifestazione davanti a Montecitorio. Partecipano anche Italia Viva, Forza Italia e Lega. Dentro l’aula di Montecitorio il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede parlava delle riforme in materia di giustizia, nella piazza antistante i penalisti hanno manifestato tutto il loro dissenso contro il “blocca prescrizione”. “Siamo qui per dare sostegno e supporto alla battaglia parlamentare per abrogare la legge che ha eliminato la prescrizione, una delle più sciagurate della storia della Repubblica”, sono state le parole con cui il presidente dell’Unione camere penali italiane ha aperto la giornata. Nella piazza di Montecitorio, centinaia di avvocati, tutti con l’adesivo giallo con scritto “Imputato per sempre? No grazie” appuntato sui cappotti, hanno applaudito e ascoltato gli interventi delle tante delegazioni politiche intervenute a sostegno dell’iniziativa. Contemporaneamente, in una sala del Capranichetta (lo storico centro congressi adiacente la piazza), professori di diritto penale e membri dell’accademia si sono alternati al microfono per spiegare le ragioni giuridiche del dissenso alla norma. Al microfono, il presidente Giandomenico Caiazza ha spiegato come “è importante dare questo segno tangibile della presenza dell’avvocatura e il sostegno ad una battaglia parlamentare per l’abrogazione di una legge adottata in nome di un’idea simbolica del diritto penale. Le ragioni della riforma sbandierate non hanno nulla a che fare con la realtà dell’istituto: il diritto penale non è terra di conquista per i demagoghi e i populisti, il diritto penale è una complessa serie di regole delicatissime che governano la libertà”. In rappresentanza dell’avvocatura istituzionale è intervenuto il presidente del Cnf, Andrea Mascherin: “Noi siamo per l’abrogazione della riforma, ma mi accontenterei anche di un rinvio, di una sospensione della riforma della prescrizione, fino a quando non ci sarà la riforma del processo penale”. La piazza dei penalisti è diventata per un giorno il fulcro dell’opposizione al Guardasigilli: a sfilare è stata per prima la delegazione di Forza Italia, composta dalla capogruppo alla Camera, Maria Stella Gelmini e da Enrico Costa, autore della proposta di legge per abrogare il testo Bonafede. “Se sulla prescrizione un governo deve cadere, vuol dire che devono andare così le cose. Ma non si può bloccare l’Italia, bloccare la giustizia e provare a resistere senza che ci sia la difesa dello stato di diritto”, ha detto Gelmini, parlando anche dell’iter parlamentare della legge Costa: “Non abbiamo mai fatto così fatica a vedere calendarizzata una nostra proposta. Fico ce l’ha messa tutta per evitare di portarla in aula. Vedremo quali escamotage si inventeranno”. Anche la vicepresidente della Camera, la deputata forzista Mara Carfagna ha preso la parola, rivolgendosi alla maggioranza: “Lancio un appello al pd: lasci ai colleghi libertà di coscienza nel voto sulla legge Costa, è ridicolo che il Parlamento sia schiavo dei diktat di un partito in via di estinzione come sono i 5 Stelle” eha parlato di “riforma pericolosa che demolisce lo stato di diritto e trasforma i cittadini in ostaggi a vita dei pm”. A fare da contraltare di maggioranza erano presenti anche Roberto Giachetti, Gennaro Migliore, Ettore Rosato, Lucia Annibali e Maria Elena Boschi di Italia Viva, che sostengono la legge Costa. “Sulla riforma Bonafede non facciamo passi indietro: la consideravamo sbagliata ed è ancora così, per questo stiamo portando avanti la battaglia dentro la maggioranza”, ha detto Boschi, “Per noi il problema non è dire votiamo con la maggioranza o votiamo con i colleghi di Fi. Noi votiamo per le nostre idee e ci sono temi su cui non si può scendere a compromessi”, poi ha annunciato la presentazione nel Milleproroghe di “emendamenti che chiedono di sospendere la riforma Bonafede e di prendersi almeno un anno di tempo perché nel frattempo si possa affrontare la riforma del processo penale”. Dal fronte della maggioranza, in piazza sono arrivate anche la parlamentare dem Enza Bruno Bossio, che ha annunciato che voterà a favore del pdl Costa: “Sono una per adesso dentro il Pd, ma in aula ce ne sono tanti altri”. Lo stesso ha fatto anche la senatrice di Più Europa Emma Bonino “Siamo qui per fermare questo scempio e per ribadire che ognuno è innocente fino a sentenza definitiva”. La piazza, dove nel frattempo ha iniziato a cadere una pioggia battente, ha accolto anche i parlamentari della Lega che siedono in commissione Giustizia alla Camera. Jacopo Morrone si è espresso contro la riforma “manettara e giustizialista” di Bonafede, che “fu uno dei motivi che misero in crisi l’alleanza di governo tra Lega e M5s. Il punto fermo della Lega era che la riforma diventasse operativa solo contestualmente a una riforma strutturale della giustizia, ma così non è stato”. La manifestazione si è chiusa con la richiesta di Caizza al Partito Democratico: “Attendiamo una loro presa di posizione definitiva: il Pd ha presentato un disegno di legge che è sostanzialmente abrogativo della Bonafede. Ci dica con che tempistica e con quali modalità si vorrebbe ottenere una mediazione”, “noi siamo arrivati a dire di essere pronti a sostenere la proposta, ma a condizione che entri in vigore subito”. Le Camere Penali chiedono tempi certi, dunque, “perché il disegno di legge del Pd non sia un modo per camuffare la resa”. Prescrizione, altri otto giorni di trattative di Errico Novi Il Dubbio, 29 gennaio 2020 La maggioranza vota il ritorno in Commissione della riforma. I renziani escono dall’Aula e lanciano un ultimatum al governo. L’aula della Camera ha votato a favore del rinvio in commissione del pdl Costa sulla prescrizione. La Camera ha approvato con 72 voti di differenza. La novità è il lasciapassare dei renziani che hanno lasciato l’Aula dando otto giorni di tempo al governo per presentare una nuova ruforma. Lucia Annibali ha spiegato che la scelta è derivata dalla “nostra disponibilità al confronto” e “all’apertura mostrata dal ministro della Giustizia Bonafede”. Sembra un indizio marginale. E invece Matteo Renzi spiega tutto molte ore prima che la maggioranza decida di rinviare la legge Costa in commissione, con l’apparente “connivenza” di Italia viva che non partecipa al voto. “C’è il lodo Annibali”, spiega un po’ sibillino l’ex premier in un’intervista a Radio Capital, “che rinvia di un anno la norma Bonafede: evita che possa dispiegare ora i suoi effetti. È un’altra possibilità che offriamo alla maggioranza...”. Pare una variabile confusionaria. E invece no. È il dettaglio che spiega tutto. A giocare a carte scoperte è proprio la “titolare” del lodo, Lucia Annibali, che guida la delegazione di Italia viva in commissione Giustizia. È stata appena annunciata l’intenzione della maggioranza di rispedire il testo dell’azzurro Enrico Costa nell’organismo presieduto da Francesca Businarolo, e lei, Annibali, chiarisce: “Noi abbiamo presentato due emendamenti al milleproroghe che chiedono il rinvio della riforma Bonafede e che saranno votati da qui ai prossimi 10 giorni: è questo il tempo che vogliamo offrire alla maggioranza per vedere se è possibile arrivare a modifiche condivise”. Poi ognuna per la sua strada. E quella di M5S e dello stesso Pd non sarebbe in discesa. Le opposizioni provano a resistere, a contestare una violazione del regolamento perché, secondo Forza Italia e Fratelli d’Italia, “siamo di fronte al caso inedito di un provvedimento pervenuto all’Aula come proposta di minoranza che viene rimandato in commissione dalla maggioranza”. E invece per la vicepresidente della Camera Maria Edera Spadoni non c’è alcuna violazione. Così i deputati di Italia viva al momento del voto escono addirittura dall’emiciclo e la partita si chiude con 72 voti di vantaggio per Pd e Movimento 5 Stelle. Partita che sembrerebbe chiusa. Ma non è affatto così, perché dietro quel “vi diamo altri dieci giorni” dei renziani c’è un calcolo molto preciso. È vero che non sarà facile disincagliare di nuovo la legge Costa (che sopprime la norma Bonafede) dal fondo della liturgia parlamentare, ma è anche vero che quell’emendamento al milleproroghe sarà esaminato anche prima dei dieci giorni dati dai renziani. La discussione sulle modifiche al decretone di fine anno parte lunedì a Montecitorio, in commissione Affari costituzionali. Lì Italia viva non riuscirebbe a ribaltare gli equilibri, e a far passare la propria richiesta di congelare per un anno la prescrizione targata Bonafede. Ma un emendamento identico sarebbe ripresentato a Palazzo Madama subito dopo, con l’ulteriore complicazione che vede la maggioranza costretta a convertire il prezioso milleproroghe entro il 28 febbraio. Al Senato i renziani hanno eccome i numeri per rovesciare gli equilibri. Ed ecco perché il guardasigilli Bonafede, il suo Movimento e lo stesso Pd sono costretti, a questo punto, a trovare in fretta una vera exit strategy. Allo stato la soluzione non c’è. Non a caso Andrea Orlando, numero due del Nazareno, nella notte della vittoria in Emilia ha chiesto senza mezzi termini ai pentastellati “una norma sulla prescrizione diversa da quella di Bonafede”. Difficile che il guardasigilli accetti di cambiare radicalmente il quadro in vigore dal primo gennaio: termini di estinzione del reato aboliti dopo la sentenza di primo grado. L’unico accordo è al momento nell’altro “lodo”, quello proposto da Giuseppe Conte, che limita l’efficacia della norma Bonafede alle sole sentenze di condanna. Ma sia Renzi che Maria Elena Boschi hanno ripetuto più volte che non si accontenteranno del compromesso, a prescindere dall’opinione del Pd. Ieri un esponente di primo piano di Italia viva, il deputato ed ex sottosegretario alla Giustizia Gennaro Migliore, ha “rivendicato” via twitter: “Come Italia viva siamo scesi in piazza al fianco delle Camere Penali per dire no alla riforma della prescrizione targata Bonafede-Salvini. No al processo infinito, sì al rispetto della Costituzione”. Difficile essere più chiari. Il deputato di Leu che ha proposto per primo il lodo, l’omonimo del premier Federico Conte, ammette che “la maggioranza sul tema non ha raggiunto una posizione unanime: il ritorno in commissione potrebbe darci l’occasione di raggiungere una posizione condivisa e se possibile omogenea” Se possibile. Ma se non sarà possibile, la cosa non si risolverà con una semplice alzata di spalle. Prescrizione, il Pd può fare una cosa di sinistra: affossare la riforma Bonafede di Angela Azzaro Il Riformista, 29 gennaio 2020 Da domenica per il Pd non ci sono più scuse. Se è convinto, come più volte dichiarato, di non essere d’accordo con la riforma della prescrizione, ha tutte le carte in regola per fare un passo indietro, ripristinare la norma esistente a firma Andrea Orlando e delegittimare il ministro della Giustizia Bonafede. Le urne hanno restituito un quadro completamente mutato dei rapporti di forza all’interno del governo che non possono non pesare su un tema così delicato come la giustizia. Se prima i 5stelle potevano ancora dettare legge, ora la fase due dell’esecutivo Conte, annunciata anche dal segretario dem Nicola Zingaretti, ha un’occasione d’oro per prendere il via, bloccando la riforma che allunga i processi e rende la giustizia solo più ingiusta. A chiederlo a gran voce, non sono solo gli elettori che hanno premiato il Pd più riformista e più liberale, bocciando i “manettari” grillini, ma anche l’Unione delle Camere penali che per oggi ha indetto uno sciopero dalle udienze e una manifestazione davanti alla Camera dei deputati. L’appuntamento è alle 10 a Montecitorio, mentre nel vicino Hotel Nazionale si terrà un convegno che vedrà intervenire studiosi del diritto e della procedura penale. La giornata non è scelta a caso. Dopo che l’emendamento Costa (Forza Italia), che di fatto annulla la riforma Bonafede, era stato respinto in commissione Giustizia alla Camera, oggi potrebbe tornare in Aula e può essere votato anche dalla maggioranza. Italia viva ha già annunciato il suo voto a favore e si vedrà se anche il Pd è disposto ad accogliere le richieste degli avvocati italiani. Oppure i dem, che hanno tentato una mediazione al ribasso con il lodo Conte - che aggiunge solo incostituzionalità a incostituzionalità - potrebbero essere tentati dallo sfiduciare il ministro Bonafede come scrivono alcuni giornali? Domani mattina alla Camera e nel pomeriggio al Senato è attesa la relazione del Guardasigilli sullo stato della giustizia in Italia. Da mesi il ministro promette, ma non dà, i dati sulla prescrizione e c’è molta curiosità nel vedere quali numeri tirerà fuori dal cilindro per giustificare una riforma che i penalisti non esitano nei loro comunicati a definire “sciagurata”. La norma, anticostituzionale, è il simbolo del “giustizialismo” che in questi anni ha caratterizzato la cultura dei 5stelle. Per questo il Pd si trova davanti a un bivio: appoggiare la riforma della prescrizione significa non rompere con il populismo penale dei grillini. Significa cioè non provare coi fatti a dare vita a una nuova cultura politica che si fondi sullo Stato di diritto. È una sfida decisiva per il futuro della sinistra e per il futuro del Paese. Il Pd deve scegliere se stare con i Padri e le Madri Costituenti o se invece “sposare” le tesi di Bonafede secondo cui in prigione non ci sono innocenti e se anche ci fossero, come dice il suo mentore Travaglio, chi se ne frega. Il giustizialismo in questi anni è entrato nelle pieghe della società, ha alimentato il consenso delle forze sovraniste. Ora che sono in crisi che senso ha andargli appresso su un tema così delicato? Su, Pd, fai una cosa di sinistra. I Radicali italiani: adesso diteci quante condanne sono ribaltate in appello di Massimiliano Iervolino e Giulia Crivellini Il Riformista, 29 gennaio 2020 Il segretario Iervolino e la tesoriera Crivellini chiedono i dati sulle persone condannate in primo grado, ma innocenti, potenzialmente esposte al rischio del processo infinito. Signor Ministro, nell’osservare l’avanzamento della riforma della giustizia che vede al centro il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio e le attuali ipotesi di modifica che porterebbero il blocco solo in caso di condanna, condividiamo le preoccupazioni espresse da molti giuristi. Sappiamo che in ambito penale quasi una sentenza su due viene riformata in Corte d’appello. In pratica circa il 45% delle pronunce di primo grado è modificato in secondo, in modo parziale o con un ribaltamento dell’esito iniziale. Un dato che già di per sé può essere significativo, poiché ci lascia supporre che una parte delle riforme faccia riferimento a giudizi di condanna per i quali non può essere applicata una reformatio in peius, ossia l’aggravio della pena. Una materia così delicata, tuttavia, non lascia spazio alle supposizioni e riteniamo, dunque, essenziale che questo dato aggregato venga sviscerato e reso fruibile, affinché a parlamentari, studiosi e ai cittadini tutti sia fornito uno strumento utile alla valutazione di un provvedimento che ha polarizzatole opinioni. Tale dato potrebbe raccontarci, per esempio, quante sono le sentenze di condanna che in appello divengono assoluzioni. Quanti, in numeri assoluti, i condannati che in secondo grado sono riconosciuti come innocenti? Cifre che potrebbero indicare quante persone giudicate innocenti, ma che hanno subito in primo grado una condanna, sarebbero potenzialmente esposte al “fine processo mai”, se private di uno strumento di garanzia come la prescrizione. Non siamo i primi a chiederLe di rendere pubblici i dati necessari a una più approfondita analisi degli effetti della riforma. Risale a circa un mese fa la richiesta, rimasta inevasa, dell’Unione delle Camere penali italiane che sollecita la diffusione di percentuali relative alla tipologia dei reati prescritti. Chi meglio del ministero della Giustizia può reperire e diffondere questi dati? I numeri potrebbero riuscire laddove le parole falliscono: nel dimostrare se si tratti o meno di una legge inutile, dannosa e frutto di demagogia. La pubblicità dei dati in un settore cruciale come quello della giustizia consentirebbe di valutare e bilanciare in modo oggettivo le conseguenze positive e negative di una riforma che ha un impatto rilevante su ogni cittadino e sul diritto ad una giustizia giusta che compia il suo corso in tempi ragionevoli. Ancor più se le ripercussioni potranno andare a toccare, negativamente, anche il piano economico, a causa dell’enorme carico giudiziario delle Corti d’appello e del boom di risarcimenti per irragionevole durata dei processi che potrebbero verificarsi con il blocco della prescrizione. Il passo successivo alla pubblicazione è quello della loro diffusione. Già oggi le statistiche sull’amministrazione della giustizia ci dicono molto, ma restano sconosciute ai più. Sulla durata del giudizio di appello, per esempio, buona parte dei quasi due anni e mezzo che esso in media richiede sono imputabili ai cosiddetti “tempi di attraversamento”, che nulla hanno a che vedere con la celebrazione del giudizio: attesa degli atti di impugnazione, avvisi alle parti, trasmissione dei fascicoli alle Corti d’appello. Lo snellimento delle procedure, l’attribuzione di maggiori risorse umane e tecnologiche, unitamente a un migliore utilizzo di esse, potrebbe ridurne drasticamente la durata media. Ciò che domandiamo è la piena trasparenza, una trasparenza dovuta ai cittadini. Questo consentirebbe di creare le condizioni generali per cui le decisioni vengano prese in un confronto pubblico che mutui dal metodo scientifico la condivisione dei risultati e la loro analisi, con l’obiettivo di arricchire conoscenza e consapevolezza pubblica, ingredienti necessari in una democrazia. Trent’anni dalla riforma Vassalli, ecco i nuovi confini della giustizia di Riccardo Fuzio Il Dubbio, 29 gennaio 2020 La riflessione del procuratore generale emerito della Corte di Cassazione per il trentesimo anniversario dell’entrata in vigore del Codice Vassalli. “Occorre concentrarsi sui principi costituzionali a base del nostro sistema penale: il principio di legalità, la presunzione di innocenza, la funzione della pena. Il confronto con questi principi si impone con uno sguardo proiettato al futuro immediato ed alla prossima Procura europea. Posso solo augurare che i trent’anni del codice Vassalli e della vita del nostro Paese non siano trascorsi invano e che, sulle esperienza che ci sono alle spalle, si possa costruire insieme un percorso di rinnovamento del sistema giudiziario. Premessa indispensabile è il confronto fecondo e non armato”. 1. Il 22 ottobre 2019 cade il trentesimo anno di vigenza del codice di procedura penale promulgato con la firma del ministro di (grazia e) giustizia Vassalli. Un codice che, approvato il 22 settembre 1988 e pubblicato un mese dopo, è stato sottoposto, in attesa della sua entrata in vigore, ad una attenta preventiva opera di preparazione dell’organizzazione giudiziaria e di formazione degli operatori del diritto di cui va dato merito alla classe forense ed alla magistratura e per essa al Consiglio superiore della magistratura per l’ampia e diffusa attività svolta per adeguare anche il nuovo ruolo che i protagonisti del processo andavano ad assumere passando da un sistema inquisitorio ad uno accusatorio. La sua effettiva entrata in vigore, il 22 ottobre del 1989, determinò un forte impegno di tutti per studiare ed applicare le nuove regole del processo delineate secondo i rispettivi ruoli. Il pubblico ministero nella funzione di titolare delle indagini sulle notizie di reato (anche nell’interesse dell’indagato) le cui conclusioni vanno sottoposte al giudice terzo, interlocutore e “custode” della legalità del corso delle indagini, al quale è attribuita la decisione sulla richiesta di archiviazione ovvero di rinvio a giudizio da esaminarsi in una udienza in camera di consiglio, che ha funzione di snodo e filtro, per l’eventuale prosecuzione del procedimento in un processo pubblico. La previsione di una disciplina dei mezzi di ricerca della prova funzionali, insieme alle indagini difensive dell’avvocato (invero introdotte 10 anni dopo con la l. n. 397 del 2000), a rendere possibile ad entrambe le parti di essere nelle condizioni di “ formare” la prova nel successivo dibattimento pubblico dinanzi al giudice terzo ed imparziale. L’introduzione di riti alternativi al dibattimento. Un modello processuale che, come sappiamo, è stato poi più volte ritoccato (secondo alcune stime un centinaio di interventi), già agli inizi degli anni ‘ 90 dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e dalle modifiche normative intervenute per la necessità di prevenzione e contrasto alla criminalità mafiosa (così interrompendo la fase di metabolizzazione del nuovo sistema processuale) e che in contemporanea con l’esecuzione delle stragi (ancora oggi non del tutto chiarite nei suoi completi risvolti) condusse all’istituzione della DNA e delle DDA. È seguito, tra il 1999 ed il 2001, un percorso legislativo che ha rimodellato l’organizzazione giudiziaria e il processo penale con la disciplina del giudice unico di prima istanza (d. lgs. n. 51 del 1998), le incisive modifiche processuali della l. n. 479 del 1999, l’attribuzione della competenza penale al giudice di pace (d. lgs n. 274 del 2000), la già indicata disciplina delle investigazioni difensive (l. n. 397 del 2000) e, infine, con il recepimento, a livello costituzionale, dei principi del giusto processo e del diritto ad un giudizio in tempo “ragionevole” (l. c. n. 2 del 1999). Nell’ultimo ventennio il processo penale italiano si è “confrontato” con l’impatto che la normativa sovranazionale e la giurisprudenza delle corti della UE e di Strasburgo hanno determinato sulla nostra giurisprudenza e legislazione penale e che, di volta in volta, ha imposto ulteriori modifiche normative ed il recepimento di accordi, direttive, regolamenti e decisioni quadro. Si pensi alla contumacia (l. 28 aprile 2014, n. 67), all’applicazione diretta del diritto della UE e all’interpretazione conforme al diritto convenzionale che hanno inciso su molte materie. 2. Negli ultimi anni l’attenzione si è rivolta all’esigenza di adeguare il processo penale ai tempi di durata ragionevole e si sono registrati interventi su diversi temi: a) rivalutazione ed incremento delle categorie di reato per i quali, nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi, si deve assicurare “priorità assoluta” (art. 132 bis c. p. p.); b) numero elevato di estinzione dei reati per prescrizione cui si è cercato di porre rimedio mediante l’elevazione della pena per allungare i tempi della prescrizione; c) termini di durata delle indagini preliminari con la nuova previsione della avocazione “collaborativa” del Procuratore generale in caso di inerzia del pubblico ministero; d) obbligatorietà dell’azione penale e criteri di priorità di tipo organizzatorio all’interno degli uffici del Pubblico ministero; e) la circolare del CSM sul Pubblico ministero; f) i criteri di orientamento adottati dal procuratore generale presso la Corte di Cassazione in tema di avocazione collaborativa. 3. Non è la sede per approfondire il discorso ma l’assetto organizzativo del pubblico ministero in Italia non può prescindere dai principi generali previsti in Costituzione che nel 1948, con lo sguardo anche al passato, delineava una forte garanzia di autonomia ed indipendenza per la magistratura vista come un unico “ordine” cui è attribuita la giurisdizione ed un solo Consiglio superiore della magistratura. Le giuste preoccupazioni dell’epoca costituente sono state ribadite con l’espresso richiamo alla figura del Pubblico ministero all’art. 107, norma che impone una differenza tra i magistrati solo per “funzioni” e prevede che quella requirente deve ottenere espresse “garanzie” dalle norme di ordinamento giudiziario. Cioè da norme di legge che presuppongono e richiedono il mantenimento della autonomia ed indipendenza dei magistrati del Pubblico ministero. Questo assetto costituzionale si fonda sull’architrave del bilanciamento dei poteri che innerva la nostra legge fondamentale. Qualunque proposta di modifica non può essere avversata a priori ma deve essere calata nel contesto della complessiva architettura della nostra Repubblica. Ciò richiede capacità politica e progettuale che, sinora, si è sempre dimostrata carente nelle varie occasioni di riforma costituzionale. È fondamentale credere nella “forza del nostro Stato- istituzione” e non unicamente nelle rispettive posizioni contrapposte e, per tornare al tema del processo penale, penso sia utile investire nella reciproca legittimazione del ruolo dei protagonisti del processo: il pubblico ministero, l’avvocato difensore dell’indagato/ imputato ed il giudice. La storia della magistratura italiana, pubblici ministeri e giudici, ci racconta - prima e dopo l’attuale codice Vassalli - di “risultati” giudiziari eccellenti e sono convinto che l’esito delle indagini e delle sentenze non può essere ascritto solo a merito dei magistrati; ogni processo si svolge con l’avvocato e conosciamo il tributo che l’avvocatura ha fornito anche in termini di vita. Nel pensare a mutare l’assetto del processo penale, e della giustizia in generale, non possiamo pensare solo ai grandi processi ma l’attenzione deve andare alla “ordinaria e quotidiana attività di amministrazione della giustizia”. In essa è importante e fondamentale il contraddittorio tra le parti e il ruolo che la nostra Costituzione assegna alla difesa tecnica (art. 24) e alle regole del giusto processo che richiedono sempre “condizioni di parità”. Se così è, e ne sono pienamente convinto, allora è indispensabile investire sulla cultura di ciascuno degli operatori di giustizia, sul valore della tempestività delle indagini e delle sue conclusioni, sul rispetto delle prerogative dell’indagato/ imputato e, quindi, del suo difensore e del suo ruolo nel processo (per legge professionale “l’avvocato svolge una funzione sociale volta a garantire al cittadino l’effettività della tutela dei diritti per i fini della giustizia e secondo i princìpi del nostro ordinamento”), sul contributo che tutte le parti devono offrire alla imparzialità del giudice e al rispetto delle sue decisioni autonome ed indipendenti, sui doveri professionali di aggiornamento e lealtà processuale, sull’osservanza dei codici disciplinari e di quelli deontologici. Nella legislatura precedente, non a caso, si era insistito per soluzioni soft in grado di attuare forme di vigilanza e controllo di tipo organizzativo sui termini di durata delle indagini e sull’ampliamento dell’avocazione. Era parso evidente che, al di là dell’inserimento di forme di chiusura a monte dell’accesso al processo (vedi la irrilevanza o tenuità del fatto) l’esercizio di una azione penale tempestiva e l’adeguata preparazione di tutte le notizie di reato con le conseguenti determinazioni non deriva da considerazioni di opportunità ma da un limite oggettivo alla capacità di smaltimento del carico giudiziario. È un dato oggettivo e su questo va compiuta una riflessione. Il moltiplicarsi delle fattispecie penali e l’evoluzione legislativa che amplia gli ambiti di della tutela della persona umana come conseguenza della maggiore complessità della società, già solo sotto il profilo quantitativo, rappresenta - come acutamente messo in rilievo in dottrina un’evidente smentita della teoria delle cosiddette “costanti criminologiche”. Il carico di lavoro eccessivo impone una forte accelerazione sull’uso delle tecnologie e sui riti alternativi, due fronti sui quali è necessaria e fondamentale la figura dell’avvocato (Corte cost. 29 maggio 2019 n. 131 secondo cui la richiesta di riti alternativi “costituisce una modalità tra le più qualificanti di esercizio del diritto di difesa”). Ma un vero contributo per alleviare gli uffici di Procura può venire solo da un mutamento culturale - interpretativo ovvero normativo che conduca il PM ed il GIP ad una applicazione delle norme processuali, in tema di regola dell’archiviazione e regola di giudizio per l’udienza preliminare, nell’ottica di un effettivo bilanciamento tra l’interesse alla persecuzione penale e quello all’efficienza giudiziaria secondo le linee esposte nei vari documenti della Associazione tra gli studiosi del processo penale e in alcuni dei principi esposti nel Manifesto approvato dalla Unione delle camere penali. In tal modo si potranno concentrare risorse materiali e personali verso quei reati che mettono a rischio la stessa convivenza civile: criminalità organizzata, economia illegale (dal riciclaggio alla evasione fiscale alla corruzione), tutela del territorio e dell’ambiente. Occorre superare la strategia solo emergenziale che si limita ad ampliare le categorie di reati del 132 bis o le competenze delle DDA rischiando di indebolirne le loro funzioni specifiche. Si impone, poi, un approccio realistico al tema della prescrizione, partendo dal superamento dell’equivoco della prescrizione come istituto di diritto sostanziale o processuale, nonostante l’ultima pronuncia della Corte costituzionale che sembra abbia voluto consacrare la copertura costituzionale della prescrizione di natura sostanziale. E che si superi lo sterile dibattito sulle cause e sulla responsabilità della prescrizione: è la prescrizione che allunga i processi o la lunghezza dei processi che determina la prescrizione; ed ancora la responsabilità grava sulle “cavillosità avvocatesche”, sul PM, sul Gip o sul giudice. La verità è che la prescrizione è solo un sintomo della malattia del sistema; ovvero, come si è espresso un giovane e bravo magistrato, siamo in presenza di un impietoso decadimento del livello di qualità del sistema, di cui la prescrizione è un impietoso “marcatore”. Occorre concentrarsi sui principi costituzionali a base del nostro sistema penale. La funzione del diritto penale, il principio di legalità, la presunzione di innocenza, la funzione della pena, la tutela del contraddittorio, la parità tra le parti, il rispetto dei principi sovranazionali. Quale la attuale identità del codice processuale Vassalli? Il confronto con questi principi si impone con uno sguardo proiettato al futuro immediato ed alla prossima Procura europea. In questo quadro generale si inseriscono anche le proposte sulla separazione delle carriere e sull’inserimento dell’avvocato in Costituzione che provengono dai vertici istituzionali ed associativi dell’avvocatura. Posso solo augurare che i 30 anni del codice Vassalli e della vita del nostro Paese non siano trascorsi invano e che, sulle esperienze che ci sono alle spalle, si possa costruire insieme un percorso di rinnovamento del nostro complessivo sistema giudiziario. Premessa indispensabile è il confronto fecondo e non armato. “I magistrati onorari? Dipendenti”. Una sentenza apre il caso giustizia di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 29 gennaio 2020 Una sentenza del giudice del lavoro di Sassari dà torto al ministero della Giustizia che nega lo status di lavoratori subordinati ai magistrati onorari. Sempre più insostituibili. In Tribunale a Sassari una sentenza del giudice del lavoro dà torto al ministero della Giustizia che nega lo status di lavoratori subordinati ai magistrati onorari, e a Milano un sindacato del personale di cancellerie ricorre invece al giudice del lavoro contro l’applicazione di volontari con cui la Corte d’Appello cerca disperatamente di tamponare vuoti d’organico per mantenere i propri standard europei: la giustizia del lavoro come surreale frontiera di maxiquestioni ormai incancrenite. Il primo fronte riguarda quei “precari” del diritto (per lo più avvocati) che da tantissimi anni fanno i magistrati onorari (5.500, di cui quasi 1.800 vpo-viceprocuratori), cioè per funzioni ma non per carriera, reclutati per titoli anziché per concorso, in teoria a tempo ma di fatto continuamente prorogati, pagati a cottimo (98 euro lordi per 5 ore di udienza, compreso tutto il lavoro di studio delle decine di processi di una udienza), e soprattutto senza malattia-pensione-ferie, ma ormai divenuti insostituibili. Rappresentano, infatti, la pubblica accusa in udienza nella quasi totalità dei procedimenti per reati di competenza del giudice monocratico e dei giudici di pace. Stanchi di essere trattati come co.co.co. del diritto, e storditi dal susseguirsi di progetti di riforma, ieri per i vpo arriva dalla giudice del lavoro sassarese Maria Angioni una sentenza che “accerta e dichiara la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato di fatto” tra il ministero della Giustizia e un vpo (patrocinato dagli avvocati Claudio e Ilaria Tani, e Maurizio Serra). E lo fa “dalla data di immissione nelle funzioni di vpo” e “con ogni effetto conseguente per legge”: che, nel potenziale impatto generale per il ministero (in risarcimenti per il passato e adempimenti per il futuro) sarà stimabile dopo le motivazioni. A un giudice del lavoro, ma a Milano, ricorre anche un sindacato del personale amministrativo contro il ministero per una condotta della presidenza della Corte d’Appello: la quale, pur continuando a fare i processi in metà della durata media italiana e in linea con quella europea, fatica però a farlo con una media del 29,6% in meno di cancellieri nel distretto (40% a Busto o Monza), e con aggravi di competenze (tipo la gestione edilizia): “Su 15 promessi ingegneri, architetti e geometri, ne è arrivato uno”, dice la presidente Marina Tavassi, mentre ad esempio Napoli può contare su una apposita Direzione Generale con 30 persone. Inoltre il rapporto tra cancellieri e magistrato è “di circa 2 a 1 a Milano, 5 a 1 a Roma, 4 a 1 a Napoli”. Prima il ministro Orlando e poi ora Bonafede (che sabato sarà a Milano per l’anno giudiziario) dopo 20 anni hanno meritoriamente ripreso ad assumere migliaia di cancellieri, che però pareggiano appena quelli che vanno in pensione, e sono contesi dai vari uffici giudiziari in una lotta tra poveri attorno a una coperta corta per tutti. Tavassi ha allora cercato di tenere a galla il settore penale applicando su base volontaria (come le norme consentono 6 mesi più 6 mesi per straordinarie necessità) personale dell’Unep, cioè dell’ufficio di 80 persone che notificava atti oggi invece telematici. Così 16 lavoratori, divenuti fondamentali per la funzionalità delle cancellerie, hanno confermato la propria disponibilità, ma il sindacato Uilpa ha depositato un ricorso al giudice del lavoro per il danno formale al contratto nazionale che firmò anni fa e che verrebbe violato da quelle applicazioni. Senza le quali i presidenti delle varie sezioni penali hanno scritto al coordinatore Giuseppe Ondei che le cancellerie rischierebbero di collassare, con la prospettiva di dover fare solo i processi con detenuti. Non è certo quello che vogliamo, hanno subito compreso i sindacalisti nella prima udienza, e il giudice del lavoro ha allora rinviato a marzo per consentire una intesa in extremis che scongiuri il “collasso” da nessuno voluto. Terrorismo, libertà condizionale senza collaborazione per reati precedenti al 2002 di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 28 gennaio 2020 n. 3477. Il giudice non può negare la libertà condizionale all’ex terrorista per la mancata collaborazione con la giustizia, se i reati sono stati commessi prima del 2002: data in cui è stata imposta la condizione. La corte di cassazione, con la sentenza 3477, accoglie il ricorso contro il no del tribunale alla libertà condizionale. Il tribunale aveva prorogato la detenzione domiciliare speciale alla ricorrente, che espiava la pena per reati di terrorismo commessi nel 1999, in considerazione dell’assenza di pericolosità sociale della condannata. La donna si era infatti “definitivamente allontanata da logiche devianti, si era dedicata agli studi e alla cura della prole, aveva svolto attività di volontariato e si era sempre attenuta alle prescrizioni imposte”. Tutto questo però non era sufficiente per concedere la libertà condizionale, in assenza del requisito della collaborazione con la giustizia, rispetto alla quale la condannata non aveva dichiarato né l’impossibilità né l’inesigibilità. La Cassazione accoglie però il ricorso chiarendo che la previsione, contenuta nella versione aggiornata al 2002 dell’articolo4-bis dell’ordinamento penitenziario, non è retroattiva. Con una disposizione transitoria si è infatti stabilito che la nuova previsione restrittiva non era applicabile alle persone detenute per reati di terrorismo ed eversione commessi prima dell’entrata in vigore della legge 279 del 2002. Bancarotta, istanza al giudice dell’esecuzione per rideterminare l’inabilitazione di dieci anni di Franesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sentenza n. 3290 del 27 gennaio 2020. Tempi più rapidi per rideterminare le pene accessorie in caso di condanna per bancarotta dopo la sentenza 222/2018 della Corte costituzionale. Non sarà più necessario infatti disporre un nuovo giudizio ma sarà sufficiente presentare una istanza al giudice dell’esecuzione che potrà agire autonomamente nell’ambito della sua discrezionalità. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 3290 del 27 gennaio 2020. La questione riguarda la sanzione accessoria del divieto di esercitare un’impresa commerciale e l’esclusione dai ruoli direttivi nella misura fissa di dieci anni per tutti i condannati che era previsto dall’articolo 216, ultimo comma, del Rd 267/1942. La Consulta l’ha infatti dichiarato incostituzionale proprio nella parte in cui disponeva che la condanna per bancarotta comportava l’inabilitazione “per la durata di dieci anni” anziché “fino a dieci anni”. Da qui una pioggia di ricorsi volti alla riduzione della misura. Il caso affrontato riguarda l’istanza presentata dal sindaco di una società, condannato a due anni per bancarotta, affinché gli venissero rideterminate le pene accessorie. La Corte ricorda come le Sezioni unite abbiano risolto la questione soltanto riguardo i processi non ancora definiti con sentenza irrevocabile, stabilendo che in quei casi spetta al giudice di merito procedere alla rinnovata commisurazione della sanzione. Lasciando però scoperta la questione della rideterminazione, tramite incidente esecutivo, quando sulla durata, già stabilita in misura fissa ed invariabile di dieci anni, si era formato il giudicato. Ebbene facendo un notevole passo avanti, la Suprema corte con un principio di diritto ha affermato che: “È consentito anche al giudice dell’esecuzione procedere alla nuova determinazione della durata delle pene accessorie, previste dall’art. 216 ult. co. l. fall., quando siano state inflitte in misura pari a dieci anni e sia richiesto di adeguarle al nuovo testo della norma come risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, che prevede una durata variabile con il solo limite massimo insuperabile di dieci anni”. Ciò detto, la Corte chiarisce che non vi è però un diritto “all’automatica rideterminazione della pena accessoria in replica dell’entità di quella detentiva principale”. Al contrario, “la nuova misura va stabilita dal giudice in via discrezionale e caso per caso, facendo ricorso ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen”, secondo i quali la pena va commisurata alla gravità del reato. Tornando al caso concreto la questione ha una sfumatura ancora diversa. Il giudice dell’esecuzione infatti aveva “implicitamente” ammesso il suo potere di rideterminare la pena ma non si era conformato alla richiesta ritendo la condotta grave. Secondo la Corte però la motivazione è “palesemente incongrua” perché non tiene conto del fatto che, “pur a fronte della natura fraudolenta delle condotte compiute in danno dei soci e dei terzi”, la pena della reclusione è stata graduata partendo dal minimo edittale e previa applicazione delle circostanze attenuanti generiche. Per cui la fattispecie è stata ritenuta di “non particolare gravità”. In questo senso, le conclusioni del giudice dell’esecuzione sono rimaste “prive di un supporto giustificativo che desse conto della scelta del massimo rigore punitivo”, in modo, dunque, del tutto sperequato rispetto alla pena principale di due anni. In definitiva, conclude la Corte, al giudice dell’esecuzione va riconosciuta “la libertà di stabilire in via autonoma la durata delle pene accessorie fallimentari, senza dover rispettare la perfetta simmetria di decisione rispetto a quanto statuito per la pena della reclusione”, tuttavia deve adeguatamente motivare. Per cui “l’ordinanza impugnata va annullata con rinvio alla Corte di appello di Milano, che procederà al rinnovato esame dell’incidente esecutivo sanando le lacune argomentative riscontrate”. Contrabbando, e-cigarette come le “bionde” di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sezione III - sentenza 28 gennaio 2020. Norme sul contrabbando di sigarette tradizionali estese al liquido per le e-cigarette. La Cassazione (sentenza 3465) respinge il ricorso contro il sequestro probatorio dei flaconi con il liquido per le sigarette elettroniche, trovati dal personale dell’agenzia delle Dogane in quantità superiore a quella dichiarata e eccedente la franchigia prevista per diritti doganali e Iva. La misura era giustificata dagli indizi del reato di tentato contrabbando di prodotti liquidi da inalazione per 4.500 ml, corrispondenti a 25,335 chili di tabacco estero lavorato. Il ricorrente contestava l’equiparazione dei liquidi ai tabacchi lavorati esteri, fatta dal Tribunale, applicando l’articolo 291-bis del testo unico delle legislazione doganale (Dpr 43/1973), quello appunto sul contrabbando di tabacco. Ad avviso della difesa l’articolo da applicare era il 295-bis sui diritti di confine per beni diversi che prevede solo una sanzione amministrativa pecuniaria. Ma i giudici ricordano che la norma punisce con la multa e con la reclusione l’importazione di tabacco di contrabbando oltre i dieci chili. Al tabacco lavorato estero sono equiparati i liquidi da inalazione per sigarette elettroniche, con o senza nicotina (Dpr 504/1995, articolo 62-quater). Quanto ai criteri di equivalenza, sono individuati sulla base di apposite procedure tecniche definite con un provvedimento del direttore dell’agenzia delle Dogane e dei Monopoli. Una determinazione contenuta nella direttiva doganale 11038/Ru del 25 gennaio 2018 con la quale è stata prevista l’equivalenza di 1 ml di liquido con 5,63 grammi di sigarette convenzionale. Né si può sostenere, come voleva la difesa, che nell’individuare il criterio di equivalenza, le direttive dell’agenzia delle Dogane volessero solo fornire i parametri utili a quantificare l’imposta di consumo perché richiamano il Dpr 504/95 (articolo 62-quater, commi 1-bis e 7-bis) proprio allo scopo di estendere ai liquidi la disciplina penale dei tabacchi. Si tratta, di fatto, di norme in bianco, integrate dai provvedimenti direttoriali che si basano sul raffronto fra i tempi medi per il consumo di sigarette tradizionali, scelte tra le cinque marche più vendute, e quelli per consumare una e-cigarette, calcolati su un campione di dieci marche in commercio. Per la Cassazione è una tecnica normativa da considerare consentita. Le norme penali possono essere rivestite di contenuti in base a norme extra-penali, a integrazione del concetto. E queste ultime possono essere emanate da autorità amministrative o sovranazionali che dettano “disposizioni regolatrici o impongono divieti anche in base ad accertamenti scientifici relativi a situazioni storiche determinate”. Come avvenuto, appunto, nel confronto tra le sigarette elettroniche e le “bionde” tradizionali. Marche. Nelle carceri meno detenuti, ma 1 su 3 è tossicodipendente dire.it, 29 gennaio 2020 Cala leggermente il numero dei detenuti nelle Marche che passano dai 929 del 2018 agli 898 del 2019. Contestualmente negli istituti penitenziari marchigiani diminuisce anche la presenza di stranieri che continua a rappresentare quasi un terzo dell’intera popolazione carceraria (278). Sono alcuni dei dati emersi nel corso della presentazione del Report 2019 sugli istituti penitenziari delle Marche a cui hanno preso parte, tra gli altri, il garante regionale dei diritti Andrea Nobili ed il presidente del consiglio regionale Antonio Mastrovincenzo. Altro dato che desta preoccupazione è quello relativo alla presenza di tossicodipendenti: sono 270 le persone con problemi di tossicodipendenza (29%). “Dall’analisi del report emergono difficoltà legate al sovraffollamento nelle carceri di Ancona Montacuto e Pesaro Villa Fastiggi - premette Mastrovincenzo. Ma continuano ad esserci carenze anche per quanto riguarda le attività trattamentali. Su questo tema come consiglio insisteremo perché sono misure fondamentali per garantire il reinserimento dei detenuti nella società e nel mondo del lavoro”. A Montacuto sono presenti 328 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 256 persone, mentre a Villa Fastiggi a fronte di una popolazione carceraria pari a 232 unità la capienza prevista si ferma a 153. Va molto meglio ad Ancona-Barcaglione (97 detenuti per una capienza di 100), Ascoli Piceno (102 detenuti per una capienza di 105), Fossombrone (89 detenuti per una capienza di 179), meno a Fermo (63 detenuti per una capienza di 40). Nelle strutture marchigiane lavorano 613 agenti di Polizia penitenziaria, 18 educatori e 8 psicologi. La carenza organica di agenti complessivamente è di 44 unità ed in particolare riguarda Montacuto (-18 unità) e Ascoli (-13). Una fotografia che il Garante ha scattato nel corso del 2019 grazie ad oltre 50 visite nelle strutture e piu’ di 400 colloqui con i detenuti. “Dobbiamo ancora una volta segnalare le carenze di organico per quanto riguarda gli agenti di Polizia penitenziaria, ma anche quelle che riguardano gli operatori destinati ad area trattamentale e Uepe (misure alternative) - spiega Nobili. Ma, nonostante tutto, le Marche esprimono un livello di attenzione al sistema carcerario che è alto e rispetto ad altre regioni viviamo difficoltà minori. Anche il livello di assistenza sanitaria risulta adeguato e di questi tempi non è nè banale nè scontato. Nota dolente è anche l’assenza nelle Marche degli uffici del Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Il Provveditorato non ha piu’ una sede nelle Marche ma a Bologna”. Il maggiore numero di detenuti è presente a Montacuto (328 di cui 112 stranieri), segue Pesaro-Villa Fastiggi (232 di cui 85 stranieri), Ascoli (102 di cui 26 stranieri), Ancona-Barcaglione (89 di cui 31 stranieri), Fossombrone (89 di cui uno straniero) ed, infine, Fermo (63 di cui 16 stranieri). Parma. Settantenne al 41bis, dopo tre anni è finita l’ingiusta detenzione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 gennaio 2020 Due sentenze hanno escluso la sua appartenenza alla mafia, ma nonostante la sua grave patologia era ancora al carcere duro: il guardasigilli il 14 gennaio ha firmato la revoca per nicola antonio simonetta. Finalmente è finita l’ingiusta detenzione al 41bis - durata ben tre anni - del calabrese settantenne Nicola Antonio Simonetta, nonostante la presenza di due sentenze che escludevano la partecipazione al sodalizio mafioso. Una storia denunciata sulle pagine de Il Dubbio e che finalmente, grazie all’interessamento di Rita Bernardini del Partito Radicale che ha sollecitato il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ad occuparsi del caso, è andata a buon fine. Il guardasigilli con decreto del 14 gennaio, ha revocato lo speciale regime penitenziario e indicato di trasferirlo in un’altra Casa circondariale dotata dei presidi sanitari necessari alla salvaguardia della salute di Simonetta, vista la sua particolare patologia. L’avvocata difensore Maria Elisa Lombardo, del foro di Locri, ha appreso che lunedì scorso è stato finalmente trasferito dal carcere di Parma dove era recluso in regime duro al centro clinico del carcere di Secondigliano. Finisce così l’incubo per Simonetta di vivere recluso nella frontiera massima dell’intervento punitivo dello Stato senza essere né un mafioso né un terrorista come risulta da ben due sentenze. A questo si aggiunge anche la sua delicata condizione di salute: ha il morbo di Crohn e non curabile in regime duro. Una situazione singolare che nasce da un procedimento giudiziario molto complesso e che l’avvocata è riuscita, in parte, a decostruirlo in appello. Il procedimento più importante, per il quale Simonetta è stato condannato al 41bis, riguarda la famosa operazione “new bridge” e prende le mosse da una ampia indagine internazionale, nella quale la Dda di Reggio Calabria, in collaborazione con l’Fbi americana, ha investigato con lo scopo di mettere a fuoco eventuali collegamenti tra esponenti legati alla famiglia mafiosa dei Gambino di New York e soggetti italiani legati, o appartenenti, alle famiglie mafiose della ‘ndrangheta calabrese. L’indagine parte e si concentra intorno alla figura di Franco Lupoi, un italoamericano che vive a Brooklyn, con qualche precedente penale, considerato attiguo alla famiglia dei Gambino, al quale verrà presentato un’agente provocatore, tale Jimmy, che si fingerà interessato a traffici illeciti. L’avvocata Lombardo che difende Simonetta, spiega che tutto l’impianto accusatorio nasce da due fondamentali e mai provati presupposti: uno, che Lupoi appartenesse alla famiglia dei Gambino di New York, ma in dibattimento è emerso che abbia fatto solo da autista per un certo periodo di tempo. Due, che l’agente provocatore Jimmy si “inserisce” in una pianificazione di compravendita di eroina per raccogliere riscontri investigativi, ma, non è mai emersa, né tantomeno è mai stata dimostrata, la realtà di un preesistente traffico di sostanze stupefacenti tra l’Italia e l’America nel quale Lupoi fosse coinvolto. Cosa c’entra Simonetta in tutto questo? Lupoi è suo genero in quanto ne ha sposato l’unica figlia. La prima severa condanna, poi riformata in appello, nasce dalla convinzione dei giudici di primo grado che Simonetta sia stato il “regista occulto” del traffico internazionale di sostanze stupefacenti organizzato da Lupoi e Jimmy. L’avvocata Lombardo riesce a decostruire l’impianto accusatorio evidenziando che il coinvolgimento emerge sostanzialmente da un unico episodio, datato 20 aprile 2012, in cui Simonetta, Jimmy e Lupoi hanno un fugace incontro di pochi minuti. Le indagini porteranno a monitorare due soli episodi di cessione di sostanza stupefacente avvenuti tra Reggio Calabria e New York tra Lupoi e Jimmy. Da tutto ciò si pianificava che si sarebbe dovuto avviare un intenso e continuativo traffico che però non è mai partito. “Tant’è che nell’inerzia delle parti - sottolinea l’avvocata Lombardo -, le autorità stanche di attendere ulteriori sviluppi, decidono di chiudere l’operazione nel febbraio 2014”. In sostanza, in primo grado, Simonetta è stato condannato a 27 anni di reclusione perché avrebbe - pur non comparendo mai - occultamente coordinato il traffico che altri (Jimmy e Lupoi) stavano organizzando. Poi è arrivata la sentenza di secondo grado che ha derubricato il reato in capo al Simonetta in una mera partecipazione ad una associazione semplice. Ora, per Simonetta, è almeno finito l’incubo del 41bis. Firenze. Il ministro Lamorgese in prefettura: “reati in calo, ma esplode il problema droga” firenzepost.it, 29 gennaio 2020 La buona notizia è che il numero dei reati, a Firenze, sta calando. La cattiva notizia è che esplode il problema droga, in tutti gli strati sociali. Non basta: gli spacciatori arrestati, il giorno dopo sono nello stesso posto a vendere dosi. L’ha detto il ministro, Luciana Lamorgese, dopo il vertice sull’ordine pubblico in prefettura. È anche difficile tenere dentro gli spacciatori, parola del ministro, perché le carceri scoppiano. E allora? Il sindaco, Dario Nardella, ha avanzato una soluzione: aprire, anche in Toscana, i centri per il rimpatrio degli extracomunitari irregolari che commettono reati. È una novità: fino a pochi fa gli esponenti del centrosinistra (presidenti della Regione Toscana compresi) si dichiaravano contrari ai centri. Ora Nardella ne parla, aggiungendo di voler coinvolgere ne progetto anche i sindaci delle ltre città capoluogo di provincia della Toscana. “La situazione è del tutto sotto controllo - ha detto il ministro durante la conferenza stampa dopo il vertice con il prefetto, Laura Lega, il capo dlla polizia Franco Gabrielli e gli esponenti delle forze dell ‘ordine - con un territorio florido dove ci sono 15 milioni di presenze l’anno a fronte di circa 380mila abitanti. E anche le periferie urbane sono curate. Ho riscontrato una perfetta sinergia tra le istituzioni e i problemi vengono affrontati con serenità e in un progetto comune per il bene di questo territorio. C’è stata una diminuzione dei reati pur in presenza di una forte impennata nel 2017-18: nel 2019 si è registrata una flessione del 3,7% sul territorio metropolitano e dell’1% in città. Diminuiscono i reati in generale e un dato che emerge è l’aumento dei furti in appartamento, ma su questo le forze di polizia stanno operando con determinazione, possiamo dire che Firenze è una città sicura; come in tutte le città importanti non esiste la criminalità zero, teniamo conto che i reati sono diminuiti, già questo ci deve far sperare bene sulla percezione”. Sugli organici delle forze di polizia, ha continuato Luciana Lamorgese, “il sindaco di Firenze mi ha chiesto un incremento, per sapere se noi riusciremo a mandare nell’arco dell’anno dei numeri ulteriori di forze di polizia. Abbiamo detto che fra 2018 e il 2019 ne sono arrivati 130 in più, però già quest’anno sono previste innanzitutto 22 unità appartenenti alla polizia di Stato, e poi è prevista per l’Arma dei Carabinieri una rimodulazione degli organici nelle 12 stazioni, e anche per la Guardia di Finanza ho avuto assicurazioni che si arriverà alla copertura, alla pianificazione degli impieghi, cercando di coprire le carenze sul territorio, ricorrendo a coloro che stanno terminando i corsi specifici di formazione. Vedo un incremento positivo anche da parte delle altre forze di polizia, e quindi posso dire che su questo do garanzia che nell’arco del 2020 riusciremo a far fronte con gli ulteriori corsi che stanno per concludersi”. Sugli incidenti stradali del fine settimana, il ministro ha riferito di aver “mandato delle direttive ai prefetti perché ritengo sia stato pesante il numero delle vittime, soprattutto giovani, per fare di più, perché non si verifichino eventi tragici come quelli che abbiamo visto anche di recente. Dobbiamo porci nelle condizioni di evitare queste tragedie, e per questo faremo un incontro a livello centrale. Valuteremo anche l’ipotesi di fornire un kit fuori dalle discoteche, per evitare che i giovani si mettano alla guida con un livello alcolemico elevato. Sul memorandum Italia-Libia “è stato costituito un gruppo di lavoro, abbiamo terminato quelli che sono gli interventi da portare avanti, e attualmente è in fase di chiusura e non appena avrà il via libera anche da parte del ministero degli Esteri, con cui abbiamo lavorato congiuntamente, andrà avanti. Quindi speriamo di poterlo portare a compimento nel giro di poco tempo. La parte nostra è stata fatta. A Zagabria si è avvicinato il ministro dell’Interno romeno per dirmi che avevano portato l’accordo di Malta al parlamento romeno ed era stato valutato positivamente. Quindi anche la Romania parteciperà da oggi a questi processi di redistribuzione, di relocation dei migranti che arrivano sulle nostre coste. Questo accordo sta dando i suoi frutti. Oggi, purtroppo, c’è una situazione difficile dall’altra parte del Mediterraneo, dobbiamo gestirla in una certa maniera, d’accordo con l’Europa. Sono tornata venerdì da Zagabria con la condivisione da parte dei vari Stati che ci sia una gestione congiunta in Europa, perché questa esigenza che l’Europa partecipi a un processo di individuazione delle linee necessarie per gestire questo fenomeno così complesso, credo che ormai sia entrata nella mentalità dei vari Stati”. Belluno. Carcere sovraffollato e presenza di detenuti psichiatrici pericolosi Il Gazzettino, 29 gennaio 2020 Carcere sovraffollato, poco personale e articolazione di salute mentale (Asm) con assistenza sanitaria insufficiente. È la fotografia del carcere di Baldenich data dalla Procura nella relazione sull’amministrazione della giustizia per l’anno 2019. “La casa circondariale di Belluno risale al 1933 - si ricorda nella relazione - ed ha una capienza di 90 detenuti. La media di ospiti annua è stata di 81 unità. Nel periodo dal primo luglio 2018 al 30 giugno 2019 si è registrata una situazione di lieve sovraffollamento nella sezione maschile, dove, a fronte di una capienza regolamentare di 53 unità, sono stati mediamente presenti 66 detenuti”. Non sono mancati poi gli eventi critici, con detenuti che hanno dato in escandescenze o hanno aggredito le guardie penitenziarie. “Si sono verificati 55 eventi critici con rilevanza penale”, scrive la Procura. “La sezione maschile necessita di ristrutturazione in linea con quanto previsto dal Dpr 230/2000”, si sottolinea nella relazione. È composta da un unico plesso con piano terra, primo e secondo piano a custodia chiusa (ovvero con apertura delle camere nel limite di 8 ore e possibilità di andare in cortile per 4 ore). Sono presenti 20 camere di cui 5 da due posti e 15 da 4 posti. C’è poi la sezione transessuali. E infine quella di salute mentale con capienza di 7 detenuti. “La sezione vede la presenza media di 6 detenuti e negli orari di apertura delle camere viene adottata una vigilanza rinforzata, con due unità, per la presenza di soggetti psichiatrici alcuni dei quali particolarmente pericolosi. Nella sezione viene assicurata un’assistenza sanitaria integrativa, che comunque risulta insufficiente a soddisfare e esigenze di questi detenuti”. Infine le sezioni nuovi giunti e quella dimittendi o semiliberi. La polizia penitenziaria come pianta organica dovrebbe essere di 95 unità, al 30 giugno 2019 ce ne erano solo 85. “L’attuale forza personale risulta insufficiente a garantire un’adeguata sorveglianza”. Sassari. Presunto pestaggio a Bancali, l’avvocato: “Il detenuto sta bene, ma ha dei lividi” di Argentino Tellini L’Unione Sarda, 29 gennaio 2020 Il 38enne di Andria ha detto di aver conficcato una penna nel viso di un agente mentre lo stavano pestando. “Sta bene, chiaramente è turbato per l’accaduto. Nel viso non ha segni particolari, ma nel corpo presenta dei lividi”. Così esordisce l’avvocato Maria Teresa Pintus, dopo il colloquio avuto oggi in carcere a Bancali con il 38enne di Andria, detenuto in regime di 41bis, che ha sostenuto di avere subito nei giorni scorsi un pestaggio da parte di alcuni agenti del carcere, ma è stato a sua volta accusato di avere conficcato nel viso di un agente stesso un tappo di penna. Il difensore comunica che, a detta sua, “ha compiuto quel gesto solo per reazione, durante la collutazione”. Quindi i fatti, il tappo della penna sull’agente e la presunta aggressione, per il detenuto sarebbero accaduti contemporaneamente. Ipotesi naturalmente da verificare. Sulla vicenda si sta interessando la Magistratura. Il detenuto due giorni fa ha esposto anche querela nei confronti degli agenti. Non è la prima volta che si verifica un episodio di violenza nella struttura carceraria sassarese: “Sbaglia chi dice che in questo carcere le cose vanno bene - il commento di Maria Teresa Pintus. Purtroppo non è così e questo oramai lo sanno tutti. Sulla vicenda non posso dire al momento altro. Lo farò nelle sedi opportune”. Roma. I colloqui di lavoro? Ora si fanno anche in carcere di Alice Scaglioni Corriere della Sera, 29 gennaio 2020 Come sancito dall’Articolo 27 della Costituzione, la pena per i detenuti in carcere deve avere valore rieducativo. È questo il principio che ha guidato la prima edizione del Corso per la ricerca attiva del lavoro, promosso dalla sezione Consulenza formazione e attività professionali di Unindustria e patrocinato dal Garante dei detenuti del Lazio. Il progetto, attivo presso la Casa di reclusione di Rebibbia a Roma, si è concluso martedì 28 gennaio 2020 con l’incontro finale tra i detenuti che hanno partecipato alla formazione - 50 ore di lezione - e le aziende che hanno aderito all’iniziativa, ma il 21 gennaio è già stata avviata una seconda edizione. Il reinserimento dopo la pena - Sette persone del primo corso hanno potuto sostenere dei colloqui di lavoro con imprenditori e responsabili del reclutamento di Bridgestone, Orienta, Bat, Abbvie e Fassi, per farsi conoscere e per consentire alle aziende di valutare le loro competenze. L’obiettivo? Il reinserimento nel mondo del lavoro. In caso di riscontro positivo verrebbero attivati dei canali per permettere ai detenuti di muovere i primi passi in un mondo con cui hanno perso i contatti (o che non hanno mai conosciuto). La missione - “Il tutto è nato due anni fa, quando sono stato invitato a parlare in carcere durante una giornata di formazione - racconta Roberto Santori, presidente della sezione Consulenza di Unindustria - Sono rimasto molto colpito dal vedere i detenuti così affranti e ho compreso l’importanza di agire”. Da lì, la ricerca dei fondi che hanno permesso l’avvio del corso pilota. Durante la formazione i detenuti hanno appreso come relazionarsi sul posto di lavoro e scrivere un curriculum per valorizzare le proprie competenze. “Si pensa al carcere come luogo di pena e non come luogo in cui può prodursi una nuova volontà di modificarsi e diventare uomini nuovi, ma è sbagliato” - dice Nadia Cersosimo, direttrice della Casa di reclusione di Rebibbia -. C’è la volontà dell’imprenditoria di trovare posto per queste persone all’interno del mondo del lavoro: bisogna cominciare a pensare al detenuto come risorsa positiva”. La missione è creare un ponte tra il penitenziario e le industrie, per far sì che si riduca il rischio della recidiva da parte dei detenuti, e per consentire alle aziende di guardare a queste persone in maniera più razionale, usufruendo anche delle agevolazioni fiscali previste. “Quello di Rebibbia è un esempio virtuoso - conclude Santori - e il nostro sogno è portarlo anche a livello nazionale”. Napoli. Detenuti giardinieri a Scampia: parte il progetto “Mi riscatto per...” napolitoday.it, 29 gennaio 2020 “Lavoreremo affinché questo progetto cresca e divenga uno strumento riabilitativo e di reinserimento socio-lavorativo per tutti coloro che cercano di riscattarsi dalla pena detentiva”, afferma l’assessore Buonanno. Ha preso il via il progetto “Mi riscatto per Napoli”, nato dalla collaborazione fra l’Amministrazione comunale e il Centro Penitenziario di Secondigliano, con la volontà di sperimentare e considerare il lavoro come misura riabilitativa e di avvicinamento a percorsi di legalità. “Per la prima volta, due persone detenute - spiega l’Assessore comunale alle Politiche Sociali e al Lavoro Monica Buonanno - sono state accompagnate nel quartiere di Scampia, dove hanno iniziato un’attività di giardinaggio coadiuvate dal personale responsabile, prestando servizio volontario e gratuito: con questo progetto, abbiamo messo al centro il tema del lavoro inteso come misura complementare alla detenzione. Pensare al lavoro come alternativa valida di riabilitazione del detenuto permette di dare dignità alle persone inserendole in percorsi di legalità: come Amministrazione ci stiamo fortemente battendo per intraprendere strade che siano alternative alla pura reclusione, valutando la possibilità di percorsi che facciano della rieducazione e del riavvicinamento al contesto sociale circostante il loro punto di forza”. “Dopo tanto lavoro - conclude la Buonanno - che ha visto il contributo dell’Assessore Del Giudice ed è stato portato avanti insieme al Dirigente del Servizio Politiche di Integrazione e Nuove Cittadinanze Fabio Pascapè e la Direzione della VIII Municipalità, sono lieta che questo progetto abbia finalmente preso avvio. Ringrazio anche l’amministrazione penitenziaria con la quale proveremo ad implementare le attività di programmazione di ‘Mi riscatto per Napoli’. Lavoreremo affinché questo progetto cresca e divenga uno strumento riabilitativo e di reinserimento socio-lavorativo per tutti coloro che cercano di riscattarsi dalla pena detentiva”. Trani (Bat). Un processo da guinness: 88 imputati collegati in videoconferenza di Luca Imperatore gnewsonline.it, 29 gennaio 2020 Si è svolta questa mattina nell’aula bunker del carcere di Trani l’ultima udienza del processo “Pandora” che vede coinvolti quasi novanta imputati, presunti appartenenti alla mafia barese. Tutte le udienze si sono svolte ricorrendo al servizio di multivideoconferenza che ha permesso a 88 detenuti di alta sicurezza di essere contemporaneamente video-collegati dai rispettivi penitenziari. Si è trattato di un percorso senza precedenti per il sistema di videoconferenze fortemente voluto dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede e dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Francesco Basentini. Il processo, che vedeva coinvolti i presunti affiliati ai clan Diomede-Mercante e Capriati di Bari, accusati di associazione mafiosa pluriaggravata, tentato omicidio, rapina, furto, lesioni personali, sequestro di persona e violazioni della sorveglianza speciale, è iniziato il 20 maggio 2019 con rito abbreviato nel Tribunale del capoluogo pugliese. Il nome, “Pandora”, scelto dagli inquirenti della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari, intende far riferimento al nome del mitologico vaso greco in cui sarebbero racchiusi tutti i mali. Visto l’alto numero di imputati è stato deciso di affidarsi alla tecnologia della videoconferenza e spostare le udienze nell’aula bunker del carcere di Trani predisposto per questo tipo di dibattimento. Il grande lavoro di squadra, durato circa tre settimane, che ha visto coinvolti gli istituti penitenziari, la Dgsia e l’ufficio multivideoconferenze del Dap coordinato dall’Ispettore Superiore Luigi Chiani, ha permesso di seguire simultaneamente su 20 monitor gli 88 detenuti, collegati da 27 siti diversi. Numeri mai raggiunti in precedenza. L’udienza camerale (senza pubblico) si è svolta questa mattina a porte chiuse con la presenza solo di giudici e avvocati. Grazie a questa strategia organizzativa, è stato possibile elevare i livelli di sicurezza nella gestione del processo e conseguire un risparmio importante sotto il profilo dell’impiego di unità di personale del Corpo di Polizia Penitenziaria oltre che dei mezzi di trasporto per il trasferimento dei detenuti. Milano. Caritas Ambrosiana: nei nostri centri 300 famiglie rese povere dall’azzardo di Lorenzo Rosoli Avvenire, 29 gennaio 2020 Il direttore Gualzetti: “Ma è solo la punta dell’iceberg di un problema devastante”. I giocatori patologici? Più spesso uomini che donne, fra i 50 e i 70 anni d’età. “Questi dati mostrano solo la punta dell’iceberg. Ma bastano a far capire quanto gravi possano essere le conseguenze dell’azzardo patologico per i giocatori e le loro famiglie. A partire dalla riduzione in povertà di chi, magari, povero non era”. Così Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana, commenta gli esiti della ricerca sul “Gioco d’azzardo problematico” realizzata sui dati del biennio 2017-2018 raccolti in 115 dei 390 centri d’ascolto presenti in diocesi di Milano. L’”emerso” - Ebbene: 46 centri d’ascolto - sui 115 che hanno risposto al questionario inviato dalla Caritas - “hanno complessivamente incontrato 162 persone che nel corso dei colloqui hanno esplicitato di avere problemi legati al gioco d’azzardo, proprio o di altri, anche se questi non rappresentavano la richiesta principale per la quale si erano presentati al centro”, si legge nella ricerca svolta dall’Area dipendenze di Caritas Ambrosiana con l’Area Centri d’ascolto e l’Osservatorio diocesano delle povertà e delle risorse. Le loro caratteristiche? Più spesso uomini che donne, fra i 50 e i 70 anni d’età o, in seconda battuta, fra i 30 e i 49. A segnalare il problema è più spesso il coniuge che il giocatore stesso. E il maggior numero di casi si è riscontrato nella Zona pastorale di Milano. Problemi e risposte - I problemi più spesso segnalati dai centri d’ascolto in relazione al “gioco problematico”? Quelli economici, fino all’indebitamento. Ma anche le difficoltà nelle relazioni e i problemi legali, fino ad arrivare alla dipendenza da alcol o droghe. Le risposte date dagli stessi centri? In primo luogo: la fornitura di generi di prima necessità. Quindi: l’invito ai servizi sociali, ai servizi specifici per le dipendenze, a quelli per l’indebitamento, ai gruppi di auto-aiuto. E in alcuni casi allo sportello diocesano per familiari di giocatori “problematici” che Caritas gestisce dal 2015. Un numero per ripartire - “Lo sportello - che nel tempo ha ricevuto finanziamenti nell’ambito dei progetti regionali sulla prevenzione e contrasto al gioco d’azzardo patologico, l’ultimo dei quali negli scorsi mesi - offre ai familiari ascolto e supporto educativo, psicologico, legale, economico-finanziario ed è realizzato con la Fondazione San Bernardino e l’Ordine degli Avvocati di Milano - ricorda un comunicato Caritas -. L’accesso è gratuito. Il primo colloquio va fissato chiamando l’Area dipendenze allo 02.76037261”. Il “sommerso” - La ricerca, inoltre, ha stimato in circa 200 le persone che si sono rivolte ai centri d’ascolto per chiedere aiuto, senza che dai colloqui emergesse esplicitamente il problema dell’azzardo - magari nascosto per vergogna o imbarazzo - ma che operatori e volontari hanno percepito essere fra le cause delle difficoltà personali o familiari. Una circostanza segnalata da 80 centri su 115. L’impatto dell’online - Ad aprire la via alla sempre maggiore diffusione del gioco patologico “non è stata solo la moltiplicazione esponenziale dell’offerta di luoghi in cui giocare, alla quale abbiamo assistito negli ultimi vent’anni, ma anche l’introduzione dell’azzardo online che consente di scommettere a tutte le ore, ovunque, in modo solitario”, sottolinea Laura Rancilio, responsabile dell’Area dipendenze di Caritas Ambrosiana. Si apre così la via ai “comportamenti compulsivi”. Di persone a forte rischio di indebitamento. E di usura. Prima che sia troppo tardi - L’azzardopatia azzera patrimoni e risparmi, fa perdere il lavoro, manda in frantumi matrimoni e famiglie. “E spinge alla disperazione - conclude Gualzetti. Che oltre 300 famiglie, senza storie di grave povertà alle spalle, abbiano dovuto chiedere aiuto ai centri d’ascolto, dimostra quanto sia devastante l’impatto dell’azzardo sulla vita delle persone. Un prezzo troppo alto da pagare, su cui da anni chiediamo una seria riflessione pubblica. Occorre moltiplicare gli sforzi per far emergere il fenomeno, “intercettare” le vittime prima che la situazione sia troppo compromessa, e avviare percorsi di prevenzione, accompagnamento e cura”. Roma. Università nel carcere, la proposta arriva da Velletri latinaoggi.eu, 29 gennaio 2020 Il consigliere regionale del Lazio Eleonora Mattia ha annunciato l’avvio di un dialogo con l’ateneo di Roma Tre. Non solo istruzione superiore, ma anche una prospettiva universitaria. È questa la novità che riguarda il carcere di Velletri, appresa grazie a un annuncio effettuato dal consigliere regionale del Lazio, Eleonora Mattia, che ieri mattina ha visitato il penitenziario di Lazzaria in occasione della cerimonia di consegna di tre diplomi di maturità ad altrettanti detenuti che hanno conseguito il titolo di studio all’interno dell’istituto di pena. L’evento è stato inquadrato nel corso dell’iniziativa “Agricoltura sociale - Istruzione come forma di riscatto”: hanno preso parte, oltre all’esponente del Pd alla Pisana, anche il sindaco di Velletri, Orlando Pocci; l’asssessora regionale all’Agricoltura, Enrica Onorati; il consigliere regionale Salvatore La Penna; la direttrice della casa circondariale, Maria Donata Iannantuono; il dirigente scolastico dell’Istituto “Cesare Battisti” Eugenio Dibennardo; il referente scolastico presso il carcere, professor Antonino Marrari. In qualità di presidente della IX commissione della Regione Lazio che si occupa di Istruzione, Lavoro e Diritto allo studio, la Mattia ha spiegato: “Abbiamo visitato le serre, la fungaia e i luoghi dove vengono prodotti olio e vino, toccando con mano l’entusiasmo con cui i detenuti si impegnano in queste attività, consapevoli che istruzione e cultura siano gli unici veri stimoli per crescere e riscattarsi, una sorta di ascensori sociali di cui non possiamo fare a meno. Non è un caso che nel carcere ci siano anche 10 iscritti all’università, motivo per cui, insieme alla direttrice, abbiamo lanciato la sfida per attivare nel prossimo anno, oltre all’Istituto alberghiero (già previsto) anche il corso Its di Enologia e, in tempi brevi, un percorso distaccato con l’università Roma Tre”. Una novità interessante, dunque, che consentirà ai detenuti altre possibilità di reinserimento sociale e di arricchimento del proprio bagaglio personale di esperienze. Ferrara. Vite nuove attraverso il teatro in carcere estense.com, 29 gennaio 2020 Giornata di studio con i detenuti-attori. Czertok: “Ponte straordinario tra il carcere e la società civile”. Parte da Ferrara e da Teatro Nucleo il nuovo partenariato strategico Erasmus+ “Attuando vite nuove”, dedicato a creare un ponte tra il carcere e la città attraverso il teatro. Ferrara diventa così centro di attività e riflessioni sull’educazione con il teatro in carcere, con la presenza di Teatro del Norte (Spagna), della Compagnia tedesca Z3 (Berlino) e degli ungheresi Ures Ter di Pecs, coinvolti in una settimana di convegni condotta da Teatro Nucleo. In particolare, giovedì 30 gennaio presso la casa circondariale G. Satta di Ferrara - dove Teatro Nucleo opera dal 2005 - si terrà una giornata di studio con la partecipazione dei detenuti-attori impegnati nella produzione di “Album di famiglia”, spettacolo ispirato all’Amleto di Shakespeare, una cui prima versione è stata presentata nell’ambito del Festival di Internazionale nello scorso ottobre. “Il teatro è un catalizzatore efficacissimo per l’alfabetizzazione e l’acquisizione di nuove competenze per il reinserimento dei detenuti, rappresentando un ponte straordinario tra il carcere e la società civile a fine pena, quando è necessario trovare casa e lavoro, superando lo stigma”, racconta Horacio Czertok co-fondatore di Teatro Nucleo, attivo da più di quindici anni all’Arginone con progetti di teatro carcere che rappresentano ormai un’eccellenza riconosciuta a livello internazionale e che gli hanno valso la nomina a ambasciatore per la Regione Emilia Romagna della piattaforma Epale- Electronic Platform for Adult Learning in Europe. Con questa nomina e con il progetto Attuando vite nuove, Ferrara vede riconosciuta l’esperienza più longeva dell’Emilia Romagna, quella di Teatro Nucleo, che ha suscitato la nascita del coordinamento regionale dei teatri-carcere dando vita ad una rete regionale e ha quindi generato progetti attraverso i quali la rete regionale agisce in parallelo con quella internazionale, che risulta dai vari progetti sviluppatisi negli anni in Francia, Belgio, Germania, Spagna, Portogallo, Cipro, Grecia, Ungheria, Lituania, Russia, Svezia, Danimarca, Malta, Inghilterra, Paesi Bassi, Argentina, Cile, Colombia, Messico. “In questo modo, i risultati delle esperienze hanno modo di confrontarsi e interagire, assunto estremamente rilevante in quanto non esistono istituti nei quali si possa acquisire la formazione necessaria al teatro in carcere”. Livorno. I detenuti delle Sughere visitano la mostra di Modigliani livornopress.it, 29 gennaio 2020 Il Garante dei Detenuti del Comune di Livorno Giovanni De Peppo ha accompagnato un gruppo di detenuti della Casa Circondariale in visita alla mostra “Modigliani e l’avventura di Montparnasse”. “Abbiamo visto l’emozione che solo un dipinto di Modigliani riesce a dare nei volti di sei detenuti della Casa Circondariale delle Sughere che oggi hanno visitato la mostra che sta raggiungendo ragguardevoli risultati di visitatori. Sei detenuti che, grazie ad un lavoro di squadra tra la Direzione dell’Istituto gli Assessorati al Sociale e alla Cultura e il Magistrato di Sorveglianza, hanno potuto avere il privilegio, al pari di tanti cittadini di ammirare la mostra. La visita ideata dalla psicologa del Carcere dott.ssa Michela Salvetti è stata preparata in Istituto dalla professoressa Nadia Marchioni curatrice d’arte. Accompagnati dalla sapiente guida della dott.ssa Annalisa Castagnoli dello Staff del Museo di Livorno con la collaborazione della Responsabile dott.ssa Laura Dinelli si è realizzato il sogno di persone che stanno costruendo un percorso di riabilitazione dove la presenza della bellezza e dell’arte rappresenta un fondamentale stimolo al cambiamento e alla crescita personale. Le spiegazioni e le riflessioni sul percorso artistico di Modigliani e dei suoi contemporanei hanno acceso curiosità e interesse nei detenuti su un artista che rappresenta un fenomeno unico in una realtà ricca di cultura artistica come gli anni del primo novecento. La visita ha rappresentato per i detenuti anche un’occasione per affacciarsi sulla particolare e ricca di storia struttura del quartiere Venezia e la dott.ssa Castagnoli non ha tralasciato di raccontare della particolare e straordinaria crescita della nostra città grazie alle Leggi Livornine che hanno dato opportunità di tolleranza e armonia tra comunità e nazioni diverse in una città capace di rispetto dei diritti di tutti. I detenuti alla fine della loro visita, accompagnati dalla volontaria della Caritas Rita Romboli e dal Garante dei detenuti Giovanni De Peppo sono stati riaccompagnati in Carcere grazie alla disponibilità di un mezzo messo a disposizione dalla SVS di Livorno”. Quell’odio che ha preso il potere di Gad Lerner La Repubblica, 29 gennaio 2020 Pochi lo ricordano, ma il primo ad allestire la messinscena di una spedizione punitiva sotto la residenza di una persona indicata come meritevole di pubblica persecuzione fu Matteo Salvini, nel maggio 2014. Si trattava di Elsa Fornero. “Meno male che non è in casa perché mi prudono le mani”, dichiarò minaccioso, a favore di telecamera, il futuro ministro dell’Interno. Che due anni dopo replicò l’appostamento dei suoi seguaci sotto il domicilio dell’ex ministra. La pratica dell’intimidazione squadristica -sappiamo dove abiti, d’ora in poi non vivrai più tranquillo - trova i suoi cattivi maestri nel presente, non solo nel passato. Non possono fingere stupore se ora assistiamo al passaggio dalla violenza verbale, sparsa nei social e in tv, all’assedio fisico rivendicato come espressione di collera popolare. La svastica abbinata alla scritta “troia negra” dietro la vetrina in frantumi nel bar di una cittadina italiana di origine marocchina, a Rezzago; la stella di Davide usata come marchio identificativo sulla porta di una ex deportata nel lager di Ravensbruck, a Mondovì; il “crepa sporca ebrea” scritto sul muro di un’abitazione di Torino: sono i richiami storici, i feticci di un’aggressività latente cui si è concessa licenza di parola; e quindi ne approfitta puntando al salto di qualità. Prendono i simboli del Male e li brandiscono in sintonia con l’auspicio diffuso della cattiveria al potere, sulla scia del plauso che riscuotono nella pubblica arena gli spacciatori del verbo trucido, presentato come voce del popolo. Non a caso, in questi giorni, anche gli asiatici vengono fatti oggetto di sputi, minacce e offese in diverse città italiane. Trattati come untori, colpevoli di impestarci con il coronavirus che l’ignoranza e la xenofobia descrivono annidato perfino nelle cucine dei ristoranti cinesi. C’è una componente sadica nella parodia di caccia all’uomo orchestrata intorno alla Giornata della Memoria. Confida nel piacere che può suscitare nell’animo degli incarogniti. Li lusinga con l’umiliazione dei malcapitati presi a bersaglio, vivi o morti che siano. Le imprese di questa nuova forma di squadrismo assecondano una tendenza diffusa nella società dell’incertezza, se è vero che ormai anche le fiction di maggior successo, non solo i talk show, prediligono nel ruolo di protagonisti i rough Nero, che più sono infami più ci piacciono. Perché allora Hitler e i nazisti non dovrebbero ritrovare il posto che si meritano in questa allegoria di guerra sociale, etnica e culturale, per il momento (ma fino a quando?) ancora incruenta? “C’è tanta omertà in giro, sembra quasi che sia colpa mia se mi hanno distrutto il bar”, ha detto sconsolata Madiha, colpevole di non essere una bresciana autoctona. Mentre la torinese Maria per ora ha deciso di non cancellare la scritta antisemita per ricordarci che “la storia antica a volte ritorna”. Ci ha messo una settimana Facebook per decidersi a rimuovere il video della citofonate bolognese di Salvini, contornato da giornalisti sorridenti che lo scambiavano forse per un genio della comunicazione anziché incalzarlo come propagandista dell’odio. Il guaio è che i partiti dell’estrema destra hanno imparato a usare l’espediente retorico di fare sfoggio dei principi liberali per rivendicare il diritto di schernire e minacciare i loro capri espiatori. Non a caso si sono battuti per l’abrogazione della legge Mancino che punisce l’incitamento all’odio razziale. Troppe volte ignorata per timore di ledere la libertà d’espressione. Col risultato che stiamo passando dalle parole ai fatti. La trappola delle verità assolute di Michele Marsonet* Il Dubbio, 29 gennaio 2020 Battere le fake news ricercando la verità assoluta? Un errore. Molti sono convinti che libertà e verità siano intimamente connesse e che non si possa essere liberi senza il possesso della verità. Non è così. Si può essere liberi solo costruendo un concetto limitato e parziale di verità. Oggi si afferma spesso che l’inscindibilità di osservazione e teoria conduce alla relativizzazione di ogni discorso intorno al mondo circostante, e ciò significa che non è lecito affermare che il mondo rappresenta il criterio ultimo per distinguere il vero dal falso. In altre parole, risulta impossibile - pena la caduta nel ragionamento circolare - separare il mondo dalle teorie da noi costruite e utilizzate per parlarne; per far questo avremmo bisogno di un punto di vista superiore e neutrale, vale a dire di quella che Hilary Putnam definisce “visione dell’occhio di Dio”. Il risultato, in ultima istanza, è che ogni discorso sul mondo è relativo alle teorie di cui attualmente disponiamo. La principale caratteristica degli esseri umani, che è poi quella che li distingue da tutti gli altri prodotti dell’evoluzione naturale, è la loro capacità di idealizzare e di vedere le cose non solo come sono attualmente, ma anche come potrebbero o dovrebbero essere. Questo spiega perché, ad esempio, la nostra evoluzione non è soltanto naturale e biologica, ma pure culturale e normativa. Ciò di cui disponiamo, in ogni particolare epoca storica, è un genere limitato di conoscenza, dove l’aggettivo “limitato” si riferisce a tutte le condizioni particolari storiche, culturali, sociali, politiche, tecnologiche, etc. - che sono in grado di determinare gli obiettivi della nostra ricerca. Non esiste quindi la conoscenza “definitiva”. Quest’ultimo tipo di conoscenza, d’altro canto, è connessa alla nozione idealizzata di scienza “perfetta”. Il problema è che tanto l’ideale della scienza perfetta quanto quello della verità definitiva sono necessari al perseguimento pratico dell’impresa scientifica. Possiamo - e dobbiamo - comprendere il divario esistente tra “reale” e “ideale”. Ma nello stesso tempo, utilizzando la succitata capacità di idealizzazione e costruendo “mondi possibili”, riusciamo in qualche modo a colmare tale divario proiettandoci nelle circostanze ideali che renderebbero realizzabile una tale operazione. Ed è pure opportuno rammentare che non vi sarebbe alcuna scienza senza la nostra abilità di idealizzare e di prevedere circostanze e stati di cose possibili. Ne risulta pertanto che è errato accusare il coerentismo per il fatto che non fornisce alcuna definizione di verità. In realtà, una simile definizione non rientra nei suoi obiettivi, né potrebbe fornirla senza contraddirsi. Risulta allora difficile capire cos’altro potrebbe essere la verità se non coerenza ideale, dal momento che il fatto che una proposizione sia vera equivale al suo essere coerente rispetto a un insieme ideale di dati. Anche in questo caso è la presenza dell’idealizzazione a impedirci di ottenere - mediante la coerenza - la verità assoluta. Nella pratica il divario tra verità “presunta” e “accertata” continua infatti a manifestarsi, e soltanto delle circostanze ideali (ovviamente non conseguibili praticamente) potrebbero colmarlo. E, anche nella ricerca scientifica, la separazione fra reale e ideale limita il nostro orizzonte cognitivo. È molto importante sottolineare che questa linea di ragionamento può essere applicata fruttuosamente nel campo dell’analisi politica e sociale. Lo capì molto bene Isaiah Berlin, che al tormentato rapporto tra verità e libertà ha dedicato alcune delle sue pagine più belle. Dalle precedenti considerazioni discende infatti una conseguenza che può risultare, in apparenza, paradossale. Quando oggi si parla di fake news, si dimentica spesso di sottolineare che soltanto in un contesto caratterizzato dalla libertà di opinione può svilupparsi la battaglia a favore della verità. Se le autorità governative decidono in anticipo cosa è vero e cosa è falso, come accade per esempio in un regime monopartitico come quello cinese o anche in un sistema apparentemente democratico come Singapore, è inevitabile che il problema delle fake news neppure si ponga, poiché il confine tra verità e falsità è già stato stabilito in anticipo da chi detiene il potere. Ne consegue che, rifacendoci alla storia del pensiero occidentale, non è detto che Platone avesse completamente ragione e i Sofisti del tutto torto. Se si ha in mente una concezione rigida della verità al fine di garantire la completa correttezza dell’informazione, si corre il rischio di perseguitare tutti coloro che non concordano con la concezione anzidetta. Se, invece, ammettiamo che la verità abbia a che fare anche con la persuasione, e che a volte il suo uso strumentale possa giovare alla convivenza civile, allora si lascia il giusto spazio alla differenza d’opinione consentendo a più soggetti di partecipare al dibattito adottando punti di vista diversi. Molti sono convinti che libertà e verità siano intimamente connesse, e che non si possa essere liberi senza il possesso della verità. Tuttavia non è così. Come dimostra l’esempio dei grandi sistemi totalitari e delle concezioni religiose monolitiche, che non attribuiscono alcun ruolo al dissenso, chi è convinto di possedere la “Verità” (con la V maiuscola), è per forza di cose portato a colpire - anche nel senso fisico del termine - tutti coloro che non concordano con i suoi schemi mentali e concettuali. Questo significa che si può essere liberi soltanto costruendo un concetto limitato e parziale di verità, riconoscendo al contempo che chi è in disaccordo non dev’essere ipso facto condannato e bandito. Ogni pretesa di verità assoluta lede la libertà mia e quella altrui, mettendo così in pericolo il bene più prezioso che gli esseri umani possiedono. *Ordinario di filosofia della scienza all’Università di Genova Migranti. La resa sul patto Italia-Libia: sarà prorogato senza modifiche di Alessandra Ziniti La Repubblica, 29 gennaio 2020 Il governo aveva promesso interventi in nome dei diritti umani, ma con Tripoli è difficile parlare e scatterà il rinnovo automatico. “La nostra parte l’abbiamo fatta”, dice Luciana Lamorgese. Ma - aggiungono dal Viminale con Tripoli è diventato difficile interloquire, trovare funzionari del governo che si siedano a un tavolo. E il fatto è che i centri di detenzione in Libia non sono stati svuotati, l’Onu ha appena pubblicato un nuovo report sui luoghi di tortura, la guardia costiera appare e scompare a suo piacimento riconsegnando i migranti nelle mani dei trafficanti o lasciandoli senza soccorsi, come è avvenuto nell’ultimo weekend con1000 persone in mare. E domenica 2 febbraio il Memorandum Italia-Libia si riterrà automaticamente prorogato. Così com’è. Perché delle condizioni che l’Italia aveva sollecitato tre mesi fa per rinegoziare gli accordi nulla si è verificato. “Stiamo lavorando a livello di uffici. Non c’è niente da dire”, taglia corto la sottosegretaria agli Esteri del Pd Marina Sereni che tre mesi fa aveva sottolineato l’urgenza di ottenere dal governo di Al Serraji l’impegno a svuotare e chiudere i centri di detenzione dove migliaia di migranti continuano ad essere torturati, abusati, violentati, uccisi. La patata bollente è ferma nelle mani della Farnesina. Lo sottolinea la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. “Sul memorandum Italia-Libia è stato costituito un gruppo di lavoro: abbiamo terminato di definire gli interventi da portare avanti e attualmente siamo in fase di chiusura. Non appena avrà il via libera anche da parte del ministero degli Esteri, dato che abbiamo lavorato congiuntamente, andrà avanti. Quindi speriamo di poterlo portare a compimento nel giro di poco tempo”. Poi toccherà alla Farnesina negoziare con Tripoli ma intanto la commissione italo-libica che avrebbe dovuto insediarsi ai primi di novembre dopo che l’Italia (nei tempi previsti dal Memorandum) ne aveva formalmente sollecitato la convocazione non ha finora prodotto nulla. E dunque intanto gli accordi saranno prorogati per i prossimi tre anni alle stesse condizioni. Nella speranza (o nell’illusione) che un giorno il governo libico trovi il tempo e la voglia di garantire il rispetto dei diritti umani all’interno dei centri, il governo evidentemente resta dell’idea che quel patto va salvato comunque. Anche se le modifiche restano solo un’intenzione (dell’Italia). Domenica i radicali italiani daranno vita ad un presidio davanti Montecitorio per chiedere l’immediata sospensione degli accordi. A novembre la maggioranza si era mostrata compatta nella decisione di non buttare a mare il Memorandum ritenuto strumento “strategico e irrinunciabile” nella gestione dei flussi migratori. A patto che venisse rinegoziato a garanzia del rispetto dei diritti umani e della trasparenza nell’operato della guardia costiera libica soprattutto dopo lo scandalo (dimenticato?) del ruolo del noto trafficante Bija accreditato in una delegazione libica in visita in Italia. Rinegoziazione che può aspettare nonostante il pesantissimo nuovo report al Consiglio di sicurezza del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres che scrive: “Nei centri le persone vengono sistematicamente sottoposte a detenzione aribitraria e torture”. Un dossier di 17 pagine pieno di orrori, abusi, violenze, rapimenti, omicidi, in cui Guterres mette sullo stesso piano trafficanti di uomini e funzionari governativi. Un migliaio le persone in fuga dalla Libia nelle ultime 72 ore, tre navi umanitarie (che ne hanno salvate 740) impegnate in dieci soccorsi e la guardia costiera di Tripoli, quella pagata, formata e attrezzata con i soldi italiani (150 milioni dal 2017 al 2019), che si volatilizza limitandosi a rilanciare gli Sos arrivati da gommoni e barconi. Fortuna per i migranti che (alcuni al quarto, persino al quinto tentativo) riusciranno a sbarcare in Italia e a Malta dopo che la commissione europea ha provveduto alla ripartizione di buona parte dei migranti tra i Paesi dell’accordo di Malta al quale - ha annunciato Lamorgese - ha dato la disponibilità ad aggiungersi anche la Romania. A Taranto questa mattina sbarcano i 403 della Ocean Viking di Sos Mediterranée e Msf, a La Valletta i 77 della tedesca Alan Kurdi mentre resta in attesa di un porto la spagnola Open Arms, ieri al suo terzo soccorso in 24 ore, con 237 persone a bordo. Migranti. Migliaia in fuga dalla Libia. Salvini attacca: “Denuncio Conte” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 29 gennaio 2020 Il timore di un’ondata di partenze era stato evidenziato nelle scorse settimane, durante i giorni di altissima tensione in Libia. E si è concretizzato nelle ultime ore. Perché gli oltre 400 migranti che sbarcheranno oggi a Taranto dalla Ocean Viking e gli altri 300 che sono stati soccorsi dalla Alan Kurdi - in viaggio verso Malta - e dalla Open Arms, potrebbero essere presto raggiunti da migliaia di altre persone in fuga dal conflitto libico. Ma anche dalla Tunisia. Un flusso che rischia di intensificarsi con la bella stagione. E che potrebbe creare problemi per quanto riguarda l’accoglienza. Dopo la scelta dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini di ridurre drasticamente gli stanziamenti per i centri che si occupano dei richiedenti asilo, gli ultimi bandi di gara sono andati deserti. E dunque si dovranno cercare strade alternative, tornando a chiedere all’Europa il rispetto delle intese. Se è vero che al momento la distribuzione continua a funzionare, è pur vero che ci sono state tensioni con Malta. E non è escluso - qualora il numero degli arrivi dovesse aumentare - che anche altri Paesi europei decidano di tirarsi indietro. E Salvini va all’attacco del governo “che ha impiegato quattro giorni per concedere un porto sicuro”. “È sequestro di persona solo quando sono coinvolto io? E allora ci vediamo in tribunale. A metà febbraio il Senato deciderà se devo andare a processo, invito Conte e Lamorgese con me”. Lo sbarco concordato - Sono 403 i migranti che arriveranno oggi a Taranto. Tra loro anche 12 donne incinte. Il via libera all’approdo è arrivato dopo l’accordo con altri Stati - tra cui Francia e Germania - per l’accoglienza, ma poi si dovrà vedere quale sarà davvero la destinazione finale. Ieri Malta ha accettato di far arrivare la Alan Kurdi con 77 naufraghi, ma poi ha escluso di poter accettare la Open Arms che ne ha soccorsi 237 e rimane in attesa del permesso di sbarco. E nei prossimi giorni altre imbarcazioni potrebbero far rotta verso l’Italia. Proprio ieri Alarm Phone, il servizio per chi è in difficoltà nel Mediterraneo, ha confermato che “negli ultimi 5 giorni sono arrivate segnalazioni su 9 imbarcazioni con un totale di circa 650 persone a bordo”. Dati che confermano una tendenza: al 27 gennaio sono giunti nel nostro Paese 1.300 migranti contro i 155 dello scorso anno. I 7.000 in attesa - Ieri la ministra Luciana Lamorgese ha assicurato che “il lavoro sul memorandum Italia-Libia è terminato e adesso attendiamo il via libera della Farnesina”, ma si tratta comunque di un’intesa che difficilmente potrà essere operativa visto che il conflitto tra il presidente Al Sarraj e il generale Khalifa Haftar è tuttora in corso. Secondo le ultime analisi ci sono almeno 7.000 stranieri determinati a lasciare la Libia e, come accaduto anche in passato, le partenze potrebbero essere utilizzate dalle due parti anche come strumento di pressione nei confronti dell’Europa. A questo si aggiunge l’allentamento dei controlli da parte della Tunisia che ha determinato la partenza di numerose imbarcazioni - gommoni o pescherecci - e l’arrivo di piccoli gruppi di migranti sulle spiagge o comunque lontano dai porti. I cosidetti “sbarchi fantasma” che risulta abbiano preso nuovamente vigore. La carenza di posti - Al momento il Viminale sta facendo fronte all’accoglienza utilizzando tutte le strutture disponibili, ma se la situazione dovesse peggiorare bisognerà trovare soluzioni alternative. I decreti sicurezza approvati dal governo formato da Lega e M5S hanno infatti ridotto, in alcuni casi dimezzato, il rimborso per le associazioni e le società che si occupano dei richiedenti asilo in attesa di risposta provvedendo alla loro sistemazione, oltre al vitto e all’alloggio. Nella maggior parte dei centri non possono più esserci quei servizi per favorire l’integrazione come gli insegnanti di italiano, i consulenti legali e i mediatori e molte organizzazioni preferiscono non partecipare alle gare per aggiudicarsi le commesse. Ecco perché all’interno del governo c’è chi sollecita una revisione delle norme, auspicata dal presidente Sergio Mattarella, proprio per non trovarsi impreparati se il contesto dovesse peggiorare. Rivolte e manganellate, il Centro per i rimpatri dove si lotta in una gabbia di Fabio Tonacci La Repubblica, 29 gennaio 2020 Gradisca, dietro il caso del georgiano morto un’enclave ingovernabile ad alta tensione. Assistenza al minimo, scappano anche i medici. Si moltiplicano i casi di autolesionismo. Così non può funzionare. Il Centro di permanenza per rimpatri di Gradisca d’Isonzo sembra nato apposta per essere una polveriera. E aperto da poco più di un mese e già c’è scappato il morto. Le rivolte sono quotidiane. Gli interventi degli agenti in assetto antisommossa, quasi all’ordine del giorno. Gli ospiti del Cpr - una sessantina, la maggior parte provenienti dal Nord Africa attendono l’espulsione in una sorta di enclave del nonsenso: non possono uscire, ma se fuggono non sono formalmente evasi perché la detenzione è di tipo amministrativo; è proibito avere il cellulare ma hanno diritto a telefonare; possono spaccare gli infissi delle finestre o scavare un tunnel sotterraneo (è accaduto già due volte) e non sono passibili di niente; non sono in prigione, eppure vivono in gabbie d’acciaio. La storia del 38enne georgiano Vakthang Enukidze, trovato privo di conoscenza nella sua cella e poi deceduto (la procura di Gorizia ha aperto un’inchiesta per omicidio volontario), dice molto su cosa siano, e su come vengano gestiti, i Cpr. I nuovi “non luogo” d’Italia. Ibridi, metà carcere e metà campi di accoglienza, ingovernabili. Partiamo da una domanda: perché Vakthang Enukidze era qui? Il georgiano è entrato il 19 dicembre, tre giorni dopo l’inaugurazione, insieme al gruppo di 35 rivoltosi che avevano appena devastato un intero padiglione del Cpr di Bari. Con una mossa assai infelice il Viminale li ha trasferiti tutti a Gradisca invece di separarli e smistarli in varie strutture. Enukidze doveva essere rimpatriato perché senza permesso di soggiorno e già autore di alcuni reati contro il patrimonio, compreso un tentativo di rapina a Roma. Il suo passato, da queste parti, non lo ha reso certo una mosca bianca: quasi il 90 per cento degli ospiti proviene dal fine pena. Hanno scontato reati e sono in attesa che il loro Paese conceda il nulla osta al rimpatrio. Alcuni hanno disturbi psichiatrici. In altre parole, non sono soggetti semplici da trattare. A maggior ragione se affidati, come a Gradisca, alla custodia di una cooperativa con risorse economiche ridotte all’osso dalla diabolica eredità lasciata dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini. L’ente gestore è la padovana Edeco Onlus, un nome già noto alle cronache: la coop è stata amministratrice del problematico Centro di prima accoglienza di Cona (fino a 1.400 migranti accolti, nel 2017 vi morì una venticinquenne ivoriana) ed è finita in un paio di indagini che ipotizzano, a vario titolo, la turbativa d’asta, la frode in pubbliche forniture, l’abuso d’ufficio, la corruzione. I suoi dirigenti sono attualmente sotto processo a Padova. Ciò non ha impedito alla Edeco di partecipare e vincere il bando di gara della Prefettura di Gorizia. La vecchia caserma militare Ugo Polonio, riadattata prima a Cie (Centro di identificazione ed espulsione) e ora a Cpr, ha 150 posti, ma solo in teoria: un’ala e la mensa sono vuote perché l’impianto di riscaldamento è rotto. Ci sono undici postazioni telefoniche fisse che funzionano con la scheda magnetica della Telecom, praticamente introvabile. A mandare avanti il centro la Edeco ha messo sei operatori, tutti stranieri, che di notte si riducono a due. È attivo un presidio sanitario, in cui però la presenza del medico libero professionista è garantita solo per cinque ore al giorno. Tanto è complicato lavorare in queste condizioni che la prima dottoressa chiamata dalla coop ha lasciato dopo un paio di settimane. Agenti di scorta al personale “Chi è li dentro sa di essere all’ultima spiaggia: arrivano a tagliarsi la pelle o a bere lo shampoo, pur di farsi portare al pronto soccorso e tentare la fuga”, racconta Gianni Cavallini, ex direttore del Dipartimento prevenzione della asl Bassa Friulana-Isontina. All’ospedale di Gorizia hanno già registrato una cinquantina di accessi di migranti per atti di autolesionismo. “Dal punto di vista sanitario la Edeco non ha ancora trovato una stabilità. Le gabbie hanno un impatto psicologico terribile. Quando l’ho visitato ho avvertito un grande disagio, si sentivano urla disperate, quasi come fosse un luogo di torture”. La Questura è stata costretta ad aumentare il numero di agenti incaricati della vigilanza e dell’ordine pubblico interno: non è raro vedere poliziotti scortare operatori della coop mentre servono i pasti. L’eredità di Salvini E qui si arriva al peccato originale di queste strutture, volute dall’allora ministro Minniti nel 2017 e geneticamente modificate dal suo successore. Salvini, durante il suo mandato al Viminale, ha infatti tagliato i capitolati d’appalto per l’accoglienza, che prima in media erano di 35 euro a migrante al giorno, ora sono di 25 euro. Di conseguenza sono diminuiti servizi essenziali e il personale è meno qualificato. Non è un caso che le prime quattro classificate nella gara pubblica (Badia Grande, Freedom Onlus, Ospita srl, Consondo Matrix) siano state escluse dalla prefettura di Gorizia: intendevano pagare i dipendenti con stipendi inferiori ai minimi salariali. L’impronta di Salvini si avverte anche nella permanenza massima degli ospiti, portata da tre a sei mesi dal suo Decreto Sicurezza e, secondo gli operatori, alimentatrice di tensioni. Manca poi un regolamento ad hoc per i Cpr, il ministero dell’Interno non l’ha ancora emanato. Si va avanti con le norme che venivano applicate per i Cie. A certificare, una volta di più, la natura meticcia dei Centri di permanenza per rimpatri. Non sono carceri. Eppure lo sono. Migrante morto nel Cpr di Gradisca: no all’omertà, si faccia chiarezza Il Riformista, 29 gennaio 2020 Anche se il procuratore di Gorizia non lo esclude, la morte del migrante georgiano Vakhtang Enukidze nel Cpr (Centro di permanenza per il rimpatrio) di Gradisca d’Isonzo non sarebbe stata causata dalle percosse. È quanto è stato rilevato dall’autopsia condotta nell’ospedale di Gorizia. “Si può escludere che ci siano state lesioni traumatiche importanti tali da poter essere messe in concausa con il decesso, c’erano lesioni superficiali di difficile datazione, forse anche pregresse, ma niente di così rilevante”, ha detto il medico legale del Garante dei detenuti Lorenzo Cociani, intervistato dal TgR Friuli Venezia Giulia. “Da un’analisi macroscopica - ha aggiunto Cociani - non sembrano emergere dati evidenti che facciano pensare a una patologia” come causa del decesso. Per avere un quadro completo bisognerà attendere l’esito degli esami tossicologici e istologici. “Non escludiamo al cento per cento cause di tipo violento”: c’è una prima indicazione che arriva dall’autopsia, ma occorre “prudenza” ed è presto per dare “un’indicazione precisa e univoca”, commenta il Procuratore di Gorizia Massimo Lia. Ad ogni modo Il Garante nazionale delle persone private della Libertà, Mauro Palma, fa sapere che “seguirà con molta attenzione i risultati degli esami tossicologici e sottolinea il dovere per chiunque fosse stato testimone, o abbia avuto contezza del verificarsi di episodi di comportamenti lesivi nei confronti del signor Vakhtang di informarne l’autorità giudiziaria”. “Non deve esserci spazio - prosegue il Garante dei detenuti - per nessun sospetto di omertà o di impunità rispetto alla morte di un giovane uomo mentre era sotto la responsabilità dello Stato”. A fronte della ricostruzione della dinamica della morte del detenuto ancora in fase di accertamento, l’assessore regionale alla Sicurezza del Friuli Venezia Giulia, il leghista Pierpaolo Roberti, dichiara: “La morte di una persona è sempre un fatto tragico ma, alla luce degli esiti degli esami autoptici sulla vittima, credo siano doverose le scuse di chi negli ultimi giorni ha insinuato l’ipotesi di un pestaggio o che ci si trovasse di fronte ad un nuovo “caso Cucchi”, arrivando addirittura ad avanzare accuse di insabbiamenti”. Roberti parla di risultati “che non evidenziano lesioni traumatiche importanti” e sottolinea come la Regione ha da subito difeso le forze dell’ordine “dalle accuse infamanti che oggi sono state smontate dagli esami svolti, peraltro, alla presenza di un perito di parte”. “Se ora la Polizia di Stato deciderà di difendere la propria immagine in sede giudiziaria - conclude Roberti - la Regione non potrà che valutare la propria costituzione parte civile in un eventuale processo”. “Il lavoro della Magistratura - commenta a sua volta l’ex presidente della Regione, Deborah Serracchiani in risposta alle asserzioni dell’assessore leghista - va rispettato dall’inizio alla fine e non va strattonato in un senso o nell’altro: tutti dovrebbero chiedere che si faccia luce rapidamente ma non che la verità confermi posizioni politiche o d’altra natura”. “Se il Procuratore di Gorizia si mantiene prudente nel corso dello svolgimento di un’indagine delicata - prosegue la deputata del Partito democratico - l’istituzione Regione dovrebbe esserlo ancora di più. Lo stesso vale per chi ha subito evocato parallelismi con casi di violenza e depistaggio”. Stati Uniti. Un anno della politica “Rimanete in Messico”: costi umani spaventosi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 29 gennaio 2020 Domani, 29 gennaio, sarà trascorso un anno dall’entrata in vigore del “Protocollo sulla protezione dei migranti”, una denominazione di cui George Orwell sarebbe andato fiero, a seguito della quale l’amministrazione Trump ha iniziato a respingere forzatamente persone in Messico nell’attesa che la loro richiesta di asilo politico venisse esaminata. Quella politica, che opportunamente è conosciuta col nome “Rimanete in Messico” ha fatto sì che dal gennaio 2019 circa 60.000 persone giunte al confine statunitense dopo aver attraversato tutto il Messico sono state costrette a restare in quest’ultimo paese in una situazione di rischio estremo. Nell’ultimo anno Amnesty International ha ascoltato testimonianze di terribili atti di violenza contro donne incinte, minori non accompagnati, persone con disabilità, omosessuali. Vi sono state, nello stesso periodo, 816 denunce di rapimento, estorsione, stupro, tortura e omicidio ai danni di richiedenti asilo bloccati in Messico. La politica “Rimanete in Messico”, che ha rovesciato la tradizionale politica statunitense di esaminare le richieste di asilo all’interno della frontiera, ha dato luogo a una crisi tale per cui meno del 5 per cento dei richiedenti asilo bloccati in Messico sono stati in grado di avere assistenza legale. Oltre alla violenza e alle procedure sommarie vigenti per determinare lo status di rifugiato, a rendere il Messico un paese non sicuro è la circostanza che le autorità di questo stato rimandano a loro volta indietro i richiedenti asilo verso i luoghi di origine: soprattutto El Salvador, Guatemala e Honduras, paesi in cui la violenza continua a essere generalizzata e i tassi di omicidio sono da quattro a otto volte più alti di quelli che l’Organizzazione mondiale della sanità considera “epidemici”. Amnesty International ha chiesto al Congresso di togliere i finanziamenti a questa politica inumana.