Detenuti anziani, il buio dopo la libertà. Servono nuove forme di accoglienza di Luigi Ferrannini e Gianfranco Nuvoli* Avvenire , 28 gennaio 2020 Caro direttore, le scriviamo in seguito all’articolo pubblicato il 21 gennaio su “Popotus”, il supplemento che offre a misura di bambino temi e notizie da giornale degli adulti, sul tema “Anziani in prigione. Uscire, perché?”. E lo facciamo da medici e componenti del Comitato direttivo dell’Associazione italiana di psicogeriatria. È questo un tema del quale l’Aip si occupa da tempo, non solo nella costruzione di un quadro reale del problema - sotto il profilo epidemiologico, clinico e giuridico - anche in collaborazione con Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) del Ministero della Giustizia, ma soprattutto nella ricerca di soluzioni reali, e soprattutto rispettose dei bisogni socio- sanitari, oltre che dei diritti (alla cura, alla inclusione sociale e alla cittadinanza) e delle necessarie tutele degli anziani- rei coinvolti. Il lavoro dell’Aip si inserisce in una peculiare attenzione sul problema a livello mondiale, che ha portato a condividere riflessioni ed esperienze locali. L’intento della nostra società scientifica è quello di favorire la sua conoscenza, al fine di affrontarlo con i migliori strumenti clinici ed organizzativi, mettendo a disposizione il patrimonio di conoscenze ed esperienze diffuse, che è da tempo in crescita. Mancando in Italia dati sufficienti a descrivere la problematica (soprattutto nei suoi aspetti sanitari), si è ritenuto preliminarmente indispensabile realizzare una descrizione del fenomeno attuale, una “fotografia” dello stato della problematica a livello italiano. Per quanto riguarda gli aspetti giuridici e strettamente penitenziari si è fatto riferimento ai dati pubblicati con regolarità dal Dap, che risultano aggiornati e approfonditi. Gli aspetti sanitari, certamente più complessi da rilevare, sono oggetto di studio per una successiva parte della ricerca. E comprensibile la preoccupazione e lapaura di queste persone che, se al momento della scarcerazione non hanno riferimenti reali sul territorio (famiglia, amici, possibilità abitative...), temono una solitudine e un isolamento tali da non dare più senso alla vita. Quindi grande importanza rivestono, non solo le associazioni di volontariato e di accoglienza, ma anche la attivazione di una rete di servizi sociosanitari diffusa ed attiva, con forme di accoglienza ad intensità assistenziale differenziata, a seconda delle necessità di supporto della persona: in questo senso diventano fondamentali le strutture tipo alloggi protetti, comunità alloggio e le forme di co-housing, rispetto alle tradizionali strutture residenziali (Rsa), che stanno diventando sempre più spesso luoghi senza tempo, cioè “non luoghi”. E allora il problema non si può risolvere, a nostro avviso, con altre forme, forse più invalidanti nel corpo e nella mente, di “detenzione attenuata”, come l’inserimento nelle cosiddette “Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza” (Rems), ricordate peraltro nell’articolo dal Garante dei detenuti di Roma, dove l’anziano si trova a vivere con persone di ogni età- dai giovanissimi ai meno giovani - che hanno commesso un reato anche grave, ma sono stati giudicati non imputabili per la presenza di un disturbo psichiatrico, e con i quali non può certo ritrovare senso e speranza per la sua vita, ma più frequentemente diventa piuttosto oggetto di stigma e di esclusione dal contesto sociale. Si tratta quindi di investire su nuove forme di socialità ed accoglienza, in grado di coniugare esigenze di cura e di tutela con il rispetto dei diritti di cittadinanza, anche attraverso programmi di impegno/ inclusione sociale e di volontariato. E questo un compito della società e dei tecnici, che non può essere disatteso senza creare nuovi rischi e nuove sofferenze per chi ha già pagato in vari modi per i suoi errori. *Associazione Italiana di Psicogeriatria Giustizia, è scontro: i renziani contro la prescrizione. E preparano un attacco a Bonafede di Liana Milella La Repubblica , 28 gennaio 2020 Italia viva sta ragionando sull’idea di respingere alla Camera e al Senato la relazione annuale sullo stato della giustizia del ministro. È ormai una battaglia senza quartiere quella dei renziani contro il Guardasigilli Alfonso Bonafede e la sua idea di giustizia. Dall’attacco sulla prescrizione, in queste ore, Italia viva sta ragionando sull’idea di respingere alla Camera e al Senato la relazione annuale sullo stato della giustizia del ministro. Tant’è che il ministro per i Rapporti con il Parlamento grillino Federico D’Incà - ma era presente la sottosegretaria Dem Simona Malpezzi - ha convocato la maggioranza invitando lo stesso ministro a illustrare la relazione per evitare di andare allo scontro. Ufficialmente, nel corso dell’incontro, non sono emerse intenzioni di sfiducia nei confronti di Bonafede che tra Carnera e Senato insisterà - come si può leggere nella sintesi della relazione che ha distribuito - soprattutto “sugli investimenti nel settore della giustizia inseriti nel bilancio, sulle assunzioni di nuovi magistrati e di personale amministrativo”. Vie attraverso le quali conta di accelerare anche i tempi del processo. Ma andiamo con ordine. Partendo dalla novità che è venuta via via emergendo durante il pomeriggio, mentre a Montecitorio si cominciava a discutere della legge Costa, il forzista responsabile Giustizia degli Azzurri, sulla quale la posizione dei renziani è nota, vogliono votare a favore perché ritengono dannosa e inaccettabile la prescrizione “corta” di Bonafede (stop dopo il primo grado di giudizio, anche se in futuro per i soli condannarti). È una voce autorevole del gruppo come quella di Ettore Rosato, che presiede i lavori - “Siamo contrari a processi eterni” - a ribadire che Italia viva intende votare a favore di Costa, quindi in difformità con la maggioranza. Ma mentre la discussione generale va avanti e il Dem Alfredo Bazoli già fa intendere che il suo partito è favorevole a un ritorno in commissione Giustizia visto che la maggioranza sta ragionando su come cambiare la Bonafede e lo stesso premier Giuseppe Conte ribadisce che “un’intesa è possibile”, ecco che inizia a serpeggiare la notizia che in realtà Italia viva intende anche sottrarsi al voto favorevole sulla relazione sullo stato della giustizia di Bonafede. Se ne parla nei capannelli, divisi a metà tra prescrizione e giustizia in generale. Che cosa accadrebbe? Il Guardasigilli, come ormai da anni, deve presentare alle Camere il suo rapporto sullo stato della giustizia, situazione del civile e del penale. Un dibattito e poi il voto in entrambi i rami del Parlamento su una duplice risoluzione che viene discussa dai gruppi della maggioranza. E qui si innesta l’allarme che è cominciato a serpeggiare nel pomeriggio. Perché anche al Senato Italia viva ha cominciato a dire che non intende votare il testo di Bonafede, spingendo per una risoluzione che bocci il contenuto della relazione del Guardasigilli. I renziani si augurano così di fare un’ulteriore e forte pressione sul ministro per fargli cambiare del tutto la prescrizione. Per questo, alla Camera, sono anche contrari a votare qualsiasi rinvio della legge Costa, ma insistono invece perché si vada subito al voto in contemporanea con la relazione del Guardasigilli. Che, in questo caso, rischierebbe ben due bocciature nella stessa giornata. Costa è deciso a dare battaglia anche sul rinvio e dice: “La maggioranza teme talmente il voto sulla nostra proposta che sta lavorando a un indecoroso rinvio. Facciano pure, ma noi non molleremo e prima o poi la Camera dovrà esprimersi”. Costa certamente chiederà una nuova calendarizzazione a febbraio e quindi tra 15 giorni sarà di nuovo terremoto sulla giustizia.Con una nuova presa di posizione dell’Unione delle Camere penali che martedì sono di nuovo a Montecitorio per protestare contro la prescrizione. Orlando presenta il conto ai 5 Stelle: “Ora una norma diversa sulla prescrizione” di Errico Novi Il Dubbio , 28 gennaio 2020 L’esito delle Regionali si abbatte anche sulla riforma Bonafede. “I rapporti di forza non cambiano”. Parola di Vito Crimi. Che è il capo politico reggente. E che pronuncia la frase dopo essere stato interpellato sulla prescrizione. Una risposta neppure troppo indiretta ad Andrea Orlando. Che domenica notte, subito dopo i primi exit poll sull’Emilia-Romagna, e il mancato sfondamento di Salvini, aveva dato tutt’altra lettura: “Spero che sia messa da parte dal M5s una certa vena antipolitica e giustizialista: vogliamo rivedere i decreti sicurezza e trovare un accordo per una norma diversa da quella Bonafede sulla prescrizione”. Chiarissimo. Ma la resa dei conti può attendere. Non si consumerà oggi. Non ci saranno sorprese da parte del Pd sulla legge Costa, in arrivo nell’aula di Montecitorio. Lo fa capire, nella discussione generale sul testo aperta ieri pomeriggio alla Camera, il capogruppo dem in commissione Giustizia Alfredo Bazoli: “Intendiamo stare in un percorso all’interno della maggioranza, terremo la giustizia lontana dalle polemiche”, dice a proposito della proposta anti- Bonafede firmata Forza Italia. Certo, riconosce che “sarebbe stato preferibile se chi ha la più alta responsabilità sul punto”, sempre Bonafede, “avesse accettato di rinviare l’entrata in vigore della sua riforma”. Conte ottimista, Orlando spietato - E poi c’è Giuseppe Conte. Rinfrancato dalla sconfitta di Borgonzoni contro il dem Bonaccini in Emilia. Ma ora costretto a fare da arbitro in una maggioranza squassata, in cui il partito di Nicola Zingaretti non intende più farsi dettare l’agenda. Neppure sulla giustizia, e nonostante quel capitolo sia intestato a un ministro 5 Stelle, Alfonso Bonafede appunto. “Troveremo un accordo sul processo penale”, assicura il premier ai cronisti che lo intercettano a Palazzo Chigi, “ma vi assicxuro che non sarà un compromesso”. Il preavviso del vicesegretario - Andrea Orlando è un politico, prima che un ex guardasigilli. Conosce la giustizia ma capisce ancor prima qual è il momento per imporre una linea diversa. Il momento, secondo il vicesegretario dem e lo stesso Zingaretti, è arrivato. E perciò chiede “una norma diversa sulla prescrizione”. Posizione anche più intransigente di quella espressa dagli stessi uomini del Nazareno la settimana scorsa, al termine dell’ultimo vertice sul processo penale. Certo che passano all’incasso, Zingaretti e Orlando. Con la logica della correttezza, perché oggi non si sogneranno di consentire fuor d’opera ai deputati pd sulla legge Costa, ma sono determinati a pretendere da Bonafede e Conte una riscrittura della riforma. “Se si esclude l’estinzione del processo troppo lungo, ci vuole un rimedio che abbia analoga forza deterrente: non basta stabilire che i giudizi penali devono essere rapidi, va chiarito cosa succede se non lo sono”, aveva detto proprio Orlando in un’intervista a questo giornale giovedì scorso. La tempesta perfetta per Bonafede - D’altronde il quadro che Bonafede trova stamattina si ascrive perfettamente alla categoria del combinato disposto. Lui tiene la relazione programmatica sulla Giustizia in Senato, dove si annunciano critiche serrate anche dal Pd, con il capogruppo Andrea Marcucci a guidare il plotone. A Montecitorio si vota sulla legge Costa, dove si farà sentire la richiesta per una “fase due” prefigurata dallo stesso Zingaretti in conferenza stampa con Orlando. È insomma il classico prodotto di più fattori che concorrono a cambiare il quadro, in modo anche brusco, se non dirompente. In un post su Facebook, lo stesso Marcucci prepara così il guardasigilli alla giornata campale in Parlamento: “La prima cosa in agenda è la disastrosa riforma Bonafede sulla prescrizione, non a caso, votata dalla Lega”. Non solo. Secondo il presidente dei senatori Pd “Conte è chiamato subito a una prova di responsabilità sulla giusta durata dei processi. Serve risolvere il problema, non inventarsi scorciatoie”. Altrimenti i dem si arrabbiano. Forse. Anche se oggi, come confermato da Bazoli, non faranno scherzi sulla legge Costa. Un testo semplice, dopo un esame degli emendamenti ridotto all’osso. Grazie ai voti dem, e di Leu, in commissiomne è passata infatti la modifica grillina, che cancella la stesso effetto abrogativo della legge Costa, la sterilizza. Se l’emiciclo confermasse tale scelta, il testo del deputato azzurro si dissolverebbe come alcol etilico strofinato su una ferita fresca. Nell’ipotesi ora più gettonata dagli stessi democratici, tornerebbe in commissione. Se davvero l’emiciclo farà così. Ma intanto Italia viva conferma di non avere alcuna intenzione di rinnegare la scelta compiuta proprio in commissione Giustizia, dove ha votato con il centrodestra e ha fallito il ribaltone per un voto, quello della presidente pentastellata Francesca Businarolo. “Una proposta di Fi vuole abolire la riforma Salvini-Bonafede”, scandisce su twitter Ettore Rosato, coordinatore dei renziani, “saremo coerenti, la resa di fronte ai processi eterni ci troverà sempre contrari. Domani (oggi per chi legge, ndr) si voterà, confidiamo prevalga la ragionevolezza nella maggioranza”. Tradotto: Italia viva voterà eccome per il testo di Enrico Costa, responsabile Giustizia degli azzurri. Potrebbe non bastare, ma certo i numeri preoccupano il ministro della Giustizia, affidato a una scelta “conservativa” degli ex grillini passati al Misto e ad altre forze pulviscolari della geografia parlamentare. Fi prova ancora a tentare il Pd - Lo stesso Rosato, coincidenza, presiede la discussione generale sulla legge Costa, celebrata ieri in un’aula rarefatta. Un altro deputato renziano, Cosimo Ferri, si dice “sorpreso” della scelta del Pd, che con i 5 Stelle proverà a rispedire la mina in commissione. “Il testo ripristinerebbe la riforma della prescrizione firmata da Andrea Orlando”, rammenta Ferri. Fino a che non interviene un altro forzista, Pierantonio Zanettin. Che prova a indurre i dem in tentazione: “Il Movimento 5 Stelle esce annichilito nella Regione”, l’Emilia, “dove 3 anni fa fece il pieno di consensi. Che la notte della ragione, alla luce dei risultati elettorali, possa sparire...”, è la sua invocazione. Il Partito democratico, come Ulisse, non ascolterà le sirene. Ma il prezzo di tanta fedeltà, ormai è chiarissimo, non sarà da saldi di fine stagione. Prescrizione, e ora il Pd dirà no ai 5S? di Angela Azzaro Il Riformista , 28 gennaio 2020 Oggi dalle 10 manifestazione contro la riforma indetta dai penalisti davanti alla Camera, nel giorno in cui Bonafede riferisce sullo stato della giustizia e in cui si potrebbe votare l’emendamento Costa. Da domemca per il Pd non ci sono più scuse. Se è convinto, come più volte dichiarato, di non essere d’accordo con la riforma della prescrizione, ha tutte le carte in regola per fare un passo indietro, ripristinare la norma esistente a firma Andrea Orlando e delegittimare il ministro della Giustizia Bonafede. Le urne hanno restituito un quadro completamente mutato dei rapporti di forza all’interno del governo che non possono non pesare su un tema così delicato come la giustizia. Se prima i 5stelle potevano ancora dettare legge, ora la fase due dell’esecutivo Conte, annunciata anche dal segretario dem Nicola Zingaretti, ha un’occasione d’oro per prendere il via, bloccando la riforma che allunga i processi e rende la giustizia solo più ingiusta. A chiederlo a gran voce, non sono solo gli elettori che hanno premiato il Pd più riformista e più liberale, bocciando i “manettari” grillini, ma anche l’Unione delle Camere penali che per oggi ha indetto uno sciopero dalle udienze e una manifestazione davanti alla Camera dei deputati. L’appuntamento è alle 10 a Montecitorio, mentre nel vicino Hotel Nazionale si terrà un convegno che vedrà intervenire studiosi del diritto e della procedura penale. La giornata non è scelta a caso. Dopo che l’emendamento Costa (Forza Italia), che di fatto annulla la riforma Bonafede, era stato respinto in commissione Giustizia alla Camera, oggi potrebbe tornare in Aula e può essere votato anche dalla maggioranza. Italia viva ha già annunciato il suo voto a favore e si vedrà se anche il Pd è disposto ad accogliere le richieste degli avvocati italiani. Oppure i dem, che hanno tentato una mediazione al ribasso con il lodo Conte - che aggiunge solo incostituzionalità a incostituzionalità - potrebbero essere tentati dallo sfiduciare il ministro Bonafede come scrivono alcuni giornali? Domani mattina alla Camera e nel pomeriggio al Senato è attesa la relazione del Guardasigilli sullo stato della giustizia in Italia. Da mesi il ministro promette, ma non dà, i dati sulla prescrizione e c’è molta curiosità nel vedere quali numeri tirerà fuori dal cilindro per giustificare una riforma che i penalisti non esitano nei loro comunicati a definire “sciagurata”. La norma, anticostituzionale, è il simbolo del “giustizialismo” che in questi anni ha caratterizzato la cultura dei 5stelle. Per questo il Pd si trova davanti a un bivio: appoggiare la riforma della prescrizione significa non rompere con il populismo penale dei grillini. Significa cioè non provare coi fatti a dare vita a una nuova cultura politica che si fondi sullo Stato di diritto. È una sfida decisiva per il futuro della sinistra e per il futuro del Paese. Il Pd deve scegliere se stare con i Padri e le Madri Costituenti o se invece “sposare” le tesi di Bonafede secondo cui in prigione non ci sono innocenti e se anche ci fossero, come dice il suo mentore Travaglio, chi se ne frega. Il giustizialismo in questi anni è entrato nelle pieghe della società, ha alimentato il consenso delle forze sovraniste. Ora che sono in crisi che senso ha andargli appresso su un tema così delicato? Su, Pd, fai una cosa di sinistra. Stop prescrizione, Bonafede sempre più sotto attacco di Emilio Pucci Il Messaggero , 28 gennaio 2020 Il ministro Bonafede finisce sotto attacco. Senza più il paracadute di Di Maio e il pieno sostegno di un Movimento 5 stelle uscito con le ossa rotte dalle Regionali. “Ha avuto il coraggio di mettersi contro i magistrati e pure gli avvocati”, spiegano i renziani che non hanno alcuna intenzione di arretrare sul no alla riforma della prescrizione. Pure il Pd, premettendo di voler restare nel perimetro della maggioranza, non è disposto a coprirlo se non cambia posizione. Il Guardasigilli oggi illustrerà le linee programmatiche sulla giustizia ma ad attenderlo al Senato sarà un fuoco di fila proveniente proprio da Iv e dai dem. I primi minacciano di votare contro la relazione. E questa mattina si metteranno di traverso sul tentativo messo in atto alla Camera da dem e M5S di rinviare in Commissione la proposta di legge Costa che arriva in Aula e punta a bloccare la norma entrata in vigore il l gennaio. Mentre i democratici hanno inviato un altro messaggio al Guardasigilli: occorre mettere da parte ogni deriva giustizialista e anche il “lodo Conte” che prevede la possibilità di applicare il blocco della prescrizione dopo il primo verdetto solo in caso di condanna, non basta più. Ed è inutile pensare di bacchettare i giudici. Al momento sono due le strade ipotizzate dagli sherpa del Nazareno. La prima prevede di inserire nella legge delega della riforma del processo penale una norma “auto applicativa” che corregge subito la Bonafede. La seconda di dare la possibilità ai condannati che chiedono la trattazione veloce del processo dopo il primo grado di poter usufruire di una sospensione di due anni. Non ci sarebbe quindi lo stop della prescrizione. Si valutano inoltre altre misure di garanzia. Il nodo però è politico. Renzi non è disponibile a compromessi e non intende cedere al pressing di Conte che anche ieri lo ha invitato a non smarcarsi. “Troveremo un accordo”, ha detto il premier. “Noi - osserva un big di Iv - andremo fino in fondo”. Ecco il motivo per cui il Pd, di concerto con M5s vuole riportare in Commissione la proposta di legge Costa e lasciarla marcire. Insomma la strategia è disinnescare la mina (in Aula ci sarebbero dei voti segreti) e poi cercare una soluzione nella maggioranza. La riforma del processo penale non arriverà sul tavolo del Cdm giovedì, ma i dem si aspettano comunque un’accelerazione. “Non ci faremo dare patenti di garantismo. Neanche da chi pensa che gli innocenti debbano marcire in galera”, afferma il dem Bazoli. Paola Balducci: “Per velocizzare i processi smontano garanzie e diritti” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio , 28 gennaio 2020 Per l’ex consigliera del Csm: “Bisogna mettere da parte il panpenalismo che non risolve nulla”. “Le riforme degli ultimi anni? Hanno avuto tutte un denominatore comune: stravolgere il codice accusatorio del 1989”. Paola Balducci, docente di esecuzione penale alla Luiss ed ex componente del Consiglio superiore della magistratura, è critica con la proposta di riforma del processo penale voluta del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Professoressa, non le piace il testo elaborato del Guardasigilli? Guardi, non per vantarmi, ma ho fatto parte di tutte le Commissioni che si sono occupate di modificare il processo penale. Purtroppo, devo constatare che la volontà del legislatore non c’è più. Il codice “Vassalli” esaltava la centralità del dibattimento, prevedendo che il processo si svolgesse nel contradditorio delle parti. Quello attuale è tutt’altro. Il processo penale del futuro, nelle intenzioni del ministro, si dovrà concludere in quattro anni… Per realizzare tempistiche del genere, c’è un solo modo: minare il diritto di difesa e la presunzione, costituzionalmente prevista, di non colpevolezza. Introducendo, poi, correttivi molto discutibili, come l’appello monocratico. Non è una prospettiva esaltante…. Appunto. Io, invece, inizierei con il mettere da parte il panpenalismo spinto che sta caratterizzando la recente produzione legislativa. Molta propaganda che non risolve alcunché. Penso, ad esempio, al “codice rosso” per i delitti di genere che sta creando seri problemi al lavoro delle uffici giudiziari. Torniamo, però, al blocco della prescrizione. Il Csm aveva, prima che la norma venisse approvata, redatto un parere molto critico al riguardo. Parere che non è stato minimamente tenuto in considerazione. I pareri del Csm lasciano il tempo che trovano, non essendo, come è giusto che sia, vincolanti per il Parlamento. Molto dipende quindi dal rapporto fra Palazzo dei Marescialli ed il Guardasigilli. Nella mia consiliatura c’era a via Arenula un ministro attento come Andrea Orlando che è anche venuto spesso al Csm. Ora la situazione è cambiata. Preoccupata? Chi scrive questi pareri sono magistrati di tutte le correnti che hanno il polso di quanto avviene negli uffici giudiziari. Senza dimenticare il contributo fondamentale dei laici, avvocati e professori universitari. Non tenere conto di queste importanti indicazioni dovrebbe far riflettere tutti. Soluzioni? Io mi auguro che si metta mano al processo penale con interventi ponderati e non basati sull’onda emotiva. Evitiamo altri scempi al codice. O dobbiamo aspettare nuovamente la Corte costituzionale che decida? La Consulta ormai non è più il giudice di legittimità sulle leggi ma il giudice che normalizza il nostro ordinamento. Vedasi, di recente, il 41 bis. Da donna di sinistra (Paola Balducci venne eletta nel 2014 al Csm in quota Sel, ndr), cosa pensa dell’atteggiamento del Pd sulla giustizia? I dem temono i diktat dell’alleato di governo? Il Pd sta subendo le recenti riforme senza agire… Le ricordo il destino di tre norme volute dai dem nella scorsa legislatura: la riforma dell’ordinamento penitenziario, subito stoppata, quella delle intercettazioni telefoniche, ancora non entrata in vigore e giunta alla quarta proroga, quella della prescrizione del 2017, cancellata senza neppure aspettare di vedere gli effetti. Lo dico ai tanti amici del Pd: cercate di essere più incisivi in queste materie. Lei ha citato la riforma dell’ordinamento penitenziario, una tema a me molto caro, che era pronta proprio sul finire della scorsa legislatura ed è stata frenata. Ma ci rendiamo conto le norme sul carcere adesso in vigore risalgono al 1975? Si può dire che la politica sulla giustizia, in genere, è “debole”? Ora domina la paura. La politica degli ultima anni non è propositiva ma rincorre in ritardo le scelte di altri. Si usa la giustizia come fosse un simbolo identitario. La conseguenza è che vengono fatte riforme per accontentare la sete di giustizialismo. Quello che servirebbe, invece, è una giustizia “vera”. Non posso non farle una domanda sul Csm. Per arginare le correnti, il ministro ha in mente un sistema di elezione dei componenti togati basato su molti collegi, con il ballottaggio fra i primi due classificati. Io non penso che questo sistema sarà risolutivo del problema. Non è certo questa soluzione macchinosa che eliminerà gli effetti deleteri del correntismo. Sono i gruppi associativi della magistratura, e quindi le persone, a dover cambiare. Le correnti devono tornare ad essere un luogo di confronto e di crescita culturale. Criticò le indagini di Gratteri, il procuratore Lupacchini trasferito a Torino di Simona Musco Il Dubbio , 28 gennaio 2020 Dopo la maxiretata del magistrato antindrangheta, l’ex pg di Catanzaro aveva osato parlare di indagini evanescenti. La sezione disciplinare del Csm ha disposto il trasferimento d’ufficio per il Pg di Catanzaro Otello Lupacchini, destinandolo alla Procura generale di Torino come sostituto Pg. Il “tribunale delle toghe” ha accolto la richiesta avanzata dal ministro della Giustizia Bonafede e dal Pg della Cassazione Giovanni Salvi, che hanno avviato l’azione disciplinare nei confronti dell’ormai ex procuratore generale di Catanzaro accusandolo di aver “delegittimato” il procuratore della Dda Nicola Gratteri. Nei giorni scorsi, Lupacchini aveva sottolineato che alla base delle sue critiche non c’era alcuna intenzione di denigrare i magistrati del Distretto e il loro operato, ma soltanto di sollecitare una riflessione su circostanze e criticità nei rapporti istituzionali tra Procure. L’avvocato Ivano Iai, difensore del magistrato, ha invece sottolineato l’assenza di fumus di fondatezza dell’azione disciplinare e l’insussistenza dell’urgenza di provvedere alla misura poiché l’ufficio di Procura generale garantisce il buon andamento della giustizia nel Distretto di Corte d’appello di Catanzaro. Il casus belli, l’ultimo di una lunga, serie sta nelle considerazioni fatte da Lupacchini nel corso di un’intervista rilasciata a TgCom 24, all’indomani del maxi blitz “Rinascita- Scott”, che a dicembre ha portato all’arresto di oltre 330 persone: il pg lamentò un mancato coordinamento tra la procura antimafia e quella generale, definendo “evanescenti” le inchieste dei colleghi guidati da Gratteri e affermando di aver saputo dagli arresti solo dalla stampa, “evidentemente molto più importante della procura generale contattare e informare”. Da qui, su richiesta dei consiglieri del Csm di Area e Magistratura Indipendenti, la prima commissione del Csm ha aperto una pratica per verificare se sussistano o meno i presupposti per un trasferimento per incompatibilità ambientale, pratica conclusasi con il trasferimento d’ufficio del magistrato. Travaglio, molla Davigo e chiedi aiuto a Zagrebelsky! di Piero Sansonetti Il Riformista , 28 gennaio 2020 Gaia Tortora è una giornalista molto seria, estremamente sobria, attenta. La conosco soprattutto come conduttrice in Tv. Non cerca mai di stupirti, cerca solo di costringerti a stare alle cose, a rispettare i fatti. Personalmente la conosco molto poco, non so che tipo sia, professionalmente, è una delle migliori, anche se il suo stile è in controtendenza rispetto al gilettismo vincente. Gaia Tortora è figlia di Enzo Tortora. Tra le sue doti c’è quella di non avere mai fatto per mestiere la figlia di Enzo Tortora. Preferisce essere Gaia e migliorare sempre le sue capacità di giornalista piuttosto che vendersi la memoria di famiglia. L’altro giorno ha compiuto un atto che non assomiglia per niente all’immagine che ho di lei. Ha sbottato. Quando ha letto che Marco Travaglio sostiene che non c’è niente di male a mettere in prigione anche un po’ di innocenti, non ci ha visto più e ha fatto un tweet semplice semplice ma pieno di ragionevole ira: “mavaffanculo”. Travaglio si è molto arrabbiato e le ha risposto citando diversi articoli del codice penale (che lui considera uno dei testi filosoficamente e culturalmente più alti della letteratura italiana) e spiegando che sono proprio le leggi del nostro Paese che impongono, giustamente, di mettere in prigione anche gli innocenti. Allora è bene riprendere tutta la storia dall’inizio. Per due ragioni. Primo, per spiegare a Travaglio alcuni errori che commette per scarsa conoscenza del problema (e suggerirgli di abbandonare Davigo, come consigliere, e trovarne uno più preparato); secondo, per capire qual è la concezione politica di Travaglio, e il suo progetto di società futura, tenendo conto anche del fatto che in questi giorni, dopo le dimissioni di Di Maio, lui, di fatto, ha assunto in modo diretto la guida del Movimento Cinque Stelle. La storia è questa. Il povero ministro Bonafede, quando una giornalista di Repubblica - Annalisa Cuzzocrea - gli pone, assai gentilmente, durante la trasmissione “Otto e Mezzo”, una domanda sugli innocenti in prigione, risponde cadendo dalle nuvole: “Non ci sono innocenti in galera”. La Cuzzocrea, sbalordita, gli fa notare che i dati ufficiali del ministero parlano di circa 1000 innocenti all’anno passati per la prigione. E lui - Bonafede - balbetta: “Ma questo è un altro discorso…”. E poi cambia argomento e viene salvato dal gong. Il giorno dopo qualcuno probabilmente lo avverte che ha fatto una figuraccia. E allora lui precisa: “Io mi riferivo alle persone assolte, e spiegavo che se una persona viene assolta, in Italia, poi non viene messa in prigione”. Dimostrando in questo modo non solo una fede incrollabile nella propria ferrea logica surrealista, ma anche una scarsa conoscenza della Costituzione, che non prevede la necessità di essere assolti per essere considerati innocenti, ma anzi dichiara a chiare lettere che tutti noi siamo innocenti - o comunque non colpevoli - fino alla condanna definitiva. Caso chiuso, ragionevolmente, anche perché nessuno ha tanta voglia di fare polemiche con Bonafede che - questo è noto - sa qualcosa, forse, di matematica e di astrologia, ma non fategli mai domande sul diritto perché non è materia sua. E invece Marco Travaglio, che anche lui non è che ne sappia molto di diritto, il giorno dopo è intervenuto a difesa del suo ministro, coraggiosamente, per spiegare che non c’è nulla di scandaloso se un presunto innocente è in carcere, e per farci sapere che esiste un solo vero errore giudiziario: quello che avviene quando si scarcerano dei colpevoli. Non so se Bonafede l’ha presa bene, perché in realtà Travaglio non ha scritto che il suo ministro aveva ragione a dire che non ci sono innocenti in carcere, ma ha scritto che è una cosa buona e giusta che ci siano questi innocenti in carcere. Aiuta la società a essere più sana. So però come l’ha presa Gaia Tortora. Che ha giudicato esagerato e oltre i limiti del surrealismo l’amor di forca di Travaglio e si è lasciata andare ritorcendogli contro il grido di battaglia del suo M5S: “Vaffanculo”. Ma la storia non finisce qui. Travaglio inizia - a quanto si sa - a tempestare la Tortora di sms nei quali l’accusa di essere ciuccia e le offre un corso di recupero. Per spiegare che cosa? Che quei 27mila ingiustamente detenuti che hanno ricevuto il risarcimento per ingiusta detenzione, erano in realtà giustamente detenuti perché su di loro pesavano gravi indizi, e perché c’era il rischio di fuga, di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove. Ovviamente non è vero. Purtroppo non disponiamo delle cifre ufficiali sulla ingiusta detenzione, perché i ministri della giustizia non si sono mai decisi a fornirle. Però le cose stanno così. Un numero molto grande di ex prigionieri assolti (pare che siano circa 75mila negli ultimi 25 anni) ha chiesto il risarcimento, ma solo 27mila l’hanno ottenuto. Agli altri è stato risposto che non ne hanno diritto, perché pur essendo loro sicuramente innocenti, hanno tenuto però, prima di essere arrestati, comportamenti di scarso livello etico e hanno frequentato persone di pessima reputazione, e in questo modo hanno indotto i Pm all’errore. Per gli altri 27mila invece la magistratura ha accertato che proprio non c’era nessunissima ragione per arrestarli. Capito: nessunissima ragione, mancavano i presupposti. Siccome non esiste la responsabilità del Pm, il Pm che ha commesso l’errore non è tenuto in nessun modo a risponderne (e questo prevede la legge, e dunque, come dice Travaglio, va bene così. Come andava bene così anche quando la legge, che è sempre la legge, prevedeva che i bambini ebrei fossero buttati fuori dalle scuole, e non si capisce bene, se tutto era legale, perché poi si sono fatte tante storie co’ ‘sta storia del razzismo…), tuttavia l’ex carcerato, almeno in questo caso, ha diritto al risarcimento. E lo Stato, gli dice: scusa, la tua carcerazione è stata ingiusta. Dice così: ingiusta. E la parola “ingiusta” (breve ripetizione di italiano con l’aiuto di Zingarelli, è il contrario esatto della parola “giusta”. Ora, per concludere, si pongono tre problemi. Il primo è questo: perché i Pm arrestano le persone pur non essendoci le condizioni di legge per arrestarle? La risposta è semplice: per farle confessare o per indurle ad accusarne altre. Questo - bisogna rendergliene atto - Davigo lo ha sempre ammesso. e non solo lui. Ma questo è massimamente illegale. Secondo problema: come si può impedire questo scempio? In un solo modo: approvando una legge che dica che i presunti innocenti possono essere arrestati, prima della condanna, solo se sono pericolosi. Altrimenti si giudicano a piede libero. Si tratterebbe di fare un decreto “spazza-ingiustizie”. Terzo problema. Se Travaglio continuerà, quando scrive di diritto, a farsi ispirare da Davigo, sono guai. La cosa migliore è che si rivolga a un esperto. Ce ne sono tanti anche nel campo giustizialista. Persone preparate. Gustavo Zagrebelsky, per esempio, è uno che sa tutto di diritto e di Costituzione. Marco, lascia stare Davigo, che ti frega, citofona a Zagrebelsky Lo strano caso del Distretto di Torino camerepenali.it , 28 gennaio 2020 La Giunta dell’Unione interviene sullo strano caso di Asti e attende una spiegazione sull’intervenuto spostamento del Presidente di quel Collegio addirittura in Corte di Appello di Torino e la conferma degli altri componenti il Collegio nella loro sede e nella loro funzione. Ad Asti, qualche settimana fa, un Collegio ha emesso una sentenza di condanna comminando una pena pesantissima senza che il difensore dell’imputato avesse avuto la possibilità di esporre la sua arringa difensiva. Fatto inaudito. Protesta della difesa. Sorprendenti reazioni dei magistrati che segnalavano come l’errore fosse stato la precoce lettura del dispositivo, non già una decisione maturata senza aver considerato le ragioni della difesa. Di ciò si occuperanno competenti Procure e Organi di disciplina. Per l’Avvocatura rileva la perdita di credibilità della giurisdizione. Camere Penali territoriali e Ordini degli Avvocati hanno indetto lo stato di agitazione; ferma presa di posizione dell’Unione delle Camere Penali. La Camera Penale del Piemonte Occidentale e Val d’Aosta ha poi riservatamente invitato i tre giudici ad un passo indietro dalla giurisdizione penale. Il Procuratore generale di Torino “richiama” gli avvocati al rispetto delle prerogative degli organi deputati all’azione disciplinare e ironizza sulla loro non coerenza rispetto al principio di presunzione di innocenza. La ANM distrettuale lancia strali minacciando la fine dell’interlocuzione con l’avvocatura penale. Qualche avvocato fuori dal coro - c’è sempre qualcuno che pensa di capirne di più - propone distinguo rispetto alle iniziative dei colleghi. La Giunta Ucpi denuncia e respinge l’iniziativa polemica del Procuratore Generale di Torino e dell’A.N.M., evidentemente strumentale a distogliere l’attenzione pubblica dal vero problema in discussione. Non un giudice monocratico, magari smarritosi per una qualche imponderabile crisi psico-fisica, ma ben tre giudici di un Collegio chiamato a giudicare reati molto gravi, hanno pronunciato una sentenza di condanna dell’imputato ad 11 anni di reclusione senza dare la parola al difensore, e dunque dando lettura di una decisione già preventivamente e concordemente adottata. Piuttosto che invocare la gogna perché i Colleghi della Camera Penale di Torino hanno inviato una lettera, esplicitamente riservata, a quei tre giudici, violando non si comprende bene quali regole deontologiche o procedimentali, ci si dia una spiegazione sull’intervenuto spostamento del Presidente di quel Collegio addirittura in Corte di Appello di Torino (sede prestigiosa dove tuttavia non risulta ancora abrogata la discussione del difensore) e la conferma degli altri componenti il Collegio nella loro sede e nella loro funzione. Non consentiremo che un fatto di questa inaudita gravità venga liquidato come un inspiegabile (ed inspiegato) incidente professionale, e non consentiremo che le doverose riflessioni e conseguenze che occorre trarre da una simile vicenda lasci il posto a pretestuose polemiche su di una missiva riservata che non a caso altri - non certo la Camera Penale di Torino - ha deciso di rendere pubblica. La Giunta dell’Unione Camere Penali Italiane Liti di condominio, stalking aggravato da “futili motivi” di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore , 28 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 23 gennaio 2020 n. 2726. Il reato di stalking (articolo 612 bis del Codice penale) è molto diffuso nel condominio e consiste nelle condotte reiterate minacciose che cagionano nella persona offesa un grave stato di ansia e di paura per la propria incolumità e dei famigliari, di intensità tale da fargli cambiare il tenore e le abitudini di vita. La Corte di Cassazione (sentenza 2726/2019) ha esaminato il caso di una faida condominiale incorsa tra due famiglie in cui un componente della prima famiglia era stato condannato per il reato di cui all’ articolo 612 bis del Codice penale, per lesioni aggravate e per percosse, mentre gli altri due erano condannati per lesioni aggravate. La Corte dichiarava inammissibile il ricorso e condannava i tre ricorrenti a pagare ciascuno tremila euro alla cassa delle ammende. In particolare un ricorrente si lamentava di essere stati condannato per il reato di stalking, nonostante fosse stato, a sua volta, aggredito dalle persone offese. E affermava l’insussistenza del reato perché vi era stato uno sbilanciamento tra le parti e perché la motivazione della sentenza di condanna si basava solo sulle dichiarazioni delle persone offese. Inoltre la reciproca aggressione avvenuta tra le parti escludeva la sussistenza delle aggravanti dei futili motivi, poiché la reciprocità della contesa rendeva la condotta dei ricorrenti non sintomo di una gratuita aggressione criminale. Infine, i ricorrenti chiedevano che fossero loro concesse le attenuanti generiche per la natura condominiale del conflitto, che ne attenuava la gravità. La Corte di Cassazione rigettava tutti i motivi di ricorso in quanto osservava che la sussistenza del reato, di cui all’articolo 612 bis del codice penale, non è esclusa dalle condotte aggressive delle persone offese. Il giudice non ha accertato una condotta aggressiva da parte delle persone offese, che non è stata dimostrata dalle denunce querele e dai certificati medici prodotti dai ricorrenti, in quanto detto materiale non era stato esaminato nel dibattimento, per dimostrare lo stalking a parti invertite. La Corte di Cassazione sosteneva che la condotta dei ricorrenti fosse stata del tutto sproporzionata rispetto a quella delle persone offese. Pertanto nel caso trattato i ricorrenti avevano commesso i reati per futili motivi, in quanto la loro determinazione criminosa è stata cagionata da uno stimolo esterno di tale lievità, banalità e sproporzione, rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune sentire, un pretesto per nascondere, in realtà, lo sfogo di un impulso violento. Infine la Corte di Cassazione condivideva la motivazione del Tribunale che negava la concessione delle attenuanti generiche, perché non le riteneva sussistenti, nonostante l’incensuratezza dei ricorrenti, in quanto la natura condominiale della contesa non rendeva meno grave il reato che cagionava aggressioni gravi alle persone. Condominio, al persecutore non si applica il divieto di dimora di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore , 28 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 27 gennaio 2020 n.3240. Nello stalking condominiale non può essere applicata la misura cautelare del divieto di avvicinamento, se questa si traduce nel divieto di rientrare in casa. La Cassazione (sentenza 3240/2020) accoglie il ricorso di un indagato per stalking e lesioni aggravate. Oggetto delle “attenzioni” del ricorrente era un vicino di casa insultato, anche a causa di una minorazione fisica, e, secondo l’accusa, in un’occasione aggredito fisicamente. Il Pm aveva disposto un divieto di avvicinamento alla persona offesa. Il Gip aveva inasprito la misura aggiungendo l’obbligo di mantenersi ad una distanza di 50 metri dall’edificio in cui abitava la presunta vittima. La Suprema corte annulla, con rinvio, l’ordinanza, perché la misura comporta, di fatto, un divieto di dimora, tra l’altro, non richiesto dal Pm. I giudici del riesame, premesso che l’indagato abitava al piano sopra a quello occupato dalla parte offesa, avevano osservato che la contiguità degli appartamenti avrebbe agevolato il reato. La soluzione stava, appunto, nel divieto di avvicinamento a 50 metri, in base all’articolo 282-ter del Codice di rito penale. Una scelta fatta senza pensare, che questo comportava l’obbligo di abitare in un altro luogo: una misura diversa, che rientra nel raggio d’azione dell’articolo 283 del Codice di procedura penale. La Cassazione sottolinea la necessità di conciliare i diversi interessi in gioco: tutelare la persona offesa ma senza sacrificare ogni libertà del ricorrente. E nello specifico si trattava del diritto fondamentale di usare la propria abitazione. Etilometro, esito valido con “volume insufficiente” se lo scontrino non segnala “errore” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore , 28 gennaio 2020 Corte d’Appello di Lecce - Sentenza del 27 settembre 2019 n. 1082. Il reato di guida in stato di ebbrezza è configurabile anche quando lo scontrino dell’alcoltest, oltre a riportare un tasso alcolemico superiore alle soglie di punibilità, contenga la dicitura “volume insufficiente”, sempreché l’apparecchio non segnali espressamente l’avvenuto errore. Lo ha stabilito la Sezione penale della Corte d’Appello di Lecce, con la sentenza n. 1082 del 27 settembre 2019, respingendo (sotto questo profilo) il ricorso dell’automobilista. Il guidatore, già condannato dal Tribunale di Brindisi perché trovato dai Carabinieri alla guida con un tasso alcolemico superiore a 1,5g/l, si era difeso sostenendo che i risultati dell’esame “non erano sufficienti per ritenere provato lo stato di ebbrezza poiché su entrambi gli scontrini emessi dall’apparecchiatura risultava la dicitura “volume insufficiente”, facendo sorgere una incompatibilità logica tra i dati rilasciati dall’apparecchiatura stessa”. Secondo il giudice di secondo grado tuttavia, come stabilito anche dalla Cassazione (n. 6636/2017), “solo la dicitura dell’“errore” nello scontrino della rilevazione è indicativa del funzionamento difettoso”. Nella disciplina relativa al funzionamento degli strumenti di misura della concentrazione di alcool nel sangue (allegato al Dm 22 maggio 1990, n. 196), infatti, si precisa che “qualora l’apparato non dia un inequivocabile messaggio di errore, la misurazione deve ritenersi correttamente effettuata, anche nell’ipotesi in cui compaia un “messaggio di servizio” teso ad evidenziare che l’espirazione è stata effettuata con ridotto volume di aria”. Il Collegio poi boccia anche il secondo motivo di appello relativo alla discrasia tra gli orari riportati sugli scontrini e sul verbale dei militari. Mentre infatti nel capo di imputazione e nella notizia di reato i rilevamenti risultano alle ore 1,00 e 1,10, sugli scontrini sono riportati i differenti orari delle 2,00 e 2,10. Per i giudici tuttavia l’“incongruenza può trovare una razionale giustificazione nella mancata sincronizzazione del rilevatore dell’orario con l’ora in corso”. Per cui “tale apparente incongruenza (piuttosto diffusa nelle macchine rilevatrici dell’orario) consistendo in un errore, non può inficiare il giudizio di penale responsabilità dell’imputato”. La Corte ha poi negato anche la richiesta di non punibilità della particolare tenuità del fatto (ex articolo 131-bis del Cp) “in quanto le modalità della condotta e il pericolo per l’incolumità pubblica che ne è derivato non possono essere ritenuti inoffensivi”. Il riferimento è ai “gravi e non trascurabili elementi sintomatici dell’imputato” e alle “pericolose modalità di guida”, riportate nel verbale dei militari. In esso infatti si dà conto di “ingiustificati e improvvisi scarti laterali; imprudenze varie; reazioni inconsuete e scoordinate all’intimazione dell’Alt”. Tutto ciò, conclude sul punto la decisione, “induce a ritenere che l’imputato abbia posto in essere una condotta pericolosa per la incolumità pubblica” tale da ritenere che “il fatto non fosse di particolare tenuità”. La Corte, infine, rileva, a favore del ricorrente, che il Tribunale ha erroneamente deliberato un aumento di pena per l’aggravante di aver commesso il fatto in orario notturno (comma 2-sexies dell’art.186 e non comma 2 bis del Cds, come erroneamente indicato nel capo di imputazione), mentre per questa ipotesi si prevede un aumento della sola pena pecuniaria e non anche della pena detentiva. Bancomat, non è reato occultare mezzi “inefficaci” per il furto dei dati di Paola Rossi Il Sole 24 Ore , 28 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 27 gennaio 2020 n. 3236. Non scatta il reato previsto dall’articolo 617-quinquies del Codice penale se si manomette lo sportello Bancomat con mezzi inadeguati all’intercettazione della banda informatica e dei codici pin della carte introdotte dagli utenti. Commette, al contrario, il reato chi occulta nello sportello Bancomat mezzi idonei al furto dei dati, anche se non ci si riesce. Così la quinta sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 3236depositata ieri ha cancellato la condanna, con rinvio a nuovo giudizio, di un giovane che aveva nascosto - in uno sportello Postamat - un sistema di captazione skimmer per la lettura delle bande magnetiche delle carte e una videocamera per registrare i pin digitati dagli ignari utenti. Non basta, infatti,dice la Cassazione, accertare la condotta di posizionamento delle apparecchiature occultate, ma ne va dimostrata in concreto l’attitudine a registrare le comunicazioni telematiche e i dati informatici altrui. Quindi per chi tenta - senza riuscirvi - di rubare i dati e i codici delle carte bancomat scatta comunque la condanna in sede penale per il solo fatto di aver installato apparecchiature occulte “idonee” a commettere il furto telematico, anche se in concreto non ha raccolto e memorizzato alcuna informazione. Condotta irrilevante in sé - La Cassazione chiarisce che è un reato di pericolo, ma “concreto” e non “generico”, quello previsto dall’articolo 617-quinquies del Codice penaleper chi installa apparecchiature atte a intercettare comunicazioni informatiche o telematiche. Generalmente nei reati di pericolo, basta infatti aver realizzato la condotta incriminata dalla legge con la conseguenza che il pericolo è presunto. Nel caso dei reati di pericolo concreto, invece, la minaccia al bene va accertata dal giudice che verifica l’attitudine delle azioni poste in essere anche se non si è raggiunto un ulteriore scopo illecito. Voghera (Pv). Pino non voleva uccidersi, ma solo attirare l’attenzione di Damiano Aliprandi Il Dubbio , 28 gennaio 2020 Era in attesa di giudizio, molto depresso, aveva richiesto i domiciliari. Prende sempre più largo l’ipotesi che Pino Gregoraci, detenuto in attesa di giudizio nel carcere di Voghera, avrebbe voluto simulare il suicidio per attirare l’attenzione su se stesso perché le sue richieste non venivano ascoltate. Ma alla fine è morto. Una vicenda tragica che l’Associazione Yairaiha Onlus ha voluto portare a conoscenza dopo aver ascoltato le testimonianze di alcuni detenuti che lo conoscevano. Pino era molto depresso e non era mai riuscito a rassegnarsi a vivere senza un piede. Con l’aiuto dei suoi compagni aveva presentato decine di istanze per parlare con uno psicologo, ma non è mai stato chiamato. “I suoi compagni sono arrabbiati - denuncia Sandra Berardi dell’associazione Yairaiha Onlus - e ci fanno sapere che la morte di Pino peserà sulla coscienza dei sanitari che non hanno ascoltato le sue richieste di aiuto. Ogni volta che tornava dalla telefonata o dai colloqui piangeva disperato”. Dai racconti emerge che gli stessi agenti penitenziari sono rimasti scioccati e hanno chiesto ai compagni di Pino: “Perché se sapevate che era così depresso non ci avete informato? Avremmo potuto fare qualcosa di più, era un bravo ragazzo!”. L’associazione spiega che Pino aveva saputo che stavano per trasferirlo a Busto Arsizio ma non voleva, perché a Voghera si era “abituato”, aveva trovato qualche amico e in sezione i compagni lo curavano. Quindi Pino non voleva uccidersi realmente, ma voleva solo attirare l’attenzione sul suo disagio contro una eventuale indifferenza dei sanitari? Resta il fatto che poco tempo fa un ragazzo con problemi di depressione aveva tentato il suicidio e in seguito venne trasferito in una casa di cura. Forse Pino ha pensato che avrebbe potuto farcela anche lui ad aggirare l’indifferenza. L’uomo, sposato e padre di tre figli, era indagato dalla Procura distrettuale di Reggio Calabria per le ipotesi di reato di associazione mafiosa e attività finanziaria abusiva in concorso. Dopo l’arresto, i legali di Gregoraci, avevano chiesto la sostituzione degli arresti in carcere con una misura alternativa quale gli arresti domiciliari, che ritenevano più consona ai problemi di salute del 51enne, peraltro rappresentate attraverso delle consulenze mediche. Arrestato a luglio, da agosto era recluso in alta sorveglianza nel carcere di Voghera in attesa del processo. L’associazione Yairaiha Onlus fa sapere che pochi giorni prima del suicidio aveva avuto rassicurazioni anche in merito al suo processo: erano state trovate le telefonate che lo avrebbero scagionato dalle accuse. Ma forse, quel giorno, aveva nuovamente perso la speranza. “La depressione - spiega l’associazione- è campanello d’allarme di malesseri più profondi che stanno lì, ed esplodono quando meno te lo aspetti. I suoi compagni non sanno di preciso quale pensiero abbia attraversato la sua mente fragile”. I suoi compagni, alle 13.50 di mercoledì scorso, mentre andavano in saletta, lo hanno visto che stava seduto in carrozzina, da solo. lo invitarono a fare una partita a carte, rispose che aveva mal di testa e preferiva risposarsi. Al rientro dall’aria, poco dopo le 14, sono risaliti tutti in sezione trovando Pino appeso nel bagno, con il cuore che ancora gli batteva. Ma non c’è stato niente da fare. L’associazione Yairaiha Onlus racconta che è seguita la telefonata alla moglie per comunicarle l’accaduto: “signora suo marito è deceduto”. La signora riattacca il telefono pensando ad uno scherzo di pessimo gusto. La richiamano nel giro di pochi minuti: “signora ma lei ha capito che suo marito è morto?”. “Una macabra telefonata a 1300 km di distanza, neanche la delicatezza di mandare un assistente sociale ad avvisare”, conclude amaramente l’associazione. Resta il fatto che non è la prima volta che al carcere di Voghera emergono problemi dal punto di vista dell’assistenza sanitaria. Abbiamo già parlato su Il Dubbio del caso di Salvatore Giordano segnalato sempre dall’associazione Yairaiha Onlus. Ai familiari era stato detto che il detenuto - recluso nel carcere di Voghera - aveva un lieve ingrassamento del fegato da curare con l’alimentazione, ma quando sono andati a trovarlo in ospedale la vigilia di Natale lo hanno trovato in condizioni devastanti. Poi è morto. Oppure, ad ottobre del 2017, c’è stato il caso Franco Morabito, ergastolano, morto di tumore a 48 anni, con tutti gli organi in metastasi, nell’ospedale di Voghera a distanza di un mese dalla sospensione della pena. In carcere veniva curato per coliche renali. Milano. San Vittore: la sfida di “Juri”, lo psicologo che trasforma i detenuti in cittadini di Giusi Fasano Corriere della Sera , 28 gennaio 2020 Angelo Aparo dal 1977 segue migliaia di carcerati con il suo Gruppo della Trasgressione. “Il mio debito con Sergio Cusani. E dopo 40 anni dico: date fiducia e lavoro a queste persone, ne guadagnerà tutta la società”. Questa è la storia di un uomo che ha passato quarant’anni della sua vita in carcere senza essere né detenuto, né agente penitenziario. Uno che in carcere, 22 anni fa, ha cominciato una strana rivoluzione ancora oggi in corso: arruola soldati che fanno la guerra a sé stessi e al loro passato. Il campo di battaglia, diciamo così, si chiama “Gruppo della Trasgressione”. Che quei soldati siano assassini, rapinatori, corrotti, ladri, poco importa. Quel che conta è la regola di ingaggio nel Gruppo, per tutti uguale: per avere diritto di parlare, devi recitare il teorema di Pitagora o una poesia; devi insomma dimostrare che ti sei impegnato a imparare qualcosa. L’uomo dei 40 anni dentro si chiama Angelo Aparo, 68 anni, per tutti Juri, nome preso in prestito da vecchi pensieri su Juri del Dottor Zivago. Era un ragazzo dalle belle speranze quando a settembre del 1977 si presentò al portone del carcere di San Vittore. “Sono lo psicologo”. E varcò per la prima volta la soglia della prigione più nota del Paese. “A quel tempo ero uno dei primissimi psicologi del carcere” ricorda lui. “C’ero io soltanto per San Vittore e per Varese, 2.000 detenuti in tutto. Oggi ce ne sono 8-10 in ogni sede. Nel tempo è molto cambiato quel che faccio rispetto a 40 anni fa. Per una ventina d’anni ho incontrato e parlato con detenuti che non avevano nessun interesse a farsi conoscere e a raccontarsi, come invece fanno i miei pazienti fuori dal carcere. Succedeva che quando il tempo trascorso in cella era diventato compatibile con una possibile misura alternativa intervenivo io: chiamavo il detenuto, chiedevo, valutavo, scrivevo la relazione. Era raro che qualcuno si rivolgesse a me spontaneamente per chiedere aiuto, a meno che non fosse un aiuto per uscire in fretta dal carcere”. Una ventina d’anni così. Poi la svolta, cioè il “Gruppo della Trasgressione”. Per chiarire: il Gruppo - la rivoluzione di Juri - è lo strumento di cui in 22 anni si sono serviti un migliaio di detenuti per viaggiare (come direbbe De André) “in direzione ostinata e contraria” al loro passato criminale. Il “Gruppo è discussione”, autoanalisi, analisi di gruppo, incontri con le vittime di reato, teatro, insegnamento per giovani bulli nelle scuole o confronto con altri detenuti che vogliono capire, partecipare. È l’incontro con le istituzioni, con magistrati e direttori illuminati, con il mondo del lavoro, con la vita reale oltre le sbarre. È la via maestra che porta alla consapevolezza e alla creazione di una coscienza civile. In un solo concetto: il Gruppo trasforma i detenuti nei cittadini che non sono mai stati o che hanno dimenticato di essere. Dottor Aparo, torniamo indietro. Ci spiega come è nato tutto questo? “C’entra un viaggio e una passeggiata con la mia compagna a Bologna. Parlavamo di trasgressione e facemmo un discorso su quel concetto che mi rimase in mente. E poi c’entra Sergio Cusani. In quegli anni stava scontando la sua condanna ed era un mio paziente. Un detenuto che mi parlava per relazione, non per dovere. Una rarità. Stava male, si interrogava. Parlammo del fatto che io fossi molto interessato a persone come lui, a ottenere che i detenuti avessero voglia di capire la loro storia, di cercarla. E ci chiedemmo: come facciamo a trovare la via giusta perché questo accada? La risposta arrivò spontanea. Ci siamo detti che serviva un gruppo di riflessione svincolato dalle relazioni che lo Sato chiedeva per valutare i detenuti”. Da qui la creazione del Gruppo. “Cusani diventò mio alleato. Passarono alcune settimane dopodiché mi presentai dai detenuti della sezione penale, cioè quelli che erano stabili a San Vittore, e dissi: vorrei creare questo Gruppo. Ci state? Le adesioni arrivarono rapide e a pioggia, partimmo in quarta, con riunioni due volte alla settimana. A quel punto ne parlai con il direttore di allora, Luigi Pagano. E il progetto partì davvero”. Da dove avete cominciato? “Dalla ricerca delle trasgressioni di ciascuno, dagli ingredienti stessi di ogni trasgressione. Un tema che ricordo bene, all’inizio, fu la sfida. Cercavamo risposte al perché delinquere significa sfidare. Negli anni abbiamo battezzato l’adrenalina, la sfida, il bisogno di eccitazione, con l’espressione “virus delle gioie corte”. Accanto alle riunioni settimanali e agli scritti dei detenuti, avevamo molto spesso ospiti prestigiosi dai quali imparare e con cui confrontarci: Enzo Biagi, Enzo Jannacci, Roberto Vecchioni, Fabio Fazio. Il 24 dicembre del ‘97, a casa di Dori Ghezzi e Fabrizio De André avevamo concordato che il nostro primo ospite sarebbe stato lui, ma poco dopo si ammalò e quell’incontro in carcere non ci fu mai: un dolore dal quale nacquero qualche anno dopo i concerti della Trsg.band con le canzoni di De André e le riflessioni dei detenuti sulle loro storie sbagliate”. Quanti detenuti si sono legati al Gruppo finora? “Un migliaio in 22 anni. In questo periodo abbiamo 55-60 detenuti divisi in più gruppi, nei quali io sono sempre presente, nelle carceri di Opera, Bollate, San Vittore. E poi c’è il gruppo esterno, cioè detenuti che possono essere liberi di giorno o che sono in libertà condizionale con i quali ci ritroviamo una volta a settimana in una sede messa a disposizione dall’”Associazione Libera, lotta contro le mafie”“. Per quanto tempo un detenuto resta nel gruppo? “Molto. Alcuni sono con me da nove-dieci anni e hanno assorbito una tale quantità di concetti e di principi che ormai non è più riconoscibile il confine fra il loro vissuto e il vissuto del gruppo, fra quello che hanno imparato da me e quello che pensano. Ci sono situazioni nelle quali questo è lampante, ad esempio a San Vittore, dove tre detenuti con 9 anni a testa di esperienza nel gruppo escono dal carcere di Opera ed entrano con me in quello di San Vittore per aiutare i detenuti del reparto “giovani adulti” a emanciparsi dalle maschere dei duri con cui sono finiti in carcere. Magari sbagliano qualche congiuntivo però sanno dire e sentire cose profonde, sanno riconoscere le loro fragilità e sanno che questo li rende liberi, con la mente ancor prima che con il corpo. A un certo punto uno dei valori aggiunti del Gruppo è stata la partecipazione ai nostri incontri di alcuni parenti di vittime di reato. Ci sono detenuti per i quali il gruppo è diventato famiglia. Alcuni tornano da me in studio, come pazienti, quando sono magari liberi da anni”. Il Gruppo è legato a una cooperativa, giusto? “Giusto. Abbiamo aperto una cooperativa sociale nel 2012 che si chiama Trasgressione.net e che mi ha permesso di fare un grandissimo passo avanti sulla conoscenza del detenuto. Attraverso il lavoro della coop vedo com’è la sua interazione con gli altri, lo vedo vivere la vita vera. Perché ovviamente una cosa è parlare, un’altra è masticare le difficoltà della vita”. Di cosa si occupa questa cooperativa? “Vende frutta e verdura. Al mercato, a ristoranti, bar, gelaterie, mense, gruppi di acquisto solidale, a chiunque ne abbia bisogno. Occasionalmente facciamo piccoli lavori di manutenzione, traslochi, tinteggiatura, lavori di pulizia. Ma in questo momento quello che la cooperativa riesce a mettere assieme non è sufficiente a dare lavoro alla “Squadra anti-degrado” che servirebbe per l’attività sociale e di prevenzione che facciamo. La cooperativa ha lo scopo di dare un lavoro e quindi uno stipendio ai detenuti che poi sono gli stessi che fanno azione sociale attraverso il Gruppo. Faccio appello alla sensibilità sociale e civile di chi pensa che un detenuto recuperato, cittadino e lavoratore è un bene per tutti”. Che cosa chiede esattamente? “Il principale obiettivo della nostra cooperativa è fare in modo che chi si comportava da predatore sentendosi del tutto estraneo alle sue vittime, possa sentirsi, nella sua seconda vita, parte significativa della collettività. Questo diventa più facile se i detenuti in misura alternativa e gli ex detenuti hanno un lavoro e partecipano a progetti a sfondo sociale. Col Gruppo della Trasgressione i detenuti imparano a a far diventare le loro storie sbagliate e i loro percorsi evolutivi strumenti per comunicare in modo efficace e con i giovani. È quello che facciamo da oltre quindici anni nelle scuole e sul territorio per contrastare bullismo e dipendenze da droga, alcol e gioco d’azzardo; inoltre, con i nostri convegni cerchiamo tutti gli anni di documentare pubblicamente i risultati raggiunti e di condividerli con autorità istituzionali, studenti universitari e comuni cittadini. Quindi? “Quindi affinché la nostra cooperativa possa avere dei testimonial capaci di svolgere questo ruolo è indispensabile che i detenuti, dopo anni di training col gruppo e una volta ottenuta la misura alternativa, abbiano un lavoro e uno stipendio. Abbiamo bisogno di lavorare di più, di un maggior numero di clienti - cioè di bar, ristoranti, mense, gelaterie - ai quali portare frutta e verdura. Tra l’altro, abbiamo qualità del prodotto, velocità nelle consegne e prezzi concorrenziali. In alternativa, possiamo stipulare contratti di lavoro fra la cooperativa e aziende che abbiano bisogno di mano d’opera. Se mi permette vorrei aggiungere un’altra cosa”. Prego… “Vorrei dire che per ogni ex delinquente che diventa cittadino, la società guadagna anche il futuro dei suoi figli. Quindi il mio appello è: scriveteci, provate a partecipare a questo progetto: cooperativa@trasgressione.net. Lavoriamo assieme”. Reggio Emilia. Esposto dei detenuti: “Condizioni igieniche pericolose” di Andrea Mastrangelo Gazzetta di Reggio , 28 gennaio 2020 Situazione invivibile in cucina e nelle sezioni. “Fra pentole, scaffali e cibo la fanno da padrone i topi”. È una richiesta d’aiuto lanciata a tanti soggetti, affinché qualcuno li ascolti: il direttore del carcere, il magistrato di sorveglianza, il Tar. Poi anche il sindaco Vecchi, il vescovo Camisasca, i responsabili della Ausl, il Provveditore alle opere pubbliche e infine lo stesso garante nazionale per i diritti dei detenuti. Questo appello, che assomiglia a un grido di dolore, arriva dai detenuti del carcere della Pulce, che lamentano condizioni di vita non sopportabili a causa della mancanza di alcuni fra i più semplici requisiti igienici. Numerosi reclusi lo hanno messo nero su bianco in un esposto partito in questi giorni. Di recente ad occuparsi del carcere di via Settembrini è stato Salvini, che si è detto pronto a chiederne la chiusura per tutelare le condizioni di vita degli agenti della polizia penitenziaria. Politica e promesse elettorali a parte, l’esposto parte ora dalle celle. L’elencazione delle mancanze e dei rischi è lunga e dettagliata e già il primo punto parla di problemi basilari. “All’interno del locale cucina - si legge nell’esposto - luogo questo dove si prepara il cibo per tutti i reclusi, regnano sovrani dei giganti topi che scorrazzano indisturbati fra pentolame, scaffali e cibo”. “Nelle sezioni dove vivono gli stessi detenuti - così continuano i reclusi - l’igiene e le condizioni basilari del pulito, che dovrebbero garantire il rispetto della norma a favore della salute, sono palesemente violati: sporcizia come sputi, fiotti di sangue secco sui muri, escrementi di piccioni e di topi la fanno da padrone”. Non si parla solo della salute dei detenuti; l’argomento è anche la salute dei visitatori. “Le cosiddette sale colloqui - così continua la richiesta di aiuto - sono prive di riscaldamento: non sono installati i termosifoni, quindi persone anziane e bambini, che sono cittadini liberi e che non hanno commesso nessun tipo di reato, debbono ogni volta soffrire il freddo per tutta la durata del loro colloquio. Per i soggetti che provengono da fuori regione questa condizione dura ore e ore”. Dopodiché vi sono altre considerazioni circa la vita quotidiana fra le celle, con riferimenti a mancanze che toccano punti importanti della detenzione: le mansioni lavorative, la possibilità di acquistare alimentari a prezzi congrui e di accedere alle attività pedagogiche. Senza contare un riferimento alla mancanza di acqua calda a fronte dello spreco di acqua corrente in ambienti non utilizzati. Alle autorità alle quali è indirizzato l’esposto si chiede un intervento “rendendo giustizia umana per la dignità delle persone che sono private della libertà fisica e non certo dei diritti che sono rivendicati dalle norme vigenti”. Udine. “Gravi carenze sanitarie in carcere”: oggi la protesta al Distretto nordest24.it , 28 gennaio 2020 Manifestazione di fronte all’ingresso dell’ASS n. 4 Medio Friuli, dalle ore 7.00 alle 13.00 in via San Valentino. Presidio in solidarietà con i prigionieri del carcere di via Spalato, che negli scorsi mesi hanno denunciato le gravissime carenze dell’area sanitaria, educativa e psicologica. Martedì 28 gennaio 2020, per consentire lo svolgimento in sicurezza della manifestazione di fronte all’ingresso dell’ASS n. 4 Medio Friuli, dalle ore 7.00 alle 13.00 in via San Valentino, nell’area di parcheggio a pagamento (civico 18) sarà istituito il “Divieto di sosta temporaneo 0-24 - Zona rimozione coatta” per ogni categoria di veicoli (compresi quelli al servizio di persone invalide). Qualora venissero rilevate condizioni di criticità in merito al transito veicolare, è prevista anche l’istituzione del “Divieto di transito” (eccetto autorizzati), con conseguente deviazione dei veicoli lungo via Pracchiuso. “Si è scelto di manifestare in quel luogo perché è al direttore sanitario che spetta la responsabilità delle funzioni di tutela dei/delle pazienti e di vigilanza sull’opera del personale sanitario operante nel carcere “ - fanno sapere gli organizzatori. “In particolare i detenuti ci informano - proseguono - che, da parte del personale sanitario interno alla prigione, ci sono gravi e immotivati ritardi nell’intervenire tempestivamente, quando cioè ci si sente male, e che l’infermeria non è presidiata sulle 24 ore né sui 7 giorni, e questo significa che chi si sente male fuori dall’orario di apertura deve essere ogni volta accompagnato dalle guardie in ospedale (e di conseguenza, attendere che le guardie siano disponibili)”. “Ci sono detenuti con stomia - concludono - che devono aspettare il ritiro della sacca dalla mattina alla sera. Infine vengono somministrati psicofarmaci senza consenso”. Campobasso. Sanità “assente”, la protesta dei detenuti supera le porte del carcere primonumero.it , 28 gennaio 2020 È stata una giornata ad alta tensione nella casa circondariale del capoluogo dove due reclusi hanno compiuto atti di autolesionismo, uno ha avvertito un malore e infine una persona è stata trasportata in ospedale. Tutto sarebbe dovuto alla carente assistenza sanitaria: nel penitenziario non ci sono più infermieri e “i detenuti non hanno nemmeno accesso ai farmaci salvavita”, spiega il sindacalista Aldo Di Giacomo. “Ho allertato il presidente Toma e le forze dell’ordine”. Il momento clou intorno alle 14, quando anche chi passava in via Cavour e perfino chi era al lavoro negli uffici dei palazzi vicini ha potuto udire distintamente quelle grida disperate provenire dall’interno della casa circondariale di Campobasso. “Aiuto, aiutateci”. Qualcuno, dalle celle, probabilmente aveva anche afferrato degli oggetti che sbatteva contro le grate. È stata una giornata ad alta tensione all’interno del carcere, dove poco dopo l’ora di pranzo è stato richiesto l’intervento del personale sanitario arrivato con un’ambulanza inviata dal 118 successivamente scortata all’ospedale Cardarelli da un mezzo della Polizia penitenziaria. In quelle stesse ore in carcere è stato richiamato tutto il personale proprio per tenere sotto controllo una situazione che ha rischiato di degenerare. Quattro reclusi si sarebbero feriti: due in particolare avrebbero commesso atti di autolesionismo, uno avrebbe avuto un malore. Infine un altro è stato trasferito al Cardarelli. Nemmeno in serata la protesta che ha tenuto in apprensione i dipendenti del penitenziario è rientrata: si sono ancora sentiti grida di aiuto e il rumore degli oggetti sbattuti contro le grate delle celle. Per questo, è stato ritenuto opportuno allertare la Digos di Campobasso. Tutto sarebbe riconducibile al problema dell’assistenza sanitaria: ci sono difficoltà a reperire assistenti sociali e di infermieri. E senza questi ultimi “i detenuti non possono nemmeno avere a disposizione i farmaci salvavita”, ha riferito a Primonumero Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria, che proprio tre giorni fa in una conferenza stampa ha denunciato la carenza di personale medico e infermieristico esistente all’interno del penitenziario alla Procura della Repubblica ed al Magistrato di Sorveglianza. Una situazione iniziata dal 31 dicembre scorso, quando sono scaduti i contratti di due infermieri che erano in servizio. Per garantire dunque la tutela della salute dei reclusi e per lanciare l’allarme sulla protesta che non si concluderà nelle prossime ore, Di Giacomo ha contatto il governatore Donato Toma e allertato le forze dell’ordine. “La situazione è da tenere sotto controllo”, ha aggiunto. Mentre della questione è stata interessata anche la dottoressa Virginia Scafarto, commissario dell’Asrem, la Garante regionale dei Diritti della Persona, Leontina Lanciano, ha chiesto di “monitorare la situazione e verificare le condizioni dei detenuti, allo scopo di risolvere il problema per il bene di tutti”. “Visito con frequenza la struttura di via Cavour, dove ci sono, come in tante altre case circondariali, dei problemi da risolvere. Quello che sta succedendo in queste ore va affrontato con grande attenzione -le parole di Leontina Lanciano - I detenuti lamentano forti disagi sul piano sanitario, in particolare la carenza di personale infermieristico. Non è una questione di poco conto. La Comandante del carcere ha informato della vicenda il Presidente della Regione Donato Toma. Le istituzioni sono pronte a risolvere la vertenza di natura sanitaria e infermieristica. Bisognerà evitare che il clima si inasprisca ulteriormente e che il personale di Polizia Penitenziaria possa operare senza il timore che da un momento all’altro possano esserci problemi”. Non è la prima volta che nella struttura, dove spesso vengono intercettati droga e microtelefonini, si registrano episodi simili, molti dei quali denunciati dal sindacalista Aldo Di Giacomo. Tra celle sovraffollate e una serie di carenze, la vita dei reclusi è durissima: c’è malcontento, qualcuno avrebbe persino provato a togliersi la vita. Le proteste, poi, hanno dato vita anche a fatti più gravi: lo ricorderete, qualche mese fa da uno dei blocchi della casa circondariale venne acceso un incendio e bruciati materassi e rotte le finestre di alcune sezioni. I detenuti protestavano per le restrizioni introdotte per le telefonate con i familiari e vennero colpiti da pesanti provvedimenti. Sassari. Sorella di un detenuto denuncia “pestato in carcere” ansa.it , 28 gennaio 2020 La sorella di Filippo Griner, il boss della malavita pugliese detenuto nel carcere di Bancali a Sassari in regime 41bis, accusa la Polizia penitenziaria di avere pestato il fratello in cella. Le accuse sono contenute in una denuncia presentata nei giorni scorsi ai carabinieri di Andria. Secondo quanto pubblicato dalla donna sul profilo Facebook del garante per i detenuti del carcere di Bancali, Antonello Unida, il pestaggio sarebbe una ritorsione. Griner qualche giorno fa aveva colpito un poliziotto penitenziario con una penna, ferendolo al viso. La famiglia del detenuto denuncia che è stato poi pestato in cella da una ventina di agenti, durante la notte. Per verificare quanto successo e costatare la difficile situazione che si è creata a Bancali dopo numerose aggressioni ai danni degli agenti, domani il provveditore regionale delle carceri Maurizio Veneziano farà un sopralluogo nell’istituto di pena, dove, la settimana prossima, arriverà anche il nuovo direttore, Graziano Pujia, appena nominato. “Non è un carcere, è un lager! - scrive la sorella di Griner su Facebook - Hanno scritto che il detenuto ha aggredito un poliziotto, ma non hanno scritto che 20 guardie hanno massacrato il ragazzo! Il detenuto è mio fratello, ieri abbiamo avuto un colloquio telefonico con lui e la sua voce era flebile rotta dal pianto per i dolori, ha fatto appena in tempo a dire di avere il petto insanguinato, prima che interrompessero la chiamata”. Il provveditore regionale Veneziano precisa: “Domani sarò a Sassari per verificare le condizioni all’interno del carcere e acquisirò informazioni anche su quanto realmente accaduto. Per il momento posso dire che a Bancali arriverà entro massimo una decina di giorni il nuovo direttore, e che nei prossimi giorni nominerò un funzionario che opererà come comandante della Polizia penitenziaria”. Sassari. Accuse al carcere dal profilo Facebook del Garante dei detenuti di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna , 28 gennaio 2020 Accuse dai familiari di Griner, detenuto 41bis che ha ferito un agente. Il messaggio rilanciato da Unida nella sua bacheca Facebook. Qualche giorno fa ha aggredito un agente della Polizia penitenziaria conficcandogli una penna in faccia e rischiando di lesionargli un occhio. Ora i suoi familiari - con un post pubblicato sul profilo Facebook del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Antonello Unida, che poi lo ha rilanciato - denunciano che a Bancali c’è qualcosa che non va e usano termini pesanti. Parlano anche di una presunta aggressione ai danni del loro congiunto. Lui è Filippo Griner, 38 anni di Andria, recluso nel carcere di Bancali in regime di 41bis, e la moglie Maria Pistillo sabato pomeriggio ha depositato una querela ai carabinieri della compagnia di Andria dove si è presentata insieme al padre del detenuto e a una sorella. Sarà una inchiesta dell’autorità giudiziaria a chiarire gli aspetti della vicenda, e forse già oggi si potrebbero conoscere elementi ulteriori. Intanto si può prendere atto dell’insolita iniziativa dei familiari di un detenuto della sezione di massima sicurezza che scelgono la bacheca del profilo del Garante comunale per lanciare accuse pesanti sul funzionamento della struttura carceraria sassarese, fino a sostenere che il loro congiunto sarebbe stato “pestato dalle guardie”. Sotto il post oltre cento commenti e condivisioni, un vortice pericoloso come tutte le incursioni sui social che si trascinano dietro ogni cosa. Come succede quando si tratta di 41 bis, dal carcere non trapela niente. E il Garante che ieri pomeriggio si è presentato a Bancali con l’intenzione di verificare le effettive condizioni di Filippo Griner ha dovuto prendere atto del cortese invito a tornare questa mattina. Cosa che farà uno dei difensori del recluso, l’avvocata Maria Teresa Pintus. Ma cominciamo da capo. Venerdì mattina un agente del Gom in servizio a Bancali viene ferito al volto da un detenuto che lo colpisce con una penna. Il tappo gli resta conficcato in faccia. Soccorso e accompagnato in ospedale viene operato e i medici gli assegnano una prognosi iniziale di 20 giorni di cure. Il detenuto è Filippo Griner, viene immobilizzato e disarmato, “lo strumento” sequestrato. Una operazione non semplice, tanto che ci sarebbe stata una colluttazione tra agenti e il recluso. Il suo avvocato Giangregorio De Pascalis nel pomeriggio ha un appuntamento per il colloquio telefonico ma non riesce a parlargli perché da Trani gli comunicano che “non c’è linea con Bancali”. Ancora non è informato di quanto accaduto nella mattinata. Lo scopre il giorno dopo. Sabato nel primo pomeriggio, la moglie di Griner va dai carabinieri di Andria. Racconta - e mette a verbale - che alle 12,30 dal carcere di Trani è stata messa in contatto telefonico con il marito recluso a Bancali. “Solitamente faccio parlare prima i bambini - racconta - ma oggi Filippo ha chiesto di passare subito il telefono a me. Con voce flebile mi ha detto che intorno alle 7 circa 20 guardie lo avevano massacrato di botte e che gli sanguinava il petto. Io ho cercato di tranquillizzarlo ma lui mi ha detto di avvisare subito i nostri avvocati”. Nella denuncia, la donna ha chiesto “di poter avere notizie aggiornate sullo stato di salute di mio marito, anche perché i legali non potranno avere un colloquio con lui prima di martedì”. La moglie di Griner ha anche sottolineato di avere visto il marito nel colloquio del 23 dicembre dello scorso anno (è previsto un incontro al mese per i reclusi del 41 bis) e di non avere notato situazioni anomale. Il prossimo colloquio dovrebbe avvenire a febbraio. Intanto i legali del detenuto hanno inviato una richiesta con posta elettronica certificata per chiedere chiarimenti e un colloquio con il loro assistito. Sull’episodio già oggi scatteranno ulteriori accertamenti in relazione all’aggressione all’agente della polizia penitenziaria e ad eventuali fatti che potrebbero essersi verificati successivamente e dei quali, al momento, non esiste alcuna certezza. Tra l’altro negli ambienti interessati dalla vicenda sono operative le telecamere che registrano quello che accade. Reggio Calabria. Tutela dei minori: rinnovato il protocollo tra Tribunale e Associazioni di Serena Guzzone strettoweb.com , 28 gennaio 2020 L’accordo prevede una ancora più stretta collaborazione delle associazioni con l’ufficio giudiziario retto dal Presidente Roberto di Bella. La Camera Minorile di Reggio Calabria garantirà con propri avvocati volontari un servizio di sportello informativo. Dopo l’esperienza positiva del primo anno di attività è stata rinnovata l’intesa tra Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, Save The Children, Unicef, Camere Minorili e Centro Comunitario Agape. L’accordo prevede una ancora più stretta collaborazione delle associazioni con l’ufficio giudiziario retto dal Presidente Roberto Di Bella allo scopo di garantire ad ogni minore in difficoltà ed ai suoi genitori la conoscenza dei propri diritti e fornire loro gli strumenti necessari per poterli tutelare e per facilitare il rapporto con le istituzioni che si occupano di minori, e favorire la risoluzione dei problemi del minore attraverso l’intervento della rete associativa operante sul territorio della Città metropolitana. Nello specifico la Camera Minorile di Reggio Calabria garantirà con propri avvocati volontari un servizio di sportello informativo una volta la settimana, nel giorno del mercoledì dalle ore 9,30 alle ore 12,30, presso i locali del Tribunale medesimo, inoltre, sarà attivato un servizio telefonico e di ascolto attraverso il quale potranno essere raccolte le richieste di assistenza e di aiuto a cura e presso la sede del Centro Comunitario Agape il quale s’ impegna inoltre a reperire famiglie di supporto o singole persone che possano accompagnare i minori, e aiutare i rispettivi genitori, nei compiti educativi e di crescita. Tutte le associazioni firmatarie dell’accordo collaboreranno all’esecuzione dei provvedimenti adottati dal TM a sostegno dei minori appartenenti a nuclei familiari in difficoltà, secondo le prescrizioni dell’autorità giudiziaria minorile attraverso un volontariato qualificato ed un sistema di rete di sensibilizzazione educativa sui temi dell’infanzia e l’adolescenza. Si prevedono, infine, incontri a cadenza trimestrale con un rappresentante del TM per la verifica delle attività in corso. Al protocollo potranno aderire anche altre associazioni senza fini di lucro che svolgano la loro attività nel campo della tutela dei minori e condividano metodi ed obiettivi in esso delineati. Soddisfazione per la firma del protocollo è stata espressa da Raffaela Milano, Direttore nazionale di Save The Children che ha dichiarato “siamo particolarmente lieti di contribuire a questo impegno comune, in un territorio che da tempo ci vede concretamente impegnati, attraverso esperienze quali il Punto Luce e lo Spazio Mamme di San Luca. Siamo convinti che per combattere la povertà educativa e promuovere I diritti di tutti i bambini sia indispensabile unire gli sforzi e fare lavoro di squadra; questo protocollo ne è una testimonianza”. Cagliari. Carcere di Uta, progetto per le detenute su tecniche di meditazione e arteterapia castedduonline.it , 28 gennaio 2020 Imparare a gestire il proprio disagio, avere riguardo delle esigenze personali e di ciascuna, saper rappresentare i bisogni controllando le emozioni, promuovere una conoscenza di sé che favorisca la comprensione empatica e contenga l’aggressività. Sono alcune delle finalità di “Laboratori di Rinascita”, il nuovo progetto destinato alle detenute, promosso dall’associazione “Socialismo Diritti Riforme” in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale di Cagliari-Uta e dell’Area Educativa. Ideata e strutturata in 6 appuntamenti a cadenza mensile da Maria Cristina Deidda, oncologa palliativista e Cristina Muntoni, docente di Storia della sacralità femminile alla Scuola di Arteterapia assieme a 5 donne tra mediche, operatrici olistiche e infermiere, l’iniziativa, che sarà inaugurata (dopo domani) mercoledì 29 gennaio, intende coinvolgere nelle attività le funzionarie giuridico-pedagogiche e le Agenti della Polizia Penitenziaria. Il programma si avvarrà di tecniche di arteterapia, musicoterappia, passi di afrodanza, meditazione con tecnica Osho, tecniche di scrittura rituale e percorsi di rilassamento anche con l’ausilio di cimbali e oli essenziali. “Si tratta di un programma - ha spiegato Maria Cristina Deidda - teso a costruire la capacità di vivere il disagio evitando di trasferirlo sulle altre persone. L’esperienza del dolore e della frustrazione ha dei risvolti spesso autolesionistici ma non è raro che la persona si trasformi da vittima in carnefice trasformando l’ansia in rabbia e aggressione verbale e/o fisica. Esistono tecniche che aiutano a esercitare un controllo sulle emozioni e a realizzare una condizione di serenità che favorisce rapporti meno conflittuali e rivendicativi. L’esperienza della nostra équipe, che lavora nel Day Service di Cure palliative e terapia del dolore nell’Ospedale San Giovanni di Dio, può essere utile in un contesto così difficile come quello del carcere”. “Abbiamo accolto con entusiasmo la proposta - ha sottolineato Marco Porcu, direttore della Casa Circondariale di Cagliari-Uta - consapevoli delle problematiche che le donne detenute vivono. Si tratta di un progetto innovativo e ambizioso che inciderà sicuramente in modo positivo in un ambiente dove i conflitti e il disagio psicologico e sociale sono molto marcati”. “La realtà femminile nelle carceri - osserva Maria Grazia Caligaris, presidente di Sdr - è particolarmente problematica per diversi fattori. Nelle donne private della libertà è molto presente il senso di colpa e la preoccupazione per i figli e/o il marito. Anche la scarsa possibilità di avvalersi di corsi di formazione professionale e/o del lavoro esterno aggrava il senso di frustrazione e la tendenza a non accettare lo stato detentivo con atteggiamenti antisociali. Imparare a gestire il disagio è sicuramente uno strumento utile per le detenute, ma anche per chi come le funzionarie giuridico-pedagogiche e le Agenti condividono con loro spazi e tempi”. Vigevano (Pv). I pasticceri disabili di Dolce Positivo insegneranno in carcere di Andrea Pugno vigevano24.it , 28 gennaio 2020 Dolce Positivo e Casa di Reclusione di Vigevano insieme al Rotary Club 2050 partono con un doppio progetto sociale. Presentato quest’oggi il progetto che unisce la pasticceria sociale Dolce Positivo di via Vittorio Emanuele e la Casa di Reclusione di Vigevano. L’iniziativa promossa dal Rotary Club 2050 del governatore Maurizio Mantovani racchiude due significati e obbiettivi in un unico prestigioso programma. È infatti prevista l’inclusione lavorativa di 6 ragazzi con disabilità all’interno della Casa di Reclusione. Saranno proprio i giovani pasticceri ad insegnare i primi rudimenti e le basi di pasticceria a detenuti normodotati. I corsi tenuti all’interno del carcere con il supporto di un pasticcere professionista hanno il duplice lodevole intento di offrire ai ragazzi con disabilità un’opportunità lavorativa diversa e speciale, arricchendone esperienza e interazione, e dall’altro di aiutare i detenuti ad acquisire una competenza professionale che possa aprire in futuro opportunità lavorative scoprendo potenzialità e possibilità per un reinserimento sociale e lavorativo. Da qualche mese poi una detenuta è stata inserita nell’organico della gelateria sociale vigevanese come tirocinante, dando fin qui un importante contributo e ottenendo ottimi risultati. I programmi patrocinati dal Comune di Vigevano e sostenuti dal Rotary Club 2050 hanno ricevuto il supporto anche della cooperativa sociale Geletica onlus, di Banca Intesa e della Fondazione Caritas di Vigevano. Milano. A San Vittore riapre la “Stanza Cannavò”, servizio d’ascolto per detenuti e polizia Corriere della Sera , 28 gennaio 2020 Era la stanza dove Candido Cannavò scrisse “Libertà dietro le sbarre”. Poi, con la scomparsa dello storico direttore della Gazzetta dello Sport il 22 febbraio 2009, fu chiusa. Il 31 gennaio questo particolare “ufficio” sarà riaperto. L’evento non ha solo un significato simbolico e affettivo, ma anche un’utilità pratica di solidarietà. Qui, grazie a Fondazione Cannavò per lo Sport. opereranno due avvocati, Emanuela Romano e Ilaria Commis, per offrire una consulenza pro bono a detenuti e polizia penitenziaria per questioni riguardanti la giustizia civile. “È un nuovo tassello dell’impegno di Fondazione Cannavò all’interno di San Vittore”, spiega Sabrina Commis, responsabile del progetto carceri della Fondazione, che poi prosegue: “La riapertura della stanza in cui il direttore Cannavò aveva stabilito il suo “angolo d’ascolto, rimasta com’era e mai dismessa, è un atto dovuto: si è pensato fosse giusto aprirla di nuovo per continuare in minima parte l’opera di Cannavò. La benevolenza di due professionisti, che a titolo gratuito mettono a disposizione le loro competenze legali, ha permesso di realizzare il progetto”. Stanza Cannavò è una delle dieci iniziative portate avanti nel 2019 dalla Fondazione. “Più che di un’intitolazione alla memoria si tratta di un presidio”, osserva Franco Aituri, direttore generale della Fondazione Cannavò: “È come se Candido - prosegue - fosse sempre h nella “sua” stanza a testimoniare, raccontare, soccorrere. Nel suo nome le notizie molto spesso diventano buone”. L’inizio dell’attività è imminente: la stanza che verrà riaperta fra tre giorni con una cerimonia ufficiale e sarà subito operativa. L’avvocato Romano sarà presente tutti i venerdì, mentre l’avvocato Commis una volta al mese. “L’iniziativa - commenta il direttore di San Vittore Giacinto Siciliano - è in linea con Io spirito di Cannavò, che intuì il bisogno di attenzione alla persona all’interno delle carceri e l’importanza di azioni che possano aiutare durante il periodo di detenzione”. Varese. Educare alla legalità, all’Insubria corso con l’Osservatorio di Nando Dalla Chiesa luinonotizie.it , 28 gennaio 2020 I cinque incontri rivolti alle scuole superiori si terranno dal 29 gennaio al 6 marzo, sempre dalle 9 alle 12.45, nell’aula magna del Collegio Cattaneo di Varese. Educare gli studenti a contrastare e prevenire l’illegalità, la corruzione e la mentalità mafiosa: è l’obiettivo del nuovo corso formativo in cittadinanza e Costituzione promosso dall’Università dell’Insubria e rivolto alle scuole superiori. Organizza il Centro internazionale insubrico diretto da Fabio Minazzi nell’ambito del progetto Giovani pensatori, in collaborazione con l’Osservatorio sulla criminalità organizzata (Cross) dell’Università degli studi di Milano guidato da Nando dalla Chiesa. Sono cinque incontri raccolti sotto il titolo “La legalità tra storia, pensiero e dimensione giuridica” e in programma dal 29 gennaio al 6 marzo nell’aula magna del Collegio Cattaneo, in via Dunant 7 a Varese, sempre dalle 9 alle 12.45 con la possibilità di assistere per il pubblico interessato. Spiega Stefania Barile del Centro insubrico: “Affrontata attraverso esperienze di ricerca e di cittadinanza attiva, locali e globali, l’educazione alla legalità assume un volto e un ruolo e diviene azione concreta, vera, fattiva, sempre orientata alla cura del bene comune e del nostro patrimonio culturale”. Il tema di mercoledì 29 gennaio è “Legalità e territorio: esperienze di ricerca e di cittadinanza attiva”: Federica Cabras e Arianna Zottarel dell’Università degli studi di Milano parlano di mafie e di esperienze educative nelle carceri minorili. Il 12 febbraio “Pratiche di legalità: educazione di genere ed esperienze di partecipazione” con Ombretta Ingrascì e Ilaria Meli, entrambe di Cross. Il 26 febbraio “Educazione alla legalità e forme di resistenza civile: esperienze locali e globali” con Thomas Aureliani dell’Università di Milano e Giuseppe Muti, che insegna Geografie, territori e spazi umani nel corso di Storia e storie del mondo contemporaneo dell’Insubria. L’11 marzo “Arte e Legalità: per un’educazione civica al patrimonio culturale” con l’esperta Tiziana Zanetti e Leonardo Salvemini dell’Università di Milano. In chiusura il 26 marzo “Violenza sulle donne e reati sui minori” con Maria Grazia Bernini, presidente della Prima Corte d’Appello del Tribunale di Milano, e Barbara Bellerio, magistrato di Corte d’Appello. Musica Contro le Sbarre: Jail Time Records, un esempio virtuoso di “certezza del recupero”. di Michele Faggi indie-eye.it , 28 gennaio 2020 Guarda “Lettere dal Fronte” #1 image “Musica contro le sbarre: Jail Time Records” è il primo numero di “Lettere Dal Fronte. Storie di Cittadinanza Attiva”, format audiovisivo scritto e realizzato da Michele Faggi, strumento “vivo” di conoscenza politica, tra Musica, Cinema e arti visuali. Ospite del primo episodio, Dione Roach, artista visuale, pittrice e videomaker che ci racconta l’esperienza di Jail Time Records, primo studio di registrazione permanente nato all’interno di un carcere africano e adesso label di musica Rap e Hip Hop che impiega carcerati ed ex carcerati in un impegno costante. Esempio virtuoso e alternativo di “certezza del recupero”, Jail Time Records ha bisogno anche del tuo aiuto. Guarda il video e sostieni il progetto insieme a “Lettere dal Fronte”: https://www.youtube.com/watch?v=cMyyq8Uyy6A&feature=emb_logo Migranti. Cpr Gradisca: “Vakhtang non è stato ucciso dal pestaggio”, ma il caso non è chiuso di Fabio Tonacci La Repubblica , 28 gennaio 2020 L’autopsia esclude che la morte sia stata provocata da percosse. I pm scavano sulle ultime ore della vittima nel centro rimpatri. Il caso non può dirsi chiuso. Seppure i primi riscontri dell’autopsia sul cadavere di Vakhtang Enukidze paiono allontanare l’ipotesi che la morte sia dovuta ai postumi di un pestaggio, i buchi neri di questa storia rimangono. Tutti. A partire da cosa abbia causato l’edema polmonare (individuato dai medici legali come la causa del decesso), da quali farmaci abbia assunto il 38 enne georgiano detenuto nel Centro di permanenza rimpatri di Gradisca d’Isonzo, da quante ore si siano perse inutilmente prima di chiamare il 118. Ed è prematuro anche accantonare le presunte percosse da parte degli agenti di polizia intervenuti a sedare una rissa tra Enukidze e un detenuto egiziano, visto che il procuratore capo di Gorizia Massimo Lia, dopo le indiscrezioni sull’autopsia, ha dichiarato: “Non me la sento di escludere al cento per cento cause di tipo violento, occorre prudenza e bisogna attendere la relazione finale del medico legale per avere un’indicazione precisa e univoca”. Non foss’altro perché il corpo senza vita di Enukidze porta i segni di una permanenza turbolenta all’interno del Cpr, che registra un suo tentativo di evasione (il 12 gennaio), il danneggiamento di strutture interne (il 13 gennaio), il litigio con l’egiziano sfociato nell’arresto per resistenza a pubblico ufficiale (il 14 gennaio). Il georgiano non ha fratture, ma ematomi sparsi sulle braccia e sulle gambe, tagli autoinflitti, un occhio nero, escoriazioni, la pelle delle nocche di entrambe le mani annerita dai lividi. “Lesioni molto superficiali”, le descrive Luciano Cociani, il perito nominato dal Garante dei detenuti che ha affiancato nell’autopsia il professor Carlo Moreschi, scelto dalla procura. “Non si possono considerare causa o concausa della morte avvenuta il 18 gennaio”. Sulla schiena di Enukidze non ci sono ematomi evidenti, nonostante alcuni testimoni oculari abbiano dichiarato al deputato di + Europa Riccardo Magi che il 38enne è stato immobilizzato dagli agenti “con una ginocchiata alla schiena e con un colpo di avambraccio alla nuca”. Solo dal risultato delle analisi tossicologiche e istologiche si potrà stabilire, nelle prossime settimane, quale sia il motivo che ha provocato l’edema. Qualche ipotesi, però, si avanza già, e conduce a quella “documentazione sanitaria frammentaria e incompleta” trovata all’interno del Cpr. La procura, che ha aperto un fascicolo contro ignoti per il reato di omicidio volontario, sta raccogliendo materiale utile a ricostruire l’ultima settimana di vita di Vakhtang Enukidze: le proteste violente cui ha partecipato, la rissa con l’altro detenuto, le 48 ore passate nel carcere di Gorizia (anche qui, in teoria, può essere stato aggredito o malcurato) e, soprattutto, la notte tra il 17 e il 18 gennaio in cui si è sentito male. Perché un fatto è assodato: quando è stato riportato nel Centro, nel tardo pomeriggio del 16 gennaio, non si sentiva bene. Secondo i compagni di cella, a malapena si reggeva in piedi, a malapena riusciva a parlare; si è lamentato con gli operatori della coop Edeco cui è stata affidata la gestione del Cpr; al telefono con la sorella in Georgia ha raccontato di avere avuto una dose superiore al solito di psicofarmaci e antidolorifici. E un mix incontrollato di medicine, prescritte dal personale interno del Centro oppure rimediate di straforo, l’aggiunta di eventuali droghe (pare che ne avesse fatto uso in passato), lo stress di quei giorni, potrebbero aver scatenato la crisi polmonare. Ma perché i soccorsi sono stati chiamati solo la mattina? Nella stanza dove Enukidze è stato trovato privo di conoscenza c’è un campanello di emergenza, che serve per avvertire il presidio sanitario del Cpr, attivo 24 ore su 24 ma non sempre con un medico di guardia a disposizione. Dalle prime risultanze di indagine, il campanello risulta essere stato suonato. Alcuni migranti ospiti, che hanno visto il georgiano cadere dal letto, posizionano la sua crisi intorno alle 5 di mattina. L’ambulanza arriva qualche ora dopo, tempistica che ha spinto gli investigatori della Squadra mobile di Gorizia ad acquisire i filmati delle telecamere di sorveglianza, puntante sull’ingresso della cella del georgiano, per vedere chi è entrato e a che ora. Dunque, e ancora: il caso non è chiuso. Svizzera. Sono ormai centinaia gli internati, prigionieri (forse) a vita rsi.ch , 28 gennaio 2020 Gli effetti della società del “rischio zero” sulle persone sottoposte a una misura di internamento. In Svizzera, non tutti coloro che si trovano in carcere hanno una pena da scontare. Alcuni hanno già pagato il loro debito con la giustizia, ma sono considerati irrecuperabili e pericolosi. Ad altri la pena è stata sospesa, ma siccome affetti da gravi turbe psichiche, vengono tenuti in prigione. I carcerati sottoposti a questa misura di rivalutazione costante non sono però necessariamente assassini o stupratori. C’è anche chi è in carcere da 12 anni per aver rotto la vetrina di una farmacia. Sottoposte a misure stazionarie ci sono quasi mille persone. La maggior parte sono sotto l’Art. 59 del Codice penale. Negli ultimi 10 anni, questi casi sono quasi triplicati. Sono quasi raddoppiati invece i detenuti sottoposti a internamento secondo l’Art. 64, perché considerati “meno recuperabili” sempre per la loro pericolosità e per la gravità dei crimini commessi. Sono 148. Come si spiega questo aumento? Le misure vengono rinnovate regolarmente e queste persone vengono rilasciate sempre meno. Questo contesto ha conseguenze importanti sul sistema carcerario svizzero. John ha quasi 60 anni ed è in carcere per abusi sessuali. È stato condannato a una pena detentiva di 3 anni e 4 mesi e invece sono 24 anni che aspetta la libertà e una seconda possibilità. John è stato internato dopo che una perizia psichiatrica lo ha dichiarato pericoloso e non curabile a causa della particolare struttura della sua personalità. In seguito, ci sono state altre sei perizie incoraggianti, ma durante i riesami, l’internamento è stato comunque sempre riconfermato. “Quando sarò troppo vecchio e malato, farò ciò che va fatto per uscirne, perché quando superi la soglia della disperazione, arrivi a soluzioni estreme”, ci ha detto John al telefono dal carcere bernese di Thorberg. A vivere nell’incertezza c’è anche Kevin, che ha 37 anni ed è in carcere da 11, malgrado la sua pena fosse di 4 anni e 8 mesi. Kevin è stato condannato per tentato omicidio, in Inghilterra. Dopo qualche tempo, per essere più vicino alla famiglia, ha chiesto di poter scontare la sua pena in Svizzera ed è stato mandato alla Stampa, dove ha imparato l’italiano e intrapreso un percorso universitario. Lo scorso anno, Kevin è passato dall’articolo 64 al 59.3. Questo significa che ha più possibilità di essere rilasciato, ma anche lui sostiene che le perizie psichiatriche, “quando sono negative vengono considerate, mentre quando sono positive vengono messe da parte”. Neanche lui sa quando uscirà. E nella stessa situazione di John e Kevin, oggi, ci sono oltre 700 persone. In poco più di dieci anni, i detenuti sottoposti all’articolo 64 sono raddoppiati e hanno raggiunto quota 148. Quelli sottoposti all’articolo 59 sono addirittura triplicati e oggi sono 583 su una popolazione carceraria totale di 7mila detenuti. Questo significa che, nelle prigioni svizzere, quasi un detenuto su 10 potrebbe restare rinchiuso a vita, senza tuttavia che un giudice abbia pronunciato un ergastolo. “Queste misure prevedono dei riesami a scadenze regolari, ma sono prolungabili ad vitam aeternam”, ci dice l’avvocato ginevrino Guglielmo Palumbo, che si batte contro le derive del sistema. “Basta guardare le cifre per convincersi che non funziona. Ogni anno, di questi detenuti ne vengono scarcerati solo 3 su 100. Se le misure funzionassero, ci sarebbero più liberazioni”. Ed è proprio il basso numero di liberazioni che spiega l’aumento. I detenuti sottoposti a misure si accumulano sollevando non solo questioni etiche, ma anche logistiche perché le strutture attrezzate per far fronte alle loro necessità terapeutiche sono poche e sempre piene. Il fine di queste misure è quello di proteggere la società e garantire cure psichiatriche intensive in ambito penitenziario per diminuire il rischio di recidiva. Il principio è buono, secondo Panteleimon Giannakopoulos, psichiatra e direttore medico di Curabilis, struttura carceraria per i detenuti psichiatrici che è stata aperta a Ginevra nel 2014, dopo la tragedia di Adeline, la socio-terapeuta uccisa da un detenuto durante un’uscita. “Quello che è più problematico”, secondo il Professor Giannakopoulos, “è che queste misure sono state progressivamente usate come regolatore sociale, con un aumento molto netto negli ultimi anni, e questo nel solco di un’evoluzione sociale segnata da un crescente bisogno di sicurezza”. Un bisogno di sicurezza che spinge a tenere queste persone in prigione per lunghi periodi. Vengono sì creati dei percorsi che dovrebbero portarli verso la liberazione, ma in taluni casi il percorso dura un decennio o più per cui, per i critici del sistema, si tratta di una perpetuità psichiatrica mascherata. In sostanza, i dati ci dicono che una volta che scatta è difficile che un giudice decida di metter fine ad una misura raccomandata da uno psichiatra perché deve assumersi il rischio di sbagliare, di rimettere in libertà un detenuto che potrebbe ricadere nel crimine e provocare altre vittime. Le questioni che pone questo sistema sono tante. Quanta responsabilità viene data agli psichiatri? Sono adeguatamente formati? Quanto pesa l’opinione pubblica che esige il rischio zero sulle scelte di psichiatri, commissioni e, infine, giudici? Che fare dei detenuti bollati come irrecuperabili? Libia. Al mercato di Tripoli dove i migranti diventano soldati di Francesco Battistini Corriere della Sera , 28 gennaio 2020 Alla rotonda Fashelom, a Tripoli, il “discount del soldato”: qui le milizie reclutano tra i giovani che attendono di partire. “Vuoi un lavoro da muratore? Vai in prima in linea”. I ghanesi, no. “Non sanno neanche come si tiene in mano un mitra”. I ciadiani, sì. “Quelli si sentono libici e hanno voglia di combattere”. Anche gli eritrei vanno bene. “Sono soldati nati”. Il meglio però restano i sudanesi: “Molti sono arrivati qui come mercenari e per loro è facile prendere un compaesano e reclutarlo nelle milizie…”. La rotonda Fashelom, alla periferia di Tripoli, è il discount del soldato. L’outlet del mercenario low cost. Il self service del migrante da arruolare. Alle sei del mattino la scena è identica a questa rotonda e in tutte le città della Libia, in Tripolitania e in Cirenaica, al mercato dell’ovest di Sarraj e alla fiera dell’est di Haftar. Si cerca carne da cannone. E l’ufficio di collocamento per la guerra è ovunque, fra i palazzi in costruzione o nel retro dei bar. In Libia, al contrario di quel che si crede, non è più d’un migrante su dieci a stare nei centri di detenzione: gli altri sono per le strade, liberi di sognare l’Italia e poco altro, spesso in condizioni non meno terribili. La merce umana così s’espone di buon’ora sui marciapiedi sbrecciati - decine d’africani ad aspettare in ciabatte, i piedi impolverati come le vite, neri di pelle e di futuro - e chi passa col pick-up si ferma qualche minuto, scruta i lavoranti in offerta speciale, ordina ciò che serve: uno che oggi gli porti la carriola per cinque euro a giornata, uno che sappia dare la biacca a un palazzo, uno che scarichi i camion. O uno che se ne vada in guerra: a sparare nelle milizie, se è buono; a spalare nelle retrovie, se non sa far altro. C’è chi dice sì perché in fondo pagano, 300 euro al mese più vitto e alloggio. C’è chi dice no, perché non vuol pagare con la vita. C’è chi non dice niente perché il dio dei libici non paga il sabato e nemmeno gli altri giorni, e quindi si va e basta: “Fino a due giorni fa c’era qui un ragazzo ciadiano che si chiama Abu Bakar - raccontano - un tebu delle tribù del sud. Fa il muratore. Se però vuoi il lavoro, gli hanno ordinato, prima devi andare nella zona di Salah-al-Din”. Ma là non ci sono cantieri, c’è il fronte… “Lui sa cavarsela”. È il caporalato dei soldati. Le compravendite sono un segreto ben protetto: dopo lo scandalo del mercato degli schiavi, filmato due anni fa dalla Cnn, guai a chi ne fa parola. E appena chiediamo al comandante Nasser Aamar, 50 anni, a capo di una qatiba di 300 uomini che difende Tripoli, la risposta è un’altra domanda: “Perché usiamo i migranti? E allora perché non chiedete a Haftar come mai usa i mercenari del Niger, i ribelli del Mali, gli ufficiali egiziani, giordani, emiratini?...”. L’arruolamento funziona così: “Loro non ti dicono d’entrare nelle milizie - racconta M. A. O., 44 anni, un nigeriano che in patria faceva il calciatore -. Si presentano nel cantiere dal padrone libico e comunicano di volere quindici persone da mandare al fronte per un mese. Il libico si fa dare i soldi: se i migranti vogliono tenersi il lavoro, devono obbedire e andare con le milizie. Chi non ci sta, è sostituito da qualcun altro preso alla rotonda di Fashelom”. Tre anni fa, M. A. O. è stato rapito e in fondo gli è andata bene: l’hanno picchiato, gli hanno chiesto i soldi per il rilascio, ma almeno ha evitato la guerra. “La maggior parte - spiega - finisce alla logistica delle truppe, a lavare gavette. I ciadiani o gli eritrei, più pratici di armi, vanno in prima linea”. Non tutti sono sicuri che si tratti d’un vero arruolamento forzato: “I tebu e i mahamid, è noto che si sentano tribù libiche e quindi combattano volentieri - dice Donatella Rovera, di Amnesty International -. Gli altri, è possibile che le milizie li sfruttino per lavorare. Ma questo non può essere tecnicamente definito un arruolamento. Nessuno ha mai trovato la prova che i migranti siano mandati a sparare”. Diverso il parere dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, che per bocca di Vincent Cochetel ha denunciato tempo fa come nel centro di detenzione di Qaser Ben Gashir siano date agli immigrati le divise e un’alternativa: la libertà in cambio del reclutamento. Anche alla Caritas, se cerchiamo conferme, la risposta è tortuosa: “Non sappiamo di migranti assoldati dalle milizie”, (prima versione, ufficiale); “in effetti sappiamo qualcosa, ma non possiamo parlarne perché poi ci fanno grane” (seconda versione, ufficiosa). Il venerdì sulla tangenziale, in mezzo al traffico, la carne da betoniera e da cannone si raduna intorno al campo 11 Giugno, uno sterrato che chiamano pomposamente stadio di calcio. Si gioca a pallone, per 50 centesimi si trova un pezzo di carne alla brace, per un euro la foto tessera da tenere in tasca. Ogni tanto passa un pick-up: “Nessuno m’ha mai chiesto d’arruolarmi - dice Ashraf Oukadou, 22 anni, sudanese - ma perché no? Quelli sono soldi sicuri”. L’ultima volta, Ashraf ha fatto il meccanico per tre giorni e per dodici ore al giorno: “Alla fine, il padrone libico mi ha riempito di botte. E non mi ha dato un dinaro. Meglio le milizie”. Tunisia. Addio a Lina Ben Mhenni, la blogger simbolo della rivoluzione tunisina di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera , 28 gennaio 2020 A soli 36 anni è morta Lina Ben Mhenni, una delle voci più conosciute della “Primavera araba”, nota a tutto il mondo per il suo blog A Tunisian Girl. La sua lotta in nome della libertà di espressione e per il rispetto dei diritti umani le era valsa la candidatura al Nobel per la pace nel 2011. L’attivista soffriva da tempo di una malattia autoimmune che l’aveva costretta ad un trapianto di rene. Quando nel 2010 il tunisino Mohamed Bouazizi si diede fuoco a Sidi Bouzid per protestare contro le condizioni economiche della Tunisia, un gesto che accese la rivolta nel Paese, Lina fu la prima a recarsi sul posto e a raccontare la “rivoluzione” sul suo blog. Nel 2011 ha pubblicato Tunisian Girl, blogueuse pour un printemps arabe, in cui racconta la sua storia di blogger indipendente e di manifestante, prima e dopo la rivoluzione. In questi anni ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra i quali il Premio Roma per la Pace e l’Azione Umanitaria, quello di migliore reporter internazionale del quotidiano El Pais nel 2011, il Premio Sean MacBride per la Pace, il Premio Minerva per l’azione politica, il Premio Ischia Internazionale di Giornalismo nel 2014. Nonostante la malattia, l’attivista era impegnata per i diritti dei detenuti e aveva avviato una raccolta di libri per le carceri. Inoltre, si era unita al movimento EnaZeda versione tunisina del MeToo che negli ultimi mesi ha denunciato molestie sessuali e discriminazioni contro le donne. “Da ieri sono su una nuvola, una nuvola di buon umore” scriveva in uno dei suoi ultimi post sul blog raccontando di una sorpresa organizzata per lei dai suoi amici nella sede dell’Associazione tunisina delle donne democratiche. “Un pensiero alla nostra rivoluzione che si batte ancora, malgrado i tradimenti. Come lei, mi batterò per uscire da questa situazione difficile, grazie al vostro amore” sono le parole lasciate il 19 gennaio La vita di Lina non era facile. A causa della sua battaglia in difesa dei più deboli, viveva sotto scorta da quando, negli anni della caduta del presidente tunisino Ben Ali, aveva ricevuto minacce di morte. A scuoterla era soprattutto il fatto che in Tunisia poco fosse cambiato con la rivoluzione: “Dopo sei anni dalla cacciata del dittatore Ben Ali, nulla è realmente mutato per i giovani tunisini che sono scesi in piazza e hanno affrontato di petto i prepotenti e i gas lacrimogeni, con il sogno di vedere le loro vite cambiare in meglio. Nessun governo ha mostrato una reale volontà di dialogare con i giovani e di affrontare i loro problemi, che potrebbero essere sintetizzati nel principale slogan intonato durante la rivoluzione: occupazione, libertà, dignità e giustizia sociale” diceva in un’intervista rilasciata nel 2017.