Luigi Pagano: “La mia vita in carcere tra ladri e brigatisti” di Giovanni Terzi Libero, 27 gennaio 2020 Intervista allo storico direttore penitenziario, oggi consulente: “Le monetine a Craxi, la pagina più buia della storia recente”. Quarant’anni passati accanto a chi ha compiuto atti contro la nostra società, una vita passata a cercare di ottemperare quel famoso articolo 27 della Costituzione che sancisce come ogni detenuto deve essere recuperato alla società vivendo in condizioni umane; ma anche una vita vissuta all’interno della nostra società che spesso dimentica il principio costituzionale. Questo è Luigi Pagano, oggi in pensione, ma collaboratore del difensore civico della Regione Lombardia che traccia un resoconto della propria vita professionale tra Turatello e Mano Pulite. Incontro Luigi Pagano nella sua stanza del decimo piano del Pirellone dove da qualche mese è consulente del Difensore Civico della Lombardia Carlo Lio. Quarant’anni passati a gestire carceri, da Pianosa ai quindici anni di San Vittore passando per Nuoro, Asinara, Piacenza, Brescia e Taranto. Quarant’anni in cui ha anche avuto ruoli da dirigente al Dap (dipartimento per l’amministrazione penitenziaria) e dove da sempre si è battuto per cercare di rendere umane le “dimore” di chi ha un conto da pagare con la società. Cosa è un carcere? “Le rispondo citando l’articolo 27 della Costituzione: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il carcere è una pena, non la sola e nemmeno la migliore, ma come tale dovrebbe anche esso permettere di applicare questo principio costituzionale”. E invece? “Invece quasi sempre trova difficoltà nel farlo in quanto l’ordinamento penitenziario risulta essere fuori sincronia sia con le leggi e sia con l’emotività data dall’informazione del momento”. Mi spieghi meglio questo concetto... “Fermo restando che io credo che la pena-carcere sia inattuale e poco adatta a svolgere il ruolo che le assegna la Costituzione, nella pratica parla di non rendere possibile “trattamenti contrari al senso di umanità” e già questo è fisicamente impossibile in quanto le ultime recensioni della popolazione carceraria parlano di sessantamila detenuti contro i quarantacinque/cinquantamila posti disponibili. Credo che il nostro Paese sia quello più sanzionato dalla giustizia europea per come vengono gestiti i detenuti”. Ma chi rappresenta la maggioranza della popolazione carceraria? “Circa il 10/15 per cento di chi è dietro le sbarre sono persone in custodia cautelare”. Senza chi è in “transito” in attesa di processo le carceri sarebbero più libere? “Non lo dico io ma i numeri. Forse esiste un utilizzo eccessivo della custodia cautelare. Mi ricordo che in periodo di Tangentopoli qualcuno attribuì a un magistrato la frase “noi non mettiamo in carcere per farli parlare, ma li liberiamo se parlano”; non credo l’avesse mai detto e di sicuro non nel senso attribuito, ma era segno dei tempi, la gente voleva i politici in carcere. Invece dovrebbe riflettersi sul fatto che un presunto non colpevole attenda il processo in carcere”. Lei ha accennato che Tangentopoli esplose quando era già da qualche anno direttore del carcere di San Vittore. Che giudizio dà di quel periodo storico? “Ho un ricordo molto chiaro di quel momento così intenso e drammatico e spiegare questo mi è utile per far capire quando parlo di come l’ordinamento penitenziario spesso viva di riflesso alla emotività data dalla informazione”. Mi dica bene... “Parto dal momento delle monetine a Beffino Craxi che credo sia una delle brutte pagine del nostro Paese. L’Italia non meritava un popolo così che evocava la forca e una giustizia frettolosa e violenta. Tangentopoli fu importante per il nostro Paese e chiunque deve avere rispetto per il lavoro della magistratura, però - mi creda - che fu un momento difficilissimo per chi aveva, come me, una responsabilità in quello che era il luogo simbolo di dove venivano portati la maggior parte dei colletti bianchi”. Lei parla della pressione mediatica in quegli anni? “Quando venne arrestato Mario Chiesa e poi tanti altri politici, avevamo il mondo della informazione che voleva notizie. Giornalisti che bivaccavano fuori dal carcere, cortei che inneggiavano a piazzale Loreto ed altre scene che, secondo me, non hanno fatto bene né alla magistratura né all’istituzione a cui io sono legato. Sembrava che in carcere ci fossero solo coloro che avevano avuto a che fare con l’amministrazione pubblica ed invece a San Vittore c’erano tante altre persone; c’erano più di duemila e duecento detenuti contro gli ottocento di capienza”. Cosa c’entra questo con l’informazione? “Se in quel periodo si gridava alla forca diventava impossibile fare capire quali condizioni vivessero gli istituti penitenziari perché la risposta alla inumanità del popolo era “meglio così che stia un po’ male anche lui visto ciò che ha fatto”, ma questo è contro i dettami della Costituzione”. Lei ritiene che il clima sia decisivo per ciò che deve fare chi opera in carcere? “I tempi, i luoghi, le opinioni influenzano anche le interpretazioni e non può essere diversamente, ma la giustizia penale dovrebbe essere messa nelle condizioni di decidere al di fuori della emotività”. Del suicidio di Gabriele Cagliari cosa ricorda? “Era il 20 luglio del 1993 e nulla faceva presagire un gesto così drammatico; avevo incontrato Cagliari qualche giorno prima e sembrava ai miei occhi (come a quelli di chi stava lui accanto) tranquillo, non avevo colto alcun segno. Quando mi avvisarono che si era suicidato venni preso da un senso terribile di impotenza; dire che mi sentii avvilito è poco ed anche parlare di sconfitta non rende l’idea. Quel 20 luglio fu una giornata drammatica perché poco dopo suicidò un ragazzo che era in infermeria. Due suicidi nel giro di poche ore, mi sentivo distrutto ed il carcere di San Vittore stava per esplodere dalla tensione”. Un altro detenuto di Tangentopoli Sergio Cusani... “Un uomo molto intelligente con cui tutto sommato ci fu stima e bel un rapporto al di là degli scontri, dialettici, che avevamo su come superare le problematiche carcerarie. Veri amici ex detenuti ne ho avuti solo due”. Con chi per esempio ebbe un rapporto particolare? “Con un brigatista che si pentì profondamente e che ancora oggi collabora e lavora per aiutare il prossimo e poi con Bruno Bancher”. Uno degli uomini della “mala” milanese? “Proprio lui, il “Lingera” come si definiva per dire il “delinquente” che diventò poeta e che sarebbe diventato un fantastico nonno”. Lei c’era quando nel carcere di Nuoro fu ucciso Francis Turatello? “Fu un delitto che non mi aspettavo e che credo non fosse nemmeno prevedibile dal punto di vista della sicurezza”. Esiste un momento che ritiene storico della sua vita? “L’ho ereditato. Il ricordo di quando venne Cardinal Martini a San Vittore e il cappellano del Carcere don Luigi aprì le porte della massima sicurezza dove c’erano anche i brigatisti; l’autorevolezza del cardinal Martini e la potenza umana di Don Luigi fecero un miracolo”. Quale? “Il cardinale Martini rimase quattro giorni a San Vittore entrando in ogni cella e parlando con tutti; don Luigi chiese che pregasse con i detenuti e con i brigatisti che un giorno, attraverso uno di loro, consegnarono in Arcivescovado le armi”. Chi portò le anni in arcivescovado? “Ernesto Balducchi, un ex brigatista che accompagnato da don Luigi portò, in segno di resa quattro borse, contenenti due fucili kalashnikov con caricatore, un fucile beretta, un moschetto automatico, tre pistole, un razzo per bazooka, quattro bombe a mano, due caricatori e 140 proiettili”. Fu il segno del valore della mediazione che la Chiesa cercò di attuare con i terroristi? “Mi piace pensare che oltre allo Stato anche il carcere, grazie a don Luigi Melesi e alla Chiesa, hanno svolto il loro ruolo di pacificazione sociale. Il carcere deve essere in grado di ricostruire le persone che si sono perse”. Cosa si deve fare per rendere possibile questo? “Le rispondo con una frase di Don Luigi: “farsi carico della vita dell’altro per capirlo e riconquistare la libertà”. I detenuti possono lavorare a domicilio di Antonio Carlo Scacco Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2020 L’Ispettorato Nazionale del Lavoro ritiene pienamente ammissibile, entro certi limiti, il lavoro carcerario a domicilio: è il contenuto della nota n. 596 del 23 gennaio resa a fronte di uno specifico quesito avanzato dalla direzione territoriale di Padova. Fin dalla riforma dell’ordinamento penitenziario attuata con legge 354/1975, il lavoro carcerario ha perso il carattere originario meramente sanzionatorio (pur rimanendo obbligatorio) per divenire elemento fondamentale della rieducazione e reinserimento sociale del detenuto secondo i principi contenuti nell’articolo 27 della Costituzione, in base al quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Il decreto legislativo 124/2018, nel riformare le norme sull’ordinamento penitenziario contenute nella legge del 1975, ha ulteriormente valorizzato tale prospettiva stabilendo, ad esempio, che nelle strutture detentive debbano essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti al lavoro e a corsi di formazione professionale ed il lavoro debba essere regolarmente remunerato (un tempo si chiamava “mercede”), sia pure in misura corrispondente a 2/3 di quella prevista normalmente dai contratti collettivi. Nella nota in commento, l’Inl sottolinea come il lavoro dei detenuti possa essere già svolto, sulla base di apposite convenzioni, anche presso imprese pubbliche e private, particolarmente imprese cooperative sociali, in locali concessi in comodato dalle Direzioni (articolo 47 del D.P.R. 230/2000, recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà) che diventano pertanto dei locali dell’azienda (fatta ovviamente salva la possibilità del libero accesso da parte della Direzione per motivi inerenti la sicurezza). Allo stesso modo non vi sono preclusioni circa la ammissibilità del lavoro a domicilio considerato anche che tale peculiare tipologia di lavoro risulta espressamente richiamata dal predetto Dpr 230/2000. Il lavoro carcerario a domicilio, in particolare, è una tipologia lavorativa introdotta come novità assoluta dalla L. 56/1987, sebbene l’art. 19, comma. 6 e 7 non forniscano alcuna definizione di tale tipo di lavoro inframurario, limitandosi a richiamare l’applicabilità delle norme sull’ordinamento penitenziario, in materia di lavoro artigianale, intellettuale e artistico. Secondo l’Ispettorato è tuttavia necessario che le prestazioni lavorative siano compatibili con le caratteristiche peculiari del lavoro a domicilio (si pensi alle concrete modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, la individuazione dei locali in cui svolgere il lavoro, l’uso degli strumenti necessari, il rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione, l’invio all’esterno dei beni prodotti in considerazione del luogo dove la prestazione si svolge e la privazione della libertà personale cui è soggetto il detenuto). Ulteriore aspetto sottolineato dalla nota è rappresentato dalla remunerazione corrisposta al detenuto che, come accennato, è stabilita, in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato, in misura pari ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi. In carcere sono pochi gli spazi per pregare di Marzia Paolucci Italia Oggi, 27 gennaio 2020 I dati del Dap. Nelle carceri svantaggiati i non cattolici. Quasi 8 mila i detenuti aderenti al culto islamico. Nelle carceri italiane, tra i 60.889 detenuti, secondo i dati diffusi dal Dap -Dipartimento amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, la comunità religiosa più numerosa è ancora quella cattolica con 36.608 aderenti seguita dall’islamica con 7.940 aderenti e dall’ortodossa con 2.467 fedeli. Gli altri culti si attestano tutti intorno alle centinaia e anche meno a cominciare dai 339 cristiani evangelici delle varie chiese, il rispettivo centinaio di hindu e buddisti per arrivare a 66 testimoni di Geova, 56 ebrei e 30 anglicani. Il principio della libertà religiosa, sancito all’art. 19 della nostra Costituzione, non dovrebbe valere meno nei nostri istituti di pena visto che all’articolo 26 dell’ordinamento penitenziario si prevede che detenuti e gli internati abbiano libertà di professare la propria fede religiosa approfondendola e praticandola. Eppure, dall’ultimo rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione risulta che nel 22% delle carceri visitate mancano spazi dedicati alla preghiera dei non cattolici. Per quanto concerne la religione cattolica, in ogni istituto è prevista la presenza di almeno un cappellano e la celebrazione dei riti di culto mentre gli appartenenti a religione diversa dalla cattolica hanno diritto di ricevere, su richiesta, l’assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti. Al 15 gennaio 2019, sono quasi 50 mila i detenuti che hanno dichiarato di professare una fede religiosa. In 11.631 casi, per la statistica del Dap, la religione d’appartenenza figura come “non rilevata” e ci sono 961 detenuti non appartenenti ad alcuna religione. L’assistenza è assicurata per tutti i culti: per i cattolici è presente un cappellano in ogni istituto penitenziario, per i culti diversi dalla religione cattolica, ad oggi i 1.505 i ministri di culto entrano in carcere attraverso due differenti modalità. Per le confessioni religiose che hanno stipulato un’intesa con lo Stato Italiano, i relativi ministri possono entrare “senza particolare autorizzazione”, secondo le rispettive leggi d’intesa e ai sensi dell’art. 58 del regolamento di esecuzione della legge 354/75. In questi casi, le suddette confessioni trasmettono ogni anno al Dap e ai provveditorati regionali gli elenchi dei ministri destinati a prestare assistenza spirituale negli istituti penitenziari. Allo stato attuale, le confessioni che hanno stipulato un’intesa con lo Stato italiano, sono la Tavola Valdese, le Assemblee di Dio in Italia, la Chiesa Evangelica Luterana, l’Unione delle Comunità Ebraiche, la Chiesa Cristiana Avventista, la Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia, la Chiesa Apostolica, la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, l’Unione Buddhista Italiana e l’Istituto Buddista Italiano “Soka Gakkai”. Invece, per i ministri di culto che appartengono a religioni che non hanno stipulato alcuna intesa con lo Stato, la domanda presentata dal singolo o dalla congregazione per accedere in uno o più istituti è trasmessa dalla Direzione generale detenuti e trattamento del Dap all’Ufficio culti del ministero dell’interno che svolge gli accertamenti di rito e rilascia un nulla osta. Per la religione islamica, mancando una struttura unitaria rappresentativa dell’islam, si segue la stessa procedura utilizzata per i ministri di culto che appartengono a confessioni religiose senza un’intesa con lo Stato italiano. Ad oggi sono 43 gli imam che hanno ottenuto il nulla osta del Viminale: alcuni accedono alle strutture penitenziarie periodicamente, altri solo in occasione del Ramadan. Nel 2015 è stato siglata un’intesa tra il Dap e l’Unione delle comunità ed organizzazioni Islamiche in Italia grazie alla quale 13 imam indicati dall’Ucoii hanno ottenuto il nulla osta e sono stati inseriti nell’elenco dei ministri di culto già autorizzati all’accesso negli istituti. Con riferimento ad altre fedi, ci sono 24 ministri di culto ortodossi autorizzati ad accedere negli istituti penitenziari a seguito di rilascio del nulla osta del ministero dell’interno. La legge 126/2012 ha inoltre regolarizzato i rapporti tra lo Stato Italiano e la Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia autorizzando 32 sacerdoti. Per i buddisti, nel 2015, con una prima intesa dell’Unione Buddista Italiana con lo Stato, sono entrati nelle carceri 17 monaci e una seconda del 2016 con l’Istituto Buddista Italiano “Soka Gakkai” di Firenze, ha permesso a 73 ministri di culto buddisti di accedere agli istituti penitenziari. L’altolà dell’Anm alle sanzioni per i magistrati di Pierpaolo Scavuzzo agi.it, 27 gennaio 2020 Per le toghe la proposta del Ministro pentastellato è “un rischio per la tutela dei diritti dei cittadini”. E dicono no anche ai tempi strozzati per i processi. Un “rischio per la tutela dei diritti dei cittadini”. Cosi’ l’Associazione nazionale magistrati (Anm) bolla la proposta del Guardasigilli Alfonso Bonafede di programmare i tempi - 4 o 5 anni al massimo - dei processi penali, con l’ipotesi di sanzioni disciplinari per le toghe in caso di sforamenti. I magistrati definiscono “irricevibile” e “brutale” questa previsione - contenuta nella bozza del ddl delega messa a punto dagli uffici di via Arenula e circolata nei giorni scorsi tra le forze politiche di maggioranza - e si dicono pronte a dare battaglia. Il ministro, allo stato, non ha replicato alle critiche, ma mercoledì prossimo incontrerà i vertici del sindacato delle toghe e quella sarà la sede per chiarimenti e approfondimenti sulla riforma: il tema sarà certo affrontato dai magistrati anche in occasione delle cerimonie per l’apertura dell’anno giudiziario che si svolgeranno venerdì in Cassazione e sabato prossimo in tutti i distretti di Corte d’appello italiani. Nel testo del ddl delega, “sembra esserci una sorta di messa in mora”, ha osservato il segretario dell’Anm Giuliano Caputo, il quale ha ricordato che la posizione dell’Anm sulla prescrizione - favorevole allo stop dalla sentenza di condanna in primo grado, come previsto con il ‘Iodo’proposto dal premier Giuseppe Conte - espressa fin dal novembre 2018, “non è corporativa” e, dunque, “no a contropartite con tempi strozzati e sanzioni: è inaccettabile ragionare in questi termini, davanti al ministro siamo pronti a una risposta incisiva”. L’Anm, infatti, con il presidente Luca Poniz, ribadisce il suo “essere fuori da qualunque logica di contrapposizione politica: le nostre posizioni non possono essere tirate per la giacchetta, a favore di una parte politica o di un’altra”. Secondo Poniz, inoltre, “non è ricevibile l’idea che se la prescrizione non ci sarà più, si può restare imputati per sempre, come se il giudice decida le sorti di un imputato solo in base al meccanismo burocratico del calcolo della prescrizione”. È un’idea che dobbiamo contrastare”. Stalking, meno denunce e più ammonimenti di Maria Rosa Tomasello La Stampa, 27 gennaio 2020 Sfiducia nella Giustizia: troppi non chiedono aiuto. Calano le querele (-13%) e aumentano gli avvertimenti dei questori (+32,5%). Senza supporto psicologico recidiva al 40%. Un caso su tre porta al femminicidio. Non erano le rose. Era il messaggio silenzioso che accompagnava le rose, benché non ci fosse alcun biglietto. Un mazzo che arrivava alla stessa studentessa nell’aula dell’università a ogni lezione, sotto lo sguardo sorpreso dei presenti. Un omaggio apparentemente innocuo, diventato ossessione. “È iniziata così: in principio la ragazza ha creduto che fosse il suo fidanzato a spedirle, ma quando l’invio si è ripetuto più e più volte, mentre lui continuava a negare, ha capito di essere finita nel mirino di qualcuno. Ha smesso di andare a lezione, e alla fine ha fatto denuncia contro ignoti e ha sparso la voce che la polizia era sulle tracce di chi mandava i fiori. Solo a quel punto le spedizioni sono cessate”. Cambiamento delle abitudini - Il racconto di Anna Campanile, operatrice del centro antiviolenza Voce Donna di Pordenone e consigliera di Dire (Donne in rete conto la violenza), definisce con precisione cos’è lo stalking: un atto persecutorio che genera nella vittima ansia e paura, costringendola a cambiare abitudini. Senza che ci sia aggressione fisica, eppure spesso altrettanto spaventoso per chi lo subisce. Soprattutto, in un caso su tre, secondo gli esperti, è l’anticamera del femminicidio. La recidiva è del 40%. “È una forma di violenza fatta di cose che sembrerebbero piccole, ma che crea in chi le subisce uno stato di tensione tale da orientare tutta la vita a difendersi. Abbiamo seguito il caso di una ragazza che aveva capovolto la sua stessa esistenza: lavorava di notte. La veglia le consentiva di essere vigile in caso di intrusioni in casa o di altro pericolo”. Le donne non sono le sole vittime di stalking, ma in tre casi su quattro le vittime sono di sesso femminile e nel 50-60% dei casi l’ex partner è indicato dalla vittima come presunto autore di stalking, maltrattamenti o violenza. L’Istat stima che il 21,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni (pari a 2.151.000 persone) abbia subito comportamenti persecutori almeno una volta nella vita. Di queste, il 15,3% più volte. Dal primo agosto 2018 al 31 luglio 2019 (ultimi dati resi disponibili dal Viminale), le denunce sono state 12.733, e nel 76% dei casi a denunciare (si tratta di un reato perseguibile solo a querela di parte) sono state donne. Nello stesso periodo 2017-2018, la banca dati delle forze dell’ordine aveva registrato numeri più alti: 14.633 denunce. In un anno c’è stata una flessione del 13%. Dal 2014 al 2018 secondo dati Istat le segnalazioni per atti persecutori tuttavia sono state in costante aumento, passando da 11.096 a 14.145. A cosa è dovuto il calo di denunce dell’ultimo periodo? Nello stesso arco temporale sono aumentati del 32,5% gli ammonimenti del questore (un “avvertimento” allo stalker perché smetta di molestare la vittima), che sono passati da 1.819 a 2.411, con un aumento del 76% degli ammonimenti per violenza domestica (da 666 a 1.171 sul totale di 2.411). Da quando, nel 2009, è entrata in vigore la legge che definisce il reato, sono in forte crescita anche le condanne per stalking: 37 sentenze nel 2009, 1.827 nel 2017 (dati Istat). Ad arrivare a sentenza, tuttavia, è una percentuale limitata di casi: nel 2016 a fronte di 16.910 indagati per stalking, 9.141 casi sono stati archiviati, con l’avvio dell’azione penale per 7.769 casi. Nello stesso anno le condanne con sentenza irrevocabile (per processi che avevano preso il via negli anni precedenti) sono state 1.343, attorno al 17%. “Normalmente lo stalking non è troppo difficile da dimostrare e le denunce sono più frequenti rispetto ai maltrattamenti in famiglia, che spesso non vengono segnalati-osserva Giulia Masi, avvocata ed esponente dell’associazione “GiuridicaMente Libera” di Roma. Per questo la riduzione delle denunce e il maggior ricorso all’ammonimento del questore denota sfiducia nella giustizia, con il ricorso a un metodo meno invasivo”. Al contrario, la maggiore attenzione alle violenze di genere e l’introduzione, un anno fa del “Codice rosso” che innova la disciplina penale e inasprisce le sanzioni per chi commette i reati, consente spesso di arrivare a una soluzione veloce. “Il nostro centro anti-violenza ha seguito una giovane donna che, dopo aver interrotto una relazione durata due anni, ha cominciato a essere perseguitata dall’ex fidanzato, che la seguiva al lavoro, parlava con i suoi amici, mandava anche dieci mail al giorno a lei e ai suoi familiari, minacciando di allegare filmati dei loro rapporti sessuali, la intimidiva sui social. Era così sotto pressione da manifestare idee di suicidio. Finché si è rivolta al centro, che ha iniziato a collaborare con la procura, informando tempestivamente di ogni cosa: grazie al Codice rosso, in tre mesi è stato inviato l’avviso di conclusione delle indagini e lo stalker ha smesso”. Non è sempre così. “Lo stalking è spesso l’anticamera del femminicidio- conferma-. Ecco perché non bisogna mai accettare quell’ultimo appuntamento chiarificatore, né mettersi in situazioni di rischio”. Certo, le denunce rappresentano solo una piccola parte del fenomeno. L’Istat ha certificato che il 78% delle vittime (8 su 10) non chiede aiuto: solo il 15% si rivolge alle forze dell’ordine, il 4,5% a un avvocato e 1’1,5% a un centro specializzato. E tra queste, solo il 48,3% presenta una denuncia formale. Tuttavia qualcosa sta cambiando. Sorta di attività di indagine “L’ammonimento è una misura di prevenzione che garantisce alle vittime una tutela rapida e anticipata rispetto ai tempi del procedimento penale - spiega Alessandra Simone, dirigente della Divisione Anticrimine della questura di Milano. Viene svolta una sorta di attività di indagine per capire se l’istanza è fondata, e spesso, se si tratta di atti non troppo invasivi e se non ci sono state aggressioni fisiche, la donna sceglie la misura di prevenzione. È sì un provvedimento amministrativo, ma viene inserito nel sistema di indagine interforze e determina un alert sul soggetto, che ha una spada di Damocle su di sé”. Del resto, è la legge stessa a prevedere che se gli atti persecutori sono commessi da una persona già ammonita, si può procedere anche d’ufficio. “L’esperienza milanese dimostra che funziona - prosegue Simone - soprattutto perché noi abbiamo associato all’ammonimento del questore l’invito a seguire un percorso di recupero comportamentale nell’ambito del protocollo Zeus, una intesa in materia di atti persecutori sottoscritta con il Centro italiano per la promozione e la mediazione (Cipm)”. Avviato nell’aprile 2018 con il nome del “primo maltrattante noto della storia”, Zeus sta dando risultati significativi: dal 5 aprile 2018 a novembre 2019 sono stati invitate a rivolgersi al centro 213 persone, 170 delle quali si sono presentate, ovvero il 79%. Di questi, 93 erano state ammonite per stalking e 76 per violenza domestica. “Dei 170 - sottolinea Simone - solo 17 son tornati a commettere reati e sono stati arrestati in flagranza di reato”. Nei soggetti ammoniti, secondo dati parziali del Viminale sul 2019, la recidiva è pari al 13%. L’esperienza, nata a Milano, è stata estesa in tutta Italia e oggi iniziative analoghe sono in corso tra l’altro a Modena, a Viterbo, Pescara e L’Aquila. Nelle questure di Lazio e Abruzzo è impegnata l’Associazione italiana di Psicologia e Criminologia (Aipc) coordinata da Massimo Lattanzi, psicologo e psicoterapeuta, a cui fanno capo anche l’Osservatorio nazionale sullo stalking e il Centro presunti autori. “Il protocollo Offender viene applicato a presunti autori di violenza domestica, abusi, atti persecutori perché la nostra idea è di lavorare alla pari sia con la presunta vittima che con il presunto autore - afferma. Nel 2007 abbiamo spostato il baricentro su quest’ultimo, formando il personale delle questure e offrendo un percorso di socializzazione alle persone che hanno subito un ammonimento in modo da chiudere il cerchio della violenza, altrimenti in queste persone sopravviverà sempre una zona d’ombra che, solo con l’azione giudiziaria, non si riuscirà a spazzare via. Nel 2012 abbiamo cominciato a lavorare anche nelle carceri, prima a Rebibbia e oggi, dal novembre 2018, a Velletri, dove esiste una sezione speciale per uomini maltrattanti. Facciamo colloqui di gruppo con le persone che hanno deciso di aderire”. Certo, la strada del recupero è lunga: “Il nostro protocollo - conclude Lattanzi - ha fatto emergere che la maggior parte di queste persone ha traumi non elaborati, anche molto precoci, abbandoni, separazioni, lutti, che hanno segnato il loro profilo relazionale. Si trovano in grande difficoltà nelle relazioni, benché siano persone che in altri ambiti sono funzionali. E questo vale per tutte le relazioni: dal partner al vicino di casa”. Mini-corso di recupero ai giuristi per caso di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2020 Ieri ho scritto un’ovvietà, nota a chiunque abbia una vaga idea di diritto penale: “I detenuti in custodia cautelare (arrestati prima della sentenza in base a “gravi indizi di colpevolezza” per evitare che fuggano o inquinino le prove o reiterino il reato), per la nostra Costituzione, sono presunti innocenti. Quindi non c’è nulla di scandaloso se un presunto innocente è in carcere: è la legge che lo prevede. Solo la sentenza definitiva dirà se era colpevole o innocente”. L’informazione, essendo corretta, ha molto urtato Gaia Tortora. Infatti la vicedirettrice del Tg La7, anziché spiegare quale sarebbe il mio eventuale errore, ha soavemente twittato: “Finora ho sopportato e sono stata una signora. Ora basta. Travaglio... Mavaffanculo”. Le ho scritto via sms di informarsi e studiare prima di insultare. E, siccome la poveretta insisteva imperterrita, le ho brevemente spiegato la differenza fra carcere per custodia cautelare e per espiazione pena. Invano. Allora le ho preannunciato un corso di recupero per ciucci. Infatti subito dopo il circoletto dei giuristi per caso e dei garantisti alle vongole giù giù fino a Renzi ha iniziato a twittare compulsivamente contro di me, solidarizzando con l’insultatrice anziché con l’insultato. Casomai fossero interessati a qualche informazione vera, comunico che la custodia cautelare riguarda gli indagati e gli imputati a cui i giudici limitano la libertà prima della sentenza definitiva, in presenza di “gravi indizi di colpevolezza”, per evitare che fuggano, o inquinino le prove, o reiterino il reato. Quindi, per la Costituzione, sono tutti “presunti innocenti”, anche se già si sa che sono sicuramente colpevoli: anche se sono stati colti in flagrante col coltello nella pancia del morto, se la vittima o un testimone li ha visti e denunciati, se hanno confessato, se sono stati filmati o fotografati o intercettati mentre commettevano il reato. Dunque tutti i detenuti in custodia cautelare sono “presunti innocenti”. Non lo dico io, ma il Codice di procedura penale (artt. 272-315) e la Costituzione (art. 27 comma 1): ora, volendo, la Tortora e i suoi amichetti somari possono mandare affanculo pure quelli. Il “Vaffa” di Gaia Tortora a Travaglio: “Finora ho sopportato, ma ora...” di Giorgia Baroncini Il Giornale, 27 gennaio 2020 La giornalista di La7, Gaia Tortora, contro il direttore del Fatto Quotidiano per le parole sugli innocenti in carcere: “Sono stata una signora, Ora basta. Travaglio... Mavaffanculo”. Si è sfogata così su Twitter Gaia Tortora, giornalista del Tg de La7 e figlia di Enzo. La polemica dopo le parole del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sembrava essersi attenuata. L’uscita del Guardasigilli “Gli innocenti non vanno in carcere…” durante una puntata di Otto e Mezzo su La7 aveva creato non pochi malumori. “Ministro le chiedo di spiegare la sua frase ad Otto e Mezzo ‘Gli innocenti non finiscono in carcere’. Grazie”, aveva scritto su Twitter Gaia Tortora. Poco dopo, Bonafede aveva cercato di chiarire la sua posizione, ma senza mettere del tutto fine alle polemiche. A scatenare di nuovo l’ira di Gaia Tortora e di tanti altri è stato un editoriale di Marco Travaglio. In un articolo intitolato “Bonafede e Malafede”, il direttore del Fatto Quotidiano ha dichiarato che “la blocca-prescrizione non cambia di una virgola la sorte degli eventuali innocenti in carcere. I quali non possono essere i detenuti che espiano la pena, cioè i condannati in via definitiva, per definizione colpevoli. Ma i detenuti in custodia cautelare (arrestati prima della sentenza in base a ‘gravi indizi di colpevolezza’ per evitare che fuggano o inquinino le prove o reiterino il reato): che però, per la nostra Costituzione, sono già presunti innocenti”. Quindi, ha sostenuto Travaglio, “non c’è nulla di scandaloso se un presunto innocente è in carcere: è la legge che lo prevede”. Una frase che ha subito indignato la giornalista di La7 che è intervenuta con un Tweet. “Finora ho sopportato e sono stata una signora. Ora basta. Travaglio.. Mavaffanculo”, ha scritto Gaia Tortora sul social. Ma lo scontro tra il direttore del Fatto e la giornalista non è finito lì. Pochi minuti dopo, sul profilo della figlia di Enzo Tortora è apparso un altro forte messaggio: “Chiedo al Signor Marco Travaglio di ripetere in pubblico ciò che mi sta scrivendo via SMS e che custodirò gelosamente. Perché al peggio non c è mai fine”. I manettari calpestano pure i morti di Vittorio Sgarbi Il Giornale, 27 gennaio 2020 Mi era sembrata sveglia e intelligente la giornalista di Repubblica contrapposta da Lilli Gruber allo pseudoministro della giustizia Alfonso Bonafede, disperato difensore di principi e valori che non ha mai avuto. Annalisa Cuzzocrea gli chiede, con grande equilibrio, “se ogni tanto pensa agli innocenti che finiscono in carcere? Perché sono tantissimi”. “Ma cosa c’entra? Gli innocenti non finiscono in carcere”, è l’insensata risposta di Bonafede, che subito la Cuzzocrea smentisce: “No, scusi, dal 1992 al 2018 27mila persone sono state risarcite dallo Stato perché erano finite in carcere da innocenti. Quindi gli innocenti finiscono in carcere”. Siccome le considerazioni erano logiche e inappuntabili (dal 1992 ad oggi lo Stato italiano ha speso 700 milioni di euro per ingiusta detenzione. Ogni anno circa 15 milioni di euro), il bilioso Travaglio, per cui un cittadino innocente e libero è un’anomalia, perché l’uomo è sempre colpevole, corre subito in soccorso del criptoministro e scarica le sue metaforiche randellate sulla brava Cuzzocrea: “Una giornalista di Repubblica, ignara di vent’anni di battaglie del suo giornale per bloccare la prescrizione, contestava la legge che blocca la prescrizione: “Lei non pensa agli innocenti che finiscono in carcere?”. Argomento demenziale visto che la blocca-prescrizione non cambia di una virgola la sorte degli eventuali innocenti in carcere, i quali non possono essere detenuti che espiano la pena, ossia i condannati in via definitiva, per definizione colpevoli. Ma i detenuti in custodia cautelare (arrestati prima della sentenza in base a “gravi indizi di colpevolezza” per evitare che fuggano o inquinino le prove o reiterino il reato): che però, per la nostra Costituzione, sono già “presunti innocenti”. Quindi non c’è nulla di scandaloso se un presunto innocente è in carcere: è la legge che lo prevede. Solo la sentenza definitiva dirà se è colpevole o innocente”. Meraviglioso: viviamo tutti in presunto stato di colpevolezza, ed è veramente eccezionale che siamo liberi. Per Travaglio “non c’è nulla di scandaloso se un “presunto innocente” è in carcere”, naturalmente. C’è tutto di scandaloso invece, in particolare l’indifferenza con cui la “Bestia del Fatto” travolge diritti e dignità. Cosa importa che 27mila innocenti siano stati in carcere? Un piccolo errore: la giustizia non deve essere giusta, deve essere minacciosa, violenta, umiliante. Travaglio ricorda Don Fernando Nino De Guevara, il Cardinale spagnolo inquisitore generale di cui conosciamo il volto segaligno dal ritratto di El Greco. Il grande inquisitore nominava i suoi esecutori con lo spirito di Travaglio: “Noi, per misericordia divina inquisitore generale, fidando nelle vostre cognizioni e nella vostra retta coscienza, vi nominiamo, costituiamo, creiamo e deputiamo inquisitori apostolici contro la depravazione eretica e l’apostasia nell’inquisizione di (qui veniva inserito di volta in volta il nome del luogo dove l’inquisitore veniva mandato) e vi diamo potere e facoltà di indagare su ogni persona, uomo o donna, viva o morta, assente o presente, di qualsiasi stato e condizione che risultasse colpevole, sospetta o accusata del crimine di apostasia e di eresia, e su tutti i fautori, difensori e favoreggiatori delle medesime”. A confortare questi confronti ci sono, incredibilmente, i dati che riguardano il più grande dei grandi inquisitori, Thomas De Torquemada, responsabile della morte sul rogo di 10.280 persone, della punizione con infamia e confisca dei beni di altri 27.021. Si tratta di azioni violente, relative non a reati ma a presunzione di reati secondo lo schema di Travaglio. Mi sono trovato a parlarne in televisione con una sottospecie di Travaglio, il sinistro Barbacetto, e mi è subito arrivato un messaggio eloquente che mi ha ricordato anni lontani di inaudita violenza, quando iniziarono le persecuzioni che non sono finite: “La vedo in diretta su Rete 4 e mi farebbe piacere ricordasse in quel contesto anche mio padre Franco Quattrone (Dc) arrestato nel 1992, accusato inizialmente come mandante dell’omicidio Ligato assieme ai deputati Battaglia (Dc) e Palamara (Psi) e poi a seguire di tutto di più, a catena, 13 mesi di detenzione, 17 processi e, dopo oltre 20 anni complessivi di sofferenza, assolto o addirittura con sentenza di non luogo a procedere. Mio padre è morto nel 2012 anche per la sofferenza subita. Sua e di tutti noi. Ho realizzato un documentario che presenterò a fine marzo per raccontare anche questa storia. La ringrazio sempre anche per il suo supporto mai mancato. Non dimenticherò mai Sgarbi quotidiani su di lui. Grazie. Maria Francesca Quattrone”. Ma gli inquisitori non si vergognano neanche davanti ai morti. Il fatto di lieve entità è valutabile solo dopo un esame globale di tutti gli indici previsti di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2020 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 10 dicembre 2019 n. 49897. Ai fini del riconoscimento o dell’esclusione del fatto di lieve entità ex articolo 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, è necessaria la valutazione complessiva degli indici elencati dalla disposizione, sicché (come argomentato dalle sezioni Unite, 27 settembre 2018, Murolo) occorre abbandonare l’idea che gli stessi possano essere utilizzati dal giudice alternativamente, riconoscendo o escludendo, cioè, la lieve entità del fatto anche in presenza di un solo indicatore di segno positivo o negativo, a prescindere dalla considerazione degli altri. Così come è da abbandonare - proseguono i giudici della Suprema corte con la sentenza 49897/29019 - l’idea anche che tali indici debbano tutti indistintamente avere segno positivo o negativo. Infatti, va riconosciuta la possibilità che tra gli stessi si instaurino rapporti di compensazione e neutralizzazione in grado di consentire un giudizio unitario sulla concreta offensività del fatto anche quando le circostanze che lo caratterizzano risultano prima facie contraddittorie in tal senso. Valutazione globale di tutti gli indici del fatto di lieve entità - Solo all’esito della “valutazione globale” di tutti gli indici che determinano il profilo tipico del fatto di lieve entità, è poi possibile che uno di essi assuma in concreto valore assorbente e cioè che la sua intrinseca espressività sia tale da non poter essere compensata da quella di segno eventualmente opposto di uno o più degli altri Da queste premesse, la Corte ha annullato il diniego del riconoscimento del fatto di lieve entità, siccome inadeguatamente motivato solo sul numero delle dosi detenute - neppure 40 - e sul luogo ove l’imputato si era recato per spacciare, senza alcun accenno al grado di purezza e di capacità drogante dello stupefacente, derivando per l’effetto arbitraria la ritenuta collocazione dell’imputato in un ambiente criminale. Giurisprudenza precedente - La giurisprudenza è consolidata nel ritenere che fattispecie di cui all’articolo 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309 richiede una valutazione complessiva di tutti i parametri richiamati dalla norma stessa (mezzi, modalità, circostanze dell’azione, quantità e qualità della sostanza), nessuno escluso, sì da giustificare il riconoscimento dell’ipotesi attenuata soltanto quando gli stessi depongano nel senso di un fatto di lieve entità; con la speculare conseguenza per cui, di contro, è sufficiente che uno solo dei canoni citati ecceda questo limite per giustificare il diniego dell’ipotesi di reato di minore gravità (tra le tante, sezione III, 4 dicembre 2014, M. e altro, nella specie, la Corte, accogliendo il ricorso del procuratore generale, ha ritenuto immotivata la qualificazione del fatto come lieve operata dal giudice di merito, che, a tal fine, aveva impropriamente proceduto ad un frazionamento della condotta - detenzione di cocaina e marijuana - non consentito alla luce della contestualità spazio-temporale che aveva caratterizzato la detenzione delle sostanze, valorizzando solo il quantitativo di una delle due; nonché, sezione VI, 6 dicembre 2018, Izzo, laddove si è precisato che, nell’ambito di questa valutazione complessiva della vicenda, anche la condotta del reo successiva al fatto di reato - nella specie, il perdurante svolgimento della attività illecita pur in costanza di arresti domiciliari - può legittimamente essere valorizzata dal giudice, all’interno della valutazione globale ed unitaria del fatto, giacché tale dato rientra a pieno titolo tra le “modalità e circostanze dell’azione”, cui fa espresso riferimento il citato comma 5, se e in quanto è in grado di rivelare rivela l’inserimento del reo all’interno di una rete commerciale, sia di clienti che di fornitori, significativamente vasta e stabile). Valutazione delle condizioni ostative per l’esclusione della punibilità per tenuità del fatto Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2020 Reato - Non punibilità per particolare tenuità del fatto - Condotta non abituale - Nozione - Condanna per reati della stessa indole. In tema di elementi ostativi al riconoscimento del beneficio della esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, la preclusione opera nei confronti dei soggetti che abbiano subito condanne (almeno due) per reati della stessa indole passate in giudicato, risultando indifferente il dato connesso all’epoca in cui tali pronunce siano state adottate. Datazione che, mentre può essere determinante ai fini dell’apprezzamento del distinto profilo connesso all’applicazione della recidiva, non ha invece alcun concreto riflesso in ordine ai requisiti che, ai sensi dell’art. 131-bis, comma terzo, c.p., costituiscono impedimenti all’operatività dell’istituto deflattivo. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 14 gennaio 2020 n. 1213. Impugnazioni - Cassazione - Cause di non punibilità, di improcedibilità, di estinzione del reato o della pena - Declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto - Reato continuato - Presupposto ostativo del comportamento abituale - Configurabilità - Fattispecie. La causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 131-bis cod. pen.non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, specie se consumati in un significativo arco temporale, in quanto anche il reato continuato configura un’ipotesi di “comportamento abituale”, ostativo al riconoscimento del beneficio. (Fattispecie in tema di pluralità di truffe poste in essere da un medico ospedaliero che, omettendo di informare il datore circa la misura delle prestazioni eseguite intramoenia, induceva lo stesso in errore, conseguendo somme a titolo di indennità di esclusiva e di posizione non dovute). • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 2 maggio 2019 n. 18192 Impugnazioni - Cassazione - Cause di non punibilità, di improcedibilità, di estinzione del reato o della pena - Declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto - Reato continuato - Compatibilità - Condizioni - Fattispecie. Ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen. non osta la presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, qualora questi riguardino azioni commesse nelle medesime circostanze di tempo e di luogo. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza che aveva escluso la causa di non punibilità in relazione ad ipotesi di continuazione tra reati commessi in tempi diversi). • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 19 ottobre 2018 n. 47772. Reato - Cause di non punibilità, di improcedibilità, di estinzione del reato o della pena - Causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto - Condizione ostativa del ‘comportamento abitualè - Accertamento - Condizioni. In tema di applicazione della causa di esclusione della punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen., il giudice non può ritenere sussistente la condizione ostativa del “comportamento abituale” sulla sola base di testimonianze da cui sia emersa la reiterazione da parte dell’imputato di condotte identiche a quella di cui all’imputazione (nella specie, appropriazione indebita di telefoni cellulari consegnati per effettuare delle riparazioni), quando di tali condotte non si conosce se abbiano formato oggetto di accertamento processuale e, prima ancora, se abbiano dato luogo a denunce o querele. (In motivazione, la Corte ha indicato al giudice del rinvio la necessità di valutare eventuali elementi oggettivi di fatto che possano consentire ovvero escludere l’applicazione della causa di non punibilità). • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 26 settembre 2018 n. 41774. Reato - Cause di non punibilità - Esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto - Condizioni ostative - Abitualità del comportamento - Rilevanza di mere denunce - Esclusione. (C.p. articolo 131-bis). La mera presenza di denunzie nei confronti dell’imputato o di “precedenti di polizia”, di cui si ignora l’esito, non può, di per sé, costituire elemento ostativo al riconoscimento dell’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’articolo 131-bis del Cp. Il giudice, quindi, ove risultino in atti denunzie o precedenti di polizia, ove sollecitato dalla difesa o anche di ufficio, deve verificare l’esito di tali segnalazioni, per trarne l’esistenza di eventuali concreti elementi fattuali che dimostrino, in ipotesi, la abitualità del comportamento dell’imputato. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 15 novembre 2018 n. 51526. Reato - Cause di non punibilità, di improcedibilità, di estinzione del reato o della pena - Declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto - Presupposto ostativo del comportamento abituale - Nozione. Ai fini del presupposto ostativo alla configurabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen., il comportamento è abituale quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha commesso almeno due illeciti, oltre quello preso in esame. (In motivazione, la Corte ha chiarito che, ai fini della valutazione del presupposto indicato, il giudice può fare riferimento non solo alle condanne irrevocabili ed agli illeciti sottoposti alla sua cognizione - nel caso in cui il procedimento riguardi distinti reati della stessa indole, anche se tenui- ma anche ai reati in precedenza ritenuti non punibili ex art. 131-bis cod. pen.). • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 6 aprile 2016 n. 13681. L’indifferenza in carcere uccide di Associazione Yairaiha Onlus osservatoriorepressione.info, 27 gennaio 2020 La morte di Pino Gregoraci, morto suicida alcuni giorni fa nel carcere di Voghera, forse si sarebbe potuta evitare. Era molto depresso, non era mai riuscito a rassegnarsi a vivere senza un piede. Con l’aiuto dei suoi compagni aveva presentato decine di istanze per parlare con uno psicologo; non è mai stato chiamato. I suoi compagni sono arrabbiati e ci fanno sapere che la morte di Pino peserà sulla coscienza dei sanitari che non hanno ascoltato le sue richieste di aiuto. Ogni volta che tornava dalla telefonata o dai colloqui piangeva disperato. Anche gli agenti sono rimasti shockati ed oggi chiedono ai compagni di Pino “Perché se sapevate che era così depresso non ci avete informato? Avremmo potuto fare qualcosa di più, era un bravo ragazzo!?”. Pino aveva saputo che stavano per trasferirlo a Busto Arsizio ma non voleva essere trasferito, a Voghera si era “abituato”, aveva trovato qualche amico, in sezione i compagni lo curavano. Forse Pino non voleva uccidersi realmente, forse voleva solo attirare l’attenzione sul suo disagio contro l’indifferenza dei medici. Poco tempo fa anche un altro ragazzo con problemi di depressione aveva tentato il suicidio e in seguito venne trasferito in una casa di cura. Forse Pino ha pensato che avrebbe potuto farcela anche lui ad aggirare l’indifferenza.. Pochi giorni prima aveva avuto rassicurazioni anche in merito al suo processo: erano state trovate le telefonate che lo avrebbero scagionato dalle accuse. Ma forse, quel giorno, aveva nuovamente perso la speranza. La depressione è campanello d’allarme di malesseri più profondi che stanno lì, ed esplodono quando meno te lo aspetti..I suoi compagni non sanno di preciso quale pensiero abbia attraversato la sua mente fragile. I suoi compagni, alle 13.50, mentre andavano in saletta, lo hanno visto che stava seduto in carrozzina, da solo; lo invitarono a fare una partita a carte, rispose che aveva mal di testa e preferiva risposarsi. Al rientro dall’aria, poco dopo le 14, sono risaliti tutti in sezione trovando Pino appeso nel bagno, con il cuore che ancora gli batteva… ma non c’è stato niente da fare. Segue la telefonata alla moglie per comunicarle l’accaduto: “signora suo marito è deceduto”. La signora riattacca il telefono pensando ad uno scherzo di pessimo gusto. La richiamano nel giro di pochi minuti: “signora ma lei ha capito che suo marito è morto?” Una macabra telefonata a 1300 km di distanza, neanche la delicatezza di mandare un assistente sociale ad avvisare. Sassari. Carcere di Bancali, nuovo direttore nominato con urgenza di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna, 27 gennaio 2020 Potrebbe arrivare domani - con un provvedimento urgente del ministero della Giustizia - il nuovo direttore del carcere di Bancali. La procedura, attesa ormai da tempo, avrebbe avuto una brusca accelerazione dopo i gravi fatti che si sono verificati negli ultimi giorni nella struttura carceraria. In particolare dopo le tensioni e le aggressioni agli agenti da parte di detenuti della sezione di massima sicurezza del 41bis che hanno fatto salire notevolmente il livello di attenzione. Anche perché c’è da capire che cosa sta succedendo nel carcere dove le organizzazioni sindacali - ormai da tempo - hanno segnalato una lunga lista di problemi e carenze. Il provveditore regionale delle carceri Maurizio Veneziano dovrebbe essere a Bancali nei primi giorni della prossima settimana per rendersi conto di persona della situazione e per portare la solidarietà all’agente ferito nel corso dell’ultima drammatica aggressione. Il poliziotto ha avuto 20 giorni di cure dopo essere stato colpito al viso con una penna da Filippo Griner, 38 anni, uno dei reclusi della sezione 41bis. Nei giorni precedenti, Leoluca Bagarella, invece, si era reso protagonista di una protesta plateale, con un tentativo di aggressione agli agenti che lo stavano accompagnando dalla cella alla sala della videoconferenza dalla quale doveva partecipare al processo sulla trattativa Stato-mafia in corso di svolgimento alla Corte d’assise d’appello a Palermo. Il boss era stato prontamente bloccato e riaccompagnato in cella. In quella occasione nessuno degli agenti aveva riportato conseguenze. La situazione di Bancali continua a essere complicata. Anche perché oltre al direttore titolare (che ora sarebbe in arrivo) manca ancora il comandante della polizia penitenziaria, una figura fondamentale in una struttura così complessa, e le responsabilità continuano a gravare su una figura intermedia come quella dell’ispettore. Dei problemi del carcere di Bancali si doveva parlare nel corso di una riunione tra le organizzazioni sindacali e il provveditore regionale Veneziano prevista a metà gennaio, ma la riunione era poi saltata e c’era stato un rinvio ai primi di febbraio. Ora è stata aggiornata per i primi giorni di febbraio, una conferma - questa dell’incontro - dell’esistenza dei “problemi nella casa circondariale di Sassari” (questo il tema della riunione). La data della riunione tra il provveditore regionale della carceri e i rappresentanti sindacali dovrebbe essere fissata proprio in occasione della visita di Veneziano a Bancali. Asti. Si farà un nuovo carcere a insaputa degli amministratori locali? La Stampa, 27 gennaio 2020 Spunta il progetto del Ministero di raddoppiare l’attuale struttura di Quarto. Il Comune: “Nessuno ci ha informato”. Giaccone: “C’è bisogno di più personale non di più detenuti”. Il carcere di Asti è abituato a cambiare pelle, essendo passato da casa circondariale (accoglienza di detenuti comuni) a istituto ad alta sicurezza (detenuti mafiosi o con lunghe pene da scontare). Ma che potesse quasi raddoppiare nessuno ci aveva proprio mai pensato. La notizia ha colto di sorpresa gli amministratori astigiani che hanno chiesto aiuto, per capirci qualcosa di più, anche ai parlamentari astigiani. In attesa di avere certezze dal Ministero della Giustizia. Nessuno, infatti, si è preoccupato di informare il Comune. È vero che il mondo carcere è un pianeta a parte e tutto ciò che lo riguarda dipende dal Ministero della Giustizia, ma sorge pur sempre a Quarto, frazione di Asti. E attorno ad esso proprio come satelliti ruotano temi come la sicurezza, il trasporto pubblico, la scuola, il lavoro, la sanità, che coinvolgono tutta la comunità astigiana. La fonte della notizia è il quarto dossier sulle criticità strutturali e logistiche relative alle carceri piemontesi presentato da Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti. Che alla voce Asti recita tra le altre cose: “È stata annunciata la realizzazione di un nuovo padiglione detentivo utilizzando una parte dello spazio attualmente occupato dalle aree verdi”. Il sindaco Maurizio Rasero e l’assessore Mariangela Cotto chiedono: sarà vero? E spiegano: “Il Comune di Asti non ha ricevuto comunicazione da parte del competente Ministero. Informazioni ufficiose alimentano molte perplessità. Un padiglione di 3 piani per ospitare circa 200 detenuti oggetti a “custodia attenuata”? Custodia attenuata come il progetto Arcobaleno della Casa Circondariale “Le Vallette” di Torino? Custodia attenuata come nella casa di reclusione di Fossano dove ci sono detenuti comuni a bassa pericolosità sociale a fine pena e per i quali sono previsti laboratori per attività varie?”. Questi nuovi detenuti andrebbero ad aggiungersi ai circa 300 già presenti. Una piccola città nella città con 500 detenuti. Scorrendo il dossier si scopre, ad esempio, che alla casa di reclusione Giuseppe Montalto di Alba, il cui padiglione principale è chiuso dal gennaio 2016 per una epidemia di legionella, “il padiglione sta degradando e i 4 milioni e mezzo che sono stati stanziati, rischiano di non essere sufficienti”. Perché non fare lì a questo punto il padiglione previsto ad Asti? Tra le altre criticità del carcere astigiano Mellano annota anche la necessità di adeguare e ampliare lo spazio dedicato ai colloqui, con particolare riguardo ai bambini; la necessità di destinare spazi ad attività formative e scolastiche; chiarire cosa si intenda per spazio vitale in seguito a un provvedimento di un magistrato di sorveglianza in Sicilia. In Piemonte ci sono 13 carceri per adulti e un istituto minorile. Per ognuno il dossier indica gli aspetti principali di criticità o progetti. Interrogazione al ministero - Sul caso ha già preso posizione il deputato della Lega Andrea Giaccone: “Presenterò in settimana un’interrogazione al ministro competente per approfondimenti e chiarimenti sul tema, il carcere di Asti ben lungi dall’avere bisogno di nuovi detenuti, avrebbe invece bisogno di un’implementazione di figure della polizia penitenziaria, in primis ispettori e Sovrintendenti di cui la struttura astigiana è da tempo carente”. Trapani. Delegazione del M5S in visita ispettiva alla Casa circondariale tele8tv.it, 27 gennaio 2020 Ieri mattina una delegazione di portavoce del Movimento Cinque Stelle composta dal senatore Vincenzo Maurizio Santangelo, dai deputati Antonio Lombardo, Vita Martinciglio nonché dei consiglieri comunali di Erice e Trapani rispettivamente Alessandro Barracco, Eugenio Strongone e Francesca Trapani, hanno incontrato il Comandante di reparto dell’istituto penitenziario trapanese Giuseppe Romano. È stato un lungo e proficuo colloquio con tutta la delegazione M5S, entrando nel merito di molte problematiche legate alla mancanza di personale in servizio, che possa garantire sempre al meglio i turni degli agenti. È emerso che allo stato attuale si stima una carenza di circa sessantatré unità e questo determina gravosi accorpamenti di servizi durante l’arco delle ventiquattro ore. Purtroppo il mondo carcerario è una realtà fatta di storie di vita umana, di servizio, di dedizione e soprattutto di massimo rispetto degli individui che per primi lavorano all’interno di un perimetro di lavoro di certo non semplice. I parlamentari che già erano a conoscenza delle molteplici carenze segnalate dal Comandante Romano, dopo l’ampia discussione e raccolta di ulteriori nuovi dati necessari, hanno eseguito una visita ispettiva nelle varie sezioni del penitenziario, sempre alla presenza del Comandante Romano e del Responsabile Area Trattamentale Antonio Vanella. Per i parlamentari, ancora c’è molto da fare, sia sul potenziamento delle dotazione del personale e sia sul miglioramento delle condizioni impiantistiche e strutturali dell’istituto specie della sezione “Mediterraneo”. Hanno precisato che porteranno a conoscenza del Ministro Bonafede i dati raccolti e soprattutto l’ennesima toccante esperienza, di una mattinata dentro un mondo fatto di storie di vita, che spesso noi tutti non riusciamo a cogliere. Pertanto un ringraziamento è dovuto a chi ogni giorno nel silenzio lavora e spesso è chiamato in prima linea a gestire la vita dei detenuti stessi. Tra le altre cose, vista anche l’insufficiente presenza del personale medico specializzato per il trattamento dei detenuti psichiatrici, i portavoce hanno immediatamente resa la loro disponibilità per chiedere un incontro con la locale Asp di Trapani. Il sogno (o l’incubo) di una democrazia digitale di Sebastiano Maffettone Corriere della Sera, 27 gennaio 2020 Strumenti comunicativi creano oggi una nuova piattaforma discorsiva che permette di relazionarsi inter-personalmente senza le grandi organizzazioni mediatiche. Ci sono molti modi e diversi per dare maggiore peso all’opinione pubblica allo scopo di recuperare la legittimazione perduta dai sistemi democratici. Uno di questi è quello basato sulla democrazia digitale. È lecito infatti pensare che il mutamento di struttura produttiva, di modi di pensare, di relazioni interpersonali, e in sostanza di ontologia, causato dalla digitalizzazione progressiva del mondo, possa avere anche conseguenze politiche. E, sotto questa assunzione, sembra utile domandarsi se tali conseguenze politiche sarebbero in grado di fornire proprio quella nuova legittimazione di cui sistemi democratici hanno bisogno. Strumenti comunicativi diversi tra loro - dalle semplici e mailing lists al sistema Wiki, dai social networks ai siti qualificati e ai blog, dalle app interattive alle operazioni dei nuovi Makers e così via - creano un cambiamento profondo della sfera pubblica. In sostanza, si crea una nuova piattaforma discorsiva che permette di relazionarsi inter-personalmente senza ricorrere alle grandi organizzazioni mediatiche. I vantaggi democratici della digitalizzazione in politica sono legati alla riduzione dei costi necessari per avere diritto di voce nel sistema politico. Se consideriamo l’effetto mediatico-politico della Tv - e in paesi come l’Italia di Berlusconi come si fa a non tenerlo presente? - l’architettura di sistema cambia da un modello costituito da un grande hub centrale che raggiunge molti milioni di utenti periferici unilateralmente a quello in cui un’architettura flessibile vede operare un insieme puntiforme di soggetti produttori di informazione. Questo comporta una sostanziale diminuzione dei costi intesi come barriere di ingresso nel sistema della comunicazione pubblica. Il mutamento però non è solo quantitativo, ma anche qualitativo. Il cittadino diventa protagonista della sfera pubblica con la possibilità di avere voce in essa e il diritto-dovere di assumersi responsabilità. Ci sono comunque numerose e note obiezioni a una visione come questa. E va detto che, in generale, nel tempo, all’ottimismo tecnologico dei primi anni si è gradualmente sostituito il sospetto. Una prima obiezione dice che alla fine dei giochi il potere economico controllerà ancora il sistema della comunicazione pubblica sia pure in maniera diversa. In altre parole, passeremmo da Berlusconi a Google, Facebook e Apple. Una seconda sostiene che l’eccessiva dispersione crea effetti perversi di incomprensione e confusione (la Babele democratica). La terza (Cass Sunstein) dice che un sistema di parlanti individuali impegnati politicamente genera polarizzazione (le cosiddette echochambers). La quarta insiste sul cosiddetto digital divide: senza diffusione universale queste forme di comunicazione riproducono e anzi rafforzano differenza tra classi e generazioni. A nostro avviso, il rischio più grave connesso alla politica digitale è comunque quello legato alla possibilità di una sistematica manipolazione delle preferenze del cittadino-elettore. La manipolazione delle preferenze, che è implicita nella propaganda economica e aziendale, sembra però assai meno accettabile nell’universo della politica democratica. Il metodo democratico è basato sulle preferenze dei cittadini e se cominciamo a pensare che una distorsione sistematica di queste sia normale, allora rischiamo di perdita di senso della procedura democratica stessa. Il modo tipico in cui si manipolano le preferenze politiche nel mondo digitale è costituito dal micro-targeting. Il microtargeting digitale politico è un metodo importato dalla pubblicità economica in rete. Per cui, le campagne politiche sempre più mettono insieme ricerca sui dati del votante con messaggi politici personalizzati che mirano a rafforzarne i pregiudizi. In sintesi, il microtargeting digitale politico può progressivamente: (1)identificare i votanti vulnerabili da convincere. (2)Indirizzare loro un messaggio specifico. (3)Manipolarne progressivamente le preferenze. Un’indagine del New York Timese del Guardian ha rivelato che Cambridge Analytica, una discussa società di analisi politiche, ha avuto un’influenza notevole sia nella campagna elettorale di Trump sia nel Referendum sulla Brexit. Per riuscirci, Cambridge Analytica ha ottenuto e utilizzato strategicamente dati personali di oltre 50 milioni di utenti di Facebook. In sostanza, sarebbe stato trovato un algoritmo capace di raggiungere i cittadini - imitando la pubblicità commerciale - con messaggi in grado di produrre significativi effetti di natura politica, per esempio suscitando paura, rinforzando pregiudizi e polarizzando le opinioni (va detto che sulla validità teorica, matematica e statistica, di questo modello si possono nutrire dubbi) La premessa è che ogni volta che andiamo in Rete siamo tracciati, e si raccolgono informazioni su di noi. Esiste un’industria da miliardi di dollari nella quale queste informazioni sono merce di scambio. Le informazioni che si raccolgono possono, potenzialmente, creare un profilo completo dal nome all’indirizzo, dalle preferenze politiche a quelle sessuali, dalla capacità di acquisto alle marche preferite. Un fatto del genere non è solo un’invasione della sfera protetta delle persone poiché implica un cambiamento radicale delle relazioni umane. E, potenzialmente, una immensa capacità di controllo nelle mani di governi autoritari, o comunque nelle mani di organizzazioni economiche prive di accountability democratica. Così che il sogno di avvicinare attraverso lo strumento digitale il cittadino alla politica ridando legittimazione alla democrazia, rischia di trasformarsi nell’incubo di un Grande Fratello che sa tutto di noi e può condizionare le nostre vite come mai prima è accaduto. Ciò in maniera ancora più distopica della dittatura dei sapienti immaginata da Platone. Una dittatura, in altre parole, di chi ci sorveglia e ci controlla. Giornata della Memoria, quando non ci saranno più i testimoni come faremo a ricordare? di Eraldo Affinati Il Riformista, 27 gennaio 2020 In questo momento storico, quando i protagonisti della Shoah stanno per dirci addio, le ultime parole di ognuno di loro andrebbero ascoltate e conservate come doni preziosi. I ricordi dei deportati sopravvissuti, vegliardi segnati dal trauma, bambini o adolescenti negli anni terribili del Terzo Reich, dovrebbero essere incisi con l’inchiostro rosso nei registri novecenteschi per frantumare qualsiasi illusione che potremmo ancora nutrire sulla natura umana. I nostri simili, purtroppo dobbiamo ammetterlo, sono pericolosi: ciò che accadde nel cuore di tenebra dell’Europa nella prima metà del secolo scorso non possiede uguali per ferocia e dimensione tecnologica e potrebbe riproporsi, in forma nuova e diversa, anche oggi. È la ragione per cui la triste recente vicenda legata alla senatrice Liliana Segre, costretta ad avere la scorta per difendersi dalle minacce antisemite, rappresenta una pagina nera. Quando non ci saranno più quelli come lei, dovranno essere le generazioni venute dopo ad assumersi la responsabilità di rivolgersi ai più giovani. Con una differenza decisiva: mentre i testimoni diretti avevano la naturale legittimità per farlo, noi dovremo conquistare tale condizione. Come? In due modi, entrambi ineludibili: trasformando i luoghi del terrore hitleriano e fascista in musei a cielo aperto e studiando le fonti. In tale prospettiva dobbiamo interpretare il testamento spirituale che Ginette Kolinka, nata a Parigi nel 1925 e deportata ad Auschwitz a diciannove anni insieme al padre, al fratello e al nipote, ha consegnato a Marion Ruggieri, scrittrice sensibile e pronta a raccoglierlo con taglio stilistico avvincente e personale. Il titolo dell’opera, Ritorno a Birkenau. 78699 (Ponte alle Grazie, traduzione di Francesco Bruno, pp. 89, 12 euro), riprende il numero tatuato sul braccio della giovane donna pochi momenti dopo il suo arrivo sulla famigerata banchina dove gli sventurati venivano divisi fra donne e uomini, bambini e adulti, sani e malati. Chi saliva sul camion andava direttamente al gas e poi nei forni crematori: migliaia e migliaia di esecuzioni a ritmo forsennato. Gli altri venivano condotti nelle baracche dove potevano almeno sperare di continuare a respirare, anche se le famigerate e periodiche “selezioni” incombevano giornalmente: bastava una ferita non guarita o una semplice malattia per essere eliminati. Ginette, partita dal campo di Drancy come tanti ebrei, deve la vita a una serie di fortuite circostanze, fra le quali il fatto di essere stata deportata nella primavera del 1944, solo un anno prima della fine del conflitto. Il suo resoconto possiede un’intensità a volte quasi insostenibile; anche chi, come il sottoscritto, è abituato a leggere questi documenti, resta colpito dal ritmo incandescente del dettato: le condizioni spaventose della reclusione coatta, le attività inutili a cui le povere donne venivano sottoposte, la crudeltà spesso arbitraria delle Kapò, le angherie e soprattutto la fame che divorava le viscere, l’egoismo impietoso delle persone trasformate in bestie ma anche, verso la fine, quando Ginette rievoca il suo trasferimento in una fabbrica, la generosità inaudita di certi operai pronti a lasciare pezzi di pane nascosti nei macchinari industriali a beneficio delle lavoratrici. Ginette ha molto atteso prima di aprire bocca. A convincerla sono stati i ragazzi che ormai da tempo accompagna ad Auschwitz. La stessa cosa accadde a Ruth Kluger, di sei anni più giovane, l’autrice di Vivere ancora (Einaudi), una delle più potenti riflessioni sullo sterminio nazista. Entrambe queste donne hanno avuto la forza di attraversare la retorica, scansandola d’istinto, insieme agli alibi interiori in agguato per tutti noi: “Io sono diverso, io sono migliore”. Nessuno può dirlo. Solo Ginette ha il diritto di indignarsi, come quando nei paraggi del campo di Birkenau, qualche anno fa, vide una ragazza fare jogging proprio lì. “Correva, tranquillamente. Mi è mancato il respiro. Ho avuto voglia di urlare, di gridarle: “Ma sei matta?”. Salvo andare a capo e chiedersi: “O la matta ero io?”. Migranti. I Cpr non tutti sono uguali, ma sono stati peggiorati dal Decreto Sicurezza di Mario Morcone Il Riformista, 27 gennaio 2020 Ho letto con ammirazione e gratitudine l’intervento di Monsignor Paglia su Il Riformista (23 gennaio) dal titolo “Dobbiamo diventare primi in umanità”. Certamente non posseggo la carica umana e pastorale, né l’autorevolezza di don Vincenzo, e tuttavia vorrei aggiungere qualche considerazione che mi viene dall’esperienza professionale e da una qualche sensibilità maturata in questi anni. Sul tema della cattiva comunicazione, del linguaggio aggressivo e di un allarme sociale totalmente costruito ad arte non posso che sottoscrivere le parole di verità pronunciate dal Vescovo; ma la vicenda di Gradisca e la morte del ragazzo georgiano mi spinge a porre più chiaramente il grave problema determinato dai cosiddetti Decreti Sicurezza di cui fanno vanto alcune forze politiche. Lo so da me che i centri per i rimpatri, o come si chiamavano prima i Cie e prima ancora i Cpt, sono luoghi di cui davvero vorremmo fare a meno perché non onorano la nostra civiltà giuridica e nemmeno i valori della nostra comunità civile. Capisco però che il tema della detenzione amministrativa non può essere liquidato con la semplicità dei buoni propositi e che invece è un’esigenza legata alle situazioni che impongono un rimpatrio forzato di persone che non solo non hanno titolo, ma soprattutto non hanno rispettato le regole del nostro Paese. Allora in primo luogo andrebbe esplorata la disponibilità del migrante ad accettare un rimpatrio concordato e immediato nei Paese di origine. E questo, a prescindere dai motivi umanitari, ci farebbe risparmiare un po’ di soldi. Peraltro aumenterebbe il numero delle persone che rientrerebbero nei loro Paesi. In mancanza di questa disponibilità, la sostenibilità della detenzione amministrativa è determinata dalla qualità dei servizi offerti, dalla professionalità degli enti gestori, dalla formazione delle forze di polizia, i soli pilastri che possono rendere accettabile un luogo di disperazione come il Cpr. Ricordo, penso di non essere il solo, che proprio a Gradisca, in attesa del perfezionamento delle procedure per il rimpatrio, era organizzata un’attività di formazione professionale per consentire a queste persone, al loro ritorno, di avere qualche strumento in più per il reinserimento. Venivano svolte varie attività sportive, tra cui naturalmente quella del calcio, e veniva offerta alle istituzioni, non solo pubbliche, una trasparenza della vita interna attraverso l’accesso di organizzazioni e organi di informazione. Una particolare attenzione era dedicata alle donne e alla complessità della loro sofferenza attraverso l’impegno di professionisti, mentre era a disposizione una struttura legale per chi ne avesse avuto bisogno. Tutto questo non rappresentava una soluzione ad un problema doloroso, ma parte della necessità; in ogni caso era un contesto più umano e soprattutto più generoso verso coloro erano stati privati della libertà personale. Ed è tutto questo che si è voluto eliminare con il taglio dei servizi previsto dal primo Decreto Sicurezza di cui non ci vergogneremo mai abbastanza. Cpr di Gradisca d’Isonzo. “Persone e non solo questioni migratorie” di Mauro Ungaro Voce Isontina, 27 gennaio 2020 Una riflessione dopo la morte di un cittadino georgiano nel Cpr di Gradisca. Sarà la magistratura ad individuare le responsabilità nella vicenda di Vakhtang Enukidze, il cittadino georgiano morto al Cpr di Gradisca d’Isonzo. Il dato che balza agli occhi, però, ancora una volta è l’insostenibilità di un sistema che dovrebbe avere proprio in questi Centro di permanenza per il rimpatrio uno dei suoi punti di riferimento in tema di politiche di migrazione ed accoglienza e che invece è riuscito a trasformarli in uno di quei tragici “non-luoghi” così diffusi anche nei nostri territori. I Cpr nascono come centri di detenzione amministrativa destinati ad ospitare persone non comunitarie che siano state rintracciate prive di documenti regolari di soggiorno oppure siano destinatarie di un provvedimento di espulsione dal nostro Paese (ed attendano quindi l’accertamento dell’identità e l’accettazione del ritorno nel Paese d’origine da parte di quelle autorità). La permanenza, al loro interno, può durare sino a 180 giorni: il Garante nazionale per i detenuti ha più volte sottolineato che c’è ben poca differenza fra un Cpr ed i comuni istituti penitenziari. Uomini che non sono riusciti a rinnovare il proprio permesso di soggiorno (magari perché il datore di lavoro li ha licenziati) accanto a chi, da pregiudicato, giunge al Cpr direttamente dal carcere dove era stato rinchiuso per scontare una pena: una miscela esplosiva le cui vittime sono quanti nel Cpr vengono detenuti ma anche coloro che in tali strutture si trovano, a vario titolo, a dover lavorare. In un Paese come il nostro in campagna elettorale perpetua, il tema delle migrazioni attende da decenni di essere affrontato mettendo da parte preconcetti e paure partendo dalla presa d’atto che stiamo parlando prima di tutti di persone: “sono persone - ha ricordato papa Francesco nell’omelia della messa dello scorso 8 luglio nel sesto anniversario della sua visita a Lampedusa - non si tratta solo di questioni sociali o migratorie! ‘Non si tratta solo di migranti’ nel duplice senso che i migranti sono prima di tutto persone umane e che oggi sono il simbolo di tutti gli scartati della società globalizzata”. Cercare di ripartire da qui, potrebbe permettere di evitare il ripersi di quanto accaduto a Vakhtang ed a tanti altri che come lui in questi mesi, in questi anni hanno trovato la morte nei non-luoghi per migranti in tutto il nostro Paese. “Nel centro di Gradisca situazione fuori controllo. Verità sul migrante morto” di Fabio Tonacci La Repubblica, 27 gennaio 2020 Riccardo Magi, parlamentare di +Europa, parla del caso del georgiano Vakhtang Enukidze trovato privo di conoscenza nel Centro di permanenza per i rimpatri di Gradisca e poi morto in ospedale, Onorevole Riccardo Magi, a proposito del georgiano Vakhtang Enukidze trovato privo di conoscenza nel Centro di permanenza per i rimpatri di Gradisca e poi morto in ospedale, lei ha evocato lo spettro del caso Cucchi. Ci spiega? “Quando una persona muore mentre è in custodia di una struttura dello Stato dobbiamo sentire l’urgenza che venga fatta chiarezza in tempi brevi. Sui media erano uscite versioni un po’ sbrigative, che volevano il decesso di Enukidze frutto di una rissa tra reclusi nel Cpr. Ho parlato di rischio di un nuovo caso Cucchi rispetto a versioni liquidatorie, soprattutto a fronte di alcune testimonianze, tutte da verificare, che parlano di un pestaggio da parte degli agenti di polizia. Non volevo accusare nessuno”. Cosa ha visto durante le sue due visite al Cpr? “Domenica notte, il giorno dopo il decesso, vado a Gradisca e mi apre un poliziotto in tenuta antisommossa, col casco in testa e il manganello in mano. Capisco che ci sono agitazioni e tensioni. In portineria sento gli agenti dire “c’è molto sangue in giro, perché uno si è tagliato”. Durante la visita trovo migranti con profondi tagli autoinflitti sulle braccia e sull’addome. Alcuni sembrano in stato semi-confusionale, indice di un uso massiccio di calmanti e psicofarmaci”. Con chi ha parlato? “Inizialmente con un egiziano di 27 anni, che era nella cella 1 della zona verde (il Cpr è diviso in zona rossa e zona verde, ndr), la stessa di Enukidze. Mi racconta che il 14 gennaio il georgiano è stato picchiato da otto-dieci agenti intervenuti per sedere una colluttazione”. Quante testimonianze le hanno confermato questa circostanza? “Complessivamente otto. Il lunedì successivo torno e altri detenuti mi spiegano che Enukidze è stato pestato tre volte dalle forze di polizia interne al Centro. Uno dei più anziani mi descrive la dinamica dell’intervento del 14 gennaio, spiegandomi che gli agenti hanno colpito Enukidze alla nuca, poi alla schiena con una ginocchiata, infine l’hanno immobilizzato e trascinato via per i piedi”. Cosa ha scatenato la rissa? “Stando a uno dei gestori del Cpr, Enukidze ha spaccato dei pannelli di plexiglass per ricavarne delle schegge appuntite, non so se le voleva usare come armi o per ferirsi. Gli agenti gli hanno ordinato di gettare le schegge, lui si è rifiutato ma a quel punto è stato il ragazzo egiziano a buttarle via. Da lì la rissa”. Schegge di plexiglass, risse, proteste, agenti in assetto antisommossa, materassi - è notizia di ieri - date alle fiamme. Ma che sta succedendo in quel Cpr? “È una struttura fuori controllo, i reclusi sono in stato di abbandono. Non ci sono spazi di socialità, non c’è la mensa, tutti lamentano difficoltà a ottenere informazioni di tipo legale. È un Cpr nuovo, eppure i detenuti hanno a disposizione telefoni fissi che funzionano con le vecchie schede magnetiche della Telecom. Praticamente inservibili”. Non hanno i cellulari? “Sì, però a volte glieli tolgono. La notte della mia visita i poliziotti mi hanno detto di aver sequestrato i telefonini, perché era uscito un video girato all’interno del Cpr. Per questo, se li vogliono tenere, sono obbligati a rompere la telecamera del telefonino con un cacciavite”. Libia. Haftar scalpita ed è di nuovo guerra di Francesco Battistini Corriere della Sera, 27 gennaio 2020 Prima che a Mosca o a Berlino, dove si sapeva che le conferenze di tregua sarebbero fallite, i tripolini avevano già capito che in Libia sarebbe finita come sempre. Ma come sarà il Day Haftar? Prima che a Mosca o a Berlino, dove si sapeva che le conferenze di tregua sarebbero fallite, i tripolini avevano già capito che in Libia sarebbe finita come sempre. Con la solita guerra di posizione. Con le solite posizioni in guerra fra loro. Domani, sulle montagne di Bani Walid, a riunirsi e a parlare di pace ci provano i capi delle tribù: è solo un po’ d’orgoglio della volontà - il futuro della Libia si decide qui, non a casa di Putin o della Merkel! - accompagnato a un ragionevole pessimismo. La verità è che la soluzione politica non c’è più. E in questa fase, le sole analisi possibili sono quelle militari. Precisi come un chirurgo, ieri i razzi del feldmaresciallo Haftar hanno colpito il posteggio dell’aeroporto di Mitiga: dopo l’altolà ai voli civili, è il segnale che si punta al progressivo isolamento della capitale. In dieci mesi, l’attacco a Tripoli s’è esteso da un piccolo fronte di cinque chilometri a una stretta tenaglia di ventidue. Vai in periferia e sei subito in prima linea. L’esercito di Serraj ha perso quasi tremila dei cinquemila uomini che gli servono e può contare sempre meno sulle milizie misuratine, a loro volta messe in affanno dall’avanzata di Haftar: da Misurata hanno richiamato i soldati in tutta fretta, basta difendere la capitale, ora c’è da riprendere Sirte e impedire che i cirenaici replichino l’assedio. Per evitare la disfatta, così, Serraj ha avuto bisogno di rimpiazzare rapidamente le perdite: ecco il perché della richiesta urgente a Erdogan d’inviare i tremila mercenari siriani. Quando arriverà il Day Haftar? Dipende. Dalla capacità dell’aspirante Gheddafi di rompere l’asse militare Tripoli-Misurata e di scegliere bene: se far cadere la capitale oppure la città che la protegge. Il maresciallissimo ha fretta, prima che gli strateghi turchi prendano il controllo delle operazioni a Tripoli. Anche i tripolini scalpitano, però: come vittime sacrificali, spaventati da una guerra che può diventare eterna, molti pensano che la toppa turca sia peggio dello strappo di Haftar. E che una fine con orrore sia meglio d’un orrore senza fine.