Sostenete Ristretti Orizzonti! facebook.com, 26 gennaio 2020 Perché così sostenete anche la nostra Rassegna Stampa quotidiana. Un servizio giornaliero gratuito on line, nato nel 2001 nella Casa di Reclusione di Padova da alcuni pionieri appassionati (Francesco e Ornella). Per qualche tempo la pubblicazione è stata irregolare, le pagine venivano portate fuori dal carcere su DVD e poi caricate nel sito. Da maggio 2004 la pubblicazione è diventata quotidiana: http://www.ristretti.it/commenti/2004/maggio/index.htm, mancavano alcuni giorni, le domeniche... perché ...chi la faceva era in art. 21 e le domeniche non usciva. Gli iscritti all'epoca erano circa 500, quasi tutte persone impegnate nel volontariato in carcere. Dal 2005 il notiziario è diventato davvero "quotidiano" ed esce anche la domenica. Nel 2006 gli iscritti superano "quota" 1.000, nel 2010 superano quota 5.000 e le e-mail lette in un anno arrivano a 1 milione. Iscrizione gratuita a questo link: http://www.ristretti.it/registrazione.html La rassegna stampa oggi... e la prima notizia pubblicata! I nostri numeri oggi 365 notiziari inviati 10.000 notizie circa complessivamente divulgate 500 documenti "tecnici" di approfondimento divulgati 500 appuntamenti e iniziative pubblicizzate 9.000 iscritti alla newsletter, il 60% la leggono ogni giorno (complessivamente oltre 2 milioni di e-mail lette in un anno) Tipologie iscritti: 1) operatori del diritto: avvocati, magistrati, operatori penitenziari, volontari, etc. (circa 1.000 sono dipendenti del Ministero della Giustizia: direttori di carceri, educatori, etc. etc.) 2) operatori sociali in genere: associazionismo, insegnanti, pubbliche amministrazioni, etc. 3) giornalisti, circa 400 testate nazionali e locali iscritte 4) rappresentanti politici nazionali e locali: circa 30 parlamentari leggono quotidianamente, altri 70 almeno una volta la settimana Battesimo on line nel 2001: numero "zero" con una notizia In ricordo di Charles, detenuto gentiluomo Il Gazzettino, 30 novembre 2001 Tre giorni fa, mentre rientrava in bicicletta al carcere Due Palazzi, un detenuto svizzero è stato travolto e ucciso. In ricordo di Charles, riceviamo e pubblichiamo questa lettera. "Voglio ricordare Charles, morto l’altra notte in un banale incidente in via Due Palazzi. Voglio ricordarlo perché mancherà, credo, per lui in questi giorni l’usuale rito del dolore che accompagna chi muore. Mancherà, e non sarà colpa di nessuno, perché lui è: solo, svizzero in Italia, detenuto. Scrivo perché, a dispetto della sua solitudine, siamo in molti, nella Casa di Reclusione, a ricordarlo con affetto e simpatia. I detenuti, perché lui, ultrasessantenne, era con tutti squisito, generoso, disponibile, assolutamente non competitivo, nonostante eccellesse in tutto, qualunque cosa facesse: le torte (la cui fama era leggendaria al Due Palazzi) o i lavori, sia manuali che dell’intelletto. Gli operatori che ne ricordano la correttezza. Gli insegnanti, della scuola Parini e della scuola Gramsci che hanno conosciuto in lui la vivacità intellettuale, la cultura, la curiosità mai sopita per il sapere. Lo ricordo con piacere il suo esame di licenza media. Fu un lungo divertente colloquio, divertente ma molto serio. Nel dialogo interdisciplinare seguimmo il filo degli argomenti d’esame parallelamente al filo della sua lunga e complessa vita: passammo dalla via dei diamanti (geografia), alla gemmologia (scienze naturali), con divagazioni sulle casseforti (era piuttosto competente) e in francese sulla Svizzera. Fu un vero esame, basato sulla verifica delle conoscenze, ma giocato per tacito e istintivo accordo anche sul filo dell’ironia, del ricordo, della ricostruzione anche critica della propria esistenza. Un’ora di conversazione in cui lui ci sembrò, come sempre, intelligente, preparato e soprattutto, parola fuori moda e che poco si adatta a un delinquente, un gentiluomo. Quel poco che so della sua vita è quanto ricordo di quel colloquio: parlò di una famiglia agiata e per bene e del suo percorso nel mondo del crimine come sfida a quel perbenismo, come costruzione di una identità autonoma, e della sua vita come continuo apprendistato del vivere. Non cercava in noi coinvolgimenti, né giustificazioni. Si proponeva senza narcisismo, con senso critico e auto ironia e, soprattutto, dignità Nella sezione Semiliberi, dove pernottava, i detenuti hanno subito raccolto soldi per mettere dei fiori là dove è morto. Ma attenti, dice un compagno, non esageriamo con le nostre manifestazioni di dolore, Charles ne avrebbe sorriso, era un laico vero, non avrebbe dato troppo peso alla propria morte". Rossella-Insegnante Centro Territoriale Scuola Parini di Camposampiero Cartabia: “L’articolo 27 della Costituzione parla di pena, non di carcere” Il Dubbio, 26 gennaio 2020 L’intervento della presidente della Corte costituzionale. Le carceri sono sovraffollate, ne servono di più? “L’articolo 27 della Costituzione parla di pena, non di carcere. Noi abbiamo una tradizione centrata sul carcere, ma la Costituzione lascia un campo molto aperto e non è detto che il carcere sia sempre la pena più adeguata”. Lo ha detto la presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, intervenendo al convegno “Viaggio in Italia. La Corte Costituzionale nelle carceri”, organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’università “La Sapienza”. “Se dovessimo immaginare un carcere - ha poi osservato Cartabia rispondendo alle domande degli studenti immaginiamone uno con le finestre e le porte. Questo è scritto nell’articolo 27 della Carta Costituzionale”. L’assordante silenzio degli innocenti di Gian Domenico Caiazza* Gazzetta del Mezzogiorno, 26 gennaio 2020 È il destino più infame, quello degli innocenti. Si chiamano così perché sono stati, un tempo e per lungo tempo, presunti colpevoli. La storia dell’innocente è dunque una storia di dolore, e assai raramente di completo riscatto. Quando la tua vita viene marchiata dal sospetto, dunque dall’accusa di aver commesso un reato, lo è per sempre. Se poi quel sospetto è stato valutato così grave e fondato da portarti in carcere, non c’è salvezza. Sarai per sempre guardato in un modo diverso e, quel che più conta, ti sentirai sempre guardato in modo diverso. Da presunto colpevole, l’innocente ha vissuto sulla propria pelle i morsi feroci della riprovazione sociale. I vicini di casa ti evitano, il lavoro o è perso o è gravemente pregiudicato, gli amici si dileguano, i figli a scuola dovranno vergognarsi di te. E chissà poi come ti guardano, i figli, cosa pensano davvero. Ecco cosa è, nella realtà, un “innocente”, perfino se non sia passato dalla galera. Ed ecco perché l’innocente preferisce, di norma, il silenzio sul suo passato di presunto colpevole. O sei Enzo Tortora, e trovi la forza di parlare e di lottare per tutti gli altri, o preferisci, piuttosto che far rivivere l’incubo anche solo raccontandolo, tacere e camminare rasente i muri. Lei sa, Signor Ministro Bonafede, che non è mio costume speculare su incidenti altrui, e ridere scompostamente di chi inciampa. Ho anche letto la sua precisazione, che questa volta francamente fatico a comprendere. Ci mancherebbe pure che l’assolto debba poi andare in galera! Ma qui mi preme che Lei comprenda seriamente cosa possano aver significato le sue parole -”gli innocenti non vanno in carcere”- per le decine, anzi le centinaia di migliaia di persone che hanno vissuto quell’incubo. E lasci perdere le condanne per ingiusta detenzione. Davvero pensa che sia quella la contabilità reale di chi ha ingiustamente patito il carcere? Lei è drammaticamente fuori strada, Signor Ministro. Si tratta di una piccolissima parte di quelli che hanno vissuto ingiustamente da colpevoli. Ma lei ama occuparsi di vittime. Come tutti i populisti giustizialisti, Le è più comodo, facile ed utile, senza preoccuparsi se il presunto carnefice possa essere a sua volta la prima e la più tragica delle vittime. Questo d’altronde è esattamente il discrimine tra l’idea liberale e quella populista della giustizia penale. Per i primi, diversamente dai secondi, il prezzo più alto che una società possa pagare non è un colpevole impunito, ma un innocente in galera. In verità, andiamo ben oltre il pensiero liberale. Si tratta di una idea fondativa della civiltà umana, dal “in dubio pro reo” del 530 dopo Cristo al contemporaneo “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Il sistema processuale, signor Ministro, è ab origine concepito per prevenire questa tragedia, l’innocente in galera, l’unica davvero intollerabile. Altro che “certezza della pena”. La facilità con la quale Lei ha potuto dire ed anche ripetere quelle parole non è dunque un incidente, ma la esatta spia del punto di vista politico che Lei esprime. È un problema di priorità, di cosa si abbia innanzitutto in testa quando si parla di processo, di sanzione, di pena, di innocenti e di colpevoli. Ed è il punto di vista che ha portato Lei, coerentemente con il risultato elettorale, ad essere Ministro di Giustizia del nostro Paese, ed a firmare le leggi che ha firmato. Leggi per “spazzare via” la corruzione (a proposito, complimenti per i brillantissimi risultati, sotto gli occhi di tutti), e per introdurre la categoria dell’imputato a vita, con la nota abrogazione della prescrizione. Sono leggi che vengono concepite da chi vive letteralmente ossessionato dal colpevole impunito, mai dall’innocente massacrato. Di norma gli innocenti condannano sé stessi al silenzio. Ma noi avvocati le loro storie le conosciamo, e non abbiamo nessuna intenzione di tacere. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Il Guardasigilli e la storia di Tortora di Pietro Mancini Libero, 26 gennaio 2020 Sono migliaia gli innocenti in cella. Dal 1992 ben 27.200 casi di ingiusta detenzione. Indennizzi per quasi 740 milioni. La figlia di Enzo Tortora, Gaia, giornalista de “La7”, ha chiesto ad Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia, di spiegare la frase pronunciata nel programma “Otto e mezzo”: “Gli innocenti non finiscono in carcere”. “Sono innocente. Lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi da questo dibattimento! Io sono innocente, spero, dal profondo del cuore, che lo siate anche voi”. Queste le parole con cui, nel settembre 1986, Enzo Tortora concluse le proprie dichiarazioni al processo d’Appello, che lo assolverà. Tre anni prima, venerdì 17 giugno 1983, il più noto presentatore televisivo italiano era stato svegliato, alle 4 del mattino, dai Carabinieri, mentre dormiva all’Hotel Plaza di Roma, e arrestato per traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Spostato, in manette, con le tv che ne inquadrarono bene i ferri e con i giornali che stamparono molte pagine sulla vicenda, vergando articoli colpevolisti, con poche autorevoli eccezioni, in primis Vittorio Feltri ed Enzo Biagi. Nel giugno del 1984, Tortora venne eletto deputato al Parlamento europeo, nelle liste del Partito Radicale di Pannella, che ne sostenne le battaglie giudiziarie. Il 17 settembre 1985, il conduttore venne condannato a 10 anni di carcere, dopo un processo basato sulle dichiarazioni, mendaci e senza riscontri, di alcuni camorristi “pentiti”. Tali panzane erano state esternate dai pregiudicati Giovanni Pandico, Giovanni Melluso, detto “Gianni il bello”, Pasquale Barra, autore di 67 omicidi, noto come assassino di detenuti, quand’era in carcere, e per aver tagliato la gola, squarciato il petto e addentato il cuore di Francis Turatello, uno dei capi della malavita milanese. Il 31 dicembre 1985, Tortora si dimise da europarlamentare e, rinunciando all’immunità, restò agli arresti domiciliari. Il 15 settembre 1986, l’ex eurodeputato venne assolto, con formula piena, dalla Corte d’appello di Napoli, dopo 7 mesi di cella e arresti domiciliari. Il giornalista tornò in Rai, il 20 febbraio del 1987, ricominciando il suo Portobello. Morì il 18 maggio 1988, a 60 anni, nella sua casa di Milano, distrutto da quello che, retoricamente, viene definito un “male incurabile”. In quel caso, non si sa se sostituì il termine “tumore” o “ingiustizia”. 1768 giorni separarono l’inizio del calvario dalla fine della sua esistenza. Ricordando l’acredine dei colleghi nei suoi confronti, Vittorio Feltri - che, all’epoca, inviato speciale del Corriere della Sera, difese il collega - ha definito, nel suo bel libro “L’Irriverente”, il caso-Tortora “una congiura nei confronti di una persona che, essendo innocente, non è stata in grado di difendersi perché, quando non hai colpe, sei prostrato e indignato per le accuse. Accade ancora. Lo hanno ammazzato. È morto Tortora. Massacrato dai magistrati e dai giornalisti”. Le toghe - che ordinarono la cella per Tortora senza l’ombra di un controllo bancario, un pedinamento, un’intercettazione telefonica, basandosi solo sulle parole di spietati criminali - hanno fatto splendide carriere. Di Pietro, che si autodefiniva il “Maradona del diritto”, ascese al vertice della Procura generale di Salerno, Di Persia fu membro del Csm, l’organo di autocontrollo dei giudici, ma Cossiga, allora Presidente, rifiutò di stringergli la mano durante un plenum. Diego Marmo, pm in primo grado, dipinse l’imputato come “un cinico mercante di morte, un uomo della notte ben diverso da come appariva a Portobello”. Luigi Sansone, il Presidente della Corte d’Assise, fu promosso al vertice della sesta sezione penale della Cassazione, il focoso Marmo guidò la Procura di Torre Annunziata e, solo 30 anni dopo, chiese scusa ai familiari della vittima del grave caso di malagiustizia. Nessuno dei delatori sbugiardati venne incriminato per calunnia. Ma tutto questo Alfonso Bonafede non lo sa. Come, forse, ignora che, dal 1992 al settembre 2018, si sono registrati oltre 27.200 casi di ingiusta detenzione: in media, 1.007 innocenti in prigione ogni anno, per una spesa che sfiora i 740 milioni di euro in indennizzi. Quelle verità mancanti sul migrante morto nel Centro rimpatri di Luigi Manconi La Repubblica, 26 gennaio 2020 La vicenda di Gradisca solleva interrogativi ai quali solo le indagini potranno dare risposta. A partire dall’autopsia in programma domani. Questa è la scena. Un giovane straniero, dalla finestra di una stanza comune, all’interno del Centro di permanenza per il rimpatrio di Gradisca (Gorizia), osserva quanto avviene nel cortile antistante. Qui una decina di agenti di polizia stanno picchiando un immigrato che, una volta caduto, viene ancora sottoposto a violenze e poi trascinato via. Il giorno dopo il giovane straniero viene espulso e torna nel paese d’origine. Qui apprende della morte dell’uomo sottoposto a violenze, il georgiano Vakhtang Enukidze, 38 anni; e in una conversazione telefonica, registrata dal deputato Riccardo Magi, riferisce quanto afferma di aver visto. Dichiara, inoltre, di essere disposto a tornare in Italia per testimoniare. Fatto importantissimo perché, nel frattempo, si sono avute informazioni attendibili circa l’avvenuta espulsione di alcuni possibili testimoni che, una volta rientrati nel paese d’origine, potrebbero risultare non più reperibili. Quanto fin qui scritto è, ovviamente, tutto da verificare. Posso, tuttavia, rendere testimonianza della serietà e dello scrupoloso rigore di Riccardo Magi, che ha visitato il Centro di Gradisca, proprio nel corso di quei giorni e di quelle ore in cui è avvenuta la tragedia. La procura di Gorizia ha avviato un’indagine per omicidio volontario e, dunque, c’è da attendere con fiducia i primi atti (l’autopsia del corpo di Enukidze si terrà domani). Che si tratti di una questione di grande rilievo, meritevole della massima attenzione, lo si deduce dalle parole pronunciate, subito dopo il fatto, da Franco Gabrielli, capo della polizia. Gabrielli ha perfettamente ragione quando afferma che accusare gli agenti per la morte del georgiano “prima che l’autorità giudiziaria non si sia espressa su eventuali responsabilità” non è una buona cosa. E ha anche una qualche ragione quando dice che “fare parallelismi a dir poco arditi... con vicende per le quali sono stati impegnati anni e processi” (la morte di Stefano Cucchi) è un errore. Ma ha meno ragione quando respinge con troppa nettezza, e senza concedere nulla al dubbio, l’ipotesi che l’immigrato georgiano possa essere stato vittima di violenza a opera di appartenenti alle forze di polizia. Il parallelismo con la vicenda di Stefano Cucchi può risultare particolarmente fastidioso per i responsabili dell’ordine pubblico del nostro Paese, ma non può scandalizzare troppo e non può essere escluso a priori. Così come può risultare sgradito a una persona intelligente e colta, quale è Gabrielli, ricordargli quanto accadde dieci anni fa. Quando Cucchi trovò la morte, nel reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini, l’allora ministro della Difesa, Ignazio La Russa, si affrettò dichiarare che i carabinieri “per loro stessa natura”, non potevano essere coinvolti in quella tragica storia. Ancora: la frase di Gabrielli sugli “anni e processi” che si son dovuti attendere prima della condanna dei responsabili della morte di Cucchi suona, ahi noi, non troppo felice. Si è buttato via un lunghissimo decennio, fatto di sofferenze, aspettative frustrate e umiliazioni dei familiari (oltre che delle nostre istituzioni), perché la magistratura aveva condotto una prima indagine rivelatasi fallimentare. E perché, soprattutto, una insidiosa opera di alterazione dei fatti e di manipolazione della verità venne messa in pratica da colleghi, graduati e ufficiali superiori dei carabinieri coinvolti. E sempre a proposito del trascorrere crudele del tempo che mortifica le vittime e rischia di vanificare la giustizia, è proprio il capo della polizia a essere uno dei più autorevoli testimoni. Dal momento che è stato proprio lui con un atto di notevole coraggio a dichiarare che “il G8 di Genova era stata una catastrofe”, parole importanti ma pronunciate (non per colpa di Gabrielli ma dei suoi predecessori) a ben sedici anni dagli avvenimenti. Questa sensazione di eterno ritardo, di un atteggiamento ondivago, fatto di dilazioni e differimenti, di occasioni mancate, di precipitosi passi indietro e di imbarazzate giustificazioni, produce un’atmosfera soffocante e deprimente, che non giova in primo luogo alle stesse istituzioni che si pretende di tutelare. Non è solo naturale, ma è anche giusto, che il capo della polizia difenda i suoi uomini, ma sarebbe opportuno che lo si facesse senza posizioni precostituite e preventivamente assolutorie, che finiscono col riprodurre gli stessi giudizi sommari di quanti accusano per partito preso le forze di polizia. Mi è capitato, per una serie di vicende legate alla mia vita politica, di incontrare nel 2013 il capo della polizia, Alessandro Pansa, insieme ai familiari di Federico Aldrovandi, dopo la sentenza di Cassazione che aveva confermato la condanna dei suoi assassini in divisa. E, ancora, nel 2017, Ilaria Cucchi e io fummo ricevuti dal comandante generale dell’Arma dei carabinieri, Tullio Del Sette. In entrambe le circostanze (e in altre ancora) ho ascoltato parole - che avvertivo come sincere - di partecipazione al lutto, di solidarietà per le vittime e talvolta anche di riflessione che poteva apparire autocritica. Ma sempre ho avvertito questo clima di irreparabile ritardo, di dissipazione di tempo che corrispondeva, fatalmente, a una crisi di fiducia e a uno scialo di sofferenza. E questo perenne differimento è, appunto, il risultato di una incapacità cronica ad accettare che lo Stato, attraverso i suoi apparati e i suoi uomini, possa sbagliare, anche delittuosamente. Possa tradire il suo mandato e diventare nemico dei suoi cittadini e di coloro, come il migrante georgiano, che nemmeno sono cittadini italiani e che solo per questo sono destinati ad avere meno tutela e meno protezione, anche dopo la morte. Il garantismo è un valore universale perché, tra l’altro, non è classista. Io riesco a essere garantista, sia pure talvolta faticosamente, persino nei confronti di Matteo Salvini, anche perché voglio esserlo e lo sono nei confronti dei poliziotti e dei carabinieri e di Vakhtang Enukidze. Prima del morto roghi e fughe: “Gradisca è una polveriera” di Vincenzo Bisbiglia Il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2020 Cresce l’allarme sul Centro di detenzione in cui è spirato il georgiano Enukidze. Il Siulp: “In un mese 40 tra incendi e atti vandalici, non dovrebbe gestirlo la polizia”. Quaranta atti vandalici gravi. Materassi bruciati, porte sfondate, strutture danneggiate. Tre tentativi di fuga, di cui due riusciti, solo a gennaio. E poi risse quotidiane e atti di autolesionismo. Il tutto a poco più di un mese dall’inaugurazione. “Il Centro di permanenza per il rimpatrio di Gradisca d’Isonzo - ammette Giovanni Sammito, segretario provinciale e membro del direttivo nazionale del Siulp, fra i sindacati più rappresentativi della polizia di Stato - è una polveriera”. E in Italia non è il solo. Nella struttura riaperta il 16 dicembre in provincia di Gorizia, il 18 gennaio è stato trovato morto il 38enne georgiano Vakhtang Enukidze. Secondo le testimonianze di una decina di migranti, amplificate dalla denuncia delle associazioni e dei Radicali, l’uomo sarebbe deceduto dopo una colluttazione con un gruppo di agenti, intervenuti per sedare una rissa con un egiziano. I testimoni-chiave sono stati tutti rimpatriati nei giorni successivi. Uno di loro si è reso disponibile a tornare in Italia per testimoniare nell’eventuale processo. Una storia giovane, quella della struttura aperta a fine 2019 nell’ex caserma “Ugo Polonio”, a un cancello di distanza da un Centro di accoglienza per richiedenti asilo. Il 20 gennaio, commentando la morte dí Enukidze, il prefetto Massimo Marchesiello ne sottolineava le “criticità strutturali”. Solo due settimane prima tre ospiti erano riusciti a eludere la sorveglianza e a fuggire. Il 12 gennaio otto persone avevano saltato il muro di cinta alto 4 metri: solo in tre sono stati riacciuffati. L’ultimo tentativo il 17, quando un piccolo gruppo di migranti ha provato a scappare da una camera scavando un tunnel che avrebbe dovuto portarli aldilà del muro esterno, ma è stato fermato. Spesso, poi, gli ospiti danneggiano le strutture. “In meno di un mese abbiamo registrato oltre 40 episodi tra incendi e atti di vandalismo”, spiega Sammito. Una situazione difficile, causata anche dalla coabitazione tra persone che hanno commesso reati e semplici migranti. Da un punto di vista normativo, infatti, i Cpr non sono carceri, perché le persone “ospitate” sono solo in attesa del rimpatrio: chi è stato condannato ha già scontato la pena in galera, mentre gli altri sono senza documenti o hanno irregolarità col passaporto. Così “si ritrovano insieme delinquenti e persone normali - spiega Sammito - e tutto ciò crea caos”. Per questo “il Cpr di Gradisca è come un carcere, anzi peggio - continua il sindacalista. Dovrebbe gestirlo la Polizia penitenziaria, che ha altri protocolli. Quella di Stato non si trova dentro la struttura, ma interviene su richiesta del gestore, una cooperativa, per fare il lavoro sporco”. Difficile anche la comunicazione: “Non ci sono mediatori o interpreti - dice - 60 persone parlano lingue incomprensibili a fronte di agenti che spesso hanno difficoltà con l’inglese”. Ci sono versioni contrastanti sul fatto che Enukidze possa aver partecipato alla fuga del 12 gennaio: qui, secondo le ricostruzioni sommarie, il georgiano avrebbe perso il suo telefonino, episodio che ha scatenato la rissa con l’egiziano per la quale sono intervenuti i poliziotti. Un’altra testimonianza, raccolta dal “Collettivo Tilt”, parla di due “pestaggi” da parte della polizia. Sammito invita alla cautela: “I magistrati stanno visionando i filmati - afferma - se qualcuno ha commesso abusi o ha perso la testa, verrà sanzionato. Ma da qui a dire che la morte del georgiano sia stata causata dall’intervento degli agenti, ce ne vuole”. Alcune testimonianze, nota Sammito, parlano di atti di autolesionismo da parte di Enukidze: “Inoltre, c’è il problema dell’infermeria, che è in sotto numero”. Quello friulano è il secondo Cpr più grande d’Italia, dopo quello di Torino: ce ne sono 8 in tutto il Paese: Trapani, Caltanissetta, Ponte Galeria, Potenza, Bari, Torino e Brindisi, oltre a Gradisca. Che dovrebbe contenere 150 persone, ma per ora la capienza è limitata a 66 a causa di lavori di ristrutturazione. Il Cpr è “strategico” per la sua posizione molto vicina al confine nord-est del Paese, porta aperta alla rotta balcanica, ha sottolineato il viceministro dell’Interno Vito Crimi il 9 gennaio in una risposta a un’interrogazione della deputata del M5S Sabrina De Carlo. Anche le altre strutture sono in sofferenza. Su tutte quella di Torino: “Il 94% degli ospiti- spiega Felice Romano, segretario nazionale del Siulp - ha scontato pene per omicidi, tentati omicidi e stupri. Gli altri sono solo migranti senza documenti. La struttura è stata devastata diverse volte - conclude il dirigente - 25 giorni fa sono state date alle fiamme ben quattro aree. Sono stati devastati 112 posti su 160”. Politica e magistratura. Il processo penale non risolve tutto di Giuseppe Pignatone La Stampa, 26 gennaio 2020 “L’equilibrio (perduto) dei poteri” è il titolo di un recente articolo di Angelo Panebianco sul rapporto tra politica e magistratura. Rapporto che - argomenta Panebianco - sarebbe cambiato una trentina di anni fa con il passaggio dalla Prima Repubblica, la Repubblica dei partiti, in cui “semplicemente l’ordine giudiziario era subordinato al potere politico”, all’attuale Repubblica “giudiziaria” che vedrebbe la situazione capovolta. Questa analisi, ormai ampiamente diffusa, costituisce anche la base per le frequenti accuse mosse alla magistratura nel suo insieme - in particolare a Procure e singoli magistrati - di avere ampliato a dismisura il proprio campo di azione e di abusare del potere conferitole sia per acquisire vantaggi personali e di categoria sia, ipotesi ben più grave, per condizionare aspetti fondamentali della vita del Paese. Va detto subito, con onestà, che di abusi ce ne sono. E sono proprio le cronache giudiziarie a darne conferma (il che indica, comunque, lo sforzo della stessa magistratura per fare pulizia al suo interno). Credo, però, che ricondurre a banali smanie di protagonismo o, peggio, a un raffinato disegno strategico protratto per decenni, un fenomeno rilevante come l’eccesso di intervento dei magistrati nella vita politica, economica e sociale del Paese, sia un eccesso di semplificazione dettato da esigenze polemiche. E, quel che più importa, una tesi errata nella sostanza. Un fenomeno diffuso Innanzitutto il fenomeno non è solo italiano, ma caratterizza il mondo occidentale nel suo complesso. L’espressione “democrazia giurisdizionale” fu coniata dal ministro francese della Giustizia Robert Badinter già nel 1981 e tutti ricordiamo esempi clamorosi come l’esito delle elezioni presidenziali americane del 2000, decise dalla Corte Suprema, o la recentissima sentenza con cui la magistratura inglese ha annullato la sospensione dei lavori del Parlamento di Westminster deciso dalla Regina su richiesta del premier Boris Johnson. In realtà, le cause profonde della dilatazione dell’intervento giurisdizionale sono comuni a tutte le democrazie avanzate perché le risorse disponibili non sono sufficienti a far fronte alla richiesta crescente per il soddisfacimento di esigenze, individuali e collettive, percepite ormai come diritti che giustificano il ricorso al giudice. Nella stessa direzione spinge la diminuzione del senso di appartenenza a una comunità in cui ai diritti degli uni corrispondono i diritti degli altri, che li limitano creando dei doveri. In queste condizioni la politica, spesso molto debole per un insieme di ragioni, non riesce più a dettare regole chiare, ma si limita a dare indicazioni di massima, non di rado incerte e tra loro contraddittorie, per non scontentare nessuno degli attori e degli interessi in gioco. In definitiva, il potere legislativo lascia l’interpretazione e l’applicazione concreta al giudice. Il quale, peraltro, si trova ormai prigioniero “nel labirinto” delle leggi - come lo ha definito il giurista Vittorio Manes - perché alle norme statali si aggiungono e sovrappongono, non sempre coerentemente, quelle locali, quelle europee e quelle che derivano da convenzioni internazionali. La vicenda dell’Ilva di Taranto, nella sua drammaticità, è emblematica di questo “labirinto”, così come lo sono le questioni relative ai cosiddetti nuovi diritti in materia di bioetica. In questo contesto, la certezza e la prevedibilità delle decisioni diventa un mito e diventa facile - ma anche ingiusto e mistificante - riversare sempre e per ogni caso la colpa sui magistrati. Sulla dilatazione del ruolo del giudice incide poi la convinzione che attraverso la sanzione penale, che dovrebbe essere l’extrema ratio, si possano risolvere i problemi sociali, evitando alla politica di assumere decisioni scomode, con il conseguente rischio di perdere consensi. Il legislatore, spesso inseguendo o addirittura favorendo l’emotività sociale, aumenta le pene e moltiplica le figure di reato, creando così ulteriori spazi di intervento della magistratura. Ma nemmeno questo è un fenomeno recente né solo italiano, tanto che “la missione di limitare e contenere tali tendenze” è stata indicata come fondamentale da Papa Francesco già nel 2014, nel discorso al congresso mondiale degli studiosi di diritto penale. In questo quadro, si inseriscono le peculiarità della situazione italiana, con particolare riferimento alla giustizia penale. Non si può, infatti, dimenticare il ruolo che la magistratura - investita da questa sorta di delega implicita - ha svolto nel combattere i grandi fenomeni criminali del Paese, che sono spesso anche fenomeni sociali, a cominciare dal terrorismo (contro il quale però, almeno da un certo punto, si sono impegnate in modo decisivo anche le forze politiche e sociali). Ma la questione che ritengo decisiva è quella del contrasto a mafia e corruzione. La fase cruciale, cui evidentemente fa riferimento lo stesso Panebianco, inizia nella seconda metà degli anni Ottanta, con il maxiprocesso di Palermo, e il momento decisivo è il 1992, l’anno di Mani pulite, ma anche delle stragi. Il passo indietro Nel contrasto a mafia e corruzione, la delega è stata, io credo, più ampia. E forte la sensazione che la classe politica restasse un passo indietro. Fino al verificarsi di una perversa illusione ottica che ha indotto una parte (non disinteressata) della stessa classe politica e una quota dell’opinione pubblica a ritenere che il magistrato potesse essere un’autorità morale, che non si limitasse a decidere sui reati, ma anche su ciò che è giusto o ingiusto. E così che in questi decenni abbiamo visto crescere - anche per volontà della politica, che in nome del popolo fa le leggi e fissa regole e compiti - una magistratura forte e indipendente che ha conseguito notevoli successi nel contrasto ai fenomeni criminali, anche pagando prezzi altissimi, come testimonia il lungo elenco di magistrati uccisi nell’adempimento del dovere. Naturalmente, aver delegato alla magistratura compiti così importanti, ma insieme così difficili e insidiosi (non solo per l’incolumità, ma anche per le lusinghe e le liaison dangereuses di cui corrotti e mafiosi sono maestri), ha inevitabilmente provocato episodi di degenerazione e persino una “questione morale”, com’è stata definita dalla stessa Associazione Magistrati, sulle cui dimensioni si confrontano, ovviamente, opinioni differenti. Questa forza, quest’indipendenza, quest’ampiezza di compiti e la dotazione dei penetranti strumenti per soddisfarli, ha finito per provocare un’opposizione crescente di settori sempre più ampi della società. Non solo perché la decisione del magistrato scontenta sempre almeno una delle parti in causa, ma soprattutto perché egli deve oggi intervenire in materie che vedono in gioco interessi enormi e, come detto, non regolamentate in modo chiaro e specifico. In altri casi gli è richiesta la ricostruzione di fatti e vicende di estrema complessità, anche lontani nel tempo, ma quasi sempre con forti richiami a sensibilità attuali, accese, divisive. Le decisioni assunte presentano così, inevitabilmente, margini di discrezionalità e opinabilità che rendono più frequenti le discrepanze fra le diverse fasi previste dal processo e inevitabili le critiche, anche violente, al di fuori di esso. La situazione è poi aggravata da un’opposizione sistematica all’azione della magistratura, un’avversità preconcetta che spesso prescinde dal merito, alimentata da uno schieramento che comprende partiti, organi di informazione e settori di opinione pubblica, mentre una tifoseria contrapposta, in modo altrettanto sbagliato, esalta comunque e in ogni caso l’operato dei magistrati, che viene quindi utilizzato - con o senza il loro consenso - nella lotta politica. Il risultato è oggi davanti agli occhi di tutti: viene messa in dubbio l’imparzialità dei magistrati, dapprima dei pubblici ministeri ma ormai anche dei giudici, la cui credibilità è invece un bene prezioso per la democrazia. Tra le cause di queste perverse dinamiche, un ruolo decisivo ricopre il carattere sistemico di alcuni fenomeni criminali che affliggono l’Italia, senza riscontri di pari gravità negli altri Paesi europei e la cui sconfitta è per noi di vitale importanza, mentre rientrano solo a fasi alterne tra le priorità nazionali. Al di là delle indispensabili riforme processuali, c’è quindi da sperare che si riduca progressivamente l’affidamento alla magistratura di compiti ulteriori e diversi da quelli suoi propri. E che, secondo l’auspicio formulato - quasi senza sperarci - da Angelo Panebianco, maturi anche in Italia “un pubblico democraticamente avvertito ed esigente, consapevole che qualunque potere, sia esso politico, giudiziale odi altro tipo, è pericoloso per la comunità se non è limitato”. Durata del processo e stop alla prescrizione, è lite toghe-penalisti Il Messaggero, 26 gennaio 2020 L’Anm: “idea brutale fissare tempi rigidi per i procedimenti”. Caiazza: “Irricevibile è l’abrogazione delle garanzie”. Evitare una corsa contro il tempo per chiudere i processi e dichiarare “irricevibili” e “brutali” le sanzioni per i magistrati che non siano in grado di rispettare ritmi serratissimi. È il messaggio che l’Associazione nazionale magistrati consegnerà mercoledì al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, nell’incontro in programma per discutere della bozza di riforma del processo penale, come sottolinea il presidente dell’Anm, Luca Poniz. La presa di posizione dell’associazione delle toghe accende la polemica con i penalisti: “Prendiamo atto che l’Associazione nazionale magistrati improvvisamente giudica le proposte di riforma del processo penale del ministro Bonafede “brutali e irricevibili” non appena esse prevedono sanzioni disciplinari per i magistrati che non rispettino tempi predeterminati di durata dei processi”, dice il presidente dell’Unione delle Camere Penali, Gian Domenico Caiazza. E aggiunge: “Anche i penalisti italiani sono convinti che fissare velleitariamente termini di durata dei processi e sanzionarli, per di più non con decadenze processuali ma con improbabili sanzioni disciplinari, sia inutile. Tuttavia, ci sarebbe piaciuto che l’Anm giudicasse altrettanto “brutale e irricevibile” l’abrogazione della prescrizione. Evidentemente per Anm la difesa della corporazione vale molto di più della difesa dei diritti fondamentali dell’imputato”. Nei giorni scorsi la richiesta di una forte presa di posizione, attraverso una “mobilitazione” dell’Anm contro il progetto di riforma, era arrivata da Aerea, il gruppo dei magistrati progressisti, e da Magistratura Indipendente, la corrente moderata. Si era ipotizzata una protesta da attuare in occasione delle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario che si terranno il primo febbraio in tutti i distretti di Corte d’appello. Ma la mobilitazione per adesso non ci sarà. Ci sarà invece un confronto diretto con il ministro. Per il segretario dell’Anm, Giuliano Caputo, stabilire a priori tempi obbligati, in assenza di nuove risorse per garantire la durata ragionevole del processo, è “una sorta di messa in mora” per i magistrati, e “significa essere del tutto sganciati dalla realtà”. Ira per le multe anti-ritardi. Le toghe: scelta demagogica di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 26 gennaio 2020 No al piano Bonafede per sveltire i processi. Prescrizione, protesta dei penalisti. “Brutale. Irricevibile. Demagogica”: all’incontro di mercoledì prossimo con il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, l’associazione nazionale magistrati si presenterà agguerrita. Perché nella riunione del comitato direttivo centrale convocato ieri, si è messo a punto il parere sulla riforma Bonafede e sono state espresse critiche pesanti. Soprattutto nella parte in cui prevede tempi predeterminati per la durata dei procedimenti, tra i 4 e i 5 anni, e sanzioni ai magistrati che non li rispettano. Lo hanno detto chiaramente il presidente, Luca Poniz, e il segretario, Giuliano Caputo, auspicando di avere un testo in occasione dell’incontro (“leggiamo anticipazioni ma nessuno ce lo ha sottoposto”) e di poterlo analizzare. Ma se la lettura non smentirà quelle anticipazioni la risposta sarà un “no” netto. Quella delle sanzioni ai magistrati è “una valutazione demagogica che dà l’idea di una predeterminazione dei tempi, come se il mancato rispetto dipendesse dai magistrati, una sorta di negligenza staccata da valutazioni fattuali”, spiega Poniz. E Caputo rincara: “C’è una sorta di messa in mora, del tutto sganciata dalla realtà, che mette a rischio anche la tutela dei diritti. La durata dei processi dipende infatti pure dallo scrupolo dell’accertamento dei fatti”. E Poniz subito dopo aggiunge: “Ci sono meccanismi che ci vedono favorevoli e che noi stessi avevamo offerto come possibili contributi ma il brutale contingentamento non può esser fatto digerire come contropartita alla riforma della prescrizione”. La linea è tracciata: “Mercoledì parleremo di tutto questo. E diremo che noi magistrati rifiutiamo l’idea che se contestiamo una parte della riforma e siamo favorevoli a un’altra siamo tirati per la giacchetta, come chi sta dentro o fuori quella parte politica”, chiarisce Poniz, alludendo alla riforma della prescrizione. L’Anm l’aveva accolta con favore. E aveva anche respinto l’ipotesi di incostituzionalità del cosiddetto “lodo Conte”, che ammorbidirebbe la nuova norma, prevedendo l’interruzione dei termini solo peri condannati in primo grado e non anche per gli assolti. “Siamo su questa posizione da sempre - ha ricordato Poniz - a prescindere da questo o quel “lodo”“. Ma ha giudicato irricevibile l’idea che visto che la prescrizione non ci sarà più, “un imputato resterà imputato a vita. Come se un magistrato decidesse il destino di una persona in base al meccanismo del calcolo della prescrizione”. Contro la riforma della prescrizione protestano invece i penalisti, che il 28 gennaio torneranno ad astenersi dalle udienze e manifesteranno davanti alla Camera con una nuova maratona oratoria. Il presidente dell’Unione camere penali, Giandomenico Caiazza, rimarca: “Prendiamo atto che l’Anm improvvisamente giudica le proposte Bonafede “brutali e irricevibili” non appena esse prevedono sanzioni disciplinari per i magistrati che non rispettino tempi predeterminati di durata dei processi. Ci sarebbe piaciuto giudicasse altrettanto “brutale e irricevibile” l’abrogazione della prescrizione prima ancora della riduzione dei tempi del processo in spregio del principio costituzionale del diritto della ragionevole durata. Evidentemente per Anm la difesa della corporazione vale molto di più della difesa dei diritti fondamentali dell’imputato”. Quattro anni fa la morte di Regeni: delitto e depistaggi, tanti i punti oscuri di Michela Allevi Il Messaggero, 26 gennaio 2020 Fiaccolate in tutta Italia per chiedere verità e giustizia. La madre: “grazie a chi ci sta vicino, non ci arrendiamo”. Migliaia di fiaccole per illuminare un silenzio assordante: quello sulla verità, che ancora manca, sul sequestro del ricercatore Giulio Regeni, avvenuto al Cairo, in Egitto, il 25 gennaio del 2016. Giulio era stato trovato morto una settimana dopo e sul suo corpo c’erano evidenti segni di tortura. Da quel giorno sono passati quattro anni e non ci sono risposte. La procura di Roma, che ha indagato sette agenti dei Servizi egiziani per sequestro di persona, ha aperto una seconda inchiesta per le pressioni ricevute al Cairo dal consulente egiziano della famiglia di Regeni da parte di esponenti della National Security. Intanto ieri sono state organizzate fiaccolate in tutta l’Italia in ricordo del giovane ricercatore. A Fiumicello, in provincia di Udine, paese natale del ricercatore, sono state appoggiate a terra 4 mila piccole candele, una per ogni anno passato dalla scomparsa di Regeni. Il 25 gennaio 2016 alle 19.41, il giovane inviò il suo ultimo messaggio dal Cairo. Poi, di lui non si seppe più nulla fino al 3 febbraio, quando il suo cadavere fu trovato abbandonato su una strada tra la capitale e Alessandria d’Egitto. Da quel giorno la famiglia chiede giustizia. C’erano anche i genitori e la sorella di Giulio alla fiaccolata di Fiumicello, con la madre che su Facebook ha ringraziato “chi ci sta vicino”. E c’era anche il presidente della Camera, Roberto Fico, che ha ribadito che il caso Regeni è una “questione di Stato che non sarà mai abbandonata, fin quando non otterremo i colpevoli” e ha invitato le istituzioni a “essere un’unica voce”. L’auspicio è che “il 2020 sia l’anno della verità”. In piazza, tra centinaia di persone, c’era anche il presidente della Commissione d’inchiesta, Erasmo Palazzotto. I Regeni continuano a chiedere “che questo governo richiami l’ambasciatore dal Cairo. E coinvolga l’Ue nel dichiarare l’Egitto un Paese non sicuro”. A unirsi nel ricordo di Giulio, più di cento piazze italiane: a Roma piazza della Rotonda, davanti al Pantheon; a Torino piazza Castello; a Milano piazza della Scala; a Firenze piazza San Marco; a Bologna piazza Ravegnana; a Napoli piazza del Gesù Nuovo; a Palermo piazza Pretoria; a Trieste piazza della Borsa Mentre l’inchiesta della procura di Roma ora procede su un doppio binario, in Parlamento è stata costituita una Commissione d’inchiesta sulla morte di Regeni: “Abbiamo portato alla luce elementi che fino ad ora non erano stati raccontati - ha spiegato Sabrina De Carlo (M5S) - e a breve procederemo con altre audizioni”. E dopo 4 anni di indagini, tutti chiedono passi avanti. “Lavoriamo incessantemente per la verità. C’è tutto il mio impegno e quello del governo”, ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. “Dopo tanti governi passati in 4 anni è vergognoso che ancora non sia stata trovata la verità”, ha detto Stefano Pedica (Pd). Per Pietro Grasso (Leu), “fare luce sulla tragedia subita da Giulio e sostenere i genitori vuol dire anche occuparci di nuove generazioni, dei diritti umani, di lavoro, studio e ricerca”. Mentre per Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli-Venezia Giulia, “ricordare il quarto anniversario del rapimento e della barbara uccisione senza che sia stata fatta luce sui fatti e siano stati assicurati alla giustizia i colpevoli indigna e addolora”. Caso Regeni, il Cairo tace anche sul testimone keniota che accusa gli 007 di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 26 gennaio 2020 I genitori di Giulio: “Responsabilità morali e civili dei docenti di Cambridge”. Il 25 gennaio 2016, quando Giulio sparì, gli agenti della sicurezza egiziana che lo seguivano pensavano che dovesse incontrare “una persona sospetta”. È il motivo per cui decisero di sequestrarlo quella sera, lo caricarono in macchina e lo picchiarono subito al volto. Così ha detto uno degli ufficiali della National security inquisiti dalla Procura di Roma per il rapimento, secondo quanto riferito da un testimone keniota che ha ascoltato il suo racconto durante una riunione di poliziotti. È l’ultima acquisizione della magistratura italiana che dallo scorso aprile attende risposte dal Cairo per trovare i necessari riscontri. Ma non arrivano. Quattro anni dopo, siamo fermi al silenzio egiziano. E al ricordo di Paola e Claudio Regeni della notizia che ha sconvolto la loro vita. La telefonata - “Il 27 gennaio alle 14,30 ero a lavorare nel mio ufficio di casa, quando ho ricevuto una telefonata dalla console dal Cairo che mi informava che Giulio non era arrivato a un appuntamento la sera del 25, e che non si sapeva dove fosse in quel momento”, rammenta il padre. Sua moglie non c’era, la chiamò senza dirle della telefonata. Aspettò che rientrasse, le chiese di sedersi, lei non voleva ma lui insisté. Poi le riferì l’informazione appena ricevuta. “Ricordo di aver chiuso gli occhi e di aver visto un’immagine: un cassonetto dell’immondizia e, a fianco di quel cassonetto, buttato per terra, Giulio. Gli ho detto: ce lo butteranno così”, scrive Paola Regeni nel libro Giulio fa cose, composto insieme al marito e all’avvocata Alessandra Ballerini, appena pubblicato da Feltrinelli. È un diario di viaggio nel dolore di questi quattro anni e alla ricerca della verità, che dietro ogni curva trova un muro. Nonostante le promesse dell’ambasciatore del Cairo in Italia, a nome del governo di Al Sisi, che accolse la famiglia e la salma di Giulio a Roma: “Ci ha dato il suo biglietto da visita, per contattarlo in caso di necessità. Stava iniziando la farsa egiziana, ma ancora non lo potevamo immaginare. Per i quattro anni successivi hanno continuato a ripetere che volevano collaborare, ma a oggi non fanno che occultare la verità e negare giustizia”. Per questo la famiglia e l’avvocata Ballerini continuano a invocare un nuovo richiamo dell’ambasciatore italiano in Egitto che però, in un momento di così alta tensione in Medio Oriente, sembra molto improbabile. La ragnatela - La visione di Paola Regeni quando seppe che il figlio era scomparso non era distante da ciò che sarebbe avvenuto; invece che in un cassonetto il cadavere di Giulio riapparve il 3 febbraio tra le sterpaglie che costeggiano la strada verso Alessandria d’Egitto, con i segni di torture inflitte a più riprese e per diversi giorni. Finché gli fu “rotto l’osso del collo”, come hanno illustrato con fredda ma efficace precisione il procuratore reggente di Roma Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco alla commissione parlamentare d’inchiesta. I pm della Capitale, nell’indagine parallela a quella un po’ evanescente della Procura generale del Cairo, hanno raggiunto attraverso un certosino lavoro diplomatico-investigativo-giudiziario, la ragionevole certezza del coinvolgimento di cinque funzionari della sicurezza locale: il generale Sabir Tareq, il colonnello Uhsam Helmy, il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, l’assistente Mahmoud Najem e il colonnello Ather Hamal. Tutti artefici, a vario titolo, della “ragnatela in cui è caduto Giulio”, costruita con la complicità di alcuni amici che tradirono la fiducia del giovane ricercatore, e nei successivi depistaggi: il coinquilino Mohamed El Sayad, che prima e durante il sequestro ebbe almeno otto contatti con la Ns; l’amica Noura Wahby, che riferiva tutto a un informatore della Ns; il sindacalista Mohamed Abdallah, a diretto contatto con Sharif. Cambridge - Sono loro, gli agenti coinvolti nella trama, che potrebbero raccontare perché sospettavano di Regeni e che cosa è accaduto dopo il suo arresto, ma dal Cairo non sono arrivati nemmeno i dati per le notifiche dell’indagine italiana. Così come dall’università di Cambridge, per la quale Giulio stava svolgendo le ricerche “sul campo” sui sindacati autonomi egiziani, non c’è stata la collaborazione che la Procura di Roma e la famiglia Regeni si attendevano. “Noi sappiamo che non sono stati i docenti, l’università, a uccidere Giulio - scrivono nel libro i genitori del ragazzo. Di sicuro però ci sono delle responsabilità morali e civili”. Mia moglie non si è persa d’animo neanche in cella di Maurizio Pagliassotti Il Manifesto, 26 gennaio 2020 Intervista a Silvano Giai, marito di Nicoletta Dosio, rinchiusa nel carcere delle Vallette di Torino. Dovrà scontare un anno, in tutto: lo farà con dignità, senza alcuna richiesta di grazia. “Lei non può vedere e sentire il mondo che le si stringe intorno, ma lo percepisce”. Silvano Giai è il marito di Nicoletta Dosio, da circa un mese rinchiusa nel carcere delle Vallette di Torino. Si conoscono da quarantadue anni, tempo in cui hanno condiviso amore, ideali e lotta sul campo Come sta sua moglie? Nicoletta sta bene. Ha subito però un intervento chirurgico lo scorso venerdì i cui esiti si conosceranno tra qualche giorno. Un’operazione programmata da tempo, che non è stata invasiva come temevamo. Sono rimasto però molto stupito e turbato dall’apparato di sicurezza schierato intorno a una donna di oltre settanta anni che, nella sua vita, mai ha fatto il minimo gesto di violenza. Può spiegarci meglio? L’hanno portata venerdì mattina in ospedale, ma l’operazione in realtà era prevista una settimana fa. L’abbiamo vista quando è tornata, in camera. Piantonata. C’erano tre operatori della penitenziaria, e poi si sono presentati sei militari. Successivamente è arrivata la Digos: dieci e forse più persone per controllare Nicoletta, in corsia. Cosa pensavano che accadesse? Che qualcuno assaltasse una sala operatoria? La costruzione mediatica che criminalizza i No Tav fa leva su queste inutili scene. Io e l’avvocato difensore ci siamo fermati poco tempo e attualmente si trova in carcere. Lo stato d’animo com’è? Regge, come sempre. Nicoletta è una donna forte e coraggiosa, ma soprattutto è molto lucida in quello che fa. Quanto le accade fa parte di un percorso politico che noi abbiamo scelto: un percorso pacifico, non violento. E questo la rende serena e, per molti aspetti, fiera. Il morale, in fondo, è quello che va meglio di tutti: lei è fatta così. Il carcere ovviamente è un luogo duro, e questo si evince anche dai suoi racconti, dalle lettere che scrive ad amici e compagni. Da quanto tempo è in carcere? Sono trenta giorni che non è più a casa. Racconta che dalla sua cella vede la neve delle nostre montagne, e questo la fa sentire vicino a noi. Ma Nicoletta, a casa, non c’è: è in prigione per una pena sproporzionata che ha colpito lei e tutti coloro che hanno deciso di difendere i beni pubblici e la natura. Dovrà scontare un anno, in tutto: lo farà con dignità, senza alcuna richiesta di grazia. Lei non può vedere e sentire il mondo che le si stringe intorno, ma lo percepisce: le “Donne No Tav” la scorsa sera hanno fatto un aperitivo con brindisi in suo onore ai cancelli del cantiere di Chiomonte. Ci sarà un’iniziativa a Torino all’inizio di febbraio, un concerto. Riceve mazzi di lettere da tutta Italia. Nicoletta è in carcere, ma è nel cuore di tutti coloro che ancora ne hanno uno. Lei come sta? Io bene. Certo mi manca. Non si può non essere preoccupati, ma è una scelta che si è discussa, ponderata, e poi eseguita. Come tutte le scelte vanno sostenute e portate avanti nel modo migliore, senza abbattersi quando i giorni sono tristi. Stiamo girando per l’Italia, ci hanno contattato dall’intera Europa trenta organizzazioni. In Grecia, nei primi giorni di febbraio, ci sarà una manifestazione per Nicoletta: sarà molto partecipata e forte, allegra, come è mia moglie. Le istituzioni esistono in questo momento complicato? So che verrà presentato da alcuni parlamentari un disegno di legge sull’amnistia sociale e poi inizierà una raccolta firme nazionale per una proposta di legge popolare. Speriamo che questi piani riescano a smuovere la situazione per le lotte sociali che sono oggetto di una grave repressione: è un contesto tragico. E d’altronde mia moglie ne è testimone: i suoi racconti del carcere sono storie di povertà e solitudine. E gli animali di Nicoletta? La cercano? La aspettano: i suoi gatti sentono la mancanza più di tutti, in particolare Nerino. Solo un po’ di pazienza e ci ritroveremo tutti quanti. “Cosa vorrei fare da grande… sono in cella da quando avevo 19 anni” di Catello Romano Il Dubbio, 26 gennaio 2020 Ci scrive dal carcere di Catanzaro un detenuto di 29 anni. Si chiama Catello Romano, ed è entrato nelle patrie galere quando aveva appena 19 anni per aver commesso omicidi per conto della camorra. Dopo un periodo al 41 bis è stato declassificato. Ha intrapreso un percorso intellettuale e spirituale. Ha brillato per essere stato un detenuto modello, tanto da riuscire a ottenere qualche anno fa anche una borsa di studio dalla Regione Piemonte. Famoso per essersi convertito al buddismo ed essere seguito da un maestro zen, uscirà dal carcere quando avrà 45 anni. La lettera che ha inviato alla redazione de Il Dubbio è un invito alla speranza per tutta la società. ---- Alcuni giorni fa, proprio su queste colonne (il 13.12.2019), è passata la sorprendente notizia - anche per me che sono “ospite” dello Stato e conosco dal di dentro certe dinamiche mentali - della nomina a garante locale dei diritti dei detenuti di una persona anch’essa passata per le patrie galere, un ex detenuto, il Sig. Pietro loia, conferitagli nientemeno che dal sindaco napoletano De Magistris, ex magistrato. La cosa mi ha ridato subito di che sperare per il mio futuro, suscitandomi - lo ammetto non poca commozione, poiché 29enne e detenuto da 10 anni e con in vista un rilascio per quando ne avrò circa 45 - con buona pace dei proclamanti “pene certe” perché in Italia “nessuno ci va in galera” oppure s’immagina “porte girevoli” (sic!!). Ho pensato: “Ma allora mi sono sbagliato, la società in cui vivo è matura per scelte del genere, posso ancora rientrarvi e svolgere, ad esempio, la professione d’avvocato oppure di docente universitario, il mio sogno nel cassetto”… e invece no! Basta leggere a distanza di pochi giorni, sempre su Il Dubbio (18. 12. 2019), che a seguito di tale nomina “immediatamente sono insorti i sindacati della Polizia Penitenziaria”, il che potrà far pensare a qualcuno in buona fede che si tratti solo di una “categoria” in un certo senso - sia detto sine ira et studio - “di parte”, giustamente, ma così non è, infatti il passo citato conclude che “sulla loro scia molti altri hanno ritenuto inopportuna tale scelta”. E allora non era peregrino il mio stupore, mi son detto, non era e non è sbagliato pensare che sarò un “appestato” per sempre, degno solo del biasimo e della censura, da tenere alla larga, lontano dal consorzio umano perché è già tanto che mi si è lasciato sopravvivere e non, invece, “marcire in galera buttando via la chiave”. Fatto sta che io in galera sto marcendoci già, e da quando non avevo manco la barba. Certo, me la sono cercata e merito la pena che pertanto sconto, com’è giusto che sia, e lo faccio con piene consapevolezza e responsabilità, eppure, contro ogni logica visione di recupero sociale del condannato, contro ogni ragionevole e doveroso interesse a ciò nell’interesse di tutti, nessuno - e dico nessuno - si è mai peritato di chiedermi; “ma lei cosa vuol fare da grande? Ha un sogno, un progetto per il suo domani?”… eh sì, “da grande” e “sogno” sono le espressioni che ho usato, perché sono entrato in carcere appena compiuti i 19 anni d’età, quindi poco più che un ragazzino, ed ora sono (quasi) un uomo, dunque ho dei sogni, come chiunque altro. Ma forse è proprio qui il punto, ovvero che secondo alcuni non c’è poi da tanto da interrogarsi e preoccuparsi del futuro di uno se questi ha ucciso (come nel mio caso), oppure rapinato, estorto od anche “solo” rubato per necessità, in barba a tutti i principi della Carta e delle recentissime sentenze della Consulta sul diritto alla speranza od anche al semplice buon senso. Una volta finiti in carcere, nel nostro paese, od anche solo raggiunti da un avviso di garanzia, si è finiti socialmente, ci si figuri per chi, come me, s’è macchiato di crimini tanto gravi, e la sciagura e lo stigma si estendono a cerchi concentrici su familiari e non. Con grande acume ed insuperabile onestà intellettuale, in occasione del premio letterario “Camera con vista” al carcere di Velletri, un esponente de Il Dubbio - anch’esso tra la giuria - ha ammesso mirabilmente che “noi giornalisti siamo abituati a sbattere in prima pagina i mostri, che siano semplicemente indagati o colpevoli. Appena entrano in carcere ci dimentichiamo di loro e decidiamo irresponsabilmente di non raccontare il loro cambiamento” (intervento riportato nell’articolo dell’11.01.2020), il che - va detto - fa assai riflettere se lo dice chi quotidianamente per lavoro e vocazione narra le vicissitudini delle carceri nostrane e non solo. Chi conosce sul serio le condizioni delle nostre carceri - e qui va dato atto all’esimio impegno d’informazione di questo giornale e di pochissime altre fonti - e sa della drammatica carenza di personale qualificato per il “trattamento rieducativo’ (educatori, psicologi etc.), sa anche che non sto dicendo nulla d’incredibile, perché sono veramente in tantissimi a rimanere pressoché fermi al giorno del loro arresto, specie se giovanissimi, senza aver fatto nessun progresso della personalità che non sia di tipo anagrafico-somatico, a tacer poi del trattamento spesso volutamente mirato all’infantilizzazione della persona detenuta (la ‘domandina’, lo ‘spesino’, lo ‘scopino’ etc.), quando non anche all’offesa pura e semplice nella sua dignità di uomo e di persona. Ad ogni buon conto, se si pensa ai quotidiani attacchi che riceve il Garante Nazionale Mauro Palma e che dovrebbero far rabbrividire chi pensa ancora di vivere in un paese democratico e in uno Stato di diritto del ‘mondo libero’, che si vanta - riempiendosene la bocca - d’essere la “culla del diritto”, che ha combattuto il nazifascismo, che battaglia in giro per il mondo contro tortura e pena di morte, tutto ciò non dovrebbe stupire più di tanto, anche se questa realtà fattuale la dice assai lunga sui vero stato del nostro paese. Detto questo, come dovrei. potrei continuare a sperare? È davvero possibile? Parrebbe paradossale, ma lo è, specie se prendo come monito quel passo evangelico (Epist. ai Rm, 4; 18) di cui l’Ass.ne “Nessuno tocchi Caino” ha fatto il proprio vessillo, Spes Contra Spem, ossia sperare contro (o, al di là di) ogni speranza! E un invito a ciò - grazie soprattutto alla mia compagna - m’è venuto anche leggendo un toccante articolo di Daniele Mencarelli apparso su Avvenire il 14 dicembre scorso, nel quale, rievocando la tragica storia di Erika De Nardo ed il suo ritorno alla normalità, lapidariamente ci ricorda che “se il male, come spesso accade all’uomo, è l’incosciente e scandaloso punto di partenza della storia, ecco poi, silenzioso e sotterraneo, accorrere il bene. Il bene ricuce e sana, anche laddove non sembra possibile. Come nel cuore di Erika (e di quelli come me, per molti un pozzo avvelenato, da chiudere, seppellire per sempre” e, ancora, che “il bene non urla, lavora di nascosto, di notte, con riserbo, pudore. Ma ha bisogno di mani che lo incarnino, che lo trasmettano malgrado tutto, che siano presenti quando altre non lo sono”, e nel caso di Erika - ci ricorda Mencarelli - si è trattato delle mani del padre, Francesco, il quale “nel silenzio dei giusti, di chi non ha bisogno di sirene per sapere che sta contribuendo a qualcosa di grande”, ha riflesso su questa terra la misericordia di quel Padre ch’è nei Cieli e di cui noi tutti avremmo bisogno, facendo sì che “dal male più profondo e inaudito, da un peccato che tutti avrebbero voluto come mortale, irrimediabile, è rinata una vita”. Io le mani che incarnino questo Sommo Bene le ho trovate, ma sono uno fortunato, Penso a quanti - e sono tanti che per un motivo o per l’altro non sono cosi fortunati come me. Invito, pertanto, ognuno di voi a diventare mani tese per qualcuno che ne abbisogna. E vi invito, inoltre, a ricercare e leggere per intero questo articolo, io ne ho citato i passaggi che più ho sentito “miei” e che per esigenze di spazio ho dovuto abbreviare, ma che comunque mi hanno trasmesso non solo speranza, ma lo sprone ad essere speranza. Siatelo anche voi, grazie. Firenze. Carcere di Sollicciano: detenuto si dà fuoco al volto, è gravissimo firenzetoday.it, 26 gennaio 2020 Trasportato in emergenza al pronto soccorso di Torregalli e poi al centro ustionati di Pisa. Gravissimo episodio nella tarda serata di ieri, sabato, intorno a mezzanotte, nel carcere fiorentino di Sollicciano, dove un giovane detenuto si è dato fuoco al volto e al collo utilizzando, secondo i primi riscontri, una bomboletta di gas. Il detenuto, di 25 anni, originario del Marocco, è apparso subito in gravissime condizioni. È stato trasportato in ambulanza al pronto soccorso dell’ospedale Nuovo San Giovanni di Dio (il ‘Torregalli’) dall’ambulanza del 118, scortata dalle forze dell’ordine. Dall’ospedale di Torregalli, viste le gravi condizioni del giovane, è stato trasportato al centro ustionati di Pisa, intubato e ricoverato in rianimazioni. Le sue condizioni restano gravi. È l’ennesimo episodio che dimostra le pesantissime condizioni nelle quali sono costretti a vivere nelle carceri i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria. Un giovanissimo detenuto, di 29 anni, nella scorsa primavera era morto inalando del gas. Nel carcere fiorentino negli ultimi anni si sono registrati anche diversi suicidi. Avellino. “Il carcere non è allontanamento dal mondo, ma preparazione per ritorno alla vita” di Chiara Iacobacci orticalab.it, 26 gennaio 2020 La sfida del direttore Pastena. Il direttore della Casa Circondariale “Antimo Graziano” di Bellizzi Irpino sulla sinergia con la Soprintendenza di Avellino e Salerno ed il mondo delle associazioni, a sostegno del reinserimento dei detenuti: “Chi ha commesso dei reati ha il diritto di rinstaurare un rapporto con la società civile. Le difficoltà non ci spaventano: c’è un universo di persone che lavora insieme a noi” A margine della conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa “L’Altro Natale”, svoltasi questa mattina presso il Complesso Monumentale del Carcere Borbonico di Avellino, il direttore della Casa Circondariale di Bellizzi, Paolo Pastena ha commentato positivamente la sinergia instaurata dall’amministrazione carceraria con la Soprintendenza ed il mondo delle associazioni per un coinvolgimento dei detenuti, nell’ambito della rassegna e non solo, per sostenerne il reinserimento. “Oggi - ha affermato Pastena - abbiamo sottoscritto con la Soprintendenza un protocollo importante, per consentire che l’opera di manutenzione della struttura dell’ex Carcere Borbonico di Avellino possa vedere la partecipazione, a titolo gratuito, dei detenuti”. Come previsto dall’articolo 21, la possibilità di lavorare all’esterno è un passo fondamentale verso la riabilitazione: “Chi ha commesso dei reati, ha il diritto di rinstaurare un rapporto con la società civile. La collaborazione con un centro di cultura, contenitore di iniziative al alto valore simbolico, per il nostro istituto penitenziario è importantissima”. Numerose sono le attività che da tempo la direzione mette in campo per il reinserimento e il recupero dei detenuti nei più svariati ambiti: “Puntiamo a ricostruire il legame tra chi ha sbagliato e il mondo reale - spiega Pastena - c’è un universo di soggetti che lavora in tal senso al nostro fianco, primo fra tutti la scuola”. Ovvero il Geometra e il Liceo Artistico di Avellino che hanno delle sedi all’interno della struttura e che con le loro attività impegnano, per altro, i detenuti-studenti in attività extracurricolari. Una possibilità importante, soprattutto per chi si trova a ricominciare a studiare in età di adulta: “È una continua sperimentazione la nostra. Siamo consapevoli che diverse fasce d’età prevedono modalità di apprendimento differenti ma restiamo convinti che tutti meritino la possibilità di sperimentare le proprie competenze. Particolarmente significativo, per i detenuti-studenti, è stato il progetto che li ha visti impegnati nel vero e proprio allestimento di un museo all’interno dell’Istituto Agrario “De Sanctis”: quell’esperienza è stata per loro il motore di un rinnovato entusiasmo e di una riscoperta creatività”. Un grande lavoro quello dell’amministrazione carceraria che si scontra, però, con le difficoltà che quotidianamente ci si trova a dover fronteggiare, dalla carenza di risorse a quella di personal: “Le difficoltà non mancano mai, a maggior ragione in un luogo come una casa circondariale: una struttura in sé complessa da gestire. Gli ostacoli non ci devono, però, spaventare né fermare nella realizzazione di questi progetti. Ringrazio quanti contribuiscono a fare in modo che il carcere non sia solo un momento di allontanamento dal mondo reale ma costruisca la fase di preparazione per un ritorno alla vita”. Un ultimo sguardo sul futuro. “Proveremo a dare una grande spinta alle attività di formazione e a quelle lavorative: la formazione professionale mirata è il nostro obiettivo. La richiesta che arriva da tutti i detenuti è sempre la stessa: rendersi utili. È fondamentale, per mantenere un legame costruttivo con i propri affetti e per sentirsi autonomi: il lavoro si conferma il cardine del reinserimento e il solo strumento in grado di conferire dignità all’essere umano”. Cesena (Fc). Il sindaco Enzo Lattuca: “Le carceri sono luoghi di reinserimento” cesenatoday.it, 26 gennaio 2020 “Noi che siamo fuori dal carcere, noi che non ci siamo mai entrati, non sappiamo com’è vivere tra quelle mura. Ciò che non si vede, non lo si considera. Questa realtà forlivese riguarda anche noi perché siamo un territorio, un’unica realtà provinciale. Dobbiamo subito pensare che all’interno del carcere sono detenute delle persone, dobbiamo considerarlo. Troppe volte mi capita di sentire frasi come “buttare la chiave”. Sono espressioni inaccettabili. È necessario immedesimarsi nella condizione delle persone”. Lo ha detto il sindaco Enzo Lattuca intervenendo ieri mattina al convegno “Sbarre alle spalle, la realtà carceraria dal dentro al fuori” al Palazzo del Ridotto e organizzato dal Comune di Cesena e da Techne. Il sindaco, alla presenza degli assessori Luca Ferrini e Carmelina Labruzzo e di alcuni detenuti della Casa circondariale di Forlì, si è rivolto a oltre cento studenti cesenati spiegando loro quanto sia importante considerare la condizione di tutti, soprattutto degli ultimi e degli emarginati. “La stessa Costituzione all’articolo 27 - ha proseguito Lattuca - ci dice due cose importanti: che la detenzione non può essere contraria alla dignità della persona e che la funzione della pena deve avere come primo obiettivo la rieducazione. È dunque interesse di tutta la Comunità che le carceri non siano luoghi in cui si moltiplica la possibilità di reati ma realtà di accompagnamento e reinserimento nella nostra società per evitare che ci sia una recidiva. Quindi non è solo una questione di buon cuore, di etica, di giustizia. Non è nemmeno solo una questione di rispetto delle norme costituzionali. È soprattutto una questione che attiene l’interesse delle nostre comunità: dal punto di vista della coesione sociale. Viviamo bene se tutti intorno a noi vivono bene, anche gli ultimi, gli emarginati”. Al centro della mattinata il racconto dei detenuti che hanno raccontato il quotidiano di una vita che scorre lenta dietro le sbarre. Oltre agli amministratori sono intervenute alcune figure di spicco della Casa circondariale di Forlì: la direttrice Palma Mercurio, Michela Zattoni, comandante della Polizia Penitenziaria, Erika Casetti, psicologa, Luigi Dall’Ara, Volontario dell’Associazione San Vincenzo De Paoli. Ampio spazio è stato poi riservato al rapporto tra il detenuto e il lavoro. Il tempo della detenzione deve essere riempito di contenuti, dall’istruzione alla formazione al lavoro. Le statistiche infatti attestano che il lavoro in carcere riduce fortemente la recidiva. In questa seconda parte della mattinata hanno condiviso la propria testimonianza Lia Benvenuti, Direttore generale Techne, Stefano Fabbrica, Presidente Coop Sociale Lavoro Con, Pietro Bravaccini, Production Planner Vossloh-Schwabe Italia Spa e una persona detenuta. Barbara Gualandi, Direttore Ufficio locale di Esecuzione esterna, e l’Assessora ai Servizi per le persone e le famiglie Carmelina Labruzzo hanno illustrato l’ampia realtà dei servizi sociali che supportano il detenuto per il reintegro nella comunità e nella legalità. Andria (Bat). In masseria per tornare a vivere di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 26 gennaio 2020 Senza Sbarre, il progetto di don Riccardo Agresti per il reinserimento dei detenuti. La vera vittoria non sta mai nell’annientamento di chi ha commesso un reato, ma nel suo recupero. È il presupposto da cui è partito don Riccardo Agresti, sacerdote di Andria, che insieme ad un confratello, don Vincenzo Giannelli e al magistrato della corte di appello di Bari, Giannicola Sinisi, ha dato vita a Senza Sbarre, un progetto che “nasce dalla chiamata del Signore in un territorio molto difficile”, ci spiega. “Fui colpito dalla testimonianza di una mamma che era solita partecipare ai nostri incontri in parrocchia. Veniva sempre sola con il suo bambino. Le chiesi il motivo e lei rispose che suo marito aveva un impiego a nord e lo vedeva raramente. Scoprii che la residenza del consorte era via Andria 300, ovvero l’indirizzo della Casa Circondariale di Trani”, racconta don Agresti. “Capii immediatamente che avrei dovuto fare qualcosa per questa famiglia e per tutti coloro che si trovavano nella stessa situazione. Da lì nacque la mia attività di volontariato in carcere, accompagnato da don Vincenzo, e Senza Sbarre, attraverso il quale oggi lavoriamo per il recupero delle persone e l’equilibrio sociale perduto, mediante la pratica lavorativa e l’esercizio civile e spirituale, mirando alla riconciliazione degli autori dei reati con le vittime”. Fin dall’inizio fu scelta la Masseria San Vittore, nei presso di Castel del Monte, che la diocesi mise a disposizione. “Era un casale abbandonato con 8 ettari di terreno, un po’ isolato, e in pessimo stato” racconta il sacerdote. “Ma l’idea era valida e quindi valeva la pena trovare fondi per ristrutturare il plesso”, prosegue. Della bontà dell’iniziativa si accorse immediatamente la Caritas, che riconobbe Senza Sbarre come esperimento pilota nazionale perché primo progetto di misura alternativa al carcere di comunità. Un’idea certamente non vietata dalla legge ma che avrebbe potuto scontrarsi con la preoccupazione dei giudici. “Un collegamento tra persone condannate avrebbe potuto favorire la recidiva”, spiega il magistrato Sinisi e aggiunge: “Senza sbarre avrebbe dovuto guadagnarsi la credibilità dei tribunali di sorveglianza, impegnando don Riccardo, quale diretto responsabile, ad essere garante”. Risultato? “Oggi i detenuti in Masseria curano i campi, gli animali, producono pasta fresca e taralli, manutengono le strutture, progettano l’uso di un forno a legna per pane e focacce, trasformano i prodotti agricoli e li vendono. Inoltre partecipano alle attività di formazione e sono pienamente inseriti nella comunità che li riconosce come persone in cammino e tutta la comunità ha intuito la portata innovativa e rivoluzionaria del progetto”, rivela don Riccardo. Ma che ci fa un magistrato accanto a un sacerdote in prima linea per il recupero e il reinserimento dei detenuti? Sorride Giannicola Sinisi e racconta: “Conosco don Agresti da 30 anni. Per motivi anagrafici lo considero un fratello spirituale e quando ha deciso di cominciare questa avventura, considerato che ha la testa dura, ho deciso di non lasciarlo solo. Conoscevo bene i rischi che avrebbe corso. Inoltre ho scelto di stargli accanto anche per convenienza. Siccome credo nel recupero del condannato, onde evitare di ritrovarmi in ulteriori processi a causa delle recidive, ho pensato bene di abbracciare subito la causa. Avrei avuto meno da fare in tribunale, ma avrei ottenuto maggiori soddisfazioni da volontario”. La costituzione di questo gruppo ha consentito di aprire nuove vie al reinserimento attivo del detenuto nel contesto lavorativo produttivo e non assistenziale. Fino ad oggi, infatti, si sono percorse tre strade: quella del pessimismo e cioè della totale segregazione in periodi di criminalità dilagante e di terrore; dell’ottimismo ipotizzando una società senza pena nella considerazione che fosse il carcere a creare recidiva e, infine, quella della ragione o ragionevolezza considerando, invece, che non il carcere ma l’uso che se ne fa, potesse a socializzare i reclusi. L’iniziativa di don Riccardo sembra percorrere questa terza via. Ma perché destinarli al lavoro della terra? “Perché quelle mani che avevano commesso crimini, avrebbero dovuto trasformarsi in bene prezioso per la comunità”, risponde. “Per questo abbiamo chiamato la nostra cooperativa A Mano libera. Tra loro c’è chi in passato ha coltivato marijuana. Oggi è il responsabile dell’area ortaggi ed è uno dei punti di riferimento della comunità. Non dimentichiamo poi che mi chiamo don Riccardo Agresti, nomen omen”. L’esperienza della Masseria evidenzia che esiste la possibilità di adottare provvedimenti alternativi alla pena detentiva di tipo tradizionale ed altri provvedimenti diretti in primo luogo a pervenire ad una giustizia penale più progredita e civile, sul modello di altri paesi, e al tempo stesso alla soluzione del problema del sovraffollamento delle carceri. Anche perché in una situazione pressoché generale di ozio forzato dei reclusi, che ne fomenta abiezioni ed instabilità gravi, un progetto educativo sperimentale, che prevede il loro recupero e il loro reinserimento attraverso forme di socializzazione e l’apprendimento di una professione artigianale, non può che alleggerire il carico delle istituzioni. “È necessaria una riconsiderazione globale della concezione e dei meccanismi del sistema punitivo del nostro Paese per aprire la strada dell’effettiva attuazione del dettato costituzionale sul reinserimento del condannato nella vita sociale”, rileva il magistrato che, accanto alla scrittrice Angela Covelli, ha avviato una collana editoriale che racconta le vite dei protagonisti che lavorano nella Masseria. “La prima è dedicata ad un ragazzo senegalese che si è convertito ed è stato battezzato in carcere. Si chiama Matteo e oggi è un pilastro del nostro gruppo”, spiega Covelli. Ma stare al fianco di un magistrato durante la giornata non potrebbe creare qualche disagio agli ospiti? “Niente affatto”, chiarisce prontamente Sinisi. “Loro sono molto contenti e mi trattano con grande rispetto. Li ho persino invitati a palazzo di giustizia alla presentazione del mio libro. All’inizio erano spaesati perché hanno visto quelle aule solo in occasione dei loro processi, poi hanno trovato la giusta serenità. Anche perché, per la prima volta, sono usciti dal palazzo senza manette. Lo stesso disagio iniziale è stato manifestato anche dai miei colleghi, ma l’obiettivo era proprio quello di rompere ogni barriera e pregiudizio. Non stavo accompagnando reati, ma persone. Tra l’altro - conclude sorridendo Sinisi - uno di loro è stato proprio condannato da me”. Volterra (Pi). Tornano le “Cene galeotte”, chef in carcere per beneficenza italiaatavola.net, 26 gennaio 2020 Riparte ad aprile il progetto della Casa circondariale di Volterra. Il ricavato sarà devoluto in beneficenza. Quest’anno al via una collaborazione con il Movimento Turismo del Vino. Dal 17 aprile al 7 agosto 2020 tornano le cene galeotte, il progetto ideato dalla direzione della Casa di Reclusione di Volterra (Pi) e realizzato in collaborazione con Unicoop Firenze e la Fondazione Il Cuore Si Scioglie Onlus. Un successo crescente raccontato dai numeri, con oltre 1.000 partecipanti la scorsa edizione e più di 16.000 visitatori dall’esordio di un’iniziativa che propone ai detenuti un percorso formativo attraverso cene mensili aperte al pubblico e realizzate con il supporto - a titolo gratuito - di chef professionisti. Le Cene Galeotte confermano inoltre la loro natura solidale: il ricavato di ogni serata - 45 euro il costo, 35 per soci Unicoop Firenze: circa 100 i posti disponibili - è interamente devoluto dalla Fondazione Il Cuore si Scioglie Onlus a progetti di beneficenza di respiro nazionale ed internazionale realizzati in collaborazione con il mondo del volontariato laico e cattolico. Si rinnova dunque la possibilità di un’esperienza irripetibile per i visitatori, ma anche un momento vissuto con grande coinvolgimento da parte dei detenuti, che grazie al lavoro di sala e cucina acquisiscono un vero e proprio bagaglio professionale. In oltre trenta casi questa esperienza si è infatti tradotta in impiego presso ristoranti e strutture esterne, a pena terminata o secondo l’art. 21 che regolamenta il lavoro al di fuori del carcere. Fra le novità di questa edizione la partnership con il Movimento Turismo del Vino Toscana, associazione vinicola di riferimento nel panorama regionale le cui aziende - coinvolte nel progetto dalla Fisar Delegazione Storica di Volterra - prenderanno parte alle serate mettendo a disposizione gratuitamente i proprio vini, ed un Progetto Fotografico che vedrà ogni sera raccontata dagli scatti di fotografi professionisti, presenti sempre in maniera gratuita, le cui opere saranno raccolte a fine edizione in una mostra. Calendario Cene Galeotte 2020 Venerdì 17 aprile 2020 Chef Pietro Cacciatori, ristorante Albergaccio, Castellina in Chianti (Si) Vini: Donatella Cinelli Colombini di Montalcino (Si) Venerdì 22 maggio 2020 Chef Alessandro Cozzolino, ristorante La Loggia, Belmond Villa San Michele, Fiesole (Fi) Vini: Agricola Tamburini di Gambassi Terme (Fi) Venerdì 19 giugno 2020 Chef Vito Mollica, Il Palagio - Four Seasons Hotel, Firenze Vini: Tenuta Di Capezzana di Carmignano (Po) Venerdì 10 luglio 2020 Chef Marco Lagrimino, Osteria Volpaia, Radda In Chianti (Si) Vini: Cosimo Maria Masini di San Miniato (Pi) Venerdì 7 agosto 2020 Chef Marco Stabile, ristorante Ora d’Aria, Firenze Vini: Buccia Nera di Arezzo Per informazioni: www.cenegaleotte.it “I guardiani della memoria”, di Valentina Pisanty. Lessico per una Giornata di Enzo Traverso Il Manifesto, 26 gennaio 2020 Proprio nei paesi in cui la Shoah è stata oggetto di commemorazioni ufficiali e politiche educative, ha suscitato la creazione di musei e memoriali, ispirato numerose opere letterarie e cinematografiche, fino a essere protetta da leggi speciali che prevedono condanne severe per chi osi violarle, proprio qui - è la tesi dalla quale prende le mosse il nuovo saggio di Valentina Pisanty, “I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe” (Bompiani, pp. 256, € 13,00) - razzismo e xenofobia hanno conosciuto una crescita esponenziale, negli ultimi vent’anni. Qualcosa non funziona. Difficilmente contestabile, questa diagnosi mostra impietosamente come la memoria pubblica dell’Olocausto si sia trasformata in una macchina ipertrofica che gira a vuoto, finalizzata a preservare sé stessa anziché svolgere una funzione civile, e sempre più sconnessa dai processi di fabbricazione sociale e culturale del razzismo e della xenofobia. Dopo essere stata convertita, come scrive Pisanty, in una “forma narrativa vuota”, questa memoria reificata e neutralizzata può prestarsi agli usi peggiori: quelli, per esempio, di chi la brandisce come alibi per potere più comodamente predicare l’odio. La memoria pubblica della Shoah è cosa diversa dal trauma dell’esperienza vissuta e dal ricordo che ne scaturisce, incarnato dai sempre più rari sopravvissuti dei campi nazisti. Essa ha i suoi “guardiani” - associazioni, istituzioni e personalità regolarmente sollecitate dai media - che ne amministrano le pratiche e le forme. I guardiani parlano in nome delle vittime e gestiscono la posterità di un evento della storia europea che, secondo la formula ormai canonica di Elie Wiesel, possiede una dimensione assolutamente unica e al contempo universale. La singolarità della Shoah, affermava Wiesel parlando a nome degli ebrei, ne fa “un capitolo glorioso della nostra storia eterna”, mentre il suo carattere universale impone di preservarne la memoria come un dovere etico, una sorta di imperativo categorico del nostro tempo. Ciò permette di selezionare e riformulare le richieste di riconoscimento pubblico di altri genocidi e crimini contro l’umanità conformandoli al lessico specifico dell’Olocausto, fondato sulla dicotomia normativa tra carnefici e vittime: è avvenuto in Ruanda, dove il nazionalismo hutu è diventato un nazismo tropicale; in Ucraina e in America latina, dove l’Holodomor, la collettivizzazione delle campagne nell’URSS degli anni Trenta, e la repressione delle dittature militari degli anni Settanta sono diventate genocidî; e infine al di là dei Pirenei, dove la repressione franchista è stata ribattezzata dallo storico Paul Preston “l’Olocausto spagnolo”. La gestione dell’Olocausto come un lascito, un’eredità, un bene patrimoniale trasforma i suoi “guardiani” in manager della memoria spesso chiamati a definire i siti destinati ad accogliere musei e memoriali, ad amministrare fondi per l’organizzazione di mostre e viaggi scolastici, a finanziare opere d’arte e restaurare siti o edifici. Talvolta si fanno carico di vere e proprie trattative commerciali, come avvenne anni fa quando le associazioni americane dei guardiani della memoria (a differenza di quelle europee) ingaggiarono un agguerrito team di avvocati d’affari per negoziare con le banche svizzere la restituzione dei beni espropriati agli ebrei fuggiti dal III Reich. In tempi recenti, la memoria della Shoah è diventata il vessillo delle istituzioni internazionali. Nel 2000, i rappresentanti di quarantasette paesi riuniti a Stoccolma hanno solennemente sottoscritto un testo comune secondo il quale “l’enormità dell’Olocausto deve essere per sempre stampata a lettere di fuoco nella nostra memoria collettiva”. Dichiarazioni analoghe sono emanate dall’Unione Europea, dove i crimini del nazismo vengono in genere affiancati a quelli del comunismo al fine di accontentare i nuovi membri provenienti dall’ex blocco sovietico. Divisa sulle politiche di accoglienza dei profughi, l’Unione Europea è sempre unanime quando si tratta di pauperizzare la Grecia, privatizzare i servizi o commemorare l’Olocausto. Da un lato discute sul modo più efficace di impedire l’esodo di chi fugge guerre e violenza - se necessario finanziandone l’internamento nei campi libici - e dall’altro commemora le vittime dei campi nazisti. Priva di un assetto federale e di istituzioni democratiche dotate di poteri effettivi, l’Unione Europea si sta profilando, dietro la facciata di un Parlamento decorativo, come un mostruoso binomio: l’eurogruppo dei ministri delle finanze affiancato dalle liturgie della Shoah; lo stato d’eccezione neoliberale unito al “dovere della memoria”. Non stupisce che, così strumentalizzata e avvilita, questa memoria perennemente invocata non abbia più nessuna efficacia nella lotta contro un razzismo dilagante. La Shoah, sosteneva Habermas, è il trauma che ha lacerato il tessuto antropologico sul quale poggiava la storia europea. La scelta di fondare la religione civile delle democrazie occidentali sulla memoria di questo evento ha senso se essa viene connessa al mondo di oggi, se viene indirizzata contro le culture e le pratiche xenofobe che si espandono paurosamente nel presente. Edificata come culto del ricordo fine a sé stesso e impermeabile a quanto avviene nel mondo circostante, la memoria dell’Olocausto non serve a nulla, neppure a proteggere gli ebrei, una minoranza che da settant’anni non subisce più discriminazioni ma viene sovraesposta e rischia di trasformarsi nel capro espiatorio del risentimento suscitato dalle politiche neocoloniali dell’Occidente. Questa memoria è unanime perché non infastidisce nessuno, soprattutto non disturba i principali responsabili del nuovo razzismo. Se il ricordo di chi fu perseguitato e offeso venisse usato per denunciare le esclusioni del presente, questo unanimismo svanirebbe. I giovani “stranieri” che sono nati, cresciuti e hanno studiato in Italia, ai quali oggi non viene riconosciuta la cittadinanza, devono osservare perplessi il fervore con il quale, nel paese in cui vivono, si commemorano le leggi razziali del 1938 che negavano i diritti agli israeliti. Se l’esclusione degli ebrei avvenuta ottant’anni fa continua a suscitare tanta indignazione, perché negare la cittadinanza alle centinaia di migliaia di persone che ne sono escluse oggi? Di fronte a questi paradossi, si ha voglia di rimpiangere un’epoca nella quale gli stati europei non commemoravano l’Olocausto, un evento che nessun ebreo si sarebbe sognato di considerare “un capitolo glorioso” della sua storia. Occulto, silenzioso, fatto di un dolore lancinante ma pudicamente nascosto, il ricordo della Shoah svolse un ruolo importante, durante la guerra d’Algeria, per ispirare la lotta contro il colonialismo, mentre Auschwitz era spesso invocato da chi, come Sartre e Marcuse, condannava i crimini di guerra americani in Vietnam. È ad Auschwitz che Günther Anders, un esule dalla Germania nazista, voleva riunire il tribunale Russell. Priva di guardiani, la memoria della Shoah non possedeva un linguaggio codificato e veniva custodita da ben poche istituzioni, ma la sua efficacia politica era probabilmente maggiore e il suo profilo etico ben più universale. L’appendice di “I guardiani della memoria”, dedicata alla semiotica della testimonianza, contiene alcune formulazioni discutibili, in particolare quelle relative al “carattere interamente ipotetico” della narrazione storiografica, che rischiano, paradossalmente, di indebolire la critica delle tesi negazioniste: se la storia delle camere a gas fosse una ricostruzione “interamente ipotetica”, sarebbe alquanto difficile pretendere che il discorso di Robert Faurisson sulla loro inesistenza sia una menzogna. Sarebbe utile, a questo proposito, rileggere una vecchia polemica tra Carlo Ginzburg e Hayden White. Messa a parte l’appendice, il saggio di Valentina Pisanty sviluppa un’argomentazione stringente. Scritto con ammirevole intelligenza critica, una penna tagliente e un’indignazione percepibile ma sempre controllata, esso scioglie il grumo di contraddizioni di cui è fatta la memoria dell’Olocausto e ci aiuta a orientarci nel suo labirinto. Si tratta, soprattutto in questa congiuntura, di un contributo salutare. Prova che l’intellettuale - una figura pubblica che mette le sue conoscenze e la sua riflessione critica al servizio della società civile, enunciando verità scomode - esiste ancora. Ne abbiamo disperatamente bisogno. 27 gennaio. Tramandiamo la Memoria. La parola ai ragazzi di Patrizio Gonnella L’Espresso, 26 gennaio 2020 “Qui abita un ebreo”, qualcuno ha scritto pochi giorni fa sulla porta di una casa a Mondovì dove abita il figlio di una donna partigiana che ha vissuto la tragedia della deportazione nel campo di Ravensbruck. Questo era il più grande campo di concentramento nazista, a pochi chilometri da Berlino. A Ravensbruck un gran numero di dottori, anzi di criminali, sottoposero le prigioniere a esperimenti medici crudeli. Alcune donne vennero brutalmente ferite, infettate, fratturate fino a produrre loro cancrena. Lo scopo era quello di verificare l’efficacia di alcuni medicamenti da usare per curare i soldati nazisti. Ad altre donne vennero trapiantate ossa che erano state amputate a loro compagne di internamento. Centinaia di donne rom a Ravensbruck furono sterilizzate. Più di dieci medici, indegni del loro ruolo, furono ritenuti colpevoli dal tribunale di Norimberga. Erano responsabili di una vera e propria fabbrica di eliminazione di massa degli indesiderati, a partire dagli ebrei, sino ai disabili e ai dissidenti. A capo c’era Viktor Brack, che medico non era, ma di medici si avvaleva. Chiunque abbia intimidito e offeso quel signore e la sua mamma (oramai deceduta) a Mondovì ha offeso tutti noi nonché la memoria su cui si fondano le democrazie costituzionali contemporanee. Il 27 gennaio è il Giorno della Memoria. Non è una giornata come le altre. Non ha nulla di rituale. È oramai diventata una grande occasione per costruire una memoria comune con le nuove generazioni. Lunedì 27 gennaio a partire dalle 9.30 nell’Aula Magna della Facoltà di Lettere dell’Università Roma Tre, in un evento organizzato dalla stessa Università Roma Tre insieme alla Coalizione italiana per i diritti e le libertà civili, circa cinquecento studenti delle scuole medie inferiori e superiori romane incontreranno gli scrittori reduci dai campi Edith Bruck e Aldo Zargani, dopo aver ascoltato le composizioni del maestro Claudio Di Segni. Queste la parole loro rivolte da Liliana Segre: “Mai dimenticare le parole con le quali Primo Levi ci ha per sempre ammoniti: se quell’orrore è potuto accadere, può accadere ancora. Il pericolo è sempre in agguato: odio, razzismo, antisemitismo, discriminazione, ingiustizia, violenza, guerre, sono malattie anche del nostro tempo. Mai abbassare la guardia, mai voltare la testa dall’altra parte, mai cedere all’indifferenza. Nessuno più di me è sensibile al tema dell’indifferenza.” Parole che si uniranno a quelle dei ragazzi a cui viene dato il compito di tramandare una memoria che altrimenti andrebbe persa. E oggi non possiamo permettercelo, visto quanto ad esempio accaduto a Mondovì. Esistono i criminali, esistono gli indifferenti, esistono gli smemorati, ma fortunatamente esistono anche i ‘giusti’. La memoria dei nostri ragazzi è anche usata per ricordare i ‘giusti’. Tommaso è uno dei ragazzi che lunedì racconterà storie raccolte in famiglia. La sua è la memoria di un giusto: “Durante la seconda guerra mondiale mia nonna viveva con i genitori ed i fratelli a Roma in via Siacci 32. Quando nel 1942 l’esercito tedesco ha iniziato i rastrellamenti degli ebrei, i miei bisnonni hanno nascosto per un anno una famiglia di loro amici ebrei, che altrimenti sarebbe stata deportata nei campi di concentramento. Mia nonna Maria, all’epoca, aveva tre anni e giocava con i figli piccoli della famiglia ospite. Era però tutto molto complicato perché questa cosa doveva rimanere segreta. Non la doveva sapere nessuno. Ad ogni controllo tedesco loro si nascondevano in soffitta. Molti anni dopo la mia bisnonna ha raccontato a mia nonna che secondo lei moltissimi nel quartiere sapevano degli amici nascosti, ma per fortuna nessuno li ha mai traditi. Qualche tempo fa abbiamo ricevuto una telefonata del tutto inaspettata: una pronipote della famiglia ebrea aveva ricostruito questa storia, risalendo ai miei bisnonni e proponendo di nominarli “giusti fra le nazioni”. Nel 2008, una delegazione della mia famiglia è stata invitata a partecipare alla cerimonia di nomina, durante la quale è stato piantato un albero in ricordo dei miei bisnonni. Qualche settimana fa, durante le vacanze di Natale, ho visitato Gerusalemme con mia sorella, i miei genitori e dei nostri cari amici e sono stato al museo dell’olocausto: Yed Vashem. Lì, abbiamo fatto una passeggiata nel Giardino dei Giusti dove abbiamo potuto rintracciare il nome dei miei bisnonni su una delle targhe. Per tutti noi è stata una grande emozione e io sono veramente fiero dei miei bisnonni che hanno rischiato la propria vita per proteggere delle persone innocenti”. E noi siamo fieri di Tommaso e di tutti quelli che useranno il Giorno della Memoria per isolare i criminali, gli indifferenti, gli smemorati. E i nostri ragazzi non possono e non debbono dimenticare le responsabilità del regime fascista. Così Fabio: “Mio nonno, che si chiamava come me, all’inizio dell’anno scolastico 1938-1939, quando aveva più o meno la mia età, è stato cacciato - come diceva lui- “da tutte le scuole del Regno” perché era ebreo. Però posso capire quello che Nonno Fabio ha provato quando, recandosi a scuola una mattina come le altre, ha saputo dal suo insegnate che, a causa di una lettera arrivata al Preside dal Governo, lui in quella scuola non ci poteva più andare, perché era ebreo. E, capendo che sarebbe stato inutile discutere o fare domande, si è ripreso i suoi libri e, uscendo dalla classe, ha guardato i suoi compagni per spiarne le reazioni, e avrà visto - immagino, dato che le classi sono abbastanza tutte uguali - la faccia di chi era contento, di chi era sprezzante, di chi era costernato, di chi aveva le lacrime agli occhi. E credo di capire cosa deve aver provato, tornato a casa, nel dare la notizia della sua espulsione ai suoi genitori, nel vedere le loro espressioni terrorizzate e impotenti mentre gli dicevano: “non è successo niente di grave, vedrai, una soluzione si trova”. Immagino che nella sua testa ci fossero tante domande, le stesse che mi farei io se un giorno decidessero di cacciarmi dalla classe perché ho gli occhi neri o perché non ho i capelli ricci, o altro. E questa è un’esperienza che, in mancanza di democrazia, quando un regime decide di violare il principio più importante della giustizia, quello che dice che siamo tutti uguali di fronte alla Legge - La legge è uguale per tutti - tutti i bambini del Mondo in tutti i periodi della storia rischiano di fare. C’è il rischio che qualunque bambino venga dichiarato inaccettabile, perché del sesso sbagliato, perché bianco o nero o rosso o giallo, perché ebreo, cristiano o mussulmano, yazidi o animista, perché portatore di handicap, perché povero (i motivi possono essere infinti) invece che solo un bambino, un bambino e basta”. È alle nuove generazioni che spetta tramandare la memoria e isolare chi vorrebbe tornare a un passato criminale. “Spegniamo la guerra”. In cinquanta città la giornata per la pace di Franco Uda* Il Manifesto, 26 gennaio 2020 In sincronia con le manifestazioni in 200 centri a livello internazionale. Il movimento pacifista torna in piazza: in Italia da nord a sud sit-in e flash mob e fiaccolate contro i conflitti sparsi nel mondo. La mobilitazione “Spegniamo la guerra, accendiamo la pace” di ieri ha avuto una grandissima risposta nel territorio, in termini di numero di adesioni e manifestazioni: si sono prodotte oltre 50 iniziative locali, uniformemente distribuite su tutto il territorio nazionale, frutto dell’adesione all’appello di circa 110 organizzazioni nazionali e quasi 250 locali, difficile stimare quante cittadine e cittadini vi abbiano preso parte. Presidi, sit-in, fiaccolate, flash-mob, la lettura della lettera che ci è stata inviata da Piazza Tahrir (Baghdad), hanno rianimato le piazze da nord a sud con una partecipazione popolare in nome della pace che non si vedeva da molto tempo. Ma l’elemento davvero significativo è stato quello di sincronizzare globalmente questa mobilitazione - così come lo sono i processi bellici che le stesse manifestazioni stigmatizzavano - per far emergere quello che qualche anno fa avremmo descritto come un altro mondo possibile: 200 città, nei 5 continenti, hanno colto il buon vento e issato le bandiere arcobaleno. In particolare, nel nostro Paese, siamo riusciti a esorcizzare il timore della mobilitazione popolare, gettare il cuore oltre l’ostacolo, e, in qualche misura, rispondere a quanti, in questi ultimi anni, hanno provato a misurare lo stato di salute del movimento per la pace col termometro delle discese in piazza. È stato possibile grazie a un gran lavoro di tanti attivisti e strutture organizzative, senza primedonne, che si sono messi a disposizione per coordinare il diffuso reticolato di cittadinanza attiva che, di volta in volta, si riaccende quando la scintilla è quella giusta. Il nostro tesoretto è oggi costituito da una miriade di contatti, collettivi e individuali, che in queste ultime settimane ci hanno scritto per manifestare la loro volontà di esserci e collaborare per la migliore riuscita della mobilitazione, una rete di un’altra Italia - quella che non semina paure per raccogliere odio - a cui non basta metter il like giusto o postare graffianti tweet, che crede nella partecipazione democratica dal basso, a cui bisogna innanzitutto dire che non finisce qui: il 25 gennaio non è un punto d’arrivo ma una bella giornata di azione collettiva, prodromo di iniziative future. Il movimento per la pace e la nonviolenza proseguirà nel lavoro, che non si è mai fermato, di costruzione di una cultura alternativa alla guerra e al riarmo, di accrescimento di competenze e expertise, di azione di advocacy nella interlocuzione con le istituzioni, con la promozione di campagne, nel dispiegamento di iniziative di solidarietà e cooperazione internazionale. Inoltre il prossimo fine settimana, a Milano, si terrà una due giorni pubblica di riflessione e approfondimento delle prossime strategie, che sancirà il percorso di convergenza politica e organizzativa tra la Rete della Pace e la Rete Italiana Disarmo. Ora abbiamo però bisogno di mettere in campo tutta la nostra buona volontà, generosità e spirito di servizio per superare una segmentazione mobilitativa che in questi ultimi anni ha saputo comunque produrre quella necessaria indignazione contro le pulsioni razziste, per l’azione umanitaria a favore dei migranti, contro il risveglio della cultura neofascista, per la tutela dell’ambiente, contro il dissesto del nostro territorio, per la dignità del lavoro. Dobbiamo provare a cogliere virtuosamente l’intreccio profondo che mette in relazione ambiti solo apparentemente scollegati attraverso un pensiero nuovo e forte - in una certa misura olistico e circolare - che superi la logica lineare di causa-effetto e sappia descrivere i processi globali aggredendoli da angoli diversi di visuale. La Pace - come non si stancava mai di rammentarci Tom Benetollo - è “un progetto politico”, un processo complesso per il quale necessitano risposte complesse: è in questo solco che proseguiremo il nostro cammino, con Giulio Regeni - uomo di pace - nel cuore. *Responsabile nazionale pace, diritti umani e solidarietà internazionale dell’Arci Denigrare il racconto, disarmare il coraggio di Roberto Saviano L’Espresso, 26 gennaio 2020 Il tranello del giornalismo da gossip e retroscena: abbassare tutto a impostura, in un tritacarne che serve a soffocare la verità. E la reazione. Ho scritto di Ani Laurent, l’adolescente trovato morto a Parigi nel carrello di atterraggio dell’aereo proveniente da Abidjan e il racconto, crudo, terribile di ciò che è accaduto a qualcuno non è piaciuto. E chi si è indignato non l’ha fatto per il dramma, ma per il racconto del dramma. Qualche settimana prima apro la casella di posta elettronica e trovo uno screenshot raccapricciante, me lo manda una amica. È la homepage di un noto sito soft-porno di pseudo-informazione, lo stesso che si indigna e strepita per il mio articolo sul quattordicenne morto nel tentativo di raggiungere l’Europa. Ebbene, quel sito dà una notizia come peggio non potrebbe. Il fatto di cronaca è questo: nella provincia di Firenze, un uomo droga con sonniferi sua cognata, la sequestra e per un mese la tiene rinchiusa in un pollaio dove la lega a una branda, la picchia e la violenta. Il sito soft-porno di pseudo-informazione dà la notizia più o meno in questo modo, vado a memoria: “Un porcello nel pollaio”. E poi c’è una foto: polli rinchiusi in un recinto e, in primo piano, una pornostar di spalle nuda e legata. Un crimine - naturalmente ci sarà un processo, ma non mi sembra che si possa a cuor leggero definirla una bravata - raccontato come una goliardata: il presunto stupratore diventa un “porcello” e la donna abusata una attrice porno. Inorridisco al pensiero di chi possa essere il destinatario di un tale giornalismo e al pensiero che possa esserci assuefazione a questo modo di raccontare non solo fatti di cronaca, ma anche ciò che accade in politica. Tutto diventa gossip, anche un crimine, e tutto diventa retroscena costruito spesso da giornalisti falliti, che non sono riusciti a realizzarsi nell’accademia, nell’editoria, né tantomeno nel giornalismo autorevole, ma che oggi stanno avendo il loro termidoro, o almeno così credono. Mi si risponderà che questo modo di fare giornalismo è sempre esistito, ma la cianfrusaglia diffamatoria di un tempo non aveva altra diffusione che i lettori che andavano a cercala in edicola. Penso a tutto il bassissimo gossip che “lo Specchio” vomitava su Pasolini; non oso immaginare quanto peggiore sarebbe stata la vita di Pasolini se tutta la bile che gli veniva gettata addosso avesse trovato una eco sul web. Molto probabilmente sarebbe arrivata, prima del suo lavoro, la diffamazione e avrebbe convinto molti a tenersi lontani dalla sua produzione letteraria e artistica. Quando si descrive l’ingiustizia di una morte precoce, avvenuta per inseguire un sogno, la risposta di alcuni è: perché ce lo racconti? Per farci sentire in colpa? Si insinua che in realtà si tratta solo di un’operazione tattica perché tanto il racconto dell’ingiustizia non muta la realtà che viviamo, ma porta solo consenso a chi scrive. E quale vantaggio si ottiene a raccontare una storia dolorosa? Al contrario, interrogatevi su quali siano le conseguenze di chi non legge le tue parole, ma ti dice che non dovresti scriverle; interroghiamoci sull’obiettivo che chi deride il racconto vuole ottenere: disarmare il coraggio e permettere a tutti di sentirsi comodi nell’odio, legittimando l’ignoranza che spesso non è mancanza di studio, ma di conoscenza. Se non so, sto meglio, ergo tu non devi raccontare, tu devi tacere. Le parole perdono centralità; l’imperativo è denigrare chi scrive e racconta, perché si decida a priori di non leggere e non ascoltare. Colpire l’autore senza interrogarsi sul testo, non farne mai una analisi puntuale, ma basarsi lombrosianamente su quanto un volto possa suscitare antipatie o simpatie, attribuire vizi o virtù a seconda delle necessità. Siamo caduti nel tranello delle bestie del giornalismo da gossip e retroscena, che vogliono abbassare tutto a trama, a imbroglio, a vizio, a impostura, impedendo che possa esistere una differenza. Ed ecco la loro vittoria: far pensare che non ci sia alcuna differenza e tutti, anche i loro “amici”, sono trattati come carne da frollare, a cui spaccare le ossa perché nessuno possa rimanere in piedi. Ma se vuoi puoi sottrarti al tritacarne. Come? Paga e non verrai attaccato, paga e non entri nel mirino. Compra pubblicità sulle nostre pagine e staremo tutti a cuccia. E chi non paga? Verrà massacrato non una volta, non due volte, ma all’infinito. E allora il massacro perenne diventa garanzia. Nessuna paura, come scrisse Blaga Dimitrova: “Calpestata, l’erba diventa un sentiero”. Quel morbo dell’opportunismo che tiene in vita i decreti Salvini di Ignazio Marino L’Espresso, 26 gennaio 2020 L’alleanza tra Pd e 5 Stelle doveva, tra le altre cose, portare alla cancellazione delle leggi sull’immigrazione volute dal leghista. Ma i dem hanno deciso che se ne parlerà solo dopo le regionali. Fare ciò che è giusto, non ciò che conviene. Può sembrare un’affermazione scontata, almeno dal punto di vista etico. E certamente è sempre stato un principio di riferimento nella mia vita da chirurgo. Ma nei pochi anni in cui mi sono dedicato alla politica attiva mi sono immediatamente scontrato con un principio assai diverso: la strada da seguire è quella che conviene al partito, o a se stessi. Ricordo il momento in cui me ne resi conto per la prima volta. Avevo appena depositato al Senato una proposta di legge sul testamento biologico e volevo discuterne con i senatori della maggioranza di centro-sinistra. Una senatrice del Pd, guardandomi dritto negli occhi, affermò che era inutile incontrarsi perché la decisione era “politica”. Tradotto: la legge non si votava. Compresi in quel momento, con sgomento, la differenza tra una decisione presa sul merito e una presa sull’opportunità politica. Passo dopo passo capii quanto l’affermazione di quella senatrice era la regola nella vita dei palazzi. E da sindaco di Roma mi capitò di condividere con un altro sindaco un momento di commiserazione reciproca. Il mio interlocutore durante una riunione mi disse: “Ignazio, devo abbellire il lungomare e sostituire la pavimentazione. Ho chiesto di selezionare materiali diversi sia di natura che di colore e la mia maggioranza mi ha fermato perché la decisione, mi hanno detto, è politica. Ma se io devo scegliere tra pietra, calcestruzzo o altro sulla base di criteri funzionali ed estetici, perché devo convocare una riunione di maggioranza?”. Il perché è chiaro. La politica non è interessata all’eleganza o alla solidità della pavimentazione ma a chi verranno assegnati i lavori. Questi pensieri mi sono tornati in mente in questi giorni. Ho già scritto su queste pagine quanto io ritenga innaturale e sbagliato presentarsi alle elezioni indicando i propri valori, affermando che mai esisterà, ad esempio, un’alleanza con il M5S e poi percorrere la strada opposta, pur invocando scenari devastanti come il pericolo di un ritorno del fascismo in Italia. Quindi, ci è stato spiegato lo scorso agosto, l’alleanza si giustifica per il bene del Paese, e non per mantenere le poltrone in Parlamento. E, infatti, promisero solennemente che nella prima settimana la “santa alleanza” contro il fascismo avrebbe abolito gli odiosi decreti votati dalla Lega e dal Movimento Cinque Stelle che prevedono multe fino a un milione di euro per le navi che soccorrono migranti in mare evitando che affoghino e consentono l’arresto del comandante che porti in acque territoriali quelle vite salvate. Di settimane però ne sono trascorse venti, e in questi giorni il Pd ha deciso che non se ne parla proprio di abolire adesso quei decreti, ci sono le elezioni in Emilia-Romagna quindi è meglio aspettare. Conosco l’Emilia e moltissimi elettori sono giustamente e orgogliosamente legati ai valori della Resistenza e dell’antifascismo. Siete davvero convinti, signori del Pd, che con la vostra decisione di convenienza politica decideranno di sostenervi? Svizzera. Aumenta la recidiva per chi va in carcere di Mauro Spignesi caffe.ch, 26 gennaio 2020 Viaggio in carcere andata e ritorno. Perché chi finisce in cella ha poi un’alta probabilità di ricommettere un reato, con un tasso di recidiva del 36 per cento. Che sale sino al 48 per cento se ha subito “almeno due condanne”. Percentuale che scende, cala sino al 13 per cento se invece una persona finisce davanti a un giudice ma subisce una condanna con la condizionale, o beneficia di lavori di interesse pubblico oppure deve pagare pene pecuniarie. Il dato emerge dagli ultimi aggiornamenti dell’Ufficio federale di statistica ricavati dal casellario giudiziale su un totale di 45.686 sentenze (aggiornate al primo gennaio 2019) e che disegnano un quadro piuttosto preciso su reati e età delle persone (svizzeri o stranieri con permesso C) che finiscono in un istituto penitenziario. “Per capire bene il fenomeno bisognerebbe sapere se chi è recidivo è perché ha commesso lo stesso reato o ne ha commesso un altro”, spiega Cristina Brasi, psicologa giuridica e analista comportamentale forense. “resta il fatto - aggiunge - che il carcere deve avere una funzione riabilitativa. E in questo senso abbiamo diversi esempi positivi. Ci sono istituti dove il detenuto lavora, segue corsi di formazione, studia. Insomma, si prepara al reinserimento nella società”. Naturalmente non ovunque questo è possibile. E soprattutto, vista l’articolazione della comunità carceraria, composta da molti stranieri di culture differenti, non sempre si possono attuare certi programmi. Però dalla ricerca dell’istituto di statistica affiora anche un altro dato. E cioè che il rischio di recidiva diminuisce nel corso del tempo. La maggior parte dei detenuti - soprattutto quelli nella fascia d’età che va dai 22 ai 44 anni - commette un nuovo reato l’anno successivo all’ultima condanna. Del dettaglio: il 37 per cento nei primi sei mesi e il 22 per cento dopo un anno. Dopo tre anni invece si giunge al sei per cento. Ma c’è un altro particolare che emerge, e cioè che soltanto il 13 per cento delle persone che commette un primo reato, dunque non replica, fa molta attenzione e in questo specifico caso il tasso di recidiva è del 13 per cento. “Le pene alternative sono molto importanti - spiega ancora Cristina Brasi - perché consentono alla persona che ha subito una condanna di reinserirsi subito. Bisogna tener conto del retroterra sociale e culturale dell’individuo che sta scontando una pena. Molte volte si tratta di uomini o donne che non si rendono conto, proprio perché sino ad allora hanno vissuto un disagio, del loro potenziale personale. hanno bisogno di acquisire, magari attraverso lavori di pubblica utilità, maggiore autostima, capire la percezione di sé. Cosa che non possono fare se stanno in una cella affollata dove alla fine spesso, succede, si ammalano”. E questo capita nonostante gli sforzi dell’amministrazione carceraria che in alcune realtà deve fare i conti con strutture vecchie, con spazi assolutamente inadeguati. In Ticino, dove l’occupazione delle carceri nel 2018 ha superato il 91 per cento, con una presenza media di 234 detenuti, quasi il 40 per cento stava scontando condanne per traffico di stupefacenti o per furti legati sempre alla droga. E proprio la droga è il reato dove la metà dei detenuti in Svizzera ricadono se hanno almeno due condanne alle spalle. Tra i reati lesioni, droga, rapina, furto e violenza sono quelli dove c’è maggiore possibilità di “ricaduta” mentre sono più attenuati gli effetti per le violenze carnali o su minori, le infrazioni (gravi) alle norme sulla circolazione o la guida in stato di ebrezza. Naturalmente, poi, la maggior parte dei reati sono commessi da uomini (oltre 36 mila, a fronte di 8.784 donne). Quello che è importante, al di là della statistica, “è la possibilità per il detenuto - conclude Brasi - di cominciare sin da subito un percorso di reinserimento. Solo così potrà riprendersi la sua dignità e poi una volta uscito provare a reinserirsi nel contesto sociale”. Grecia. Il sogno tedesco dei profughi bloccati a Lesbo di Francesca Paci La Stampa, 26 gennaio 2020 La rotta dalla Turchia si è riaperta e ogni giorno sbarcano almeno cento persone. In pochi mesi la popolazione è decuplicata. Il campo di Moria è il più grande, ma due terzi del ventimila profughi ormai si trova ospitata all’esterno della struttura. Gli ultimi 85 fantasmi sono emersi dal mare ieri tra Aspropotamos e Molivos, 10 km a nord del campo profughi di Moria dove poche ore dopo registravano la propria vita in cambio di abiti caldi, coperte e una tenda da piazzare all’estremità di questa distesa umana tra gli ulivi e l’Egeo. Ha le spalle larghe Lesbo, la terza isola greca che con i suoi 90 mila abitanti ospita oltre 20 mila rifugiati, 19 mila solo a Moria, l’ex base militare riconvertita all’accoglienza nel 2013 e diventata famosa nel 2015 con il grande esodo dalla Siria. Ha le spalle larghe ma sempre più curve. Dopo il rallentamento ottenuto da Bruxelles con l’appalto delle frontiere europee alla Turchia, distante meno di 6 miglia, gli sbarchi sono ripresi, 100 persone al giorno, un flusso che in pochi mesi ha duplicato la popolazione del campo distribuita ormai per oltre due terzi all’esterno della struttura originaria, alberi secolari ma anche fango, una doccia ogni 230 aspiranti, un riparo di tela addosso all’altro con reti sottili a proteggersi dall’onta della promiscuità. “Vengo da Shizar, sono cristiano, sono scappato dall’Iran a dicembre perché il mio Paese è senza speranza e ora, con le proteste, c’è la possibilità di eludere i controlli”, racconta il barbiere Eshfan rasando per pochi centesimi il coetaneo siriano Hussein, fuggito da una Raqqa in cui “alla caduta del Califfato è seguito il nulla”. Ci sono iraniani di Meshaad e del Khozestan, iracheni, congolesi e senegalesi disposti a volare fino a Istanbul pur di evitare la Libia, siriani che, dice l’aleppino Ali “non godono più della simpatia di qualche anno fa”. Ma l’80% degli abitanti di Moria viene dall’Afghanistan, Konduz, Vardak, giovani uomini dal volto antico come il contadino Nassim che ha venduto i campi per dimenticare i taleban e si è installato qui con la moglie, 5 figlie e le loro due bambole di pezza. I veterani del campo, quelli che vivono nei container da 4 famiglie separate da coperte, sono approdati a Lesbo quasi due anni fa e mentre aspettano l’esito della domanda di asilo e il trasferimento sul continente aprono chioschi di verdura comprata, a detta dell’iracheno Mahmoud, “investendo” i 90 euro mensili assegnati dall’Unhcr o, meno nobilmente, vendono vecchie canadesi agli ultimi venuti per 50 euro. Questo di giorno. Col buio Moria è terra di spiriti animali, guerra tra poveri. Due mamme sole originarie di Balkh mostrano un pacco di pannoloni accanto ai sacchi a pelo: non sono per i bambini ma per loro che, neppure morte, uscirebbero dalla tenda di notte per andare al bagno. “La rotta balcanica è ripartita, a dicembre Belgrado ha riaperto il centro di Presevo, al confine con la Macedonia, chiuso dopo la fine dell’emergenza del 2016” conferma Riccardo Sansone dalla Serbia dove coordina per Oxfam la distribuzione del cibo nei 15 campi destinati a chi svicola dalla Grecia e punta al nord. L’Ungheria, che dalla fine del 2019 denuncia 37 tentativi d’ingresso al giorno, ha raddoppiato i soldati al confine con la Romania, la Croazia e soprattutto con la Serbia. “Mio marito ha speso i risparmi di una vita da sarto per attraversare il confine afghano, raggiungeremo mio fratello in Germania dovessimo andarci a piedi”. Zahara ha 22 anni e ha portato la figlia di 6 mesi alla clinica pediatrica di Medici Senza Frontiere, di fronte al campo. Lo staff da un centinaio di persone è sotto pressione. “Non vedi la fine” ammette l’infermiera Vittoria Zingariello. Il freddo morde, i bisogni lievitano, si fanno 100 visite al giorno per curare ragazzini che torneranno nel gorgo dove hanno contratto laringiti, dermatiti, forme di depressione muta che dopo i 10 anni diventano tagli sulle braccia, alienazione. Da giorni Msf chiede invano aiuto all’Europa per 140 casi di epilessia, diabete, bambini incurabili sull’isola da cui senza convocazione o corridoi umanitari non si evade. Lesbo è la Grecia, risentita per la centralità mediatica del Mediterraneo centrale mentre qui, nel 2019, gli sbarchi sono aumentati del 180%. Ma è soprattutto l’Europa. Non bastano i 65 milioni del programma Estia destinati da Bruxelles ad Atene per nuovi posti per i rifugiati. C’è l’anima in ballo. Due testimoni di Geova stazionano all’ingresso del campo per “colmare il vuoto spirituale” ma pescano poco e niente. È l’idea d’Europa che cercano questi migranti, uomini persi, donne che stendono i panni sui rami, figli senza scuola. “Hallo, how are you?”, ripetono i bambini a chi passa, li guarda e va via a capo chino. Sono ovunque. Il 40% del popolo di Moria ha meno di 18 anni. All’interno della struttura c’è una “safe area” per i minori non accompagnati gestita dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni con camere riscaldate, armadi, giochi, lezioni di greco e d’inglese. Ma può accoglierne 66 e loro sono 1200. Ovunque. Come l’afghano di 5 anni nascosto in una scatola e schiacciato da un camion a settembre. “Non siamo razzisti noi greci” insiste l’agricoltore Costa nel bar del villaggio di Moria, 1.100 anime a mezzora di cammino dal campo. E però “da mesi ci ammazzano le capre per venderle e ora siamo stufi”. Poi a Mytilini una ong di ragazzi locali e migranti ha aperto il ristorante Naam e va benone. Ma l’aria è satura. E il mare non dà tregua. Libia. A Sirte tra i nostalgici di Gheddafi (e tifosi di Haftar: “Ci ha liberato”) di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 26 gennaio 2020 Viaggio nella roccaforte del clan del Colonnello, che vorrebbe al governo il figlio Saif al Islam. E che è controllata dalle truppe dell’uomo forte della Cirenaica, ma è ancora divisa fra tre tribù. “Grazie Khalifa Haftar, che ci hai liberato dalle milizie di Misurata. Ma adesso aspettiamo Saif al Islam Gheddafi al governo”. Non c’è voluto molto tempo prima che tanti tra gli abitanti di Sirte cominciassero a dire ad alta voce ciò che per otto lunghi anni aveva covato nel loro cuore, alimentato dal desiderio faticosamente represso di vendetta. Sono trascorsi solo pochi giorni dal 6 gennaio, data d’arrivo delle truppe dell’autoproclamato Esercito Nazionale Libico capitanato dall’uomo forte della Cirenaica. E già Sirte torna a rivelare con rinnovata energia ciò che in realtà è sempre stata: la roccaforte del clan Gheddafi, nostalgica del quarantennio del Colonnello contro le ingerenze straniere e desiderosa di riprendersi quel ruolo di motore primo dell’unificazione nazionale libica che l’anarchia armata dagli ultimi anni le aveva brutalmente tolto. “Ancora non sappiamo se Saif al Islam, il figlio più politico di Muammar, sarà davvero in grado di ricostruire la Libia. Dal 2011 è stato a lungo in prigione a Zintan, rischia di essere assassinato in ogni momento se esce allo scoperto. Ma certo ci proverà. E noi saremo con lui”, dicono giovani e anziani nei caffè, nei ristoranti, sulla spiaggia, al mercato del venerdì. Ci siamo arrivati dopo aver percorso gli oltre 500 chilometri di deserto piatto e ricco di impianti petroliferi (oggi chiusi) da Bengasi, la cui autostrada costruita dalle ditte italiane negli anni d’oro di Gheddafi segue il tracciato della vecchia via Balbia di epoca fascista. I posti di blocco sono tenuti dagli uomini di Haftar. Il traffico appare regolare. Un viaggio che è anche la biografia delle battaglie e dei mutamenti dei rapporti di forza susseguitisi dallo scoppio della rivoluzione del 17 febbraio 2011: prima l’avanzata delle brigate della rivolta, poi le controffensive delle tribù fedeli a Gheddafi, quindi i trionfi delle milizie di Misurata sostenute dalla Nato, seguiti dall’arrivo di Isis e le battaglie per debellarlo nel 2016. Il racconto della recente vittoria di Haftar ci viene fatto da Ahmad Milud, un imprenditore tripolino 36enne che ai primi di gennaio si era trasferito dalla capitale a Sirte: “La decisione di venire è stata repentina, dettata dalla paura. Il 2 gennaio alle otto di mattina sono uscito in auto dalla mia casa nel quartiere di Hadba a Tripoli per comprare il pane. Ma sono rimasto stupefatto nell’incontrare due miliziani siriani appena inviati dalla Turchia a presidiare da soli un posto di blocco. È stato insopportabile. Non possiamo venire governati da truppe straniere e per giunta mercenari jihadisti. Prima di sera ero già in viaggio per Sirte con mia moglie e le nostre tre bambine”. Tre giorni dopo essersi insediato nell’appartamento di un amico, ecco l’arrivo in città delle truppe di Haftar. “È stato del tutto indolore, pacifico, senza alcuno spargimento di sangue in tutta Sirte. Neppure un colpo di fucile, se non quelli di gioia sparati in aria dalla popolazione per essere stata liberata. Alle cinque del pomeriggio Tv218, l’emittente di Bengasi, avvisava che le loro colonne stavano entrando dalla zona orientale. Altre erano in procinto di tagliare la strada costiera a ovest. Evidentemente le milizie di Misurata circondate da una popolazione ostile hanno scelto la ritirata veloce per evitare di rimanere accerchiate senza scampo”, ricorda. Qui nessuno può dimenticare l’ondata di saccheggi che accompagnò il linciaggio di Muammar Gheddafi con i suoi fedelissimi alle porte di Sirte il 20 ottobre 2011. “Certo che poi le milizie di Misurata con l’aiuto americano ci hanno liberati da Isis nel 2016. Però, in seguito, la loro presenza fu caratterizzata da ingiustizie e vessazioni di ogni tipo. Ci furono tanti furti d’auto ai posti di blocco. I miliziani prendevano con la forza tutto ciò che volevano. Ci consideravano mucche da mungere”, racconta il 46enne Al-Halef Khalifa, proprietario di un supermercato più volte rapinato dalle milizie. Tre suoi nipoti morirono tra le fila di Isis. Una storia nella storia: tanti fedelissimi di Gheddafi, pur se laici e nazionalisti, furono pronti ad unirsi ai radicali panislamici più duri pur di fare la guerra con furia vendicativa contro Misurata e agli occidentali, che avevano determinato la caduta di Muammar. Sono lo specchio delle divisioni tribali imperanti, dramma e ragione prima dell’impasse libica. La stessa Sirte è contesa da almeno tre tribù maggiori: i Gheddafi e i Ma’adani legati al vecchio regime, oltre ai Farjani, i quali invece favoriscono Haftar per il semplice fatto che è dei loro. La città mostra evidentissimi i segni dei conflitti. Almeno due mesi durò l’assedio contro Gheddafi nel 2011. Ma il più grave fu quello contro Isis cinque anni dopo. I crateri delle bombe americane sono ora pozzanghere piene d’acqua marcia. Da allora non c’è stata alcuna ricostruzione pubblica o privata su larga scala. La gente vive nelle abitazioni ancora pesantemente danneggiate e riparate dai singoli alla bell’e meglio. Interi quartieri sono ridotti in macerie. Lo Ouaga-dougou, il lussuoso centro congressi voluto da Gheddafi per favorire il dialogo con i Paesi africani, resta danneggiato dai proiettili e bruciato all’interno. Lungo il mare e presso l’ospedale Ibn Sina le case sono quasi tutte abbandonate. “Nel 2010 questa città aveva oltre 800.000 residenti, adesso sono meno di mezzo milione. Tanti ancora non possono tornare a causa delle carenze abitative. Però qui acqua ed energia elettrica sono più garantite che a Tripoli o Bengasi. I negozi sono ricchi di prodotti, le scuole funzionano regolarmente. Inoltre sono del tutto spariti furti e abusi. Sirte è finalmente sicura”, ricorda il colonnello Kamal, vice comandante dei servizi di sicurezza arrivati con le truppe di Haftar. La ventina di civili con cui parliamo lo confermano senza incertezze: il monopolio della forza imposto dai militari di Haftar è platealmente accolto con soddisfazione. Il fronte si è ora spostato 100 chilometri più a ovest verso Misurata, dove però il consenso resta con le milizie. Tunisia. Rimpatriati figli di militanti dell’Isis detenuti in Libia di Chiara Gentili sicurezzainternazionale.luiss.it, 26 gennaio 2020 La Tunisia ha annunciato il rimpatrio di una decina di minori, detenuti in Libia, figli di estremisti dell’Isis uccisi nel 2016 a Sirte, vecchia roccaforte dello Stato Islamico. Sei di loro sono tunisini e hanno un’età compresa tra i 3 e i 12 anni, gli altri invece possiedono nazionalità differenti. Tutti insieme sono stati ospitati per 3 anni, nella città di Misurata, dalla Mezzaluna Rossa libica, un’associazione di volontari che offre assistenza alla popolazione. Si tratta di bambini che sono rimasti orfani di terroristi, appartenenti all’organizzazione dello Stato Islamico, da quando, nel 2016, la città di Sirte è stata liberata dall’occupazione jihadista. Ora la Tunisia ha accettato di accogliere circa una decina di loro. Un anno fa, la polizia forense tunisina aveva estratto campioni di Dna dai bambini per confermare la loro nazionalità prima di rimpatriarli. Le procedure seguite per preparare i minori all’espatrio sono state spesso criticate dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, prima fra tutte Human Rights Watch, che ha accusato i funzionari tunisini di indugiare e di non fare nulla per rendere più semplici e veloci i meccanismi di rimpatrio dei figli dell’Isis. Negli ultimi anni, la Tunisia è stata una delle maggiori incubatrici di foreign fighters, che, dal loro Paese, hanno deciso di spostarsi in altre parti del mondo per aderire alla causa dello Stato Islamico e combattere a fianco dei militanti estremisti. Nel 2015, le Nazioni Unite hanno contato che circa 5.000 tunisini hanno raggiunto la Siria e la Libia per unirsi all’Isis. Le autorità di Tunisi, da parte loro, smentiscono i numeri dell’Onu e ridimensionano la portata dei foreign fighters a circa 3.000 cittadini. La maggior parte di questi combattenti tunisini si è unita allo Stato Islamico in Libia e ha portato avanti le sue offensive soprattutto a Sirte, dove le forze del Governo di Accordo Nazionale di Tripoli (Gna) sono riuscite a entrare solo dopo settimane di intensi combattimenti. La Libia vive in una situazione di grave instabilità dal 15 febbraio 2011, data che ha segnato l’inizio della rivoluzione e della guerra civile. Nel mese di ottobre dello stesso anno, il Paese nordafricano ha poi assistito alla caduta del regime del dittatore Muammar Gheddafi, ma da allora non è mai riuscito a effettuare una transizione democratica e vede tuttora la presenza di due schieramenti. Da un lato, il governo di Tripoli, nato con gli accordi di Skhirat del 17 dicembre 2015, guidato da Fayez al-Sarraj e riconosciuto dall’Onu. Dall’altro lato, il governo di Tobruk, con il generale Haftar. Il governo di Tobruk riceve il sostegno di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Russia e Francia. In particolare, Il Cairo, Riad ed Abu Dhabi sostengono militarmente ed economicamente le forze dell’esercito di Haftar. L’Italia, il Qatar e la Turchia appoggiano, invece, il governo riconosciuto a livello internazionale. La presenza in Libia di forze appartenenti allo Stato Islamico è stata ripetutamente confermata nel corso degli ultimi due anni. Già nel dicembre del 2017, il coordinatore dell’antiterrorismo dell’Unione Europea, Gilles de Kerchove, aveva dichiarato che, nonostante l’ISIS fosse stato sconfitto a livello territoriale in Siria e in Iraq, sarebbe potuto rinascere in Paesi caratterizzati da “governi deboli”, come la Libia. Il 15 novembre scorso, poi, i militanti dello Stato Islamico in Libia hanno giurato fedeltà al nuovo leader dell’ISIS, Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi, succeduto ad al-Baghdadi il 31 ottobre scorso. Nel video trasmesso, ogni foto riporta una didascalia che cita: “Siamo a lato delle truppe del califfato del principe dei fedeli, lo sceicco jihadista, Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi (che Allah lo protegga)”. Il Global Terrorism Index 2019, relativo al 2018, ha inserito la Libia al 12esimo posto tra i Paesi che subiscono maggiormente la minaccia terroristica, con un indice pari a 6,76 su 10. Nonostante le capacità militari dello Stato Islamico siano notevolmente diminuite, il gruppo terroristico è ancora in grado di condurre attacchi contro obiettivi occidentali locali e nella regione circostante. Nell’ambito della lotta contro l’Isis, un ruolo di rilievo è stato svolto da Washington e dal comando statunitense in Africa (Africom), responsabile di diversi attacchi aerei condotti contro le milizie terroristiche, situate in aree definite principali per la produzione di petrolio del Paese. Tra il 20 ed il 30 settembre scorso, quattro attacchi aerei hanno causato la morte di 43 militanti dello Stato Islamico ma, a detta di un funzionario della difesa statunitense, in Libia vi sono ancora circa 100 combattenti jihadisti.