Traducete quelle pagine sull’inferno delle nostre galere di Elisabetta Zamparutti* Il Riformista, 25 gennaio 2020 Violenze, suicidi, isolamento. Il Comitato anti-tortura del Consiglio d’Europa mette sotto accusa le carceri italiane, ma il suo report è solo in inglese. Va tradotto, per permettere a tutti di conoscerlo: direttori, detenuti e cittadini. È la prima volta che il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt) dedica una visita ad hoc all’uso dell’isolamento, nelle sue varie forme, nelle carceri italiane. I vari regimi di isolamento e segregazione sono stati già oggetto di valutazione in precedenti rapporti, ma mai una disamina così sistematica era stata condotta. L’isolamento è, insieme alla pena di morte e alla “pena fino alla morte”, tra i trattamenti più disumani e degradanti. E se una visita ad hoc viene effettuata su un aspetto specifico della detenzione, come l’isolamento, allora vuol dire che il problema in quel Paese è davvero serio. Riferisco un dato per tutti. Quando il Cpt, nel corso della sua visita che ha riguardato le carceri di Biella, Opera, Saluzzo e Voghera, si sofferma sul problema dei suicidi in carcere, a fronte del fatto che nel 2018 si era raggiunto il numero record di 63, rileva che i quattro suicidi che si sono verificati negli istituti visitati (Saluzzo e Voghera) hanno tutti riguardato detenuti in condizioni di isolamento (per diversi motivi: disciplinare, preventivo oppure su base volontaria). Nessuno dei detenuti era stato valutato a rischio suicidio, ma erano stati considerati soggetti difficili da trattare per via del loro comportamento. Ma il Cpt rileva anche che chi è stato considerato a rischio suicidio, poi viene trattato con modalità che si traducono in un isolamento di fatto, con la sorveglianza a vista magari affidata alle telecamere, che è l’esatto contrario di quanto serve a chi è già in preda ai suoi fantasmi. Vi sono poi tutta una serie di altre criticità riscontrate, che però il personale che lavora in carcere, a partire dai direttori non è messo nelle condizioni di conoscere. Perché le 53 pagine che compongono il rapporto, a cui vanno aggiunte le pagine delle risposte date dal Governo ai rilievi mossi, sono in inglese. Quanti sono coloro che all’interno dell’amministrazione penitenziaria conoscono la lingua inglese così bene l’inglese da leggere tutto il documento? Accade così che, magari, i direttori leggono sui giornali che nel loro carcere sono avvenuti maltrattamenti, o che ci sono carenze e lacune di vario tipo, senza essere messi nelle condizioni di sapere cosa esattamente dice e chiede il Comitato, e quindi senza essere messi neppure nelle condizioni di replicare o prendere provvedimenti. La redazione e la pubblicazione di ogni rapporto del Cpt richiede un impiego di risorse umane e finanziarie considerevole. C’è la visita che dura circa due settimane, poi l’elaborazione di una prima bozza di rapporto da parte della delegazione che ha condotto visita e, infine, la sua adozione durante la sessione plenaria. Questo è un investimento da parte del Consiglio d’Europa, di cui il Cpt è un organismo di monitoraggio, nella costruzione di uno Stato di Diritto sempre più forte. Perché allora lasciarlo sotto utilizzato? Perché non provvedere subito alla sua traduzione e diffusione, intanto negli istituti oggetto della visita e poi anche negli altri? Mi chiedo se davvero lo Stato italiano non abbia a disposizione quelle risorse - parliamo di qualche migliaio di euro al massimo - per assicurare la traduzione ufficiale di un testo che dovrebbero conoscere tutti, dal Governo a partire dai suoi Ministri competenti, ai parlamentari, perché ne facciano uno strumento della loro attività. Ma soprattutto da parte del personale che lavora in carcere e dei detenuti, così come da parte degli avvocati e di tutti quei cittadini interessati a conoscere in che condizioni versano le carceri del proprio paese. Trovo infine paradossale che proprio chi ha fatto della trasparenza un fiore all’occhiello del proprio mandato politico non abbia ancora attivato la procedura di pubblicazione automatica dei rapporti del Cpt, vincolati - come sono ancora in Italia - all’autorizzazione alla pubblicazione da parte del Governo. Marco Pannella aveva fatto del diritto alla conoscenza l’impegno prioritario dell’ultima parte della sua vita, consapevole che costituisse l’antidoto al degrado dello Stato di Diritto e, quindi, alla violazione di diritti umani fondamentali soprattutto nei luoghi di privazione della libertà personale. *Tesoriere di Nessuno tocchi Caino, già componente del Cpt per conto dell’Italia Bonafede e gli innocenti. Il ministro che scivola sul carcere di Carlo Nordio Il Messaggero, 25 gennaio 2020 Com’era immaginabile, l’infelice frase del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che “gli innocenti non finiscono in carcere” ha sollevato feroci critiche e imbarazzati dissensi. Il povero ministro ha chiarito che si riferiva “in quel contesto, a quelli che vengono assolti”. Il che è come dire che il signor De La Palisse un quarto d’ora prima di morire era ancora in vita. È ovvio infatti che chi è assolto non finisce in galera. È anche ovvio, però, che molti poveretti vi sono finiti salvo poi essere clamorosamente scagionati. Al netto della goffa difesa del ministro, va comunque detto che “nel contesto” di quella trasmissione, dove si parlava di prescrizione, questo problema non c’entrava nulla. La prescrizione infatti incide sulla lunghezza dei processi, non su quella della carcerazione preventiva di chi alla fine viene scagionato, e quindi probabilmente è a questo che il Guardasigilli si riferiva. Ma nell’attuale imbarbarimento della giustizia e della sua comunicazione, di cui Bonafede è in buona parte responsabile, la nemesi si è rivolta contro di lui. Il ministro non voleva certo negare gli errori giudiziari dai quali derivano risarcimenti per l’ingiusta detenzione che dal 1992 sono stati ben 27 mila con un costo complessivo di circa 700 milioni di euro. Bonafede si è semplicemente espresso nella foga emotiva simile a quella di Salvini quando quest’ultimo ha invocato i pieni poteri senza per questo auspicare un nuovo balcone a palazzo Venezia. Nell’era dei twitter e degli slogan questi accidenti accadono: poi ognuno li cavalca come meglio gli conviene. Quello che di grave vi è nell’atteggiamento del ministro non è dunque un’espressione maldestra in cui non crede neanche lui. È piuttosto la dilettantesca superficialità con cui si affrontano materie così delicate, che dovrebbero esser trattate con pacato e competente raziocinio. Questa superficialità, che alla fine si esprime con queste frasi infelici, non dipende tuttavia da una pigra negligenza, ma affonda in quella cultura acriticamente repressiva di cui Bonafede è forse una vittima, più che un protagonista, perché qualcuno gli ha comunicato idee tanto bizzarre. Quelle idee per cui non esistono politici innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca; quelle per cui il difensore è una presenza superflua, per non dire un interlocutore molesto o addirittura un complice del reo; quelle per cui anche il giudice talvolta è irrilevante, perché basta il Pm a garantire la legalità; quelle per cui anche l’appello è uno spreco di tempo, che comunque non va più devoluto a un organo collegiale ma a un singolo magistrato, così si abbreviano i processi. E potremmo continuare. Questi rosari di belle pensate non sono, purtroppo, solo belle pensate. Sono oggetto di corrucciati dibattiti, di penitenziali ammonimenti e persino di progetti legislativi. Non solo. Son presi addirittura sul serio da chi, invece di chiamare gli infermieri (per la Giustizia, s’intende, non per i loro autori) si limita a timide dissociazioni o a verecondi silenzi per non compromettere gli equilibri governativi, a costo di smentire la propria storia. Che altro infatti potremmo dire di un Partito Democratico che ai tempi di D’Alema e del progetto Boato proponeva in Commissione Bicamerale un solido e radicale indirizzo garantista, e ora annaspa nell’affannosa ricerca di un compromesso sul quel mostro che è la sospensione della prescrizione? Ecco, questa, e non la voce dal sen fuggita è la colpa di Bonafede e di chi gli sta dietro: una continua, ininterrotta, e pubblica adesione a progetti che avviliscono quel poco civiltà giuridica che ci rimane, e che mira a trasformare la presunzione di innocenza in un favola vuota. Infischiandosene, come spesso accade quando si piega il diritto alle proprie convenienze, di un principio consacrato nella “Costituzione più bella del mondo”. Le ragioni del garantismo di Valentina Errante Il Messaggero, 25 gennaio 2020 Bonafede: gli innocenti non finiscono in carcere. Bufera sul ministro, Salvini: si dimetta. Fi: “E la malagiustizia?”. L’inciampo di Alfonso Bonafede (“Cosa c’entrano gli innocenti che finiscono in carcere? Gli innocenti non finiscono in carcere”) tiene banco per tutta la giornata. I numeri raccontano che in tanti sono finiti dietro le sbarre ingiustamente. Tanto da ricevere, poi, un risarcimento per ingiusta detenzione: 1.000 casi all’anno dal 1992 al 2018. Ma è una cifra parziale, perché spesso chi è stato arrestato, per poi essere rimandato a casa da una sentenza di proscioglimento o da un’assoluzione, o ancor prima da un’archiviazione delle accuse, non chiede allo Stato di riparare il danno in termini economici. La frase del Guardasigilli fa scoppiare una bufera politica e a intervenire è anche Gaia Tortora, figlia di Enzo, diventato il simbolo di chi ha patito la galera e la gogna senza aver commesso alcun reato. Dall’inizio del 1992 al 31 dicembre 2018 le richieste che si sono concluse con un risarcimento per ingiusta detenzione sono stati 27mila. “Mille all’anno, tre al giorno, uno ogni otto ore”, commenta Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali. Da allora gli arresti ingiusti sono costati allo Stato 700milioni di euro. Nel solo 2018 i casi sono stati 913, con un peso, per le casse pubbliche, di 48 milioni. Per l’Unione camere penali, però, solo una parte degli aventi diritto chiede effettivamente dio ottenere un risarcimento, quindi le cifre sarebbero molto più alte. Non solo: non tutte le persone che ne fanno richiesta ottengono la riparazione del danno subito. L’istruttoria è complessa e basta poco per non rientrare tra gli aventi diritto. Ad esempio, la scelta di avvalersi della facoltà di non rispondere durante le indagini preliminari o durante il processo, potrebbe costituire un pregiudizio: il soggetto in questione, con la sua condotta, avrebbe contribuito a determinare l’errore della magistratura. Secondo le statistiche nel 2017 il 50 per cento dei processi con rito ordinario si è concluso con una sentenza di assoluzione. Nel calcolo non rientrano gli errori giudiziari: l’istituto giuridico che presuppone la sussistenza di una revisione del processo dopo una condanna definitiva. Dal 91 al settembre 2018 si sono verificati 144 casi. Da gennaio a settembre 2018 ne sono stati contati 9. La bufera investe immediatamente il ministro della Giustizia. Ad attaccarlo, oltre agli esponenti dell’opposizione, sono anche i Cinque Stelle. Bonafede tenta di raddrizzare il tiro, risponde anche a Gaia Tortora che a stretto giro, su Twitter, aveva chiesto chiarimenti: “Ministro le chiedo di spiegare la sua frase ad Otto e Mezzo gli innocenti non finiscono in carcere. Grazie”. Il Guardasigilli spiega su Facebook “Mentre si stava parlando di assoluzioni e condanne - spiega - ho specificato che gli innocenti non vanno in carcere riferendomi evidentemente e ovviamente, in quel contesto, a coloro che vengono assolti (la cui innocenza è, per l’appunto, confermata dallo Stato). Ad ogni modo la frase non poteva comunque destare equivoci perché subito dopo ho specificato a chiare lettere che sulle ipotesi (gravissime) di ingiusta detenzione, sono il ministro che più di tutti ha attivato gli ispettori del ministero per andare a verificare i casi di ingiusta detenzione”. E aggiunge: “per la prima volta ho introdotto presso l’Ispettorato in maniera strutturata il monitoraggio e la verifica dei casi di riparazione per ingiusta detenzione, anche in occasione delle ispezioni ordinarie”. La spiegazione di Bonafede accontenta Gaia Tortora, ma non basta alla politica. Il ministro viene travolto da un fuco di fila. Prima e dopo la sua precisazione. In primis Matteo Salvini: “Gli innocenti non vanno in carcere? - tuona il leader della Lega - un ministro così ignorante l’Italia non l’ha mai avuto, questa sciocchezza il signor Bonafede la vada a raccontare ai famigliari delle migliaia di cittadini ingiustamente incarcerati. Che si dimetta”. Mara Carfagna, vicepresidente della Camera e deputata di Forza Italia, commenta su Twitter: “L’Italia è quel posto in cui i processi sono interminabili e i casi di malagiustizia innumerevoli, ma il ministro della Giustizia Bonafede cancella la prescrizione e dice che gli innocenti non vanno in galera. Gli innocenti, purtroppo, ci vanno eccome. Più di 26.000 in 20 anni”. Rincara la dose Enrico Costa, il deputato di Forza Italia che ha tentato di bloccare, con una sua proposta di legge, la riforma della prescrizione: “Bonafede è un ministro che calpesta la Costituzione, nel silenzio del Pd”. E invece gli attacchi arrivano anche dai dem: “No caro ministro Alfonso Bonafede, in galera purtroppo possono finirci anche gli innocenti. Per questo la nostra Costituzione prevede la possibilità di ricorrere in Cassazione contro ogni provvedimento, tre gradi di giudizio e la possibilità di revisionare i processi”, scrive su twitter il parlamentare Andrea Orlando del Partito democratico. Un ripasso della carta costituzionale è il suggerimento del dem Matteo Orfini. Questa è la sua cultura politica: quella di Davigo, di Travaglio... di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 25 gennaio 2020 Lei sa, signor ministro Bonafede, che non è mio costume speculare su incidenti altrui, e ridere scompostamente di chi inciampa. Ho anche letto la sua precisazione, che questa volta francamente fatico a comprendere. Ci mancherebbe pure che l’assolto debba poi andare in galera! Ma qui mi preme che lei comprenda seriamente cosa possano aver significato le sue parole - “gli innocenti non vanno in carcere” - per le decine, anzi le centinaia di migliaia di persone che hanno vissuto quell’incubo. E lasci perdere le condanne per ingiusta detenzione. Davvero pensa che sia quella la contabilità reale di chi ha ingiustamente patito il carcere? Lei è drammaticamente fuori strada, signor ministro. Si tratta di una piccolissima parte di quelli che hanno vissuto ingiustamente da colpevoli. Ma lei ama occuparsi di vittime. Come tutti i populisti giustizialisti, le è più comodo, facile ed utile, senza preoccuparsi se il presunto carnefice possa essere a sua volta la prima e la più tragica delle vittime. Questo d’altronde è esattamente il discrimine tra l’idea liberale e quella populista della giustizia penale. Per i primi, diversamente dai secondi, il prezzo più alto che una società possa pagare non è un colpevole impunito, ma un innocente in galera. In verità, andiamo ben oltre il pensiero liberale. Si tratta di una idea fondativi della civiltà umana, dal “in dubio pro reo” del 530 dopo Cristo al contemporaneo “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Il sistema processuale, signor ministro, è ab origine concepito per prevenire questa tragedia, l’innocente in galera, l’unica davvero intollerabile. Altro che “certezza della pena”. La facilità con la quale lei ha potuto dire e anche ripetere quelle parole non è dunque un incidente, ma la esatta spia del punto di vista politico che lei esprime. È un problema di priorità, di cosa si abbia innanzitutto in testa quando si parla di processo, di sanzione, di pena, di innocenti e di colpevoli. Ed è il punto di vista che ha portato lei, coerentemente con il risultato elettorale, ad essere ministro di Giustizia del nostro Paese, e a firmare le leggi che ha firmato. Leggi per “spazzare via” la corruzione (a proposito, complimenti per i brillantissimi risultati, sotto gli occhi di tutti), e per introdurre la categoria dell’imputato a vita, con la nota abrogazione della prescrizione. Sono leggi che vengono concepite da chi vive letteralmente ossessionato dal colpevole impunito, mai dall’innocente massacrato. Non credo dunque che lei debba giustificarsi, signor Ministro: questa è, semplicemente, la cultura politica che lei esprime, con il suo movimento stellato, i suoi Davigo, i suoi Travaglio, i suoi Di Matteo, insomma tutta la nota compagnia di giro. Io anzi preferisco che lei la esprima quotidianamente, con la massima, inequivocabile chiarezza. Si tratta invece di capire cosa ne pensino i suoi nuovi alleati di governo; quali misteriose e penose mediazioni si pretenderebbe di concludere con l’idea del diritto e della legge penale che lei incarna e rappresenta - sia detto a suo onore - senza equivoci, senza mai nascondersi. Quale indecorosa resa a esse si stia facendo rovinosamente strada su principi che dovrebbero essere non negoziabili, salvo a volersi iscrivere definitivamente nell’empireo del populismo giustizialista. Ma sia cauto, per il futuro, quando parla di innocenti. Li lasci perdere, almeno. Come ho cercato di spiegare, di norma gli innocenti condannano sé stessi al silenzio. Ma noi avvocati le loro storie le conosciamo, e non abbiamo nessuna intenzione di tacere. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Bonafede e il modello Davigo: non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti di Luciano Capone Il Foglio, 25 gennaio 2020 Si fa presto a chiamarla “gaffe”. La semplicità con cui, per due volte, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha risposto “gli innocenti non finiscono in carcere” alla giornalista Annalisa Cuzzocrea che a “Otto e mezzo” gli aveva chiesto se da Guardasigilli si preoccupasse delle tantissime persone ingiustamente recluse è una bestialità. Bonafede, dopo le polemiche, si è difeso dicendo che lui “è il ministro che più di tutti ha attivato gli ispettori per verificare i casi di ingiusta detenzione” e che con quell’espressione, “gli innocenti non finiscono in carcere”, intendeva riferirsi “a coloro che vengono assolti la cui innocenza è, per l’appunto, confermata dallo stato”. Un’altra bestialità, che però è rivelatrice di un certo modo di pensare. Con questa precisazione - che parte da una semplice tautologia: è ovvio che una persona assolta non finisce in carcere -Bonafede arriva a ribaltare il principio costituzionale della presunzione d’innocenza: lo Stato, attraverso il processo e la sentenza, non dimostra la colpevolezza, ma “conferma” o meno l’innocenza. Grazie a un semplice lapsus del ministro della Giustizia più squinternato della storia repubblicana, quello che si vanta di aver abolito la prescrizione, come se fosse un vitalizio o un’auto blu, i cittadini si trovano proiettati nel mondo di Davigo, quello in cui “non esistono innocenti, ma esistono solo colpevoli non ancora scoperti”. Dice, ora che è alleato del Pd, che da ministro si rifiuta “di commentare le pagliacciate di Salvini”, riferendosi alla spedizione squadrista al citofono del capo della Lega. Ma quando i due erano al governo insieme Bonafede lo scimmiottava e si truccava alla stregua del Truce per competere nelle pagliacciate giustizialiste. Esattamente un anno fa, il ministro della Giustizia metteva la divisa da secondino e diffondeva sui social network un indecente video promozionale ed emozionale con tanto di musichetta - Bonafede nel campo ha una certa expertise, faceva il disc jockey col nome Fofò Dj - di Cesare Battisti ammanettato. E nel video - che poi il Guardasigilli ha rimosso dalla sua pagina Facebook - i due, Salvini e Bonafede, Fifì e Fofò, erano uno a fianco all’altro. Un dettaglio, forse marginale ma particolarmente grave, è che Alfonso Bonafede è laureato in Giurisprudenza, ha preso un dottorato e, soprattutto, è un avvocato. Cioè colui che per professione, e spesso per vocazione, ha il compito di difendere i diritti degli individui in un processo. C’è da dire che ogni volta che apre bocca fa fiorire mille interrogativi su come sia riuscito a portare a compimento gli studi. Non solo confonde innocenza e assoluzione, ma Bonafede non ha chiari neppure i termini di dolo e colpa (“Quando il reato non si riesce a dimostrare il dolo diventa un reato colposo”, disse in un’altra memorabile uscita). Ecco, la Repubblica italiana un personaggio del genere lo ha fatto ministro della Giustizia e il Parlamento - prima con l’appoggio della Lega e ora della sinistra - gli ha fatto stravolgere il processo penale. Sarà che il diritto penale non è proprio il suo campo di competenza, perché Bonafede si occupava di diritto civile, facendo peraltro da consulente ad associazioni che si oppongono ai vaccini. Ma anche nella materia in cui dovrebbe essere più ferrato ha sparato sciocchezze tali per cui gli avvocati ancora gli ridono dietro. Qualche tempo fa, in un’intervista, Bonafede si vantava da avvocato, dopo aver ottenuto una sentenza favorevole, di fare anche un decreto ingiuntivo prima del pignoramento. Che è un po’ come andare al ristorante e, una volta arrivato il piatto a tavola, ordinarlo di nuovo prima di impugnare la forchetta. Bonafede dice di essere il ministro che più di tutti ha attivato gli ispettori di Via Arenula per verificare le anomalie, forse qualcuno dovrebbe andare all’Università che gli ha rilasciato i titoli di studio per vedere se è tutto a posto. Ma i barbari sono anche tra noi giornalisti di Iuri Maria Prado Il Riformista, 25 gennaio 2020 Giornalisti e politici ora fanno ironia sul ministro negazionista e ignorantello. Ok. Ma loro hanno fatto qualcosa per porre fune alla vergogna degli innocenti in carcere? Il negazionismo del ministro Bonafede, secondo il quale “gli innocenti non finiscono in carcere”, rappresenta più che altro un caso di sfrontata indecenza. Fa abbastanza schifo, come quello che lascia in mare i disperati perché lo sanno tutti che non sono veri profughi ma ragazzoni muscolosi col cellulare fico. Certo, ci sarebbe da trasecolare davanti a un ministro che spaccia roba simile, così violentemente falsa, così insultante, ma si tratta dello stesso che si traveste da secondino e fa il film della giornata indimenticabile col detenuto avviato a marcire in galera. Insomma, questo Bonafede lo conosciamo bene. A far vergogna, tuttavia, a dare scandalo, è che tanti innocenti finiscano in carcere: non tanto il ministro della Giustizia che nega quel fatto inoppugnabile. E a quelli che pur giustamente hanno denunciato la dichiarazione del ministro Bonafede bisognerebbe domandare se il problema della detenzione ingiusta si risolve così, e cioè contestando al ministro il diritto di dire panzane. Perché non è che se il ministro smette di negare che gli innocenti finiscono in galera quelli smettono di finirci. Se sparano ai negri il problema qual è? Che un ministro nega la matrice razzista dell’attentato? Eppure ieri il deputato Pd Andrea Romano si lagnava della “barbarie” di Bonafede, che dovrebbe essere sconfessata dal Movimento 5 Stelle “se davvero vogliamo lavorare ad una prospettiva di alleanza”. Ma ci si interroga: nella prospettiva di alleanza di cui parla Romano c’è posto per qualche iniziativa sugli innocenti in carcere? O la questione è risolta con Bonafede che non dice più cretinate? Ne dice e continua a dirne, e lo ha fatto giusto a proposito della propria dichiarazione: spiegando che lui, quando parlava di “innocenti” (che appunto non finirebbero in carcere), intendeva in realtà riferirsi agli “assolti”. E vediamo se qualcuno gli domanda se tra gli assolti (dopo) non c’è qualcuno che (prima) s’è fatto la sua bella galera. Ma si ripete: da questo qui cosa vuoi pretendere? Sono gli altri, alleati e presunti oppositori, a lasciare le cose come stanno e anzi a lasciare che si aggravino, e non è che una politica più grammaticata e presentabile serva a impedire l’ignominia delle carcerazioni ingiuste. Le prigioni sono piene di gente che in prigione non dovrebbe starci, ed è su questo, magari, che bisognerebbe fare qualcosa. È questa la “barbarie”, prima che la boutade tontolona del ministro guardasigilli. Prima e dopo, come detto: perché gli innocenti continuano a finire in carcere, e se è vero che ingiustamente qualcuno ce li manda è anche più vero che qualcun altro, altrettanto ingiustamente, ce li lascia. Ed è, questa, una responsabilità che non s’attenua imbrigliando la disinvoltura giustiziera di un ministro grillino. Abruzzo. Detenuti usati come cavie, stop del Garante nazionale ai test di Maria Trozzi La Notizia, 25 gennaio 2020 Palma boccia l’iniziativa avviata nelle carceri. No a ricerche in contrasto con le norme anti-tortura. Il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma bacchetta il garante d’Abruzzo Gianmarco Cifaldi sui test ai detenuti e sulle dichiarazioni di Cifaldi riportate in una nota dell’Agenzia di stampa della Regione Abruzzo (Acra). Tutte affermazioni rilasciate per la sottoscrizione del protocollo d’intesa e, conferma il Garante, in contrasto con il protocollo effettivamente sottoscritto tra i vertici del carcere teatino e l’università di Chieti in cui Cifaldi è docente. Palma spiega l’accaduto, stupito dall’intervento del garante abruzzese alla stessa stregua di Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione comunista, che si è mobilitato contro l’iniziativa annunciata e ora chiede le dimissioni di Cifaldi. “Il Garante nazionale informa che Cifaldi è stato costretto a fare marcia indietro e infatti si rimangia il comunicato che ho contestato”, sostiene l’autore della legge istitutiva del garante in Abruzzo. Niente cavie dunque, la nota (Acra) sarà rimossa perché non corrisponde all’intesa sulla “Osservazione scientifica della personalità dei detenuti sex offender e di iniziative trattamentali, culturali e sportive riguardanti gli stessi”. “Tale nota riporta dei virgolettati attribuiti al Garante Cifaldi con un contenuto molto diverso da quello del testo del Protocollo sottoscritto - dichiara il Garante nazionale - e seguendo il ragionamento del comunicato, la ricerca in cantiere avrebbe caratteristiche inaccettabili come la conduzione di test che comprendono registrazioni posturo-stabilometriche e termografiche di reazioni a stimoli somministrati attraverso immagini emotivamente significative ed emotivamente neutre in contrasto con standard e indicazioni anche del Comitato europeo contro la tortura (Cpt) oltre che dei principi su cui si basa l’azione del garante nazionale”. Palma aggiunge che non consentirebbe mai una ricerca che contrasti gli standard internazionali e il rispetto dei diritti delle persone private della libertà. “Anche considerando i limiti che la situazione soggettiva di tali persone determina relativamente alla genuinità del loro libero consenso”, puntualizza il garante. Quest’ultimo ritiene poi “inopportuno che un’Autorità di garanzia si renda promotrice e attrice di iniziative che rientrano nella sfera del proprio controllo indipendente”, facendo così anche riferimento alla docenza del garante Cifaldi. “Il compito che la legge regionale affida all’Ufficio del Garante - chiarisce l’ex parlamentare Acerbo - è quello di assumere ogni iniziativa volta ad assicurare che alle persone detenute siano erogate le prestazioni inerenti al diritto alla salute, al miglioramento della qualità della vita, all’istruzione e alla formazione professionale e ogni altra prestazione finalizzata al recupero, alla reintegrazione sociale e all’inserimento nel mondo del lavoro. Il Garante deve segnalare eventuali fattori di rischio o di danno per le persone, accertare omissioni o inosservanze, proporre gli interventi amministrativi e legislativi da intraprendere per contribuire ad assicurare il pieno rispetto dei diritti delle persone - conclude il segretario di Rifondazione - proporre iniziative concrete di informazione e promozione culturale sui temi dei diritti e delle garanzie delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. E ancora una volta la Regione Abruzzo fa una figuraccia per l’incompetenza del ceto politico e anche, purtroppo, per la pochezza culturale della sua università”. L’ennesimo schiaffo per la giunta sovranista. Abruzzo. Test sui detenuti, il Garante Cifaldi investito dalle polemiche di Nello Avellani news-town.it, 25 gennaio 2020 Sta facendo discutere il protocollo d’intesa che, nei giorni scorsi, è stato sottoscritto tra il Garante regionale dei detenuti Gianmarco Cifaldi, il Rettore della d’Annunzio Sergio Caputi e il direttore della Casa Circondariale di Chieti Franco Pettinelli. L’accordo, infatti, mira a valutare le risposte comportamentali di alcuni detenuti sottoposti ad un determinato stimolo; in particolare, il progetto verrà svolto attraverso la collaborazione tra tre diversi Dipartimenti dell’Ateneo, ovvero il Dipartimento di Scienze Giuridiche e Sociali nella persona del Professor Gianmarco Cifaldi, il Dipartimento di Scienze Mediche, Orali e Biotecnologiche nella persona del Professor Michele D’Attilio e il Dipartimento di Neuroscienze, Imaging e Scienze Cliniche nella persona del Professor Arcangelo Merla. Questo progetto avverrà in collaborazione con il carcere di Chieti e attraverso l’aiuto del garante dei detenuti d’Abruzzo. “La ricerca - ha spiegato Gianmarco Cifaldi - volge a verificare i presupposti di un comportamento deviante mediante una metodica di stimolo-risposta attraverso una strumentazione non invasiva per verificare il grado di aggressività del detenuto. Gli stessi test verranno eseguiti su una popolazione esterna eterogenea come gruppo controllo. Si andrà a verificare se c’è o meno un cambiamento posturale in soggetti dotati di una particolare aggressività in funzione di stimoli somministrati attraverso immagini visive utilizzando apparecchiature non invasive: la pedana posturo-stabilometrica, uno strumento che rileva le variazioni del baricentro corporeo neo tre piani dello spazio; la termografia, uno strumento che rileva la temperatura dei muscoli superficiali del viso”. Il test - ha chiarito Cilfadi - sarà suddiviso in tre fasi: il soggetto, durante le registrazioni posturo-stabilometriche e termografiche, verrà sottoposto alla visione di immagini emotivamente significative ed emotivamente neutre; il soggetto verrà sottoposto ad un questionario di anamnesi medica ed odontoiatrica; il soggetto verrà testato col protocollo posturale del Prof. D’Attilio mediante pedana posturo-stabilometrixa e termocamera. “Il confronto statistico tra il gruppo test e controllo e tra i vari esami ci darà informazioni circa l’obiettivo del nostro studio. Il progetto - ha concluso Cifaldi - si è potuto realizzare anche grazie alla disponibilità del Ministero della Giustizia e del provveditore interregionale del Dap dott. Carmelo Cantone”. Sull’esperimento, però, ha inteso esprimere “stupore” il Garante nazionale dei detenuti. La ricerca in cantiere - è stato chiarito - avrebbe caratteristiche inaccettabili, in contrasto con standard e indicazioni anche del Comitato europeo contro la tortura (Cpt) oltre che dei principi su cui si basa l’azione del Garante nazionale. Dunque, il Garante nazionale ha chiarito che non verrà consentita mai “l’attuazione di una ricerca che abbia caratteristiche in contrasto con gli standard internazionali e con il rispetto assoluto dei diritti delle persone private della libertà, anche considerando i limiti che la situazione soggettiva di tali persone determina relativamente alla genuinità del loro libero consenso”. Contestualmente, il Garante ha detto di ritenere “perlomeno inopportuno che un’Autorità di garanzia si renda promotrice e attrice di iniziative che rientrano in realtà nella sfera del proprio controllo indipendente”. Durissimo il commento del segretario nazionale di Rifondazione comunista, Maurizio Acerbo, che ha chiesto le dimissioni di Cifaldi: “Nei giorni scorsi ho denunciato gli assurdi propositi annunciati dal nuovo Garante dei detenuti. La mia preoccupata protesta ha suscitato attenzione anche su quotidiani nazionali, dal Manifesto al Riformista al Giornale. In sintonia con la mia protesta si è espresso anche il presidente nazionale di Antigone, l’associazione nazionale che si occupa della condizione carceraria. Registro, invece, il silenzio dei partiti presenti in consiglio regionale che portano la responsabilità di aver eletto un Garante che non ha ben chiari i compiti che gli assegna la legge”, l’affondo di Acerbo. Che ha aggiunto: “In qualità di promotore e autore della legge che ha istituito in Abruzzo la figura del Garante dei detenuti, ho sentito e sento il dovere di esprimere la mia indignazione: non ho proposto quella legge per introdurre in carcere sperimentazioni che fanno tornare in mente il film Arancia Meccanica di Kubrick”. Siamo dinanzi “alla palese distorsione del ruolo che dovrebbe avere il Garante - ha aggiunto Acerbo - che non è certo quello di retribuire un professore già stipendiato dall’Università per emulare Cesare Lombroso. Tra i compiti che la legge affida al Garante non c’è quello di trasformare i detenuti in cavie. Ho lottato per anni per ottenere l’istituzione del Garante affinché qualcuno si occupasse degli ultimi, dei senza voce, dei tanti poveri cristi che affollano le nostre galere. Con Marco Pannella lanciammo la proposta di Rita Bernardini che avrebbe potuto mettere a disposizione degli abruzzesi una vita di impegno e competenza sulla condizione carceraria. E c’erano tante altre persone di valore che da anni si occupano sul campo di condizione carceraria che hanno presentato la propria candidatura. Invece la destra e il M5S hanno impedito questa nomina autorevolissima per partorire con la benevola astensione del Pd questo capolavoro. Con il massimo rispetto per il professor Cifaldi, mi sembra che sia in una situazione evidente di conflitto di interessi. Si dimetta e poi presenti a un nuovo Garante le sue proposte di sperimentazione”. Sulla vicenda è intervenuta anche l’Arci che ha espresso “preoccupazione e dissenso: riteniamo che questa ricerca non rientri assolutamente nelle attività di difesa dei diritti dei detenuti ed evidenzi un preoccupante ritorno ad anacronistiche posizioni della vecchia psichiatria manicomiale; concordiamo con quanto affermato nel comunicato stampa del Garante nazionale sulla “perlomeno inopportuna iniziativa dell’autorità di garanzia regionale”. Altre sono le questioni che devono attivare l’intervento del Garante dei detenuti nell’ambito anche del rispetto della Legge 81 sulla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e l’istituzione delle Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza, auspicando che il Garante voglia riflettere sul report che l’Osservatorio sul superamento degli Opg e sulle Rems per la salute mentale ha pubblicato circa l’ultima visita alle Rems di Barete dove si evidenzia come si sia andato a perdere la linea curativa riabilitativa a vantaggio, purtroppo, di atteggiamenti detentivi in contrasto con la stessa normativa di istituzione di tale struttura da considerare come unità operativa del Dipartimento di Salute Mentale, quale sistema organizzativo dei servizi, e quindi nella promozione di percorsi terapeutici riabilitativi personalizzati a gestione e responsabilità dei Centri di Salute Mentale di appartenenza territoriale”. Il comunicato dell’Arci è stato sottoscritto da Forum Salute Mentale Abruzzo, StopOpg Abruzzo, Unasam Abruzzo, Osservatorio sul superamento degli Opg e sulle Rems per la salute mentale Abruzzo, 180amici L’Aquila, Associazione Regionale Percorsi, Cosma, Altri Orizzonti, Cittadinanzattiva Abruzzo, Tribunale per i diritti del malato L’Aquila, Cgil Abruzzo - Molise. Toscana. Cisl: “Grave situazione dei penitenziari” gonews.it, 25 gennaio 2020 Ciclicamente torniamo a denunciare la grave condizione che vivono gli Istituti penitenziari ed in questo la situazione in Toscana non fa eccezione rispetto al contesto generale nazionale. Nella nostra regione insistono 16 Istituti di pena, afferenti ai diversi livelli di sicurezza, ma quasi tutti in gravi difficoltà per vari motivi: dalle carenze strutturali degli edifici, alla situazione di sovraffollamento di detenuti, alla grave carenza di Personale. Vogliamo però far conoscere in particolare quale sia la situazione numerica che probabilmente i Cittadini in Toscana neanche immaginano, una situazione vicina a loro, con penitenziari allocati nelle diverse città e di cui la Società spesso dimentica l’importanza strategica nel sistema sicurezza. Tutti acclamano a blitz e/o maxi retate che tolgono la criminalità dalle strade delle città, dal territorio, ma poi nessuno pensa che queste persone non spariscono ed anzi vanno gestite, vanno seguite nei loro percorsi giudiziari, di assistenza sanitaria, di relazioni sociali con le famiglie che sul territorio e con tutti i Cittadini continuano a costituire il tessuto sociale nel quale viviamo. A causa dei mancati interventi di riforma della giustizia e di contrasto al degrado sociale nel nostro Paese la situazione di sovraffollamento è nuovamente ai livelli precedenti in cui i Governi furono costretti a misure straordinarie quali indulti e/o amnistie. In Italia gli Istituti Penitenziari sono circa 190 per una capienza regolamentare di 50.688 posti letto. I detenuti presenti sono invece 63.432 di cui 2.663 donne (tutti i dati sono fonte ufficiale del Ministero della Giustizia al 31/12/2019). La presenza di detenuti stranieri si attesta intorno al 30% del totale dei reclusi. In Toscana, nei 16 penitenziari presenti, la situazione è la seguente: a fronte di 3.136 posti regolamentari sono presenti 3.661 detenuti (105 sono donne) e quindi 525 detenuti in più di quanto gli Istituti dovrebbero occuparsi. Di questi 1.739 sono stranieri, quindi una percentuale ben superiore alla media nazionale che rende più difficile il compito del Personale di Polizia Penitenziaria, che deve gestire una vasta generalità di esigenze diverse: da quelle culturali, religiose, socio politiche etc. che tante diverse provenienze geografiche che obbligano ad un lavoro molto più complicato. Su questi numeri si deve anche pensare riguardo alla situazione giudiziaria degli stessi detenuti; ci riferiamo al fatto che ben 448 sono in attesa di giudizio, quindi ad oggi neanche condannati in 1° grado, altri 437 sono in attesa di processo d’appello e quindi 2.668 sono i condannati definitivi (ben al di sotto dei posti che avremmo disponibili se i processi fossero celeri e certi). Altro problema riguarda la presenza di bambini sotto i 3 anni che - affidati alle madri detenute - vivono in carcere. Sono 48 in Italia e di questi sono 5 in Toscana, a Firenze. Un Decreto Ministeriale del 2017, redatto sulla base di algoritmi incomprensibili, aveva stabilito che il Toscana dovessero operare 2.413 unità, mentre ne risultano effettivamente amministrate 2.270 (serve chiarire che tra le unità amministrate ci sono anche quelle che non operano nei servizi degli Istituti penitenziari toscani, ma anche quelli che devono assicurare le traduzioni di detenuti tra carceri, nei processi presso le aule di giustizia, nei luoghi esterni di cura per visite e ricoveri ospedalieri, oltre a coloro che sono temporaneamente distaccati a fare servizio in altre regioni e/o servizi diversi). Dopo mesi di confronto tra Sindacati e Amministrazione Centrale (D.A.P.) grazie allo studio di un Gruppo di lavoro appositamente costituito su indirizzo del Ministro della Giustizia, è stato accertato che quel Decreto Ministeriale era sbagliato (avevamo ragione a denunciarlo da anni) e quindi il Personale di polizia penitenziaria che necessiterebbe in Toscana è superiore alle 2600 unità. Per questo auspichiamo che anche il nuovo Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria giunto a Firenze alla fine del 2019 - il dott. Gianfranco De Gesu - potrà far valere le ragioni di quello che tutto il movimento sindacale e che gran parte delle Direzioni penitenziarie toscane rivendicano al Dipartimento: l’adeguamento degli organici del Personale. Solo per completare l’informazione vogliamo fornire alcuni dati nel dettaglio di singoli Istituti penitenziari della Toscana, tutti da fonte ufficiale del Ministero al 31.12.2019. Questi sono solo a fini esemplificativi ed anche le altre Strutture che non citiamo vivono difficoltà analoghe. Si aggiunga che molte Strutture sono oggetto di lavori di ristrutturazione e che alcune hanno dovuto organizzare sezioni per detenuti con disagi psichici dopo la chiusura degli Opg. Invieremo questa nostra lettera a Istituzioni Centrali e Locali, alla Politica ed agli Organi d’Informazione. Ed è anche a quest’ultimi che chiediamo di aiutarci a far conoscere la situazione del sistema penitenziario in Toscana, affinché finalmente arrivino risposte ed interventi concreti per consentire a Lavoratori e Lavoratrici della Polizia penitenziaria di poter conciliare i bisogni di un servizio così difficile e rischioso con i loro diritti del lavoro. Milano. Lavori socialmente utili, la città è capofila delle pene alternative di Luca De Vito La Repubblica, 25 gennaio 2020 Grazie all’applicazione della messa in prova e dei servizi di pubblica assistenza novecento condannati aiutano il no profit e si sono evitati quasi 2.600 processi. Le alternative al processo e al carcere esistono. E funzionano. Hanno due nomi che alle persone normali dicono poco: “esecuzione delle condanne ai lavori di pubblica utilità” e “sospensioni del procedimento per messa alla prova”. Tradotti, significano ore di volontariato da svolgere in sostituzione della pena nel primo caso e al posto del processo nel secondo. Di fatto, sono due istituti giuridici che rappresentano la chance di non sentirsi un criminale, offerta a chi commette perla prima volta piccoli reati (con pene fino ai 4 anni): dalla guida in stato di ebrezza all’imbrattamento, dalle false dichiarazioni ai furti di pagnotte al supermercato. L’ultimo dato raccolto sul territorio di Milano parla di 2.593 processi evitati grazie alla messe alla prova degli imputati, su un totale nazionale di 13.481, mentre durante tutto l’anno sono stati registrati circa 900 casi di condanne tramutate in lavori di pubblica utilità, a fronte degli 8.401 in tutta Italia. Il tribunale di Milano è stato il primo ad attivare un protocollo da quando, nel 2011, i lavori di pubblica utilità sono diventati una strada percorribile. Un ruolo da precursore, a livello italiano, che si è ripetuto anche nel 2014 quando è entrata in vigore la legge in materia di messa alla prova. A oggi si contano 145 enti convenzionati sul territorio che si sono dichiarati disposti ad arruolare tra le file dei loro volontari persone che hanno avuto problemi con la giustizia. Nell’elenco degli enti convenzionati ci sono 53 Comuni, ma anche 60 tra associazioni e onlus. Si va dalle più celebri come Casa della Carità, Exodus e City Angels, a realtà più piccole come ad esempio Miagolandia, associazione attiva su Mediglia che si occupa della cura e della sterilizzazione di gattini randagi. “Un progetto che per il tribunale di Milano è motivo d’orgoglio - spiegano Monica Amicone e Chiara Valori, le giudici che si sono occupate del programma su richiesta del presidente del tribunale Roberto Bichi - principalmente perché funziona: tutti gli enti convenzionati hanno espresso soddisfazione per il lavoro svolto. E non sono state segnalate criticità”. Un successo secondo tutti, dagli avvocati ai giudici, fino agli imputati che in queste categorie di reati hanno un’estrazione sociale molto variegata: si va dal professore universitario ubriaco al 18enne che ha lasciato gli studi. “Nel caso delle messe alla prova, ad esempio, è anche una questione di dignità personale - aggiungono Valori e Amicone - sono persone che vivono il processo in sé come una condanna e la possibilità di evitarlo per loro è importante”. Fondamentale anche per gli extracomunitari, ad esempio, perché il reato, al termine del programma, viene estinto. “Molti di loro non possono rischiare di prendersi una condanna - spiega Valentina Alberta, avvocato e membro della Camera penale di Milano - altrimenti perderebbero il permesso di soggiorno. L’utilità di questi istituti sta poi anche nella possibilità di evitare il carcere per reati minori, che aumenterebbe invece il rischio di recidiva soprattutto nelle fasce sociali più deboli. Sono dell’idea che potrebbero essere inclusi pure reati con pene che arrivano fino ai cinque anni”. Le messe alla prova andate male si contano sulle dita della mano, tuttavia mancano dei dati sulla recidiva, ovvero quanti sono comunque tornati a delinquere anche dopo il programma: “Numeri che sarebbe importante conoscere” aggiungono Valori e Amicone. Fermo restando che l’esperienza nella stragrande maggioranza dei casi è positiva: “spesso le persone rimangono a fare volontariato in quelle associazioni anche dopo la fine dell’obbligo”. Un sistema che sta entrando a regime, quindi. Anche se le differenze con quello del tribunale dei Minorenni - rodato da tempo - sono evidenti. La principale riguarda le risorse: i soldi destinati all’Uepe, l’ufficio che si occupa di proporre all’autorità giudiziaria il programma di trattamento da applicare a chi chiede la messa alla prova, sono inferiori rispetto ai fondi stanziati per i minorenni: “meno risorse significa relazioni più stringate e programmi più standardizzati, quindi minori informazioni nelle mani del giudice” spiega Chiara Valori. Il futuro C’è poi la criticità delle lunghe attese: i numeri di posti disponibili sono insufficienti rispetto al fabbisogno e sempre più spesso i tempi per arrivare a svolgere le ore di volontariato accordate dal giudice si allungano. Per questo in tribunale stanno studiando un modo per far crescere il numero delle convenzioni e anche per raccontare alla cittadinanza il progetto: ovvero come, a volte, la giustizia costruisce e ripara, invece di limitarsi a punire. Milano. Nardo: “Per ridurre i reati il carcere non può essere l’unica risposta dello Stato” di Luca De Vito La Repubblica, 25 gennaio 2020 Il presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano: “La detenzione quando si tratta di reati lievi o di persone incensurate è una misura sproporzionata”. “Il problema, di questi tempi, è che la narrazione politica è tutta spostata sul carcere come soluzione dei problemi: in realtà aumentare le pene non serve a diminuire i reati”. Vinicio Nardo, presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, interviene sul tema delle alternative alla detenzione. Presidente Nardo, come valuta questi numeri? “Sicuramente l’esperienza è positiva, non a caso è stata fortemente voluta dagli avvocati. Tutti noi ci rendiamo conto della sproporzione della sanzione del carcere in una grandissima parte dei processi che vengono svolti. Sia perché si tratta di reati lievi, sia perché molte di queste persone sono incensurate. Il problema adesso è politico”. In che senso? “La narrazione del dibattito politico è tutta in direzione della pena carceraria: non a caso non si è varato l’importantissimo progetto di legge elaborato dagli stati generali dell’esecuzione, ovvero la riforma Orlando per le carceri, che prevedeva tra le altre cose la sistemazione del pacchetto delle misure alternative, potenziandole e inserendo una modalità che avrebbe consentito di approfondire la valutazione delle persone a cui far scontare la pena fuori dal carcere”. È rimasto tutto bloccato… “Senza quel progetto non si danno le risorse giuste a tutto il sistema dell’Uepe e agli operatori del sistema carcerario e dei servizi sociali. Ad esempio gli psicologi che lavorano con i detenuti e che devono fare le loro valutazioni affinché i servizi interni al carcere funzionino. Adesso si continua con il sistema ordinario che ha pochi mezzi”. Perché secondo lei questo stop? “Probabilmente qualcuno ha temuto che fosse penalizzante da un punto di vista elettorale, evidentemente è più facile dare una risposta illusoria aumentando le pene, invece di ricorrere a un sistema alternativo che ha dimostrato di funzionare, anche con l’abbattimento del tasso di recidiva per chi sta fuori dal carcere”. Le pene alte non servono secondo lei? “Facciamo un esempio pratico, l’omicidio stradale: in questo caso le pene sono state aumentate a dismisura, ma il numero di morti in strada è sempre lo stesso e non è diminuito neanche il numero di incidenti. Significa che c’è qualcosa che non torna. Non è con l’aumento delle pene che si riducono reati”. Milano ha dimostrato di essere all’avanguardia sul tema delle alternative al carcere. È un modello che funziona meglio che altrove? “Milano è un esempio virtuoso perché è una piazza che sa accogliere le novità e le sa utilizzare a beneficio del funzionamento della macchina. È così da sempre. Diciamo che queste misure alternative hanno preso piede in tutta Italia, e anche se all’inizio potevano esserci delle remore ideologiche, tutti hanno capito che funzionano”. Qual è il passo avanti che bisognerebbe fare adesso? “Il primo è riprendere a ragionare in termini più razionali e non di un automatico aumento delle pene. Viceversa, bisogna ampliare tutto il ventaglio della reazione dello Stato al reato, con delle soluzioni diverse dal carcere. Poi bisogna rafforzare legge Gozzini riprendendo il lavoro fatto dagli Stati generali dell’esecuzione e aumentare i casi di messa alla prova oltre che di pene sostituite con lavori di pubblica utilità. Bisognerà creare infine un sistema molto più vasto di enti e associazioni presso i quali si possono completare questi percorsi”. Napoli. Tuccillo: “Si è persa l’educazione alla legalità, i ragazzi emulano personaggi negativi” di Daniela De Crescenzo Il Mattino, 25 gennaio 2020 “Quello che lascia sgomenti è il fatto che sempre più spesso i ragazzi agiscono in maniera violenta per emulare quello che magari sentono nel quartiere o, peggio, nella famiglia”. Gemma Tuccillo, capo del dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, spiega cosa accade nel mondo di quei giovani che si battono contro la polizia per difendere un “focarazzo”, come è successo al Borgo Sant’Antonio Abate. Quali sono i miti che spingono alla violenza? “Io credo che le suggestioni del mondo giovanile non arrivino solo dai film e dai videogiochi. Magari nel quartiere sentono ripetere “La polizia è infame” e quindi anche se il poliziotto si avvicina per proteggerli, loro si fanno un punto d’onore di respingerlo. E a volte lo fanno non solo per emulare quello che vedono sullo schermo, ma anche perché in fondo replicano un cliché che è diffuso nel loro quartiere se non addirittura del loro ambito familiare”. Quale? “Quello di un’acritica contrapposizione allo Stato”. Quindi che fare? “Nel momento in cui questi ragazzi arrivano all’attenzione della magistratura è importante la risposta sanzionatoria, ma anzitutto, trattandosi di personalità in evoluzione, ci deve essere una presa in carico consapevole che una corretta educazione alla legalità passa anche attraverso una corretta visione dello Stato. Bisogna spiegare a questi giovani che le forze dell’ordine tutelano il cittadino e non gli vanno contro. Per loro troppo spesso polizia e carabinieri, che dovrebbe essere una cifra di sicurezza, diventano un nemico da combattere”. Colpa dei quartieri a rischio? “Non solo. Il clima che si respira nelle strade o in famiglia può certamente essere uno degli elementi che rafforza questo sentire errato. Ma questo modo di ragionare non si trova solo in certi contesti, perché generalmente tra i minori il contrapporsi alla polizia viene ritenuta una prova di coraggio, una manifestazione di audacia che li accredita nel gruppo dei pari”. Ma la violenza non è solo contro le forze dell’ordine. Ieri è stato trovato un sedicenne con una pistola con il colpo in canna. Per arginare anche questo tipo di delinquenza sarebbe utile abbassare la cosiddetta età imputabile? “Assolutamente no. Non serve mandare in carcere ragazzini con meno di quattordici anni. Il vero problema è prevenire la delinquenza attraverso una presa in carico precoce da parte dei servizi sociali. Quando questi episodi si verificano è importante ragionare sulle risposte da dare, ed è importantissimo che queste siano corrette ed efficaci. Ma dobbiamo essere consapevoli che siamo già nella fase patologica. Invece bisognerebbe intervenire molto prima”. Perché questo non accade? “Perché, specialmente in alcuni contesti deprivati, non esiste un’adeguata rete di accoglienza e di accompagnamento che incanali le energie e gli entusiasmi dei più giovani inculcando, loro, tra l’altro, il rispetto dello Stato e degli altri. Se la violenza e la contrapposizione diventano gli strumenti per l’affermazione della propria personalità, vuol dire che prima sono mancate le possibilità e le occasioni che rendono un giovane capace di manifestare il proprio carattere attraverso i talenti positivi”. C’è un legame tra i ragazzi che assaltano le forze dell’ordine e quelli che organizzano le stese? “Io credo di no. Non penso si possano sovrapporre questi ultimi episodi che hanno un carattere di occasionalità, ai raid della criminalità organizzata. Nelle azioni dei ragazzi del Borgo Sant’Antonio, ad esempio, ad un’analisi superficiale dell’evento, non si percepisce una programmazione che è invece tipica delle organizzazioni più strutturate come la camorra. Per questo lo ripeto: per arginare i fenomeni di delinquenza giovanile bisogna innanzitutto prevenire”. Voghera (Pv). Suicidio di un boss, o forse era solo un pasticciere... chissà di Gioacchino Criaco Il Riformista, 25 gennaio 2020 Nelle esistenze che si spengono si soffre di più per le vite brevi, quando a morire sono i bambini. Eppure più si è piccoli, minore è la comprensione del concetto di morte, più si è giovani meno si ha paura di morire. Da grandi è diverso, la si percepisce in pieno l’ombra nera che arriva, e quando uno la vita se la toglie sa di portare dolore. Giuseppe Gregoraci si è impiccato nella cella del carcere di Voghera: ammazzarsi in una prigione è una cosa complessa, ti devi sottrarre ai tuoi guardiani, ai compagni di pena. Muori in modo ragionato, i perché te li lasci dietro perché non siano risolti, la tua vita finisce in cronaca, poche righe veloci e per chi non ti ha conosciuto resterai quello. Giuseppe era di Siderno, nella Locride, finito in una delle tante retate che si annunciano nelle albe radiose della Calabria, la sua aveva un nome imponente: Canadian Ndrangheta Connection, con essa, per la direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, sono stati messi in luce i rapporti e i traffici fra le ‘ndrine calabresi e le loro corrispondenze criminali di Toronto. Dentro ci è finito a luglio quando in Calabria domina l’Oriente e gelsomini e oleandri fanno a gara per profumare la notte, oltre la libertà ha perso la sua terra e si ritrovato a respirare l’aria Padana di Voghera, che in estate sa delle vite giovani di granturco e riso e del letame delle stalle. Ed è stata la mancanza a segnare la gran parte dei suoi 51anni di esistenza: nessuno lo sa, ma da giovane Giuseppe è stato solo Pino, è entrato in una delle migliori pasticcerie del suo paese per imparare un mestiere. E lo ha fatto il pasticcere. Un incidente stradale gli ha portato via un piede. A Voghera ci è arrivato con una protesi, dopo un po’ ha rinunciato a utilizzarla perché le condizioni igieniche in promiscuità non sono facili da trovare. Si è arreso a una sedia a rotelle. E Pino era un uomo, era un uomo con una disabilità, con una giovinezza segnata da quel dramma, era un marito, un padre. Da detenuti si perde tutto, se si è accusati di mafia si diventa solo quello, un ‘ndranghetista. Lo si diventa prima di qualunque condanna. E forse anche quando ci siano le responsabilità, magari dopo che siano state dimostrate, il fatto di essere imputati non dovrebbe travolgere tutto. Le manette non lo hanno un angolo buono a contenere il cuore, non c’è una società buona a fabbricarglielo. E chissà se Pino è stato solo un pasticcere mancato o il boss “di rilievo” riportato in cronaca. Stava a 1.300 chilometri da casa, nel regime duro delle sezioni riservate ai mafiosi, la sua protesi nascosta da qualche parte e la sua umanità accantonata. Si è impiccato e ha lasciato i suoi perché, perché non si capiscano, o perché si capiscono fin troppo bene. Empoli. Morì durante un fermo di polizia, il Gip ordina indagini su 3 agenti e 2 medici Il Fatto Quotidiano, 25 gennaio 2020 Il 31enne tunisino, Arafet Arfaoui, è morto il 16 febbraio 2019 durante un fermo della polizia di Empoli. Ma per la Procura di Firenze, il caso doveva essere archiviato dopo quattro mesi, senza nessun indagato. Una tesi respinta dal gip Gianluca Mancuso che ha imposto al pm Christine von Borries l’iscrizione nel registro degli indagati di sette persone: i cinque agenti di Empoli che quella sera arrestarono il giovane tunisino, ma anche il medico e l’infermiere del 118 che provarono a rianimarlo per quasi un’ora. L’uomo era andato in un money transfer per spedire 40 euro alla famiglia, ma il titolare gli aveva contestato la falsità di una banconota. A quel punto Arfaoui aveva dato in escandescenza prima di avere un arresto cardiaco dopo il fermo dei carabinieri che lo avevano sdraiato a terra con le manette ai polsi e le gambe immobilizzate con una corda. L’indagine, sempre a carico di ignoti, aveva portato alla richiesta di archiviazione: secondo la pm, il comportamento di agenti e soccorritori era stato corretto e la morte del giovane causata da un’alterazione provocata dall’assunzione di cocaina e dallo stress del fermo. Una tesi rifiutata dal gip che ha dato ragione all’avvocato della moglie, Giovanni Conticelli, ordinando nuove indagini “entro sei mesi”. Asti. Progetto di un nuovo padiglione, capace di ospitare 200 detenuti? lavocediasti.it, 25 gennaio 2020 Il sindaco Rasero e l’assessore Cotto, dichiarandosi molto preoccupati, hanno espresso l’intenzione di chiedere chiarimenti al ministero competente. Nell’ambito del 4° Dossier delle criticità strutturali e logistiche relative alle carceri piemontesi, presentato il 30 dicembre scorso da Bruno Mellano, Garante Regionale dei Detenuti, con riferimento al carcere di Asti figura - oltre ad altre specifiche esigenze quali “adeguamento, ampliamento e rifunzionalizzazione dei servizi di accoglienza dei parenti, in particolare per quanto riguarda i colloqui con i figli minori che ora si svolgono in condizioni del tutto inadeguate” e “costruzione di spazi per i progetti e le attività trattamentali, formative e scolastiche” - anche il progetto di realizzazione di un nuovo padiglione detentivo, da ricavare utilizzando una parte dello spazio attualmente occupato dalle aree verdi. Stando ad informazioni ufficiose, si tratterebbe di un padiglione di 3 piani in grado di ospitare circa 200 detenuti “a custodia attenuata”, ovvero detenuti a bassa pericolosità sociale prossimi al fine pena per i quali sono previsti laboratori per attività varie come avviene nella Casa di Reclusione di Fossano (Cn)? O come nel caso del progetto Arcobaleno della Casa Circondariale “Le Vallette” di Torino? Il sindaco, Maurizio Rasero e l’assessore Mariangela Cotto, dichiarandosi molto preoccupati, affermano: “Chiederemo spiegazioni al Ministero competente anche per il tramite dei parlamentari astigiani, in considerazione che un simile progetto dovrà trovare la collaborazione del Comune e dell’Asl ed avrà una ricaduta sui servizi sociali locali”. Livorno. Il futuro del carcere tra raddoppio della capienza e interventi necessari Gazzetta di Livorno, 25 gennaio 2020 L’amministrazione comunale: “Il futuro raddoppio della capacità di accoglienza delle Sughere impone interventi urgenti”. “Indispensabili azioni di recupero delle aree abbandonate da anni all’interno della struttura”. Di questo, rende noto il Comune di Livorno, si è parlato ieri alla Casa Circondariale Le Sughere, con il provveditore dell’amministrazione penitenziaria a livello regionale Gianfranco De Gesu, il garante regionale per i detenuti Franco Corleone, il direttore del carcere Carlo Mazzerbo, l’assessore comunale Andrea Raspanti, il garante dei detenuti di Livorno Giovanni De Peppo e, in rappresentanza del Dap, Gabriella Pedota. “È stata l’occasione - scrive il Comune in una nota- per fare il punto ed anche una riflessione sulle maggiori criticità del carcere già evidenziate dall’Amministrazione Comunale ai massimi vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Il futuro raddoppio della capacità di accoglienza delle Sughere, che da 250 dovrebbe passare ad oltre 500 detenuti, impone infatti interventi urgenti senza la realizzazione dei quali potrebbe aggravarsi una situazione già complessa”. “Sul tavolo - riferisce l’amministrazione comunale- la necessità di una totale ristrutturazione delle aree di carattere trattamentale abbandonate da anni come la sala polivalente, ma anche dell’edificio (caserma della Polizia Penitenziaria) abbandonato da anni, prezioso per l’accoglienza degli agenti e per finalità correlate all’istituto. Tra gli interventi da realizzare la chiusura della sezione transito, grazie all’avvio dei nuovi padiglioni, e l’immediata ristrutturazione della stessa. Necessaria anche una riflessione sulla restituzione della sezione “verde” a sezione per la detenzione femminile ed un opportuno reperimento di risorse per la bonifica e la ristrutturazione della attuale cucina centrale. La cucina sarà presto sostituita da una nuovissima e attrezzata cucina delle sezioni dell’Alta Sicurezza ormai prossima all’attivazione”. “L’amministrazione comunale - si legge nella nota- dovrebbe invece provvedere ad interventi di natura infrastrutturale quali l’ampliamento del parcheggio antistante l’Istituto e la riattivazione della fermata Ctt davanti alla Casa circondariale per facilitare le visite dei tanti familiari dei detenuti”. “Il carcere è a tutti gli effetti parte della nostra città ed è un servizio pubblico molto importante - ha affermato l’assessore al sociale e diritti Andrea Raspanti - Un carcere che funziona bene e rispetta la dignità delle persone detenute offre garanzie alla comunità nel suo complesso, perché riduce il rischio che, una volta scontata una pena e tornate libere, queste commettano nuovi reati. Diversamente, un carcere che non funziona produce recidiva e rende più insicura la società. Lo dicono i dati ufficiali. Perché il carcere funzioni deve offrire ai detenuti opportunità di crescita e risocializzazione, e per farlo ha bisogno di ambienti di detenzione adeguati. Abbiamo pertanto richiesto che vengano recuperate le aree destinate alle attività trattamentali e che, nei padiglioni di prossima costruzione, ne siano previste di nuove. Abbiamo inoltre sollecitato il Dap affinché si risanino le sezioni di media sicurezza, oggi degradate e degradati sia per chi ci vive sia per chi ci lavora. Il confronto avviato è molto positivo e ci aspettiamo che, da questa collaborazione, arrivino risposte concrete ai tanti problemi dell’istituto”. “È stato un incontro importante proprio per definire quelle che sono le urgenti azioni di recupero da fare - conclude il Comune-. Interventi che sono stati presentati al nuovo provveditore regionale De Gesu, alla presenza del garante Corleone, ormai prossimo alla fine del proprio mandato, ma che proprio in vista di questa scadenza, come lui stesso ha affermato in una recente intervista, vuole lasciare un cantiere di prospettive per i carceri toscani, compreso appunto Le Sughere di Livorno”. Velletri (Rm). Polo universitario in carcere: lo studio per la crescita personale e sociale studio93.it, 25 gennaio 2020 Ieri, presso la Casa circondariale di Velletri, nel corso dell’iniziativa “Agricoltura sociale - Istruzione come forma di riscatto” è stato consegnato a 3 detenuti il diploma di maturità dell’Istituto agrario “Cesare Battisti” di Velletri. Alla presenza del sindaco di Velletri, Orlando Pocci, dell’assessora regionale all’agricoltura, Enrica Onorati e del consigliere regionale Salvatore La Penna, e al fianco della direttrice della casa circondariale, Maria Donata Iannantuono, del dirigente scolastico Eugenio Dibennardo e del referente scolastico presso il carcere, professor Antonino Marrari, è intervenuta anche Eleonora Mattia (Pd), presidente della IX Commissione della Regione Lazio istruzione, lavoro e diritto allo studio. “Abbiamo visitato le serre, la fungaia e i luoghi dove vengono prodotti olio e vino - spiega la Mattia - toccando con mano l’entusiasmo con cui i detenuti si impegnano in queste attività, consapevoli che istruzione e cultura siano gli unici veri stimoli per crescere e riscattarsi, una sorta di ascensori sociali di cui non possiamo fare a meno. Non è un caso che nel carcere ci siano anche 10 iscritti all’università, motivo per cui, insieme alla direttrice, abbiamo lanciato la sfida per attivare nel prossimo anno, oltre all’istituto alberghiero (già previsto) anche il corso Its di Enologia e, in tempi brevi, un percorso distaccato con l’Università Roma Tre”. “Va detto - conclude la Mattia - che già quest’anno c’è stata la novità, importante, di aver aperto ai detenuti protetti l’istruzione secondaria. Senza contare che la Regione Lazio ha appena stanziato, con la L.R.7/2007, 500 mila euro per le carceri del Lazio destinati, in parte, ad un protocollo d’intesa con cui le università di Roma Tre e Tor Vergata si fanno carico del tutoraggio dei detenuti in specifici corsi di studio e, in parte, in corsi di teatro. Un lavoro attento sulla persona, affinché il percorso in carcere sia realmente di recupero e di riscatto, per tornare ad approcciarsi in modo nuovo alla società esterna”. Lucca. Domenica un incontro su carcere e fine pena alla Casa San Francesco Gazzetta di Lucca, 25 gennaio 2020 Un pomeriggio di socialità per conoscersi e per parlare dei temi legati al carcere e al fine pena. È questa la finalità dell’iniziativa promossa dalla Caritas Diocesana e dal Gruppo Volontari Carcere insieme alla parrocchia di San Pietro a Vico, che si terrà il pomeriggio di domenica 26 gennaio a San Pietro a Vico, dove sorge la Casa San Francesco, struttura che ospita ex detenuti temporaneamente privi di abitazione e detenuti ammessi a godere di misure alternative alla detenzione. Il programma prevede alle 15:30 un primo appuntamento alle strutture sportive dei Campini, dietro la chiesa del paese, dove è previsto un momento di socialità a cui sono invitati in particolare i giovani. Poi alle 17:30 una merenda alla casa San Francesco (in Via del Ponte, 406, vicino alla stazione) e un incontro con testimonianze e filmati per far conoscere la struttura e le sue finalità. Il pomeriggio si concluderà alle 19:30 con un aperitivo. L’iniziativa fa parte dell’area sensibilizzazione del “Progetto nazionale carcere” sostenuto da Caritas Italiana e portato avanti sul territorio dagli operatori della Caritas diocesana in collaborazione con il cappellano della casa circondariale e i volontari della casa S. Francesco. L’intento è quello di diminuire la distanza tra il carcere, soprattutto chi lo abita, e le nostre comunità, innescando riflessioni sulla detenzione, l’essere umano, la corresponsabilità e il significato di essere comunità. Diversi incontri sono già stati fatti nelle parrocchie del territorio e alla casa San Francesco, coinvolgendo soprattutto i giovani. Voghera (Pv). Giornata della Memoria. Riflessioni e iniziative sulla Shoah anche nel carcere vogheranews.it, 25 gennaio 2020 Dalla Casa Circondariale di Voghera giunge una alla riflessione sulla Giornata della Memoria che ricorre il prossimo lunedì 27 gennaio. In carcere di Voghera svolgerà anche al proprio interno attività a ricordo della Shoah. “La Casa Circondariale di Voghera sente in maniera profonda l’impegno e la volontà di sensibilizzare le persone detenute a riflettere sullo sterminio del popolo ebraico vittime del genocidio nazista per non dimenticare e perché non accada più - si legge in una nota. Nella linea del tempo della storia dell’uomo, solo un attimo fa è accaduta tale immane tragedia che ha segnato per sempre la storia contemporanea, ma che già adesso tanti non ricordano o fingono di non ricordare. È compito delle menti lucide e delle istituzioni democratiche ricordare quanto avvenuto affinché le colpe personali non diventino responsabilità collettive; di qui l’impegno a tracciare un solco indelebile nella memoria della gente perché tali misfatti non si ripetano”. Per questo, nell’istituto di pena di via Prati Nuiovi, nella giornata di lunedì 27 gennaio 2020, saranno dedicati diversi momenti alla riflessione sull’argomento. Le persone detenute impegnate in percorsi scolastici, grazie alle scelte degli insegnanti dell’Istituto “A. Maserati” e del C.P.I.A. di Voghera, saranno coinvolte in Aula Magna per assistere alla proiezione del film “Un sacchetto di biglie”. A seguire, nella Sala Teatro, si terrà l’evento dal titolo “Il Cinema e la Shoah”, promosso dal Comitato Soci Coop di Voghera e dall’associazione “Voghera è”, in collaborazione con l’associazione “GattoMatto”, per discutere su spunti offerti da letture e trailer dei film più famosi sull’argomento. “Nel pomeriggio siamo onorati di accogliere gli operatori dell’A.N.E.D. -Associazione Nazionale Ex Deportati nei campi nazisti - spiega la direzione -, per approfondire la conoscenza sulla deportazione nella provincia di Pavia e ascoltare interviste ai sopravvissuti dei lager.” In serata, poi, un gruppo di persone detenute appartenenti a circuito Media Sicurezza avranno l’opportunità, accompagnate da tre operatori volontari, di recarsi presso la sede della Fondazione Adolescere di Voghera per assistere all’evento proposto alla cittadinanza “Il Cinema e la Shoah”, che qui è tenuto alla mattina. Infine, il giorno seguente, gli studenti detenuti si ritroveranno ancora per una discussione guidata sul film “Un sacchetto di biglie” e per ascoltare il messaggio della senatrice Liliana Segre. “Si rivolge un particolare ringraziamento ed un pensiero di autentico riconoscimento agli operatori volontari e alla scuola che, in questa circostanza, credono e ci aiutano nell’importante compito di mantenere viva questa memoria, affinché nessuno possa più dire di non sapere”, conclude la direzione del carcere. Modena. Sogni dietro le sbarre: “Testi belli e potenti nelle storie scritte dai detenuti” di Michele Fuoco Gazzetta di Modena, 25 gennaio 2020 Oggi, nel carcere di S. Anna, sarà ospite la scrittrice Viola Ardone per parlare con i detenuti del suo nuovo libro “Il treno dei bambini”, pubblicato da Einaudi. Un incontro che si svolge nell’ambito del premio letterario “Sognalib(e)ro” che intende promuovere, come strumento di riabilitazione, lettura e scrittura nelle carceri, tra cui la Casa Circondariale modenese. La Ardone presenterà il suo libro anche oggi, alle 18, alla Biblioteca Delfini. La sua presenza è particolarmente significativa, domani, nella casa di via S. Anna che è tra 15 istituti scelti dal Ministero della Giustizia, dove sono attivi laboratori creativi: la Casa Circondariale di Torino Lorusso e Cotugno, la Casa di reclusione di Milano Opera, quelle di Pisa, Brindisi, Verona, Saluzzo, Pescara,, Firenze Sollicciano, Napoli, Poggioreale, Sassari, Paola, Ravenna, e quelle femminili di Roma Rebibbia e Pozzuoli, i cui detenuti partecipano al concorso sotto la veste di giurati e di scrittori. La cerimonia di premiazione si svolgerà, il 20 febbraio al Teatro dei Segni, in via S. Giovanni Bosco 150. È un concorso con due sezioni. Per la Sezione Narrativa italiana, che comprende anche il premio speciale Bper Banca, i detenuti di ogni carcere, aderenti ai gruppi di lettura, costituiscono la giuria popolare per decretare il vincitore tra i tre romanzi: “La straniera” di Claudia Durastanti (Casa di Teseo), “Fedeltà” di Marco Missiroli (Einaudi) e “Le assaggiatrici” di Rossella Postorino (Feltrinelli). Il vincitore indicherà alcuni libri, fondamentali per la sua vita, che saranno donati alle biblioteche delle carceri partecipanti. Per la seconda sezione, quella dell’”inedito”, i detenuti diventano scrittori e a giudicarli sarà una giuria di esperti, presieduta da Bruno Ventavoli, giornalista responsabile dell’inserto Tuttolibri del quotidiano La Stampa, e composta dal disegnatore satirico Makkox, dagli scrittori Barbara Baraldi e Paolo di Paolo, affiancati da Antonio Franchini, editor Giunti. “Lo spirito è sempre quello dello scorso anno: far leggere e scrivere che è un potentissimo strumento di riflessione e di redenzione. Ma è’ cambiato qualcosa per la scrittura. Lo scorso anno - dice Ventavoli - il tema era di assoluta libertà: ognuno poteva scrivere quello che voleva (romanzo, racconto, poesia). Mi sono reso conto della difficoltà della scrittura perché c’è gente che ha la terza elementare, altri sono extracomunitari e non posseggono la nostra lingua. Allora occorreva un binario su cui incamminarsi. Ed ecco il titolo su cui sono stati indirizzati: “Ho fatto un sogno”. Inteso come sogno durante la notte, o il sogno di una nuova vita, di libertà. Sono arrivati 62 testi. E non sono pochi. Non li ho letti tutti. Ma molti sono belli e potenti, sinceri. C’è dentro la vita vera, la sofferenza, la fatica di stare in carcere. Sono tanti. C’è una giuria e il premio che daremo è simbolico. I testi vengono raccolti in un’antologia della Casa editrice digitale “Il Dondolo” del Comune di Modena. Il primo premio è un riconoscimento. Nel 2019 l’editore Giunti ha fatto un e-book del romanzo che ha vinto il concorso. Adesso non si sa ancora. Potrebbe venir fuori anche un libro cartaceo”. A cura di Ventavoli e del Teatro dei Venti è la serata finale di premiazione a Modena, con la lettura pubblica delle riflessioni e dei commenti dei detenuti che hanno votato i tre libri in concorso, la cerimonia di premiazione dei partecipanti alle due sezioni, la presentazione dello studio scenico sull’Odissea, realizzato dal Teatro dei Venti, con alcuni degli attori detenuti della Casa Circondariale di Modena e della Casa di Reclusione di Castelfraco Emilia. Il premio è promosso dal Comune di Modena con la direzione generale del Ministero della Giustizia- Dipartimento amministrazione penitenziaria, Giunti Editore, e con il sostegno di Bper Banca anche per questa edizione. Non possiamo dirci innocenti di Ezio Mauro La Repubblica, 25 gennaio 2020 La scritta in tedesco “Qui ci sono ebrei” sulla porta della casa di Mondovì dove vive il figlio di una partigiana deportata nei lager. Stiamo scendendo nell’abisso, senza sapere dove arriveremo, fino a quando cammineremo nel buio. Dobbiamo cominciare a domandarci dove porta e quando si fermerà questa mutazione in corso del nostro Paese, che dopo aver travolto il linguaggio e la coscienza civica sta attaccando lo spirito di convivenza fino ad alterare il carattere collettivo degli italiani, liberando forze sconosciute e inquietanti, in un’inversione morale della democrazia. Chi ignorava gli allarmi di questi ultimi anni, i richiami striscianti al fascismo, la ferocia del linguaggio, la brutalità della politica, e banalizzava ogni regressione azzerandone il significato, oggi si trova davanti un’immagine iconica dell’oscurità in cui stiamo precipitando. Una stella di David e la scritta “Juden hier” (qui abita un ebreo) tracciate sulla porta di casa a Mondovì di Lidia Beccaria Rolfi, deportata a Ravensbriick perché staffetta partigiana, e nel campo testimone dell’Olocausto. Guardiamo fino in fondo quel gesto. Qualcuno è uscito di casa nella notte come un ladro, con lo spray nero, con il proposito di imbrattare in anticipo il Giorno della Memoria, individuando come bersaglio una vittima del nazismo e scegliendo un rituale fascista, per replicarlo nel 2020, in un Paese democratico, nel cuore dell’Europa e in mezzo all’Occidente. Qualcuno tra i minimizzatori dirà adesso che si tratta di un gesto isolato: e ci mancherebbe altro. Ma la verità è che il contesto italiano rende plausibile quell’atto, certamente estremo e tuttavia non incoerente con il clima sociale, politico e culturale, di cui segna anzi il tracciato, spingendosi fino al confine. Si tratta dunque di leggere con attenzione i segni evidenti di questa trasformazione in corso. Il cittadino privato che s’incarica di regolare conti pubblici secondo lui rimasti in sospeso nella storia, agisce infatti nel momento in cui sente che sono saltati alcuni interdetti costruiti nel tempo dalla democrazia, dal costume occidentale, dalla civiltà giudaico-cristiana, dalla cultura giuridica. Avverte che si è rotta la storia, come patrimonio condiviso del Paese, come pedagogia della conoscenza e come istruzione per la libertà. Soprattutto sente che è venuto meno il legame sociale, il vincolo civico che crea uno scambio implicito di responsabilità tra i cittadini, nella vicenda repubblicana comune. Si sente fuori da quel vincolo, e nello stesso tempo sciolto da ogni obbligo. Libero di varcare il limite, cioè autorizzato a farlo. C’è dunque un’esemplarità rivolta al pubblico, in quel gesto, qualcosa di rituale, quasi un appello pagano. Come se la scritta dicesse: siamo fuori dalla storia e dalla società, siamo liberi non perché possiamo esprimere al meglio le nostre facoltà ma al contrario perché liberati da ogni dovere e da qualsiasi soggezione morale, da qualunque obbligazione democratica; possiamo dunque liberare con noi i nostri demoni, segnare con la vernice il nuovo punto che congiunge passato e futuro. È un passaggio cruciale, perché in esso la persona si spoglia della responsabilità sociale di cittadino per tornare individuo, e l’individuo rinuncia al codice della convivenza costruito dai suoi padri per ritornare in un territorio neutro, primordiale, dunque sgombro da ogni tabù democratico. Qui - è il posto giusto - si recuperano gli stilemi fascisti. Ma il fascismo è soprattutto nell’azione che mettendosi in scena si propone come forma estrema della semplificazione antipolitica e populista della complessità contemporanea. A questo punto la teoria non è necessaria, basta l’evocazione simbolica della vernice: il gesto esemplare nella sua radicalità spiega se stesso mentre si compie. C’è in più la privatizzazione della storia, la sua distorsione consapevole, nel rifiuto ostinato di ogni sua lezione perché da quella lezione tragica è nata la ripulsa del fascismo, della guerra, della dittatura, delle leggi razziali: e tutto questo va azzerato nel gesto che mentre replica le parole d’ordine dell’orrore che abbiamo vissuto, azzera la vicenda repubblicana, nella consapevolezza che la sua fonte di legittimità morale è proprio in quella Resistenza che ha combattuto il fascismo. Una negazione della realtà, la scelta di una realtà parallela che scende in strada di notte nel silenzio di una città piemontese di provincia, stravolgendo nella radicalità dell’offesa una tranquilla tradizione di moderazione democristiana, a conferma della mutazione in corso. Poi c’è il bersaglio di questa violenza. Poiché il rifiuto della storia produce ignoranza, hanno individuato la casa di una deportata nei campi nazisti, e l’hanno automaticamente definita ebrea, mentre Lidia Beccaria Rolfi era stata internata come partigiana. Ma l’errore è rivelatore dell’ossessione: dal vortice feroce del neo-razzismo italiano, dalla xenofobia coltivata nella paura, dall’etnocentrismo usato come arma politica, rispunta l’ossessione eterna dell’ebreo. Ancora oggi, e nuovamente, e nonostante tutto. Anche se siamo colpevoli, oltre che consapevoli, non riusciamo a essere vaccinati, non possiamo dirci innocenti. È come se in questa riemersione a dispetto della storia l’ebreo fosse il punto supremo in cui sì raccolgono, si potenziano e si esaltano tutte le pulsioni contro lo straniero, contro l’immigrato, contro l’ospite abusivo, contro il clandestino. Non importa che si tratti di italiani. L’identità ebraica è prevalente e il concetto di razza, sconfitto scientificamente, ritorna proprio sul piano identitario, culturale. Come il migrante, l’ebreo è l’emblema che il neo-razzismo trasforma in bersaglio: uno è oggetto di politiche discriminatorie, l’altro di marchiature simboliche. La persona-simbolo che è stata oltraggiata a Mondovì aveva rivelato per prima, dopo la liberazione da Ravensbrùck, la tragedia delle donne nei campi di concentramento, in una testimonianza parallela a quella di Primo Levi. La strada dove abitava oggi porta il suo nome. I fascisti hanno scelto quel nome, e quell’indirizzo. Sono arrivati fin lì, hanno individuato la casa, e hanno creduto con la loro scritta di ribaltare la storia. Hanno invece segnalato l’orlo del precipizio, dietro la porta malferma del Paese. Necessaria strategia per l’immigrazione, caso Gregoretti è fumo negli occhi di Mario Morcone Il Riformista, 25 gennaio 2020 Atto di buon governo o azione criminale? Con questo presunto dilemma il leader della Lega continua la sua incessante campagna elettorale, utilizzando una vicenda che ha un suo rilievo istituzionale, per fare schermo ai problemi che non si sono saputi o voluti affrontare. Questa ossessione propagandistica si coniuga con la promessa che in un eventuale cambio di governo i porti saranno blindati per la sicurezza del nostro Paese e dei suoi cittadini. In realtà, tutto questo nasconde due grandi debolezze della vita delle nostre istituzioni. La prima, di non coagulare un progetto politico credibile e civile in materia di immigrazione costruendo, come sarebbe necessario, non solo in Parlamento ma anche a livello europeo, le necessarie alleanze per dare prospettiva e concretezza a un’iniziativa che continua a essere, a mio avviso, insufficiente e dilatoria. Le stesse dichiarazioni del Commissario Schinas, in visita a Roma, e riportate da un importante quotidiano di tiratura nazionale, francamente non sembrano né convincenti né determinanti. L’idea dei “panieri” annunciata dal Commissario, sembra più una strada immaginata per contenere il dissenso in uno spazio comune che un elemento strategico di novità su un tema che segnerà comunque, assieme ad altri, certamente il destino della casa degli europei. Rimane ancora l’aspettativa nata dalle dichiarazioni della presidente Von der Leyen al suo insediamento che aveva fatto sperare, e noi ancora ci crediamo, in elementi di novità. Li stiamo percependo in materia ambientale, speriamo in un secondo passo sul tema delle persone migranti e della stabilità dei Paesi nordafricani. La conferenza di Berlino dei giorni passati è stata un elemento di novità, ma per quanto riguarda il nostro Paese ha spostato sul piano multilaterale un tradizionale rapporto di amicizia con il popolo libico che si era consolidato negli anni. Nessuno dubita della necessità e dell’efficacia di un’intesa che coinvolga il più ampio ventaglio di Paesi attori o protagonisti in quel territorio, ma tuttavia ci rimane la preoccupazione per la perdita di centralità dell’Italia nel rapporto con la Libia. Vorrei solo ricordare, senza per questo apparire nostalgico, che era già stato costituito nel 2017 un formato che comprendeva oltre l’Italia anche Francia, Germania, Svizzera, Austria e Slovenia; una rete di rapporti quasi giornalieri con il Nord Africa che avevano i loro punti fermi nelle riunioni di Roma, di Tunisi e infine di Berna. Ma la lucentezza degli obiettivi reddito di cittadinanza e quota cento nel dibattito nazionale ha talmente appannato la percezione della necessità di proseguire su quella strada da consentire l’ingresso da protagonisti di altre potenze estranee agli interessi dell’Ue. La seconda debolezza, di cui mi scuso subito con i lettori e con le forze politiche, nasconde il mio percorso professionale. Voglio dire che sono fermamente convinto della rilevanza, in un sistema di sussidiarietà, del ruolo delle Regioni nel nostro Paese; la stessa approvazione di statuti risponde ampiamente a una previsione costituzionale. Quello che mi lascia perplesso è l’aver consentito, come fosse questo un fondamentale atto di autonomia, la decisione sganciata da ogni altra necessità, di fissare liberamente la data delle elezioni in ogni singola regione. Migranti. Morte nel Cpr di Gradisca d’Isonzo, le piste aperte di Giansandro Merli Il Manifesto, 25 gennaio 2020 Lunedì l’autopsia sul corpo di Vakhtang Enukidze. Intanto l’altro ieri rimpatrio volontario di un altro testimone e foglio di via a un attivista No Cpr. Intorno alle ragioni del decesso di Vakhtang Enukidze rimangono aperte diverse piste. Il 38ennne cittadino georgiano è spirato sabato 18 gennaio, poche ore dopo il trasporto in ospedale dal Cpr di Gradisca d’Isonzo. La versione diffusa inizialmente attribuiva le cause della morte alle conseguenze di una rissa tra migranti avvenuta martedì 14. L’ipotesi è stata smentita dalle testimonianze raccolte durante due visite ispettive dal deputato Riccardo Magi (+Europa), “nella colluttazione Enukidze ha avuto la meglio”, e dal fatto che l’altro uomo coinvolto, un egiziano, è stato rimpatriato tra lunedì e martedì scorso. Difficile credere che il potenziale omicida sia stato allontanato dall’Italia prima della conclusione delle indagini. L’attenzione si è quindi concentrata sulle modalità con cui le forze dell’ordine hanno sedato la colluttazione tra i due reclusi. Alcuni testimoni hanno raccontato a Magi che circa 10 agenti sarebbero intervenuti in maniera pesante, colpendo il georgiano e “trascinandolo via come un cane”. L’uomo avrebbe sbattuto la testa in una caduta. In seguito a questo episodio, Enukidze è stato trasferito in carcere, forse dopo un passaggio in pronto soccorso. Lì è apparso turbato, agitato, ma le sue condizioni non hanno destato preoccupazione. Giovedì è comparso davanti a un giudice nell’udienza di convalida per l’aggressione, difeso dall’avvocata Marzia Como. La legale non ha voluto rilasciare dichiarazioni sullo stato del suo assistito in quel momento, ma il Garante dei detenuti Mauro Palma, che lunedì scorso ha visitato Cpr e carcere e chiesto informazioni alla Procura in qualità di persona offesa, ha confermato al manifesto che durante l’udienza Enukidze era in grado di rispondere alle domande. Dopo la testimonianza della polizia sulla presunta aggressione, infatti, ha preso parola e detto al giudice che quella versione era solo parzialmente corretta. Il giudice ha rilasciato il georgiano a piede libero. Così è stato portato nuovamente nel Cpr. Ha varcato il cancello intorno alle 8 di sera dello stesso giorno. Il Garante ha visionato la scheda di ingresso, dove il personale del centro di detenzione ha scritto che Enukidze era vigile. Quando le altre persone recluse lo hanno rincontrato, però, lo hanno trovato in pessime condizioni. A Palma hanno riferito che barcollava, era dolorante e aveva ematomi evidenti (che potrebbero anche avere origine nell’episodio del martedì). A Magi hanno detto che non riusciva a stare in posizione eretta e aveva le gambe piegate. Il deputato ha anche affermato che dalle informazioni raccolte risulta che i compagni di cella di Enukidze hanno chiesto l’intervento medico nella notte di venerdì, senza ottenere risposta fino al sabato mattina. Che cosa ha causato l’aggravamento delle condizioni del georgiano? Il nodo principale della vicenda è stretto intorno a questa domanda, sebbene altri interrogativi riguardino le motivazioni della mancanza di un’adeguata e rapida assistenza medica. Il dottor Vittorio Fineschi, direttore dell’Unità operativa complessa di medicina legale e assicurazioni della Sapienza, ha rilasciato un parere scientifico al manifesto affermando che il nesso tra un episodio di scontro fisico e un decesso successivo di oltre 72 ore, durante le quali il soggetto rimane lucido, può verificarsi principalmente in tre casi: “presenza di un ematoma a livello subdurale dell’encefalo, rottura della milza in due tempi o, evento più raro, sanguinamento interno per rottura delle viscere”. Sarà l’autopsia a dire cosa ha ucciso Enukidze e verificare l’eventuale presenza di questi traumi. Si svolgerà lunedì alla presenza del legale della famiglia, nominato solo ieri dopo diversi giorni di attesa, e di un rappresentante del Garante dei detenuti. Se quegli elementi non venissero rilevati, sarà ancora più importante capire in maniera dettagliata cosa è accaduto giovedì sera, al rientro tra le mura del Cpr. Migrante pestato a morte: ucciso come Giulio Regeni, ma nessuno se ne frega di Piero Sansonetti Il Riformista, 25 gennaio 2020 Scusate se insistiamo. Chi ha ucciso Vakhtang Enukidze? Il capo della polizia, Gabrielli, non se la può cavare semplicemente mostrando indignazione per i paragoni che vengono fatti tra la sua uccisione e l’uccisione di Stefano Cucchi. Il capo della polizia deve spiegare cosa è successo nel Cpr, chi ha picchiato il ragazzo georgiano, perché lo ha fatto, quali sono le responsabilità della polizia di Stato, se e come si sta indagando per scoprire i colpevoli. Il fatto che la vittima non sia italiana non cambia di una virgola le cose. Se le forze dell’ordine hanno pestato con violenza Vakhtang, come sostengono alcuni testimoni, e se - oltretutto - è poi riuscita a far espellere in fretta e furia dall’Italia alcuni dei profughi che avevano assistito al pestaggio, beh, il capo della polizia non avrà difficoltà a capire che ci troviamo di fronte a uno scandalo. E se questo scandalo schiarisce un po’ in questo clima da “prima gli italiani” solo per il fatto che la vittima non è italiana, vuol dire che l’Italia sta scivolando in basso nel pozzo dell’inciviltà. Chi legge questo giornale sa cosa è successo. (Chi legge altri giornali, forse, non lo sa: molti giornali ne hanno parlato poco assai o niente). A metà della settimana scorsa un ragazzo georgiano, rinchiuso nel Cpr di Gradisca (Centro di permanenza per i respingimenti) è stato picchiato, poi portato in carcere e forse di nuovo picchiato, poi riportato al Cpr agonizzante, poi finalmente messo in una ambulanza per tentare un ricovero in ospedale in extremis, ma ormai era troppo tardi e l’ambulanza è diventata la camera mortuaria. Le autorità prima ha detto che il giovane era rimasto ferito in una rissa tra profughi, poi quando la cosa è stata smentita da tutti i presenti, non hanno detto più niente. I testimoni sono concordi nel racconto: c’è stata una scazzottata tra Vakhtang e un giovane del Marocco, Vakhtang stava avendo la meglio quando sono intervenuti una decina di agenti. Hanno preso Vakhtang, lo hanno gettato a terra, lo hanno pestato e poi lo hanno trascinato via per i piedi. Dove? In prigione. Da questo momento in poi i testimoni che erano al centro non hanno saputo più niente. Tre giorni dopo lo hanno rivisto, ma era già in fin di vita. Lo hanno messo sul lettino. Lui ha rantolato tutta la notte e poi è anche caduto dal letto. A quel punto, finalmente, è stata chiamata l’ambulanza. Questi sono i fatti nudi e crudi. Sul nostro giornale li ha raccontati due giorni fa Riccardo Magi, parlamentare radicale che domenica è andato in visita al Cpr di Gradisca e ha raccolto le testimonianze di alcuni reclusi. Oltre a questi fatti c’è la denuncia Gianfranco Schiavone dell’Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) e dello stesso Magi, secondo i quali sarebbero stati espulsi dall’Italia alcuni testimoni. Oggi in tutt’Italia si celebra, con rabbia - con giusta rabbia - il quarto anniversario del rapimento e poi dell’uccisione di Giulio Regeni, giovane ricercatore italiano ammazzato dalle autorità egiziane. Giulio era un ragazzo straniero in Egitto. Non si sa perché l’hanno ucciso. Non vogliono dircelo. Né perché, né chi, né in che modo. In Italia si è creato un forte movimento di protesta contro le autorità egiziane. Anche le istituzioni hanno partecipato a questo movimento. Verità e giustizia: questo si chiede. Il caso di Vakhtang è uguale al caso Regeni. Verità e giustizia anche stavolta: niente di più. Per Giulio e per Vakhtang. Gabrielli si offende? Poco male. La ministra dell’Interno ha qualcosa da dire? Ha qualcosa da dire il premier Conte? La sorella del migrante morto al Cpr di Gradisca: “Vakhtang è stato ucciso” di Fabio Tonacci* La Repubblica, 25 gennaio 2020 “Lui era sanissimo, l’hanno picchiato ma a chi volete che importi di un migrante morto? Giustizia? Per noi non cambia nulla, ma dateci la sua salma”. Il 38enne georgiano, trovato privo di conoscenza nella sua cella, è morto sabato scorso all’ospedale di Gorizia. A Chiatura, la città georgiana delle miniere bolsceviche e delle funivie, tremila chilometri a est di Gradisca di Isonzo, una donna piange il fratello che non ha più. Una donna che ha esaurito la speranza. “A chi volete che interessi il destino di un immigrato?”. Non ha fiducia. “La giustizia? Per noi non cambia niente...”. Non ha più forza. “Vogliamo solo riavere la salma”. Disorientata da una morte senza senso, di cui poco o niente è riuscita a sapere, ma che lo stesso le fa gridare: “L’hanno picchiato, me l’hanno ucciso!”. Asmat Jokhadze è la sorella di Vakhtang Enukidze, il georgiano di 38 anni deceduto sabato scorso all’ospedale di Gorizia, dopo essere stato trovato privo di conoscenza nella sua cella nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Gradisca. Nei giorni precedenti, in quel Cpr di frontiera, era successo di tutto. Rivolte, proteste, le forze dell’ordine in assetto antisommossa. Enukidze ha un litigio nel cortile interno con un altro detenuto in attesa come lui dell’espulsione, pare per una questione legata a un telefonino. Gli agenti di polizia intervengono a sedare la rissa e, secondo alcune testimonianze adesso al vaglio della procura di Gorizia, in quell’occasione sono protagonisti di violenze nei confronti del georgiano. Enukidze viene anche arrestato, per lesioni e resistenza a pubblico ufficiale. Presenzia all’udienza di convalida davanti al giudice, e dopo due giorni torna al Centro. Chi lo ha visto al rientro lo ricorda “in condizioni pessime, incapace di stare in piedi”. Gli vengono dati antidolorifici e ansiolitici, e, nella notte tra venerdì e sabato, si sente male. La procura ha aperto un fascicolo, a carico di ignoti, per omicidio volontario. Asmat Jokhadze parla solo russo. La raggiungiamo al cellulare, ma risponde alle domande di Repubblica controvoglia. Esordisce cercando di chiudere subito la conversazione: “L’ambasciata georgiana in Italia ci sta aiutando per riavere la salma. Fino a quando non avremo il risultato dell’autopsia (prevista per lunedì, ndr), e nell’interesse stesso dell’indagine, mi hanno consigliato di non parlare coi giornalisti. Non chiamateci, non abbiamo niente da dire. I miei genitori sono anziani, sono devastati dal dolore. Non hanno nemmeno il corpo di loro figlio su cui piangere. Arrivederci...”. Ma Asmat è una sorella ferita, anche da quanto ha letto sulla stampa, e quell’amarezza che la tormenta non riesce a trattenerla. “Vakhtang era sanissimo, non è vero che era malato! Sono state scritte tante falsità. Giocava a calcio qui a Chiatura, la città dove siamo cresciuti, e ha fatto anche l’imbianchino. È venuto in Italia due anni fa per cercare lavoro, ha vissuto a Roma, faceva dei lavoretti non so di che genere, ma non aveva il permesso di soggiorno e allora la polizia l’ha fermato e l’ha portato a Bari”. Il georgiano ha passato un periodo nel Centro rimpatri pugliese, poi il 19 dicembre scorso è stato trasferito, insieme ad altri stranieri, a Gradisca. “Me l’hanno ucciso, ma nessuno crederà a noi”, ripete Asmat. “A chi volete che interessi il destino di un migrante morto? Mio fratello era una persona equilibrata, di buon carattere. Non era certo un violento”. Stando a quanto sono riusciti a ricostruire finora gli inquirenti, però, Vakhtang aveva partecipato ad almeno due rivolte interne al Cpr, prima del litigio del martedì con un altro straniero. Gli sono stati dati dei farmaci sia in carcere sia dopo, ma la documentazione sanitaria acquisita al Cpr è parsa agli investigatori “frammentaria e poco coerente”. Asmat ha raccontato al Piccolo di Trieste di aver chiamato Vakhtang la sera prima del decesso, e di aver capito che stesse male dal fatto che il personale del Cpr gli aveva aumentato la dose dei farmaci. Sul punto, la donna non vuole aggiungere altro. “Non posso parlare”, spiega. “In Italia di sicuro strumentalizzerete questa storia per speculazioni politiche”. E quando le raccontiamo l’esito giudiziario che ha avuto, seppure dopo dieci anni, il caso di Stefano Cucchi, anche lui morto mentre era in custodia dello Stato, la risposta di Asmat chiude ogni discorso. “Sì, ma lui era italiano”. *Ha collaborato Ekaterina Koshkina Egitto. Giulio Regeni, un omicidio politico impunito di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 25 gennaio 2020 Sono trascorsi quattro anni, lunghi e penosi, da quando Giulio Regeni è stato torturato e ammazzato in Egitto. Un omicidio politico consumato impunemente, almeno finora, ai danni di un giovane ricercatore italiano. Di fronte a ogni crimine, comune o politico, vi sono sempre due verità, una storica e l’altra processuale, non sempre sovrapposte, ma soprattutto non sempre sovrapponibili. La storia giudiziaria e politica italiana degli ultimi cinquant’anni è piena di doppie verità. La verità processuale è necessariamente dettata dai tempi e dalle forme della giustizia, nonché dallo stato della democrazia in un dato Paese o dall’asservimento in un certo momento storico del potere giudiziario a quello politico. La storia invece non ha bisogno di un processo in un’aula di tribunale per definire come veri taluni fatti. Giulio Regeni è stato torturato a morte. Questo è un fatto storicamente accaduto ed oramai ampiamente dimostrato. La tortura è qualificata nel diritto internazionale quale un crimine di Stato. Non riguarda i rapporti violenti tra persone comuni nelle loro vite private. La tortura presuppone un rapporto asimmetrico tra la persona fermata/arrestata/controllata/detenuta e colui che la custodisce/trattiene/detiene/controlla in nome e per conto del potere pubblico. La tortura è sempre un delitto proprio di funzionari dello Stato. Giulio Regeni è stato torturato e ammazzato da chi ha agito in nome e per conto di qualcun altro, a sua volta espressione del potere pubblico. Non sappiamo materialmente i nomi e cognomi di esecutori e mandanti, ma conosciamo con certezza il contesto del crimine. Esso è oramai un fatto storico acclarato e non più contestato neanche dagli egiziani, dopo i loro numerosi tentativi di depistaggi e di far finire l’inchiesta in una palude investigativa. L’assenza di cooperazione da parte egiziana nella ricerca delle prove e nel raggiungimento della verità processuale è esso stesso un fatto politico che a sua volta supporta la verità storica. Alla luce di queste premesse vanno distinte le azioni politiche da intraprendere da quelle giudiziarie. Mentre queste ultime sono necessariamente vincolate al raggiungimento della verità processuale e richiedono inevitabilmente il supporto investigativo egiziano, i rapporti tra i Governi ben possono prescindere dalla verità processuale e invece affidarsi alla verità storica, ossia che Giulio è stato torturato e assassinato da chi agiva in nome e per conto dello Stato egiziano. Se dunque è storicamente determinato che Giulio Regeni è stato torturato a morte e che le autorità di quel Paese fino ad oggi non hanno aiutato i giudici italiani nella ricerca della verità, allora l’Italia dovrebbe farne un caso politico internazionale aprendo un conflitto duro contro l’Egitto davanti alle Nazioni Unite. In particolare è giunto il momento che l’Italia attivi la procedura di inchiesta di cui al Patto sui Diritti Civili e Politici del 1966, ratificato sia dall’Italia che dall’Egitto, che ne è dunque vincolato formalmente. L’Italia non deve limitarsi a questo ma deve formalmente rivolgersi anche al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura avviando il procedimento di cui all’articolo 20. Anche in questo caso l’Egitto ha ratificato il Trattato e si è conseguenzialmente vincolato a sottoporsi a un’investigazione internazionale. Un giorno, infine, prendendo atto che in Egitto non si arriverà probabilmente in tempi ragionevoli a un processo e a una sentenza rispettosa della verità storica, così come è avvenuto in altre vicende riguardanti violazioni sistematiche dei diritti umani, si dovrà iniziare a pensare a un processo da svolgersi in Italia che sottoponga a giudizio tutti coloro che hanno depistato le indagini, occultato la verità o comunque materialmente impedito che essa fosse raggiunta. *Presidente Antigone Iraq. Oltre 600 i manifestanti uccisi, 12 solo nell’ultima settimana di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 gennaio 2020 Amnesty International ha aggiornato a oltre 600 il numero dei manifestanti uccisi in Iraq dall’ottobre 2019 e ha denunciato un forte aumento della repressione, con 12 manifestanti uccisi solo nell’ultima settimana a Baghdad, Bassora, Kerbala e Diyala. La campagna di morte delle autorità irachene è dunque ripresa, con l’impiego di proiettili veri e delle micidiali granate a uso militare di produzione serba e iraniana. Uno degli episodi più gravi è accaduto il 21 gennaio a Baghdad sul cavalcavia della strada a scorrimento veloce Mohammed al-Qasim, presidiata da veicoli blindati con le insegne di un’unità speciale d’élite che risponde direttamente al primo ministro. I militari che stavano sul cavalcavia hanno preso alcuni manifestanti e li hanno scaraventati giù, da sette metri di altezza. Un fotografo ha ripreso un uomo che improvvisa una danza della vittoria dopo aver sparato una granata dal cavalcavia contro i manifestanti che si trovavano sulla strada sottostante. La sera del 21 gennaio, sempre a Baghdad, la Guardia presidenziale ha invaso le strade di al-Dora, un quartiere residenziale e commerciale situato nella zona meridionale della città. Questa è la testimonianza di un ragazzo che ha preso parte alle manifestazioni sin da ottobre: “Le forze presidenziali erano presenti in massa al posto di blocco. A un certo punto hanno iniziato a sparare in aria e a catturare persone, giovani soprattutto. Siamo scappati in direzione di via al-Tuma, riparandoci nelle caffetterie, nei negozi e in una palestra. Ci hanno inseguiti sin lì portando via alcuni di noi e le persone che cercavano di fermarli. Poi hanno strappato i telefonini dalle mani di coloro che stavano riprendendo la scena e hanno arrestato chi opponeva resistenza”. A Bassora, le notti del 21 e del 22 gennaio le forze di sicurezza hanno disperso le manifestazioni con brutali pestaggi e usando proiettili veri. Ecco una testimonianza raccolta dalla città: “Le forze di sicurezza arrivavano verso le 23 o intorno alla mezzanotte, quando i manifestanti erano di meno, e iniziavano a sparare. Come se fossero venute lì per ucciderci. Ho visto molte persone venire immobilizzate a terra e picchiate, alcuni avevano 14-15 anni. Quando tornavano nella zona dove era concentrato il grosso delle proteste, ci mostravano i segni delle bastonate e delle manganellate sulla schiena”. Dubai. Imprenditore italiano scambiato per narcos: in cella 32 giorni da innocente di Viviana Lanza Il Riformista, 25 gennaio 2020 Sapere moglie e figli fuori, da soli in un paese straniero, e ritrovarsi rinchiuso in una cella di un carcere negli Emirati Arabi, mica ad Halden, in Norvegia. Roba che al confronto anche Poggioreale, con i suoi problemi di sovraffollamento e vivibilità, sarebbe stato meglio. Mangiare crema di fagioli ogni giorno per trentadue giorni ed essere circondato da sconosciuti senza sapere quanto tempo dovrà ancora passare prima di rivedere la luce e la libertà. Avere soltanto il telefono per comunicare con l’esterno, ma mica a disposizione sempre: pochi secondi e solo se autorizzati. E sapere di essere vittima di uno scambio di persona, di un grosso errore quindi, senza che questo sembri scalfire le convinzioni di chi ha proceduto all’arresto. Ci sono voluti trentadue giorni per accertare che l’uomo arrestato a Dubai non era il broker del narcotraffico ricercato in tutto il mondo dalle autorità giudiziarie di Catania e Napoli. Trentadue giorni per verificare che in cella c’era un ristoratore, sì napoletano di origine come il latitante da catturare, ma con una storia e un’identità ben diverse. E allora eccolo l’incubo in cui è precipitato Domenico Alfano, il napoletano arrestato tra il 19 e il 20 dicembre scorso a Dubai, perché scambiato per il broker del narcotraffico Bruno Carbone, e rimesso in libertà soltanto ieri. Come è potuto accadere? L’interrogativo, per ora, resta con il punto di domanda. Si parla di scambio di persona, un’espressione semplice per descrivere una situazione complessa e drammatica. Di certo la vicenda ha tutti i requisiti per diventare un caso giudiziario. Si vedrà. Con una breve telefonata al suo avvocato, il penalista Stefano Zoff, Domenico Alfano ha comunicato di essere stato scarcerato. “Finalmente…”. Sospiro di sollievo. Ma quello che nelle scorse settimane era salito alle cronache come il “giallo di Dubai” può dirsi davvero risolto? Troppe le ombre su una vicenda che sa di intrigo internazionale e che può sollevare un caso destinato a superare i confini locali. C’è un cittadino italiano detenuto per errore per trentadue giorni: possono bastare solo le scuse? Con il suo avvocato, Alfano potrà valutare eventuali iniziative da intraprendere. Per ora non si sa se, uscito dal carcere, volerà a Panama o farà tappa in Italia. Intanto ci si chiede come sia stato possibile incorrere in un simile errore tenuto conto che Bruno Carbone, il vero latitante, in passato era stato già arrestato e fotosegnalato (l’ultima volta nel 2012 in occasione della sua scarcerazione). L’avvocato Zoff ha spiegato che nemmeno la somiglianza tra Alfano e Carbone fosse tanto scontata: l’altezza, per esempio, che è un fattore impossibile da modificare chirurgicamente a differenza dei lineamenti e di altre parti del corpo, non combaciava perché Alfano è più basso di Carbone di almeno dieci centimetri. In questa storia restano aspetti ancora oscuri e buchi nella ricostruzione dei fatti. Proviamo a ripercorrerli. Domenico Alfano ha quarant’anni, è nato e cresciuto nel centro storico, non lontano dal rione Sanità, e da quasi quindici anni vive e lavora a Panama. Lì gestisce una pizzeria, ha sposato una donna colombiana e ha due figli, di 13 e 9 anni. Con la famiglia decide di trascorrere le vacanze di Natale e Capodanno a Dubai. Si imbarcano il 18 dicembre con un volo di linea francese. Fanno scalo in Francia e riprendono il viaggio atterrando a Dubai poco dopo le quattro del mattino, ora locale. Facile immaginare la scena: marito, moglie e figli si incamminano con i bagagli verso l’uscita dell’aeroporto quando due uomini li avvicinano e si fanno seguire in ufficio. È l’inizio dell’incubo. Domenico Alfano viene separato dal resto della famiglia. Gli chiedono più volte le generalità - come ha raccontato in una lettera dettata dal carcere e diffusa tramite il fratello -, e gli controllano bagaglio e documenti. Si può ipotizzare che chi ha proceduto all’arresto abbia avuto qualche informazione per intervenire sospettando la possibile presenza del latitante in aeroporto e che qualcosa non sia poi andato nel verso giusto se è vero che l’uomo fermato non era Bruno Carbone ma Domenico Alfano. Sta di fatto che Alfano continua a ribadire la propria identità ma finisce ugualmente dalla stanza dell’aeroporto a una cella del carcere. L’Interpool è al lavoro. Alfano viene interrogato con un cellulare dotato di traduttore istantaneo, viene fotosegnalato e sottoposto a esame delle impronte digitali e a prelievo per il test del Dna. Confida di tornare libero nel giro di poco, ma così non accadrà. Nel frattempo in Italia, come spiega l’avvocato Zoff, si viene a sapere ufficialmente dell’arresto soltanto due settimane dopo, agli inizi di gennaio. La notizia viene data al Tribunale di Catania, che nei confronti del narcos latitante aveva emesso un’ordinanza per una sentenza passata in giudicato, e alla Procura di Napoli che indaga su Carbone in due paralleli filoni di inchiesta. Si attiva quindi anche la Dda di Napoli, e si apprende che l’uomo in carcere sostiene di non essere Carbone. I carabinieri svolgono accertamenti, viene perquisita la casa di Alfano. E si scopre che in carcere c’è effettivamente Alfano, non Carbone. Caso risolto, ma non chiuso.