Spazio vitale tra i 3 e 4 metri quadrati per quasi quattordicimila detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 gennaio 2020 Il sovraffollamento nel rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Siamo al limite della soglia consentita dalla sentenza pilota della Corte europea dei diritti umani nel caso di Torreggiani contro l’Italia. Dal rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura emerge un dato preoccupante sul sovraffollamento carcerario che smentisce ulteriormente la storia che da noi il problema è virtuale, perché un detenuto avrebbe uno spazio abitativo minimo di 9 metri quadri per cella singola e 5 metri quadri per detenuto in celle a occupazione multipla. Nella realtà dei fatti non è assolutamente così. Al momento della visita, il Cpt ha rivelato che circa 13.800 detenuti sono stati ospitati in celle che hanno fornito tra i 3 e i 4 metri quadri di spazio vitale ciascuno. In pratica siamo al limite della soglia consentita dalla sentenza pilota della Corte europea dei diritti umani nel caso di Torreggiani v. Italia. Il Cpt raccomanda alle autorità italiane di agire per garantire che tutti i detenuti siano dotati di almeno 4 metri quadri in celle a occupazione multipla. Al momento della visita, nel marzo 2019, il complesso penitenziario operava a pieno regime con la popolazione carceraria di 60.611 per 50.514 posti. Per il Comitato ciò rappresenta un aumento significativo del numero dei detenuti dalla visita periodica risalente all’aprile del 2016, quando la popolazione carceraria era di 54.072 per una capacità di 49.545 posti. I componenti della delegazione del Cpt hanno concordato che l’aumento della popolazione carceraria non è collegata all’aumento della detenzione, ma ad un minor numero di persone rilasciate dal carcere. Il problema risiede nelle lunghe condanne inflitte dai tribunali dal 2008 in poi, combinate con i numerosi detenuti socialmente vulnerabili con brevi condanne che, pur essendo ammissibili a misure alternative, rimangono in carcere. Secondo il Cpt l’Italia dovrebbe sforzarsi nel porre un’azione rigorosa per ridurre la popolazione carceraria al di sotto del numero dei posti disponibili. A questo proposito, sempre secondo il Comitato europeo, l’accento dovrebbe essere posto sull’intera gamma di misure non detentive. Il governo però ha risposto al Cpt che per porre rimedio al sovraffollamento penserà di utilizzare le caserme dismesse e costruire nuove carceri. Quindi il governo rimane fermo sulla sua posizione. Mentre si attendono nuove carceri, senza pensare di utilizzare il carcere come estrema ratio, il sovraffollamento aumenta. Le uniche reazioni politiche provengono dai Radicali italiani e dal Partito Radicale. “Il superamento definitivo delle criticità riscontrate dal Consiglio d’Europea nelle strutture di detenzione - dichiarano Massimiliano Iervolino e Giulia Crivellini, Segretario e Tesoriera di Radicali Italiani - richiede una riforma complessiva del sistema giustizia, a partire dalla depenalizzazione dei reati minori e dalla revisione dei meccanismi di custodia preventiva, provvedimenti che inciderebbero in modo decisivo sul sovraffollamento cronico degli istituti”. La situazione delle carceri italiane elaborate da Rita Bernardini del Partito Radicale Rita Bernardini del Partito Radicale ha elaborato i dati tenendo anche presenti i posti non disponibili carcere per carcere. Ne esce fuori un quadro impietoso che qui di seguito pubblichiamo. Abruzzo (8 istituti): Nonostante la Regione abbia un sovraffollamento quasi pari alla media nazionale con il 128,84%, tre istituti su otto, lo superano abbondantemente: quello di Pescara (145%), quello di Teramo (170,33%) e quello di Chieti (177,22%). Basilicata (3 istituti): Sovraffollamento regionale ben superiore alla media nazionale con il 143,16%. Il carcere di Melfi supera il 168%. Calabria (12 istituti): Sovraffollamento inferiore alla media nazionale con il 109%, ma con tre istituti che la superano: Locri (138%), Castrovillari (140%) e Laureana di Borrello con il 177%). Campania (15 istituti): Sebbene con il 126% il sovraffollamento sia al di sotto della media nazionale, si registrano 9 istituti che la superano: Vallo della Lucania (130%), Salerno (133%), Sant’Angelo dei Lombardi 138%, Arienzo 140%, Napoli Secondigliano (141%), Napoli Poggioreale 142%, Pozzuoli 142%, Benevento 155%. Emilia Romagna (10 istituti): con il 144% il sovraffollamento è ben al di sopra della media nazionale con 7 istituti che la superano. I picchi massimi si registrano a Ravenna (173%), Bologna (170%) e a Ferrara con il 152%. Friuli Venezia Giulia (5 istituti): con il 148% il sovraffollamento è ben al di sopra della media nazionale. Tre istituti sono abbondantemente sopra la media nazionale: Pordenone 182%, Udine 168% e Tolmezzo 156%. Lazio (14 istituti): registra un sovraffollamento del 139%, con 7 istituti che superano questa media: Cassino 145%, Viterbo 147%, Rebibbia femminile 148%, Rebibbia N. C. 153%, Regina Coeli 172%, Civitavecchia N. C. 173%, Latina 184%. Liguria (6 istituti): sovraffollamento al 136% con 5 istituti che superano la media nazionale: Chiavari 157%, Genova Marassi 137%, Genova Pontedecimo 161%, Imperia 160% e La Spezia 148%. Lombardia (18 istituti): sovraffollamento elevato (148%) con ben 15 istituti che superano la media nazionale. I picchi di sovraffollamento si registra a Como 196%, Monza 192%, Varese 183%, Brescia Verziano 183%, Busto Arsizio 182%, Brescia Canton Monbello 171% e Bergamo 167%. Marche (6 istituti): con il 125% ha un sovraffollamento inferiore alla media nazionale. Solo Pesaro ha un sovraffollamento molto elevato con il 160%. Molise (3 istituti): risulta essere la regione più sovraffollata d’Italia con il 182%. Larino con il 214% è il carcere più sovraffollato d’Italia; segue Campobasso con il 168%. Piemonte (13 istituti penitenziari): la regione, con il 123%, risulta essere al di sotto della media nazionale di sovraffollamento. 8 istituti però superano abbondantemente la media nazionale, con picchi superiori al 140% per le carceri di Asti 142%, Biella 144%, Vercelli 145% e Alessandria (casa di Reclusione) 150%. Puglia (11 istituti penitenziari): è la seconda regione più sovraffollata d’Italia con il 171%. 9 istituti superano di gran lunga la media nazionale con picchi superiori al 150% per gli istituti di San Severo 152%, Trani 155%, Brindisi 157%, Bari 167%, Foggia 172%, Lecce 186%, e Taranto 203%. Sardegna (10 istituti penitenziari): è la seconda regione Italiana dopo il Trentino Alto Adige ad avere più posti che detenuti (96%). Nell’isola sono state infatti costruite molte carceri destinate ai detenuti per reati di criminalità mafiosa o terroristica provenienti dalla penisola. Tutti gli istituti sono ben al di sotto della media nazionale di sovraffollamento con carceri che ospitano molti meno detenuti della loro capacità ricettiva come Onani- Mamone che registra 175 detenuti a fronte di 386 posti disponibili o Arbus is Arenas che ne registra 100 a fronte di una disponibilità di 176 posti. Sicilia (23 istituti penitenziari): è la regione che più si avvicina alla parità fra posti disponibili e detenuti presenti; il sovraffollamento è infatti del 106%. Sono 4 su 21 gli istituti che superano la media nazionale di sovraffollamento: Gela 131%, Piazza Armerina, 132%, Catania Bicocca 141% e Augusta 149%. Toscana (16 istituti penitenziari): con il 133% registra un sovraffollamento di poco superiore alla media nazionale. I livelli più alti di sovraffollamento si verificano ad Arezzo 141%, Siena 146%, Pistoia 149%, Grosseto 167%, Firenze Sollicciano 170%, Pisa 174% e Lucca 182%. Trentino Alto Adige (2 istituti penitenziari): è la prima regione italiana ad avere più posti che detenuti (88%) anche se il carcere di Bolzano registra un sovraffollamento del 125%. È il nuovo carcere di Trento ad ospitare molti meno detenuti di quelli disponibili: 336 detenuti presenti a fronte di 419 posti disponibili. Umbria (4 istituti): ha un sovraffollamento (116%) inferiore alla media nazionale: solo il carcere di Perugia vi si avvicina con il 128,84%. Valle D’Aosta (1 istituto): ha un solo carcere (Brissogne) che con il 127% è di poco inferiore alla media nazionale. Veneto (9 istituti penitenziari): con un sovraffollamento del 140%, registra 6 istituti ben oltre la media nazionale. Con un sovraffollamento superiore al 150% si registrano gli istituti di Vicenza 157%, Verona 162% e Venezia Santa Maria Maggiore 165%. La giustizia senza innocenti di Bonafede di Stefano Cappellini La Repubblica, 24 gennaio 2020 “Gli innocenti non finiscono in galera”. Pensate se questa frase la dicesse l’avventore di un bar sport, per sostenere che non c’è tanto da sottilizzare sulle garanzie per indagati e imputati, perché tanto uno che finisce dentro qualcosa avrà di certo combinato. Sarebbe grave, ma in fondo siamo al bar, se ne sentono tante. Pensate invece se la frase la dicesse un politico, uno di quei sovranisti che promettono pugno duro e chiedono di non fare lagne sullo Stato di diritto perché - dicono - serve solo ai delinquenti. Sarebbe certo più grave, perché chi ha responsabilità nelle istituzioni dovrebbe sapere che gli innocenti in galera ci finiscono eccome, e lo Stato italiano ne ha risarciti migliaia negli ultimi decenni. Pensate, infine, se questa frase la dicesse il ministro della Giustizia, dimostrando di non possedere neanche i rudimenti necessari a occupare la carica. In quest’ultimo caso, però, non c’è da immaginare troppo. La frase, testuale, l’ha detta il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Ieri sera. In tv a Otto e mezzo. E pure al bar sport deve essere corso un brivido sulla schiena degli avventori. Secondo Bonafede gli innocenti non finiscono in carcere ilpost.it, 24 gennaio 2020 Lo ha detto ieri a “Otto e Mezzo”, e ovviamente si è sbagliato di grosso. Durante la puntata di giovedì di Otto e Mezzo Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia del Movimento 5 Stelle, ha parlato anche della riforma della prescrizione entrata in vigore a gennaio. La riforma prevede il blocco assoluto della prescrizione dopo la sentenza di primo grado: nessun processo finirà mai in prescrizione se è arrivato almeno a una sentenza di primo grado, sia in caso di condanna che di assoluzione. Finora, invece, che si arrivasse a una sentenza di primo grado o di appello, un reato poteva essere estinto se passava un tempo considerato eccessivo. A questo proposito la giornalista di Repubblica Annalisa Cuzzocrea ha incalzato il ministro chiedendogli cosa pensi di tutte quelle persone che finiscono in carcere in attesa di un giudizio definitivo e che poi si rivelano innocenti. “Mi chiedo se lei ogni tanto non pensa agli innocenti che finiscono in carcere”, ha detto Cuzzocrea a Bonafede, che ha risposto dicendo: “Cosa c’entrano gli innocenti che finiscono in carcere? Gli innocenti non finiscono in carcere”. Cuzzocrea ha risposto a Bonafede citando i dati dei casi di persone innocenti incarcerate erroneamente negli ultimi anni: “Dal 1992 al 2018 27mila persone sono state risarcite dallo Stato perché sono finite in carcere da innocenti, quindi gli innocenti finiscono in carcere”, secondo i dati riportati alcuni mesi fa da Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, fondatori del sito errorigiudiziari.com, archivio online dei casi di ingiusta detenzione. Secondo i dati ufficiali, soltanto nel 2018 1.355 persone sono state poste in custodia cautelare in carcere e altre 1.025 agli arresti domiciliari per poi, pochi mesi dopo, essere assolte. Venerdì Bonafede ha chiarito la sua frase scrivendo su Facebook che “nell’intervista di ieri sera, mentre si stava parlando di assoluzioni e condanne, ho specificato che gli “innocenti non vanno in carcere” riferendomi evidentemente e ovviamente, in quel contesto, a coloro che vengono assolti (la cui innocenza è, per l’appunto, confermata dallo Stato). Ad ogni modo, la frase non poteva comunque destare equivoci perché subito dopo ho specificato a chiare lettere che sulle ipotesi (gravissime) di ingiusta detenzione, “sono il ministro che più di tutti ha attivato gli ispettori del ministero per andare a verificare i casi di ingiusta detenzione” […]. “Aggiungo, infatti, che per la prima volta ho introdotto presso l’Ispettorato in maniera strutturata il monitoraggio e la verifica dei casi di riparazione per ingiusta detenzione, anche in occasione delle ispezioni ordinarie”. La prescrizione è una forma di garanzia per gli imputati contro l’eccessiva lunghezza dei processi - visto che i processi hanno costi enormi per gli imputati, anche nel caso poi si concludano con un’assoluzione - ed è uno strumento che lo Stato può utilizzare quando non è più interessato a perseguire alcuni reati (quelli punibili con l’ergastolo, invece, erano già imprescrittibili prima della riforma). La prescrizione serve anche a ridurre gli errori giudiziari, dal momento che più passa il tempo più le indagini e i processi si fanno complicati (le prove si deteriorano, i testimoni muoiono, eccetera). Dopo le molte polemiche che la riforma ha suscitato nella maggioranza, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha presentato una possibile modifica, introdotta nel disegno di legge sulla riforma del processo penale, che prevede il blocco della prescrizione dal primo grado di giudizio solo in caso di sentenza di condanna. Bonafede, basta rinvii su giustizia e carcere di Giulia Crivellini* e Alessandro Capriccioli** Il Riformista, 24 gennaio 2020 Il Comitato per la prevenzione della tortura conferma la crisi del nostro sistema penitenziario, che è stata sempre affrontata con misure tampone. Ma per ottenere soluzioni durature è urgente una riforma complessiva della giustizia. Colpiscono, ma purtroppo non sorprendono le osservazioni e raccomandazioni del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, che alcuni giorni fa ha denunciato in una relazione le criticità del sistema di detenzione italiano. Un documento che conferma i problemi tante volte sollevati da chi le carceri le visita in modo abituale, per verificare le condizioni in cui vivono gli ospiti e in cui lavora la polizia penitenziaria: da quelli cronici. come il sovraffollamento e l’alta presenza di detenuti in attesa di giudizio, a quelli comuni a tanti istituti. quali il numero insufficiente di agenti ed educatori impegnati nelle strutture, edifici fatiscenti. episodi di maltrattamento. Criticità persistenti sulle quali i riflettori si accendono solo quando l’Italia è bacchettata dagli organismi europei o internazionali o quando i casi di violenza e illegalità che si verificano tra le mura dei penitenziari raggiungono le pagine di cronaca. E poi? Il tema sprofonda di nuovo nel buio. Prendiamo il caso di Mammagialla, il carcere di Viterbo citato dal Cpt per i numerosi episodi di violenza, di cui gli autori del report hanno raccolto testimonianza: abbiamo ascoltato direttamente da detenuti ed ex detenuti i racconti relativi a percosse, soprusi. all’esistenza della “squadretta punitiva”. Ci siamo rivolti al ministro Bonafede tre mesi fa. domandando un incontro in cui riferire quanto rilevato: non abbiamo ricevuto alcuna risposta. Eppure oggi è innegabile l’urgenza di un intervento che ripristini lo Stato di diritto in questa casa circondariale. a tutela delle persone che vi sono detenute, come dei tanti agenti di polizia penitenziaria che operano in modo corretto. Altrettanti) innegabile è l’urgenza di provvedimenti che riportino dignità e legalità all’intero apparato detentivo e che non si limitino a singoli istituti. L’assenza di interventi risolutivi è una staffetta che passa di governo in governo. Si fa quel tanto che basta per rispondere nell’immediato alle richieste degli organismi europei. si applicano provvedimenti-tampone in risposta a emergenze particolari o localizzate, quando invece politica e istituzioni dovrebbero allargare lo sguardo al sistema giustizia nella sua interezza. Meno carcere, più giustizia: per agire sul primo, è necessaria una riforma complessiva della seconda. Questa l’unica strada percorribile. se l’obiettivo è quello di trovare soluzioni durature. Soluzioni che sono adesso più che mai indifferibili, poiché la crisi del sistema giustizia blocca la crescita economica del Paese: la lunghezza della durata dei processi, l’enorme carico di cause pendenti e il ritardo dei pagamenti della Pa frenano qualsiasi attrattiva di investimento dall’estero, oltre a pesare per circa un punto del Pil sulla nostra economia. E allora come intervenire? In ambito penale. occorre partire dalla depenalizzazione dei reati minori, dalla messa in discussione del principio di obbligatorietà dell’azione e dell’uso smodato della custodia preventiva. lavorando parallelamente a meccanismi che pongano fine all’irragionevole durata dei processi. Basti pensare che proprio quest’ultimo punto, insieme alla mancata applicazione della legge Pinto (che tutela i cittadini dalla lunghezza eccessiva dei procedimenti giudiziari), è la causa principale dei numerosi ricorsi italiani alla Cedu (ben 1200 nel 2018. numero inferiore solo a Russia. Romania. Ucraina e Turchia). Di una giustizia giusta, di un sistema funzionante. beneficerebbero i tribunali quanto le carceri: garantisce legalità, dignità e diritti. elementi sui quali si basa la credibilità di uno Stato e ha un impatto positivo in termini economici e sociali. Proprio le politiche sociali sono l’altro terreno d’azione: analizzare sacche specifiche di marginalità nelle carceri, dai consumatori problematici di sostanze stupefacenti ai cittadini indigenti. soprattutto stranieri. per trovare risposte adatte e alternative alla detenzione, Giustizia e carceri sono perennemente al collasso: ministro Bonafede, non è più tempo di rimandare. *Tesoriera di Radicali Italiani **Consigliere Regione Lazio +Europa-Radicali Consulta, avviso del presidente Cartabia: “La giustizia vendicativa distrugge” di Valentina Errante Il Messaggero, 24 gennaio 2020 “La giustizia vendicativa distrugge insieme gli individui e la stessa polis”. L’anno accademico di Roma Tre si apre con la lectio magistralis di Marta Cartabia. Alla prima uscita pubblica, la neo eletta presidente della Corte costituzionale, cita le Eumenidi di Eschilo, la tragedia greca nella quale la vendetta si interrompe davanti a un tribunale. È quasi un manifesto programmatico di una concezione della giustizia “rinnovata, che guarda al futuro piuttosto che pietrificarsi su fatti passati che pure sono incancellabili”, come spiega Cartabia che oppone Atena alle dee della vendetta, le Erinni. Una giustizia volta a riconoscere, riparare, ricostruire, ristabilire, riconciliare, restaurare, ricominciare, ricomporre il tessuto sociale. “Una giustizia - dice la presidente della Consulta - caratterizzata dal prefisso “ri” che guarda in avanti e allude alla possibilità di una rinascita: senza cancellare nulla - anzi ricordando tutto”. Nelle conclusioni ha poi accennato a un paradosso: “Anche le operazioni più civilizzate della giustizia, in particolare nella sfera penale, mantengono ancora il segno visibile di quella violenza originale che è la vendetta”. Alla cerimonia di inaugurazione, a sorpresa, ha fatto il suo ingresso il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, arrivato durante l’intervento della sindaca di Roma Virginia Raggi, interrotta dall’applauso della sala. Napolitano ha poi preso posto accanto a Cartabia, che lui stesso aveva nominato giudice costituzionale. Nel corso della prolusione, Cartabia ha tratteggiato la figura del giudice ideale, quasi un monito: “Qualunque sia lo stile decisionale, il giudice deve giustificare il suo decidere. Compito del giudice è rendere ragione di ciò che ha deciso; farsi comprendere; convincere; persuadere”. “Occorre una parola di giustizia - ha sottolineato - una parola che si esprime nel processo e culmina nella assegnazione della pena o nell’assoluzione”. Un riferimento anche al ruolo della Corte: “Giustizia e parola non possono andare disgiunte: né nell’azione dei soggetti processuali, né tanto meno in quello del giudice, chiamato a motivare a rendere ragione della decisione presa”, ha spiegato. La legge Bonafede non va, ma ora processi più rapidi di Franco Mirabelli Il Riformista, 24 gennaio 2020 Se la giustizia non fosse così lenta, la prescrizione non avrebbe tanta rilevanza. Per questo bisogna velocizzare le procedure e rendere efficiente il sistema penale. Questa sì che sarebbe una riforma storica. Il tema della prescrizione dei reati resta un tema rilevante, una questione che riguarda i diritti dei cittadini, la certezza della pena, il tema costituzionale della ragionevolezza dei tempi del processo. Il confronto aperto su questo è importante e, per parte nostra, c’è la necessità di ripensare la riforma Bonafede-Bongiorno che di fatto elimina la prescrizione e rende possibili processi infiniti. Credo però che ci si debba domandare se questo della prescrizione sia il tema più importante e, soprattutto, se possa essere isolato da una riflessione sulla riforma del processo. In realtà siamo tutti d’accordo a sostenere che, fino ad oggi, se un processo non si conclude perché scatta la prescrizione, questo fatto costituisce un fallimento per lo Stato e per la giustizia. Così come siamo d’accordo a considerare il tema dell’accelerazione dei processi non solo necessario ma fondamentale per garantire i cittadini e la competitività del nostro Paese. Se i processi in Italia durassero meno, il tema della prescrizione non avrebbe più la rilevanza che ha assunto. Per questo, il fatto che la maggioranza di governo stia trovando un accordo significativo per portare presto in Parlamento la legge delega per l’efficienza del processo penale è importante e non può essere sottovalutato, come invece mi pare si stia facendo in questi giorni, con tutta l’attenzione rivolta alla prescrizione, tema che, da solo, non risolve nessuno dei grandi problemi della giustizia italiana. Per portare la durata dei processi a 4/5 anni al massimo occorre un investimento significativo, che il governo si impegna a fare, in personale e in strutture. Ma occorrono soprattutto riforme che consentano di velocizzare le procedure e su questo si concentra la proposta di legge delega proposta dal ministro Bonafede che la maggioranza ieri ha iniziato a condividere. Si tratta del combinato disposto di misure per ridurre la burocrazia e i passaggi, e per definire tempi certi e responsabilità nelle diverse fasi processuali. Credo siano sufficienti i titoli delle misure proposte per rendere chiaro quanto è possibile fare, e in poco tempo, per ottenere procedimenti rapidi ed efficaci. Prima di tutto l’estensione, fino a renderne obbligatorio l’uso per alcune tipologie di atti, delle notifiche e delle comunicazioni telematiche stabilendo regole chiare e cogenti. Poi la modifica dei tempi previsti per le indagini preliminari, da sei mesi a un anno e mezzo a seconda dei reati contestati, con la possibilità di richiedere un’unica proroga di sei mesi. Ancora l’estensione dell’utilizzo di procedimenti speciali: dalla “pena su richiesta” ai giudizi abbreviati e immediati, fino al procedimento per decreto, come opportunità alternative al processo da implementare anche per ridurre la mole di lavoro dei tribunali. A ciò si aggiunge la maggiore valorizzazione del procedimento davanti al giudice monocratico che consentirebbe la pronuncia sul non luogo a procedere. Anche l’introduzione di una nuova disciplina sanzionatoria di contravvenzioni che consenta l’estinzione delle stesse se si adempie alle prescrizioni impartite dall’organo accertatore (comprendendo, tra queste, comportamenti risarcitori), può contribuire a ridurre i carichi di lavoro degli uffici giudiziari e ridurre i tempi dei procedimenti. Infine le norme che responsabilizzano i magistrati sul rispetto dei termini previsti per la durata del processo diventerebbero una ulteriore garanzia sui tempi certi e ragionevoli. Credo che questa breve e sintetica elencazione delle norme di cui la maggioranza sta discutendo e su cui stiamo tutti convergendo, possa contribuire a rimettere anche la questione prescrizione nel giusto contesto. Comunque la si pensi il tema prioritario è quello di dare efficienza al sistema penale, velocizzare i processi, garantire tempi certi, mettere l’intero sistema nelle condizioni di funzionare al meglio nell’interesse dei cittadini ma anche degli operatori del diritto. Se riusciremo, e c’è la volontà di tutta la maggioranza in questa direzione, faremo una riforma davvero storica che credo sarebbe meglio, tutti insieme, valorizzare anziché continuare a enfatizzare le differenze che tra noi ci sono sulla prescrizione, tema su cui dobbiamo continuare a confrontarci, ma che non deve nascondere il valore della riforma: garantire davvero tempi ragionevoli della giustizia. “Il ddl penale è un colpo letale a diritti e garanzie” di Eriberto Rosso Il Dubbio, 24 gennaio 2020 In questi mesi abbiamo conosciuto diverse proposte di intervento per la riforma del processo penale. Il primo progetto di disegno di legge in realtà è stato approvato con la bizzarra formula del “salvo intese” dal Consiglio dei ministri quando la maggioranza di governo era composta anche dalla Lega. Quel ddl tradiva l’impostazione del Tavolo di consultazione voluto dal ministro Bonafede, poiché in esso non vi era traccia dell’estensione delle ipotesi del cosiddetto patteggiamento né di una nuova disciplina per il giudizio abbreviato condizionato, né erano previste ipotesi di depenalizzazione in materia di contravvenzione. In sostanza si era perso il significato della interlocuzione con avvocatura e magistratura che a quel Tavolo, ferme le tante differenze, con una proposta condivisa dall’Unione delle Camere penali e da Anm, si era concentrata sul rafforzamento della funzione di filtro della udienza preliminare, su una maggiore premialità del patteggiamento accompagnato dal superamento delle ostatività, su una nuova regola di ammissione del giudizio abbreviato condizionato, dovendosi fare riferimento alla rilevanza e alla specificità del tema di prova e non più all’economia processuale per la sua ammissione. Nella prospettiva di quella ipotesi di intervento si trattava di contribuire a diminuire il numero dei procedimenti destinati al dibattimento per rafforzare, proprio nel processo, le garanzie di effettiva realizzazione del contraddittorio. A quel Tavolo l’Unione portò anche proposte per la certezza della durata del tempo dell’indagine, per il controllo giurisdizionale sul tempo dell’iscrizione della notizia di reato e sul rafforzamento delle garanzie del diritto di difesa. Del disegno di Legge approvato “salvo intese” demmo un duro giudizio perché, nella sua stesura finale, non prevedeva più un intervento limitato per la ragionevole durata del processo ma prevedeva, fuori da qualsiasi interlocuzione, l’introduzione del sorteggio nei meccanismi elettorali nel Csm, consegnava un potere autoreferenziale sulla indicazione delle priorità della trattazione degli affari penali alle Procure della Repubblica e individuava complicati meccanismi disciplinari, peraltro non collegati al singolo procedimento, su cui fondare l’efficienza degli uffici giudiziari. Realizzata la nuova maggioranza di governo, prese a girare nelle redazioni dei giornali e delle riviste giuridiche una seconda bozza nella quale in effetti erano recuperati alcuni approdi del Tavolo sui riti speciali ancorché con la previsione di una vasta gamma di preclusioni e sul rafforzamento della funzione di filtro dell’udienza preliminare, ma vi era anche un’inquietante ipotesi di estensione della disciplina del 190 bis c. p. p.: la non ripetizione della prova nel caso di mutamento di componenti del Collegio, e ancora, la via disciplinare per “contenere” i tempi di durata dei processi. Gira in questi giorni, come il segreto di Pulcinella, già riassunta e corredata di primi commenti di alcuni giornali ben informati, un ulteriore testo che dovrebbe rappresentare il punto di compromesso tra le forze di governo anche sulla prescrizione. Come sempre, in tempi rapidi, ci faremo carico di un contributo scientifico sulle singole previsioni ma da subito possiamo dare un giudizio complessivo che ferma la lancetta del barometro al pessimo. Nuove preclusioni per il patteggiamento allargato; la selezione delle notizie di reato da trattare con criteri di priorità affidati alle Procure della Repubblica; la conferma dell’estensione della regola di cui all’art. 190 bis comma 1 c.p.p. a tutti i procedimenti, dunque, utilizzabilità della prova precedentemente raccolta nel caso di mutamento del giudice; la previsione della lettura al dibattimento degli atti redatti dalla polizia giudiziaria con buona pace delle tecniche di esame e controesame e del principio di formazione della prova al dibattimento; la valutazione da parte dell’ufficio del Giudice monocratico, al fine di uno spoglio preliminare, del fascicolo del pubblico ministero; ulteriore estensione delle ipotesi riservate al Giudice monocratico di Appello e di udienze non partecipate violando il principio di collegialità e delle regole di oralità e immediatezza; nuovi meccanismi per la elezione dei componenti del Consiglio superiore della magistratura. Tutte materie fuori dalla interlocuzione del Tavolo tecnico- ministeriale ma evidentemente frutto di accordi (?) in sede politica. Vi sono poi le disposizioni in materia di sospensione del corso della prescrizione. Qui si gioca una partita che riguarda l’assetto costituzionale del nostro sistema penale: Bonafede e i suoi sostenitori scommettono sull’imputato sempre colpevole, superando il principio di presunzione di innocenza: intervenuta condanna in primo grado la prescrizione non opera più, se l’impugnazione è del pm contro una sentenza di assoluzione il blocco della prescrizione è di due anni con un complicato meccanismo di recupero di quel tempo nel giudizio di Cassazione qualora il secondo grado si definisca con condanna. Se questo sciagurato meccanismo entrasse in vigore avremo per un periodo cinque diverse discipline diverse per la prescrizione e, comunque, le Corti di Appello chiamate, in “via prioritaria”, a celebrare processi nei quali l’imputato è stato assolto in primo grado “per vedere di rimediare a quell’errore”. L’onorevole Andrea Orlando, padre della disciplina della prescrizione abrogata dalla Bonafede, in un’intervista resa ieri a Errico Novi diceva che noi delle Camere penali avremmo espresso apprezzamento per la bozza di riforma. Abbiamo incontrato l’onorevole Orlando il 5 dicembre 2019, nel pieno svolgimento della nostra maratona oratoria. Volevamo capire se il Pd avrebbe appoggiato l’abolizione della legge sulla prescrizione, gli abbiamo ricordato che l’Unione delle Camere penali non aveva condiviso la sua riforma ma che la legge Bonafede si poneva in contrasto con principi costituzionali e con regole della nostra civiltà giuridica. In quell’incontro abbiamo affermato come un intervento sui tempi del processo si potesse realizzare attraverso le proposte positive che i Penalisti italiani e l’Anm avevano condiviso al Tavolo ministeriale in materia di rafforzamento della funzione di filtro dell’udienza preliminare e di rilancio dei riti alternativi, convinti come siamo che se davvero si vuole intervenire sui tempi del processo, quei limitati interventi siano un utile contributo per diminuire il carico degli affari penali al dibattimento e per rafforzare la garanzie difensive. Chi intenda ulteriormente erodere le garanzie difensive, prevedere il recupero al dibattimento di prove già formate precedentemente, consegnare alle Procure della Repubblica le scelte in punto di priorità dell’esercizio dell’azione penale, svilire o addirittura annullare la portata del giudizio di Appello, troverà i penalisti italiani sulla sua strada a rivendicare una diversa cultura del diritto penale e la necessità della concreta realizzazione dei principi costituzionali che informano il processo. Oggi ci attende la battaglia sulla prescrizione, il 28 gennaio saremo con i professori delle Università italiane davanti al Parlamento per rivendicare le ragioni del diritto penale democratico contro la riforma Bonafede. Speriamo che anche i parlamentari del Pd si impegnino per abolire quella sciagurata legge. *Segretario Unione Camere penali italiane La rivolta dei magistrati: “niente sanzioni, non siamo pigri” di Giovanni Altoprati Il Riformista, 24 gennaio 2020 La norma è stata inserita nel testo “processo breve” voluta da Bonafede per diluire gli effetti del blocco della prescrizione. Ma le toghe protestano. Solo noi possiamo decidere i tempi dei processi. Nessuno può permettersi di dirci quanto deve durare un dibattimento. Neppure il legislatore. In estrema sintesi. è questa la risposta delle toghe italiane alla proposta della maggioranza di prevedere delle “sanzioni’ per i giudici pigri. Una risposta prevedibile e scontata. L’Italia, infatti, pur essendo continuamente sanzionata dalla Cedu per l’eccessiva durata dei processi. non ha mai posto in essere serie misure strutturali - ad esempio facendo lavorare di più e meglio i magistrati - per evitare che i cittadini trascorrano gran parte della loro esistenza in Tribunale prima di avere una sentenza definitiva. Leggendo l’ultima relazione della Corte di Strasburgo. sono stati oltre 1200 i ricorsi per “l’irragionevole durata del processo” e “la mancata applicazione della legge Pinto”. Un record che ci ha permesso, nel 2018, di superare la Turchia, paese dove vige uno dei sistemi giudiziari peggiori del pianeta. Era stato il responsabile giustizia del Pd, Walter Verini, in un intervento pubblicato la scorsa settimana su Il Riformista, ad annunciare la possibilità di rafforzare l’illecito disciplinare per “ritardi immotivati nello svolgimento del procedimento”. La norma è stata poi inserita nel testo sul “processo breve” voluto da Alfonso Bonafede per diluire gli effetti del blocco della prescrizione sulla durata dei processi e presentato mercoledì agli alleati di governo. Per i magistrati pigri è previsto un procedimento disciplinare più “efficace” davanti al Csm. normalmente di manica larga per le toghe lumaca: Palazzo dei Marescialli Io scorso anno, prosciolse un giudice fiorentino che aveva impiegato oltre cinque anni per depositare una sentenza. La reazione delle toghe è stata durissima. “Una soluzione demagogica e di propaganda”, hanno affermato in coro i magistrati. Il tema, va detto, è di quelli che ricompaiano la categoria. Le tensioni fra le correnti del dopo “Palamara” sono subito sfumate come per prodigio. Dalla sinistra giudiziaria di Area-Md alla destra di Magistratura indipendente è immediatamente partito il fuoco di sbarramento per impallinare nella culla la proposta del governo. “Esprimiamo - scrivono i magistrati progressisti - la ferma ed assoluta contrarietà a qualsiasi riforma che ipotizzi di garantire la durata ragionevole dei processi penali minacciando ipotesi di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati qualora i tempi imposti per legge non vengano rispettati”. Ciò “non può certamente passare attraverso riforme che impongano ai magistrati italiani, pena l’individuazione di loro responsabilità di ordine patrimoniale o professionale, termini perentori di definizione dei processi”. I magistrati, dicono, farebbero già miracoli nell’attuale contesto. “La magistratura italiana rappresenta un esempio di produttività nel panorama comparato dei sistemi giudiziari europei e non accetta di diventare, in ragione di una mediazione politica che non dovrebbe mai andare disgiunta dalla ricognizione dei problemi reali. il capro espiatorio di inefficienze e malfunzionamenti che fanno torto all’abnegazione e all’impegno profusi dalla larga maggioranza dei suoi esponenti”, scrivono le toghe di destra. “La lentezza dei processi non è certo determinata dalla pigrizia dei magistrati: all’opposto, nel quadro normativo attuale, deve a loro essere riconosciuto il merito della residua, per quanto insufficiente, funzionalità della giustizia penale”, fanno eco i giudici di sinistra. Cosa fare? “Risorse” ed “investimenti”. la soluzione togata. Sul fronte risorse, comunque, l’anno scorso il governo ha già aumentato il numero dei magistrati, portandone l’organico a 10.600. Uno dei più alti in Europa se sommato anche alle migliaia di giudici onorari. Su un punto, però. le toghe hanno ragione. E cioè quando reclamano una seria depenalizzazione. Una rivoluzione dopo anni di panpenalismo spinto che ha portato a reati fumosi ed evanescenti come il traffico di influenze o l’abuso d’ufficio. Se Bonafede dovesse insistere nel suo progetto. i magistrati si sono comunque già dichiarati pronti alla “mobilitazione generale”. Ministro avvisato. ministro salvato. Fallimento, il debito verso l’Erario esclude l’intento distrattivo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sentenza 23 gennaio 2020 n. 270. In caso di fallimento dell’azienda, va considerata “congrua” la motivazione che esclude la “condotta distrattiva” dell’amministratore in quanto il “passivo ammesso” consiste in debiti verso Equitalia e verso la banca. Lo ha stabilito la Quinta sezione penale della Cassazione, sentenza n. 2708 di ieri, annullando la condanna per bancarotta fraudolenta patrimoniale decisa dalla Corte di appello di Napoli in riforma della pronuncia assolutoria di primo grado. Per la Suprema corte, infatti, legittimamente, il tribunale aveva affermato che non poteva ritenersi integrasse una condotta distrattiva il mancato pagamento di debiti erariali e verso la banca. Accolto dunque il ricorso dell’imputato che aveva sottolineato come il divario tra attivo e passivo “era costituito da debiti maturati verso il Fisco e verso gli istituti di credito”. La Cassazione afferma poi che, il giudice di secondo grado, nel ribaltare la decisione era venuto meno all’obbligo di motivazione rafforzata dovuto in caso di riforma della sentenza assolutoria di primo grado. Come chiarito dalle S.U. (n. 33748/2005) infatti il giudice che riformi totalmente la decisione ha l’obbligo di “delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato”. Ragion per cui, prosegue la decisione, “emerge l’insufficienza dell’apparato argomentativo” della sentenza impugnata “in ordine alla questione decisiva, congruamente affrontata dal decidente di primo grado”. Secondo il tribunale infatti “poiché il passivo ammesso (per 105.543 euro) era costituito da debiti verso Equitalia per tributi non pagati, maggiorati della quota dovuta per interessi e sanzioni (per 30.000 euro), da un debito nei confronti della Camera di commercio e da un debito verso la Banca Popolare di Ancona per anticipazioni bancarie per euro 70.000, non poteva ritenersi che il mancato pagamento del debito erariale e il mancato rientro delle esposizioni debitorie con istituti di credito integrassero condotte distrattive”. E-mail della madre sul figlio malato, diffamazione al medico che le divulga di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 23 gennaio 2020 n. 2705. Diffamazione per il medico che diffonde una email arrivatagli dalla madre sui metodi inumani (in particolare sui medicinali somministrati al giovane) operati sul figlio nel reparto di psichiatria. Il medico aveva eccepito l’eccessiva genericità delle imputazioni a suo carico e per questo aveva invocato l’applicazione della particolare tenuità del fatto prevista dall’articolo 131-bis del codice penale. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 2705/20. Non serve l’animus iniurandi - I Supremi giudici, rileggendo la vicenda, hanno precisato che non è richiesto “l’animus iniurandi vel diffamandi”, essendo sufficiente il dolo generico, che può anche assumere la forma di dolo eventuale, in quanto è sufficiente che l’agente consapevolmente faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell’agente. Per quel che concerne il mancato riconoscimento della causa di non punibilità del fatto, la Corte territoriale aveva già giustificato la decisione facendo riferimento alla gravità delle accuse all’onore e alla professionalità della persona offesa, e considerando non occasionale la condotta per le ripetute email inoltrate dal ricorrente. È di tutta evidenza - si legge nella sentenza - come nella fattispecie non fosse possibile rinvenire la causa di non punibilità. Condanna alle spese - Alla declaratoria di inammissibilità segue per legge (articolo 616 cpp) la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché, trattandosi di causa di inammissibilità determinata da profili di colpa emergenti dal ricorso, al versamento, in favore della cassa ammende, di una somma da ritenersi equa e congrua pari a 3mila euro. Sardegna. Sanità penitenziaria: 8 istituti su 10 senza coordinatori sanitari sardegnalive.net, 24 gennaio 2020 Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo diritti riforme”, punta il dito contro la situazione sanitaria all’interno delle carceri sarde. “Risultano assenti otto coordinatori sanitari su dieci Istituti, carenti i medici specialisti e spesso anche i farmaci per i disturbi psichiatrici, in aumento costante i detenuti in doppia diagnosi. Le carceri della Sardegna sono in affanno e la situazione nella Casa circondariale “Ettore Scalas”, la più grande dell’isola, richiede immediati interventi dalla Regione”. La presidente ha ricevuto diverse segnalazioni dai familiari dei detenuti “preoccupati per la difficoltà che i congiunti incontrano per disporre di alcuni farmaci e per le lunghe liste d’attesa per una visita odontoiatrica o psichiatrica”. Caligaris sottolinea che: “Nel villaggio penitenziario di Cagliari-Uta sono attualmente recluse 565 persone (23 donne - 137 stranieri) a fronte di 561 posti. Una situazione solo apparentemente accettabile sotto il profilo strettamente numerico ma assai complessa per la tipologia di ristretti. A parte le persone anche con insorgenze tumorali, a preoccupare sono le problematiche psichiatriche specialmente quelle connesse alle tossicodipendenze. Sono infatti all’ordine del giorno i gesti di autolesionismo e atti inconsulti. Nonostante un’alta percentuale di persone con problemi psichiatrici e psicologici, disturbi dell’umore e borderline (circa il 40%), sono in servizio solo due psichiatri e due psicologhe. Ma soprattutto spesso mancano alcuni farmaci antipsicotici”. “È diventato improcrastinabile - sottolinea la presidente di Sdr - il coordinatore sanitario. Una figura stabile e a tempo pieno che possa gestire al meglio le risorse umane e professionali nell’ottica di garantire costantemente e con efficacia il percorso di cura dei ristretti. La procedura di selezione peraltro è stata espletata lo scorso luglio ma ancora non è stata effettuata la nomina. C’è poi il problema del referente medico per ciascun detenuto. È assente insomma il corrispettivo del Medico di base che permetterebbe ai detenuti di avere un rapporto più diretto e meno ansiogeno, in analogia a quanto si verifica con i reclusi ricoverati nel Centro Clinico. Si tenga conto che l’ingresso e la permanenza in carcere aumentano i rischi per la salute fisica e psichica. Non si possono del resto sottacere le aggressioni verso gli Agenti di Polizia Penitenziaria e del Personale sanitario da parte di detenuti che distruggono i suppellettili della cella manifestando crisi nervose o tendenze antisociali”. “Infine l’organizzazione della sanità penitenziaria, in particolare a Cagliari-Uta, ha necessità di un riordino e di una seria presa in carico da parte dell’Ats. Occorre una rivisitazione e un aggiornamento. A 8 anni dalla riforma urge una verifica sull’efficienza del sistema. La situazione della struttura detentiva è profondamente cambiata. Aldilà delle istanze dei familiari dei ristretti, non solo i detenuti ma anche gli Agenti della Polizia Penitenziaria, gli Educatori e tutti gli operatori sanitari - conclude Caligaris - hanno necessità di svolgere il proprio ruolo con garanzie di sicurezza e serenità”. Sassari. Unida, il garante dei detenuti: “Ho un sogno per Bancali” di Giovanni Bua La Nuova Sardegna, 24 gennaio 2020 Da quasi tre mesi “Jodo” è il rappresentante dei detenuti nella Casa circondariale. “Non mi spaventano le critiche, ma ho ancora tanto da vedere e imparare”. Un vestito di Bagella indosso e una copia di “Abolire il carcere” di Luigi Manconi sotto il braccio. “Perché - dice parafrasando il mitico George Best - nella mia vita la maggior parte dei soldi li ho spesi in abiti, corsi e libri. E il resto l’ho sperperato”. Non manca certo il senso scenico, e una robusta autoironia, ad Antonio Unida, per tutti semplicemente Jodo, pseudonimo scelto in onore del suo maestro Alejandro Jodorowsky, studioso e teorico di psico-magia. Pezzo importante, e come sempre stravagante, dello “spiazzante” puzzle che forma la vita del 58enne di belle speranze che da novembre è il nuovo garante dei detenuti della casa circondariale di Bancali. La sacrestia. Infanzia tra via Munizione Vecchia a la sacrestia di monsignor Masia a San Giuseppe, dove fa incetta di incenso e politica. “Mi ci ha mandato mia madre per togliermi dalla strada - racconta. E, guardando la fine che hanno fatto la maggior parte dei miei vicini, mi sento di ringraziarla”. Tessera del Fronte della gioventù in tasca in pieno 1968 (“mio padre, che ha combattuto con la resistenza a Bologna, quando l’ha trovata mi ha preso per l’orecchio da scuola fino a casa e poi me l’ha strappata in faccia, e forse proprio per avere quella reazione l’avevo fatta”) e ritiri spirituali autoimposti già dai tredici anni. Studente disastroso (“mi hanno bocciato due volte, per fortuna dopo il militare ho finito ragioneria) e fresco dottore in psicologia a Roma. Impiegato al banco di Sardegna, sindacalista, ambientalista e consuelor, sciamano, social-maniaco, attore e fresco gattaro. Insomma: “Un po’ maccu - ammette - ma non maccu maru”. Le critiche. Niente da stupirsi dunque se, quando il consiglio comunale lo ha eletto per il delicato ruolo (“al sindaco mi sono proposto io, con umiltà ma determinazione”) in molti hanno storto il naso. Anche perché lui delicato nella vita, e nel raccontarla passo passo nella sua pagina Facebook, non lo è mai stato. “Ho scoperto i social solo nel 2015 - racconta - usavo il web per interagire con il mio relatore, all’università, e ho pensato di usare Facebook per lanciare messaggi a carattere ambientale. Ebbero un grande successo, così ho pensato che potevo denunciare situazioni, dare esempi. A un certo punto “funzionavo” talmente tanto che mi ha cercato pure Striscia la Notizia”. Mezzo nudo. Difficile verificare, perché nel mentre Jodo è già andato avanti. Tra il quotidiano bagno al mare in pieno inverno (“il freddo è una questione di testa, di concentrazione, ne ho parlato anche con Pozzecco”) reading, meditazione e qualche brutto scivolone. Come quel filmato diventato virale, mezzo nudo sopra il letto, in cui si lamenta dell’imbecillità dei sassaresi che non l’hanno eletto alle ultime Comunali. “Per un pelo mi costava il posto di lavoro. Grande errore. Non il primo né l’ultimo. Ma non faccio mai due volte lo stesso”. Dentro. E ora Bancali, dentro le cui mura il “dandy” si è tuffato con il solito incosciente entusiasmo. “Sì lo ammetto - dice sornione - mi hanno detto di darmi una calmata. Anche perché ci sono situazioni molto delicate dentro cui devo imparare a muovermi. I 41bis per esempio. Regime carcerario che, sia chiaro, andrebbe radicalmente rivisto”. Il fronte. Roba da far drizzare i capelli al vecchio iscritto del “Fronte”, che spesso appunto deve apostrofare i suoi seguaci. “Mi seguono molte persone che si classificano, e mi classificano, di destra. Collocazione che chiaramente mi sta stretta. E che comunque non giustifica un modo miope di vedere il carcere e chi lo occupa. Che è una potenziale risorsa, e non un problema da dimenticare”. Senz’acqua. E così, tra una visita alle 6.30 del mattino (“vado “dentro” due volte a settimana, per tutto il giorno, ma faccio qualche sorpresa”), qualche post ancora da “limare”, un ufficio a Palazzo Ducale aperto per incontrare i parenti, l’ex consigliere provinciale di An (“mi chiese di candidarmi Gianfranco Deriu, e lì ho proposto per la prima volta, sia a livello comunale sia provinciale, l’istituzione della figura del Garante dei detenuti, appena introdotta a Roma”) inizia a snocciolare le sue denunce: “L’acqua è sporca, imbevibile. E non tutti hanno i soldi per comprarla in bottiglia. Ed è colpa dei serbatoi da ripulire. Gli sciacquoni dei water sono vuoti. Piove dal tetto. Spesso manca la luce. Il menù è interessante ma mal cucinato. E in cucina, sino a qualche giorno fa, gli estintori erano scaduti”. E ancora: “Ci sono solo 5 educatori, che poi diventano 3. E carenze croniche di personale amministrativo e agenti. Siamo senza direttore e capo delle guardie”. Ma soprattutto: “Domina l’ozio, l’abbandono. Bancali è un contenitore di corpi. Non è colpa di nessuno, perché chi è dentro quel contenitore lavora, si danna, fa l’impossibile. Ma purtroppo è così”. La visione. E, tra tanti piccoli, grandi problemi da risolvere, arriva “la visione”: “Quella importante - spiega Jodo - perché quando i ragazzi mi chiedono di fargli la copia di un codice fiscale o portare un messaggio alla famiglia, io li aiuto, ma gli spiego anche che il mio ruolo è un altro. È fare il facilitatore del rapporto tra il carcere e la città. Trovare il modo di portare i detenuti in città, e la città dentro il carcere”. Avamposti. Molti gli “avamposti” che già ci provano: il laboratorio di teatro di Gazale, di sartoria, musica, falegnameria, pittura. Le scuole (come il Pellegrini) che organizzano percorsi di qualificazione personale o (come il Devilla) veri e propri corsi di istruzione superiore. I dentisti della Fraterna Solidarietà e i volontari Caritas. “Ma non basta. Mai. Il punto è che, ogni volta che si organizza qualcosa per la città - spiega Unida - bisogna pensare a come coinvolgere Bancali. Che deve diventare un quartiere della città, anche perché ci vivono mille persone, e la maggior parte dei detenuti sono sassaresi. E deve partecipare al Natale e alla Cavalcata, ai reading e alle rappresentazioni. Uscire fuori a presentare i suoi lavori, e ospitare chiunque abbia interesse a portare conoscenza, speranza, tra le sue mura. Mi prendo l’impegno di appoggiare ogni progetto, piccolo o grande, di affiancare, consigliare. E nel mentre guardo, studio, imparo. E continuo la mia battaglia per incontrare provveditore e presidente del consiglio regionale, direttori di carceri modello come Opera ed esperti delle problematiche carcerarie come la galassia radicale. E a raccontare tutto”. Prospettive. “Io penso che ridare prospettive ai sassaresi che passano dentro Bancali vuol dire ridare prospettive a Sassari. E che dobbiamo puntare all’eccellenza”. Il tutto con un bel completo dandy indosso, una copia di “Abolire il carcere” sotto il braccio. E il passo veloce e incosciente di uno che non si spaventa per prese in giro e critiche. “Nella mia vita ho spesso sentito la necessità di sentirmi un po’ diverso. E per questo ho pagato pegno. Ma sono troppo maccu per farmi abbattere. E poi chi ne ha il tempo con tutto quello che c’è da fare”. Napoli. Violenza urbana: nessuna tregua alle baby gang ma il disagio non va trascurato di Antonio Mattone Il Mattino, 24 gennaio 2020 Questa volta è stato superato ogni limite. Le immagini della baby gang che ha affrontato i poliziotti intervenuti per spegnere il falò di Sant’Antonio Abate, lanciando cassette della frutta, petardi e tutto quello che capitava sotto tiro, non si erano ancora viste. Mai fino ad oggi bande di ragazzini avevano osato affrontare gli uomini in divisa. Il furore violento si era sfogato verso immigrati anziani e clochard, tuttalpiù contro altri ragazzini indifesi o inermi passanti. Tuttavia, bisogna andare oltre la sacrosanta indignazione e tentare di capire cosa passa per la testa di questa gioventù bruciata. Provo a farlo ragionando assieme a Ciro, un ragazzo che proviene da quel quartiere, uscito da qualche anno dal carcere che adesso fa il cameriere in un ristorante del Centro storico di Napoli. Subito va diritto al problema e mi dice che quegli adolescenti non accettano il fatto che in un rione dove tutto è illegale, tra spaccio, contrabbando, racket e prostituzione, dove non si vedono mai forze dell’ordine, proprio quando loro accendono il fuoco devono venire i poliziotti. “Certo - afferma deciso - io credo che questo modo di ragionare sia sbagliato ma è quello che pensano loro. Ci hanno messo settimane per accatastare la legna e in un attimo gli è stato tolto quello per cui hanno tanto faticato”. Anche Ciro da piccolo andava in giro a raccogliere le pedane di legno dai salumieri, le cassette di frutta e i rami secchi che venivano tagliati nell’Orto botanico e messi da parte dai giardinieri. Era un gioco ma anche una tradizione molto sentita proprio nel quartiere che prende il nome dal Santo del fuoco, una memoria che abbraccia il sacro e il profano. Il discorso poi va a cadere sulla violenza, sull’uso dei coltelli. Il giovane è perentorio: oggi i ragazzini hanno i telefonini e niente è più filtrato, possono vedere di tutto. Soprattutto nei quartieri degradati, dove c’è un’alta dispersione scolastica e le famiglie disagiate tirano avanti tra stenti e attività illegali, le rappresentazioni di chi emerge con la prepotenza e la crudeltà sono l’unico modello vincente. E chi riesce ad imporsi diventa un mito e suscita un grande fascino. “Certe immagini di Gomorra vanno oltre la realtà, - mi dice - e non ti nascondo che talvolta ho provato un senso di nausea nel vederle”. La definisce una forma di fanatismo, cioè di autoesaltazione. Le rapine una volta si facevano per necessità, oggi per trasgressione. Perché i ragazzi portano un coltello in tasca invece di un pallone sotto al braccio? “Noi non vedevamo l’ora discendere da casa nella speranza di incontrare gli amici e fare una partita a pallone, oggi invece ci sono i gruppi whatsapp e subito si fanno gli appuntamenti, magari per marcare un territorio o per minacciare dei presunti rivali”. Allora capisco che si tratta di disagio, identità, marginalità sociale, uso distorto dei social, ostentazione di modelli violenti, un mix di motivazioni che si intrecciano tra loro. Insomma è un fenomeno complesso di cui si parla solo quando ci scappa il morto o avviene un fatto grave come il ferimento del povero Arturo. E si invocano fantomatici maestri di strada, scuole aperte di pomeriggio e d’estate. O all’opposto si richiedono misure estreme e nello stesso tempo inutili come l’abbassamento dell’età imputabile o l’allontanamento dei minori dalle famiglie. Poi una volta che si spengono i riflettori tutto passa nel dimenticatoio. Che fine ha fatto il documento dei minori a Napoli trasmesso dal Csm al Parlamento, come ricordava l’altro giorno Antonello Ardituro nell’intervista rilasciata a “Il Mattino”? Non ci sarebbe bisogno di un tavolo permanente per monitorare il fenomeno e prendere iniziative opportune come auspicava lo stesso magistrato? Ciro intanto mi racconta che con i pochi risparmi messi da parte è stato ad Amsterdam per una breve vacanza, una città dove i tram sono in perfetto orario e non c’è la spazzatura fuori dai cassonetti come quella che vediamo mentre prendiamo il caffè a piazza San Domenico maggiore. Poi mi dice che è contento perché il suo datore di lavoro oggi gli ha fatto da garante alla banca per comprare a rate un motorino. “Sai - dice con orgoglio - non era facile per uno che ha i precedenti, ma lui ha avuto fiducia in me e ci ha messo la faccia”. Allora penso che Napoli è un città matrigna che non è capace di prendere sul serio i suoi figli. E nel momento in cui mi viene un senso di vergogna di e di scoramento mi sussurra: “Ma sono ottimista, se ce l’ho fatta io non ce la possono fare anche questi ragazzi?”. Ragusa. “Vi spiego la custodia aperta che facciamo nel carcere” di Antonella Barone gnewsonline.it, 24 gennaio 2020 “Il modello che abbiamo adottato dipende essenzialmente da due elementi: il carattere ‘meritorio’ e il carattere “premiale”. Sotto il primo profilo, infatti, solo detenuti a basso potenziale di pericolosità possono accedere alla custodia aperta. A parlare è il Commissario Coordinatore Chiara Morales, Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria all’interno del carcere di Ragusa. “La selezione dei detenuti ammessi - aggiunge Morales - viene effettuata sulla base di informazioni fornite dalle Aree Sicurezza ed Educativa e dalla lettura del fascicolo personale. Per la determinazione del livello di pericolosità ci si attiene a quanto previsto dalla tabella A della circolare del 2015. In ogni caso i detenuti non già conosciuti dagli operatori penitenziari, come i nuovi giunti o provenienti da altri istituti, sono sottoposti a un periodo di osservazione minima di due mesi. La ‘custodia aperta’ è inoltre ispirata a un modello di premialità che prevede un’articolata serie di benefici per quei detenuti che dimostrino di aver aderito alle offerte dell’amministrazione Penitenziaria e di aver avviato un processo di revisione critica”. Eccola la giornata tipo dei detenuti ammessi alla “Sorveglianza dinamica e custodia aperta” nella casa circondariale di Ragusa: l’attività inizia alle 8,30 e termina alle 18. La mattina, fino alle 15, i detenuti raggiungono autonomamente, senza cioè essere scortati da agenti, i locali in cui lavorano, studiano o svolgono altre attività oppure, se devono incontrare i familiari, le sale colloqui. Le stanze di pernottamento, anche dopo il pranzo, restano aperte fino alle 18 e i detenuti hanno libertà di movimento negli spazi comuni interni alla sezione. Gli ammessi alla “Custodia aperta” possono inoltre usufruire di una serie di specifiche opportunità lavorative, di formazione e di altre ricompense, se dimostrano di aderire alle offerte trattamentali dell’amministrazione. Prima dell’inserimento nel reparto - che avviene dopo un’attenta selezione da parte degli operatori - i detenuti devono però firmare un documento di ‘assunzione di responsabilità’ in cui sono descritte regole e conseguenze di una loro violazione. La “Sorveglianza dinamica e custodia aperta”, adottata a Ragusa dal settembre del 2018, si compone di due elementi tra loro complementari: lo spostamento della centralità della vita detentiva dalla “cella” agli ambienti di detenzione dove si svolgono le attività trattamentali (lavoro, studio, formazione, attività ricreative) e un modo di sorvegliare basato su controlli itineranti, alternativo a quello custodiale consistente in postazioni perlopiù statiche. Nell’istituto penitenziario di Ragusa si trovano 183 detenuti (196 i posti disponibili) in stanze di detenzione in gran parte a norma. Circa un terzo dei detenuti è occupato in attività lavorative non a turnazione, 84 impegnati in corsi scolastici e altri quaranta in attività culturali o sportive (dati riportati nella Scheda trasparenza del Ministero della Giustizia). Morales ci tiene ad aggiungere che “la nostra struttura si sviluppa su tre piani e, grazie alla conformazione ‘a palo telegrafico’, un singolo agente può avere un sia pur parziale controllo visivo e uditivo sugli altri due piani. Il tradizionale presidio fisso viene sostituito dal cosiddetto gruppo dinamico, ossia una pattuglia itinerante composta da due unità che si muove nello spazio fisico del reparto ‘aperto’ come una ronda, presidiando dinamicamente ‘il territorio’ delle sezioni detentive, e intervenendo anche con controlli e ispezioni a sorpresa nelle stanze. Il livello di vigilanza è comunque implementato da una sala regia dedicata che costituisce la centrale operativa del reparto: controlla tutti gli ambienti dell’Istituto ed è in costante contatto con le unità del “gruppo dinamico”. “Il modello della Custodia aperta - conclude la Comandante - ha influito positivamente sulla vita detentiva: il clima all’interno del padiglione appare disteso e sereno. Non si è finora verificato alcun episodio di tentato suicidio, né si sono registrati casi di aggressione al personale”. Rovigo. Il sindaco: “Il carcere minorile è inadatto alla città” di Roberta Merlin Il Gazzettino, 24 gennaio 2020 “Chiederemo al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) di fare un passo indietro sul carcere minorile. Questo il contenuto della mozione su cui sta lavorando la maggioranza e che sarà votata durante la seduta del consiglio comunale, in programma tra il 4 e il 6 febbraio”. Il sindaco Edoardo Gaffeo chiarisce così la notizia di un consiglio comunale ad hoc, resa nota, nei giorni scorsi, dal capogruppo del Pd Graziano Azzalin, per discutere della nuova collocazione del Tribunale. “Non ci sarà una seduta dedicata a una discussione in merito ad una possibile nuova sede della Cittadella della giustizia - spiega il sindaco - ma abbiamo pensato di sollecitare il Dap, attraverso una mozione, a prendere, al più presto, una posizione definitiva nei confronti dell’arrivo a Rovigo del carcere minorile di Treviso”. La struttura in questione, spiega Gaffeo, “attualmente si trova all’interno del penitenziario in una situazione di promiscuità e in locali fatiscenti. Una situazione sicuramente difficile e che necessita sicuramente di una nuova struttura in grado di accogliere i minori in regime di detenzione. Rovigo, però, in questo momento non è in grado di accogliere un carcere dedicato ai minori in quanto, benché le associazioni locali impegnate all’interno della Casa circondariale della Tangenziale est siano davvero tante e ben organizzate, non sono preparate a gestire i tipi di servizi dei quali necessitano i ragazzi, ossia assistenza legata a un supporto psicologico, formativo e professionale. Nel caso il ministero decida che non è possibile ritirare il progetto, già in fase esecutiva, del Minorile in via Verdi, dobbiamo essere coinvolti per tempo nell’organizzazione di tali servizi dedicati ai minori che arriveranno in città”. Gaffeo spiega che la decisione dell’ampliamento del Tribunale in via Verdi non è di natura politica, “ma dipende solo dalla valutazione del Dap. La decisione di collocare da noi il Minorile di Treviso non risale alla nostra amministrazione, in Comune c’era al comando la giunta Bergamin e l’attuale minoranza”. La notizia dell’arrivo del nuovo carcere in via Verdi ha iniziato a circolare in città nel 2017, ossia dal momento dell’interessamento del Dap alla struttura rodigina lasciata libera dalla Casa circondariale trasferitasi nella nuova sede della Tangenziale est. L’ex giunta leghista non si è però opposta al nuovo carcere minorile in arrivo da Treviso e il Dap ha dunque proseguito con il progetto divenuto, successivamente, esecutivo. “Attraverso la mozione della maggioranza - conclude Gaffeo - chiederemo, in pratica, al Dap di cambiare idea e cercare una nuova sede per il Minorile, in quanto Rovigo non ci sembra adatta, sotto diversi aspetti, ad accogliere una struttura di questo tipo. Questa amministrazione sta facendo quello che la precedente non ha fatto, ossia tentiamo ogni strada possibile per fermare l’arrivo del carcere dei minori. Se non sarà possibile, non potrà essere una conseguenza del nostro modus operandi, in quanto è una situazione che abbiamo trovato già in fase avanzata”. Accanto al Minorile che ospiterà circa una quindicina di detenuti, sorgerà anche una sezione dedicata al regime di semi-libertà, ossia detenuti che durante il giorno sono autorizzati ad uscire dal carcere per recarsi al lavoro o per partecipare ai vari programmi di reinserimento, per poi, alla sera, rientrare all’interno della struttura detentiva. Insomma, via Verdi tornerà a essere una zona dedicata, come in passato, alla detenzione. Una volta che se ne dovesse andare anche il Tribunale, per essere collocato magari in Commenda, il Comune si ritroverebbe con un altro vuoto urbano da riempire. Una delle ipotesi al vaglio dell’amministrazione è quella di mettere a disposizione i locali dell’ex Tribunale agli atenei di Padova e Ferrara o in alternativa, spingere per l’arrivo della Guardia di finanza, anch’essa da tempo alla ricerca di una nuova sede in città. Nuoro. “Il carcere di Lanusei è un presidio di legalità” di Giusy Ferreli La Nuova Sardegna, 24 gennaio 2020 Per il ministero la sua gestione è antieconomica. Ma il territorio si ribella: diciamo no alla chiusura. Se dipendesse da Francesco Basentini, alto funzionario a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il carcere di Lanusei chiuderebbe. Troppo antieconomica la sua gestione e soprattutto troppi soldi da investire in una struttura che ha fatto il suo tempo. Ma l’ultima parola spetta al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e la battaglia dal piano tecnico si sposta su quello politico. E su questo fronte le voci contrarie alla sua chiusura, e i tentativi per scongiurare la chiusura, non mancano. “La Casa circondariale di Lanusei è un presidio importante di legalità per il nostro territorio: percorreremo tutte le vie consentite per scongiurarne la chiusura attacca Salvatore Corrias, consigliere regionale ogliastrino che sta seguendo, con il sindaco Davide Burchi, le vicende che ruotano attorno alla paventata soppressione del San Daniele, istituto di pena che già in un decreto ministeriale del 2001 era stato inserito tra gli “istituti penitenziari strutturalmente non idonei alla funzione propria, per i quali risulta necessaria o conveniente la dismissione”. Le voci di dismissione si sono amplificate e Corrias ha presentato un’interrogazione al presidente della Regione, Cristian Solinas per verificare il reale intendimento del governo. A metà gennaio è arrivata la risposta dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero. Una doccia gelata per il territorio perché elenca tutti i motivi per cui l’istituto ogliastrino dovrebbe chiudere. “Benché comprendiamo le ragioni avanzate dal ministero e sulla cui ragionevolezza ovviamente non dubitiamo - incalza Corrias - non possiamo esimerci dal rilevare l’indispensabilità della permanenza del carcere, sia per la sua stretta connessione con il tribunale di Lanusei, sia quale presidio di giustizia e di presenza dello Stato”. Per il sindaco Burchi il fatto che il San Daniele non sia sovraffollato depone a favore del mantenimento. Il clima che si respira al San Daniele - sottolinea Burchi - è umano, in conformità al disposto costituzionale della funzione rieducativa del carcere”. Quest’ultimo intervento si aggiunge a quelli in difesa dei servizi sanitari, l’ultimo sulla mancata apertura dell’Emodinamica dell’ospedale, per ora Vano: neanche la lettera della deputata Mara Lapia, inviata tra gli altri anche il presidente dell’Autorità anticorruzione e al procuratore di Lanusei, è servita sinora a smuovere le acque. Padova. “Erasmus+”, delegazione norvegese in visita al carcere di Marina Caneva* gnewsonline.it, 24 gennaio 2020 Una delegazione norvegese guidata dal Capo del Dipartimento di Istruzione del carcere di Ila, alle porte di Oslo, ha visitato nei giorni scorsi fa la Casa di Reclusione di Padova. La trasferta è stat resa possibile dai finanziamenti comunitari ottenuti dalla scuola secondaria superiore di Rud, in Norvegia, nel quadro del programma Erasmus+. La delegazione, composta da 13 operatori del penitenziario di alta sicurezza, per lo più insegnanti e responsabili della sicurezza e delle attività lavorative, è stata accompagnata da alcuni docenti dei Centri Permanenti di Istruzione per Adulti di Vicenza, Padova e Verona. La struttura detentiva di Ila, ex campo di concentramento nazista, può ospitare fino a 124 detenuti ed è articolata in dodici settori dove prestano servizio circa 230 operatori, che non fanno parte delle Forze di Polizia ma sono addestrati, mediante appositi corsi, alla gestione di criticità che potrebbero compromettere la sicurezza. Dopo i saluti del Direttore Claudio Mazzeo e una breve presentazione delle caratteristiche dell’istituto, ha avuto inizio la visita guidata dal Capo Area Pedagogica Lorena Orazi e dal Comandante Commissario Carlo Torres, che hanno accompagnato i visitatori presso i capannoni dove si svolgono le attività di pasticceria e di call-center. Dopo un coffee-break allestito con prodotti realizzati dalla popolazione detenuta, ci si è spostati nei locali ove opera la Cooperativa Altra Città e infine presso la redazione di Ristretti Orizzonti. Al termine del percorso il gruppo si è riunito nell’aula didattica per uno scambio di riflessioni. Le dimensioni e la complessità della struttura padovana hanno suscitato stupore nei componenti della delegazione norvegese e particolarmente apprezzato è stato anche l’alto numero di committenti esterni privati che forniscono opportunità lavorative ai detenuti, prassi non comune nel Paese scandinavo. In Norvegia, infatti, i detenuti in totale sono circa 3.500 e i servizi essenziali sono forniti da enti locali e comunali poiché gli istituti penitenziari non dispongono di personale dipendente dell’amministrazione penitenziaria ma ‘importano’ i servizi medici ed educativi dalla comunità esterna. Il dipartimento scolastico del carcere di Ila, ad esempio, è un’unità separata dipendente dalla scuola secondaria superiore di Rud. L’offerta educativa propone materie di base professionali e comuni e studi universitari. Come accade in Italia, la scuola è un segmento importante del processo rieducativo del detenuto e costituisce parte della valutazione che il Tribunale deve effettuare prima di concedere il rilascio dalla detenzione preventiva. Considerazioni positive sono state espresse anche in merito all’entità degli stipendi percepiti dai detenuti impiegati in attività lavorative, che, a differenza di quanto previsto in Norvegia dove comunque una percentuale di detenuti pari all’85% è occupata, consentono di supportare le famiglie all’esterno rappresentando altresì un’opportunità in vista del reinserimento nella società. Anche il numero di volontari e il loro impegno in termini di tempo è stato considerato decisamente incisivo. Il confronto ha riguardato anche le tipologie di reati più diffusi e causa di maggiore allarme sociale: in Norvegia a guidare la classifica sono i crimini a sfondo sessuale, commessi anche attraverso il web, mentre non si registrano casi di criminalità organizzata. Attraverso il confronto sulla tematica dei suicidi è emerso che in entrambi i Paesi il sistema penitenziario è strettamente collegato con quello sanitario allo scopo di assistere al meglio soggetti afflitti da problematiche psichiatriche e comportamentali. Proprio nel 2020 la Norvegia ha previsto l’attivazione di una particolare collaborazione tra gli staff sanitari e penitenziari per arginare questo tipo di criticità. *Referente della Comunicazione per il Provveditorato del Triveneto Cuneo. Criticità strutturali e logistiche delle carceri: quale ruolo per i Garanti dei detenuti di Sara Galliano cuneo24.it, 24 gennaio 2020 Conferenza stampa giovedì 30 gennaio in Provincia a Cuneo con i Garanti dei detenuti del Piemonte e della Granda. Giovedì 30 gennaio 2020 alle 17 nel palazzo della Provincia di Cuneo (Sala Giolitti) si parlerà di carcere: qual è la situazione delle strutture carcerarie del cuneese? Come si sviluppa il ruolo dei Garanti dei detenuti? Qual è il rapporto tra carceri e territorio? Per cercare di dare una risposta a queste domande interverranno il presidente della Provincia Federico Borgna e l’onorevole Bruno Mellano, da poco confermato Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte. Sono attesi anche i Garanti comunali della provincia di Cuneo, in carica e decaduti, Alessandro Prandi, Mario Tretola, Rosanna Degiovanni, Paolo Allemano e Bruna Chiotti. Prendendo spunto dal quarto Dossier delle criticità strutturali e logistiche relativo alle carceri piemontesi, si affronteranno gli aspetti logistici dell’esecuzione penale in carcere nel cuneese, con la consapevolezza che anche il miglior ordinamento o il più avanzato regolamento penitenziario debba poggiare le proprie basi in un contesto determinato e reale di risorse strutturali e umane legate al territorio di riferimento. Il territorio cuneese offre molti spunti di riflessione sulla situazione carceraria. Decidere di trasformare la Casa di reclusione di Saluzzo in un carcere tutto dedicato a detenuti di “Alta Sicurezza” (capienza regolamentare 468) comporterà una trasformazione delle varie attività dell’istituto, in primis quelle in capo all’Amministrazione penitenziaria, ma anche quelle assicurate dalle altre amministrazioni che concorrono a fornire servizi alla comunità penitenziaria. Si pensi alla sanità, alla formazione, all’istruzione, alle politiche sociali, alle politiche del lavoro (tutte in carico alla Regione), ma anche i progetti e le iniziative degli enti locali volti al reinserimento sociale o alla valorizzazione del potenziale lavorativo dei reclusi, soprattutto in chiave di restituzione e riparazione del danno. Saranno messi in discussione dalla modifica della popolazione detenuta. Semplicemente le progettualità che con la media sicurezza sono per lo più rivolte verso l’esterno, con l’Alta Sicurezza devono essere necessariamente rivolte all’interno dell’istituto, ma una simile “conversione” delle attività è quasi mai possibile, soprattutto perché si scontra con gli spazi e l’organizzazione del carcere. Infine, l’impatto che può avere un carcere di circa 500 detenuti “As”, afferenti quindi alle grandi organizzazioni criminali del nostro Paese, sul tessuto socio-economico di una cittadina medio-piccola è da presidiare con attenzione e senza pregiudizi. Continuare a rimandare l’inizio dei lavori di ristrutturazione della Casa di reclusione “Giuseppe Montaldo” di Alba (chiusa ormai da quattro anni in attesa del ripristino dell’impianto idraulico), o lasciare ancora nell’indeterminatezza la questione del padiglione “ex-giudiziario” della Casa Circondariale “Cerialdo” di Cuneo (chiuso da circa dieci anni in attesa di un intervento di riqualificazione degli impianti), sono solo alcuni esempi di come non ci siano le basi migliori per un serio ragionamento di sistema che veda ciascun attore responsabile per la propria parte in un gioco di squadra che abbia chiari gli obiettivi condivisi e le finalità ultime dell’esecuzione penale. A tutto ciò si aggiunga la necessità di rifunzionalizzazione degli spazi attualmente non utilizzati per la piena valorizzazioni delle funzioni trattamentali della Casa di reclusione a custodia attenuata di Fossano, unica in Piemonte. Roma. Il Cappellano: “In carcere non vedo mostri, ma persone povere, sole e bisognose” di Antonio Tiso romah24.com, 24 gennaio 2020 “Non possono marcire dentro. Oggi Rebibbia è una scuola di rabbia, violenza e delinquenza, dove i carcerati non sono rispettati nei loro diritti e nella loro dignità”. Sono le parole di padre Lucio Boldrin, parroco per 16 anni alla Santissima Trinità di via Marchetti, oggi Cappellano del carcere di Rebibbia. Al negozio Kent di viale Somalia, ieri mercoledì 22 gennaio, ha raccontato la sua drammatica esperienza. Erano in tanti ad ascoltarlo. Il suo è stato un racconto duro ed emozionante. Padre Lucio, veronese di origine, la domenica alle 12 dice messa a Santa Croce al Flaminio, ma in settimana spende molto del suo tempo al 41bis, il reparto speciale che ospita i mafiosi. “Ho a che fare con personaggi che raramente si pentono. Ci sono ragazzi del 1997, si sono abbeverati di una realtà mafiosa da cui non escono fuori”. Il cuore del suo discorso è andato però agli invisibili, gli autori di reati comuni che scontano pene vivendo in condizioni terribili: “Il reato va punito, ma le persone vanno rispettate”. Quello che il sacerdote cerca di spiegare ai presenti è che la detenzione, così com’è strutturata oggi, non è rieducativa: “I posti, sulla carta sono 2200, ma nella realtà la struttura ospita 2685 persone. Le stanze da 3 diventano da 6 e i bagni alla turca mettono in grande difficoltà i carcerati con più di 75 anni.” Rebibbia è grande quattro volte Porte di Roma, eppure gli spazi a disposizione per le attività sono ridotti. “Ci sono gazebo dove ci si incontra coi familiari che sono rotti. Infiltrazioni alla chiesa, per la quale servono 40.000 euro per ristrutturare il tetto, altrimenti sarà chiusa. In generale non si fanno lavori di manutenzione: ci sono vetri rotti e acqua fredda. E anche gli agenti sono sotto organico”. Padre Boldrin, ha 61 anni ed è prete da 36. Ogni giorno entra a Rebibbia alle 8.30 del mattino ed esce la sera alle 19.30. “I clochard vengono messi dentro per reati banali, uno ha scontato 22 giorni perché ha rubato una pigna in un parco pubblico per mangiarne i pinoli. Un altro è stato messo in galera per 23 giorni per aver rubato una mozzarella”. Il denaro fa la differenza anche nel carcere: “Ogni carcerato paga 118 euro al mese per avere il posto branda: a chi lavora viene detratto dalla busta paga. Idem per chi ha la pensione. Ma il problema è per chi non ha nulla e quando escono dal carcere, magari dopo 10 anni, arriva la lettera di Equitalia che chiede il conto”. E cosa può fare dunque un cappellano in queste situazioni? “Noi cappellani aiutiamo chi non ha niente, come gli stranieri che non hanno familiari, né la possibilità di chiamare a casa perché non possono permettersi una scheda telefonica”. Secondo don Lucio in carcere ci sono persone per reati sotto i 18 mesi che potrebbero stare ai domiciliari. “Molti escono peggiori da Rebibbia, si potrebbe alleviare la loro condizione e quella dei familiari facendogli scontare la pena a casa o in una comunità”. A Rebibbia vivono 60 persone sopra i 75 anni, alcuni dei quali in carrozzina, altri ciechi, diabetici o con l’Alzheimer. “Un ragazzo di 40 anni è stato colpito 10 giorni fa da ischemia, ma ancora non è stato ricoverato”. Quando padre Boldrini esce la sera ci sono mani tese tra le sbarre per mandargli un Sos. “È giusto che paghiamo, mi dicono, ma non siamo bestie, aiutaci a far sentire la nostra voce”. Secondo il sacerdote il 98% dei detenuti rientra in carcere: “Questo è un fallimento totale. Quando escono si trovano senza sbocchi di lavoro. Dopo 5, 10, 20 o 30 anni non hanno più niente fuori. Un carcerato di 75 anni mi ha detto: “Aiutami a morire in carcere, perché fuori non ho più nulla, né una casa, né una famiglia pronta ad accogliermi”. Il carcere, così, non è più rieducativo. Ci sono carcerati che stanno 21 ore su 24 in cella. Ci sono analfabeti e un 3 - 4% che per me sono innocenti che nessuno ascolta. Molte persone sono state incastrate come prestanome o vivevano ai margini. Poi ci sono casi psichiatrici bombardati di medicine, che alla messa mi appaiono come zombie”. Secondo padre Lucio, non c’è pietà verso i detenuti neppure quando escono dal carcere: “Sono accompagnati fuori e lasciati su via Tiburtina. Un malato di Alzheimer di 82 anni, in carrozzina, è stato lasciato alla porta e lui chiedeva perché non portavano la cena. L’ho aiutato d’urgenza, trovando una casa famiglia a Velletri che lo accogliesse”. Difficile anche farsi ascoltare a Rebibbia, tanto che alcuni detenuti arrivano a scelte estreme: “Qualcuno per farsi ascoltare si taglia il corpo o fa lo sciopero della fame. Poi dopo due giorni di infermeria, però tornano nel loro limbo”. Cesena. “Sbarre alle spalle”, la realtà carceraria raccontata dai detenuti cesenatoday.it, 24 gennaio 2020 Secondo i dati del Rapporto di Antigone al 30 aprile 2019 erano 60.439 i detenuti nelle carceri italiane, e il 4,4% sono donne (2.659). Le presenze dietro le sbarre sono cresciute di 800 unità rispetto al 31 dicembre 2018 e di quasi 3.000 rispetto all’inizio dello scorso anno. Ma soprattutto oggi si registrano oltre 8 mila detenuti in più rispetto a tre anni e mezzo fa e il tasso di affollamento sfiora il 120%. Vivere in carcere non è facile, ma è altrettanto complesso il respiro della libertà a fine pena. Si parlerà anche di questo al convegno “Sbarre alle spalle, la realtà carceraria dal dentro al fuori” che si terrà sabato 25 gennaio dalle 9,30 alle 12 al Palazzo del Ridotto. Aperto al pubblico, l’evento gode del patrocinio del Ministero della Giustizia, del Comune di Cesena e di Techne. Al centro della mattinata il racconto dei detenuti che narreranno il quotidiano di una vita che scorre lenta dietro le sbarre. Interverranno inoltre alcune figure di spicco della Casa circondariale di Forlì: la direttrice Palma Mercurio, Michela Zattoni, Comandante della Polizia Penitenziaria, Erika Casetti, Psicologa, Luigi Dall’Ara, Volontario dell’Associazione San Vincenzo De Paoli. Presente anche l’Assessore allo Sviluppo Economico, Legalità e Sicurezza Luca Ferrini. Ampio spazio sarà poi riservato al rapporto tra il detenuto e il lavoro. Il tempo della detenzione deve essere riempito di contenuti, dall’istruzione alla formazione al lavoro. Le statistiche infatti attestano che il lavoro in carcere riduce fortemente la recidiva. In questa seconda parte della mattinata porteranno la propria testimonianza Lia Benvenuti, Direttore generale Techne, Stefano Fabbrica, Presidente Coop Sociale Lavoro Con, Pietro Bravaccini, Production Planner Vossloh-Schwabe Italia Spa e una persona detenuta. Toccherà invece a Barbara Gualandi, Direttore Ufficio locale di Esecuzione esterna, e all’Assessora ai Servizi per le persone e le famiglie Carmelina Labruzzo illustrare l’ampia realtà dei servizi sociali che supportano il detenuto per il reintegro nella comunità e nella legalità. Migranti. Perché le leggi “Sicurezza” sono ancora in vigore? di Stefano Galieni Left, 24 gennaio 2020 Non passa giorno senza che i tribunali rigettino quanto scritto nelle leggi simbolo dell’ex ministro dell’Interno. Liberarsi del peso materiale e simbolico dei decreti Sicurezza ormai convertiti in legge (il primo 132/2018 e il bis 53/2019) sembra a tratti possibile. Poi basta un tentennamento, la perenne campagna elettorale, le difficoltà ad uscire da decenni di narrazioni tossiche e ci si ferma. Da queste pagine ne abbiamo scritto spesso, affrontando non solo gli aspetti più crudeli dei provvedimenti attuati nei confronti dei richiedenti asilo ma anche quelli che direttamente vanno ad incidere nella vita quotidiana di ognuno. Un esempio. Il 17 gennaio il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto che disciplina l’utilizzo del taser, la pistola elettrica, da parte delle forze di polizia. Dopo un periodo di sperimentazione in 12 città ora occorrerà solo l’avallo del Consiglio di Stato ed un ulteriore passaggio in Cdm per rendere ordinario l’utilizzo di tale strumento, che negli Usa miete vittime ogni giorno e che pare incomprensibile di fronte ad un continuo calo dei reati. Nel dibattito pubblico, a partire da quanto affermato dalla ministra Luciana Lamorgese che ha sostituito l’ideatore dei decreti Sicurezza, emerge l’ipotesi di una loro modifica, almeno per quanto riguarda gli aspetti più incostituzionali, soprattutto quelli riguardanti l’immigrazione. Non passa quasi giorno che le sentenze dei tribunali e le difficoltà ad applicare alcune norme portino a dover smentire quanto già pubblicato in Gazzetta ufficiale. Il 19 dicembre è stata dissequestrata la nave della Ong Sea Watch che ha vinto il processo d’appello al tribunale di Palermo, lo stesso giorno veniva emanata dal Viminale una circolare che, se applicata, avrebbe messo in strada, entro il primo gennaio, migliaia di richiedenti asilo presenti negli ex Sprar (Sistema di protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati, ora sostituito dal Siproimi, ndr) che avevano perso il diritto all’accoglienza in virtù delle norme sull’immigrazione volute da Salvini. Al ministero quando si sono resi conto del fatto che si stava utilizzando in maniera retroattiva una legge, si decideva di sospenderne l’esecuzione, e si fa strada ora l’ipotesi di estendere ad ulteriori categorie vulnerabili una protezione speciale e temporanea. Il 17 gennaio la Terza sezione della Corte di Cassazione, dando un altro colpo alle azioni intraprese con i decreti, ha respinto il ricorso presentato dalla Procura di Agrigento contro l’ordinanza che il 2 luglio scorso aveva rimesso in libertà la comandante della Sea Watch Carola Rackete. Il Gip che non aveva convalidato allora l’arresto aveva motivato la decisione col fatto che il reato di cui era accusata, resistenza a pubblico ufficiale, era avvenuto in nome di un interesse sovrastante, salvare vite umane. Le perplessità evidenziate all’atto dell’approvazione del decreto bis dal Presidente Sergio Mattarella paiono dunque addirittura superate dall’inapplicabilità concreta di gran parte delle misure previste. Nonostante gli attacchi delle destre sovraniste ci sarebbero oggi le condizioni per ulteriori interventi, ad esempio risposte efficaci (non i rimpatri), alle tante persone che lavorano e sono costrette nell’irregolarità da una legge fallimentare come la Bossi-Fini, quindi azioni per incidere anche più a fondo, oltre il perimetro dei decreti sicurezza. Nel frattempo, pur essendo diminuita la pressione nei confronti dei migranti, almeno a livello mediatico, complice anche la temporanea diminuzione degli arrivi, i decreti continuano ad essere utilizzati pesantemente. Sia negli articoli che riguardano il contrasto all’immigrazione che in quelli inerenti generali questioni di dissenso sociale. Tanti gli elementi che lo comprovano, quello più evidente - nonostante i tentativi di mettere la sordina alle notizie - riguarda il peggioramento delle condizioni di vita nei Centri permanenti per i rimpatrio. Il “Salvini 1” ha riportato a 6 mesi i tempi massimi di trattenimento e questo ha fatto salire le tensioni. Il risultato: rivolte, atti di autolesionismo, tentativi di fuga a Torino, Bari, Palazzo S. Gervasio, Caltanissetta, Gradisca D’Isonzo. E mentre lunedì ha aperto il nuovo Cpr di Macomer, in provincia di Nuoro, il 12 e il 18 gennaio si sono verificati due decessi rispettivamente a Caltanissetta (un cittadino tunisino che sembra non abbia ricevuto assistenza sanitaria adeguata) e a Gradisca, riaperto il 16 dicembre, dove è morto un ragazzo di 20 anni della Georgia. In entrambi i casi sono stati aperti fascicoli per appurare le cause dei decessi. Per quanto accaduto nel Cpr friuliano l’ipotesi è pesante: omicidio volontario. Il Garante per i diritti dei detenuti, dopo una ispezione, ha dichiarato che intende costituirsi come parte civile. Con una circolare si potrebbe riportare almeno a tempi più congrui i trattenimenti ma ad oggi tutto tace. 211 gennaio è stata comminata l’ultima multa del “Salvini bis”: a Claus Peter Reisch, comandante della nave dell’Ong Lifeline è stato chiesto di pagare 300mila curo, per ingresso illegale nelle acque territoriali italiane. Per smontare il peso dei decreti bisognerebbe agire su più fronti ma sono rimasti in pochi, in Parlamento a chiederne tout court l’abrogazione. Vanno eliminate le misure contenute nei testi con cui si estende la possibilità di infliggere Daspo, punire con pene che oltrepassano i confini del fascista Codice Rocco chi esprime dissenso e si fa protagonista di lotte sociali. Le multe inflitte ai lavoratori di Prato e Genova, i provvedimenti contro i pastori sardi, sembrano trovare scarso interesse fra forze politiche, sindacati e associazioni, tranne apprezzabili eccezioni. Come se ci fosse un tacito accordo per rendere pressoché impraticabili mobilitazioni non compatibili col quieto vivere. A creare paura sono i rumori francesi e delle periferie del Medio Oriente che rischiano di raggiungere e contaminare un Paese ancora privo di prospettive e in balia di una crisi non superata. E paradossalmente l’attenzione resta concentrata sull’ex inquilino del Viminale. Lunedì 20 gennaio si è riunita la Giunta per le autorizzazioni a procedere, per deliberare in merito all’accusa di sequestro di persone, relativa ai 6 giorni in cui alla nave della Marina militare italiana Gregoretti venne impedito l’attracco al porto di Siracusa pur avendo a bordo, in condizioni pessime, 119 richiedenti asilo salvati. Accadeva a fine luglio, pochi giorni dopo la crisi di governo e l’evoluzione inaspettata del quadro politico. In giunta i senatori della maggioranza e del gruppo misto non hanno partecipato al voto, dei 22 aventi diritto erano presenti in 10. Il presidente della Giunta ha chiesto che non si procedesse contro l’ex ministro ma, in chiave puramente legata alla propaganda elettorale, i rappresentanti della Lega si sono opposti e, in parità, l’autorizzazione a procedere è stata concessa. Se ne discuterà in aula, dopo le elezioni in Emilia e Calabria, ma ancora con i decreti perfettamente in vigore? Migranti. “Decreto sicurezza, il Conte bis fa peggio” di Adriana Pollice Il Manifesto, 24 gennaio 2020 “Il governo Conte bis non solo non ha abrogato il primo decreto Sicurezza, voluto dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, ma lo sta applicando nella sua forma restrittiva e addirittura in modo retroattivo” è l’accusa che arriva dagli attivisti dell’Ex Canapificio che gestiscono il progetto Siproimi (ex Sprar) di Caserta. “Un anno fa - spiegano - lo Stato diceva a 56 persone accolte nel nostro Sprar: “Costruisci qui il tuo futuro, studia, impara un lavoro, contribuisci alla crescita del territorio. Oggi lo Stato caccia queste stesse persone cui aveva chiesto di entrare nel nostro tessuto sociale. Lo Stato dice ai migranti che stanno aspettando risposta alla loro richiesta di protezione internazionale e a chi è in fase di ricorso: mentre si decide che fare del tuo permesso di soggiorno ti sposto come un pacco in un Centro di accoglienza straordinario senza più scuola, formazione professionale, inclusione sociale”. Il ministero dell’Interno, infatti, ha inviato una circolare lo scorso 19 dicembre che prevede l’espulsione di questa fetta di migranti verso i Cas predisposti dalle prefetture e, intanto, impone lo stop ai servizi: “Dal primo gennaio - si legge nel testo - nei confronti dei richiedenti asilo temporaneamente accolti nel Siproimi, nella more della conclusione dell’iter dei trasferimenti, non dovranno essere erogati e, quindi, rendiconti i servizi per l’integrazione”. Salvini ha abbandonato il governo da agosto eppure il decreto Sicurezza continua a produrre effetti e, come racconta il report I sommersi dell’accoglienza curato da Marco Omizzolo per Amnesty International Italia, sta generando ghettizzazione e povertà, con il conseguente aumento delle vittime dello sfruttamento lavorativo e delle attività criminali. I 56 migranti presenti a Caserta che il ministero trasferirà nei Cas erano arrivati nello Sprar prima del 5 ottobre 2018, cioè prima che la norma salviniana entrasse in vigore. Spiegano gli attivisti: “Questo significa che il Viminale continua ad applicare il decreto in modo retroattivo, malgrado la sentenza della Cassazione, a sezioni unite, del 24 settembre scorso che condanna l’applicazione retroattiva del decreto”. La maggior parte dei migranti che usciranno dal progetto di integrazione gestito dall’Ex Canapifico vengono dal Ghana e dalla Costa d’Avorio, età media 25 anni. Ci sono persone vulnerabili e irrimpatriabili come Hamed, 39 anni, che è cieco: “La sua richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari è stata rigettata - raccontano. Per questo dovrà lasciare lo Sprar e fare a meno dell’assistenza degli operatori. A noi ha detto “Mi sento impotente e sperduto. Finirò in mezzo a una strada e non vedendo nulla. Ho paura”. Sanogo Abdulahi viene dalla Costa d’Avorio: a causa della guerra civile è finito per tre anni in carcere, ha perso la famiglia e ha anche subito una menomazione a un orecchio. “Anche a lui è stata bocciata la richiesta di asilo anche se a noi sembra un caso chiaro di irrimpatriabilità - spiega Virginia Crovella. Eppure Sanogo è integrato nella comunità: è custode di una villetta, accompagna gli alunni a scuola attraverso il nostro progetto Pedibus. Quando la prefettura ci invierà le lettere di uscita, ai primi di febbraio, saremo costretti a lasciarli andare al loro destino”. Migranti. I Cpr vanno superati con l’integrazione, ce lo insegna Papa Francesco di Mons. Vincenzo Paglia Il Riformista, 24 gennaio 2020 L’inferno è lasciare le persone al freddo nel Mediterraneo o abbandonate a loro stesse nei centri di accoglienza, alla mercé della disperazione, della noia, della mancanza di prospettive, delle procedure burocratiche infinite, degli altri immigrati o, peggio, di abusi da parte di chi dovrebbe tutelare e proteggere. Le condizioni inumane che a volte si verificano nei Cpr (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) non rispettano spesso la dignità della persona. Un paese europeo dalla lunga tradizione civile, giuridica e cristiana può e deve garantire uno standard di trattamento degno del valore di ogni singolo individuo. La dimensione umana di accoglienza dei più deboli è un principio fondante dell’umanità. Se manca, è una tragedia per tutti. La presenza dei migranti crea problemi da affrontare per cui cercare soluzioni condivise tra tutte le forze politiche italiane ed europee. Siamo tutti europei e l’intero continente non potrà esimersi dal sentire la presenza dei migranti anche come una opportunità, non solo come un problema. È ovvio che non c’è alcuna emergenza, non c’è una invasione, se si ha l’onestà di guardare ai dati effettivi. C’è un allarme sociale creato ad arte, amplificato per fini specifici, che sta trasformando l’Italia e gli italiani in un paese inospitale, un paese che dimentica le radici umane e la grande tradizione umanistica. E dimentica di essere stato a sua volta un popolo di migranti. Serve chiarezza: come essere umano, come vescovo, come credente, sottolineo che l’emigrazione è un fenomeno universale. Gesù e la sua famiglia sono stati emigranti, gli ebrei erano una popolazione nomade, l’Europa del Medioevo è stata fondata dalle popolazione provenienti dalle steppe asiatiche. Le migrazioni, gli spostamenti dei popoli, sono alla base della civiltà umana, della presenza dell’uomo e della donna sul pianeta. La politica ha una responsabilità nel costruire e garantire modalità di convivenza uguali per tutti, opportunità per tutti. Un salto in avanti sarebbe avere la legge sullo ius culturae. Nelle vicende come il centro di Gradisca, prima di dire che non devono accadere, dobbiamo essere sicuri che la legalità, il rispetto delle persone, la capacità di accogliere, vengano scolpiti come princìpi indelebili negli operatori e in tutti i cittadini. La sfida portata dalle migrazioni ci fa capire che il mondo è complesso e non si risponde con i muri, con le barriere, con i Cpr ma con rapide procedure di identificazione, inserimento, prospettiva lavorativa e integrazione, rispondendo così alle facili scorciatoie del razzismo, del massimalismo, dell’indifferenza. Un episodio doloroso come questo di Gradisca deve diventare occasione per riflettere sull’Italia che vogliamo costruire. Siamo un paese nominalmente ancora cattolico, dove tuttavia misericordia e pietà vengono meno. Quando Papa Francesco esorta ad accogliere gli altri, dice che prima di tutto dobbiamo aprire la nostra mentalità, dobbiamo renderci disponibili verso gli altri: non solo i migranti ma tutte le persone vicine a ognuno di noi che con uno sguardo cercano aiuto. La politica dal canto suo ha una forte responsabilità: una vera rivoluzione culturale sarebbe poter realizzare una vera unità su alcuni princìpi - né di destra né di sinistra - ma semplicemente umani: accogliere, prendersi cura, guardarsi negli occhi, ascoltarsi. Nessuno è venuto a “rubare” la mia casa, il mio lavoro, il mio denaro. E i Centri vanno superati: con l’integrazione, con procedure rapide, efficienti, sicure, si sconfigge la povertà umana ed economica, si danno risposte, si chiude la bocca ai tentativi di sfruttare e strumentalizzare complesse e difficili situazioni. Siamo un grande paese civile. Dobbiamo impegnarci per continuare ad esserlo. Papa Francesco lo ricorda e a noi tocca interrogarci ed impegnarci. Migranti. A Gradisca il caso Regeni all’italiana. Chi ha ucciso il ragazzo georgiano? di Giulio Cavalli Il Riformista, 24 gennaio 2020 Quattro anni senza Giulio Regeni. Quattro anni di mancate risposte da parte del capo del governo egiziano Al Sisi e quattro anni di insabbiamenti e depistaggi. I genitori di Regeni qualche giorno fa ospiti nella trasmissione di Fazio hanno parlato di fuffa per descrivere l’atteggiamento delle autorità egiziane e sono (fortunatamente) in molti a chiedere giustizia: ad oggi sappiamo che le forze di polizia egiziane hanno torturato Giulio fino a ucciderlo tentando (e non riuscendo) poi goffamente di fare passare tutto per un incidente. Italia, gennaio 2020: al Centro rimpatri di Gradisca Vakhtang Enukidze, 39enne georgiano, il 18 gennaio muore dopo essere stato portato d’urgenza in ospedale. Vakhtang Enukidze era rientrato nella struttura il 17 gennaio, dopo essere stato per un giorno e mezzo nel carcere di Gorizia: non riusciva già a parlare, camminava a fatica e la sera precedente aveva perso conoscenza, i suoi compagni di stanza hanno dovuto adagiarlo sul letto. Le zone d’ombra riguardano ciò che è successo a partire dal 14 gennaio: alcuni parlano di un coinvolgimento dell’uomo nella rissa ma altri testimoni raccontano di uno scontro con un altro migrante e di un successivo pestaggio di una decina di agenti di polizia intervenuti per sedare la lite. Riccardo Magi, deputato di +Europa, ha visitato la struttura il 18 e il 19 gennaio e racconta: “Appena sceso dalla macchina, ho sentito urla provenire dall’interno. Ho avvertito un’impressione di tensione palpabile, un poliziotto ha detto ad un collega che c’era tanto sangue in giro. Mi è stato spiegato che quella sera c’era stata una “bonifica”, erano stati sequestrati i telefonini a tutti gli ospiti della zona verde, il settore dove fino al giorno prima si trovava il georgiano”. La “rissa” invocata dagli operatori del Cpr non ci sarebbe mai stata. Racconta Magi: “Le persone che ho ascoltato, ospiti, operatori e un poliziotto negano che ci sia stata una rissa. Parlano di una colluttazione tra Vakhtang e un cittadino nordafricano. Ma da questo scontro non sarebbero potute derivare lesioni gravi, né tantomeno mortali”. Quindi le ferite di Vakhtang Enukidze potrebbero essere dovute al fatto che il giovane - racconta sempre Magi - “sarebbe stato picchiato ripetutamente da circa 10 agenti nel Cpr di Gradisca d’Isonzo (Gorizia), anche con un colpo d’avambraccio dietro la nuca ed una ginocchiata nella schiena, trascinato per i piedi come un cane. Morto dopo essere stato riportato nel Centro, al termine di una notte d’agonia”. Finita qui? No. I testimoni che hanno assistito alla rissa che non era rissa e al pestaggio dei poliziotti che forse è stato davvero un pestaggio sono stati rimpatriati in fretta e furia. Il procuratore di Gorizia Massimo Lai assicura: “Abbiamo sentito quattro testimoni diretti prima del rimpatrio, solo un quinto era già stato espulso. Indaghiamo su tutte le fasi della vicenda, compresa la permanenza in carcere”. Eppure sfugge il motivo per cui i testimoni proprio nel pieno delle indagini siano stati rispediti di fretta a casa quando potrebbero essere utili alla raccolta di informazioni. Il deputato Magi parla del rischio che si ripeta un altro caso Cucchi e i sindacati si preparano subito alle barricate parlando di “solite incaute accuse all’operato degli agenti di Polizia” (del resto furono considerate incaute anche le accuse della sorella di Stefano Cucchi, ricordate?) E puntano il dito sulla struttura che “a poco più di un mese dalla sua apertura ha già fatto registrare numerosi incidenti”. L’assessore regionale leghista Pierpaolo Roberti invece sembra non avere dubbi sull’innocenza dei poliziotti e anzi annuncia una visita nel Cpr di Gradisca “non, come fanno altri, per valutare la situazione degli ospiti - ha affermato - ma per accertarmi che i nostri ragazzi in divisa siano in condizione di svolgere al meglio il proprio lavoro” aggiungendo che “chi oggi fa vergognose illazioni non merita menzione piuttosto è utile ricordare lo sforzo di chi contiene una situazione difficile, dove decine e decine di persone, in gran parte già segnate da trascorsi con la giustizia, vivono con l’unico obiettivo di evadere per vivere in clandestinità e condurre una vita di espedienti”. Insomma siamo alle solite: se è successo qualcosa significa che se l’è cercata. Migrante morto, caos sui referti medici. “Prese farmaci. Non si sa quali e perché” di Fabio Tonacci La Repubblica, 24 gennaio 2020 Nel giallo della morte del 38enne georgiano Vakhtang Enukidze neanche le cartelle cliniche sono chiare. Gli investigatori della procura di Gorizia, che indaga per omicidio volontario, hanno trovato documentazione sanitaria “caotica e frammentaria” negli uffici del Centro di permanenza per il rimpatrio di Gradisca, dove l’uomo sabato scorso è stato trovato in stato di incoscienza nella sua cella. E mettendo a confronto quei fogli con quanto certificato prima dai dottori del carcere di Gorizia (dove Enukidze ha passato le notti del 14 e 15 gennaio, fermato per una lite con un altro ospite del Cpr) e poi dall’ospedale dove è morto, emergono incongruenze sospette. Non si capisce bene quali antidolorifici e ansiolitici avessero prescritto ad Enukidze i medici e i paramedici del Centro, né perché glieli avessero dati visto che - dicono i famigliari - stava bene. Sarà l’autopsia di lunedì prossimo a stabilire la causa della morte di Enukidze. Tre le ipotesi: cause naturali, abuso di farmaci, pestaggio. Alcune testimonianze, raccolte dal deputato Riccardo Magi, parlano di un intervento violento (“colpi alla nuca e alla schiena”) da parte degli agenti chiamati a sedare il litigio del 14 gennaio: circostanze da verificare ma che hanno spinto Magi al paragone col caso Cucchi. Secca la replica del capo della Polizia, Franco Gabrielli: “Fare parallelismi a dir poco arditi tra una vicenda che non è stata ancora definita con un’altra per la quale sono stati impegnati anni e processi è offensivo”. Anche il Garante dei detenuti Mauro Palma, pur ribadendo l’esigenza di far luce sull’accaduto, invita alla cautela. Mentre un portavoce della Commissione europea si dice fiducioso che le autorità italiane “indagheranno e garantiranno il seguito appropriato”. Grecia. Msf denuncia: “Il governo greco nega le cure ai profughi” di Leo Lancari Il Manifesto, 24 gennaio 2020 L’ong: “Almeno 140 bambini gravemente malati rischiano di morire sulle isole”. E chiede il trasferimento delle persone affette da malattie croniche. “Vediamo molti bambini colpiti da malattie, come gravi problemi di cuore, diabete o asma, costretti a vivere in rifugi di fortuna, in condizioni orribili e antigieniche, senza accesso alle cure mediche specialistiche e ai farmaci di cui hanno bisogno”. A lanciare l’ennesimo allarme sulle condizioni sempre più disperate nelle quali vivono i migranti chiusi nei centri che si trovano sulle isole greche è Medici senza frontiere che denuncia come in almeno uno dei campi in questione, quello di Moria sull’isola di Lesbo, il governo greco stia seriamente mettendo a rischio la vita di oltre cento minori. Le autorità di Atene, denuncia infatti l’ong, “stanno deliberatamente negando ad almeno 140 bambini con malattie croniche, complesse a potenzialmente mortali la possibilità di ricevere cure mediche adeguate”, spiega Vittoria Zingariello, responsabile del team degli infermieri di Msf a Lesbo. L’ong sta trattando con il governo per ottenere il trasferimento sul continente almeno dei bambini, tra i quali alcuni neonati, senza però aver ottenuto risultati, almeno finora. “La riluttanza del governo - avverte Msf - non è solo vergognosa, ma rischia anche di determinare danni irreparabili ai loro stati di salute, se non di condurli addirittura alla morte”. I campi di rifugiati che si trovano a Lesbo, Samos e Chios sono da anni al centro dell’attenzione delle organizzazioni umanitarie per le condizioni di estremo sovraffollamento nelle quali i migranti sono costretti a vivere. Soltanto a Moria si contano 19 mila persone, quando potrebbero entrarcene solo tremila, e per di più praticamente senza servizi igienici e con forti problemi di sicurezza. In un video diffuso dall’ong una donna originaria della Somalia chiede aiuto per i suo bambino. Abdul, 7 anni, è paralizzato ed epilettico. “Mi hanno detto che non ci sono specialisti e che va trasportato in un ospedale più grande”, spiega nel filmato. “A oggi non ho trovato una sola persona che mi abbia aiutato con il mio bambino. Ho lasciato altri tre figli a casa per poter aiutare mio figlio”. Storie drammatiche, come drammatico è il racconto di un uomo proveniente dall’Afghanistan: “Mia figlia di 6 anni, Zahra, soffre di autismo e viviamo in uno spazio minuscolo, praticamente senza elettricità - spiega. Spesso nel cuore della notte ha convulsioni e non c’è nessuno che ci aiuti”. Atene sta di fatto abbandonando i rifugiati al loro destino, cercando solo di rimandarli indietro in Turchia. “Da giugno dell’anno scorso il governo ha revocato l’accesso all’assistenza sanitaria pubblica ai richiedenti asilo e alle persone senza documenti che arrivano nel Paese, lasciando 55 mila uomini, donne e bambini senza possibilità di cura”, denuncia Msf. A peggiorare le cose ci sono poi le proteste della popolazione delle isole contraria alla presenza dei migranti. Mercoledì scorso i governatori regionali e sindaci hanno organizzato una giornata di sciopero nella quale cittadini e imprenditori hanno chiesto al governo di intervenire allontanando i rifugiati, come se il problema del sovraffollamento dipendesse da loro e non ne fossero invece vittime. La risposta alla protesta del ministro dell’Immigrazione Notis Mitarachi è stata di voler decongestionare i centri favorendo i ritorni verso la Turchia. Libia. I “mercenari” di Erdogan combattono per 2mila dollari e un passaporto di Francesco Battistini Corriere della Sera, 24 gennaio 2020 Hanno la mimetica, non le mostrine. Tutti a Tripoli li cercano. In realtà tanti sono siriani. “Sei turco?”. Aeroporto di Misurata, coda “non libyans”. Da oggi s’atterra solo qui. Neanche cento ore dopo la conferenza pacificatoria di Berlino, i Grad di Khalifa Haftar hanno abbattuto un drone turco sulle piste di Mitiga, rotto la tregua e pure gli indugi: guai a chi solca il cielo sopra Tripoli, avverte il feldmaresciallo, abbatteremo qualsiasi cosa ci voli, fosse anche un Boeing come in Iran. Tutti a Misurata, dunque: tre ore e mezza d’auto dalla capitale. Gli ultimi aerei della sera scaricano in Tripolitania malati che rincasano da Tunisi e pellegrini di ritorno dalla Mecca, sfollati africani e spioni europei, quiete famigliole e dormienti tagliagole. I soldati misuratini hanno gli occhi aperti. E qualche riguardo, se intravvedono i loro nuovi amici: ai controlli s’avanza un ragazzone tarchiato e tatuato di femmine e disegni d’esplosioni, la pelle scheggiata, carico di borse e d’un giubbotto antiproiettile. “Sei turco?”, la rispettosa domanda. Come chiedere: sei per caso uno dei valorosi combattenti venuti ad aiutarci contro il traditore criminale Haftar? No: il passaporto è rosso Ue, niente amaranto Türkiye Cumhuriyeti, e nelle sacche ci sono solo obbiettivi da fotoreporter, mica armi da mercenario. I doganieri sono un po’ delusi. Un italiano… In coda con gli altri, allora. Anzi, più in coda degli altri. I filoturchi ci sono, ma non li vedi. Hanno le mimetiche, non le mostrine. Parlano arabo, ma l’accento è siriano. Li manda Erdogan, si raccomandano a Dio. “Sono 35 nostri addestratori militari e consiglieri militari - minimizza il ministro della Difesa turco, Hulusi Akar - che danno il sostegno alla formazione dei fratelli libici”. “Sono tremila paramilitari siriani mandati via da Raqqa - spiegano quelli di Haftar - e ne arriveranno presto altri tremila per aiutare il governo terrorista di Tripoli: gliene abbiamo già ammazzati una trentina”. Atterrano con voli speciali della Turkish, viaggiano da Misurata alla capitale su pullman scortati dalla polizia tripolina. In tasca, un mensile di 2 mila dollari. In mano, le armi per uccidere i cirenaici e i loro “addestratori” russi. In testa, la promessa d’un passaporto turco rilasciato a fine 2020. Ci sono, ma dove sono? Molti, nella base militare Salahaddin e a Tajura, dov’è la cinquecentesca moschea ottomana Murad Agha che il neo-ottomano Erdogan venne a visitare quattro anni fa. La “khad”, la linea dell’assedio iniziato il 4 aprile da Haftar, è su otto grandi strade venti chilometri a sud di Tripoli. Sta nella zona di Mashrua (il Progetto), la periferia modello della capitale che l’era gheddafiana numerava via per via e voleva riempire di fabbriche, oggi stracolma di miliziani: nelle strade 4, 5 e 6 hanno piantato le camerate e le cucine; nella 7, si combatte spesso; nella 8 c’è il fronte caldissimo di Khalla Tat, i cadaveri fra i cementifici abbandonati. “Se cammini oltre il carcere di Abu Selim - dicono qui -, puoi morire e nessuno lo saprà”. Fino a un mese fa, a Mashrua s’andava a proprio rischio. Da quando sono comparsi loro, i siriani filoturchi, una rete di check-point fedeli al premier Sarraj li protegge bloccando chi s’avvicina: “Militari professionisti - li descrive un miliziano che ha a che fare con loro -, gente seria, non esaltati”. A Tripoli, turchi & turcomanni sono affettuose conoscenze. Quelli che ci vivono da sempre, fanno mobili e infissi dalle parti di Dahra. Quelli appena arrivati, hanno subito i loro ristoranti di riferimento: “Quando levano la divisa - sussurra il cameriere del Sultan Ahmet -, vengono a mangiare qui”. I turchi hanno viaggiato a lungo senza visto, qui, ma Gheddafi non li amava molto: ai tempi del re, l’Economist ne lodava “la fantastica fedeltà a Tripoli”, così ci pensò il Colonnello a consigliare l’Ue di tenere fuori Erdogan (“attenti - diceva -, sarà il cavallo che distruggerà tutta Troia…”). “Voi italiani ci avete scaricato e Sarraj ha fatto bene a chiedere l’aiuto dei turchi - commenta ora Othman Salem Ben Amara, 60 anni, padre d’uno dei cadetti uccisi nella strage del 5 gennaio -. Ma ci bastavano le loro armi: gli uomini, ce li possiamo mettere noi”. Fra le case dietro l’aeroporto di Mitiga, odore di galline morte e auto accartocciate, camere da letto sventrate e alberi spiumati, è dove piombano i razzi di Haftar. La gente se n’è andata via, ha intuito il peggio. Su un muro della Noflim Street, uno spray invoca la “Syria horra”, Siria libera in arabo. Tre settimane fa, non c’era. India. 102 condanne a morte nel 2019 nessunotocchicaino.it, 24 gennaio 2020 I tribunali indiani hanno emesso 102 condanne a morte nel 2019, oltre il 60% in meno rispetto alle 162 condanne a morte del 2018. I tribunali hanno in particolare sanzionato gli omicidi con violenza sessuale - la percentuale di condanne a morte emesse nel 2019 per omicidi che coinvolgono reati sessuali è stata del 52,94% (54 su 102 condanne capitali), la più alta degli ultimi quattro anni. Il 2019 ha visto anche il maggior numero di conferme da parte delle Alte Corti negli ultimi quattro anni; 17 delle 26 conferme (65,38%) riguardano reati di omicidio con violenza sessuale. La Corte Suprema, principalmente durante il mandato del precedente capo della magistratura indiana Ranjan Gogoi, ha ammesso e trattato 27 casi capitali, il numero più alto in un anno dal 2001. Questi sono i dati principali contenuti nella quarta edizione di The Death Penalty in India: Annual Statistics, presentato dal Progetto 39A presso la National Law University (Nlu), Delhi. Il Progetto 39A è un’iniziativa di ricerca focalizzata sul sistema giudiziario penale e in particolare sulle questioni di assistenza legale, tortura, pena di morte e salute mentale nelle carceri. Il Rapporto contiene notizie di condanne a morte pronunciate da tribunali pubblicate online da testate giornalistiche in inglese e hindi e ha verificato questi numeri con quanto pubblicato su siti Web di alte corti e tribunali distrettuali. Tanzania. Resta in carcere l’avvocato per i diritti umani Tito Magoti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 gennaio 2020 Tito Magoti è uno dei più noti avvocati per i diritti umani della Tanzania. Fa parte del Centro per i diritti umani e giuridici, una spina nel fianco di un governo negli ultimi quattro anni si è distinto per la costante persecuzione delle voci critiche. Magoti è stato arrestato il 20 dicembre 2019 nella capitale Dar es-Salaam da agenti in borghese e accusato, ai sensi della Legge sulla criminalità economica e organizzata, di una serie di reati per i quali - guarda caso - non è prevista la libertà su cauzione. Insieme a un programmatore informatico, Theodory Giyan, Magoti dovrà rispondere in un processo di “direzione di un’impresa criminale, possesso di un programma informatico creato per commettere reati e riciclaggio di denaro sporco”. Poco prima dell’arresto, Magoti aveva espresso appoggio tramite Twitter ad altre persone che avevano espresso critiche nei confronti del governo. La sua vicenda somiglia a quella del giornalista Erick Kabendera. Arrestato il 29 luglio 2019, è comparso di fronte a un giudice ben 12 volte solo per vedersi prorogata la detenzione per un asserito “proseguimento delle indagini”.