Carceri, il CPT conferma che in Italia la violenza sui detenuti esiste di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2020 È stato reso pubblico martedì dal Consiglio d’Europa il rapporto relativo all’ultima visita in Italia effettuata dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), l’organismo deputato a monitorare le carceri del 47 Stati membri. Era venuto nel nostro Paese nel marzo dello scorso anno con una visita ad hoc, strumento che si aggiunge all’azione periodica di monitoraggio insita nel proprio mandato. La visita - che ha riguardato gli istituti di Biella, Milano Opera, Saluzzo e Viterbo - intendeva accertarsi delle condizioni dei detenuti sottoposti al cosiddetto regime di 41bis e a varie misure segregative, nonché degli internati sottoposti a misure di sicurezza. È da sempre il destino del carcere nel nostro paese: gli si sottrae pensiero non appena le circostanze rendano possibile dimenticarlo. Come una molla che viene tenuta in pressione applicandole una forza e che inevitabilmente ritorna alla sua posizione naturale quando essa venga a cessare. L’attenzione dedicata al nostro sistema penitenziario all’indomani della condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo nel gennaio 2013 è finita. E la molla, per inerzia, si distende in malo modo. Il Cpt si è detto preoccupato del continuo e inesorabile aumento della popolazione detenuta dall’inizio del 2016 a oggi, risultante tra le altre cose nella mancanza per molti detenuti dei quattro metri quadri di spazio pro capite considerati uno standard minimo all’interno di celle multiple. Ha lamentato situazioni di scarsa igiene e di cibo insufficiente. Ha riportato la mancanza di riscaldamento e di acqua calda in alcune sezioni di alta sicurezza. Ma soprattutto ha chiesto alle autorità italiane un serio ripensamento del 41bis e di tutte le misure che non guardino al recupero della persona ma esclusivamente alla sua afflizione, come l’isolamento diurno previsto dall’art. 72 del nostro codice penale. In tutte le quattro carceri visitate - selezionate anche su questa base, a seguito tra l’altro di denunce del Garante nazionale dei detenuti e di Antigone - gli ispettori europei hanno trovato elementi che confermerebbero avvenuti maltrattamenti da parte della polizia penitenziaria ai danni di persone detenute. Si tratterebbe tanto di eccessivo e non professionale uso della forza per reagire a stati di agitazione, quanto di deliberate violenze perpetrate quale punizioni arbitrarie e illegali. È del primo caso, ad esempio, quanto pare che accadde il 31 ottobre del 2018 nel carcere di Saluzzo, quando un detenuto in preda a uno stato psicotico di agitazione si è amputato due falangi della mano destra nel blindato sbattuto con forza mentre si cercava di trasferirlo in infermeria. Le violenze deliberate riguarderebbero principalmente l’istituto di Viterbo, a proposito del quale lo scorso aprile Antigone rese pubbliche le tante lettere di detenuti che denunciavano alla nostra associazione gli agghiaccianti abusi subiti e a proposito del quale il Cpt parla dell’esistenza di una “squadretta” che sarebbe responsabile di molte spedizioni punitive. Stiamo parlando di dita del piede bruciate con un accendino, di persone prese a calci e pugni da otto agenti contemporaneamente, di visite mediche private di ogni possibilità di denunciare l’accaduto poiché permesse solamente alla presenza di poliziotti e risultanti in relazioni quali “il detenuto (…) si rifiuta di alzare la maglietta e abbassare i pantaloni, il che rende impossibile la visita”. Come Antigone denuncia da tre decenni, la violenza in alcune carceri è sempre esistita. Negli ultimi anni questa realtà sta venendo fuori con maggiore evidenza, anche grazie a vicende pubbliche che hanno riguardato il nostro Paese e alla disponibilità dell’amministrazione penitenziaria a farle emergere. Disponibilità dimostrata pure dal rapido consenso dato dal governo alla pubblicazione di questo rapporto del Cpt, che altre volte ha invece richiesto vari anni. Quella che abbiamo davanti non è dunque una testimonianza storica. Parla di noi, parla di oggi. *Coordinatrice associazione Antigone “Da Strasburgo un aiuto all’Italia per migliorare le condizioni di detenzione” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 gennaio 2020 Nessuno Tocchi Caino e l’associazione Antigone auspicano un intervento sulle questioni evidenziate nel report. Il rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), a seguito della visita ispettiva svoltasi nel marzo scorso, ha provocato diverse reazioni soprattutto dalle associazioni che si occupano dei dritti delle persone private della libertà. Un rapporto, ricordiamo, che evidenza criticità riguardante il 41bis, misure definite “anacronistiche” come l’isolamento diurno per i detenuti condannati all’ergastolo ed episodi di maltrattamento da parte degli agenti penitenziari. Su quest’ultimo punto, il Cpt ha voluto sottolineare l’importanza del ruolo del personale penitenziario nell’esecuzione della pena e ha ribadito la necessità di una loro formazione continua, anche superando una certa mentalità che considera l’agente solamente un uomo che si limita ad una funzione esclusivamente di custodia. Sergio d’Elia, Rita Bernardini ed Elisabetta Zamparutti, rispettivamente Segretario, Presidente e Tesoriere di Nessuno tocchi Caino hanno dichiarato: “Ancora una volta da Strasburgo arriva un aiuto all’Italia perché sia superato l’isolamento e siano migliorate le condizioni di detenzione. Bene ha fatto il Cpt a focalizzare l’attenzione, durante la sua visita ad hoc del marzo 2019, sul problema dell’isolamento nelle varie forme, dal 41bis all’isolamento diurno e la sorveglianza speciale del 14 bis, senza trascurare però il problema del sovraffollamento così come quello delle misure di sicurezza detentive”. I dirigenti di Nessuno tocchi Caino hanno proseguito dicendo che “l’isolamento nel nostro Paese assume le forme più disumane e ci ritroviamo nelle raccomandazioni del Cpt che chiedono di abolire l’isolamento diurno, considerato anacronistico e a ripensare il 41bis per renderlo compatibile con l’art 27 della Costituzione perché le esigenze di lotta al crimine organizzato devono essere bilanciate dal rispetto rigoroso del principio di riabilitazione. Il concetto del mantenimento di significativi contatti umani sia assicurato in tutti i casi di isolamento. Ma si concedano anche più misure alternative e si aumenti il ricorso a misure non detentive per affrontare il sovraffollamento come chiede il Cpt invece di promettere la costruzione di nuove carceri come fa questo Governo. Proprio per questo comune sentire, collaboreremo con il Cpt affinché riceva le informazioni sull’effettiva attuazione delle sue raccomandazioni”. Interviene anche il consigliere regionale di + Europa Alessandro Capriccioli che si occupa da tempo delle criticità del carcere di Viterbo e raccolto moltissime denunce sulla situazione di enorme disagio che vivono i detenuti (ma anche gli agenti di polizia penitenziaria) dentro la struttura, cercando “di portare fuori dal carcere questi racconti” per verificarli. Più volte ha chiesto un formalmente un incontro con il guardasigilli Alfonso Bonafede, ma senza ottenere una risposta. Ora Capriccioli si augura che dopo il rapporto del Cpt, il ministro decida di occuparsi della vicenda. L’associazione Antigone auspica invece un intervento urgente sulle questioni evidenziate dal rapporto. “Quello che emerge nel report - commenta Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - è una situazione che denunciamo da diverso tempo e che abbiamo avuto modo di segnalare anche al Cpt, incontrato da noi durante la loro visita. La spinta riformatrice post sentenza Torreggiani si è fermata e questo ha prodotto e sta producendo un peggioramento delle condizioni di detenzione, con situazioni gravi sulle quali chi ha responsabilità politiche dovrebbe intervenire con urgenza”. Linee d’indirizzo per l’esecuzione delle pene dei condannati minorenni gnewsonline.it, 23 gennaio 2020 Il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità ha diramato ai Servizi minorili dipendenti le linee d’indirizzo per una puntuale applicazione del Decreto legislativo n. 121 del 2 ottobre 2018, che disciplina l’esecuzione penale nei confronti dei condannati minorenni. Le innovazioni apportate dal Decreto legislativo hanno modificato le modalità di esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, introducendo nuovi istituti che privilegiano il coinvolgimento della comunità esterna nel tentativo di recupero dei minorenni che commettono un reato e modificano il trattamento penitenziario dei minorenni reclusi negli istituti penali. Le linee di indirizzo sono il risultato del lavoro approfondito condotto da tre gruppi di studio istituiti dal Dipartimento, composti dai dirigenti dell’amministrazione centrale e periferica, dai direttori degli istituti penali e degli uffici di servizio sociale per minorenni, dai comandanti di reparto e da funzionari esperti dell’amministrazione, che hanno avuto la possibilità di verificare in tempo reale gli esiti della prima applicazione della nuova normativa e la giurisprudenza che si è sviluppata nel merito dei singoli istituti. Il prodotto del lavoro vuole essere un work in progress che potrà essere migliorato a seguito dell’”Evoluzione concreta degli istituti normativi”. Prescrizione. Anm: sul Lodo Conte polemica pretestuosa di Serenella Mattera ansa.it, 23 gennaio 2020 Quella sul Lodo Conte sulla prescrizione è una “polemica pretestuosa”. Lo ha detto il presidente dell’Anm Luca Poniz intervistato da Radio Anch’io. “Distinguere la posizione del condannato e dell’assolto è saggissimo - ha aggiunto il presidente dell’Anm. Non capisco perché dovrebbe essere incostituzionale”. L’intesa non c’è, la maggioranza fibrilla. Si cercava “piena condivisione” per portare giovedì in Consiglio dei ministri la riforma del processo penale e della prescrizione. E invece arriva una nuova fumata nera. Chiude Italia viva: la soluzione proposta del premier Giuseppe Conte di fermare la prescrizione solo per i condannati “è incostituzionale”, dice tranchant Matteo Renzi. E anche se Lucia Annibali, uscendo da Palazzo Chigi dopo un vertice di maggioranza lungo tre ore, apre uno spiraglio, è difficile che una soluzione arrivi prima che siano chiuse le urne in Emilia Romagna. Il tempo stringe: martedì in Aula alla Camera si vota la proposta di Fi per cancellare la riforma Bonafede sulla prescrizione. Se Iv vota con gli azzurri, attacca Nicola Zingaretti, rischia di “sfasciare la maggioranza”. Ma è proprio quello il timore di molti Dem: che se Bonaccini sarà sconfitto, Iv apra il redde rationem, a partire dalla giustizia. “C’è una maggioranza da tutelare”, dichiara Zingaretti dal salotto di Porta a porta e invita perciò Renzi a non votare con Italia viva per bloccare la prescrizione ma anche Luigi Di Maio a non “farne una bandierina”. Conte sperava di ottenere di più: da Firenze confidava che si potesse “finalmente” trovare “piena condivisione” sulla bozza di riforma elaborata dal ministro Alfonso Bonafede e inviata ai partiti di maggioranza prima di sedersi al tavolo. Un testo di 35 articoli per una riforma complessiva che mira a dare tempi certi a ogni grado di giudizio con l’obiettivo di chiudere in 3 o massimo 4 anni, abbreviare le indagini preliminari, riformare la composizione e il metodo di elezione del Csm, fermare il ritorno ai ruoli giudicanti per i magistrati che siano passati alla politica. “Continuiamo a lavorare per abbreviare i tempi dei processi”, dicono da Palazzo Chigi al termine del vertice di maggioranza. Ma, al netto dei dubbi su specifici aspetti del testo, è la prescrizione il nodo che ancora divide la maggioranza. Renzi anticipa la posizione di Iv in un’intervista radiofonica, a vertice ancora in corso: è “incostituzionale” il “lodo Conte” che prevede di fermare la prescrizione per i condannati e sospenderla per gli assolti per due anni in caso di processo di appello. Al tavolo di maggioranza, Maria Elena Boschi e Lucia Annibali (ma anche il senatore di Leu Pietro Grasso) esprimono forti dubbi, ma non chiudono del tutto. Per una mediazione si spendono il premier e il deputato di Leu Federico Conte. Tra le proposte c’è quella di far correre la prescrizione, senza alcuna sospensione, per chi sia assolto e bloccarla per i condannati ma solo temporaneamente, a condizione che poi la condanna sia confermata in appello. Sia il ministro Bonafede che i Dem sostengono che sono stati fatti “passi avanti” e che il “lodo Conte” sulla prescrizione non è incostituzionale. Ma, a taccuini chiusi, la convinzione diffusa tra gli alleati di governo, è che il no dei renziani sia politico: che vogliano rompere e martedì votare in Aula con Fi contro il resto della maggioranza. Da Iv negano: nessuna decisione è presa, spiega Annibali. Ma non sfuggono ai partecipanti al vertice di Chigi le parole di Renzi, che attacca Di Maio: “Si occupi di Libia, non del populismo da quattro soldi” alimentato da richieste come quella di ritirare la concessione ad Autostrade, che aprirebbe la strada a una “causa miliardaria” con Aspi. I nodi, dalle controverse norme del decreto Milleproroghe fino alle concessioni autostradali, verranno tutti al pettine dopo le regionali in Emilia Romagna e Calabria. Ma già gli ex compagni di partito di Iv e Pd se le danno di santa ragione. I renziani si accordano con Azione di Calenda e +Europa di Bonino per proporre la giornalista Federica Angeli come candidata alle suppletive per la Camera che si terranno il primo marzo nel collegio Roma 1, pur sapendo che Zingaretti ha proposto la candidatura a Gianni Cuperlo. Il segretario Pd ricorda di aver “fatto di tutto” per tirare il Pd “fuori dal coma” in cui era caduto nel 2018, alle elezioni con Renzi segretario. “Senza prescrizione serve l’antidoto ai processi eterni, ma dentro la maggioranza” di Errico Novi Il Dubbio, 23 gennaio 2020 Intervista a Andrea Orlando, vicesegretario del Partito Democratico. Si deve trovare una soluzione nella maggioranza. E nel confronto. Senza l’ipotesi di uno sciogliete le righe. Non voglio considerare l’idea che sulla prescrizione e sul processo ci si rassegni all’impossibilità dell’accordo. “Ma una cosa è certa”, spiega Andrea Orlando, “serve un rimedio anche per chi in primo grado è condannato. Non si vuole una soglia massima di durata del processo, neppure per fasi? E allora però servono altre conseguenze certe e automatiche che intervengono se il processo supera ogni possibile ipotesi di durata ragionevole. E non basta l’aleatorietà di eventuali conseguenze disciplinari”. Il vicesegretario del Pd non ha solo il merito della chiarezza. Sul caso della prescrizione e della riforma penale vanta anche un’apprezzabile dose di ottimismo. Non teme deflagrazioni nella maggioranza sulla giustizia. E intanto, da predecessore di Bonafede, rinnova l’impegno a sostenere le istanze dell’avvocatura: “Sono convinto dell’opportunità di sancire in Costituzione il ruolo dell’avvocato”, dice, “come sono convinto che una simile riforma debba avere come conseguenza l’obbligo di riconoscere il giusto compenso a chi tutela i diritti”. Ma insomma, è così ineluttabile che senza accordo sulla prescrizione debba cadere il governo? La ricerca di un accordo ha già prodotto qualche risultato. Si pensi solo a dov’eravamo fino a pochi giorni fa sul decreto intercettazioni, che invece tra poche settimane entrerà in vigore. Perciò, sulla prescrizione, finché la via dell’accordo non si manifesta come impercorribile, non ha senso esercitarsi sulle conseguenze. Io anzi ribalterei la domanda. In che modo? Perché interrogarsi su scenari apocalittici se c’è una trattativa aperta? Si può forse dire che le posizioni sono rimaste identiche? No, delle modifiche ci sono state. Secondo lei Italia viva minaccia di votare la legge Costa solo perché considera improbabile che questo basti a mandare sotto la maggioranza? Non lo so. So però che noi non intendiamo convergere su una proposta condivisa da un partito che ha contribuito ad approvare proprio la norma Bonafede. Cioè la Lega... Certo: una forza politica che non ha alcun titolo per parlare di garantismo. Che ha provocato il danno dopo averne causati altri simili. E che ora si candida a un certificato di garantismo nonostante sia priva dei pur minimi requisiti. Il Partito democratico segue una linea chiara: se alla fine del confronto nella maggioranza non si trovasse una soluzione soddisfacente, metteremo in pista il nostro disegno di legge. Che ripristina la prescrizione così come modificata dalla sua riforma. Ma c’è una soluzione soddisfacente diversa da un limite di durata massima per i processi? Primo: si deve stabilire per legge qual è il tempo accettabile di durata per un processo. Secondo: se si esclude l’estinzione del processo troppo lungo, ci vuole un rimedio che abbia analoga forza deterrente. Non basta stabilire che i giudizi penali devono essere rapidi: va chiarito cosa succede se non lo sono. E bastano le sanzioni disciplinari ai giudici? Non ho analizzato in tutti i dettagli l’ultima ipotesi di articolato. Ma una cosa è evidente: gli argomenti da opporre in sede disciplinare sono innumerevoli. Quindi la minaccia di sanzioni non basta. Serve un rimedio vero. Bonafede dice: la prescrizione eliminata solo per i condannati non è incostituzionale: anche la riforma Orlando distingueva chi è assolto da chi subisce una prima sentenza sfavorevole... Non mi inoltro in ragionamenti da costituzionalista, come invece hanno fatto molti in entrambi i sensi. Dico solo che lo squilibrio tra chi è condannato e chi è assolto va ricomposto proprio con i rimedi di cui sopra. Nel caso di condanna in primo grado va trovata una soluzione che determini comunque una durata certa del processo. In quel modo si estinguerebbero, mi pare, anche le ombre di incostituzionalità. Non ci sarà una vera depenalizzazione: questo rende ancora più grave l’incompiuta approvazione della sua riforma penitenziaria? La deriva carcerocentrica del sistema è la principale conseguenza del cosiddetto panpenalismo. Ma è un nodo che va affrontato in modo distinto. Non si può pensare di mettere troppa carne al fuoco. Una cosa è certa: sul carcere si misura il coraggio del fronte garantista. Ora sminiamo il terreno dal macigno lasciato dal governo precedente, poi ragioneremo sul resto. Un buon esisto del confronto sul penale può essere d’auspicio anche per il tema del carcere. Insomma, resta ottimista... Guardi, pochi giorni fa ho incontrato anche l’Unione Camere penali: che, a parte il nodo prescrizione, sul resto della bozza di riforma aveva espresso apprezzamento. Il responsabile Giustizia del Pd Verini ha assicurato al presidente del Cnf Mascherin sostegno sull’avvocato in Costituzione: crede nella riforma? Penso che i tempi siano davvero maturi per un simile passaggio. Sancire in Costituzione il ruolo dell’avvocato vuol dire completare il percorso aperto dall’introduzione del modello accusatorio. Intanto ho presentato una modifica nel Mille Proroghe per implementare le norme sull’equo compenso, che da ministro ho proposto in seguito al confronto col Cnf. Penso che l’avvocato in Costituzione renderebbe indiscutibile anche il principio per cui chi tutela i diritti va degnamente ricompensato. Lodo Conte. Non chiamatela “mediazione”, è un suicidio di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 23 gennaio 2020 Solo un Paese poco serio può prendere sul serio il “lodo Conte” sulla prescrizione. Di quale mediazione staremmo parlando? Il disegno di legge del Partito Democratico è inconfutabilmente abrogativo della riforma Bonafede della prescrizione, perché ripristina, con qualche minima e non influente variazione, il sistema normativo vigente, introdotto dalla riforma Orlando del 2017, che la riforma Bonafede ha - appunto - abrogato. Reintrodurre la prescrizione solo per le sentenze di assoluzione sarebbe il punto mediano tra le due posizioni? Auguro di cuore al Partito Democratico di avere una idea meno suicida della nozione di mediazione. In presenza di due proposte concettualmente inconciliabili tra di loro, l’unica mediazione possibile sarebbe stata un nuovo rinvio della entrata in vigore della sciagurata norma, in attesa di definire, varare e testare in concreto una riforma che riduca drasticamente la durata dei processi. Tutto il resto è melina, gioco delle parti in attesa di un esito già scritto da tempo: la resa incondizionata a questa ossessione paranoide dei populisti nostrani. Una ossessione che vale tuttavia per il 25% delle prescrizioni (tante sono quelle che intervengono dopo la sentenza di primo grado) ma non per il restante 75% determinato dalle scelte di priorità (si usa chiamare così le scelte di politica giudiziaria) operate ab origine dagli uffici di Procura di tutta Italia. Per questi due terzi del fenomeno prescrizionale, dove non hai modo di insolentire gli avvocati sabotatori del processo, chissenefrega delle famose aspettative di Giustizia delle parti offese. Per sovrappiù, il lodo prevede una soluzione palesemente incostituzionale, perché - in barba alla presunzione di non colpevolezza considera i soli imputati condannati in primo grado meritevoli di una seconda e più grave condanna: la pendenza sine die del processo. Invece, gli appelli dei Pubblici Ministeri contro le sentenze di assoluzione, grazie alla benefica pressione della reintrodotta prescrizione godrebbero di un canale privilegiato di fissazione e celebrazione. Comprendo dunque bene che l’Associazione Nazionale Magistrati, che è in realtà, come è a tutti noto, l’associazione nazionale dei Pubblici Ministeri, esulti per il prestigioso Lodo, asseverandone la sicura costituzionalità. E tuttavia c’è una buona notizia, che i festanti populisti di vecchio e di nuovo conio farebbero bene a tenere nella giusta considerazione. Parlo dei risultati del sondaggio di Nando Pagnoncelli. Il 40% degli intervistati esprime contrarietà alla abrogazione della prescrizione. Nonostante il vergognoso monopolio disinformativo assicurato soprattutto dalle Tv Rai e La7 ai monologanti propagandisti della legge Bonafede (Davigo, Travaglio, Giannini e compagnia di giro annessa e connessa), siamo riusciti a far crescere intorno ad un tema molto tecnico e sconosciuto ai più, prima curiosità, poi comprensione ed infine consenso. Faccia bene i suoi conti, segretario Zingaretti, prima di assicurare la firma sua e del suo partito alla più sgangherata e sciagurata legge partorita in questa livida stagione del trionfante populismo giustizialista. *Presidente Unione Camere Penali Italiane La disinvoltura del Capitano leghista Salvini e la strumentalizzazione della giustizia di Guido Neppi Modona Il Dubbio, 23 gennaio 2020 Non posso fare a meno di stupirmi e provare profondo disagio per lo scarso rispetto istituzionale e l’incultura del “Capitano” Matteo Salvini, che pure ha ricoperto sino a pochi mesi orsono la non secondaria carica di vicepremier e ministro dell’Interno ed è attualmente senatore della Repubblica. È di questi giorni il frenetico e surreale balletto sull’autorizzazione a procedere per il reato di sequestro di persona in danno degli immigranti a bordo della nave Gregoretti, di cui sarebbe competente il Tribunale dei ministri. Salvini prima ha dichiarato - come era prevedibile e ragionevole - di opporsi alla richiesta, e in tal senso ha dato istruzioni ai senatori della Lega; poi ha mutato parere e gli stessi parlamentari hanno espresso il voto decisivo a favore dell’autorizzazione. Non c’è voluto molto a capire che queste apparentemente stravaganti manovre non avevano nulla a che vedere con la giustizia, ma erano dettate da valutazioni elettorali in vista della ormai prossima consultazione regionale in Emilia-Romagna. Se, cioè, ai fini elettorali fosse più conveniente presentarsi senza il peso di quel reato, ovvero in qualità di “martire” costretto a subire un giudizio penale per avere difeso le acque territoriali italiane dalla pericolosa invasione degli immigrati irregolari. Ha prevalso questa seconda linea, espressa con toni melodrammatici: “Ci sono momenti in cui per arrivare alla libertà bisogna passare per la prigione”, e ancora “Scriverò ‘Le mie prigioni’ come Silvio Pellico, faccio un nuovo format televisivo”. Sembrano frasi autoironiche, ma purtroppo di ironico non c’è nulla, c’è solo il calcolato fine di trarre un vantaggio elettorale presentandosi come vittima della giustizia. Tanto è vero che le frasi sono state accompagnate dall’avvertimento che per giudicarlo sarebbe stata necessaria un’aula di grandissime dimensioni, perché insieme a lui davanti al tribunale si sarebbero presentate migliaia di sostenitori. Temo che non si tratti solo di espressioni stravaganti: dietro a queste frasi sta una visione stravolta della giustizia, trasformata in strumento posto al servizio delle esigenze elettorali del capo del partito di maggioranza relativa, in un quadro in cui probabilmente lo stesso Salvini non si rende neppure conto che sta calpestando la dignità e l’immagine della funzione giudiziaria. Per il Capitano queste giornate pre-elettorali sono state decisamente poco felici. Nelle dichiarazioni in libertà degli ultimi giorni a Salvini è anche sfuggito un attacco ai giudici di sinistra, che farebbero meglio a occuparsi di spacciatori e delinquenti, e - ben più grave e irresponsabile - un richiamo all’antisemitismo di cui a prima vista è difficile comprendere l’origine e la ragione. In un intervista a un quotidiano israeliano Salvini ha collegato la diffusione dell’antisemitismo in Italia al crescente numero di immigrati di religione musulmana, a suo avviso notoriamente e indiscriminatamente antisemiti, senza rendersi conto che nel contrastare le manifestazioni di antisemitismo dimostrava nello stesso tempo una buona dose di razzismo nei confronti degli immigrati, specie se musulmani. Quindi, non solo ignoranza delle storiche e profonde radici dell’antisemitismo italiano, ma un gratuito e oltraggioso attacco alla comunità dei musulmani in Italia, i cui rappresentanti hanno giustamente e vivacemente reagito. Infine, è di queste ore la notizia che, circondato da cineprese e giornalisti, Salvini ha suonato al citofono di una famiglia di tunisini residenti a Bologna chiedendo all’interlocutore se suo figlio è uno spacciatore. Ne è sorto un incidente diplomatico, con le indignate proteste del vice presidente del Parlamento della Tunisia e dell’ambasciatore tunisino a Roma. Ve ne è quanto basta per augurarsi che nei pochi giorni che rimangono prima della consultazione elettorale in Emilia- Romagna il senatore Salvini si astenga da qualsiasi ulteriore manovra propagandistica, specie se ad essere coinvolti sono la giustizia, l’antisemitismo, i musulmani e i rapporti con un Paese amico quale è la Tunisia. Le forze dell’ordine hanno il taser, tutti i rischi di un’arma pericolosa di Alessio Scandurra Il Riformista, 23 gennaio 2020 Il 17 gennaio il Consiglio dei ministri ha approvato in esame preliminare, su proposta del presidente del Consiglio e del ministro dell’Interno, un regolamento che modifica le norme (dpr 5 ottobre 1991, n. 359) sull’armamento e le munizioni in dotazione alle forze dell’ordine. In particolare il decreto prevede l’introduzione dell’arma comune ad impulsi elettrici (il cosiddetto Taser), la cui sperimentazione era stata autorizzata in 12 città italiane a partire dal 2014. Dunque la sperimentazione è conclusa ed il Taser ha avuto il via libera. Ma cosa sappiamo del Taser? Sappiamo ad esempio che, secondo un’indagine della Reuters pubblicata nel 2017, il Taser da quando viene utilizzato ha provocato nei soli Stati Uniti oltre mille morti, ed è stato utilizzato nel 90% dei casi nei confronti di persone disarmate. La stessa azienda americana che lo produce - la Taser International Incorporation, da cui deriva il nome dell’arma - interrogata sulla potenziale pericolosità, ha dichiarato che esisterebbe un rischio di mortalità pari allo 0,25%, una persona su 400. E il rischio sarebbe notevolmente più alto per persone affette da patologie cardiache o neurologiche, o il cui cuore sia in quel momento sottoposto ad un particolare sforzo. Ma stiamo parlando di malattie o condizioni impossibili da riconoscere al primo sguardo. Dunque come dovrebbe fare l’operatore di polizia a sapere su chi non usare il Taser perché troppo pericoloso? Altra cosa che sappiamo è che e alcuni organismi internazionali, tra cui la Corte Europea dei Diritti Dell’uomo ed il Comitato Onu per la prevenzione della tortura, si sono espressi relativamente alle pericolosità di quest’arma e il rischio di abusi che l’utilizzo può comportare. Il modello adottato per la sperimentazione italiana è lo X2 della Axon, un’evoluzione del modello X26 che le Nazioni Unite avevano giudicato equiparabile a uno strumento di tortura. Le preoccupazioni dunque sui rischi legati all’uso di quest’arma sono molte e gravi. Ma, anche rispetto a questo, cosa ha aggiunto la sperimentazione italiana? E più in generale, cosa sappiamo di questa sperimentazione? L’uso del Taser nelle 12 città in cui è stato sperimentato ha messo a rischio l’incolumità o la salute delle persone su cui è stato usato? Si sono verificati incidenti? E, per altro verso, è servito a qualcosa? Ha consentito un minor ricorso alle armi da fuoco? Ci sono evidenze empiriche su questo? E ha di conseguenza ridotto il numero di incidenti legati alle armi da fuoco? O ha consentito una migliore gestione delle operazioni di polizia? La verità è che di questa sperimentazione non sappiamo un bel nulla. Non sappiamo in cosa sia consistita, non sappiamo quali informazioni ci avrebbe dovuto consentire di raccogliere e non sappiamo se lo ha fatto. Sappiamo che è conclusa e tanto ci dovrebbe bastare per darne un giudizio positivo e dotare le forze dell’ordine di questa nuova arma. Come se l’aver sostenuto un esame sia di per se prova che è andato bene, a prescindere dal suo esito. Perché alla fine dei conti, e questa probabilmente è la vera assunzione di fondo dietro questa iniziativa, un arma in più in dotazione delle polizie non può che essere una buona notizia. Come se la sicurezza dei cittadini fosse direttamente proporzione alla quantità degli armamenti delle forze dell’ordine. Seguire l’esempio americano proprio su questo terreno, quello della gestione dell’ordine pubblico e del contrasto al crimine, è in realtà una scelta scellerata. Nessun Paese europeo, meno che mai l’Italia, conosce i tassi di criminalità, e di criminalità violenta, degli Stati uniti. Eppure i cittadini americani spesso dichiarano di non voler venire in Europa per paura del crimine, e spesso gli europei favoleggiano della severità e dell’efficacia della polizia americana. Tutti cullati da una fantasia malsana sul potere rassicurante dell’uso della forza, fantasia che rischia di alimentare, anziché contenere, il ricorso alla violenza. Forse sarebbe bene che, proprio su questi temi, l’Italia avviasse una vera sperimentazione. Roberto Di Bella: “Baby criminali via dalle famiglie se i genitori vivono nell’illegalità” di Daniela De Crescenzo Il Mattino, 23 gennaio 2020 Il magistrato che ha tolto i figli ai boss della ‘ndrangheta: “I miti mafiosi si smontano a scuola. Politiche sociali e più tempo trascorso in classe, così salviamo i nostri ragazzi”. “Per i giovani del Sud è necessario un piano Marshall che preveda la mobilitazione delle risorse, ma anche di tutti i soggetti in campo, a partire dalla scuola, dai centri sociali, dal volontariato”. L’Sos parte da Roberto Di Bella, presidente del tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, ma anche autore con Monica Zapelli del libro “Liberi di scegliere. La battaglia di un giudice minorile per liberare i ragazzi della ‘ndrangheta” da cui è stato tratto un film per la Rai: nel volume racconta l’esperienza di un magistrato che per salvare i figli dei boss è costretto ad allontanarli dai padri e dal territorio che li condanna a seguirne le orme. Sabato sarà a Napoli per discuterne al Modernissimo nell’ambito della rassegna “RagionaMenti”, organizzata da Paolo Siani, Luciano Stella, Francesca Mauro e Josè Petoia. Bambini che spacciano, organizzano stese, assaltano le forze dell’ordine. E le istituzioni smarrite, non riescono a intervenire in maniera efficace. Lei cosa suggerisce? “Il primo terreno d’intervento è quello della prevenzione primaria che va fatta destinando maggiori risorse alle politiche sociali. Queste finora si sono rivelate inadeguate alla realtà dei fatti e all’involuzione del costume sociale e quindi anche di quello criminale. E ciò vale per la Calabria, ma anche, probabilmente, per la Campania”. Cosa servirebbe? “Innanzitutto bisogna ampliare l’offerta formativa e scolastica prevedendo scuole a tempo pieno in tutti i territori a rischio per sottrarre i ragazzi alla strada. E poi, tenuto conto anche degli altri fattori di rischio, bisogna agire in maniera più incisiva sulla dispersione scolastica. A Reggio Calabria abbiamo siglato un protocollo prefettizio con la direzione scolastica provinciale e abbiamo previsto che tutte le situazioni di disagio e dispersione scolastica siano segnalate alla procura presso il tribunale per i minorenni. Abbiamo così ridotto moltissimo la dispersione, soprattutto tra i rom, intervenendo sulla responsabilità genitoriale. Prima prescriviamo ai genitori di ottemperare all’obbligo scolastico. Se la mancanza prosegue mettiamo i ragazzi in comunità a semiconvitto e, nei casi più gravi, a convitto. Se c’è un’inadempienza interviene lo Stato guardando al prevalente interesse dei minori”. Ma i docenti non sono Superman… “È vero, ma oggi gli insegnanti vanno adeguatamente preparati ad affrontare i temi del disagio giovanile, del bullismo e della criminalità minorile. A scuola bisogna combattere i miti mafiosi facendo capire ai giovani che la vita nei clan porta al carcere, alla morte o comunque a un’esistenza di sofferenza. Non solo. Ai ragazzi bisogna mostrare le conseguenze che la criminalità organizzata ha sulla vita di tutti noi. E per la Campania penso ad esempio alla Terra dei fuochi”. Basterà? “Bisogna ricordare le vittime di mafia e gli eroi civili. Questo compito non può essere lasciato solo a Libera o a interventi occasionali. Se serve occorre mettere in campo il supporto psicologico anche per mediare i conflitti che sorgono in classe. Io ho fatto judo per tanti anni e trovo straordinaria l’esperienza del maestro Maddaloni a Scampia: dovrebbe essere replicata in tutti i territori a rischio”. E se non bastasse? “Allora scendono in campo i magistrati del tribunale per i minorenni. Noi interveniamo quando ci sono dei reati o quando all’interno delle famiglie si vivono situazioni pregiudizievoli per i minori. E sono capitati casi di bimbi di dieci, undici anni, coinvolti a pieno titolo dai genitori nel narcotraffico, nel trasporto di armi o nel ruolo di vedette. In questi casi segnalati, in virtù di uno specifico protocollo, al tribunale per i minorenni dalla procura antimafia e dalle procure del distretto, noi interveniamo a tutela dei minori e può scattare l’allontanamento. Ma cerchiamo sempre di coinvolgere i genitori nei percorsi educativi e nel novanta per cento dei casi le mamme, che sono donne provate da lutti o carcerazioni, accettano. Alcune diventano anche collaboratrici o testimoni di giustizia per salvare i figli. Altre non hanno contributi dichiarativi da rendere all’autorità giudiziaria e quindi non possono essere inserite in un programma di protezione ma sono aiutate da Libera e ultimamente anche dall’Unicef”. Come? “Il 5 novembre 2019 come tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, abbiamo siglato un protocollo con i ministeri di Giustizia, Istruzione e Famiglia, le procure nazionali antimafia e di Reggio Calabria e la Cei, creando, una rete che consente ai ragazzi e ai nuclei che vogliono allontanarsi dai clan, di entrare in una rete di protezione fatta da famiglie e volontari. Un progetto finanziato con l’otto per mille”. Un piano esportabile? “Certamente. Al momento è calibrato sulla Calabria, ma è possibile allargarlo visto che stiamo avendo risultati ottimi”. Droghe pesanti, dopo la Consulta patteggiamento da rideterminare di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sentenza 22 gennaio 2020 n. 2445. Dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019, le condanne per reati “non lievi” in materia di stupefacenti vanno rideterminate al ribasso anche qualora, grazie alla riduzione di pena (fino a un terzo) che consegue al patteggiamento, rientrino nella nuova cornice edittale. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 2445 di ieri, annullando l’ordinanza del Tribunale di Monza che, in funzione di giudice dell’esecuzione, aveva rigettato la richiesta dell’imputato di rideterminare la pena, fissata (ex articolo 444 Cpp) in 5 anni di reclusione (e 12mila euro di multa), per il reato di trasporto e detenzione di 9,4 kg di eroina. Secondo il Gip, infatti, considerata la recidiva ed il dato ponderale particolarmente alto dello stupefacente il trattamento sanzionatorio non meritava comunque di essere attenuato. Facciamo un passo indietro. Lo scorso anno, con riferimento alle cosiddette droghe pesanti, la Consulta ha dichiarato illegittimo l’articolo 73, comma 1, del Dpr n. 309 del 1990 là dove prevedeva come pena minima la reclusione di otto anni invece che di sei, ritenendola sproporzionata. In particolare, per la Consulta una differenza di ben quattro anni tra il minimo di pena previsto per la fattispecie ordinaria (otto anni) e il massimo della pena stabilito per quella di lieve entità (quattro anni) costituiva “un’anomalia sanzionatoria” in contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza, oltre che con il principio della funzione rieducativa della pena. Così ricostruito il quadro normativo, la Prima sezione ricorda che, in caso di dichiarazione di incostituzionalità, se la pena non è stata completamente eseguita, il giudice dell’esecuzione deve sempre rideterminarla in favore del condannato. E per le Sezioni unite (33040/2015) la pena, applicata a seguito del patteggiamento, “è da ritenersi e deve essere rideterminata, anche quando formalmente rientri nella cornice edittale della norma “ripristinata”“. Così, tornando al caso concreto, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’articolo 73, comma 1, Dpr n. 309 del 1990, “l’illegalità della sanzione discende automaticamente dalla circostanza oggettiva della diversità tra quadro sanzionatorio vigente al momento di conclusione dell’accordo processuale sulla pena e quadro normativo ripristinato a seguito della pronuncia n. 40 del 2019 della Corte Costituzionale”. Nel caso di specie, infatti, la pena era stata modellata in ragione di una forbice edittale che prevedeva una sanzione minima di anni otto di reclusione, “e a detto minimo si era conformato il giudizio espresso dal giudice di merito, che aveva ratificato ex art. 444 c.p.p. l’accordo tra le parti, le quali avevano individuato la pena base nella misura di anni nove, mesi sei di reclusione”. Dunque, conclude la Corte, “la riduzione del minimo edittale imponeva al giudice dell’esecuzione di tenere conto della nuova cornice di pena in favore del condannato”. Infatti nella quantificazione della sanzione la discrezionalità giudiziale “non può mai prescindere dai limiti minimi e massimi di pena che caratterizzano il dato normativo e che esprimono il livello di disvalore apprezzato dal legislatore per la condotta oggetto di incriminazione”. Reato di omessi versamenti, basta il dolo generico di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2020 Con le modifiche apportate al decreto fiscale dalla legge di conversione sono state abrogate le più basse soglie inizialmente previste dal Dl 124/2019 per i reati di omesso versamento delle ritenute e dell’Iva. Il decreto fiscale infatti aveva portato a 100mila euro (in luogo di 150mila) la soglia penalmente rilevante ai fini dell’omesso versamento delle ritenute e a 150mila (in luogo di 250mila) la soglia del reato di omesso versamento dell’Iva. Successivamente la legge di conversione ha abrogato tali modifiche con la conseguenza che per evitare la commissione del reato occorrerà osservare le regole già vigenti negli anni scorsi. Poiché si tratta di reati che si verificano di frequente, in quanto sono spesso determinati non dalla volontà dell’imprenditore di evadere, ma dall’assenza di disponibilità finanziarie, vale la pena di esaminarne in dettaglio i contenuti. Iva e ritenute - Nel caso dell’Iva è sanzionato con la reclusione da sei mesi a due anni, chiunque non versi l’imposta dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo per importi superiori a 250mila euro per ciascun esercizio (articolo 10 ter del Dlgs 74/2000). Il debito rilevante ai fini del reato è la somma risultante dalla dichiarazione presentata per il periodo di imposta, determinato secondo le regole fiscali. A tal fine occorre considerare solo l’imposta dichiarata e non versata senza gli interessi trimestrali eventualmente dovuti (Cassazione 46953/2018). Per la verifica del superamento della soglia di punibilità, va verificato l’importo indicato nel rigo VL32 (Iva a debito). Per quanto concerne invece le ritenute (articolo 10 bis del decreto legislativo 74/2000) è punito con la medesima sanzione (reclusione da sei mesi a due anni) chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a 150mila euro per ciascun periodo d’imposta. Si tratta di reati istantanei che si perfezionano alla scadenza del termine previsto con la conseguenza che è sufficiente il dolo generico e non occorre il fine di evasione (elemento soggettivo): basta cioè la consapevolezza di non versare all’erario alle previste scadenze le imposte dichiarate e dovute. Responsabilità - Nel caso in cui la condotta omissiva riguardi ditte individuali, professionisti, artigiani ecc., non vi è dubbio che il delitto venga ascritto al contribuente interessato, il quale ha comunque tratto beneficio dall’omissione. In ipotesi invece di violazioni commesse da società, è responsabile il rappresentante legale dell’azienda alla data di consumazione del reato a prescindere da chi abbia materialmente firmato la dichiarazione contenente il debito non versato. Secondo la Cassazione, anche se non mancano pronunce in senso contrario, non risponde del reato il liquidatore che non ha versato le imposte se al momento dell’assunzione dell’incarico non vi erano le risorse disponibili: si tratta di una causa di forza maggiore che giustifica l’inadempimento (sentenza 17727/2019). In base a tale orientamento, il liquidatore risponde del delitto solo qualora distragga l’attivo della società in liquidazione dal fine del versamento all’Erario a scopi differenti. Tale conclusione deriva dalle limitazioni previste in ambito tributario dall’articolo 36 Dpr 602/73, secondo cui la responsabilità del liquidatore sussiste solo qualora non provi di aver soddisfatto i crediti erariali prima dell’assegnazione di beni ai soci ovvero il soddisfacimento di altri creditori. Abruzzo. Il Garante dei detenuti sulla convenzione con l’Università d’Annunzio e il Dap consiglio.regione.abruzzo.it, 23 gennaio 2020 Il Garante dei detenuti ha inviato la seguente nota: “Il prof. Gianmarco Cifaldi, Garante abruzzese dei detenuti, risponde alle polemiche insorte con riferimento alla Convenzione stipulata tra l’Ateneo d’Annunzio e il Dap, spiegandone il contenuto effettivo. Di fatto - spiega il docente - “si tratta di una convenzione che stabilisce una collaborazione dell’università all’osservazione scientifica della personalità del detenuto che già avviene, ex lege, all’interno degli istituti, come pure una cooperazione con le iniziative trattamentali del pari già in essere; un’iniziativa, dunque, che porta il valore aggiunto del sapere accademico all’interno dei penitenziari, tra l’altro nell’ambito della c.d. terza missione dell’Università, ossia la trasmissione del sapere al di fuori del ristretto ambito universitario”. Il prof. Cifaldi spiega ancora come siano comprensibili le preoccupazioni insorte per l’uso di una terminologia spiccatamente e forse eccessivamente tecnica: “i Dipartimenti di Medicina e di Odontoiatria saranno coinvolti proprio al fine di migliore la qualità del trattamento, in una prospettiva che mira naturalmente a considerare anche il detenuto sex offender come meritevole di recupero e di interazione con il resto della popolazione penitenziari (come è noto tali ristretti hanno una sezione specifica). È evidente, peraltro, che l’intero progetto riposa sulla libera scelta della persona, che liberamente deciderà se partecipare o meno alle iniziative promosse. Saremmo anzi lieti se l’Unione delle Camere Penali, con il suo Osservatorio Carcere, (con le quali già in passato ci sono stati contatti per promuovere i diritti dei detenuti come il diritto al voto) volesse cooperare all’iniziativa, in una prospettiva di proficua integrazione delle conoscenze”. Voghera (Pv). Suicida in carcere detenuto in attesa di giudizio per reati di mafia di Francesco Sorgiovanni Quotidiano del Sud, 23 gennaio 2020 Si è impiccato in cella. Una fine orribile, quella di Giuseppe Gregoraci, detto “Pino”, 51 anni, di Siderno, detenuto nel carcere lombardo di Voghera. A nulla sono valsi i tentativi di salvarlo messi in atto dal personale della Casa circondariale in provincia di Pavia. L’uomo di Siderno quando sono intervenuti i primi soccorsi era già morto. Ancora una volta, al centro della cronaca, il carcere di via Prati Nuovi. I sindacati hanno posto più volte all’attenzione del provveditore regionale delle carceri l’esistenza di una situazione di grave emergenza a Voghera, senza però ottenere le risposte auspicate. Da molto tempo viene denunciato un serio problema di carenza delle misure di sicurezza, sia per chi lavora in quel carcere, che per i detenuti. Ieri l’ennesimo suicidio che conferma la persistenza di tutti i problemi lamentati. Giuseppe Gregoraci era stato arrestato a luglio del 2019 nell’operazione “Canadian ‘ndrangheta connection” che ha colpito la ramificazione della ‘ndrangheta calabrese in Canada. L’indagine condotta dallo Sco della Polizia e della squadra Mobile reggina, diretta dalla Dda, dal procuratore Giovanni Bombardieri, con il coordinamento del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e dei sostituti procuratori Giovanni Calamita e Simona Ferraiuolo, ha portato all’arresto di elementi di vertice, affiliati e prestanomi delle ‘ndrine Muià e Figliomeni e della potente cosca Commisso di Siderno, ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione mafiosa transnazionale ed armata, porto e detenzione illegale di armi, trasferimento fraudolento di valori, esercizio abusivo del credito, usura e favoreggiamento personale, commessi con l’aggravante del ricorso al metodo mafioso, al fine di agevolare la ‘ndrangheta. Tra gli arrestati figurava anche il 51enne “Pino” Gregoraci, accusato di fare parte della ‘ndrina Figliomeni di contrada Donisi di Siderno e ritenuto anche responsabile di esercizio abusivo del credito, con l’aggravante di aver agevolato la ‘ndrangheta. Le indagini hanno avuto origine dall’omicidio di Carmelo Muià detto “Mino”, assassinato a Siderno a colpi d’arma da fuoco il 18 gennaio 2018, ritenuto il luogotenente del boss Giuseppe Commisso, alias il Mastro. Dopo l’omicidio, al fine di comprendere le causali che lo avevano determinato, il fratello dell’ucciso, Vincenzo Muià e il sodale Giuseppe Gregoraci si recavano anche a Toronto, dove incontravano i fratelli Cosimo e Angelo Figliomeni, detti “i briganti”, entrambi latitanti in Canada, al fine di conoscere le reali motivazioni che avevano portato all’omicidio del fratello “Mino”. Gradisca d’Isonzo (Go). Dal Cpr al carcere: il calvario che ha portato alla morte il migrante di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 gennaio 2020 Ci sono diversi eventi e punti da chiarire che potrebbero aver provocato la morte di Vakhtang Enukidze, il 37enne georgiano recluso nel centro di permanenza e rimpatrio (Cpr) di Gradisca D’Isonzo. Il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, nel pomeriggio di lunedì, si è recato presso la struttura e grazie alle testimonianze raccolte ha potuto ricostruire la cronologia degli eventi. Il primo dato oggettivo è che la struttura, seppur in condizioni meno fatiscenti rispetto agli altri centri, non è in grado di poter ospitare per lunghi periodi i migranti e inevitabilmente si creano tensioni. Infatti, come ha riferito il Garante, domenica 12 gennaio si era verificata una rivolta e tentativi, in parte riusciti, di fuga. Il georgiano doveva essere rimpatriato il giorno successivo e senza scorta, quindi significa che l’uomo aveva un atteggiamento non oppositivo. Nella mattina del lunedì però - così è stato riportato al garante Palma - Vakhtang ha mostrato agitazione, tant’è che il rimpatrio è stato annullato. Il giorno successivo, martedì, è accaduto che l’uomo ha avuto momenti di colluttazione con un altro migrante più giovane e su questa aggressione - secondo la versione del giovane aggredito - ci sarebbe stato un intervento forte da parte della polizia. Qui c’è il primo punto da chiarire, ovvero se l’intervento sia stato proporzionato o meno. È accaduto che, sulla base di questo episodio, l’uomo viene arrestato per violenza nei confronti dell’altro migrante e portato nel carcere di Gorizia. Ci è rimasto per due giorni, mercoledì è giovedì. Il garante nazione sottolinea che anche in quel carcere la permanenza è difficoltosa, una struttura piccola e celle in comune con più persone. Anche qui c’è un secondo punto da chiarire, perché potrebbero esserci stati altri interventi di forza per sedare una probabile agitazione del migrante. Ma è tutto ancora da verificare. Fatto sta che Vakhtang, dopo l’udienza di giovedì sera, ritorna nel Cpr di Gradisca. Tutti gli ospiti della struttura hanno riferito al Garante che l’uomo è rientrato molto agitato camminando a fatica e pieno di ematomi, particolari che l’autorità giudiziaria dovrà comunque capire se siano frutto o meno dell’intervento delle forze di polizia avvenuto al centro, oppure nel carcere. Il dato oggettivo è che il georgiano non comincia a stare bene nel pomeriggio di venerdì e nella notte peggiora. La mattina di sabato chiamano il 118 e l’ambulanza lo porta nell’ospedale di Gorizia. In tarda mattinata Vakhtang cessa di respirare e muore. Una vicenda complessa, in cui hanno agito più momenti, più settori e più situazioni. Il Garante nazionale in qualità di persona offesa dal reato ha chiesto informazioni alla Procura della Repubblica di Gorizia sull’indagine in corso relativa al decesso del cittadino georgiano. Nel frattempo, alla conferenza stampa di ieri indetta sul caso della morte misteriosa del migrante, il deputato di +Europa Riccardo Magi denuncia che potrebbe prospettarsi un nuovo caso Cucchi. “La Procura sta indagando per omicidio volontario contro ignoti, attraverso l’acquisizione di filmati, attraverso l’autopsia, ma è necessario - ha spiegato Magi - raccogliere testimonianze nel modo più adeguato possibile, mettendo queste persone in una condizione di spontaneità della testimonianza e di non rischio di intimidazione”. Intanto slitta l’autopsia. Si sarebbe dovuto svolgere ieri, ma l’ambasciatore della Georgia Konstantine Surguladze ha annunciato che si farà lunedì prossimo per consentirne la presenza di un consulente indicato dai famigliari della vittima. Gradisca d’Isonzo (Go). Migrante morto nel Cpr: “È un nuovo caso Cucchi” di Giansandro Merli Il Manifesto, 23 gennaio 2020 Gradisca d’Isonzo. La denuncia dei Radicali che accusano gli agenti. Rimpatriati 4 “testimoni”. In tutta questa storia c’è una sola certezza: domenica 12 gennaio Vakhtang Enukidze era vivo, sabato 18 è morto. Durante questi sette giorni l’uomo è rimasto sotto la custodia dello Stato. Prima nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Gradisca d’Isonzo, poi nel carcere di Gorizia e di nuovo nel Cpr. Come sia possibile perdere la vita a 38 anni, privati della libertà personale, dopo aver accettato il rimpatrio e godendo di buona salute dovranno stabilirlo le indagini. Sebbene non sia chiaro cosa è successo in quella settimana, si inizia a capire ciò che sicuramente non è accaduto. Enukidze non è morto a causa delle conseguenze di una rissa con un altro recluso, come avevano sostenuto inizialmente alcune ricostruzioni apparse sulla stampa. Lo confermano le numerose testimonianze raccolte dal Garante dei detenuti Mauro Palma, entrato nella struttura detentiva lunedì scorso, e quelle ascoltate dal deputato di +Europa Riccardo Magi, che ha effettuato due visite ispettive, domenica sera e lunedì mattina. “In quella colluttazione Vakhtang ha avuto la meglio - ha affermato ieri Magi in una conferenza stampa alla Camera - Tutti confermano che ad essa è seguito un pesante intervento degli agenti. Circa 10. Dai racconti pare che uno di loro lo abbia colpito con l’avambraccio dietro la nuca e un altro con il ginocchio sulla schiena”. Per comprendere questa scena è necessario riavvolgere i fili di quelle che la precedono. Lunedì 13 Enukidze sarebbe dovuto essere rimpatriato. Senza scorta, perché l’operazione era concordata e non ritenuta pericolosa. Il giorno precedente, però, nel Cpr ci sono delle proteste, alcune suppellettili vengono danneggiate e tre persone fuggono. Enukidze partecipa, è agitato, anche perché non trova più il suo cellulare, unico strumento per comunicare con la famiglia in Georgia. Secondo la testimonianza di un recluso, pubblicata su Facebook da “No Cpr e no frontiere - Fvg”, l’uomo sarebbe stato manganellato perché voleva continuare a cercare il telefono. Una volta in cella si sarebbe ferito allo stomaco con un oggetto. Il giorno seguente, visto lo stato emotivo e forse anche quello fisico del georgiano, il rimpatrio non avviene. Martedì nel centro ci sono nuovi disordini nel mezzo dei quali Enukidze si scontra con un nordafricano. Dopo il duro intervento degli agenti viene “trascinato via come un cane”, dicono tre testimoni. Lo portano nel carcere di Gorizia, in attesa del processo per direttissima per aggressione. La struttura è composta da 3 grandi celle di 8 posti. Il Garante spiega che per gli agenti non è semplice inserirlo in quel luogo. Segno che è agitato, ma ancora in qualche modo in forze. Giovedì 16 il giudice rimanda la direttissima e lo rilascia a piede libero, che in questo caso significa un nuovo trasferimento nel Cpr. Al rientro i compagni lo vedono molto dolorante. Con traumi evidenti. Non si capisce quanto è lucido. Venerdì accusa forti dolori allo stomaco, è frastornato. A Magi alcuni reclusi raccontano che Enukidze chiede l’intervento medico. Poi non riesce più a parlare. Durante la notte le sue condizioni si aggravano. Perde bava dalla bocca. Cade dal letto. La mattina dopo lo trasportano via in ambulanza. Poco dopo muore. “C’è il rischio di un nuovo caso Cucchi - sostiene l’avvocato Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione studi giuridici per l’immigrazione (Asgi) - Per escluderlo va fatta un’indagine rigorosa”. Gli strumenti per ricostruire i fatti sono quattro: i video delle circa 200 telecamere interne; i risultati dell’autopsia, che la famiglia della vittima ha chiesto di rimandare per nominare un perito di parte; i referti medici; le testimonianze. Su quest’ultimo punto c’è stato ieri un botta e risposta tra Magi e il procuratore di Gorizia Massimo Lia. L’esponente di +Europa ha affermato che quattro reclusi presenti al momento dei fatti con cui ha potuto parlare sono stati espulsi: uno prima della morte di Enukidze e tre (egiziani) nella notte tra lunedì e martedì. Il procuratore ha risposto che le persone sono state ascoltate prima dell’allontanamento dall’Italia. Così, però, sarà ben difficile interrogarle nuovamente, qualora ce ne fosse bisogno, o farle comparire nell’eventuale processo. Cosa rilevante, visto che uno dei quattro sarebbe proprio l’uomo con cui Enukidze ha avuto la colluttazione. C’è poi da considerare il contesto di raccolta delle testimonianze. L’avvocato Schiavone sottolinea che, visto il coinvolgimento di alcuni agenti, le persone dovrebbero essere ascoltate fuori dal Cpr, in contesti in cui non siano possibili influenze o minacce, dirette o percepite. Si giocherà anche intorno a questi elementi di garanzia la possibilità di stabilire davvero chi ha ucciso Enukidze. Palermo. Detenuto arriva in aula con lividi sul volto. La Corte ai pm: “Indagate per tortura” Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2020 La Corte d’assise d’appello di Palermo ha trasmessogli atti sul caso di Ben Cheikh Jabranne, tunisino, “affinché si indaghi contro ignoti per il reato di tortura su eventuali responsabilità degli agenti di Polizia penitenziaria della Casa circondariale Pagliarelli” di Palermo. Lo ha rivelato il sito MeridioNews.it. Ben Cheikh Jabranne - secondo quanto ricostruito dal sito - sta scontando una condanna definitiva per droga ed è sotto processo nell’ambito di un’inchiesta che riguarda un’organizzazione criminale che gestiva i viaggi di migranti a bordo di gommoni veloci dalla Tunisia alle coste trapanesi. Le condizioni nel carcere Pagliarelli le aveva denunciate, secondo il sito, in aula quando aveva raccontato di essere stato denudato e costretto a dormire in un letto pieno di urina. Il suo legale, Carmina D’Agostino, a MeriodioNews.it ha raccontato: “Ho rivisto il mio assistito... e ho notato che ha dei lividi intorno alle orbite degli occhi e un taglio sul sopracciglio”. E ha aggiunto: “Il presidente ha sollecitato il Dap per un immediato trasferimento”. Pescara. Sì ai giochi donati dal papà carcerato in regime di 41bis di Marianna Gianforte Il Centro, 23 gennaio 2020 Detenuto della ‘ndragheta in 41bis può fare regali alla figlioletta: giudice abruzzese crea il precedente. Una stanza di 6 metri quadrati con una sedia per il detenuto e divisa in due dal vetro divisorio a tutta altezza, e una porta per consentire l’ingresso dei minori. Con sé soltanto un pacchetto di fazzoletti di carta e una bottiglietta d’acqua. In questo contesto si svolge l’incontro tra i genitori detenuti in regime di 41bis e i loro figli all’interno del carcere dell’Aquila. O meglio: si svolgeva, perché a partire dal 14 gennaio scorso, grazie a una battaglia legale avviata quasi due anni fa dall’avvocata del foro dell’Aquila Nicoletta Ortenzi, che difende un detenuto delle cosiddette “Costarelle”, è possibile per i reclusi portare anche piccoli giochi o dolci durante i colloqui con i famigliari minori di 12 anni. A firmare l’ordinanza, riconoscendo la validità del ricorso intentato dal detenuto, padre di una bimba di quasi 5 anni, è stato il Tribunale di sorveglianza dell’Aquila riunito in Camera di consiglio e presieduto dalla magistrata Francesca Del Villano. Una vittoria che potrebbe sembrare un vezzo per detenuti che devono scontare il carcere duro, ma che, invece, come sostiene l’avvocata Ortenzi, riguarda un passo avanti verso l’allargamento dei diritti dei genitori detenuti in 41bis e soprattutto tutela il diritto dei bambini a un’infanzia serena. “Qualcosa che va al di là della violazione della normativa del settore e che sconfina nella violazione del principio di umanità della pena”, spiega la legale. Parte dunque dall’Abruzzo e dal carcere di massima sicurezza dell’Aquila che ospita 166 detenuti al 41bis provenienti da tutto il territorio nazionale, un approccio diverso alla detenzione di massima sicurezza e che potrebbe riguardare anche altri istituti di pena in Italia, come conferma la legale. La storia è quella di Paolo (nome di fantasia, per tutelare la privacy della figlioletta), classe 1988. Un ragazzo del Meridione, una vita segnata da una scia di delitti che lo fanno finire in carcere giovanissimo, prima nella sua provincia, poi nel capoluogo abruzzese, nel carcere in cui scontano la pena gli assassini di Giovanni Falcone, Marco Biagi, Massimo D’Antona, e dov’è reclusa l’ex brigatista Nadia Lioce. Estorsione, rapina, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti: questi i reati commessi da Paolo, per i quali la crocetta della fine pena è posta nel 2028. Il ragazzo è padre di una bimba di circa 5 anni, Viola, anche questo un nome di fantasia, nata quando lui era già in carcere. Il rapporto tra figlia e padre è sempre avvenuto attraverso il filtro della reclusione, incontri fugaci di un’ora, al massimo due. Sempre più difficile, con il passare degli anni, mantenere un rapporto con la bambina, “che incomincia ad annoiarsi nella stanzetta asettica con quello che potrebbe essere quasi uno sconosciuto”, spiega l’avvocata. “Tutto inizia con una circolare ministeriale del 2017”, ricostruisce l’avvocata, “e che in due articoli prevede forti restrizioni per i detenuti che incontrano i loro famigliari. Nel caso specifico, l’articolo 16 prevede che i piccoli doni che i detenuti vogliono fare ai loro figli debbano essere consegnati dagli agenti penitenziari soltanto alla fine dell’incontro”. Alla circolare si è opposto Paolo, che ha visto così peggiorare la qualità del rapporto con la sua bambina, che vede di rado; due le istanze presentate al magistrato di Sorveglianza nell’aprile del 2018. “Il mio assistito ha evidenziato il pregiudizio all’esercizio del suo diritto genitoriale a mantenere rapporti con la figlia, circostanza per cui si violano gli articoli 2 e 3 della Costituzione italiana sul rispetto della dignità umana, l’articolo 27 che promuove il principio della finalità rieducativa della pena, la Convenzione europea sui diritti dell’uomo e la Risoluzione europea del 2008, in cui si ribadisce l’importanza del rispetto dei diritti del fanciullo”. La casa circondariale dell’Aquila ad agosto si è opposta all’ordinanza del magistrato di Sorveglianza che aveva accolto il reclamo dell’avvocata Ortenzi, la quale a dicembre ha dovuto nuovamente rappresentare la questione davanti al Tribunale. Con l’ordinanza di gennaio il Tribunale ha rigettato l’impugnazione del carcere ordinando di consentire al padre di acquistare giochi e dolci da consegnare direttamente alla figlia durante i colloqui in carcere. Venezia. Assemblea e sciopero dei penalisti il 28 gennaio Il Gazzettino, 23 gennaio 2020 I penalisti scendono nuovamente in sciopero contro la riforma della prescrizione. L’appuntamento è fissato per il 28 gennaio, giorno in cui gli avvocati si asterranno dalle udienze. A Venezia la Camera penale ha organizzato per l’occasione un’assemblea, alle 10, alla Cittadella della giustizia di piazzale Roma, nel corso della quale il professor Emanuele Fragasso parlerà della riforma Bonafede con una relazione su: “Il diritto penale diventa anche perpetuo oltre che totale”. Nel frattempo la Camera penale veneziana, presieduta da Renzo Fogliata, è pienamente operativa dopo il rinnovo delle cariche. Nel corso della prima riunione, il direttivo ha nominato vicepresidente Simone Zancani, segretario Luca Mandro e tesoriera Claudia De Martin. All’avvocatessa Federica Bertocco è stata attribuita delega per i rapporti istituzionali. Rinnovate le commissioni: Giurisprudenza sarà gestita da Fabiana Danesin (referente per il direttivo Claudia De Martin); Cultura da Carmela Parziale (Federica Bertocco); Aggiornamento professionale da Dimitri Girotto, (Ilenia Rosteghin); Carcere da Agnese Sbraccia (Massimiliano Cristofoli Prat); Europa da Luca Fonte (Simone Zancani); Diritti fondamentali da Monica Gazzola (Luca Mandro); Vita sociale da Daniele Vianello (Augusto Palese). Ilaria Rosteghin sarà referente anche per le Scuole: la Scuola per le difese d’ufficio sarà gestita da Marzia Bellodi; Scuola sul processo penale minorile da Paola Bosio; Alta formazione del penalista da Giovanni Coli. Ricostituita, infine, la Commissione per la promozione dei giovani avvocati, responsabile Damiano Danesin (Sarah Franchini). Costituito anche un gruppo di lavoro per la riforma dello statuto, presieduto da Tito Bortolato e Daniele Grasso, e composto da Cristiana Cagnin, Fabio Schiavariello, Marco Vassallo, Luca Mandro e Ilenia Rosteghin. Viterbo. Ok all’istituzione del Garante comunale per i diritti dei detenuti di Daniele Camilli tusciaweb.it, 23 gennaio 2020 La prima Commissione (Affari generali) dà il via libera alla figura del garante comunale per i diritti dei detenuti. Una conquista storica per la città di Viterbo. L’approvazione, all’unanimità, ieri mattina, durante la seduta della commissione nell’aula consiliare di Palazzo dei Priori. La proposta è dei consiglieri Giacomo Barelli (Forza civica) e Massimo Erbetti (Movimento 5 stelle). Adesso la palla passa al prossimo consiglio comunale per l’approvazione definitiva. “Il lavoro fatto in commissione - ha detto Barelli - è la migliore risposta che il consiglio comunale potesse dare alla drammatica emergenza del carcere di Mammagialla. Non posso che ringraziare i consiglieri Massimo Erbetti e Andrea Micci che con me hanno portato avanti questa iniziativa. La prova che la politica, quando lavora su problematiche concrete con competenza e capacità, produce effetti positivi per la città. Al di là di ogni schieramento”. Il garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale è un’autorità di garanzia, collegiale e indipendente, che ha la funzione di vigilare su tutte le forme di privazione della libertà. Dagli istituti di pena alla custodia nei luoghi di polizia, fino alla permanenza nei centri di identificazione ed espulsione, alle residenze di esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche ai trattamenti sanitari obbligatori. “Sul territorio - spiega Erbetti - operano anche i garanti provinciali e comunali che ricevono segnalazioni sul mancato rispetto della normativa penitenziaria e sui diritti violati o parzialmente attuati dei detenuti, rivolgendosi all’autorità competente per chiedere chiarimenti o spiegazioni, sollecitando inoltre gli adempimenti o le misure necessarie. Il loro operato si differenzia pertanto nettamente, per natura e funzioni, da quello degli organi di ispezione amministrativa interna e della stessa magistratura di sorveglianza”. Il garante per i diritti dei detenuti di Viterbo verrà nominato dal sindaco, “scegliendo - come sta scritto nel provvedimento approvato dalla prima commissione - fra persone di indiscusso prestigio e di notoria fama nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani e delle attività sociali negli istituti di prevenzione e pena e nei centri di servizio sociale”. Il garante, che svolgerà la propria attività gratuitamente, “resta in carica 5 anni”. L’incarico può essere rinnovato una sola volta. La figura del garante, istituito per la prima volta in Svezia nel 1809 con il compito di sorvegliare l’applicazione delle leggi e dei regolamenti da parte dei giudici e degli ufficiali, nella seconda metà dell’Ottocento si è poi trasformato in un organo di controllo della pubblica amministrazione e di difesa del cittadino contro ogni abuso. “Il garante comunale - prosegue Erbetti - può effettuare colloqui con i detenuti e visitare gli istituti penitenziari senza autorizzazione. Promuove inoltre l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone private della libertà personale”. Una scelta, quella di istituire la figura del garante, “dettata anche - ha sottolineato Barelli - dalla situazione esplosiva del carcere di Mammagialla che conta 612 detenuti per una capienza di 432 con un sovraffollamento di oltre il 40%, con 100 detenuti psichiatrici, di cui 20 definiti acuti”. Il carcere di Mammagialla conta inoltre 175 boss mafiosi di secondo livello a fronte di una capienza di 150. “Solo nel 2018 - sottolinea Barelli - si sono verificati ben tre suicidi e nel 2019 un omicidio. Tutto ciò con una carenza di personale sorvegliante di circa 40 agenti in meno rispetto a quanti invece servirebbero. L’altissimo tasso di disagio sociale che caratterizza la popolazione carceraria viterbese evidenzia una situazione che rende indispensabile il potenziamento delle opportunità di inserimento sociale anche con l’obiettivo di prevenire nuovi reati”. Torino. Chiude il ristorante Liberamensa: convenzione non rinnovata di Davide Petrizzelli torinotoday.it, 23 gennaio 2020 “Liberamensa”, il ristorante del carcere di Torino (che gestisce anche lo spaccio all’interno del penitenziario), ha chiuso. La convenzione, scaduta a fine 2019, non è stata rinnovata. Per il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria non ci sono più le condizioni per una conferma dell’accordo. Anche considerate le inadempienze nei versamenti semestrali, che sarebbero stati effettuati solo di recente e dopo numerosi solleciti. Il ristorante, destinato alla pausa pranzo di chi lavora nel carcere e aperto al pubblico venerdì e sabato sera, che impegnava anche alcuni detenuti, era stato inaugurato nel 2016 e veniva considerato tra i progetti di reinserimento più innovativi in Italia. Ma ora, secondo il Dap, non ci sono le condizioni per una proroga della convenzione. Si tornerà alla gestione diretta e il provveditore ha annunciato che verranno potenziati i distributori automatici di bevande e snack all’interno del carcere. Dalla cooperativa, che gestisce anche il bar del Palagiustizia in collaborazione con altri soggetti, arriva un “no comment”. Nei mesi scorsi, l’Ente di assistenza per il personale dell’amministrazione penitenziaria aveva fatto il punto sulla gestione esterna degli spazi di ristoro all’interno delle carceri (attivi in 19 istituti a fronte di 120 gestioni interne) deliberando che le cooperative esterne non devono essere morose (pena la risoluzione del contratto) e che eventuali rinnovi dovranno essere valutati in termini di convenienza. Siena e le sue contrade in un libro di fiabe scritto dai detenuti di Sergio La Montagna* gnewsonline.it, 23 gennaio 2020 Scritto da alcuni detenuti della Casa Circondariale di Siena, “17 storie per 17 contrade” è un libro che presenta diversi aspetti di notevole interesse. Nella prefazione di Michele Campanini, curatore della raccolta, è scritto che il libro racconta “storie fantastiche, ma con richiami a Siena e alle sue tradizioni, nate da un laboratorio di scrittura iniziato per caso e durato quasi un anno, che ha portato alla creazione di racconti unici nei quali confluiscono anche culture e tradizioni lontane”. Il libro nasce tra i banchi di scuola e pertanto dà concreta attuazione ai protocolli d’intesa sottoscritti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria con il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, finalizzati non sono solo a potenziare le attività scolastiche all’interno delle carceri, ma anche a incentivare la creatività e le potenzialità intellettuali ed espressive dei detenuti. Michele Campanini ha stimolato, appunto, i suoi allievi a dare sfogo alla fantasia e all’immaginazione, coinvolgendo nel suo percorso didattico anche detenuti stranieri, provenienti da Paesi, per lo più africani, popolati da alcuni animali che incarnano i simboli delle contrade della nostra città. Scrivere fiabe incentrate sui simboli di una tradizione secolare e profondamente sentita come quella delle contrade di Siena è stato per i detenuti un’occasione per sentirsi parte della vita cittadina, per affacciarsi su una realtà affascinante, fatta di riti e tradizioni antiche dalla quale rischiavano di rimanere estranei. È in questo modo che l’obiettivo, da sempre ricercato, dell’integrazione del carcere con il tessuto sociale e territoriale riesce a trovare il modo di realizzarsi in pieno. Come si può immaginare, esiste una copiosa bibliografia sulle contrade e sulla storia di Siena: tuttavia il libro ha anche il pregio di essere originale, poiché sinora mai era stata “esplorata” la realtà cittadina attraverso il racconto unico che sa offrire la fiaba. Ed ancora, è significativo che, come esige la narrazione fiabesca, tutte le storie vedano sconfitto il male, quello stesso male che i detenuti hanno conosciuto ed attraversato durante la loro esistenza e che soccombe nei racconti al cospetto della bontà e dell’intelligenza di animali o di esseri soprannaturali. Sfogliando le pagine del libro ci si accorge subito che anche la veste grafica è stata particolarmente curata. Tutte le storie sono state illustrate dagli stessi detenuti con tavole colorate realizzate nell’ambito del laboratorio di pittura. Ne è nata una perfetta simbiosi tra scritto e figurato, impreziosita dal disegno di copertina di Emilio Giannelli che conferisce un valore aggiunto alla pubblicazione. Sinora i riscontri in città sono positivi: le principali librerie cittadine espongono il libro in vetrina e pare che le vendite, soprattutto nel periodo natalizio, siano state più che buone. Ma al di là dell’esito commerciale, è il percorso compiuto e l’obiettivo raggiunto a farci sentire tutti molto soddisfatti: detenuti, operatori e personale. Una piccola, bella fiaba anche questa. *Direttore della Casa Circondariale di Siena Milano. Il carcere “come occasione”, a San Vittore e Opera conoscersi per capirsi di Federico Dedori Il Giorno, 23 gennaio 2020 Musica, inclusione e pluralismo religioso per aiutare i detenuti. Al Museo Diocesano Carlo Maria Martini si è tenuta la conclusione della prima fase del progetto Simurgh. “Il senso di questo progetto è molto profondo e suggestivo - spiega monsignor Luca Bressan, vicario episcopale della Diocesi di Milano - sono tre i punti fondamentali su cui ci siamo focalizzati: il riconoscimento, che ha permesso la nascita di nuove amicizie tra detenuti e non solo; la gratitudine, perché tutti abbiamo qualcosa da imparare l’uno dall’altro; l’importanza di continuare il cammino già iniziato”. Sono stati 200 i detenuti coinvolti in 3 anni di lavoro su 9 penitenziari: San Vittore, Opera, Pavia, Brescia, Como, Cremona, Vigevano, Monza e Bergamo. “Dai detenuti abbiamo avuto reazioni differenti, alcuni erano più interessati degli altri - conclude monsignor Luca Bressan - complessivamente però l’accoglienza è stata davvero positiva; questo lavoro ci ha permesso di prevenire anche forme di radicalizzazione”. Non è stato solo un semplice evento quello andato in scena nel tardo pomeriggio di ieri (21 gennaio 2020, ndr) ma un vero e proprio spettacolo. Secchi, tubi dei rubinetti suonati da suolette, padelle, maracas, i detenuti hanno realizzato uno show davvero unico. A fare da regista Sebastiano Ruggeri: “La musica è stata un mezzo, una sorta di metafora dell’interazione umana che abbiamo unito attraverso questa arte”. Terminato lo spettacolo una lunga standing ovation da tutta la platea. Inizialmente i due percorsi sono nati separatamente, da una parte quello sul pluralismo religioso e dall’altra l’integrazione attraverso il laboratorio musicale. “È stato un momento molto importante - spiega Francesco dopo essersi esibito - tutti uniti non avevamo una nazionalità, ho scoperto culture che prima ignoravo, eravamo un grande arcobaleno”. “Oggi quasi la metà dei detenuti nei penitenziari italiani è di fede diversa da quella cattolica; riconoscere effettivamente la libertà di culto ai carcerati significa prendere atto della realtà e quindi evitare degenerazioni, come i fenomeni di radicalizzazione, pericolosi all’interno e fuori, nella società civile, al termine delle misure restrittive”, aggiunge Luciano Gualzetti, direttore di Caritas ambrosiana. Fa eco la professoressa Daniela Milani, coordinatrice del progetto: “Attraverso questi incontri si è favorita una migliore conoscenza delle tradizioni religiose e culturali fornendo al personale carcerario strumenti per comprendere meglio”. Milano. Una spiritualità libera, anche in carcere di Annamaria Braccini chiesadimilano.it, 23 gennaio 2020 Il reading “La prima libertà”, portato in scena da alcuni detenuti al Museo diocesano, ha suggellato il progetto triennale che ha coinvolto diverse istituzioni nel riconoscimento e nella promozione del pluralismo religioso negli istituti di pena lombardi. “Un punto di rottura, ecco dove sono. Una transizione tra ciò che ero e ciò che diventerò. Il viaggio dentro di noi è infinito, primordiale”. “Abbiamo ora l’estremo bisogno di ricominciare, di trovare una nuova identità, a costo di altre sofferenze. Affiorano i giudizi e i pregiudizi, la paura del dopo, di quello che accadrà, come se entrassimo in una galleria buia, senza sapere cosa ci attenderà all’uscita. Dobbiamo rischiare, ed ecco, affiora un cambiamento culturale”. Solo due delle riflessioni di alcuni detenuti, nate da un progetto triennale che si conclude per ripartire con altrettanto impegno e slancio, nella consapevolezza dell’importanza che riveste oggi, sempre più, la conoscenza reciproca anche a livello religioso. Specie se non ci si può scegliere il vicino di stanza. Così come accade ai carcerati - una ventina -, protagonisti assoluti del reading “La prima libertà. Vivere la religione in carcere” che, al Museo diocesano “Carlo Maria Martini”, ha concluso i tre anni del progetto “Simurgh”, cofinanziato dalla Fondazione Cariplo e promosso dall’Università degli Studi di Milano, dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Provveditorato regionale della Lombardia, dalla Comunità Ebraica di Milano, dalla Comunità Religiosa Islamica Italiana (Coreis) di Milano, dalla Caritas Ambrosiana, dalla Veneranda Biblioteca Ambrosiana e dall’Istituto di Studi di Buddismo Tibetano di Milano “Ghe Pel Ling”. Tante forze coalizzatesi per dare voce, attraverso laboratori formativi, alla necessità di libertà religiosa e di conoscenza delle fedi, con un percorso che ha coinvolto 200 detenuti e 259 operatori carcerari istituzionali e non, con 27 incontri rivolti ai reclusi e altrettanti al personale, in nove carceri lombarde. Pavia, Brescia, Milano San Vittore (2017), Vigevano, Como, Cremona (2018), Monza, Bergamo e Opera (2019). I detenuti, appartenenti a diverse confessioni religiose, sono stati così chiamati a elaborare testi, secondo la loro spiritualità, a partire dall’antico poema persiano “Simurgh, la conferenza degli uccelli”, che ha dato il titolo all’intera iniziativa. “Il cardinale Martini diceva che “per capire il bello è necessario vedere il dolore capace di condividere l’amore”. È, quindi, molto significativo essere al Museo a lui intitolato - nota il vicario episcopale, monsignor Luca Bressan, nel suo intervento di apertura. Abbiamo voluto iniziare con una foto di gruppo, perché le fedi - secondo il significato etimologico latino del termine - sono istituzioni che rispondono a un patto, creando legami. Sono tre i motivi che ci permettono di riconoscerci: il percorso ci ha insegnato a essere un solo popolo e una famiglia; la gratitudine e l’aver generato così tanto frutto per cui vale la pena continuare”. Nadia Righi, direttrice del Museo, aggiunge: “Stiamo riflettendo con una mostra di Margherita Lazzati (“Fotografie in carcere. Manifestazioni della libertà religiosa) in cui si illustra il tema con raffinatezza e delicatezza. Tante scuole sono venute a visitare la rassegna e questa è una bella occasione per sentirci tutti sulla stessa strada”. “Grazie a un progetto come questo si può riconquistare una libertà spirituale interrogandosi sul senso della vita, esercitando o riscoprendo la propria religione”, osserva Marilisa D’Amico, docente di Diritto Costituzionale e prorettore della Statale, che richiama l’articolo 19 della Costituzione, a garanzia della libertà religiosa e di culto, e ricorda l’istituzione a San Vittore della “Scuola delle religioni” che ha già compiuto il primo anno di attività. Poi il reading, mentre si alternano suggestivi intermezzi musicali e le immagini, in bianco e nero, delle fotografie di Lazzati. Secche, ritmate, le frasi: “Fatichiamo a volare perché abbiamo perso la strada. Abbiamo trovato un sacco di scuse pe non guardarci nel cuore e negli occhi, ma ora possiamo cambiare il nostro destino”. E, ancora: “Iniziamo stando uniti. Nonostante tutte le nostre differenze, procediamo insieme. Partiamo da una stretta di mano. L’unione, il rispetto, la fatica sono presupposti fondamentali per questo viaggio”. Giovanna Longo, responsabile dell’Ufficio detenuti del Provveditorato regionale Amministrazione Penitenziaria della Lombardia, definisce il significato dell’itinerario realizzato su tre linee di intervento. “La prima rivolta al personale coinvolto nella sperimentazione - compresi educatori, mediatori linguistici, Cappellani -, con uno sguardo antropologico, sociologico-giuridico ed etico- formativo. Percorso che è stato accompagnato da docenti universitari ed esperti. Inoltre, la selezione di un gruppo di detenuti di più religioni e, infine, la valorizzazione dei laboratori, soprattutto espressivo-culturali, con l’intento di promuovere una nuova cittadinanza e la coesione sociale”. Parole cui fa eco Daniela Milani, coordinatrice del progetto, nelle conclusioni. “Oggi quasi la metà dei detenuti nei penitenziari italiani professa fedi diverse. Questo è un momento di snodo, ma dobbiamo chiederci cosa fare domani. Occorre rifiutare la diversità con la quale facciamo quotidianamente i conti, non solo in carcere, e accettare che sia un valore”. Hamid Roberto Di Stefano, della Comunità Religiosa Islamica Italiana, sottolinea il ruolo del dialogo interreligioso, “che ci vede, a Milano, molto impegnati. Tuttavia, sulle carceri non avevamo fatto niente. Quando ci siamo resi conto che “dentro” non è un mondo a parte, siamo riusciti in qualcosa che ha smosso, anzitutto, le nostre coscienze e ha avuto anche ricadute istituzionali”. Infine, la performance musicale - applauditissima dal folto pubblico - realizzata da 16 reclusi del Laboratorio musicale del penitenziato di Monza, curato da Max Ruggeri e Sebastiano Longoni. Tubi, pentole, barattoli di vernice usati come percussioni in un crescendo travolgente, dal titolo “I ritmi dal mondo”. Decreti sicurezza, una fabbrica di migranti irregolari di Adriana Pollice Il Manifesto, 23 gennaio 2020 Amnesty International. Ghettizzazione e povertà, nel rapporto “I sommersi dell’accoglienza” emerge il quadro di instabilità che sta cancellando la possibilità di un percorso di inclusione sostenibile Manifestazione a Torino contro il decreto sicurezza. I decreti sicurezza voluti dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini hanno peggiorato il sistema di accoglienza in Italia e stanno generando ghettizzazione e povertà, sia economica che sociale. Con il conseguente aumento delle vittime dello sfruttamento lavorativo e delle attività criminali. In particolare, le misure che escludono i richiedenti asilo dal sistema dell’accoglienza e l’abolizione della protezione umanitaria privano molte persone di uno status legale, favorendo di fatto il rischio di marginalità sociale ed economica. È quanto spiega il report I sommersi dell’accoglienza curato dal ricercatore e sociologo Marco Omizzolo per Amnesty International Italia. “Entro quest’anno il numero di migranti irregolari in Italia potrebbe superare quota 670 mila - si legge -. Un numero più che doppio rispetto a cinque anni fa, quando i migranti irregolari stimati erano meno di 300 mila. Ai ritmi attuali, i rimpatri dei migranti senza permesso di soggiorno avranno un effetto certamente marginale. Per rimpatriarli tutti, infatti, sarebbero necessari 90 anni e solo a condizione che non arrivi più alcun irregolare. Si tratta di un’ipotesi irrealizzabile”. Non solo. Con il taglio dei finanziamenti previsto nel decreto Sicurezza, per i piccoli e i grandi centri dedicati alla prima accoglienza “i servizi per l’inclusione non rientrano più tra le spese sostenibili. L’assistenza sanitaria alla persona viene fortemente ridimensionata, con un crollo delle prestazioni minime richieste e del personale deputato al loro svolgimento: i centri di accoglienza collettiva subiscono un taglio dei finanziamenti pro die pro capite fino al 28%, da 35 euro a 25,25 euro, per le strutture in grado di accogliere tra i 51 e i 300 richiedenti asilo. Ancora più penalizzata risulta l’accoglienza diffusa con tagli fino al 39%”. Amnesty International chiede al governo modifiche urgenti alla normativa vigente: assicurare a tutte le persone che entrano in Italia l’esercizio reale del diritto di chiedere protezione e accoglienza; adottare misure per impedire ai beneficiari di protezione umanitaria di perdere il proprio status per evitare che precipitino in condizioni di marginalità e sfruttamento; garantire la regolarizzazione per coloro che sono finiti in condizioni di illegalità per gli effetti del decreto. E ancora: consentire la registrazione anagrafica anche ai richiedenti asilo; ristabilire servizi professionali per i percorsi di inclusione come le consulenza legali. Per capire gli effetti della norma voluta da Salvini basta controllare gli ultimi bandi per l’accoglienza: non prevedono più la necessità dell’insegnamento della lingua italiana o il supporto alla preparazione per l’audizione in Commissione territoriale per la richiesta di asilo, né la formazione professionale e la gestione del tempo libero. Inoltre, il decreto Sicurezza impedisce l’accesso al sistema Siproimi (gli ex Sprar) ai richiedenti asilo, una scelta che aumenta la possibilità che molte di queste persone rimangano nella sfera della prima accoglienza e quindi in situazione di particolare vulnerabilità. Infine, è stata abolita la protezione umanitaria: numerosi individui, che in precedenza sarebbero stati regolari, si ritrovano in una condizione di illegalità e a rischio espulsione. “Queste misure hanno un impatto devastante sulla vita delle persone presenti sul territorio italiano, togliendo loro un’identità, trasformandole in fantasmi, privandole di alloggio o di cure mediche. Oltre a non rappresentare la soluzione di alcun problema sono semplicemente disumane” ha ribadito Gianni Rufini, direttore di Amnesty. Guantánamo. “Appeso ai polsi e torturato per 540 giorni, ma facevo solo il tassista a Karachi” di Ahmed Rabbani* La Repubblica, 23 gennaio 2020 La testimonianza sconcertante raccolta da Reprieve, organismo formato da avvocati, che fornisce supporto legale e investigativo ai reclusi nel centro di detenzione Usa. A proposito di Guantánamo, c’è una testimonianza sconcertante sul sito dell’organizzazione umanitaria Reprieve, organismo formato da avvocati, difensori dei diritti umani, fondato nel 1999 da un giurista britannico, Clive Stafford Smith, che fornisce supporto legale e investigativo gratuito ad alcune delle persone più vulnerabili del mondo: quelle che si trovano ad affrontare una detenzione da 18 anni, senza essere mai stati accusati di nulla, vittime delle politiche abusive contro il terrorismo degli Stati Uniti. L’azione di questi avvocati e investigatori sono supportati da una comunità di persone di tutto il mondo. ---- Non conoscevo i nomi di Bruce Jessen e James Mitchell quando è iniziato questo capitolo della vita. Ma ora, penso a loro spesso. E voglio assicurarmi che anche tu lo faccia. (James Mitchell è uno psicologo statunitense, ex membro dell’Aeronautica degli Stati Uniti, che fondò assieme a Bruce Jessen una società che fra il 2002 e il 2009 ricevette dalla CIA un contratto da 81 milioni di dollari per ideare e sperimentare “forme legalizzate di tortura”, per “interrogatori avanzati” n.d.r). Ero un tassista a Karachi. Mi chiamo Ahmed Rabbani. Sono una delle sette persone rinchiuse in Guantánamo e collaboro con gli investigatori, gli avvocati e gli attivisti di Reprieve. Davvero, non avrei bisogno del loro aiuto, perché non dovrei essere qui. Non ero nessuno, ero solo un tassista di Karachi. Vorrei essere ancora quel tassista. Vorrei conoscere mio figlio, che è nato poco prima di essere rapito. Vorrei non aver mai sentito parlare di Jessen e Mitchell. Invece, sono un “prigioniero per sempre” quaggiù a Guantánamo. Sono qui da 17 anni. Non sono mai stato accusato di un crimine. Ma ancora: eccomi qui. La tortura progettata. Scrivo perché Jessen e Mitchell stanno testimoniando questa settimana nelle commissioni militari di Guantánamo sul loro progetto di tortura. Beh, non lo chiamano il loro “progetto di tortura”, ovviamente, ma io lo faccio. Sono i due psicologi responsabili dell’elaborazione delle “tecniche di interrogatorio potenziate”, utilizzate durante la cosiddetta “guerra al terrorismo”. I metodi che sono stati usati su di me e sui miei colleghi qui a Guantánamo, molti dei quali non sono mai stati accusati di un crimine. Torturatori nel XXI secolo. Il fatto è che Jessen e Mitchell hanno portato torture nel ventunesimo secolo. Hanno formato una società che è stata pagata 81 milioni di dollari per quel lavoro. Bella somma, lo so. E forse è per questo che rimangono non dispiaciuti per il loro ruolo nella storia. Forse no. Il loro avvocato, James T. Smith, afferma che i suoi clienti erano “dipendenti pubblici le cui azioni... erano autorizzate dal governo degli Stati Uniti, legali e compiute nel tentativo di proteggere vite innocenti”. Ma io sono - e lo sono sempre stato - anche innocente. Chi è stato salvato torturandomi? Nessuno. Stavo pensando ai miei affari a Karachi quando sono stato rapito e venduto agli Stati Uniti per una generosità da parte delle autorità pakistane, che erano convinte che fossi un uomo di nome Hassan Ghul. Gli Stati Uniti in seguito hanno catturato il vero Ghul. Sottoposto a 540 giorni di tortura. Sono stato ancora sottoposto alle “tecniche” di Jessen e Mitchell per 540 giorni. Queste tecniche includevano la sospensione del mio corpo, appeso per i polsi e poi calato in un buco in modo che i miei piedi potessero a malapena toccare il terreno. Sono stato lasciato nell’oscurità totale per giorni, forse una settimana. Senza cibo. In punta di piedi nei miei escrementi. Più tardi ho appreso che questo era qualcosa che Jessen e Mitchell avevano raccolto dall’Inquisizione spagnola, lo “strappado” lo chiamavano. Il dolore era lancinante. L’impunita totale per Jessen e Mitchell. Jessen e Mitchell non hanno subito conseguenze per il loro impatto sulla mia vita e sulla vita di centinaia di altre persone. Nel frattempo, semplicemente per essere nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, vittima di un’identità errata, sono stato torturato, imprigionato e separato da mio figlio Jawad. Ha 17 anni ormai, e non l’ho mai incontrato, figuriamoci toccarlo. Il passato non può essere annullato. Ma possiamo provare a costruire un futuro migliore. Come inizio, vorrei che Jessen e Mitchell si fermassero vicino al mio cellulare questa settimana e dicessero quella semplice parola “scusa”. Sarò qui ad aspettare. Dopotutto, non mi è permesso andarmene. *Pakistano, ex tassista, detenuto di Guantánamo Haiti. Canto e capoeira. Il riscatto dei baby-detenuti di Lucia Capuzzi Avvenire, 23 gennaio 2020 Grazie a Caritas italiana, i 49 ragazzini reclusi nell’unico carcere minorile dell’isola hanno accesso a quanto non avevano mai visto prima. E ora si sono messi all’opera per creare una banda musicale Canto e capoeira. Disposti uno a fianco all’altro, i ragazzini fissano il pentagramma disegnato sulla lavagna. A un cenno dei maestri, Valentin e Semiro, le loro bocche si dischiudono. E, in coro, intonano “Fratelli d’Italia”, in perfetto italiano. Mentre cantano, si fa fatica a ricordarsi di essere all’interno del “Centre de reeducation des mineurs en conflit avec la loi” di Port-au-Prince, unico carcere per minori di Haiti. Nel resto del Paese, gli adolescenti vengono rinchiusi negli stessi penitenziari degli adulti, sebbene in sezioni separate. Almeno in teoria. Con oltre 10.500 detenuti - i tre quarti in attesa di giudizio - il Paese più povero d’Occidente è anche il secondo al mondo - dopo le Filippine - per sovraffollamento carcerario: 454 per cento, secondo l’Institute for criminal policy research dell’Università di Londra. Ammassati in cento in celle fatte per venti persone, uomini e donne attendono anni prima di andare in tribunale. L’attuale recessione economia ha peggiorato ulteriormente la situazione: il cibo, già scarso, arriva ormai con il contagocce, le medicine sono introvabili. Le morti per malnutrizione, malattie banali o risse non si contano: sono state 86 vittime solo negli ultimi nove mesi. I 49 baby reclusi del “centre” della capitale, almeno, hanno una struttura tutta per loro. Alcune delle sei maxi celle hanno perfino delle brandine. Soprattutto, grazie all’impegno delle Organizzazioni non governative e delle Chiese, gli adolescenti reclusi hanno a disposizione attività a cui “fuori”, nelle baraccopoli in cui sono nati e cresciuti, non hanno mai avuto accesso. Come i corsi di musica e capoeira, realizzati con il sostegno di Caritas italiana. Due volte alla settimana, i ragazzi si ritrovano nella sala centrale del “centre” per le lezioni. Stavolta sono più eccitati del solito. È il momento di mostrare quanto appreso finora ai visitatori, tra cui il responsabile di Caritas italiana ad Haiti, Alessandro Cadorin. Con indosso le uniformi verde acceso, tre adolescenti si avvicinano alla lavagna e, uno dopo l’altro, leggono spediti le note sul pentagramma. Un risultato non da poco: oltre un terzo di loro non è mai andato a scuola e non sa scrivere. Poi è la volta della capoeira. Guidati dall’insegnante, Michel, simulano l’antica lotta degli schiavi brasiliani a passo di danza. Il gran finale è il canto, accompagnati dal flauto suonato da uno dei ragazzi. “L’obiettivo è creare una banda del centro - spiega padre Jean Robert, responsabile della pastorale carceraria dell’arcidiocesi di Port-au-Prince. Ce la stiamo mettendo tutta e nei prossimi mesi speriamo di poterla La musica implica disciplina, lavoro di squadra, passione e impegno. Per questi ragazzini, è una preziosa scuola di vita”. Anderson annuisce: “Qui stiamo imparando cose che non abbiamo mai avuto la possibilità di conoscere. Forse, anche io posso avere un posto nella società”.