Il 41bis disumano, va cambiato: così è come tortura di Stefano Anastasia Il Riformista, 22 gennaio 2020 Intraprendere una seria riflessione sulla realtà del 41bis, abolire l’isolamento diurno e assumere tutte le misure necessarie per prevenire e accertare abusi e maltrattamenti in danno dei detenuti. Queste le raccomandazioni più rilevanti del Rapporto reso pubblico ieri dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) a seguito della visita ispettiva svoltasi nel marzo scorso, che aveva come focus proprio le misure e le condizioni di isolamento nel nostro sistema penitenziario. Con questo intento, il Cpt aveva visitato le carceri di Saluzzo, Biella, Opera e Viterbo, rilevando - come sempre - problemi specifici e criticità di ordine generale. Chi conosce il sistema penitenziario sa bene che le criticità sono molte, amplificate dal sovraffollamento ormai al livello di guardia (e il Cpt, seppure incidentalmente, lo rileva nelle premesse del suo Rapporto). E spesso le criticità dei singoli istituti evocano problemi di carattere generale. Talvolta, invece, sono tipiche della realtà locale e il Cpt non può che rilevarle. Così è stato per il carcere viterbese, dove il Cpt registra un numero di denunce di abusi e maltrattamenti significativamente più rilevante che negli altri istituti visitati e che sembra evidenziare peculiarità di quell’istituto, non a caso oggetto di ripetute segnalazioni all’autorità giudiziaria, anche da parte di chi scrive e del Garante nazionale delle persone private della libertà. Viceversa, di carattere generale sono i rilievi e le raccomandazioni del Comitato sui regimi di isolamento e, specificamente, sul 41bis. Senza mezzi termini, il Comitato raccomanda all’Italia l’abolizione dell’isolamento diurno ancora previsto dal codice penale come pena accessoria dell’ergastolo e che costringe immotivatamente detenuti già lungamente provati a un’afflizione ulteriore e priva di alcun significato che non sia meramente vessatorio. Ma anche l’isolamento indotto dal regime di sorveglianza particolare, adottato ripetutamente anche per lunghi periodi di tempo, appare ingiustificato rispetto alle sue motivazioni, e il Comitato chiede che chi vi sia sottoposto possa godere di almeno due ore al giorno di contatti umani significativi. Nell’uno come nell’altro caso, l’isolamento assoluto può comportare gravi danni alla salute psico-fisica dei detenuti che contrastano con le norme nazionali e internazionali che vietano i trattamenti e le pene inumani o degradanti. Inevitabilmente, all’esito di una visita ad hoc dedicata al monitoraggio delle forme di isolamento dei detenuti, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura dedica una parte del suo Rapporto ancora al regime di massima sicurezza del 41bis. Non dimentichiamo, infatti, che la minima socialità che ora il 41bis prevede (due ore d’aria o in saletta) è il frutto di specifiche raccomandazioni rivolte in passato al regime del 41bis, quando si presentava come una forma di isolamento totale e assoluto. Riprendendo i rilievi del Garante nazionale delle persone private della libertà, il Comitato europeo sollecita una riflessione sul regime del 41bis. Non sulla sua legittimità in astratto, ma sulla sua applicazione in concreto. Come si sa, il 41bis è misura estrema volta a interrompere le relazioni di comando di pericolosi capi nei confronti delle organizzazioni criminali di appartenenza. Si tratta indubbiamente di un regime che può pregiudicare fondamentali della persona, a partire da quello alla salute. Conseguentemente, dice il Cpt, va usato nelle strette necessità, per il tempo strettamente necessario e nella misura strettamente necessaria. Recentemente c’è voluta la Corte costituzionale per rimuovere il divieto di cottura dei cibi in 41bis, previsione priva di alcuna ragione di sicurezza e dunque esclusivamente afflittiva. Così ora il Cpt mette in dubbio che il rinnovo dei provvedimenti ministeriali di sottoposizione al 41bis (dopo i primi quattro, ogni due anni) siano sempre rigorosamente motivati, e anzi sembrano automatici nelle loro formulazioni standardizzate. Si arriva così ai casi limite di due detenuti con evidenti problemi di salute mentale su cui il Cpt chiede al Governo come possano essere considerati ancora capaci di comandare le organizzazioni criminali di originaria appartenenza. C’è poi l’annoso problema del 41bis nel 41bis, le cosiddette “aree riservate”, cui sono destinati i capi più capi degli altri, in cui le condizioni di vita e di socialità sono ancora più gravi (stanze prive di adeguata luce naturale, socialità ridotta all’aria con una sola persona) e che tradiscono un uso evidentemente eccessivo del 41bis, al punto da dover prefigurare un regime ulteriormente speciale per i pericolosissimi, in un crescendo di superlativi e di privazioni che sembra non avere fine. Ma anche i 41bis ordinari soffrono di limitazioni giudicate eccessive dagli ispettori europei, come le telefonate (dieci minuti) alternate ai colloqui (un’ora al mese) o la socialità alternata all’aria. Al contrario il Cpt raccomanda che ciascun detenuto al 41bis possa avere almeno quattro ore, all’aria o all’interno della sezione, per svolgere attività significative con il suo gruppo di socialità. Non sono cose nuove: le aveva già scritte il Cpt in precedenti rapporti, le ha scritte il Garante nazionale e, nella passata legislatura, la Commissione per i diritti umani del Senato. Oggi, il Cpt ci dice che così non va: serve una seria riflessione sulla realtà del 41bis, sulla sua finalità e, dunque, sui suoi limiti. Il monito del Consiglio d’Europa all’Italia: “Rivedere 41bis” di Chiara Nardinocchi La Repubblica, 22 gennaio 2020 A Viterbo e Biella violenze sui detenuti. Piedi bruciati, squadre di guardie penitenziarie addette a punire i carcerati. Sono solo alcune delle violazioni indicate nel rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura. Capriccioli (Radicali): “Ho chiesto formalmente al ministro Bonafede un incontro in cui poter riferire quanto avevo visto e ascoltato, senza tuttavia ricevere alcuna risposta”. Abolire l’isolamento diurno”, in quanto “anacronistica” e “priva di qualsiasi giustificazione”. A dover cambiare secondo il Cpt, Comitato anti tortura del Consiglio d’Europa inoltre sono anche altre forme di isolamento come il regime di 41bis per i condannati per mafia. Il giudizio arriva in un rapporto redatto in seguito a delle ispezioni avvenute a marzo. Sotto il mirino del pool sono finite le case circondariali di Milano Opera, Biella, Saluzzo e Viterbo. “Quello che emerge nel report - commenta Antigone - è una situazione che denunciamo da diverso tempo. La spinta riformatrice post sentenza Torreggiani si è fermata e questo ha prodotto e sta producendo un peggioramento delle condizioni di detenzione, con situazioni gravi sulle quali chi ha responsabilità politiche dovrebbe intervenire con urgenza”. Al limite. I casi di violenze nelle carceri di Viterbo e Biella “erano stati oggetto di esposti da parte della nostra associazione “ dice il presidente Patrizio Gonnella, auspicando che vi sia “una accelerazione” nelle indagini amministrativa e penale” e un “segnale esplicito da parte del governo intorno all’assoluto e categorico divieto di uso arbitrario della forza”. Nell’istituto penitenziario Mammagialla di Viterbo esisterebbe “uno schema di maltrattamenti inflitti deliberatamente” ai detenuti: dai piedi bruciati per verificare l’effettivo stato catatonico di alcuni detenuti, ai pugni, fino alle squadrette di agenti di polizia penitenziaria per interventi “punitivi”. Nel rapporto si legge che a Viterbo “alcuni detenuti, intervistati separatamente, hanno identificato specifici agenti e ispettori come autori di numerosi episodi di presunti maltrattamenti” e in diversi casi le lesioni osservate e le prove mediche registrate erano compatibili con le accuse di maltrattamenti. Se i fatti fossero accertati ne uscirebbe un quadro inquietante, di cui però già da tempo si conoscono i contorni, seppur incerti. Da tempo. Il Mammagialla negli ultimi anni è stato spesso al centro di polemiche per casi di violenze presunte o di morti sospette: dai due suicidi avvenuti tra il maggio e l’agosto del 2018 fino alle molte denunce di pestaggi, come quella del detenuto che nel dicembre dello stesso anno si è presentato al colloquio con la moglie col viso tumefatto, e ha dichiarato di essere stato picchiato per motivi inconsistenti da una decina di agenti. La Procura ha aperto diversi fascicoli, mentre la direzione e il personale continuano a negare tutte le accuse. Il consigliere regionale radicale Alessandro Capriccioli si occupa da tempo delle criticità del Mammagialla e raccolto moltissime denunce sulla situazione di enorme disagio che vivono i detenuti (ma anche gli agenti di polizia penitenziaria) dentro la struttura, cercando “di portare fuori dal carcere questi racconti” per verificarli. Per favorire un intervento istituzionale, circa tre mesi fa Capriccioli ha chiesto “formalmente al Ministro Bonafede un incontro in cui poter riferire quanto avevo visto e ascoltato, senza tuttavia ricevere alcuna risposta”. Come in tutte le carceri anche a Viterbo esiste un problema di sovraffollamento che si somma alla carenza di personale: “Il problema - continua Capriccioli - riguarda in primo luogo i diritti e la dignità dei detenuti, che in quanto tali sono affidati allo Stato. Ma non bisogna dimenticare i tanti agenti che operano in modo corretto, e non possono che essere danneggiati dalla presenza di ombre, sospetti e denunce di questa portata: fare piena luce su situazioni come quella del Mammagialla risponde a entrambe le esigenze, per questo mi auguro che dopo la pubblicazione del rapporto del Cpt il Ministro Bonafede decida di occuparsi di questa vicenda”. Torture al 41bis: dai pestaggi alle bruciature dei piedi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 gennaio 2020 Quattro Istituti nel mirino del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Un quadro sconvolgente quello dipinto dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) nel rapporto pubblicato ieri relativamente alle visite effettuate dal 12 al 22 marzo dell’anno scorso. Lo scopo della visita ad hoc del Cpt era di riesaminare la situazione dei detenuti collocati nei regimi di alta sicurezza, il regime speciale 41bis e prigionieri sottoposti a varie misure di isolamento e segregazione come l’isolamento (definito “anacronistico” dal comitato) imposto dal tribunale ai detenuti condannati all’ergastolo. Quattro sono gli istituti penitenziari visitati e in tutti sono stati riscontrati problemi di maltrattamento da parte degli agenti penitenziari. Non solo quello di Viterbo quindi, ma anche il carcere Opera di Milano, quello di Biella e quello di Saluzzo. All’inizio della visita, la delegazione era stata informata dalle autorità e da altri interlocutori come il Garante Nazionale e l’associazione Antigone riguardo alle preoccupazioni dell’aumento del numero di eventi critici, in particolare il numero di aggressioni contro il personale carcerario da parte di detenuti, episodi di autolesionismo e violenza tra detenuti. Questa tendenza è stata attribuita dalle autorità all’aumento del numero di detenuti con problemi di salute mentale causati, tra l’altro, dalla chiusura degli Opg e il limitato numero di posti disponibili nelle residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza, nonché dalle tensioni interetniche. Ma dalle visite, la delegazione del Cpt ha riscontrato anche gravi episodi di violenza da parte di alcuni agenti. Violenze che sarebbero avvenute al 41bis come la vicenda di una ispettrice femminile del carcere di Viterbo che avrebbe bruciato le dita dei piedi con un accendino per accertare se il detenuto stesse fingendo uno stato catatonico. Non solo. Il 26 gennaio 2019, un gruppo di sette ufficiali del Gom sarebbe entrato nella cella del medesimo detenuto e, dotati di equipaggiamento, l’avrebbero pestato. Sempre a Viterbo, un detenuto ha affermato che il 30 dicembre 2018 - dopo un alterco verbale con un agente che lo avrebbe fatto inciampare - lo stesso funzionario di polizia gli avrebbe inferto dei colpi in faccia con una chiave di metallo della porta e lo avrebbe preso a calci. Ma le violenze non sarebbero state commesse solamente al carcere di Viterbo. Secondo quanto riportato dal Comitato europeo, diversi maltrattamenti sarebbero avvenuti anche alle altre carceri visitate. C’è l’esempio di Saluzzo dove un detenuto con problemi psichiatrici si è ritrovato con le dita schiacciate a causa del blindo chiuso con forza dagli agenti. Oppure al carcere Opera di Milano dove un detenuto avrebbe ricevuto diversi schiaffi in faccia da un ispettore della polizia penitenziaria dopo averlo sorpreso con della droga. Gli schiaffi avrebbero danneggiato la sua protesi dentale. Al carcere di Biella (dove viene sottolineata la presenza di decine di internati tenuti senza una occupazione e tenuti in condizioni pessime come già denunciato da Il Dubbio), invece, un detenuto ha denunciato che dopo aver colpito un ufficiale del carcere con una scarpa nel corso di un alterco, sei membri del personale della polizia lo avrebbero trattenuto e gli avrebbero consegnato diversi pugni alla schiena e ai fianchi. In un certo numero di casi la delegazione del Cpt ha trovato i referti negli archivi medici che erano compatibili con le accuse di maltrattamenti che i detenuti avrebbero ricevuto. Dopo aver denunciato anche il considerevole sovraffollamento, il Cpt ha chiesto di riformare il 41bis. Nel rapporto si evidenzia che “ha incontrato almeno due detenuti al 41bis affetti da seri disordini mentali” e si chiede come le autorità “abbiano valutato la loro capacità di provare che non sono più in grado di controllare le organizzazioni criminali che capeggiavano e se sia necessario tenerli ancora sotto il regime del 41bis”. Inoltre stigmatizza l’utilizzo delle cosiddette aree riservate (un super 41bis), dove il collocamento del detenuto dovrebbe essere limitato nel tempo e soggetto a revisione mensile. Sovraffollamento, abusi e diritti violati: così le carceri diventano luoghi di tortura di Valentina Stella Left, 22 gennaio 2020 Un rapporto pubblicato il 21 gennaio dal Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura (Cpt) fotografa una situazione molto critica delle nostre carceri sotto diversi punti di vista. Innanzitutto da quello del sovraffollamento: “La popolazione carceraria italiana totale ha continuato ad aumentare in modo progressivo. Il Comitato invita nel suo rapporto le autorità italiane a garantire che ogni detenuto disponga di almeno 4 mq di spazio personale vitale nelle celle collettive e ad adoperarsi per promuovere maggiormente il ricorso a misure alternative alla detenzione”. Il quadro dipinto dal comitato è confermato anche dai dati statistici forniti dal ministero della Giustizia: al 31 dicembre 2019, a fronte di una capienza regolamentare di 50.688 posti, sono 60.769 i reclusi presenti, di cui circa 10.000 in attesa di primo giudizio. A ciò si aggiungono, stando ancora al rapporto, “carenze materiali riguardanti essenzialmente i locali, docce fatiscenti e insalubri, la struttura spartana ed austera dei cortili di passeggio e in alcuni casi la qualità scadente del cibo”. Il secondo punto di vista si focalizza sui maltrattamenti fisici inflitti ai detenuti da parte del personale di polizia penitenziaria: il rapporto illustra alcuni casi di percosse (anche nei confronti di un detenuto sottoposto a regime “41bis”) su cui sono state raccolte informazioni, in particolare nel carcere di Viterbo. “Tali maltrattamenti - prosegue il documento del Comitato - consistevano principalmente nell’estrarre i detenuti dalla loro cella a seguito di un evento critico e nell’infliggere loro calci, pugni e colpi di manganello in luoghi non coperti da telecamere a circuito chiuso. Il Comitato ha potuto osservare nelle cartelle cliniche dei detenuti in questione descrizioni di lesioni corporali considerate compatibili con le accuse di maltrattamento”. Fra i maltrattamenti denunciati e raccolti dal Cpt, c’è quello di bruciare i piedi a un detenuto soggetto al 41bis per verificare se stesse fingendo uno stato catatonico. Ma anche il caso di un detenuto preso a pugni da un gruppo di agenti verosimilmente per fargli dire come fosse riuscito a far entrare nel carcere un cellulare trovato nella sua cella. Nel suo rapporto, il Cpt scrive che a Viterbo “alcuni detenuti, intervistati separatamente, hanno identificato specifici agenti e ispettori come autori di numerosi episodi di presunti maltrattamenti e hanno parlato dell’esistenza di un gruppo informale d’intervento punitivo della polizia penitenziaria o squadretta”. Inoltre, l’organo di Strasburgo sostiene che, “anche se la maggior parte dei carcerati ha affermato di essere trattata correttamente”, la delegazione che ha condotto la visita ha “ricevuto denunce su un uso eccessivo della forza e maltrattamenti fisici” anche nelle carceri di Biella, Milano Opera e Saluzzo. Nel terzo punto, forse quello più significativo, il Cpt raccomanda di abolire la misura d’isolamento diurno (che può andare dai due mesi ai tre anni) imposta dal tribunale come sanzione penale accessoria per i detenuti condannati a reati che prevedono la pena dell’ergastolo. Il Comitato considera “anacronistico”, in particolare alla luce degli effetti dannosi che l’isolamento prolungato può avere su detenuti che intraprendono un percorso positivo di risocializzazione. In ultimo, il Cpt ha esaminato l’applicazione delle estese restrizioni imposte ai detenuti soggetti al regime detentivo speciale previsto dall’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario presso le carceri di Milano Opera e di Viterbo, “rilevando le carenti condizioni materiali di detenzione osservate nelle celle (come un accesso insufficiente alla luce naturale e una ventilazione inadeguata), nelle sale comuni (mobilio fatiscente e illuminazione artificiale non funzionante) e nei cortili adibiti al passeggio, la carenza di attività minime destinate a creare momenti propositivi e la limitata dimensione dei gruppi di socialità (un massimo di quattro componenti, ridotto a due nelle cosiddette aree riservate). Tutto ciò impone “di avviare una seria riflessione sul bilanciamento tra le esigenze di lotta alla criminalità organizzata e il rispetto del concetto della funzione rieducativa della pena, alla luce dell’articolo 27 della Costituzione italiana”. Sollecitata dai giornalisti, la senatrice a vita Liliana Segre dopo la sua visita nella casa circondariale milanese di San Vittore dove ha incontrato i reclusi e dove lei stessa fu trattenuta prima di essere deportata ad Auschwitz ha così commentato: “Io sono sempre perché ci sia umanità; poi le guardie carcerarie possono essere troppo poche per la quantità di detenuti che ci sono. E troppi detenuti sono in uno spazio che dovrebbe essere più grande. È questo il mio parere da cittadina che legge i giornali”. Alessandro Capriccioli, consigliere regionale del Lazio di +Europa che si è occupato da vicino delle problematiche del carcere di Viterbo, ha rivelato che “le percosse, i casi di violenza, i soprusi, l’esistenza di una “squadretta punitiva” mi sono stati raccontati da diversi detenuti ed ex detenuti, in diversi momenti e contesti. Ho cercato di portare fuori dal carcere questi racconti, chiedendo che se ne accertasse la veridicità e che se ne chiarissero i contorni, e tre mesi fa ho chiesto formalmente al Ministro Bonafede un incontro in cui poter riferire quanto avevo visto e ascoltato, senza tuttavia ricevere alcuna risposta”. Per l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, si tratta di una “notizia clamorosa” soprattutto in relazione al 41bis e denuncia: “Qui in Italia governo e Parlamento non fanno nulla” mostrando l’incremento dei detenuti dal 2016 nonostante la sentenza Torreggiani nel 2013 avesse condannato il nostro Paese per la violazione dell’articolo 3 della Cedu, concernente trattamenti inumani o degradanti subiti da sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione. Per Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone, “la spinta riformatrice post sentenza Torreggiani si è fermata e questo ha prodotto e sta producendo un peggioramento delle condizioni di detenzione, con situazioni gravi sulle quali chi ha responsabilità politiche dovrebbe intervenire con urgenza”. Detenuti trattati come cavie: nel 2020 in Abruzzo rinasce Lombroso di Rita Bernardini Il Riformista, 22 gennaio 2020 In quest’epoca di sdoganamento da parte dei rappresentanti della politica istituzionale dei peggiori sentimenti e comportamenti umani, ci tocca anche di apprendere la notizia che il Garante abruzzese delle persone private della libertà, il Prof. Gianmarco Cifaldi, abbia firmato un protocollo di collaborazione con l’università di Chieti e il direttore del locale carcere per “valutare le risposte comportamentali di detenuti sottoposti ad un determinato stimolo”, sperimentazione volta a “verificare i presupposti di un comportamento deviante mediante una metodica di stimolo-risposta attraverso una strumentazione non invasiva per verificare il grado di aggressività del detenuto”. L’attrezzatura - presumibilmente messa a disposizione dall’Università - si compone di una pedana posturo-stabilometrica per rilevare le variazioni del baricentro corporeo nei tre piani dello spazio; e di un’apparecchiatura che rileva la temperatura dei muscoli superficiali del viso”. La strumentazione rileverà i mutamenti della postura del detenuto e le variazioni della temperatura dei muscoli superficiali del viso quando egli verrà sottoposto alla visione di immagini emotivamente significative o emotivamente neutre. Il comunicato stampa, postato sul sito ufficiale della regione Abruzzo, non spiega minimamente cosa comporterà il fatto che ad un detenuto venga misurata l’intensità e il tipo della sua aggressività né, tanto meno, se egli potrà scegliere se partecipare al test o rifiutarsi. Fatto sta che un detenuto in carcere ha, comunque, ben poca autonomia considerato che è ristretto fra quattro mura 24 ore su 24 e costantemente sottoposto alla sorveglianza e all’autorità della polizia penitenziaria e di chiunque in carcere presti la propria opera. Allarmata per questa notizia dal sapore lombrosiano, mi sono immediatamente messa in contatto sia con il Provveditore Interregionale che con il capo del Dap, ringraziati ufficialmente dal Garante per la loro disponibilità a sostegno della sperimentazione. Sia il Provveditore Carmelo Cantone, sia il capo del Dap Francesco Basentini hanno categoricamente smentito l’assenso al protocollo… di più, mi hanno detto di ignorarne l’esistenza. Se così stanno le cose, vuol dire che siamo di fronte ad un’iniziativa autonoma del Garante Cifaldi che si è messo d’accordo con il Rettore dell’Università di Chieti e con il direttore del carcere, ma allora, c’è da chiedersi come mai non arrivi alcuna smentita da parte del Ministero della giustizia. Anche perché l’inquietante iniziativa sembra destinata ad allargarsi, se prendiamo per buone le dichiarazioni dello stesso Garante, il quale intervistato da Tvsei ha dichiarato che l’intenzione è quella di diffonderlo in tutta Italia e in Europa. E i fondi? Per il momento, si farà carico delle spese l’università ma, una volta collaudata la sperimentazione, questa verrà sovvenzionata dai fondi europei. Ha fatto benissimo il mio amico Maurizio Acerbo, promotore della legge che ha istituito in Abruzzo la figura del Garante dei detenuti, ad indignarsi ricordando a Cifaldi quali sono i compiti del garante previsti dalla legge regionale, fra i quali non c’è certamente quella di fare esperimenti sui detenuti già costretti a misurarsi quotidianamente con le illegalità del sistema penitenziario italiano. Il Segretario di Rifondazione ha ragione anche ad insospettirsi per un possibile conflitto di interessi, visto che Cifaldi è professore aggregato proprio presso l’Università D’Annunzio di Chieti-Pescara. Quanto a me (perdonatemi una nota personale) dispiace molto non essere stata eletta Garante in Abruzzo come desiderato da Marco Pannella fino agli ultimi dolorosi respiri della sua vita. Ho impresso quell’ultimo collegamento con Radio Radicale quando, rivolgendosi a me che ero lì accanto a lui con Matteo Angioli, disse che occorreva mettercela tutta per farmi eleggere, aggiungendo un gratificante “è pure cocciuta come me”. Certo, cocciuta. Per questo, la vicenda che ho raccontato, se non chiarita immediatamente, mi vedrà impegnata in adeguate iniziative per scongiurarla. Comunicato del Garante nazionale dei detenuti Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà esprime molto stupore per una nota dell’Agenzia di stampa quotidiana del Consiglio regionale dell’Abruzzo (Acra), pubblicata sul sito del Consiglio stesso, relativa al Protocollo d’intesa fra Garante regionale, Carcere di Chieti e Università “G. D’Annunzio” circa una cooperazione da realizzare in tema di “osservazione scientifica della personalità dei detenuti sex offender” e di “iniziative trattamentali, culturali e sportive” riguardanti gli stessi detenuti. Tale nota riporta dei virgolettati attribuiti al Garante regionale dei detenuti, Gianmarco Cifaldi, dai quali si evince un contenuto molto diverso da quello del testo del Protocollo sottoscritto. Seguendo il ragionamento del comunicato, la ricerca in cantiere avrebbe caratteristiche inaccettabili, quali la conduzione di “test” che comprendono “registrazioni posturo-stabilometriche e termografiche” di reazioni a “stimoli somministrati attraverso immagini emotivamente significative ed emotivamente neutre”, come tali in contrasto con standard e indicazioni anche del Comitato europeo contro la tortura (Cpt) oltre che dei principi su cui si basa l’azione del Garante nazionale. D’altra parte, il Garante prende nota della rassicurazione avuta dal Garante regionale Cifaldi circa la non corrispondenza tra il comunicato in questione e quanto programmato e concordato con l’Amministrazione. In questo quadro il Garante regionale ha assicurato la rimozione del comunicato dal sito del Consiglio regionale abruzzese. In ogni caso, il Garante nazionale chiarisce che non consentirebbe mai l’attuazione di una ricerca che abbia caratteristiche in contrasto con gli standard internazionali e con il rispetto assoluto dei diritti delle persone private della libertà, anche considerando i limiti che la situazione soggettiva di tali persone determina relativamente alla genuinità del loro libero consenso. Contestualmente, il Garante nazionale ritiene perlomeno inopportuno che un’Autorità di garanzia si renda promotrice e attrice di iniziative che rientrano in realtà nella sfera del proprio controllo indipendente. Ergastolo ostativo, intervista al procuratore Fausto Cardella di Valentina Tatti Tonni articolo21.org, 22 gennaio 2020 “La decisione che ha preso la Corte Europea è una decisione rispettabilissima e, certamente, umanamente e giuridicamente, apprezzabilissima, tuttavia devo dire che a mio sommesso parere è una decisione che va vista per quello che è, cioè un’indicazione ideale, cogente nel nostro sistema entro i limiti che sappiamo, ma non tiene conto delle specificità del Paese nel quale va ad incidere”, a parlare è il Procuratore Generale della Repubblica di Perugia Fausto Cardella in merito alla decisione della Corte di Strasburgo sull’ergastolo ostativo. Dopo la sentenza del 13 giugno 2019 a favore di Marcello Viola - appartenente all’omonima famiglia di ‘ndrangheta, capoclan nella seconda faida di Taurianova che sta scontando quattro ergastoli ed è detenuto presso il carcere di Sulmona - l’Italia aveva presentato ricorso alla Corte che a sua volta lo aveva definitivamente respinto il 7 ottobre scorso ritenendo il trattamento riservato al Viola in netta violazione dell’articolo 3 della Convenzione, ovvero quello che nel diritto all’integrità della persona garantisce che nessuno possa essere sottoposto a tortura, a pene o trattamenti inumani o degradanti. Nonostante la nostra Costituzione all’articolo 27 stabilisca la rieducazione della pena e quindi riconosca al detenuto la possibilità di redimersi, i giudici della Cedu con sei voti favorevoli su sette hanno ripreso duramente l’Italia. “Io credo che questa decisione che è astrattamente condivisibile, in linea con la tutela dei diritti umani, non sia perfettamente aderente alle esigenze del nostro Stato…” riprende Cardella, da ventotto anni sotto regime di scorta. Anche la Corte Costituzionale si era espressa sul caso specifico ma ciò non aveva impedito all’ex boss dei Santapaola, Sebastiano Cannizzaro, di appellarvisi per gli stessi motivi. “Occorre spiegare che cos’è questo ergastolo ostativo: l’ergastolo è la condanna a vita, non esiste nel nostro ordinamento un ergastolo che sia realmente tale, cioè è una tendenza, è una pena che viene irrogata a vita però consente di abbreviarla dopo un certo numero di anni, un minimo di anni oltre i 26, si può uscire dal carcere purché ci siano determinate condizioni che sono quelle di aver tenuto una condotta, di aver interrotto i rapporti con la criminalità organizzata e così via” spiega il procuratore. “Per quanto riguarda i detenuti condannati all’ergastolo ostativo, l’ergastolo è una pena che viene irrogata per gli omicidi, per i fatti più gravi, per le stragi, non soltanto per l’associazione mafiosa. In questo caso, ecco perché si chiama ‘ostativo’, c’era una limitazione che impediva al detenuto di chiedere di accedere ai benefici che avrebbero portato a una interruzione dell’ergastolo, cioè a una liberazione anticipata, se non avesse collaborato con la giustizia. Quindi anche in questo caso l’ergastolo non era definitivo e insuperabile: la legge pone una condizione che è quella che il detenuto deve collaborare con la giustizia”. La Consulta il 4 dicembre ha depositato la sentenza n. 253/2019 in cui dichiara l’illegittimità costituzionale parziale dell’articolo 4-bis comma 1 dell’ordinamento penitenziario, proprio quello oggetto dei detenuti per reati di associazione mafiosa, ‘nella parte in cui non prevede che possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti’. Quindi sarà il giudice a valutare caso per caso. “Ancora oggi si potranno negare al detenuto condannato all’ergastolo, per fatti di stragi e reati di stampo mafioso, i benefici, se il giudice riterrà che il suo percorso riabilitativo, la sua interruzione dei rapporti con il mondo criminale non sia definitiva o non sia reale, diversamente lo può dare. Quindi sostanzialmente” chiarisce Cardella, “non è che tutti i detenuti potranno beneficiare ma ci sarà la necessità di un controllo del giudice”. Cosa cambia rispetto a prima? “Che prima c’era un divieto di legge che poteva essere superato solo con la dimostrazione della collaborazione, cioè pentitismo, oggi invece anche se non c’è la collaborazione sarà sempre il giudice che potrà, con altri elementi, ritenere che il percorso di rottura con l’organizzazione criminale di provenienza, sia definitivo”. La sostanza è devastante. “È cambiata una indicazione, è un messaggio che è stato lanciato alla criminalità organizzata dicendo ora teoricamente potete”. È come se ci fosse una percezione diversa dello stesso problema cioè quello di contrastare la criminalità organizzata. Da una parte l’Italia e quindi l’ordinamento penitenziario ha da tempo capito che la mafia non è come la criminalità comune, mentre invece in Europa, nonostante la strage di Duisburg o i narcotrafficanti che dall’Olanda partono verso la Colombia, non si è arrivati ancora a questi livelli. “Loro non se ne sono ancora resi conto perché ovviamente non è una situazione che si può percepire, occorre il tempo” sottolinea Cardella, “Noi abbiamo un’esperienza in questo campo, certamente non invidiabile, ma ce l’abbiamo, però sostengo che forse il nostro Stato dovrebbe spiegare meglio agli organismi internazionali, con più convinzione, qual è la nostra situazione e i rischi che loro corrono”. È come se per la Corte stessimo violando il diritto, quando invece dal punto di vista normativo dello Stato adottare questo comportamento è una necessità. “Una delle finalità del carcere è quella di interrompere i rapporti, il legame tra il crimine e tutto questo fa parte di quel percorso rieducativo cui la pena deve tendere. Se tu non elimini l’occasione di contagio, non ci sarà mai la possibilità di una guarigione. Quindi se il carcere, la pena deve tendere alla rieducazione, non è soltanto esporre i detenuti a interessantissimi sermoni e prediche, la prima cosa è interrompere il loro rapporto, il loro legame con l’organizzazione criminale. Il 41bis serve a questo, non ci sono vessazioni, torture, o cose di questo genere”. La mancanza di norme che contrastino le mafie nell’ordinamento europeo può forse spiegare il motivo di questa miopia verso una giustizia che da La Torre in poi riteniamo debba essere preventiva e non più postuma. L’esigenza a cui l’Italia risponde, nella comprensione di un fenomeno che è qui endemico, non è volta a giustificare la repressione o la pietà ma determina di escludere la pericolosità sociale del detenuto. “Credo nell’Europa come unica possibilità di nostra salvezza” riflette lui, “Tutto questo clima che io non so che cosa sia, da che cosa dipenda il nostro carattere italiano, non è rappresentato adeguatamente alla Cedu e agli organismi internazionali. Se lei parla con la famosa casalinga di Voghera, che oramai non esiste più, istintivamente pensa al 41bis come a un luogo di tortura, salvo poi sul momento se dovesse succedere qualcosa chiederne subito la testa. Oscilliamo tra una repressione teorica, verbale, truculenta e poi un senso di buonismo, di comprensione, di cose di cui alla fine non sappiamo molto”. Nel 1992 gli viene offerta la possibilità di lavorare insieme a Ilda Boccassini sulle stragi di Capaci e via d’Amelio. Accetta, ma non appena scende dall’aereo a Catania ad aspettarlo trova un carabiniere: l’assegnazione della tutela che negli anni ne allenterà o restringerà il livello. Si sente parlare di scorte, non di soluzioni. “Considero una sconfitta vivente dello Stato il fatto che ci debbano essere magistrati, persone sotto scorta perché vuol dire che la situazione è tale che, adesso sicuramente in mezzo ci sarà qualcuno che usa la scorta come servizio taxi, però il dato di fatto che in Italia abbiamo 28 magistrati uccisi, quindi, è sicuramente un segno di debolezza e di inefficienza dello Stato. Negli altri Paesi non c’è perché se tu uccidi un poliziotto, un carabiniere, la reazione dello Stato è talmente forte che alla fine non è appagante, è proprio il fatto che dietro di loro c’è uno Stato disponibile a reprimere. Da noi questa sensazione, anche qui la reazione dello Stato c’è però per sconfiggere la cosca di Totò Riina ci son voluti 25 anni” commenta concludendo con un’amarezza di fondo giustificata, “vede come passa un messaggio diverso: che il 41bis è una vessazione, che forse non è utile, che forse non è necessario”. “Non creiamo allarmismo sui permessi premio ai mafiosi” di Stefano Di Scanno linchiestaquotidiano.it, 22 gennaio 2020 Non è stato solo un prezioso confronto tra addetti ai lavori in materia di diritto costituzionale e procedura penale. L’affollatissimo convegno dal titolo “Verso il superamento dell’ergastolo ostativo?” ieri mattina ha fatto varcare i cancelli del carcere San Domenico di Cassino ad una folla di docenti universitari, magistrati, avvocati e operatori del settore penitenziario, tra cui il Garante dei diritti dei detenuti Stefano Anastasia, oltre a tutti i vertici delle forze dell’ordine, del tribunale e della procura di Cassino, il Vescovo Mons. Antonazzo, il presidente del consiglio regionale Buschini, il consigliere regionale Ciacciarelli e il presidente del consiglio comunale Di Rollo. L’evento ha permesso alla foltissima platea di ascoltare le puntualizzazioni in merito alla recente sentenza della Corte Costituzionale. Con la presenza, al tavolo dei relatori, dello stesso estensore del pronunciamento, ossia il Giudice Nicolò Zanon. Ad aprire i lavori, dopo il saluto del direttore della Casa Circondariale, Francesco Cocco, l’avvocato Sarah Grieco, che con l’Università di Cassino e del Lazio meridionale e in qualità di delegato del rettore per il polo universitario penitenziario, all’interno del carcere si è fatta promotrice dell’apertura dello Sportello dei diritti del detenuto e di ulteriori attività di servizio cui collaborano gli studenti. A queste attività si uniranno a breve, grazie alla convenzione siglata ieri dal Rettore Giovanni Betta con l’Associazione Nazionale Magistrati, sottosezione di Cassino presieduta dal giudice Salvatore Scalera e Ordine degli avvocati presieduto da Gianluca Giannichedda, ulteriori attività formative, in nome di un diritto allo studio che è principio di garanzia dell’azione rieducativa del carcere. Non sono pochi, infatti, i detenuti di Cassino prossimi alla laurea. Una formazione a tutto campo, dunque, che - come hanno ricordato sia Scalera che Grieco - vede operativi i magistrati e gli avvocati, insieme al corpo docente Unicas. “Qui a Cassino - ha aggiunto il rettore Betta - siamo anche andati oltre il diritto allo studio - aprendo al recupero e alla costruzione di un futuro che va oltre la detenzione”. Sul tema specifico, ossia la sentenza sull’ergastolo ostativo è entrato Andrea Pugiotto, professore di diritto costituzionale all’Università di Ferrara. Pugiotto ha parlato diffusamente della sentenza n.253/2019 emessa dalla Corte Costituzionale e fatta oggetto, come lui stesso ha dichiarato “di una contraerea giornalistica, tanto da arrivare a criticarla senza prima conoscerla. Tante le differenze tra chi ha commesso stragi o conflitti a fuoco, chi dirige una cosca, chi rinnega i familiari collaboranti. Il reo non collaborante che ottiene un permesso dovrà rigare dritto, altrimenti tornerà alla condizione pregressa”. A più riprese, dunque, è stato sottolineato che qui non si tratta di “regalare” permessi né “creare allarmismo, perché questa sentenza non smantella il meccanismo premiale e non scalfisce il regime del 41bis. Anzi, è proprio la possibilità “di assaggiare la libertà” che potrebbe spingere il detenuto a collaborare”. Dunque, non c’è nessuna deriva preoccupante - si è sottolineato - dopo la sentenza che giudica incostituzionale negare permessi premio ai mafiosi, anche se non collaborano. L’importante è che non abbiano più legami con l’associazione criminale e che abbiano scontato almeno una parte della pena in modo proficuo. A Pugiotto ha fatto seguito l’intervento del professore di procedura penale all’Unicas, Giuseppe Della Monica, che ha sollevato più di qualche quesito tecnico e specifico all’indirizzo del giudice Zanon, che tuttavia al momento di intervenire ha sottolineato di essere in una posizione delicata, che gli impediva di replicare. Come su quel “qual è il senso, sul piano della coerenza, di reati non considerati ostativi?” avanzato da Della Monica. Il Procuratore Nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho, non poteva non ricordare che l’art. 4 bis, per contrastare le mafie e tenere i mafiosi a regime detentivo senza alcun beneficio, è stato introdotto da Giovanni Falcone e poi modificato, con l’introduzione dei benefici in caso di collaborazione con la giustizia. Con potere di veto delle procure antimafia. “Chi è mafioso resta mafioso, non dobbiamo alimentare dubbi, così come non dobbiamo negare Cosa Nostra e ‘Ndrangheta. Ora, serve ed infatti siamo in attesa, di una legge successiva alla sentenza che dia indicazioni conformi ai dettami della Corte Costituzionale, affinché si possa continuare a dare serietà al contrasto all’apparato delle mafie”. Un intervento molto apprezzato dal giudice Zanon, che nel prendere la parola ha ricordato quella “legge, la 306/93 citata da De Raho, una legge molto sofferta, successiva alla strage di Capaci, che contiene un compromesso e imposta i problemi di oggi: l’esigenza di una politica criminale e la costruzione di trattamenti penitenziari individualizzati. È giusto premiare chi collabora, quello che non si può fare è l’aggravamento della pena per chi “non” collabora. Perché non poter accedere è già una maggiore afflizione”. Un tema, dunque, che ha appassionato la platea, interessando in modo particolare i numerosi studenti di Giurisprudenza presenti all’importante appuntamento formativo. “È stato un incontro a cui capita poche volte di poter assistere e questo grazie allo straordinario spessore dei relatori, che generosamente si sono prestati ad un confronto onesto, su un tema scomodo”. È questo il commento a caldo dell’avvocato Sarah Grieco, che si è spesa oltremodo per la realizzazione dell’evento. “Come Università - ha aggiunto la docente - credo che stiamo svolgendo il ruolo istituzionale che ci compete: da un lato, mettere in connessione istituzioni diverse; dall’altro offrire formazione, e quindi speranza, anche in realtà come quelle carcerarie”. Sognalib(e)ro. La seconda edizione ha coinvolto 15 carceri comune.modena.it, 22 gennaio 2020 Si avvia a conclusione il secondo premio letterario per i penitenziari italiani promosso da Comune, Ministero della Giustizia, Giunti, Bper Banca. Premiazioni il 20 febbraio. Prosegue, con la scrittrice Viola Ardone al carcere Sant’Anna venerdì 24 gennaio, il percorso della seconda edizione del premio letterario nazionale per le carceri “Sognalib(e)ro”. Diretto in collaborazione col Comune da Bruno Ventavoli, giornalista responsabile dell’inserto Tuttolibri del quotidiano La Stampa, il Premio è promosso dal Comune di Modena con Direzione generale del ministero della Giustizia - Dipartimento amministrazione penitenziaria, Giunti editore, e con il sostegno anche per la seconda edizione di BPER Banca. La finalità esplicita di “Sognalib(e)ro è promuovere lettura e scrittura nelle carceri come strumento di riabilitazione, dando espressione compiuta all’articolo 27 della Costituzione della Repubblica Italiana. Di particolare rilievo umano, culturale e sociale, il progetto consiste in un concorso letterario che prevede l’assegnazione di due premi, uno a un’opera letteraria valutata e votata dai detenuti, l’altro a un elaborato prodotto dai detenuti stessi, che potrà, essere pubblicato da Giunti editore. Per la seconda edizione di Sognalib(e)ro sono stati individuati dal ministero della Giustizia 15 istituti, dove sono attivi laboratori di lettura o di scrittura creativi: la Casa Circondariale di Torino Lorusso e Cotugno, quella di Modena, la Casa di Reclusione di Milano Opera, quelle di Pisa, Brindisi, Verona, Saluzzo, Pescara, Firenze Sollicciano, Napoli Poggioreale, Sassari, Paola, Ravenna; quelle femminili di Roma Rebibbia e Pozzuoli. Come già nell’edizione 2018, il Premio Sognalib(e)ro si articola in due sezioni. Nella Sezione Narrativa italiana (che comprende anche il Premio speciale Bper Banca), una giuria popolare composta dagli aderenti ai gruppi di lettura degli Istituti attribuisce il premio valutando il migliore di una rosa di tre romanzi: “La straniera”, di Claudia Durastanti (La nave di Teseo, 2019); “Fedeltà” di Marco Missiroli (Einaudi, 2019); “Le assaggiatrici” di Rosella Postorino (Feltrinelli, 2018). La Giuria è composta da gruppi di detenuti in ogni istituto. Ogni componente dovrà esprimere la preferenza attribuendo 3 punti al libro migliore, 2 al secondo e 1 punto al terzo. Ogni gruppo è seguito da un operatore incaricato, che raccolti i voti della giuria interna (sono stati complessivamente oltre 100 i lettori votanti) li trasmette al Comune di Modena. Tutti i voti trasmessi riferiti alla medesima opera, sommati determinano il vincitore. Il premio consiste nell’invio di titoli scelti dall’autore a tutti gli Istituti partecipanti, accrescendo così il loro patrimonio librario. Lo scrittore vincitore, inoltre, potrà presentare il proprio libro nelle carceri partecipanti. Nella sezione Inedito, invece, una giuria di esperti presieduta da Bruno Ventavoli e composta dal disegnatore satirico Makkox, con gli scrittori Barbara Baraldi e Paolo di Paolo affiancati da Antonio Franchini, editor Giunti, attribuirà il premio a un’opera inedita (romanzo, racconto, poesia) prodotta da detenuti o detenute sul tema “Ho fatto un sogno…”. La giuria sceglierà a maggioranza il miglior testo (tra i 62 presentati da 60 autori detenuti) esprimendo la valutazione con un giudizio sintetico. Il premio consiste nella donazione di libri alla biblioteca del carcere dove è recluso il vincitore, da parte della editrice Giunti. Qualora i testi vincitori possiedano le caratteristiche necessarie, saranno pubblicati dalla medesima casa editrice in un’antologia tematica. Il Comune di Modena si riserva ulteriori iniziative di divulgazione dei testi in concorso, come pubblicarli con casa editrice civica digitale il “Dondolo”, diretta da Beppe Cottafavi). La partecipazione al Premio è stata aperta ai cittadini italiani e stranieri, comunitari ed extracomunitari, senza limiti di età, attualmente detenuti negli istituti penitenziari individuati dal Ministero della Giustizia. A ogni detenuto è stato consentito partecipare a una o a entrambe le sezioni. La serata finale di Sognalib(e)ro con le premiazioni e la partecipazione dell’autore o dell’autrice vincitori si svolgerà a Modena il 20 febbraio al Teatro dei Segni in via San Giovanni Bosco 150, a cura di Bruno Ventavoli e del Teatro dei Venti. In programma la lettura pubblica delle riflessioni e dei commenti dei detenuti che hanno votato le opere in concorso; la cerimonia di premiazione dei partecipanti alle due sezioni; la presentazione dello studio scenico sull’Odissea, realizzato dal Teatro dei Venti con alcuni degli attori detenuti della Casa Circondariale di Modena e della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia. Ecco il testo del ddl penale. La sfida di Bonafede per chiudere i processi in tre anni di Liana Milella La Repubblica, 22 gennaio 2020 Un processo penale intero in soli 4 anni, e, entro due anni quando la riforma andrà a regime, addirittura in 3 anni. Per ora un anno in primo grado, due in appello e uno in Cassazione. E poi, tra due anni, un solo anno per ogni grado di giudizio. Quindi 3 anni. È questa la proposta che il Guardasigilli Alfonso Bonafede presenterà oggi al tavolo sulla giustizia iniziato a palazzo Chigi nel tardo pomeriggio. Una vera rivoluzione dei tempi che dovrebbe spegnere le polemiche sull’entrata in vigore della, prescrizione dopo il primo grado, ma solo per chi viene assolto. Trenta pagine. Ultimate dal Guardasigilli in mattinata. Inviate ai partner della maggioranza poco dopo l’ora di pranzo. Prima del vertice sulla giustizia in programma per le 17. Contengono la nuova riforma del processo penale. Ecco i punti cardine. Tempi del processo. Un anno in primo grado (ma c’è più tempo per i reati più gravi e nessun limite per quelli di mafia e terrorismo), due in appello, uno in cassazione. Ma il Csm, valutata la situazione di ogni ufficio in base al numero dei processi pendenti e sopraggiunti, potrà modificare la previsione. Regola che vale anche per gli illeciti disciplinari per punire i giudici “lumaca”. Lì si potrà mettere sotto inchiesta disciplinare, ma anche in questo caso tenendo conto dell’ufficio in cui lavorano e del peso dei processi. Prescrizione. Sarà bloccata dopo il primo grado ma solo in caso di condanna, con possibilità di riprenderne il corso se l’imputato è assolto successivamente. La prescrizione resta bloccata per due anni quando viene impugnata la sentenza di proscioglimento. Ma con possibilità di proroga di atri due anni. Le notizie di reato. Saranno le procure a selezionarle seguendo il criterio di scegliere quelle più rilevanti e che hanno quindi diritto a una corsia preferenziale. Stretta sull’appello. L’avvocato potrà presentarlo solo se dispone di uno specifico mandato del suo cliente rilasciato dopo la sentenza di condanna. Cambio di un componente del collegio. Il processo va avanti e non è più obbligatorio riascoltare i testimoni già sentiti. Appello. Se non viene fatto entro due anni il difensore ha diritto di chiedere che venga fissato subito. Nuovo sistema di elezione del Csm. Il futuro Csm sarà composto da 30 componenti, 20 togati rispetto ai 16 attuali e 10 laici rispetto agli attuali 8. Bonafede abbandona il sorteggio. Il voto dei togati avverrà in 19 collegi che saranno definiti tre mesi prima dal ministero della Giustizia. Avverrà in due fasi. L’elettore avrà a disposizione tre preferenze. Sarà eletto al primo turno chi avrà ottenuto la maggioranza assoluta dei voti validi espressi. Se nessuno viene eletto si procederà con il ballottaggio tra i due che hanno ottenuto più voti al primo turno. Prima ancora che cominci il vertice, da Firenze, dice il premier Conte: “Ho riletto il progetto che metterà sul tavolo il ministro Bonafede: mi sembra molto persuasivo e che tutte le misure proposte per accelerare i tempi della giustizia possano, nel complesso, garantire tempi più ridotti e quindi un servizio più efficiente a favore dei cittadini. Confido che si possa trovare finalmente la piena condivisione”. A questo punto tutto dipenderà non solo dal Pd, ma soprattutto dai renziani di Italia viva che sembrano sempre di più fare sponda con Forza Italia e il responsabile Giustizia Enrico Costa, che ha appena presentato altri due emendamenti al decreto Mille Proroghe nel tentativo di bloccare la prescrizione “corta” di Bonafede (stop al suo corso dopo la sentenza di primo grado). Nel primo si chiede che la norma slitti di un anno e sei mesi rispetto alla sua entrata in vigore; nel secondo si chiede che il governo si impegni a presentare in tempi rapidi la riforma del processo penale. Anche Italia viva, sempre nel Mille Proroghe, chiede che la prescrizione slitti. E dopo quattro voti dei renziani sulla prescrizione (due astensioni e due voti contro il governo), in dissenso con il resto della maggioranza e d’accordo con Costa, c’è il rischio di un serio e definitivo incidente parlamentare che potrebbe avere conseguenze serie sulla stabilità del Conte Due. L’occasione potrebbe già essere quella del voto sulla proposta di legge Costa - via la prescrizione di Bonafede - che cadrà la prossima settimana in aula alla Camera tra il 27 (discussione generale) e il 28 gennaio (voto in aula). Dove c’è il precedente dei renziani che già in commissione, una settimana fa, hanno votato a favore della Costa spaccando la maggioranza. Il Pd, questa volta, guarda positivamente al vertice ed è intenzionato a chiudere la partita della giustizia. Dice Walter Verini, responsabile della materia per i Democratici: “L’ex ministro Giulia Bongiorno aveva definito la prescrizione di Bonafede “una bomba sul processo penale in assenza di tempi certi del processo”. Ebbene, se questi tempi certi vengono ottenuti, e stiamo parlando di un processo che dovrebbe durare non più di 5 anni, avremmo raggiunto davvero un obiettivo epocale, e soprattutto la bomba atomica non esisterebbe più”. Certo, resta ancora il problema di quando far entrare in vigore la differenza tra condannati e assolti per la prescrizione, cioè il cosiddetto “lodo Conte”. Considerato che la prescrizione riguarda soltanto i reati commessi dopo l’entrata in vigore della legge gli effetti si vedranno non prima di 3-4 anni. Ma, come dice lo stesso Verini, “conta anche il segnale politico”. Quindi la soluzione, che però va verificata tecnicamente, potrebbe essere quella, ipotizzata dallo stesso Pd, di inserire la modifica della prescrizione per assolti e condannati subito nel decreto Mille Proroghe. Ma va verificata, cosa che sarà fatta nel vertice di oggi, la compatibilità tecnica della soluzione. Certo è che, anche in vista del voto in aula sulla legge Costa, far passare la differenza del meccanismo potrebbe risolvere i dubbi dei renziani ed evitare un problema alla maggioranza. Prescrizione, maggioranza in stallo. Renzi: “Lodo Conte incostituzionale” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 22 gennaio 2020 Bonafede porta al vertice un piano per sveltire i processi ma restano le distanze con gli alleati. Era stato troppo ottimista, Giuseppe Conte, ieri mattina: “Confido che si possa trovare la piena condivisione. Ho riletto il progetto che metterà sul tavolo il ministro Bonafede, e mi sembra molto persuasivo”. Nel pomeriggio, quando con il Guardasigilli hanno incontrato a Palazzo Chigi gli esperti di giustizia dei partiti di maggioranza, ha capito che la condivisione non c’era. E continua a non esserci: sulla prescrizione abolita dopo la prima sentenza per volontà grillina e sui rimedi immaginati per renderla più digeribile agli alleati. “Un processo senza fine è la fine della giustizia - dichiarava Matteo Renzi alla radio mentre i delegati di Italia viva discutevano con premier e ministro. Il lodo Conte non è una soluzione, inserire una distinzione tra assolti e condannati in primo grado viola i principi costituzionali”. Negli stessi momenti, il segretario democratico Nicola Zingaretti aggiungeva in tv, rivolto ai Cinque Stelle: “Un grande Paese non si governa con le bandierine. Se non saremo soddisfatti nel punto di caduta noi faremo approvare la nostra proposta (che reintroduce la vecchia prescrizione, ndr), ma andremo fino in fondo per costruire una soluzione. Se sfasciamo l’attuale maggioranza ognuno se ne prenderà la responsabilità”. La maggioranza per ora non si sfascia, Conte invita a evitare strappi e al termine del vertice Pietro Grasso spiega, a nome di Leu: “La riunione è andata bene, ma il cantiere di lavoro è ancora aperto”. Il ministro Bonafede gli fa eco: “Numerose sono le convergenze sulle misure per abbreviare i tempi. Rimangono alcune distanze sulla prescrizione; la distinzione fra assolti e condannati non è la mia proposta di partenza, ma ricordo che è stata già introdotta nella scorsa legislatura da qualcuno che adesso solleva profili di incostituzionalità”. Della riforma del processo penale presentata dal Guardasigilli (nella quale è inserito il “lodo Conte” che blocca la prescrizione in appello e Cassazione solo per i condannati) si continuerà dunque a discutere, e pure il pd Walter Verini sottolinea i passi avanti. In effetti, a parte tempi più stretti e prefissati per le indagini e le varie fasi dei giudizi (al massimo cinque anni complessivi), ci sono novità procedurali studiate per accelerare i provvedimenti: dalla cancellazione dell’obbligo di ripetere alcuni atti quando cambia un giudice a processo in corso all’introduzione del giudice monocratico anche in secondo grado, passando per meccanismi che dovrebbero deflazionare le corti d’appello. I magistrati responsabili del mancato rispetto delle scadenze saranno passibili di procedimento disciplinare. Resta però il nodo delle garanzie per gli imputati in caso di tempi sforati, che la deterrenza di ipotetiche sanzioni disciplinari non scioglie: un problema che contribuisce ad alimentare le divisioni sulla prescrizione. A parte Iv, anche Pd e Leu chiedono delle contromisure per i condannati (ma anche per le vittime dei reati) esposti al rischio “fine processo mai”. L’ultima versione partorita dai tecnici del ministero della Giustizia prevede che se entro due anni dall’inizio dell’appello o uno dal ricorso in Cassazione non arrivano le sentenze, “le parti o i loro difensori possano presentare istanza di immediata definizione del processo”. A quel punto entro sei mesi deve arrivare un verdetto, ma tutti questi termini “possono essere definiti in misura diversa dal Consiglio superiore della magistratura in relazione a ciascun ufficio, con cadenza biennale, tenuto conto delle sopravvenienze e dei dati risultanti dai programmi di gestione”. Vuol dire che la durata prefissata dei processi potrà avere un termine diverso da una città all’altra, a seconda del carico di lavoro e dell’organizzazione degli uffici giudiziari; una situazione che suscita perplessità nel Pd e in altre forze della maggioranza. Andrà rivista insieme al resto della riforma, nella quale Bonafede ha introdotto anche un nuovo sistema elettorale del Csm (maggioritario a doppio turno) e il divieto di tornare nei ruoli della giurisdizione per i magistrati entrati in politica. “Un fritto misto indigesto”, commenta Enrico Costa di Forza Italia, il quale aspetta di vedere quel che faranno i renziani la prossima settimana, a Montecitorio, quando si voterà il suo disegno di legge che ripristina la prescrizione prima della modifica varata un anno fa da Lega e Cinque Stelle. Che fu un errore anche secondo il vicepresidente del Csm David Ermini: “Anticipare la riforma senza una revisione di sistema è stato un punto di partenza sbagliato”. Prescrizione, per la riforma Bonafede killer e ladro sono la stessa cosa di Alberto Cisterna Il Riformista, 22 gennaio 2020 “Fugit irreparabile tempus” ricordava Virgilio nelle Georgiche. A meno che. A meno che qualcuno particolarmente fortunato non si trovi tra le mani la boccetta con dentro l’elisir di lunga vita, la pozione tanto ricercata dagli alchimisti di ogni tempo. Qualcosa di simile all’ambrosia che pasceva gli immortali dei dell’Olimpo è stata trovata e dal primo gennaio nutre i reati commessi in Italia i quali - benché appena nati alle soglie di questo nuovo decennio - grazie alla riforma della prescrizione hanno in dote il gene dell’immortalità. O, quanto meno, della potenziale immortalità, visto che devono avere la possibilità di arrivare alla sentenza di primo grado, dopo di ché nulla potrà scalfirne la vita e per sempre. Per sempre si badi bene. Ognuno dei reati appartenente a questa magica super razza geneticamente modificata potrà contemplare, con “olimpico” distacco è il caso di dire, le vicende degli uomini e dei processi. Potranno cambiare giudici e cancellieri, avvocati e pubblici ministeri, ma il novello Dorian Gray manterrà intatta la propria fresca giovinezza. Mentre a invecchiare sarà inevitabilmente il suo sfortunato ritratto, ossia l’imputato costretto a fare i conti (anche economici) con un fardello immutabile e imperturbabile. E insieme a lui la parte offesa e lo Stato pure loro costretti a convivere anni con cittadini la cui innocenza o colpevolezza non è accertata in tempi ragionevoli. Ridotto all’osso è questo quel che accade quando il legislatore immagina di poter somministrare - in una macchina giudiziaria ai limiti del collasso - la pozione dell’eterna gioventù all’oggetto del processo, rendendone potenzialmente perpetuo il fine che è quello di accertare le responsabilità personali. Sia chiaro nulla di trascendentale, accade già così per il processo civile (iniziato il quale, nulla lo arresta) di cui però è leggendaria nel mondo l’epocale durata e che distrugge una parte consistente del Pil nazionale e degli investimenti privati. Solo che mentre il processo civile può, molte volte, restare compatibile con la sua tendenziale voracità temporale senza snaturarsi oltre misura, il nuovo modello penale divora i suoi figli in modo totale e senza scampo e, alla fine, vive per se stesso. Da Teodosio II - che nel 424 regolò la prescrizione e “l’usucapio libertatis” (lemma straordinario) - sino a Beccaria e oltre, tutti sono consapevoli che il fuggire del tempo affievolisce i diritti, quelli civili e quelli penali. Se così non fosse il costituzionalismo moderno non avrebbe dovuto coniare la categoria dei diritti fondamentali e di quelli inviolabili, ossia coesistenti a ogni persona umana e, come tale, imprescrittibili. Ci sarebbe da chiedersi se possa la pretesa dello Stato di punire i colpevoli assurgere a questa dignità assoluta e comprimere ogni altro diritto inviolabile (la presunzione di innocenza) o principio costituzionale e convenzionale (la ragionevole durata del processo). Sembra questa, al di là delle convenienze dei singoli o delle corporazioni in gioco, la vera partita che si sta disputando nei lunghi tempi supplementari che la riforma Bonafede, malgrado ogni scomposta polemica, ancora garantisce alla politica prima che il nuovo regime produca i propri effetti. Il ché rende il dibattito meno urgente, e come ha autorevolmente chiarito il professor Giorgio Spangher sulle pagine di questo giornale, consente di provvedere a quel reset della discussione che è indispensabile per affrontarla in modo serio. Ci sarà un’altra occasione per discutere delle ragioni per cui i reati si prescrivono e su chi ne tragga vantaggio, ma ora è il momento di riportare i punti di vista nell’alveo dei principi generali per attuare quella ragionevole ponderazione degli interessi che la Consulta indica come imprescindibile faro e dovere dell’azione legislativa. Come in tutte le partite serie occorre evitare il doping e non pensare di vincere somministrando al reato pozioni magiche e frettolosi elisir che gli consentano di correre più a lungo e di vivere, se occorre, in eterno. In Italia gli unici reati imprescrittibili sono quelli puniti con l’ergastolo, e la sentenza di primo grado non appare una fatto processuale idoneo per equipararvi la costruzione abusiva di un balcone. Nascita di un processo mediatico di Valentina Stella Il Dubbio, 22 gennaio 2020 L’incontro dell’Osservatorio Informazione giudiziaria dell’Ucpi insieme alle Camere penali di Milano, Roma e Napoli, per ragionare sulla nascita del processo mediatico. “Il processo mediatico tra diritto di cronaca e presunzione di innocenza” è il titolo del convegno organizzato dall’Osservatorio Informazione giudiziaria dell’Ucpi insieme alle Camere penali di Milano, Roma e Napoli, e moderato dal giornalista Alessandro Barbano. Se il contesto istituzionale dell’evento è la decisione di qualche mese fa del Procuratore capo di Napoli Giovanni Melillo e del suo omologo di Milano, Francesco Greco, di permettere ai giornalisti di avere parte degli atti giudiziari “di rilievo pubblico” - espressione alquanto contestata perché arbitraria - tali però da non danneggiare il segreto istruttorio, il contesto più popolare lo ricorda l’avvocato Cesare Placanica, presidente dei penalisti romani: nel caso Meredith Kercher “il ribaltamento dalla sentenza di condanna di primo grado aveva provocato quasi dei tumulti popolari; le pietre e gli insulti non li indirizzavano agli imputati né agli avvocati ma ai giudici, cioè si ribellavano alla mancata conferma nella sede propria del giudizio popolare”, spesso alimentato dalle distorsioni mediatiche della narrativa processuale. La genesi del processo mediatico è caratterizzata da due elementi: la pubblicazione dell’ordinanza cautelare, in cui, come sottolinea Melillo avviene quello ‘scambio moralè in cui la magistratura “o gli avvocati di parte civile passano le carte confidando in una rappresentazione dei fatti” a loro favorevole; e la conferenza stampa di procure e forze dell’ordine verso cui lo stesso Melillo ha manifestato la sua “idiosincrasia perché si rischia di scivolare in una eccessiva enfasi”, accompagnata dalla “convinzione che l’ufficio del pubblico ministero debba fare un passo indietro sul versante della visibilità mediatica” anche “per tessere le fila di un nuovo rapporto con l’avvocatura fondato sulla condivisione di alcuni principi”. Per Greco invece “il problema non è se dare l’informazione ma come darla” e polemizza con le Camere Penali: “da parte vostra non è mai arrivata in tal senso una proposta, a meno che non sia quella del silenzio assoluto che sarebbe ridicola”. Inoltre per il Procuratore “il processo mediatico sfugge al dominio del pubblico ministero o degli avvocati perché è un problema che riguarda le logiche dell’informazione”. Se fosse così, ma non lo è, potremmo sperare in una coscienza istituzionale dei giornalisti - obietta Barbano ad Enrico Mentana - “per cui non la quantità di notizie né la concorrenza rappresentino i nostri valori bensì la capacità di indipendenza”? Per il direttore del Tg La 7, “se in un mondo etico decidiamo ad esempio di non fare il nome del politico interessato da un provvedimento giudiziario poi però non possiamo garantirci che altri non lo facciano”. E a Mentana, che ha paragonato la stampa ad un lavandino dove arrivano dai rubinetti le notizie, ha risposto il professor Luca Marafioti: “il perverso rapporto tra il lavandino e la magistratura, ossia il rubinetto, ha dimostrato che il lavandino, trasformando e ripetendo le notizie che dal rubinetto arrivano, ha alimentato una sorta di fastidio verso i ritmi del processo, verso la nozione di prova, ha confuso la notizia investigativa con il giudizio”. Una risposta è giunta anche dal professor Ennio Amodio: nella rappresentazione di Mentana “è come se il giornalista fosse vittima di questa esondazione di notizie e non potesse fare niente; ma noi sappiamo che non è così, noi sappiamo che la notizia è lavorata, che la notizia può essere presentate in mille modi, sappiamo che c’è una saldatura molto netta tra ciò che fa la Procura e ciò che pubblica il giornale”. Invece per Carlo Verna, Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, che ha ricordato il nuovo protocollo sottoscritto con il Cnf “quando arriva una notizia dobbiamo capire se ha una rilevanza sociale; non c’è solo l’ azione penale obbligatoria, c’è anche la pubblicazione obbligatoria di notizie che hanno rilevanza pubblica e noi dobbiamo rispondere a questa logica: questa è la nostra via maestra. I nostri paletti sono il rispetto della verità e il rispetto della persona e in questo vado incontro alle esigenze del professor Amodio”. Giusto, tuttavia, come ha sintetizzato il presidente dei penalisti milanesi, l’avvocato Andrea Soliani, “secondo uno studio dell’osservatorio informazione, tutti i contributi della stampa che attengono alla fase dell’indagine sono nella quasi totalità contributi colpevolisti. E ciò potrebbe andare ad influenzare i giudici del dibattimento e i testimoni”. Sempre sul versante delle molteplici conseguenze del processo parallelo a quello dell’aula giudiziaria si è espresso l’avvocato Giorgio Varano: “il processo mediatico costante contro i condannati” è una delle cause “della mancata approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario nel 2018”, così come “la vicenda terribile della strage di Viareggio ha comportato una tale terribile enfatizzazione da mettere in discussione il tema della prescrizione. È partito tutto da quando i reati di lesione e incendio colposi sono stati prescritti”. Ci vorrebbero però delle risposte culturali ha detto l’avvocato Ermanno Carnevale, presidente dei penalisti napoletani: “il vero antidoto non è solo normativo - rispondendo a chi proponeva un intervento del legislatore o dei consigli disciplinari - ma è culturale; occorre costruire una cultura del linguaggio condivisa perché non ci sono leggi che possono risolvere il problema della descrizione di una vicenda giudiziaria; l’obiettivo, salvo il diritto dovere di informare, dovrebbe essere quello di utilizzare un linguaggio che non leda la dignità delle persone, a prescindere dal ruolo che si ricopre”. Ma la questione è anche politica come evidenziato dall’avvocato Luca Brezigar per cui “per molti politici, dinanzi al giudice arriva per forza un colpevole, non avendo loro né conoscenza delle regole processuali né cultura delle garanzie”. A concludere l’incontro l’avvocato Paola Savio, il cui intervento breve ma pungente potrebbe rappresentare la chiave di lettura di un prossimo incontro sul tema, dove la prudenza lasci il posto alla reale raffigurazione della situazione e definisca seriamente le responsabilità di un fenomeno dilagante - quello della gogna mediatica - dato sfortunatamente per scontato: “ciascuna figura chiamata in causa ha il suo ordine, è vero che cane non mangia cane ma finiamola con questa farsa. Laddove ci sono delle regole, queste potrebbero essere implementate a livello ordinistico. Non dobbiamo dimenticare quei profili disciplinari che probabilmente potrebbero colpire di più, in più breve tempo e molto meglio quelle sciagurate occasioni in cui il diritto di difesa e soprattutto il principio di innocenza viene vituperato: i talk show imperversano, ogni venerdì (riferendosi ad una nota trasmissione televisiva che si occupa di cronaca nera, ndr) - siamo assolutamente profanati nella nostra intelligenza nel vedere determinate ricostruzioni”. Le linee guida del Csm sulla comunicazione valgono per giudici ma non per i consiglieri di Giorgio Varano* Il Dubbio, 22 gennaio 2020 La comunicazione è di importanza fondamentale per la politica, ma anche per la giustizia. Il Consiglio Superiore della Magistratura ne è consapevole e ha assunto numerose iniziative in tal senso, non ultime le linee guida sulla comunicazione degli uffici giudiziari (2018) e le linee guida sulla comunicazione del Csm stesso (2010). Il tutto però avviene in modo particolare, perché parte da un dato forse non conosciuto o comunque non abbastanza discusso: non esiste un codice etico e comportamentale specifico per i consiglieri del Csm. È abbastanza incomprensibile, perché i consiglieri appartengono a categorie professionali diverse, con differenti codici etici e comportamentali, e svolgono una funzione particolare diversa da quella delle professionalità di provenienza, che dovrebbe essere oggetto di una specifica disciplina deontologica e comportamentale. Il motivo di questa assenza? Lo spiega il Csm stesso, in una delibera (dal tratto un po’ ottimistico) del 20.01.2010: “L’aspetto precettivo e sanzionatorio, infatti, mal si concilia con lo svolgimento di un simile elevato compito istituzionale essendo lecito ritenere che la consapevolezza dei doveri insiti nella funzione sia connaturata al livello etico dei componenti eletti”. L’autogoverno dei doveri, in parole povere. Non a caso la parola “dovere” non compare una sola volta nelle cento trentuno pagine del regolamento interno del Csm del 2018 (attualmente vigente). Ma il punto non è (solo) questo. Il Csm ha deliberato delle linee guida per gli uffici giudiziari in tema di comunicazione per tutti, tranne che per che per i propri componenti, se non con una risoluzione del 26.07.2010, che però riguarda la comunicazione del Csm in quanto organo, e non quella dei singoli consiglieri. Curare la comunicazione dell’organo di governo della magistratura - si legge nella risoluzione del luglio 2010 - parte dalla considerazione che “la fiducia nella giustizia è in qualche modo collegata alla rappresentazione che della stessa viene data attraverso i mezzi di informazione”, pertanto la comunicazione diventa “strumento principale per la costruzione di un rapporto fiduciario tra i cittadini ed il sistema giudiziario”. Interessante, ma è condiviso integralmente da tutti i componenti del Csm? I consiglieri tengono in considerazione questi principi quando comunicano all’opinione pubblica? Inoltre, è veramente surreale leggere nelle linee guida per la comunicazione degli uffici giudiziari (delibera 11.07.2018) una serie di indicazioni per i singoli magistrati, a cui invece i singoli consiglieri del Csm - a quanto pare - possono non attenersi. Per esempio, evitare, nella comunicazione, la “costruzione e il mantenimento di canali informativi privilegiati con esponenti dell’informazione”, “l’espressione di opinioni personali o giudizi di valore su persone o eventi”. O anche il dovere di curare, nella comunicazione, “il rispetto del giusto processo e dei diritti della difesa; la tutela della presunzione di non colpevolezza”. L’assenza di un codice etico e comportamentale specifico dei consiglieri e di linee guida sulla comunicazione degli stessi comporta conseguenze un po’ spiazzanti per l’opinione pubblica. Il Csm ha un ufficio stampa, delibera alcuni pareri e li comunica, ma poi un singolo consigliere può - volendo - dire pubblicamente l’esatto contrario, non avere limiti comportamentali specifici per il proprio ruolo, o non rispettare le linee guida sulla comunicazione redatte dal Csm per i magistrati. Più che innanzi ad un malinteso “autogoverno” della comunicazione, siamo agli “autogoverni” della comunicazione dei singoli consiglieri. Il Csm rischia di apparire come una sorta di federazione tra entità comunicative diverse e confliggenti, con un peso mediatico diverso delle stesse magari grazie a “canali informativi privilegiati con esponenti dell’informazione”, e non come un organo unico autonomo e indipendente anche dalle esternazioni dei suoi componenti, dai quali del resto non prende mai le distanze. Una delle regole più importanti della comunicazione di un organo istituzionale è l’unicità della sua voce pubblica. Altrimenti, per dirla con Karl Popper, “è impossibile parlare in modo tale da non essere frainteso”. Speriamo, dunque, che non ci siano più fraintendimenti e che arrivino delle linee guida sulla comunicazione anche per i consiglieri del Csm e magari anche un codice etico e comportamentale specifico per gli stessi. *Avvocato, responsabile Comunicazione Unione Camere penali italiane Corruzione, nessun leader ci salverà di Iuri Maria Prado Il Riformista, 22 gennaio 2020 Qualche giorno fa, con un articolo di Gian Antonio Stella, il Corriere della Sera ci ha spiegato che la corruzione è dappertutto e che per combatterla bisogna che l’Anac (l’Autorità nazionale anticorruzione) sia dotata di “una guida salda”, di una personalità “Investita di un pubblico riconoscimento di leadership”. Ognuno ha le sue idee, ma si crede che serva semmai l’opposto, e cioè che il lavoro per riordinare la società e contenerne le deviazioni illecite sia organizzato e condotto senza protagonismi rappresentativi, e da parte di funzionari certamente capaci ma, per così dire, senza faccia e senza nome. Non da parte di campioni delle virtù pubbliche, condottieri impancati sulla scena della guerra dell’Italia onesta contro quella marcia. Perché la celebrazione pomposa, l’assunzione leaderistica, l’investitura, appunto, servono molto poco all’efficacia dell’azione amministrativa e piuttosto assolvono al compito diverso di dare soddisfazione al pur comprensibile desiderio comune di affidarsi a un feticcio liberatore. I cittadini italiani “esausti dalla piaga del malaffare”, come il Corriere della Sera descrive la gente che assiste al presunto dilagare della corruzione, sono la materia passiva di questi esperimenti di incoronazione, di queste ritualità officianti, di queste “commedie” con cui lo Stato si rappresenta nell’apologia del priore eroico. Non ne viene mai proprio nulla di buono, e anzi l’effetto è che l’azione dello Stato, con gli errori e gli abusi inevitabilmente implicati in ogni iniziativa del potere pubblico, diventa incensurabile perché si protegge sotto il manto di indiscutibilità garantito dal rango del funzionario santificato. Un “pubblico riconoscimento di leadership” si fa in favore di chi vuole agire nelle sedi elettive, e lo si fa con il voto o comunque con i meccanismi del potere rappresentativo. Non invece nel caso di questi funzionari e di queste autorità: l’azione dei quali deve svolgersi e affermarsi con la forza impersonale della legge uguale per tutti, non con lo sfoggio di mostrine del vendicatore pubblico. Ed è poi la stessa esigenza, quotidianamente frustrata, a proposito dell’amministrazione della giustizia: col magistrato assunto a “uomo immagine” del proprio ufficio, in una rappresentazione propagandistica ancora una volta ben poco utile sul fronte della effettività amministrativa e semmai perfetta a far credere che c’è chi vigila e interviene sull’immondizia della società. Spazzare i corrotti spazzando i diritti è il prezzo che questa specie di finalismo aguzzino ci chiede di pagare. Ed è un prezzo troppo alto, anche se il conto ce lo presenta il prossimo monarca dell’Italia perbene. Salvini a processo, la politica rinuncia al suo ruolo e si consegna ai Pm di Deborah Bergamini Il Riformista, 22 gennaio 2020 Ciò che più amo della politica è la passione con cui si lotta per gli ideali e per le idee in cui si crede. A differenza di alcuni che amano le proprie idee e non tollerano quelle altrui, ho sempre nutrito un grande rispetto per i miei avversari politici e per le loro convinzioni. E per quanto possa essermi scontrata duramente con alcuni di loro, credo di non essere mai stata irrispettosa. Oggi, e mi fa molto male scriverlo, non provo alcun rispetto umano e politico per le persone che non hanno avuto il coraggio di fare il loro lavoro di politici: quello di decidere. È stato triste assistere alla vigliaccheria della sinistra e dei 5Stelle, che invece di andare a votare a favore del processo a Salvini hanno disertato l’aula della giunta per le Immunità. Ed è stato altrettanto triste assistere al voto della Lega, che dopo aver sostenuto la legittimità dell’azione di Salvini sulla Gregoretti, ha deciso di mandare il suo leader a processo, contrariamente a quanto fatto in un’occasione analoga. Capisco che la vicenda della Gregoretti in campagna elettorale può avere un peso sul voto; capisco la necessità di strumentalizzare tutto lo strumentalizzabile; capisco che la tattica ormai ha la precedenza su tutto, anche su quel che resta del rispetto per le istituzioni. Ciò che proprio non riesco a capire è la vigliaccheria di una politica che non ha il coraggio di assumersi la responsabilità di decidere. Chi nella propria vita sceglie di dedicarsi alla rappresentanza del popolo in un Comune, una Regione, in Parlamento, in Europa, lo fa per assumere decisioni in nome e per conto del popolo. La scelta di disertare il voto da parte della sinistra e dei 5Stelle è una pagina purtroppo indimenticabile della storia politica di questo Paese. Zingaretti, Di Maio, Renzi avrebbero dovuto mandare Salvini a processo, se ritenevano che fosse la cosa giusta da fare. Invece non lo hanno fatto. Hanno deciso di non decidere per ragioni elettorali. Al contempo Salvini avrebbe fatto bene a essere coerente con ciò che ha sempre sostenuto, facendo votare i suoi contro l’autorizzazione a procedere. Fare il martire sull’altare del vittimismo da lui stesso creato non è stato un bello spettacolo a cui assistere. Su quell’altare infatti non giace la sua persona, ma il diritto-dovere della politica di agire in nome e per conto del popolo. Così, ancora una volta, se l’Aula darà il via libera, toccherà alla magistratura dirimere una questione squisitamente politica. Così, ancora una volta, la politica avrà perso l’occasione di recuperare la dignità a cui rinuncia ormai con grandissima leggerezza, sacrificandola al totem di un consenso elettorale destinato ad essere sempre meno duraturo. Se la giustizia sociale viene confusa con il giustizialismo Ristretti Orizzonti, 22 gennaio 2020 Negli ultimi 40 anni la popolazione carceraria a livello mondiale, e quella sottoposta a misure di prevenzione e/o sorveglianza, tranne poche eccezioni, è più che triplicata. Nell’ultimo decennio, sempre a livello globale, stiamo assistendo ad un aumento delle disuguaglianze e, parallelamente, ad un aumento della violenza, per le quali le uniche risposte elaborate dai governi sono state in chiave sanzionatoria e repressiva a cui fanno seguito misure privative della libertà personale. È un fenomeno dibattuto poco e male all’interno delle formazioni politiche di movimento e delle sinistre partitiche dove prevalentemente si tende ad analizzare, ed eventualmente a solidarizzare, con alcune “parti” specifiche delle diverse soggettività destinatarie dell’azione punitiva e sanzionatoria. Assistiamo quindi ad una solidarietà diffusa verso quelle che si considerano le categorie sociali più deboli o di maggior interesse collettivo o, ancora, verso quei soggetti di minore problematicità nel sentire comune che mettono al riparo da possibili critiche, ad esempio i migranti o gli occupanti abusivi. Le azioni/manifestazioni di solidarietà a specifiche categorie sociali e contro particolari provvedimenti (ad esempio i pacchetti sicurezza in Italia) si limitano a mettere in discussione alcune scelte politiche ma non l’evoluzione pan-penalistica della governance a livello nazionale e globale. Una visione miope che non scalfisce minimamente né la misura contestata né il processo estensivo delle politiche e dei sistemi penali e punitivi all’interno degli ordinamenti. Una miopia che di fatto sta permettendo ai legislatori di introdurre un ventaglio sempre maggiore di reati e di stabilire cosa è reato ed anche il chi, come e quanto punire. Alla base delle politiche penali agiscono per intersezione una serie di fattori razziali che definiscono i destinatari dell’azione repressiva precedentemente passati attraverso un vero e proprio processo mediatico di mostrificazione sociale: se indigeni e afroamericani rappresentano il prototipo del criminale negli Stati Uniti d’America, meridionali, marginalità sociali, migranti e attivisti sono i destinatari pressoché assoluti dell’azione penale e special preventiva in Italia. Basterebbe riflettere su alcuni dati ascrivibili ai soggetti che oggi compongono la quasi totalità della popolazione carceraria e di quella sottoposta a misure di prevenzione per comprendere il processo di razzializzazione posto alla base delle politiche penali. La visione del fenomeno repressivo nella maggior parte dei movimenti, quando non completamente assente, risulta parcellizzata e lontana da sé, come se riguardasse indefinitamente “gli altri”. Una sorta di accettazione/rassegnazione sulla necessità dell’atto punitivo verso “qualcuno” che non mette in discussione né le cause né gli effetti, o meglio, si riconoscono le cause (le diseguaglianze sociali), si riconoscono gli effetti (aumento della violenza e della criminalità) ma si accettano passivamente le soluzioni proposte dalla classe dominante: azione punitiva che va dalla multa/divieto al carcere, passando per il braccialetto ecc. ecc.. In Italia, nell’ultimo periodo, stiamo assistendo ad una trasformazione ulteriore delle politiche penali: basti pensare alla previsione del carcere fino a sei anni per i percettori di reddito di cittadinanza sorpresi a svolgere un lavoro a nero! Che le politiche punitive siano strumenti di controllo e regolamentazione sociale non lo scopriamo oggi, né può essere considerato argomento superato data la pervasività dei dispositivi securitari nel nostro sistema sociale. L’arresto eclatante di Nicoletta Dosio, storica militante No Tav, ha riacceso i riflettori sulla repressione (argomento talvolta tabù nei movimenti) con un rapido sguardo alla realtà carceraria nella sua complessità. Quello che manca oggi è un punto di vista di classe che metta in discussione l’impianto securitario posto alla base della governance nazionale e globale, che provi a ribaltare il giustizialismo imperante che ha fatto accettare anche in ambiti di movimento, e della cd sinistra radicale, la soluzione punitiva come l’unica possibile. Si potrebbero fare numerosi esempi di accettazione del sistema panpenalistico ma basti pensare a quanti “tra noi” ritengono accettabile il regime del 41bis per i presunti mafiosi o terroristi mentre si contesta se applicato ad alcuni prigionieri politici, oppure a quanti non riescono nemmeno ad immaginare una società libera dalle galere. Il piano di ragionamento che si propone muove da una idea abolizionista del sistema penale a 360° che sgomberi il campo dall’equivoco tra giustizialismo e giustizia sociale, potendo dimostrare il fallimento di una istituzione razzista e classista e la barbarie che la stessa rappresenta all’interno di una società che non riesce ad affrontare, attraverso efficaci meccanismi redistributivi delle ricchezze, le diseguaglianze socio-economiche che stanno alla base di buona parte degli illeciti sanzionati penalmente. Ed anche per quanto concerne l’uso e il commercio delle sostanze stupefacenti che, ricordiamolo, rappresenta l’ombelico attorno a cui gravitano sia il sistema penale sia quello criminale, l’approccio dovrebbe essere liberato da ipocrisie di fondo (sconfiggere il traffico e scoraggiarne l’uso) ed avviare politiche di prevenzione e riduzione dei (molteplici) danni. Le cronache degli ultimi anni sono pregne di esempi di uno stato debole e compiacente con i forti e forte con i deboli, quelle che si sono levate contro questo sbilanciamento sono state voci flebili, incapaci di spostare l’ordine del discorso anche per la forte ricattabilità cui sono soggette. Sviluppare oggi una proposta dal basso contro lo Stato penale significa mettere a nudo le contraddizioni interne alla società stessa, ridefinire il perimetro del concetto di legalità (attualmente ad esclusiva difesa delle classi privilegiate, della proprietà privata e della libertà dei mercati e delle imprese) a difesa degli ultimi e dei beni comuni, libertà comprese. Significa liberare il nostro ordinamento dal Codice Rocco e successive degenerazioni, dai singoli decreti criminalizzanti che comprimono sempre più le libertà individuali; significa mettere in discussione il carcere come soluzione alle “violazioni” ed iniziare a vederlo per quello che è: una parte del problema! La narrazione delle classi dominanti ha portato alla criminalizzazione di chiunque osi minare il loro benessere, iniziamo dunque a rivendicare un benessere di classe e universale che ridefinisca anche i concetti stessi di giustizia, crimine e devianza, non accontentandoci più dei pezzetti di diritti che ci lasciano raccattare sotto il tavolo. Bisogna elaborare una critica militante del populismo punitivista, che si articoli su due piani: il primo è quello della critica al giustizialismo, che per molti, a sinistra è diventato il surrogato della giustizia di classe. Sull’altare della legalità si sono sacrificati i diritti dei più deboli, si è introdotto un interclassismo punitivista che trascenderebbe le differenze di classe ma in realtà si traduce nell’incarcerazione e nel controllo preventivo delle classi pericolose. L’altro livello è quello delle politiche penali alternative, che vadano nel senso dell’abolizione di un’istituzione, quella carceraria, che oltre a puntare alla neutralizzazione delle spinte oppositrici all’ordine esistente, tenta di eliminare dal sociale tutti i gruppi sociali che non riesce a governare. Inoltre, il carcere è un luogo di sofferenza estrema, di malattie croniche, suicidi veri o presunti, abusi persistenti. Una società senza carcere, manette facili e legislazioni speciali è una società più giusta. Sottoscrivono: Sandra Berardi, Associazione Yairaiha Onlus Vincenzo Scalia, ricercatore University of Winchester Italo di Sabato, Osservatorio repressione Domenico Bilotti, docente Università Magna Graecia Donato Cardigliano, Associazione Bianca Guidetti Serra Maurizio Nucci, avvocato Eleonora Forenza - Rifondazione Comunista Francesca de Carolis, scrittrice Lisa Sorrentino, Associazione Yairaiha Onlus Carmelo Musumeci, attivista per l’abolizione dell’ ergastolo Antonio Perillo - Rifondazione Comunista Ilario Ammendolia, politico e scrittore Giuseppe Lanzino, avvocato - Yairaiha Damiano Aliprandi, giornalista Peppe Marra, Pap RC Reati d’odio: 3 su 4 hanno matrice razzista Corriere della Sera, 22 gennaio 2020 I messaggi d’odio diminuiscono, anche se non abbastanza. E il razzismo è ancora il motivo alla base di tre episodi di violenza su quattro. È quello che dicono i dati diffusi ieri dall’Oscad, l’Osservatorio interforze per la sicurezza contro gli atti discriminatori. Nel 2019 si sono registrati 969 reati che hanno a che fare con razzismo, identità di genere e disabilità, il 12,7% in meno rispetto ai 1.111 del 2018. Ma si tratta di cifre molto superiori in confronto al 2016, quando si registrarono 736 crimini. Significa che nel 2019, ogni giorno, sono stati compiuti 2,6 reati di questo genere, uno ogni 9 ore. E la differenza è ancora più marcata se si guardano i soli dati relativi alle violenze, fisiche e verbali, che hanno a che fare con razza, etnia, nazionalità o religione: nel 2019 ne sono state segnalate 726, meno delle 801 del 2018 ma molte di più delle 494 del 2016. Sempre sul fronte razzismo si registra un aumento delle aggressioni fisiche (da 88 a 93, erano 28 nel 2o16), degli incitamenti alla violenza (da 220 a 234), degli atti di vandalismo (da 5 a 10) e delle turbative della quiete pubblica (da 49 a 91). Il monitoraggio dei reati, spiega il vice capo della Polizia Vittorio Rizzi, sconta due problemi fondamentali: la mancanza di denunce, che determina una sottostima del fenomeno, e il mancato riconoscimento della matrice discriminatoria da parte delle forze di polizia e degli altri attori del sistema penale. “Non è più accettabile che ci siano episodi di violenza verso il diverso, banalizzare non è più possibile - ha commentato il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Sono troppi e su questo dobbiamo lavorare. Il compito della politica è rendere il paese più inclusivo e porre un freno alle contrapposizioni”. Sulla stessa linea le ministre dell’Istruzione Lucia Azzolina e delle Pari Opportunità Elena Bonetti, che sottolineano la necessità di “intervenire contro il linguaggio d’odio” e di “politiche per eliminare ogni forma d’odio”. Carcere duro, niente dolci alla figlia durante i colloqui: fa reclamo e vince di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 gennaio 2020 Il caso a L’Aquila: la battaglia per garantire i rapporti con il papà con serenità. Nelle sale colloquio per i detenuti al 41bis, non di rado si verificano le scene più penose: bambini in tenera età che - staccati dalla madre che non può accompagnarli - piangono, urlano, scappano dal padre che non hanno mai visto o non riconoscono più. Per ovviare a questo problema, prima della famosa circolare del Dap che ha uniformato le regole per tutti gli istituti che ospitano il 41bis, ai detenuti del Carcere di L’Aquila era consentito acquistare qualche dolciume e qualche giochino da portare a colloquio per intrattenere i minori. Questi beni venivano ovviamente controllati e privati della confezione così da scongiurare qualsiasi possibilità di veicolare messaggi all’esterno. Queste autorizzazioni concesse dalla direttrice si erano rivelate fondamentali per un detenuto al 41bis, il quale grazie ai giochini è riuscito pian piano ad intrattenere la sua piccola di 3 anni dal suo lato, a non farla piangere, a creare con lei un contatto e ad invogliarla a tornare da lui. Sì, perché lei è nata quando il padre era già al 41bis. Dunque, ha conosciuto il papà all’interno del carcere e lo ha vissuto esclusivamente in detto contesto. Non è stato facile per i due instaurare un minimo rapporto essendo fondamentalmente due sconosciuti. A ciò si aggiunge il fatto che la piccola, per raggiungere il padre, deve compiere delle ore di viaggio. Ma poi accade che la direzione del carcere emette il divieto dello scambio di dolci. Il motivo è da ritrovare nella circolare del Dap dove si evidenzia che “i generi, dolci e giocattoli acquistati per i figli e familiari saranno trattenuti al magazzino fino alla consegna, che verrà effettuata dal personale preposto a conclusione del colloquio visivo o per invio tramite pacco alla famiglia”. Ciò ha creato un vero e proprio trauma. Il venir meno di tale autorizzazione, proprio in questo momento in cui è consentito ai minori stare con il genitore per tutta la durata del colloquio, ha minato profondamente non solo la serenità dello svolgimento del colloquio stesso ma anche la serenità del rapporto tra padre e figlia. La bambina, infatti, nell’ultimo colloquio effettuato, ha profondamente risentito della spiacevole novità, annoiandosi dopo pochi minuti dall’ingresso dal lato del padre, chiedendo di tornare dalla madre o addirittura a casa prima della fine delle due ore di colloquio consentite. Per questo motivo il legale del detenuto al 41bis, l’avvocata Nicoletta Ortenzi del foro de L’Aquila, ha fatto reclamo e l’ha vinto. “Come si può pretendere, infatti - ha scritto l’avvocata Ortenzi nella memoria del reclamo, che una piccina di soli tre anni resti per due ore sola con il padre, visto peraltro così di rado, in uno spazio ridottissimo ed asettico, senza la madre e senza avere alcun intrattenimento se non il padre stesso che, nel contempo, dovrebbe anche effettuare il colloquio con i familiari al di là del vetro? Come si può pretendere che una bambina così piccola, anche tornando dalla madre, riesca a sostenere due ore di colloquio senza potersi distrarre ed intrattenere con nulla?”. L’avvocata ha voluto sottolineare soprattutto che l’infanzia dei figli dei detenuti al 41bis non ha tutela. Un colloquio, tra l’altro, che avviene in un ambiente già angusto. “Minare e ostacolare il buon andamento di questo incontro, che già avviene in modo innaturale, appare davvero crudele ed ingiusto”, ribadisce l’avvocata Ortenzi. Il magistrato di sorveglianza ha accolto il reclamo, il Dap ha fatto ricorso, ma è stato respinto. Il tribunale di sorveglianza de l’Aquila, tra le motivazioni, ha evocato le osservazioni della Corte costituzionale: le compromissioni dei diritti nel regime del 41bis sono costituzionalmente legittime soltanto se serve a escludere contatti dei detenuti con il gruppo criminale di riferimento. Tutto il resto, quindi, sono misure afflittive inutili. Ancor di più se distruggono la serenità dei fanciulli. Da ora in poi, grazie all’avvocata Ortenzi che opera nello studio legale aquilano di Barbara Amicarella, Benedetta Di Cesare e Gianluca Monopoli, almeno i bambini possono ridurre il trauma con lo scambio dei dolci e giocattoli. Stop alle interdittive antimafia nei contratti stipulati tra privati di Giuseppe Latorre e Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2020 Consiglio di Stato - Sentenza n. 452 del 20 gennaio 2020. Un vuoto normativo rende inutilizzabili le informative antimafia nei rapporti tra privati. Non può, cioè, essere utilizzato fuori dal perimetro dei contratti con la pubblica amministrazione il documento che attesta l’esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi di una società. La dirompente conclusione arriva dal Consiglio di Stato (sentenza 452 del 20 gennaio 2020) e, oltre a creare una gigantesca spaccatura tra contratti pubblici e privati sul fronte delle tutele, ha l’effetto di travolgere anche tutti quei protocolli di legalità che puntano a rafforzare i controlli in ambito privato. Un’informativa che attesta il tentativo di infiltrazione - va ricordato - nel campo degli appalti pubblici porta all’esclusione dell’impresa. La pronuncia del Consiglio di Stato, invece, spiega che questo stesso principio non può essere applicato anche nel campo degli appalti privati, proprio quando la stessa committenza privata si stava orientando, attraverso i protocolli di legalità, alla selezione più stretta delle imprese. Tutto deriva, come spiegano i giudici, “dalla doverosa applicazione di una disciplina normativa che non offre diversa lettura”. Le norme vigenti (articolo 83 del Codice antimafia 159/2011, modificato nel 2018) consentono infatti di utilizzare le cautele antimafia solo nei rapporti con la pubblica amministrazione: la conseguenza è che i soggetti privati non possono chiedere alle prefetture alcuna documentazione sui rischi di condizionamento mafioso delle imprese cui intendono affidare appalti. Per i privati, resta così inutilizzabile la documentazione, delle prefetture e del casellario gestito dall’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), sulle interdittive antimafia. Nel caso affrontato dalla sentenza, Confindustria Venezia aveva varato un protocollo di legalità, cioè uno schema tipo di contratto tra privati: chi avesse aderito a questo protocollo (pur non essendovi tenuto, in quanto impresa privata) si impegnava a chiedere, prima di stipulare contratti, informazioni antimafia alla prefettura. In questo modo, anche nei rapporti tra privati si intendeva evitare il pericolo di infiltrazione mafiosa. L’obiettivo di questo schema era trasferire nei rapporti tra privati il sistema pubblico di controlli, basato su indagini e giudizi della magistratura penale. Ma ora il Consiglio di Stato frena questa tendenza, osservando che l’informativa antimafia può essere chiesta solo per rapporti contrattuali con pubbliche amministrazioni, e quindi non per rapporti economici tra privati. Se un privato vuole affidare l’esecuzione di lavori ad un’impresa, dovrà ora accertare in proprio, senza l’ausilio delle prefetture e dell’archivio Anac, la qualità del potenziale appaltatore. Più nello specifico, secondo la legge i soggetti che devono acquisire la documentazione hanno tutti natura pubblica: si tratta di amministrazioni ed enti pubblici, anche costituiti in stazioni uniche appaltanti, enti e aziende vigilati dallo Stato o da altro ente pubblico e società o imprese comunque controllate dallo Stato o da altro ente pubblico, “nonché i concessionari di lavori o di servizi pubblici”. A questi vanno aggiunti i contraenti generali. Inoltre, ricorda la sentenza, questa documentazione “può essere utilizzata solo nei rapporti tra una pubblica amministrazione ed il privato e non, come nella specie, nei rapporti tra privati”. Esiste allora un vuoto nella nostra legge: mentre il tessuto economico vede espandersi i controlli antimafia, impedendo anche attività private (autorizzazioni commerciali, Scia, permessi edilizi, concessioni demaniali), la normativa antimafia non prevede nulla nei rapporti tra privati. La legge applica i controlli solo ai casi in cui il privato in odore di mafia contragga con un parte pubblica, mentre l’attività economica tra privati è completamente libera. E questo vuoto normativo non può essere colmato da un protocollo di legalità. A questo proposito, allora, i giudici si chiedono se non sia il caso di “valutare il ritorno alla originaria formulazione del Codice antimafia, nel senso che l’informazione antimafia possa essere richiesta anche da un soggetto privato ed anche per rapporti esclusivamente tra privati”. Giudici e prefetture identificano il tentativo di infiltrazione mafiosa di Guglielmo Saporito Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2020 La distinzione tra appalti pubblici e privati per quanto riguarda il rischio di infiltrazione mafiosa è frutto del rigore adottato dal Consiglio di Stato nel decidere le liti sull’intero territorio nazionale. Le norme parlano di generici “tentativi di infiltrazione”, ma sono poi i giudici a chiarire quali siano gli elementi sintomatici del condizionamento mafioso, cosa siano la contiguità, le circostanze di tempo, luogo e persone, cosa sia il concorso esterno, i rapporti di parentela, frequentazione, colleganza, amicizia, l’anomala gestione di un’impresa, l’influenza, la soggezione o la tolleranza, la composizione degli organi sociali, il peso di scissioni, fusioni, affitti di azienda, aumenti di capitale sociale ed il valzer di cariche nella gestione di società. Mentre le condanne spettano alla magistratura penale, spetta alle prefetture ed ai giudici amministrativi la verifica della permeabilità mafiosa di un’impresa: le possibili conseguenze di tale verifica, cioè l’espulsione dal mercato dei contratti, sono poi maggiori rispetto ad una sentenza penale di condanna. Inoltre, un conto è valutare i rapporti di parentela (sulla famiglia mafiosa, Consiglio di Stato 2/2020) o l’indagine aziendalistica sulla gestione di una società grazie alle indagini di polizia giudiziaria (Tar Milano 2480/2019), un conto è affidarsi ai normali meccanismi di gestione e controllo previsti per la società dal Dlgs 231/2001 o dalle norme di contabilità anticorruzione. Proprio tenendo presenti i positivi risultati raggiunti attraverso sia l’espulsione dal mercato dei contratti pubblici, sia le revoche di attività in odore di mafia nel settore dell’edilizia e del commercio (Consiglio di Stato, 6057/2019 su strutture alberghiere), i giudici si rammaricano che un’identica selezione non possa avvenire tra privati. Finché i due mercati, pubblico e privato, non saranno allineati, resteranno traballanti anche le white-list, cioè gli elenchi di soggetti esenti da infiltrazioni. Resteranno anche poco significativi i rating, se ognuno delimitato dai soli fattori esaminati, senza che le informative prefettizie possano avere un peso determinante nei rapporti tra privati. La stessa qualità di fornitore della pubblica amministrazione, che aveva faticosamente risalito la china della credibilità, diventando spendibile anche nel regime dei contratti privati grazie al filtro rappresentato dai controlli antimafia, diventa parziale. E ciò proprio mentre l’Unione europea, chiamata a pronunciarsi sull’espulsione delle imprese dal mercato degli appalti pubblici a seguito di informative antimafia, aveva riconosciuto (Corte di Giustizia del 2015, C-425/14) il filtro antimafia pienamente compatibile con il diritto europeo dei contratti pubblici. Napoli. Malato di Hiv uscito da Poggioreale “mai esami clinici, lì dentro c’è il diavolo” di Ciro Cuozzo Il Riformista, 22 gennaio 2020 È stato scarcerato lo scorso 16 gennaio dopo aver scontato una condanna di sei mesi per bancarotta fraudolenta. Giuseppe Wierdis ha quasi 63 anni e da circa la metà ha il virus dell’Hiv. Durante il periodo di detenzione in un piano del padiglione Roma riservato ai sieropositivi del carcere di Poggioreale ha chiesto, invano, maggiore assistenza sanitaria proprio a causa delle sue condizioni di salute. Intervistato dal Riformista, Giuseppe ha raccontato la sua esperienza in una delle prigioni più problematiche e critiche d’Italia. “Eravamo almeno 150 nel padiglione Roma dove vengono reclusi sieropositivi, diabetici, tossici. Se ti metti a visita medica - spiega - devi essere fortunato se ti chiamano dopo 15-20 giorni”. Giuseppe ha il volto provato dagli acciacchi fisici che anno dopo anno si fanno sempre più sentire. Prende le pillole che ogni mese va a ritirare lui o, su delega, i suoi familiari al Policlinico di Napoli e periodicamente si deve sottoporre a degli esami clinici per tenere sotto controllo i valori del sangue. “In sei mesi non sono stato sottoposto ad alcun esame. Oggi, da libero, sto al 60% e avrei bisogno di una decina di giorni di ricovero per riequilibrare tutti i valori. Purtroppo nel carcere di Poggioreale hai a che fare con il ‘muro di Berlino’. Puoi lamentarti quanto vuoi, serve davvero a poco, non ci sentono”. Per rafforzare questa sua convinzione racconta un episodio avvenuto nei mesi scorsi. “Se ne andò un medico, venne una nuova dottoressa e i primi giorni si rese conto della situazione. Era sconvolta, bastava guardarci in faccia per capire che stavamo male. Il terzo giorno quando la rividi sentivo soltanto dirle “lei sta così, può andare” e capii subito che avevano fatto l’iniezione anche a lei, cioè si era subito adeguata alla situazione”. Durante il suo periodo di detenzione Giuseppe ribadisce di non essere mai stato sottoposto a nessuno degli esami previsti per i malati di Hiv. “Anche il mio compagno di cella, che era lì da più tempo lamentava la stessa cosa. Nel carcere spesso non hanno tutti i farmaci e qualche volta mi davano una pillola celestina per dormire e non sentire i dolori ai piedi e alle gambe. Poi però la mattina mi svegliavo male e chiedevo agli infermieri di darmi qualche antidolorifico per evitare di riprendere questi farmaci”. All’interno del carcere Giuseppe spiega che la “moneta è il tabacco” e che nonostante la bellezza del padiglione Roma, recentemente ristrutturato, “all’interno c’è il diavolo, c’è marciume. Ci sono persone che non possono andare in bagno perché fa freddo e le porte sono danneggiate o rotte. Nelle celle però ci sono i termosifoni e si sta bene”. Poi l’elogio agli agenti della Polizia penitenziaria: “Chi viene a visitare il carcere di Poggioreale non può vedere solo dove hanno lavato a terra ma devono mostrargli tutte le criticità che ci sono. Non hanno personale a sufficienza ma ci sono agenti che si ammazzano di lavoro e sono persone che ti ascoltano e ti aiutano, voglio ringraziarli per quanto fatto”. Commenta così la vicenda Pietro Ioia, garante dei detenuti per il comune di Napoli: “La sanità è il primo problema che si deve risolvere nel carcere di Poggioreale dove ho riscontrato l’assenza dei medici parlando con detenuti e la polizia penitenziaria, già sotto organico, deve pure sostituirsi agli infermieri. Bisogna trovare un accordo proficuo con l’Asl e con i vari ospedali”. Sull’intervista-denuncia è intervenuto anche il garante dei detenuti della regione Campania Samuale Ciambriello: “Ho chiesto alla direzione sanitaria del carcere notizie sull’ex detenuto in questione, al momento sono in attesa. Voglio però ribadire una cosa - aggiunge - il garante regionale è un pubblico ufficiale ed è pronto a raccogliere tutte le denunce a tutela dei diritti dei detenuti”. Nel carcere di Poggioreale a inizio febbraio si insedierà il nuovo direttore Carlo Berdini, 52 anni, già alla guida dell’istituto di Firenze Sollicciano e attuale direttore dell’Ufficio IV - Formazione Polizia Penitenziaria della Direzione Generale della Formazione del Dap. Berdini subentrerà a Maria Luisa Palma. “Al nuovo direttore posso fare solo i miei auguri. Non la prendesse però come una premiazione ma come una missione perché il carcere di Poggioreale è pieno di problematiche: sanità, sovraffollamento, vivono tutti male, sia polizia che detenuti”. Gorizia. Caso Gradisca, rischio rimpatrio per chi ha accusato la polizia di Paolo Comi Il Riformista, 22 gennaio 2020 Il caso del migrante morto nel Cpr friulano. L’allarme del vicepresidente dell’Asgi, Gianfranco Schiavone: “Gli ospiti del centro possono essere mandati via, è da scongiurare la sparizione dei reclusi che hanno accusato gli agenti”. Se si vuol fare piena luce sulla morte del 38enne georgiano Vakhtang Enukidze, avvenuta nel Centro per i rimpatri di Gradisca d’Isonzo lo scorso 18 gennaio, bisogna fare presto. C’è il pericolo che spariscano testimoni importanti per l’inchiesta che la procura di Gorizia ha aperto contro ignoti per omicidio volontario. A lanciare l’allarme è Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Asgi (l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) che da subito si è mobilitato per chiedere chiarezza sulla vicenda La versione circolata nelle prime ore riconduceva la morte di Enukidze alle lesioni riportate pochi giorni prima, in una rissa con un altro ospite della struttura. Questa ricostruzione però sarebbe stata smentita dai reclusi che hanno assistito alla colluttazione e che avrebbero invece puntato il dito sull’operato degli agenti intervenuti per sedarla, come ha raccontato ieri sul Riformista il deputato radicale Riccardo Magi, che è potuto entrare nel centro per raccogliere voci e informazioni sull’accaduto. “Non possiamo nascondere che ci siano accuse alla polizia mosse da diversi migranti non collegati tra loro, all’interno del Cpr ma anche non più presenti nel centro e quindi senza alcun interesse a entrare nella vicenda Queste testimonianze devono essere vagliate con la massima serietà, ma il presupposto è che le persone ci siano”, spiega Schiavone al Riformista. “Parliamo di un centro per rimpatri dal quale le persone possono essere mandate via. Quindi può succedere per caso, o non per caso - in modo forzato - che nell’ambito di una regolare procedura di rimpatrio si verifichi una sparizione dei testimoni”. Di un rimpatrio già avvenuto e di altri imminenti aveva parlato anche Magi nel resoconto della sua visita ispettiva. Secondo Gianfranco Schiavone, per la raccolta delle testimonianze “non ci si può affidare alla stesura del verbale di sommarie informazioni raccolte dalla polizia all’interno del Cpr”, perché “ci sarebbe il rischio di intimidazioni o di pressioni fortissime” nei riguardi dei migranti. “La Procura dovrebbe valutare quali siano i testimoni più attendibili e solo per questi - dice Schiavone - si potrebbe considerare il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di giustizia, così da farli uscire dal Cpr. Se scappano vuol dire che la loro testimonianza non è attendibile”, continua, “ma prolungare il trattenimento nel centro per raccogliere le testimonianze, magari in caso di una data per il rimpatrio già fissata, rischia di essere punitivo. Le condizioni di vita nel Cpr sono di forte disagio”. E poi, osserva il vicepresidente dell’Asgi parlando con il Riformista, “il contesto non è neutrale. Nel Cpr sono presenti tutte le forze di polizia e qualsiasi operatore delle forze dell’ordine non sarebbe percepito dai reclusi come neutrale, anche se incaricato dalla Procura. Per questo le persone informate dei fatti dovrebbero essere ascoltate fuori dal Cpr e a loro dovrebbero essere assicurate le maggiori garanzie possibili perché non siano oggetto di ritorsioni. Quasi nessuno di loro conosce l’ordinamento giudiziario italiano e provengono da Paesi non democratici, dove la distinzione tra polizia e giudici è molto labile”, sottolinea Insomma, “siamo in un campo minato, la tempestività e l’accuratezza nelle raccolta delle testimonianze sono condizioni fondamentali”, conclude Gianfranco Schiavone, che di tutto questo e degli ultimi sviluppi della vicenda parlerà oggi alla Camera insieme a Riccardo Magi in una conferenza stampa dal titolo emblematico: “Morte al Cpr di Gradisca: il rischio di un nuovo caso Cucchi”. Per il procuratore di Gorizia, Massimo Lia, sarà l’autopsia lo snodo fondamentale per indirizzare l’inchiesta sulla morte di Vakhtang Enukidze. “Fino a ora, su questo caso si è detto e scritto tutto e il contrario di tutto, ma per noi è decisivo procedere unicamente a fronte delle certezze che soltanto l’esame potrà fornire”, ha dichiarato. L’incarico è stato affidato al dottor Carlo Moreschi e l’esame è stato fissato per questa mattina, ma, fa sapere il procuratore, potrebbe slittare di qualche giorno, perché i familiari di Enukidze vorrebbero nominare un proprio consulente tecnico che possa rappresentarli durante l’autopsia e gli altri accertamenti medici, i risultati saranno disponibili in un paio di mesi. Chieti. Iniziativa stile “Arancia Meccanica”, stimoli per verificare l’aggressività dei detenuti di Maria Trozzi La Notizia, 22 gennaio 2020 In Abruzzo si fanno esperimenti sui detenuti? Se lo chiede Maurizio Acerbo, segretario Rifondazione comunista, alla luce delle scelte fatte dal garante dei detenuti scelto dalla giunta sovranista di Marco Marsilio. Un’iniziativa che sembra richiamare le scene di Arancia meccanica di Stanley Kubrick, dove l’incallito criminale Alex è sottoposto a un trattamento che lo priva della reazione agli stimoli, lasciandolo indifeso. È infatti un progetto proprio sugli stimoli quello dedicato ai detenuti del carcere di Chieti, messo a punto dal garante Gianmarco Cifaldi, docente dell’università D’Annunzio Chieti-Pescara, che ha sottoscritto un protocollo con il rettore della D’Annunzio, Sergio Caputi, e il direttore del carcere teatino, Franco Pettinelli. Verrà effettuata una ricerca per verificare i presupposti di un comportamento deviante mediante una metodica di stimolo-risposta, viene spiegato in burocratese, attraverso una strumentazione non invasiva per verificare il grado di aggressività del detenuto. “L’attività che si vuole portare in carcere è l’opposto di quello che è stato detto. Hanno creato un polverone”, prova a giustificarsi Cifaldi. Si oppone sconcertato invece Acerbo, autore della legge che nel 2011 ha istituito, in Abruzzo, il Garante. L’ex parlamentare non nasconde incredulità e indignazione: “Potevamo avere Rita Bernardini e invece ci ritroviamo un imitatore di Lombroso”. Eletto 6 mesi fa, a maggioranza qualificata del consiglio regionale (23 consiglieri su 29, 5 schede bianche del Pd), il garante delle persone sottoposte a misure restrittive replica: “Ho attivato da quest’anno l’iscrizione ai corsi universitari per i detenuti che non pagano e ho stimolato degli incontri per far frequentare ai ristretti i corsi universitari e mandare i colleghi a fare lezione sui vari temi. Perché l’equazione virtuosa è che più sei acculturato meno delinqui. Questo a testimonianza della particolare attenzione che non è la ricerca lombrosiana, anche se l’indicazione non mi dispiace. Ringrazio Acerbo”. Un botta e risposta insomma tra il professore e il politico. “Siamo di fronte alla palese distorsione del ruolo del garante che non è quello di retribuire un professore già stipendiato dall’università per emulare Lombroso. Mi sembra una situazione evidente di conflitto d’interessi - sostiene Acerbo - si dimetta e poi presenti a un nuovo garante le sue proposte di sperimentazione”. Controbatte il professore: “A malapena mi ripago con i rimborsi, io lo faccio perché ci credo”. E con gli stanziamenti in Finanziaria regionale quest’anno Cifaldi potrà disporre dei primi due assistenti. “Tra i compiti che la legge affida al garante dei detenuti non ci sono quelli di trasformarli in cavie - insiste Acerbo - i consiglieri regionali intervengano. I detenuti hanno tanti problemi, ora devono pure subire gli esperimenti del garante”. Cifaldi, contattato da La Notizia, spiega che i detenuti saranno volontari. Ma i dubbi sull’esperimento sovranista restano tutti. Asti. Sentenza prima della difesa: polemica fra Anm e Camera penale del Piemonte La Stampa, 22 gennaio 2020 Reazioni a una lettera inviata ai giudici astigiani. La replica di Francesco Saluzzo, Procuratore generale del Piemonte. “Inaccettabile” e “gravemente intimidatoria”. Così l’Anm (Associazione nazionale magistrati) del Piemonte definisce un’iniziativa attribuita alla Camera penale subalpina, che ha inoltrato a tre giudici del Tribunale di Asti una lettera con l’invito a chiedere di cambiare settore e distretto. Ciò in seguito al caso delle scorse settimane, della sentenza letta in aula, durante un processo nal tribunale di Asti, prima che fosse data la parola all’avvocato difensore dell’imputato. La lettera risulta giunta per conoscenza al Csm, al Presidente della Corte d’Appello del Piemonte, al procuratore generale e al presidente del Tribunale di Asti. “Una progressiva e preoccupante ingravescenza nella campagna mediatica e di delegittimazione messa in atto da parte dell’Avvocatura nei confronti dei colleghi coinvolti e dell’intera Magistratura”. Inizia così la nota dell’Anm a commento dell’iniziativa della camera penale subalpina. L’Anm osserva che la richiesta proviene da “un organo in nessun modo legittimato ad intervenire in ordine allo stato, alle valutazioni di professionalità e alla sede dei magistrati”, appare “largamente esorbitante dai limiti della critica legittima” e risulta “inaccettabile, in quanto sottende valutazioni in ordine alla capacità professionale, alla compatibilità ambientale ed alla dignità personale dei colleghi coinvolti che spettano esclusivamente agli organi istituzionali preposti”. “Gravemente intimidatorie - prosegue la nota dell’Anm - risultano poi le modalità prescelte, ovvero una lettera diretta personalmente ai magistrati, nella quale si sentenzia una situazione di insanabile perdita di credibilità che sconfinerebbe nell’incompatibilità ambientale”. Solo la legge “prevede come, quando, e da parte di quale pubblica autorità, è possibile il trasferimento dei magistrati”. È quanto afferma il procuratore generale del Piemonte, Francesco Saluzzo. Un caso “grave” ma “isolato” che non ammette “misure sommarie” o “pubbliche intimazioni a singoli magistrati”, aggiunge Saluzzo. “Ricordo - dice Saluzzo - che il presidente del tribunale e il procuratore di Asti hanno immediatamente segnalato l’accaduto (grave, inusitato, chi lo può negare?) al Consiglio Superiore della magistratura e alle altre autorità chiamate ad accertare e valutare le responsabilità dei magistrati”. La lettera della Camera penale del Piemonte è, secondo Saluzzo, una circostanza “destabilizzante ed estranea al perimetro istituzionale”, una forma di pressione “con una dose di brutalità”. “Non spetta ad alcuno, e nemmeno agli avvocati singoli o associati - scrive Saluzzo - fare pressioni sugli organi costituzionali o istituzionali ai quali è rimesso il potere della valutazione e della sanzione. Non è ammissibile che si invochino misure sommarie e neppure che si esercitino pubbliche intimazioni a singoli magistrati venendo così a creare artificiosamente situazione di debolezza ambientale e di difficoltà nell’esercizio della giurisdizione. Soprattutto a fronte di un fatto isolato, unico e per nulla indice di una diffusa tendenza alla sottovalutazione del ruolo della difesa”. Saluzzo osserva che “quei magistrati hanno diritto a che il loro caso sia esaminato e trattato con la stessa serenità che i giudici riservano e garantiscono a chi è portato al loro giudizio” e che in questa circostanza “si vorrebbero negare loro quei diritti che gli avvocati per primi sempre rivendicano e per i quali si battono con tante giuste iniziative”. Torino. Cpr: la Garante comunale dei detenuti monitora le condizioni di vita nel centro di Federico Dagostino comune.torino.it, 22 gennaio 2020 Il Consiglio Comunale si era pronunciato a favore della sua chiusura. Si tratta del Cpr, il Centro Permanenza Rimpatri di corso Brunelleschi. Si presenta a tutti gli effetti come luogo di detenzione, nonostante le persone private della libertà lo siano in virtù di violazioni amministrative. In particolare, si tratta di persone giunte da istituti penitenziari, dove hanno scontato una pena, o persone sprovviste di richiesta di permesso di soggiorno. Tutte in attesa di essere rimpatriate. Questa mattina, la commissione Legalità, presieduta da Carlotta Tevere, è stata proprio dedicata ad un approfondimento sulla gestione del centro e soprattutto alla vita delle persone che lo popolano. Il quadro lo ha delineato Monica Cristina Gallo, garante del Comune di Torino per i diritti dei detenuti, che svolge anche un ruolo di monitoraggio delle condizioni di trattenimento delle persone nel Cpr e dei casi di incompatibilità (malattie, o patologie cronico degenerative, stati psichiatrici), in accordo con i Garanti nazionale e regionale, e dei rimpatri forzati. Effettua visite periodiche non annunciate, riceve segnalazioni, si confronta con altri enti, con la Direzione del centro e con l’Ufficio immigrazione della Questura. Il Cpr è una struttura chiusa con limitazioni di libertà e di circolazione che vede solo presenze maschili che dovrebbero essere trattenute solo per l’identificazione con l’obiettivo dell’allontanamento. La Garante ha sottolineato come non siano previsti percorsi rieducativi né attività di alcun genere. Il cosiddetto Decreto Sicurezza, introdotto nel 2018, prevede tempi di “detenzione” fino a 180 giorni; per i richiedenti protezione internazionale massimo 12 mesi. I Cpr in Italia sono aumentati da 4 a fine 2017 a 7 a settembre dello scorso anno. I posti sono raddoppiati, da 452 a 890. Nello stesso tempo, però, c’è stata una riduzione significativa dei servizi alla persona, a partire da quelli sanitari: il personale medico ha visto una riduzioni di ore di oltre il 70%, l’assistenza legale del 55%, le ore di insegnamento di una lingua addirittura del 100%. Il Cpr di corso Brunelleschi ha una capienza massima di 180 persone. A novembre 2019 gli ospiti erano 142, attualmente sono 78. Ci sono stati 32 trasferimenti in altri Cpr, 12 arresti e 21 rimpatri. Molti di questi provvedimenti legati agli incendi e alle rivolte che ci sono state negli ultimi sei mesi. Non sono mancati scioperi della fame ed episodi di autolesionismo finalizzati a denunciare le condizioni precarie di vita. Recentemente, anche i cellulari sono stati sequestrati per evitare il collegamento con altri Cpr e la possibilità di organizzare rivolte simultanee. La garante ha quindi illustrato le raccomandazioni finalizzate al miglioramento della vita all’interno del Centro, tra le quali l’organizzazione di attività ricreative (con il coinvolgimento anche di soggetti esterni), l’utilizzo del centro sportivo o la possibilità di accendere e spegnere la luce in modo autonomo e non centralizzato. Livorno. Chiude il macello all’isola di Gorgona: gli animali saranno curati dai detenuti Corriere Fiorentino, 22 gennaio 2020 Firmato un protocollo d’intesa tra Comune, Casa circondariale e Lav. L’accordo prevede che il mattatoio sarà smantellato e diventerà uno spazio attività. Un protocollo d’intesa per la chiusura del macello presente alla Gorgona salvando così dalla macellazione i 588 animali da allevamento presenti sull’isola. È stato siglato a Livorno da Comune, casa circondariale e Lav. L’accordo prevede che il mattatoio sarà smantellato e diventerà uno spazio attività. Circa 450 animali da allevamento lasceranno man a mano l’isola e la Lav assicurerà i contatti con realtà interessate a ospitarli, con il vincolo della non macellazione e della non riproduzione. Gli animali che resteranno alla Gorgona saranno invece curati dai detenuti con un programma di relazione della cattedra di Diritto Penitenziario dell’Università Bicocca di Milano, e impiegati anche nel turismo eco compatibile sull’isola. Nel 2015 il mattatoio sull’isola riaprì dopo una chiusura temporanea e un esperimento di fattoria didattica guidata dal veterinario Marco Verdone, in cui i detenuti si prendevano cura degli animali. Contro la riapertura del macello si schierarono figure di spicco quali Susanna Tamaro, Erri De Luca e Stefano Rodotà, che scrissero al presidente della Repubblica Sergio Mattarella per salvare gli agnelli, i suini e tutti gli altri animali di Gorgona. “Ho fortemente voluto questo accordo - dice il sottosegretario alla Giustizia, Vittorio Ferraresi- e mi sono impegnato in prima persona per portarlo a termine, anche recandomi sull’isola lo scorso giugno. Non abbiamo solo salvato la vita degli animali, ma abbiamo anche reso un servizio ai detenuti che, d’ora in poi, potranno occupare il proprio tempo in modo non violento e utile anche per il periodo successivo alla detenzione: attività con animali, agricole e programmi di turismo eco compatibile, che saranno portate avanti sull’isola”. Latina. Oltre il muro “grazie” a un film e a un libro di Remigio Russo Avvenire, 22 gennaio 2020 Un buon libro da leggere, scrivere o vedere un film. Sono occasioni non solo ricreative, servono anche a un ripensamento di sé e del proprio vissuto e intraprendere così un nuovo percorso di vita. Almeno per le donne rinchiuse nella sezione Alta Sicurezza della casa circondariale di Latina, riservata alle recluse per reati di mafia e altri gravi reati associativi e con forti limitazioni nella stessa vita carceraria rispetto ai detenuti comuni. Lunedì pomeriggio, grazie alla disponibilità della direzione del penitenziario le recluse hanno assistito alla proiezione del film Sezione femminile, del regista Eugenio Melloni e prodotto da R2Production di Riccardo Badolato. Una pellicola sulla difficile situazione interiore delle donne finite in carcere, con le loro paure e vergogne, le relazioni con le proprie famiglie che a volte si interrompono, i nuovi rapporti “tra le sbarre”, l’incertezza del futuro una volta che si uscirà dal carcere. Insomma, un vissuto in cui ritrovarsi e da cui partire per un riscatto personale. Questo speciale evento è stato reso possibile dal gruppo della Caritas della diocesi di Latina- Terracina-Sezze-Priverno che da alcuni anni svolge il servizio di volontariato carcerario a Latina all’interno della struttura di via Aspromonte, gestendo anche uno sportello di ascolto per i detenuti. “Questa esperienza è scaturita da un’altra iniziativa che come Caritas stiamo portando avanti nel carcere”, ha spiegato Pietro Gava, coordinatore del servizio, “si tratta di un progetto con cui offriamo un laboratorio di lettura e scrittura, che al momento per esigenze organizzative la direzione del carcere ha autorizzato solo per la sezione femminile”. In sostanza, i volontari hanno voluto creare un ponte comunicativo letterario tra l’interno e l’esterno dell’istituto penitenziario per mettere in comunicazione questi due mondi apparentemente così diversi, scegliendo la lettura come attività di comprensione del mondo e favorendo allo stesso tempo la connessione con partner di ogni tipo: istituzioni, altre associazioni, librerie, editori, scuole, lettori. Milano. Segre a San Vittore: “Dai detenuti unici gesti di umanità prima della deportazione” di Zita Dazzi La Repubblica, 22 gennaio 2020 La senatrice a vita in carcere per rendere omaggio alla memoria di Andrea Schivo, agente carcerario che morì in un campo di concentramento: “Non dimenticherò mai chi cercò di aiutarci”. “Di Salvini preferisco non parlare, mi interessano di più i detenuti della politica”. Così Liliana Segre risponde a chi le chiede un commento sull’ultima uscita del leader leghista a proposito dell’antisemitismo legato alla presenza dei musulmani in Italia. La senatrice a vita lo dice alla conclusione di una commovente commemorazione dell’agente di polizia penitenziaria Andrea Schivo, ricordato con una pietra d’inciampo davanti al carcere milanese di San Vittore. Schivo nel ‘44 venne arrestato dalla Gestapo e deportato a Flossenburg, dove morì per aver aiutato i detenuti ebrei, e per questo è ricordato come giusto delle Nazioni a al memoriale di Yad Vashem in Israele. Liliana Segre è tornata così nel carcere dove venne detenuta a soli 13 anni, prima della deportazione ad Auschwitz, assieme al padre. Racconta i 40 giorni di paura e di sofferenza assieme ad altre centinaia di ebrei arrestati dalle SS. “I detenuti di San Vittore furono gli unici umani che incontrammo in quei tristi giorni. In 605 venimmo chiamati per salire sui vagoni blindati ed andare ad Auschwitz. I carcerati vedendoci partire e sapendo che eravamo innocenti ci salutarono lanciandoci quel poco che avevano: arance, mele, qualche sciarpa e soprattutto le loro benedizioni che ci furono di grande conforto e che io ancora oggi ricordo con grande affetto”. Durante la cerimonia le detenute hanno ricostruito la vita e le azioni di Schivo e di alcuni altri agenti di custodia che aiutarono gli ebrei, tutti catturati e deportati dalle SS perché portavano ai prigionieri cibo e messaggi dei parenti all’esterno. Presenti anche alcuni familiari dell’agente Schivo, il direttore del carcere Giacinto Siciliano, Francesco Basentini, al vertice del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il presidente dell’Anpi di Milano Roberto Cenati e quello del comitato per le pietre d’Inciampo Marco Steiner. “Per me entrare a San Vittore è un grandissimo shock e una grande emozione, che purtroppo non posso condividere con nessuno, perché sono l’unica ritornata dal viaggio della morte. L’agente Andrea Schivo scelse di essere un uomo - ha concluso la senatrice a vita - a differenza del 99% degli italiani che invece avevano scelto l’indifferenza, la paura e il non obbedire alla propria coscienza: lui aveva scelto di essere un uomo. Non dimenticherò mai per il resto della mia vita quei detenuti che furono una manna nel deserto dei sentimenti, dell’etica e dell’umanità”. Alla fine della cerimonia una detenuta, che si è definita “orgogliosamente zingara”, ha regalato una rosa bianca alla senatrice Segre, anche in ricordo del Porrajmos, l’Olocasto dei rom finiti negli stessi campi di sterminio dove morirono sei milioni di ebrei. Siena. L’attore Natalino Balasso incontra i detenuti del carcere di Santo Spirito di Claudio Marini sienanews.it, 22 gennaio 2020 La prima volta che ho visto Natalino Balasso in televisione era intorno al 2000, a Zelig, quando in una gag di pochi minuti, impersonava un attore di film a luci rosse (…non a luci rosse, porno! correggerebbe lui) che si doveva “piegare” alle esigenze della produzione. Me lo ricordo qualche anno dopo nei panni del professore, a Zelig e Mai dire gol, che parlava dei somari dei sumeri non semiti… poi ne ho perso un po’ le tracce. Quando ho saputo che sarebbe venuto a Siena con uno dei lavori più celebri di Goldoni, Arlecchino servitore di due padroni, ho deciso di invitarlo a incontrare i detenuti nella piccola casa circondariale di Santo Spirito. L’artista del Polesine ha subito accettato entusiasta la nostra richiesta e questa mattina, prima di continuare a Firenze la sua tournée teatrale, ha deciso di sacrificare un po’ del suo riposo tra uno spettacolo e l’altro per incontrare gli ospiti della nostra struttura. Nonostante le temperature rigide del teatro del carcere, i detenuti hanno risposto con piacere e partecipazione all’evento e a scaldare l’ambiente ci ha pensato subito Natalino che ha parlato della sua esperienza teatrale, sia come attore comico che come attore drammatico (meravigliosa l’interpretazione nella pièce goldoniana in questi giorni ai Rinnovati), dell’importanza e della difficoltà del far ridere e del ruolo centrale della parola nella comunicazione. La sala è rimasta divertita quando ha spiegato il doppiaggio dozzinale dei film destinati al pubblico russo, dove una voce maschile, piatta, monotona e senza enfasi, descrive, nel vero senso della parola, i dialoghi dei vari personaggi maschili e femminili, del tipo: lei gli ha chiesto come sta, lui ha risposto “bene grazie e tu”, lei ha detto “non c’è male”… etc… chiosando “che già non è piacevole su un film normale… immaginatelo sul film che stavo vedendo, che era un porno!” Piano piano alcuni detenuti hanno trovato il coraggio di fare qualche domanda e chiedere all’artista alcune cose sulla sua vita artistica e professionale. Dai suoi esordi a Zelig (lui è uno dei fondatori) fino al film Lazzaro felice di Alice Rohrwacher, dalle sue amicizie e collaborazioni nel mondo dello spettacolo fino ai registi con i quali ha lavorato o con i quali gli piacerebbe lavorare. in futuro È stato un racconto appassionato, mai banale, dove l’attore, in una sorta di outing artistico, ha dichiarato il suo incondizionato amore (e dedizione) per il teatro, dove il rapporto diretto e coesistenziale con il pubblico (nel cinema vediamo spesso film di attori passati a miglior vita, così come i quadri nella pittura) lo rende un genere intimo e particolare: ogni rappresentazione è unica e irripetibile, se cadi - perché succede spesso - devi essere bravo a rialzarti e continuare (e questo forse era un messaggio importante rivolto tacitamente alla platea odierna). “Nel corso di un’intera vita, a teatro, puoi interpretare diversi ruoli in base all’età anagrafica, senza la necessità di apparire sempre giovane, con tinte e lifting, a differenza di quanto spesso avviene nell’ambiente televisivo”. Ecco perché al cinema e alla televisione si dedica solo nelle pause estive, tra una tournée teatrale e l’altra. Ma Natalino Balasso è un artista che sa cogliere le assurde contraddizioni dei nostri tempi e con una satira sottile ci porta a riflettere sulla società, sul teatro (che non deve essere imposto agli studenti dei vari istituti scolastici come fosse una punizione!) e sulla scuola stessa dove, per un malinteso senso della democrazia, oggi, sono i professori che devono stare attenti ai voti degli studenti e delle famiglie… e con lui (Balasso e la scuola) bisogna arrivare all’amara conclusione che “questa non è più scuola… è Trip Advisor!”. Purtroppo queste cose non le può dire in TV ma soltanto in un piccolo carcere, davanti a una trentina di detenuti e qualche docente, dove ha parlato dei paletti imposti dalle varie reti per cui ha lavorato (pubbliche e private), sottolineando il fatto che, da piccole o grandi forme di censura, nemmeno il teatro è del tutto immune. I detenuti hanno chiesto con quali attori famosi ha mantenuto, nel tempo, un rapporto che andasse oltre quello lavorativo, di amicizia per intenderci. Natalino, che pur ha lavorato con artisti del calibro di Silvio Orlando, Paolo Villaggio, etc…, ha spiegato di come spesso la celebrità, la fama (in Italia come altrove) sia sovrastimata a discapito del talento e della bravura e ha tessuto le lodi della bravissima ma non altrettanto conosciuta Elisabetta Mazzullo (e di altri che la memoria non mi aiuta a ricordare), in questa tournée nel palco insieme a lui nei panni di Beatrice Rasponi. Sebbene Natalino Balasso non sia rimasto “confinato” in alcune sue vecchie maschere comiche, ha voluto, nel finale dell’incontro far sorridere i detenuti con una classica barzelletta, raccontata però alla sua maniera. E così anche questo incontro è volto velocemente al termine e ha fatto scoprire, ai detenuti (e non) presenti, una persona complessa, intelligente e di una simpatia contagiosa che magari attraverso lo schermo di un televisore avrebbero relegato solo nel ruolo (pur divertente) del professore o dell’attore di nicchia. Natalino Balasso è molto, molto di più. E oggi, concedendosi con tutto il suo entusiasmo e la sua partecipazione a un pubblico particolare, lo ha dimostrato sul campo. Legalità e giustizia, tra Costituzione e emergenza di Tamar Pitch Il Manifesto, 22 gennaio 2020 Non tutto ciò che è legale è anche giusto. Un’ovvietà, se non altro dopo la catastrofe dei totalitarismi novecenteschi. Ma se “legalità” indica l’osservanza delle leggi positive, che cosa significa, oggi, “giustizia”? Giustizia è forse nozione relativa, diversa a seconda da dove si parla, da chi si è e vuole essere, dalle circostanze storiche, sociali, culturali in cui ci si trova? Se ne può, viceversa, cogliere un significato universale attraverso la ragione, la discussione pubblica, il dialogo dietro un velo d’ignoranza? Davvero, come sostiene per esempio Luigi Ferrajoli, Antigone e Creonte si incontrano e riconciliano nelle costituzioni europee del secondo dopoguerra? È proprio Antigone a esser stata più volte, e non sempre opportunamente, invocata, come figura appunto della Giustizia contrapposta alla Legalità, nel corso delle vicende di questi ultimi mesi e anni. E pour cause: nel contesto attuale, italiano e non solo, assistiamo per un verso all’enfasi sulla legalità come legittimazione di sgomberi di edifici occupati, persecuzione e criminalizzazione della povertà e marginalità sociale, respingimenti in mare di profughi e migranti, e per altro verso alla produzione di norme positive dalla assai dubbia legittimità costituzionale. Non da ora, naturalmente, ma l’ipostatizzazione della legalità è stata una delle leve del successo della maggioranza di governo giallo-verde. La questione viene da lontano: la legislazione d’emergenza degli anni settanta e ottanta, la stagione di mani pulite con il suo corollario di strappi alle garanzie penali e processuali, il protagonismo della magistratura inquirente hanno prodotto un senso comune schiacciato sulla logica e il linguaggio del penale e la sostituzione della politica con il diritto penale stesso, elevato a panacea di tutti i mali. Dunque, quando si esalta la legalità, lo si fa a proposito della legalità penale. Di qui, il populismo penale come ingrediente fondamentale del populismo nostrano tout court. Esiste naturalmente un’altra legalità: quella costituzionale e quella consegnata nelle varie carte dei diritti, sia in Europa che sul piano internazionale. È qui Antigone? Questa è la giustizia da contrapporre alla legalità? Osserviamo un proliferare, in Italia e altrove, di esplicite e rivendicate trasgressioni delle leggi vigenti non solo da parte di movimenti, ma anche da parte di alcune istituzioni (sindaci, governatori), nonché ad aperti richiami alla disobbedienza nei confronti di una “legalità” ritenuta contraria alla giustizia. Siamo di fronte ad una nuova stagione di “rivolta contro il formalismo”, simile a quella che negli anni sessanta e settanta ha caratterizzato la critica del diritto positivo e ha condotto alla messa in rilievo della legalità costituzionale? Che cosa si intende dunque con giustizia? Quali definizioni e quali retoriche vengono formulate delle categorie di “legalità” e “giustizia”, con riferimento alle diverse fonti che le producono, ai diversi ambiti comunicativi’? Come le stesse vengono condizionate dagli interessi e dai conflitti in campo? Come vengono percepite e declinate nel linguaggio corrente? Le questioni qui richiamate sono, pensiamo, di rilevanza cruciale nel contesto politico e culturale odierno, non solo italiano. E fanno riferimento, oltre che al rapporto tra politica e diritto, a quello tra stato di diritto e democrazia. Il convegno “Legalità e giustizia” di giovedì 23 e venerdì 24 gennaio, organizzato dalla rivista Studi sulla questione criminale e dal Centro per la riforma dello stato, con l’ospitalità del dipartimento di giurisprudenza di Roma3, affronta molti di questi temi, con contributi che fanno riferimento a saperi diversi, dal diritto, alla sociologia, alla filosofia, alla criminologia critica e perfino alla storia del teatro. Un giornalismo di qualità è elemento fondamentale di ogni democrazia di Antonio Martusciello Il Riformista, 22 gennaio 2020 A distanza di più di settant’anni dall’entrata in vigore della Carta costituzionale appare quanto mai attuale il contenuto dell’art. 21 a tutela della libertà di espressione e dell’informazione. Il riferimento, poi, nel richiamato articolo, a “ogni altro mezzo di diffusione”, consente di estendere ad ampio raggio la portata del principio costituzionale, elemento essenziale nell’equilibrio tra i pesi contrapposti della democrazia. Il demos sociale e politico, per realizzarsi concretamente, richiede un contesto fondato su un concetto di libertà non completamente illimitato, ma che sia basato sull’informazione, intesa - secondo l’insegnamento aristotelico - come strumento di accesso ai meccanismi di controllo del potere. Oggi però, nell’era digitale, con il passaggio dalla carta stampata ai bit, si delinea un panorama in cui le notizie sono sì libere, ma anche disordinate, disorganizzate e non filtrate. Il cittadino si affida, non al miglior risultato in termini di attendibilità, ma a quello che ottiene più successo, popolarità e collegamenti da altri siti o pagine social, con la conseguenza di consegnare la “verità” alla Search Engine Optimization, ovverosia a un motore di ricerca, o ad altri sofisticati strumenti; diversamente i giornali sembrano aver subito una profonda trasformazione: da attivi “veicolatori” della realtà a soggetti passivi, dipendenti dagli algoritmi. Del resto, i rapporti di forza tra operatori online e quelli tradizionali sono inevitabilmente mutati. Non solo perché gli algoritmi sono in grado di orientare il successo di una notizia, ma anche perché, in questo sistema, gli editori, che distribuiscono le proprie news all’interno della piattaforma, rischiano di veder crollare la notorietà del “brand” della propria testata giornalistica in favore di quello dell’intermediario attraverso il quale viene presentata la notizia. Il problema riguarda quindi la composizione del mercato e la sua sostenibilità. La progressiva difficoltà a “diffondere” contenuti di qualità da parte dei media tradizionali accresce sempre più il potere della Rete. Il crollo dei ricavi editoriali non comporta solo un problema di ordine economico e finanziario, ma può rappresentare una criticità per l’intera società civile. Infatti, una delle forme più pericolose di annichilimento è la censura “per moltiplicazione”: quando cioè si annegano le notizie in un contesto di informazioni irrilevanti. È anche questo il meccanismo che dobbiamo contrastare: la Rete non può incarnare quel “Funes el memorioso” che disdegnava Borges, quell’uomo che, pur ricordando tutto, è bloccato dalla sua incapacità di selezionare e di buttar via. Per arrestare questo declino, potrebbe essere utile prendere atto concretamente del ruolo dei new media e immaginare una sorta di “news quality obligation” a loro carico, pur se sotto la supervisione di un regolatore: migliorare la comprensione dell’origine degli articoli e l’affidabilità delle notizie. D’altra parte, in un sistema dove i cittadini sono esposti a un overload informativo, le fonti tradizionali diventano un faro. Sostenerle appare dunque essenziale. Certo la progressiva riduzione, fino alla totale abolizione dall’annualità 2023, introdotta dalla legge di bilancio 2020, delle sovvenzioni all’editoria non agevolerà un settore già in crisi, ma porrà anche in discussione il ruolo che si vorrà dare al bene pubblico “informazione”. Possiamo rimanere inermi e lasciarlo nelle mani di un mercato, ormai alla mercè dei meccanismi pubblicitari imposti dai Big Tech? In questo senso, uno scossone ci arriva da Oltreoceano, nel messaggio trasmesso dal Washington Post, nell’ultima edizione del Super Bowl. Lo spot recitava “quando andiamo in guerra, quando la nostra nazione è minacciata, c’è qualcuno che racconta i fatti a ogni costo”, mentre scorrevano le foto di cronisti catturati o uccisi durante l’esercizio della loro professione, ciò a dimostrazione dell’importanza del ruolo dei giornalisti nella ricerca delle notizie, anche a rischio della propria vita. Ecco che allora se “la democrazia muore nell’oscurità”, dobbiamo combattere quel rumore di fondo, quel brusio che confonde le nostre idee. Come affermava Alexis De Tocqueville, “la stampa è per eccellenza lo strumento essenziale della libertà” e allora un plauso e un forte incoraggiamento va proprio a questa testata, Il Riformista, che, portavoce di libertarismo e garantismo, incarna quella necessaria esigenza di giornalismo di qualità, elemento fondamentale di ogni democrazia. Il gran peso delle briciole di Alessandra Smerilli Avvenire, 22 gennaio 2020 Uno dei motivi dell’insostenibilità dei sistemi economici attuali è l’aumento delle disuguaglianze a livello globale e all’interno dei Paesi. Il Rapporto Oxfam 2020, pubblicato lunedì 20 gennaio, sostiene che stiamo arrivando a un punto in cui le disuguaglianze economiche sono fuori controllo. Esso si concentra sulla ricchezza, misura dello stock posseduto da ogni persona, e non sui redditi, e cioè quello che si guadagna in un anno. Entrambe le misure, però, stando alle ultime pubblicazioni internazionali, mostrano che la forbice del divario tra i più ricchi e i più poveri è in costante aumento. Branko Milanovic, grande studioso di questi temi, nel suo famoso grafico, chiamato “dell’elefante” a causa della sua forma, ci indica come dal 1980 in poi chi vede aumentare i propri redditi e le proprie ricchezze sono le élite di ricchissimi sparsi nel mondo e coloro che vedono accrescere le proprie disponibilità nelle economie emergenti, come per esempio la Cina, mentre si assiste alla sparizione della classe media nelle economie avanzate. A chi si domanda se la disuguaglianza rappresenti un problema, Angus Deaton, premio Nobel per l’Economia, risponde con un’altra domanda: è proprio vero che il mondo migliora se pochi guadagnano un sacco di soldi e tutti gli altri ne guadagnano pochi o nulla, ma non stanno peggio economicamente rispetto al passato? Se la disuguaglianza aumenta oltre una certa soglia diventa tossica, come la presenza dell’anidride carbonica nell’aria: se troppa non si può respirare. “Quando si arriva al punto in cui una sola persona possiede una parte enorme della ricchezza di un Paese, che cosa può impedire a quella persona di imporre la propria volontà a tutta la nazione? Implicitamente o esplicitamente i suoi desideri diventano legge”, scrive a sua volta Muhammad Yunus. E l’effetto sarà l’esclusione dai diritti e dalle opportunità per chi non appartiene a una cerchia ristretta. L’aumento delle disuguaglianze innesca un circolo vizioso che mina le pari opportunità per tutti. E le rivolte in Ecuador, in Cile e in altri Paesi del mondo negli ultimi mesi sono un sintomo di quanto le disuguaglianze possano diventare insostenibili. Il rapporto Oxfam usa immagini molto plastiche per dare un’idea del fenomeno: se ciascuno si sedesse sulla propria ricchezza sotto forma di una pila di banconote da 100 dollari, la maggior parte della popolazione mondiale siederebbe al suolo, una persona della classe media di un Paese ricco su una sedia, e i due uomini più ricchi al mondo sarebbero nello spazio. Non tutti gli studiosi sono d’accordo con i dati presentati nel Rapporto Oxfam e nel Global Inequality Report, o con gli studi di Thomas Piketty, a cui si deve il merito di aver portato questi temi al centro dell’attenzione. Una delle critiche è che nel divulgare i dati ci si concentra molto sulle fasce estreme, come il 10 o l’1% più ricco della popolazione, non tenendo in considerazione le fasce intermedie. In realtà il problema è proprio in questi estremi: se ci si limita a leggere indici sintetici di concentrazione della ricchezza, si hanno misure medie, che senza altri indicatori possono trarre in inganno. Negli ultimi anni ci si è accorti che il problema è proprio nella concentrazione abnorme di ricchezza nelle fasce più alte di reddito, un fenomeno che, se non adeguatamente misurato, può sfuggire. Per fare solo un esempio, in Italia l’indice di Gini sul reddito disponibile, una misura della concentrazione della ricchezza, è di 33,4 per il 2017. Un dato non elevatissimo, sebbene superiore alla media europea (30,9). Se però andiamo a vedere i dati Inps sui lavoratori che guadagnano di più, osserviamo che negli ultimi 40 anni il tasso di crescita dei redditi da lavoro è aumentato del 99% per i top 10% (quelli che guadagnano di più), mentre per il restante 90% è stato del 65%. Per i top 0,01% l’aumento è stato del 298%. Dato che si commenta da solo, insieme al fatto che per il 28% dei rapporti di lavoro la paga oraria media è inferiore ai 9 euro. Nel rapporto Oxfam emerge anche, molto chiaramente, che a fare le spese delle disuguaglianze crescenti sono in particolare le donne, il cui lavoro molte volte è invisibile. L’80% dei lavoratori domestici nel mondo è donna, e di essi solo 1 su 10 gode delle stesse tutele di altri lavoratori, mentre per il 50% non vigono limiti legali alle ore di lavoro. Proprio mentre mi accingevo a scrivere questo testo ho incontrato una donna che per 13 anni ha lavorato come badante senza tutele: ora è senza lavoro, senza possibilità di pensione, in cerca disperata di un’opportunità, e quindi pronta a rimanere invisibile pur di avere di che mangiare. Fino a quando ci saranno persone disposte a tutto pur di avvicinarsi alle briciole che cadono dalla tavola dei super ricchi o anche solo delle persone normali, l’economia non sarà riconciliata con le sue radici: oikos-nomos, gestione e custodia della casa, la propria e quella di tutti. Migranti. Medici senza frontiere: braccianti senza accesso alle cure. Le loro storie Avvenire, 22 gennaio 2020 La denuncia della Ong: impiegati nel Metapontino vivono in casolari fatiscenti e non hanno accesso al sistema sanitario. I migranti impiegati come braccianti nel Metapontino vivono in casolari fatiscenti e baraccopoli, con serie difficoltà di accesso alle cure. È quanto emerge dal nuovo rapporto di Msf, “Vite a giornata. Precarietà ed esclusione nelle campagne lucane”, presentato oggi a Matera. “Tra luglio e novembre 2019, siamo intervenuti nell’area con una clinica mobile, offrendo cure mediche di base e orientamento socio-sanitario - si legge nel rapporto - Su 910 visite mediche, abbiamo identificato in 785 casi condizioni mediche legate in particolare alle difficili condizioni di lavoro e di vita, come infiammazioni muscoloscheletriche o disturbi gastrointestinali e respiratori. Più di 1 paziente su 2 ha avuto difficoltà ad accedere al sistema sanitario, soprattutto per barriere amministrative, sebbene oltre il 30% abbia detto di essere in Italia da più di 8 anni”. Il rapporto completo della Ong ‘Vite a giornata. Precarietà ed esclusione nelle campagne lucanè denuncia una situazione drammatica. “La persona che ero una volta non esiste più. Dicono che siamo in Europa, ma mi sembra che qui si viva peggio che in molti posti in Africa. Questa è la periferia invisibile dell’Europa” dichiara A., Niger, 30 anni. “Era orribile, le persone vivevano come gli animali, peggio degli animali. C’erano i rifiuti davanti alle case, non c’era il bagno, non c’erano le docce. Non era una situazione umana” racconta S., rifugiato politico eritreo di 29 anni, le condizioni in cui vivevano i migranti nella struttura dell’ex-Felandina, a Metaponto di Bernalda, provincia di Matera, utilizzata come base per raggiungere i campi della zona dove i ragazzi lavoravano come braccianti. All’équipe di Msf S. ha raccontato che a 12 anni, nel tentativo di fuggire all’arruolamento forzato nel suo Paese, è rimasto coinvolto in un violento incidente che gli ha compromesso l’uso di una gamba. È arrivato in Italia quattro anni fa ed è stato inizialmente ospitato in un centro di accoglienza a Venezia. Qui è stato operato all’anca e gli è stata accertata una parziale invalidità dovuta all’incidente. Una volta uscito dall’ospedale non è più potuto rientrare nel centro di accoglienza e ha vissuto insieme ad un amico, guadagnandosi da vivere lavorando come panettiere. Nell’estate del 2019 ha perso il lavoro e si è ritrovato in difficoltà, senza alcuna possibilità di pagare l’affitto. Ha chiamato alcuni amici in Basilicata che gli hanno consigliato di raggiungerlo all’ex-Felandina; gli hanno detto che la situazione abitativa non era delle migliori, ma che c’era lavoro. Non aveva altra scelta, ha preso un treno e si è diretto a Metaponto. Intanto per lui anche lavorare nei campi si è rivelato problematico poiché i datori di lavoro, considerando la sua invalidità, non lo assumevano. Si è ritrovato bloccato, senza speranza. In queste circostanze è avvenuto l’incontro con l’équipe di Msf. “Li ho visti arrivare con il camper alla ex-Felandina. Ho fatto la visita con il dottore e poi ho parlato con l’operatrice socio-sanitaria. Avevo bisogno di aiuto per rinnovare il mio certificato di invalidità. Ero molto scoraggiato, soffrivo per le condizioni di vita lì. Non sapevo cosa fare. Volevo trovare un posto in cui stare, poter studiare, trovare un lavoro”. Nel frattempo, ad agosto, l’insediamento dell’ex-Felandina è stato sgomberato e S. ha cercato ospitalità da amici a Metaponto continuando a nutrire un forte disagio per l’assenza di prospettive nella sua vita. L’équipe di MSF ha aiutato S. ad accedere al sistema sanitario e lo ha riferito al Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e minori stranieri non accompagnati (Siproimi), richiedendo l’inserimento in un progetto di accoglienza. Da ottobre 2019 S. è ospite di un progetto Siproimi a Matera dove sta anche svolgendo un corso intensivo per migliorare la conoscenza della lingua italiana. Vuole prendere la patente di guida e trovare un lavoro. “Magari in un panificio, ma qualsiasi altra cosa va bene lo stesso”. Francia. La prigione diventa tech, più ecosostenibile e in città di Elena Papa Corriere della Sera, 22 gennaio 2020 Il carcere modello di Nanterre è dello studio Lan dell’architetto Napolitano. Dostoevskij nel romanzo del 1866 Delitto e castigo scriveva: “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. Sul tema la Francia ha dato il via al primo progetto pilota per una riforma penitenziaria. Il programma del nuovo sistema prevede una struttura in cui convivono detenzione e reintegrazione nella società. A realizzare l’innovativo edificio penitenziario di minima sicurezza, appena ultimato, è lo studio francese Lan (Local Architecture Network) fondato dall’italiano Umberto Napolitano e dal francese Benoit Jallon. Se prima le carceri venivano realizzate nei centri urbani, verso la fine del Novecento si è optato definitivamente per il loro allontanamento dalla città. La prigione di Nanterre, invece, è stata realizzata in una zona densamente abitata: il quartiere di Chemin-de-Ylle di Nanterre. Un’area mista composta da case unifamiliari, alloggi sociali degli anni Sessanta ed edifici industriali. L’abolizione del muro - La realizzazione del nuovo penitenziario in città ha spinto gli architetti a pensare a una struttura che fosse in rapporto con il contesto urbano circostante. “Il nostro primo pensiero è stato di “cancellare il muro” - racconta Umberto Napolitano - volevamo creare un involucro che non fosse un limite invalicabile ma che contenesse un edificio con una vera facciata, in rapporto diretto con la città. Così abbiamo realizzato un parallelepipedo di vetro rivestito in corten, un materiale resistente che cambia aspetto con il passare del tempo, interrotto solamente da una grande apertura”. In forma metaforica “l’apertura” è pensata dai progettisti come una finestra che mette in relazione l’architettura con la città, il dentro e il fuori. È riscontrato che i detenuti che non sono stati impiegati in un lavoro in carcere, una volta scontata la pena tornano a delinquere. In Italia i dati del ministero della Giustizia parlano di recidive che sfiorano il 70%. La specificità del progetto è appunto nel riunire al suo interno i due programmi: il servizio di integrazione in libertà vigilata e il sistema di semi-libertà che consente al detenuto di uscire dall’edificio per svolgere delle mansioni utili al suo reinserimento nella società. Nanterre può essere definito “un carcere senza sbarre” e dal design innovativo, non più pareti grigie e scure, ma spazi luminosi, i colori pastello rivestono la pavimentazione del cortile dotato di campi di basket e la corte è delimitata da specie arboree acquatiche. La fascia verde, infatti, è stata progettata con appositi pannelli drenanti per il recupero dell’acqua piovana, riutilizzata per uso sanitario. Nanterre è un carcere “intelligente” dotato di un software ed elettronica per il controllo dell’intero edificio, sia per la gestione dei consumi energetici (30-50 kw/mq di energia primaria annua), sia per l’acqua calda (di cui il 70% viene scaldata dai pannelli solari), oltre al monitoraggio di tutti i sistemi di sorveglianza. Una specie di “sala di regia”, il quartier generale tecnologico. La sorveglianza dei detenuti in semi-libertà avviene in modo dinamico con braccialetti connessi. Il nuovo sistema Un percorso graduale che porterà presto a rinnovare gli strumenti e modernizzare la gestione delle carceri per ridisegnare il volto dei penitenziari. E soprattutto, a non abbandonare più i detenuti alla noia e alla solitudine, ma avviarli verso un effettivo percorso di rieducazione e formazione professionale. Grecia. Diritto alla salute a rischio per richiedenti asilo e minori stranieri di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 gennaio 2020 In Grecia c’è una legge molto avanzata in tema di diritto alla salute: è la 4368 del 2016, che garantisce servizi medici e farmaceutici gratuiti agli appartenenti a “gruppi sociali vulnerabili”, tra cui i minorenni a prescindere dal loro status, i rifugiati, i richiedenti asilo e - tra questi ultimi - i minori non accompagnati. A queste persone, soddisfatti determinati requisiti, è attribuito un numero di previdenza sociale che, tra le altre cose, permette loro di accedere gratuitamente alle cure mediche (l’acronimo greco è Amka). Lo scorso luglio il ministero del Lavoro ha annullato la circolare che disciplinava l’attribuzione dell’Amka alle persone di nazionalità non greca. A ottobre è stata annunciata una nuova circolare che ha regolato la situazione dei rifugiati con status riconosciuto ma ha solo rimandato il problema per richiedenti asilo e minori stranieri figli di migranti irregolari, disponendo che nel loro caso sarebbe stata emessa una nuova circolare. La nuova legge sull’asilo, entrata in vigore un mese dopo, dispone che i richiedenti asilo possano avere accesso alle cure mediche gratuite attraverso un “numero temporaneo di assicurazione medica” (Paaypa). Ma, viene precisato, a questo documento hanno diritto solo coloro che hanno completato la registrazione della loro domanda d’asilo. In altre parole, i richiedenti asilo la cui procedura non è stata completata non hanno diritto alla Paaypa. Inoltre, per diventare operativa, il sistema Paaypa necessita dell’adozione di una decisione inter-ministeriale, tuttora pendente. Per i bambini figli di migranti in condizione di irregolarità non è stara proposta alcuna soluzione alternativa. Considerando il numero dei richiedenti asilo bloccati sulle isole greche - ne sono arrivati 50.000 solo nella seconda metà dello scorso anno - e la lentezza delle procedure (largamente frutto dell’accordo tra Unione europea e Turchia del marzo 2016), il diritto alla salute per decine di migliaia di persone che si trovano in Grecia, tra cui molti minori, è compromesso. Le direzioni di alcuni ospedali pubblici di Atene e alcuni medici nel servizio sanitario pubblico hanno mostrato grande sensibilità nel ricoverare richiedenti asilo colpiti da tumori o dall’Hiv che non avevano l’Amka (e ovviamente neanche la Paaypa). Ma la generosità e l’umanità non possono risolvere le carenze legislative. Le strutture mediche private, come quelle di Medici senza frontiere nella capitale messe a dura prova dall’elevato numero di pazienti, hanno registrato a novembre un repentino aumento del numero di persone prive di Amka, ormai quasi la metà di quelle che si rivolgono al suo centro di Atene. Un’altra organizzazione non governativa locale, Voce positiva, ha sollecitato le autorità greche a fornire farmaci retrovirali gratuiti ai cittadini non-greci, denunciando che “nei primi 10 mesi del 2019 il 43 per cento delle nuove diagnosi di Hiv ha riguardato migranti e rifugiati” e che i centri per malattie infettive non sono in grado di assistere pazienti privi di Amka. Sul piano istituzionale, il difensore civico della Grecia ha espresso la sua preoccupazione. Lo stesso commissario dell’Unione europea per “la promozione del nostro stile di vita europeo” ha chiesto che sia trovata una soluzione. Che tuttavia, ancora non c’è. C’è invece un appello di Amnesty International per sollecitarla. Crisi libica, servono i caschi blu per garantire la pace a Tripoli di Marco Perduca Il Riformista, 22 gennaio 2020 “Esortiamo tutte le parti a rispettare pienamente il diritto internazionale umanitario e i diritti umani, a proteggere i civili e le infrastrutture, compresi gli aeroporti, a consentire l’accesso a medici, osservatori dei diritti umani, personale umanitario e ad agire al fine di proteggere la popolazione civile, compresi gli sfollati interni, i migranti, i rifugiati, i richiedenti asilo e i prigionieri, anche attraverso l’impegno delle Nazioni Unite”. Così si conclude il documento finale della conferenza di Berlino sulla Libia. Sarebbe bastata questa pretesa di rispetto degli obblighi internazionali della ex Jamahiriya per portare finalmente in quel paese quello che manca da sempre: il rispetto dello Stato di Diritto e una presenza strutturata dell’Onu che verifichi i progressi. La conferenza di domenica ha riportato a livello multilaterale quello che fino a ora è stato intra-governativo. La gerarchia delle priorità e la mancata partecipazione diretta di Serraj e Haftar non lasciano ben sperare per il futuro. Certo, entrambi hanno acconsentito alla creazione di un meccanismo, anche militare, che monitori il cessate il fuoco e l’embargo sulle armi, ma senza il loro coinvolgimento personale il processo politico previsto non andrà da nessuna parte. Troppo spesso nella ricostruzione del conflitto libico si fa l’economia di due passaggi: a livello internazionale delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza adottate all’iinizio delle rivolte contro Gheddafi, a livello italiano del Trattato di Amicizia Italia-Libia del 2009. Il secondo oggi non ci interessa, il primo invece sì. La risoluzione 1973 del marzo 2011 stabiliva molti dei punti fermi fissati nell’accordo del 19 gennaio, arrivando a imporre addirittura una no-fly zone per assicurare il cessate il fuoco - primo punto dell’accordo di Berlino - e scongiurare i “crimini contro l’umanità” commessi contro la popolazione civile. Quelle iniziative, ivi compreso l’interessamento della Corte Penale Internazionale che portò all’incriminazione del figlio di Gheddafi e del capo dei servizi segreti per crimini contro l’umanità, restarono sulla carta senza che nessuno dei paesi che votarono a favore di quelle risoluzioni si sia mai impegnato a farle rispettare. Si passò all’uso delle armi per “cause di forza maggiore” scongiurando il perseguimento della pace anche attraverso l’affermazione della giustizia internazionale. È positivo che chi ha interessi, influenze e militari sul campo abbia deciso di non farsi la guerra in Libia, ma l’assenza dei belligeranti al tavolo delle decisioni e il blocco di porti e pozzi da parte di Haftar in concomitanza coi negoziati non lascia ben sperare per il futuro di pace e riconciliazione di un Paese da decenni alla mercé di violenze, discriminazioni e soprusi. Se Serraj e Haftar non si son incrociati a Berlino, quali sono le probabilità che andranno a sedersi fisicamente al tavolo che le Nazioni unite organizzeranno a Ginevra entro gennaio per dar seguito agli impegni che, tra le altre cose, prevedono la formazione di un governo di unità nazionale? E se anche dovessero acconsentire a condividere il governo con l’altro, cosa garantisce che il governo di unità nazionale libico funzioni a differenza di tutti gli altri quelli composti in passato nel tentativo di portare pace e sicurezza in paesi in conflitto? Dopo il Consiglio Affari generali dell’UE la questione sarà davanti al Consiglio di Sicurezza; la formazione di comitati e commissioni di controllo composte da cinque amici di Serraj e cinque sostenitori di Haftar non potrà garantire che oltre alla cessazione delle ostilità si possa accompagnare la Libia verso un futuro civilmente e politicamente migliore. Se è stato significativo portare di nuovo il conflitto alle Nazioni unite, adesso è fondamentale portare le Nazioni unite nel conflitto, come andava fatto nove anni fa. Senza una significativa presenza di caschi blu nel paese difficilmente ci saranno progressi nel rispetto degli impegni presi e della legalità internazionale. Stati Uniti. A processo (ma da testimoni) gli psicologi che inventarono il waterboarding di Marta Serafini Corriere della Sera, 22 gennaio 2020 Torture sui detenuti. Mitchell e Jessen hanno ricevuto dalla Cia 81 milioni di dollari. Quando è entrato nel tribunale della base navale di Guantánamo a Cuba, l’avvocato di Khalid Shaikh Mohammed ha scosso la testa più volte. Ieri il suo assistito, accusato insieme ad altri quattro di essere uno degli ideatori degli attacchi dell’11 settembre, ha rivisto James E. Mitchell. L’uomo che insieme al collega John Bruce Jessen gli ha praticato il waterboarding per 183 volte era seduto lì, a meno di un metro da lui. Sia Mitchell che Jessen sono stati chiamati a Gitmo a spiegare sulla base di quali tecniche hanno estorto le informazioni agli imputati. Poi il giudice dovrà decidere se quelle confessioni siano ammissibili o meno. Una responsabilità pesante dato che tutti gli accusati rischiano la pena di morte. Ma anche perché con Mohamed e gli altri nei black site della Cia non hanno usato solo l’acqua. Li hanno rinchiusi in scatole piene di scarafaggi, li hanno appesi al muro con ganci e corde, li hanno tenuti svegli per ore con la musica ad alto volume e hanno praticato loro l’alimentazione rettale. Indietro veloce di 45 anni. Mitchell è un esperto di esplosivi dell’areonautica che ha conseguito un master in psicologia. Viene dalla Florida, famiglia povera. Negli anni ‘80, dopo aver conseguito un dottorato, inizia ad addestrare gli istruttori del Sere (Survival, Evasion, Resistance and Escape), programma di resistenza creato dall’areonautica Usa negli anni ‘60. L’obiettivo è evitare quanto successo durante la guerra di Corea, ossia caduti nelle mani del nemico, subiscano il lavaggio del cervello e rivelino informazioni. All’epoca il sistema per evitarlo è “semplice”: i militari vengono sottoposti alle medesime tecniche di tortura inventate dai cinesi. Le stesse che hanno subito Mohamed e soci. “Sapevi che non saresti morto, solo perché era un corso”, ha raccontato un allievo. Dopo qualche anno, al programma Sere si unisce anche Jessen. È cresciuto in una fattoria di patate in Idaho. Come Mitchell è mormone. Il suo curriculum in psicologia non è più lungo di una paginetta. I due diventano amici. Escursioni in montagna, viaggi. Fino alla pensione. Poi, nel 2002 arriva l’occasione che la “mormon mafia”, come li chiamano i colleghi, stanno aspettando. Per il New York Times, ad un incontro a Filadelfia Mitchell mostra particolare apprezzamento per gli studi di Martin Seligman sull’”impotenza appresa”. Lo psicologo statunitense aveva scoperto che un animale sottoposto ripetutamente a una scossa elettrica, una volta messo nelle condizioni di poter fuggire dalla gabbia non lo faceva. Affascinati dall’idea, i due psicologi prima fondano una società. Il loro “core business” diventano le “tecniche di interrogatorio rinforzato”. Tradotto nella lingua dei giusti: torture. Poi in aprile arriva l’affare. Uno dei luogotenenti di Al Qaeda più importanti, Abu Zubaydah, viene catturato in Pakistan. È ferito. Viene curato e mantenuto in vita. L’Fbi riesce a farlo parlare usando tecniche basate sulla costruzione di un rapporto di fiducia. Un successo, dunque. Ma per la Cia si tratta di uno smacco. L’ordine dell’allora direttore Tenent è: “Facciamolo noi e facciamolo meglio”. Ed è qui che entrano in gioco Mitchell e Jessen. Per le loro consulenze all’inizio ricevono 1.800 al giorno al giorno. Poi incassano 81 milioni di dollari, prima che il loro contratto venga rescisso nel 2009. n alcuni casi - secondo quanto confermato anche dal rapporto Rapporto del Comitato di sorveglianza sull’intelligence del Senato - i due partecipano direttamente agli interrogatori, pur non sapendo una parola di arabo e non avendo alcuna conoscenza di Al Qaeda. Eppure Jessen e Mitchell sono ancora lì fuori, seduti sul banco dei testimoni, non su quello degli imputati. Vanno in kayak e amano ancora fare trekking insieme. Mitchell poi va in giro dicendo ai giornalisti di essere diventato ateo e di essere un sostenitore di Amnesty International. Qatar. Carcere per chi diffonde voci non confermate e fa propaganda antigovernativa La Repubblica, 22 gennaio 2020 La denuncia di Amnesty International: “Un nuovo attacco alla libertà di espressione”. Si vuole colpire l’intenzione di danneggiare l’interesse nazionale e “infiammare l’opinione pubblica”. Sul un nuovo emendamento al codice penale del Qatar, che penalizza un’ampia gamma di attività nel campo dell’editoria e della comunicazione, si concentra la critica di Amnesty International. Si tratta di una decisione politica che, di fatto, limiterà in modo significativo la libertà di espressione, ad appena due anni dall’adesione del Paese al Patto internazionale sui diritti civili e politici. La legge, emanata dall’emiro Tamim bin Hamad Al Thani, emenda il codice penale aggiungendo l’articolo 136-bis, che autorizza il carcere per “chiunque diffonda, pubblichi, o ripubblichi voci non confermate, dichiarazioni, notizie false o faziose, propaganda provocatoria, a livello nazionale o all’estero, con l’intenzione di danneggiare l’interesse nazionale, infiammare l’opinione pubblica, violare il sistema sociale o il sistema pubblico dello stato”. Una legge che disattende impegni del passato. “Questa legge - dice Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International - indica chiaramente una preoccupante regressione rispetto agli impegni presi due anni fa a garanzia del diritto di libertà di espressione. Il Qatar possiede già numerose leggi repressive, ma quest’ultima dà un altro duro colpo alla libertà di espressione del paese e costituisce una palese violazione del diritto internazionale dei diritti umani. L’approvazione di una legge che può essere utilizzata con lo scopo di mettere a tacere critiche pacifiche è molto preoccupante - ha aggiunto - le autorità qatarine dovrebbero abrogare tali leggi coerentemente con i loro obblighi giuridici internazionali, e non approvarne altre”. Carcere fino a 5 anni e sanzione di 25.000 euro. Secondo questa nuova disposizione, la trasmissione o la pubblicazione “faziosa” può essere punita con il carcere fino a cinque anni e una sanzione di 100.000 riyal (quasi 25.000 euro), in palese violazione dell’articolo 19 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, che garantisce il diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee; nel 2018 il Qatar aveva ricevuto il plauso internazionale per la sua adesione al patto. Il 18 gennaio, il giornale qatarino al-Raya ha pubblicato sul sito un articolo abbastanza dettagliato sulla nuova legge, riportandone il contenuto limitandosi a riassumere molte disposizioni senza alcun commento o analisi editoriale. Alcune formule erano diverse dal testo finale, ma i dettagli essenziali erano giusti; tra questi, un accurato riferimento alla potenziale pena di cinque anni di reclusione per “fomento dell’opinione pubblica”. Le scuse di un giornale per aver pubblicato la notizia. In 24 ore, tuttavia, il giornale ha provveduto a emettere una nota di scuse per aver pubblicato la notizia, esprimendo rammarico per “aver fomentato lo polemica”, cancellando l’articolo e dichiarando che il testo era arrivato “da una fonte non ufficiale ed era stato pubblicato senza verifiche con le autorità competenti”. Il Qatar ha già leggi che limitano in maniera arbitraria la libertà di espressione, come la Legge sulla stampa e le pubblicazioni del 1979 e quella sui reati informatici del 2014. Nel 2012, il poeta qatarino Mohammed al-Ajami fu condannato a un lungo periodo di detenzione per aver recitato una poesia critica nei confronti dell’emiro nel suo appartamento privato mentre viveva all’estero (in seguito ha ottenuto la grazia ed è stato rilasciato). Preoccupa anche il trattamento dei lavoratori immigrati. I dati sui diritti umani in Qatar sono molto preoccupanti, soprattutto quelli sul trattamento dei lavoratori migranti. La scorsa settimana, dopo che il Qatar ha annunciato una nuova legge che abolisce la necessità del permesso di uscita dal paese per i collaboratori domestici migranti, il ministero degli Interni ha dichiarato che le sanzioni per i lavoratori partiti dal Qatar senza permesso del datore di lavoro saranno ancora applicate, sebbene non esista nella legge alcuna disposizione che le preveda.