Il “delitto” di Egidio di Annamaria Rivera* Il Manifesto, 21 gennaio 2020 Parma, 18.12.2018, Egidio Tiraborrelli finisce in carcere a 81 anni per una condanna del 2017 che ignora: ha nascosto in viaggio una “clandestina”. La “colpa” lo porterà alla morte. Sembra una narrazione letteraria dall’esito tragico la vicenda di cui scrivo: riferita a suo tempo dalla Rete Diritti in Casa, un collettivo di Parma che si batte per il diritto all’alloggio, nonché da alcune testate online di sinistra, poi raccolta e rilanciata dall’agenzia Agi e dal quotidiano Avvenire; non già da altri media di rilievo nazionale. Il protagonista, Egidio Tiraborrelli, era nato nel 1937 a Casalbordino, in provincia di Chieti. Da bambino rimase gravemente ferito al capo a causa dell’esplosione di una mina ch’era destinata a distruggere un carro armato tedesco. Più tardi, a 16 anni, dové emigrare in Argentina via nave, con la madre, un fratello e una sorella, per raggiungere il padre e il fratello maggiore, che si erano stabiliti lì da alcuni anni. Dopo decenni in giro per il mondo come operaio saldatore per la Snam e la Saipem, rientrò in Italia, finendo poi a Parma per farsi curare: aveva un tumore ai polmoni ed era reduce da un intervento al cuore. Avendo una pensione così modesta da meritare un assegno integrativo, dapprima è ospite di una famiglia marocchina, in un alloggio minuscolo, poi della Caritas, più tardi, nel 2015, entra in contatto con la Rete, che gli consente di parcheggiare stabilmente la sua roulotte nel cortile di uno degli edifici occupati, quello di via La Spezia. In quell’ambiente egli s’integrò a tal punto da coltivare un piccolo orto, creato da lui stesso, i cui prodotti soleva offrire agli altre/i occupanti, con cui intratteneva relazioni di amicizia, di solidarietà, di scambio reciproco. Il che lo aiutava a sopportare con coraggio i tanti malanni che lo affliggevano, esito di una vita tanto intensa quanto dura e difficile. Pochi mesi prima del finale tragico della sua vicenda, aveva subito un’operazione all’aorta, anch’essa affrontata con forza d’animo, perfino con senso dell’ironia. Ciò nonostante, il 18 dicembre del 2018 viene prelevato dal piccolo alloggio popolare, ove si era trasferito da tre mesi, e condotto nel carcere di Parma. Solo al momento dell’arresto apprende che nel 2017 il tribunale di Ancona lo aveva condannato in contumacia, con sentenza definitiva, per un delitto di solidarietà compiuto nel 2012: viaggiando in traghetto dalla Grecia all’Italia, aveva consentito - o almeno non impedito - a una persona “extracomunitaria” di nascondersi nel suo furgone, permettendole così di violare i sacri confini della patria, da cui sarà prontamente espulsa. È quel reato che il diritto penale del nemico e dei suoi presunti complici - si potrebbe dire - definisce “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”: di fatto utile a criminalizzare ogni forma di aiuto verso chi tenti di raggiungere o raggiunga effettivamente il nostro Paese, oppure vi risieda “irregolarmente”: anche se si tratta di azioni guidate unicamente da spirito di solidarietà e altruismo. È un reato considerato particolarmente deplorevole, tanto da essere annoverato tra quelli ostativi: chi è condannato/a non può beneficiare né della sospensione dell’ordine di carcerazione, né di misure alternative alla detenzione. Perciò Egidio, pur essendo in età tanto avanzata e in uno stato di salute sempre più grave, resterà in prigione per quasi nove mesi, in condizioni alquanto difficili: per dirne una, il carcere di Parma era dotato di un unico respiratore a ossigeno, che i detenuti infermi erano costretti a usare a turno. Oltre tutto, tra le conseguenze della condanna v’era la sospensione della pensione e l’obbligo della restituzione di quel che aveva percepito. Infine, la sua avvocata riuscirà a ottenere per lui la detenzione domiciliare, ma solo nella forma di ricoveri temporanei, quando necessari, nella struttura sanitaria del carcere. Nel corso di uno di questi, Egidio si aggrava: muore il 6 settembre 2019. La sua vicenda illustra in modo tragicamente esemplare almeno tre questioni importanti e assai attuali. Anzitutto il fatto che - come dicevamo un tempo - la giustizia sia tuttora giustizia di classe, tendente a mostrare il suo volto più severo, se non feroce, verso i più poveri e/o vulnerabili. In secondo luogo, sembra predominare una concezione della pena carceraria quale crudele punizione, tale da poter essere inflitta anche a persone anziane, perfino gravemente malate; e ciò in palese violazione della Convenzione europea dei diritti umani, della nostra Costituzione, della stessa legislazione italiana. L’art. 47 ter della legge sull’ordinamento penitenziario prevede, infatti, la detenzione domiciliare per chi, condannato a una pena carceraria, abbia compiuto settant’anni o sia in condizioni di salute particolarmente gravi. Infine, al centro di questa storia angosciosa è il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che, come si è detto, essendo considerato ostativo, non contempla misure alternative alla detenzione, salvo che il condannato soffra di gravi problemi di salute. Un tale reato - lo sappiamo bene - consente ad autorità e politici di compiere le peggiori nefandezze, a cominciare dalla criminalizzazione delle Ong impegnate in operazioni umanitarie di ricerca e soccorso in mare; contribuendo così, e notevolmente, a ciò che più volte abbiamo definito tanatopolitica. Grazie all’esistenza di un tale reato, perfino gli atti di solidarietà più ovvi e spontanei - come quelli dettati dal dovere morale di “dar da mangiare agli affamati” - spesso cadono sotto la scure della repressione, com’è accaduto più volte e continua ad accadere anche in Italia, soprattutto in aree di confine. Di questo e d’altro, si discuterà a Parma, il 25 gennaio 2020, dalle ore 16, presso la Casa Cantoniera Autogestita (via Mantova, 24), in un incontro in memoria di Egidio Tiraborrelli. *Devo le informazioni sulla biografia di Egidio al fratello Amedeo e a Filippo Adorni, detto Ado, attivista della Rete Diritti in Casa “Arancia meccanica” a Chieti: il Garante “rieduca” i reclusi di Serena Giannico Il Manifesto, 21 gennaio 2020 Nel carcere “programma innovativo” “non invasivo” per valutarne i comportamenti. Le scene che balzano subito alla mente sono quelle del film Arancia meccanica di Kubrick, quando il protagonista, Alex DeLarge, si sottopone “a un innovativo programma di rieducazione” per cercare di uscire più in fretta possibile dal carcere in cui è rinchiuso. Divaricatori nelle palpebre per tenere gli occhi sempre spalancati, viene obbligato a fissare a lungo immagini violente allo scopo di annichilire la sua pericolosità sociale. In Abruzzo ecco ora “un innovativo programma” che vede come cavie i detenuti del penitenziario di Chieti. Lo descrive, in un comunicato ufficiale, pubblicato, nelle scorse settimane, sul sito web, quindi quello istituzionale, del Consiglio regionale, il garante dei detenuti dell’Abruzzo, Gianmarco Cifaldi. Che annuncia la sottoscrizione, poi avvenuta, tra egli stesso, in veste di garante, il rettore dell’Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti-Pescara Sergio Caputi e il direttore della casa circondariale “Madonna del Freddo” di Chieti Franco Pettinelli di un “protocollo di collaborazione” per un progetto “di ricerca altamente innovativo che mira a valutare le risposte comportamentali di detenuti sottoposti ad un determinato stimolo”. Esso - continua la nota - “verrà svolto attraverso tre diversi Dipartimenti dell’ateneo”, ovvero quelli di “Scienze giuridiche e sociali nella persona del professor Gianmarco Cifaldi” - cioè sempre lui; di “Scienze mediche, orali e biotecnologiche nella persona del professor Michele D’Attilio” e di “Neuroscienze, Imaging e Scienze cliniche nella persona del professor Arcangelo Merla”. “La ricerca - spiega ancora Cifaldi - volge a verificare i presupposti di un comportamento deviante mediante una metodica di stimolo-risposta” che vuole accertare “il grado di aggressività del detenuto”. Si andrà a verificare - viene sottolineato - “se c’è o meno un cambiamento posturale in soggetti dotati di una particolare aggressività” con l’utilizzo di “apparecchiature non invasive: la pedana posturo-stabilometrica, che rileva le variazioni del baricentro corporeo nei tre piani dello spazio; la termografia, che stabilisce la temperatura dei muscoli superficiali del viso”. “Il test - continua Cilfadi - sarà suddiviso in tre fasi”. I soggetti interessati - e riecco Kubrick - verranno sottoposti “alla visione di immagini emotivamente significative ed emotivamente neutre” e “ad un questionario di anamnesi medica ed odontoiatrica”. Inoltre verranno testati “col protocollo posturale di D’Attilio”. “Il confronto statistico che ne verrà fuori e tra i vari esami - è la conclusione - ci darà informazioni circa l’obiettivo del nostro studio”. Il progetto - conclude - si è potuto realizzare “anche grazie alla disponibilità del ministero della Giustizia e del provveditore interregionale, Carmelo Cantone”. Iniziativa che fa saltare dalla sedia Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione - Sinistra europea, ex consigliere regionale e promotore e autore della legge che, nel 2011, ha istituito, in Abruzzo, la figura del garante. “I detenuti - afferma Acerbo - hanno già tanti problemi, ora devono pure subire gli esperimenti del garante neo eletto dall’attuale governo di centrodestra con l’appoggio dei 5Stelle”. Cifaldi, sociologo e criminologo, “professore stipendiato” dalla “d’Annunzio”, condurrà la “ricerca - rileva Acerbo - assieme ad altri colleghi. Siamo di fronte alla palese distorsione del ruolo che dovrebbe avere come garante” che non è “certo quello di emulare Cesare Lombroso. Con tutto il rispetto, mi sembra che esista un evidente di conflitto di interessi. Si dimetta e poi presenti a un nuovo garante le sue proposte di sperimentazione”. Nostalgia degli anni Quaranta e Cinquanta? “Limitandomi a commentare quanto annunciato dal garante - dichiara Patrizio Gonnella, giurista e presidente dell’associazione Antigone - mi auguro che questo progetto, scorretto e dal carattere pseudo-scientifico, non parta mai. Ci fa fare passi indietro ed è un triste elogio della semplificazione. La devianza è questione legale, sociale e culturale, non una patologia e, soprattutto, non è legata alla postura: basterebbe cambiare le leggi sulle droghe e, in Italia, avremmo il 30 per cento di detenuti in meno”. “Un programma - evidenzia Danilo Montinaro, di Lanciano (Chieti), psichiatra forense - che non ha senso, con cui si faranno danni. I criteri in esso individuati per rilevare aggressività e pericolosità sono inutili e deleteri, oltre che sconvolgenti. Bisogna invece tener conto di altri fattori, come la situazione carceraria, il sovraffollamento delle celle, la lontananza dalla famiglia”. Riformare il carcere riconvertendo l’umano di Brent Orrell Il Foglio Quotidiano, 21 gennaio 2020 Da detenuti a persone dotate di identità e responsabilità. Una rivoluzione “antropologica” per fermare la recidiva e arginare la carcerazione di massa. La comprensione di sé e la connessione con gli altri sono tratti spesso trascurati nei programmi - fin qui fallimentari - per il reintegro nella società di chi ha scontato una pena detentiva. ---- L’intervento di Brent Orrell, analista dell’American Enterprise Institute, sulla riforma dei programmi per il reintegro dei detenuti nella società, a fronte dei dati sconfortanti sulla recidiva criminale che vengono dall’America e sono ricalcati in molti contesti occidentali. È un paper tecnico, animato però da un’idea culturale e antropologica forte: l’abbandono della vita criminale è una decisione personale dei detenuti, che vanno perciò accompagnati in un percorso che li aiuti a riconquistare identità, senso di responsabilità e connessioni con gli altri. Occorre essere soggetti liberi e rinfrancati dall’ipotesi credibile di una vita costruttiva per uscire dal circolo senza fine dei delitti e dei castighi. Qualcosa di più e di più profondo delle inefficaci soluzioni fin qui tentate, basate sulla gestione delle derive sociali negative. ---- Dall’inizio degli anni Duemila uso una storiella per sollecitare le discussioni intorno alla giustizia criminale e alla recidiva. Nella storia c’è un uomo che sta affogando in un lago. Si agita e annaspa a cinquanta metri dalla riva, tentando disperatamente di prendere fiato. Un progressista vede la scena dalla spiaggia, lancia una corda lunga mille metri all’uomo, sorride generosamente, e se ne va. Poco dopo, arriva un conservatore, vede l’uomo che sta annegando e gli lancia una corda di 25 metri, esortando il malcapitato a nuotare per raggiungere il capo. Un libertario passa da quelle parti, vede l’uomo in difficoltà e ammette che in effetti ha con sé una corda In America due terzi dei detenuti rientrano in prigione entro tre anni dalla fine della pena. I metodi tentati finora non hanno funzionato della lunghezza giusta per salvarlo. Tuttavia, si tratta di una corda che si è guadagnato con il duro lavoro e la perseveranza. Sarebbe sbagliato per tutti - lui stesso, la persona in difficoltà e la società intera - se decidesse di condividere la sua corda. L’uomo che affoga ha forse qualcosa che potrebbe dare in cambio della corda? Dalla spiaggia, un neoconservatore ha osservato pensosamente queste scene. Tira fuori il portatile e scrive un saggio di 800 parole ben cesellate dove dà conto degli sprechi del progressista, dell’assurdità del conservatore e della spietatezza del libertario. Nel frattempo, l’uomo continua ad annaspare [...]. Questa storiella mostra, senza offendere troppo, che tutte le prospettive ideologiche non offrono soluzioni praticabili al problema del crimine, della carcerazione e della recidiva. Molte strade sono state tentate in questo senso, ma nessuna appare efficace. Negli Stati Uniti ci sono oltre due milioni di persone in carcere e 4,7 milioni sono in regime di libertà vigilata. 70 milioni di americani hanno la fedina penale sporca: il numero di cittadini con un arresto alle spalle è simile a quello degli americani con una laurea. Le ricerche del Brennan Center for Justice dicono che se tutti gli americani con precedenti penali si tenessero per mano, la fila farebbe il giro del mondo tre volte. Gli studi mostrano che due terzi dei criminali rilasciati dalla prigione dopo aver scontato una condanna ritornano nuovamente dietro le sbarre nel giro di tre anni. La maggior parte di questi vi fa ritorno nei primi mesi dopo il rilascio. Questa situazione ha costi enormi, in tutti i sensi: costi fiscali, economici e sociali. Una ricerca del 2016 della Washington University di St. Louis mostra che i costi diretti della carcerazione - 80 miliardi di dollari l’anno, 40 mila dollari l’anno per detenuto - sono poca cosa rispetto ai costi umani ed economici. Se si aggiungono al calcolo la produttività perduta e i costi sociali inflitti alle famiglie, alle comunità e alle generazioni future dalla carcerazione di massa, i ricercatori sostengono che la perdita per gli americani ammonti a mille miliardi di dollari l’anno, circa il 6 per ento del Pil. È una cifra simile al gettito per le tasse sul reddito. È più di quanto versiamo per le pensioni e simile al budget allocato dal Congresso per i programmi federali discrezionali, inclusi quelli della difesa. Questa cifra non include le centinaia di miliardi spesi per le attività di polizia o i costi nascosti che le vittime devono sostenere. Parafrasando lo storico leader repubblicano al Congresso Everett Dirksen, mille miliardi di dollari sono un sacco di soldi, anche per gli standard odierni. È la cifra che spendiamo, o alla quale rinunciamo, anno dopo anno. Considerato il numero di persone coinvolte, fondazioni, associazioni non-profit, il governo federale e gli enti locali hanno speso miliardi per sperimentare nuovi modi per evitare che le persone che hanno già scontato una pena carceraria finiscano di nuovo dentro. Spendiamo anche cifre significative per valutare gli effetti di questi programmi. Ad oggi, i risultati di questi investimenti non sono affatto incoraggianti. Nel 2018, l’American Enterprise Institute (AEI) ha messo insieme un gruppo di lavoro che include ricercatori, esperti di valutazione e provider di servizi perché considerassero un’ampia gamma di questioni legate alla giustizia penale e alla recidiva criminale. La domanda principale sulla quale mi sono concentrato era questa: considerando solamente i dati, quale soluzione funziona meglio? La risposta basata soltanto sui dati è scoraggiante. A dispetto degli sforzi fatti a livello pubblico e privato, la letteratura disponibile sulla valutazione empirica di programmi su larga scala dice che i gruppi di controllo - cioè le persone che non sono destinatarie del programma che viene studiato - hanno gli stessi risultati, e in alcuni casi migliori, di chi riceve i servizi. Alcune parti di questi programmi sono probabilmente efficaci, ma i tentativi di mettere insieme i vari elementi lasciano molto a desiderare. Non è una preoccupazione nuova. Negli anni Settanta il socialista Robert Martinson, professore di sociologia al City College of New York, è stato il primo a concludere che i programmi per la riabilitazione degli ex detenuti erano inefficaci. L’osservazione ha scatenato reazioni furiose, costringendo Martinson a una parziale retromarcia. Eppure, i risultati deludenti sono ancora sotto i nostri occhi [...]. C’è tuttavia un altro modo di guardare la constatazione che “niente funziona”. E se ripensassimo i nostri studi randomizzati immaginando che il gruppo di controllo - cioè quelli che non ricevono i servizi - fosse il destinatario dei programmi? Come ho già detto, queste persone, che seguono il proprio percorso positivo usando le risorse della collettività, spesso hanno risultati migliori di quelle che prendono parte a iniziative strutturate contro la recidiva. A mio avviso, questo indica che il libertario nella storiella dell’uomo che affoga potrebbe avere più ragioni di quanto la stilizzata vicenda faccia credere. È possibile che facendo un passo indietro si crei uno spazio in cui l’iniziativa individuale possa intervenire in modo più efficace? Un approccio di questo genere aumenterebbe il senso di responsabilità e merito personale fra gli individui che stanno “affogando”? Potrebbe ciò aiutarci a usare in modo vantaggioso le risorse più importanti nella questione della recidiva, cioè la volontà e l’energia delle persone che escono dal circolo vizioso? Questo intervento intende delineare un nuovo approccio focalizzato sullo sviluppo dell’iniziativa personale come chiave per il reintegro nella società. Si propone di coniugare alcuni elementi efficaci già presenti nei nostri progetti di reinserimento con altre iniziative sociali per formare una impostazione che aiuti a mettere il cambio di identità al centro di un piano per una transizione positiva. Dal “cosa funziona” al binomio identità-responsabilità - La ricerca del nostro gruppo di lavoro mostra che alcune iniziative funzionano per alcune persone in certe circostanze specifiche: lo studio dei casi, l’affiancamento ad esperti, il trattamento per l’abuso di sostanze e, soprattutto, le terapie cognitivo-comportamentali (Cbt). Ciò che tutte queste iniziative hanno in comune è un orientamento verso una maggiore comprensione di sé e la connessione con gli altri, fattori essenziali per la fioritura dell’umano. Le terapie cognitivo-comportamentali sono particolarmente utili nell’affrontare esperienze traumatiche pregresse e nell’identificare ed evitare fattori psicologici scatenanti dei comportamenti criminali. Basandomi sui contributi del gruppo di lavoro, propongo un esperimento che inserisca queste pratiche in un approccio unitario. Il concetto si fonda sulle osservazioni fatte nell’ambito della teoria dell’identità nella desistenza criminale, secondo la quale la decisione di cessare il comportamento criminale è spesso repentina e avviene in risposta a improvvisi cambiamenti psico-cognitivi. In altre parole, le persone non abbandonano il crimine con il progredire dell’età e la maturazione. Più semplicemente decidono di cambiare strada, mettendosi in un percorso di vita costruttivo, e la decisione deriva da fattori che comprendiamo soltanto in modo limitato. Sono elementi difficili da individuare e sviluppare, ma sono nondimeno essenziali. Il modello che propongo si propone di mettere ciò che sappiamo dalla letteratura tradizionale al servizio di questo cambiamento profondo basato sull’identità. Un programma per il contrasto alla recidiva così concepito dovrebbe puntare a creare unità specializzate di terapia cognitivo-comportamentale fisicamente, filosoficamente e operativamente separate dalle altre istituzioni correttive. L’accesso a queste unità dovrebbe essere subordinato al passaggio di alcuni test e valutazioni comportamentali. I detenuti dovrebbero quindi aderire volontariamente a queste unità, sottoscrivendo un contratto che impone loro la piena partecipazione al programma terapeutico. I partecipanti dovrebbero poi ricevere una valutazione del rischio, per esser certi di includere anche detenuti ad alto e medio rischio, evitando così un eccesso di trattamenti per chi si trova già indipendentemente sulla via dell’abbandono del crimine. Il personale carcerario e le autorità che supervisionano i progressi dei detenuti dovrebbero essere parte integrante della comunità terapeutica, per imparare, assieme ai detenuti, ad identificare i fattori scatenanti dei comportamenti criminali e sviluppare strategie cognitive per disinnescarli. La valutazione del rischio già accennata dovrebbe così identificare caratteristiche specifiche associate al rischio di futuri crimini (ad esempio, disturbi mentali, abuso di sostanze, precarietà abitativa, istruzione e professionali), e i servizi all’interno delle prigioni dovrebbero essere ripensati per tenere costi di tali esigenze. I tutori per il reintegro dovrebbero lavorare assieme ai detenuti per sviluppare un piano, guidato dai partecipanti, per affrontare i nodi problematici in preparazione della scarcerazione. Il tutoraggio dovrà essere orientato a consolidare la terapia cognitivo-comportamentale, con l’obiettivo di restituire ai detenuti stessi la responsabilità primaria di decidere e fissare le priorità, un aspetto chiave per costruire un senso di decisione personale skill L’abbandono della vita criminale è una decisione del soggetto, che va aiutato a riscoprire chi è, sostiene l’analista Brent Orrell e responsabilità in vista del rientro in società. Con l’approssimarsi della scarcerazione, i partecipanti che adempiono al contratto stipulato riceveranno un certificato che testimonia che il percorso è stato completato. Idealmente, il certificato dovrebbe anche includere le risorse finanziarie necessarie per rispondere ai bisogni identificati nel piano di reinserimento. Un fondo per il sostegno del reinserimento rimborserà le spese presso enti certificati per i servizi nelle aree pertinenti, come cure psichiatriche, cure per le dipendenze, apprendistato professionale ecc. Ai tutor sarà affidata la responsabilità di vigilare sull’uso dei fondi, per limitare gli sprechi ed evitare le truffe. Le autorità di controllo potrebbero eventualmente creare anche una rete fra i partecipanti per condividere informazioni sugli strumenti e le pratiche più efficaci, in modo da incrementare il livello di trasparenza fra i provider di servizi. Una comunità così strutturata sarebbe un sostegno per i partecipanti e fornirebbe informazioni utili per identificare i provider migliori [...]. I rischi dell’inazione - Diversi membri di questo gruppo di lavoro ritengono che convenga offrire risorse e rafforzare strumenti tradizionali, come le gestione di programmi di reintegro, la programmazione di lungo periodo e il miglioramento degli indici con cui si misura il successo dell’azione per il reintegro. Anche io sostengo interventi come questi. L’approccio fondato su identità e responsabilità delineato in questo intervento non sostituisce i programmi per il reintegro già in uso, ma offre un’alternativa che va testata e valutata accanto agli strumenti tradizionali. Se è vero che il modello identità-responsabilità comporta dei rischi, è altrettanto vero che continuare ottusamente con soluzioni che hanno finora dato risultati a dir poco deludenti è a sua volta rischioso per i detenuti, per le comunità e per la società intera [...]. Rifocalizzare le energie per aiutare i detenuti a fare i necessari passi cognitivi che portano da una vita criminale a una vita dotata di speranza e significato può aiutare a dimostrare che anche i condividono la preoccupazione del pubblico, secondo cui “niente” non è abbastanza. *American Enterprise Institute Prescrizione, pronto il ddl sul nuovo processo penale. Italia viva: noi tenuti fuori di Emilio Pucci Il Messaggero, 21 gennaio 2020 Vertice oggi a palazzo Chigi, Bonafede illustrerà la bozza che va giovedì in Cdm. Una decina di pentastellati, una trentina e più nel Pd e poi ci sono i voti dei renziani: il centrodestra sta cercando la strada per piazzare delle trappole durante la discussione sulla proposta di legge Costa che comincerà il suo iter alla Camera il 27 gennaio, e fa il conto di quanti garantisti potrebbero affossare la riforma Bonafede sulla prescrizione. Ma serviranno dei voti segreti e inserirsi nelle maglie della maggioranza non sarà facile. L’allarme però tra i rosso-gialli è scattato. Conte è consapevole dei rischi, dopo lo strappo che si è consumato la scorsa settimana in Commissione Giustizia alla Camera sull’emendamento soppressivo della norma presentata dall’esponente azzurro, con Italia Viva che ha votato insieme all’opposizione. Ecco perché ha convocato per oggi un nuovo vertice: “Una riunione che considero, confido sia risolutiva sui vari interventi, in quest’ambito ci sarà una norma sulla prescrizione che va valutata nel contesto generale”, ha annunciato. Tuttavia fino a ieri sera i renziani di Italia Viva non avevano ancora ricevuto l’invito a partecipare. Invito arrivato al Pd diversi giorni fa. Intanto nella chat interna il differente trattamento non è passato inosservato. “Abbiamo chiamato la segreteria della Bellanova, che è capo delegazione”, replicano però a palazzo Chigi, “nessun giallo”. Sta di fatto che Iv ha presentato, secondo quanto si apprende, due emendamenti al dl Milleproroghe per rinviare gli effetti delle norme sulla prescrizione previste dalla riforma Bonafede al primo gennaio 2021.Conte nei giorni scorsi si era appellato al senso di responsabilità dei renziani, affinché non causino in Aula una nuova frattura. In ogni caso Renzi anche ieri è stato tranchant e ha di fatto chiuso anche all’ipotesi dell’astensione: “Sono altri ha spiegato - che hanno cambiato idea e stanno andando a rimorchio di M5S. Mi dispiace molto perché il Pd una volta era un partito riformista e garantista”. Pronta la reazione dei dem: “Da quando i sondaggi sono deludenti, attacca sempre e solo il partito sbagliato: il Pd e non la Lega di Salvini”, ha affermato il vicecapogruppo alla Camera, Bordo. È un muro contro muro destinato a durare, anche se il partito democratico si aspetta oggi segnali concreti dal Guardasigilli Bonafede. “Se c’è un’intesa con il ministro della Giustizia spiegano fonti del Pd allora tanto vale inserire le nuove norme subito in un provvedimento ad hoc”. Il riferimento è legato al compromesso trovato con il lodo Contè che prevede la distinzione tra sentenze di condanna e assoluzione, con lo stop dopo una sentenza di condanna e una prescrizione lunga in caso di assoluzione. Alle 17 il responsabile di via Arenula porterà a palazzo Chigi la bozza finale della riforma del processo penale che a meno di incidenti di percorso dovrebbe andare nel Cdm di giovedì. Le modifiche chieste dal Pd dovrebbero essere inserite in questo testo. Ma i dem chiederanno una corsia preferenziale per le misure correttive alla riforma della prescrizione. Proporranno un emendamento del governo al Milleproroghe, ma M5S non è d’accordo. Anche perché Iv e FI, con degli emendamenti simili al Milleproroghe (probabilmente entrambi saranno dichiarati inammissibili), mirano ancora a stoppare la riforma Bonafede. In ogni caso l’obiettivo è quello di inserire nero su bianco le soluzioni prospettate prima del voto in Emilia. Ed evitare lo strumento della legge delega che ha tempi troppo lunghi. “Auspichiamo che Conte medi ancora una volta”, dicono dal Pd. Del resto due giorni fa Zingaretti era stato cauto: “Senza compromesso che ci soddisfi aveva osservato - andremo avanti con la nostra legge sulla prescrizione”. I dem attendono di capire soprattutto come si tradurrà la parte dell’intesa legata ai controlli sulla durata ragionevole dei processi. Conte aveva ipotizzato che in caso di sforamento dei tempi scattasse una sorta di codice rosso, ovvero la possibilità di aprire una procedura disciplinare a carico dei magistrati. Nella riforma del processo penale ma i renziani potrebbero non dare l’ok - si prevede l’eventualità di ricorrere maggiormente ai riti alternativi e che per l’appello ci sia un giudice monocratico e non un collegio, si inseriscono controlli più stringenti sui tempi delle indagini preliminari. Sul tavolo pure l’ipotesi di far lavorare i magistrati fino a 72 anni e l’eventualità di depenalizzare alcuni reati. Il peso della giustizia ingiusta di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 21 gennaio 2020 Le sentenze lunghe migliaia di pagine non aiutano la ricerca della verità. Un appello contro il gigantismo scrittorio-giudiziario e la deriva mafiologica. Il caso Mannino. È il caso di affrontare un tema che, forse, non ha finora ricevuto sufficiente attenzione. Alludo al fenomeno dei provvedimenti giudiziari (sentenze, ordinanze, ecc.) di enorme mole, mastodontiche, fatte di migliaia e migliaia di pagine distribuite in più volumi o tomi. Simili, più che a cicli romanzeschi, a opere enciclopediche. Di questo gigantismo scrittorio-giudiziario, di questa elefantiasi motivazionale rinveniamo esemplificazioni emblematiche, in particolare, nell’ambito dei grandi processi di criminalità politico-terroristica o di criminalità mafiosa. Ad esempio, la sentenza di condanna in primo grado sulla cosiddetta Trattativa stato-mafia, emessa nel 2018 e di cui più volte si è parlato su questo giornale, constava di oltre 5.200 pagine, mentre ammonta a circa 1.150 quella recentissima che ha scagionato per la seconda volta da responsabilità penale connessa sempre alla Trattativa Calogero Mannino, che in primo grado si era fatto processare con rito abbreviato (su questa seconda assoluzione di Mannino, cfr. i due articoli di Giuseppe Sottile e Annalisa Chirico sul Foglio del 16 gennaio scorso). Ora, mille pagine non sono cinquemila, ma risultano comunque abbondanti considerata la concentrazione del giudizio sulla sola posizione dell’ex ministro democristiano. È intuibile che le sentenze mastodontiche presentano inconvenienti e sollevano problemi di varia natura. Cominciamo da una domanda ovvia: chi ha voglia, interesse, risorse intellettuali e tempo sufficiente per imbarcarsi con attenzione vigile e tensione critica costante, senza perdere mai il filo e senza stancarsi o peggio annoiarsi, nella lettura di chilometri di fatti ed episodi, di ricostruzioni di contesti, di descrizioni di fenomeni o ambienti criminali, di interpretazioni di norme e disquisizioni giuridiche di vario genere, il tutto per di più fittamente intrecciato con dichiarazioni di pentiti, deposizioni testimoniali o analisi di documenti non di rado inserite entro parentesi all’interno di lunghe frasi, a loro volta scritte in maniera non sempre perspicua e con prevalente stile burocratico? Certo, dovranno sobbarcarsi questo ingrato compito gli addetti ai lavori, tra cui alcuni studiosi accademici interessati a studiare i materiali giurisprudenziali per scrivere le cosiddette note a sentenza. Ma, come mi è capitato di constatare da giurista avvezzo ad analizzare giurisprudenza, le sentenze straripanti non sono un problema soltanto per chi deve studiarle. Lo sono, ancor prima, per il giudice che le deve scrivere, e non solo per la fatica di farlo. Il magistrato impegnato a stendere su una stessa vicenda migliaia e migliaia di pagine, infatti, si imbatte anche in una difficoltà tutt’altro che trascurabile: come fa a mantenere un rigoroso e perdurante controllo intellettuale sulla complessiva tenuta logica e sulla coerenza di argomenti e ragionamenti disseminati in tantissimi rivoli? Siccome non è facile, appunto diventa elevato il rischio di incorrere in contraddizioni, incoerenze e carenze motivazionali. Inoltre, lo studio delle sentenze mastodontiche mette in evidenza come, in non pochi casi, la quantità delle circostanze, delle dichiarazioni testimoniali, dei documenti, ecc. richiamati sia direttamente proporzionale alla mancanza o all’insufficienza di elementi probatori certi e univoci. Insomma, all’assenza di vere prove si cerca di sopperire con una accumulazione a valanga di dati a possibile valenza indiziante. Ma l’ammasso quantitativo non può mai equivalere a verifica processuale al di là di ogni ragionevole dubbio. Non a caso, in certi processi molto complessi (su eventi stragistici, trame eversive, collusioni politico-mafiose e simili), nei quali l’accertamento giudiziario non è riuscito a conseguire la prova della responsabilità penale di singoli e ben individuati colpevoli, si è assistito a una sorta di riconversione del processo penale in strumento di prevalente ricostruzione storiografica: con la connessa propensione a distinguere tra verità “processuale” da un lato, e verità “storica” dall’altro (questa distinzione è, ad esempio, ripetutamente esplicitata nel recente saggio collettivo “L’Italia delle stragi”, Donzelli 2019, curato dallo storico Angelo Ventrone, e contenente scritti di alcuni magistrati protagonisti delle inchieste sulle trame eversive rievocate). Ma è davvero possibile differenziare le due verità? E fino a che punto il processo può fungere da valido strumento ricostruttivo di eventi storico-politici? Si tratta di interrogativi che andrebbero adeguatamente approfonditi in sedi specialistiche. Ci sono aspetti negativi delle sentenze mastodontiche che, invece, riguardano più da vicino i cittadini in genere perché si riflettono sulla comunicazione mediatica, riproponendo il problema dei rapporti tra giustizia e informazione; problema che, nel caso di processi di rilievo sociale o politico, incide altresì sul dibattito pubblico. Per esemplificare, torniamo al processo o meglio ai processi sulla Trattativa, in particolare a quello principale sfociato in primo grado nella sentenza di cinquemila pagine. Se si prescinde dagli addetti a vario titolo ai lavori, solo pochissimi patiti di mafiologia potranno essersi avventurati nella defatigante impresa di sorbirsi parola per parola un testo così voluminoso. La stragrande maggioranza dei cittadini ne avrà avuto una conoscenza superficiale e approssimativa attraverso i brevi resoconti fatti sui giornali o in televisione. Ma, per gli eventuali interessati a saperne di più, ecco che sono presto spuntati gli ennesimi libri divulgativi, preparati in fretta e furia da solerti giornalisti filomagistratuali “senza se e senza ma”, e talvolta in collaborazione compiacente con qualche magistrato protagonista delle indagini. Questi sunti libreschi, che hanno forse come unico pregio di essere redatti in un italiano più leggibile, tendono a selezionare e a ridurre i contenuti delle fluviali motivazioni giudiziarie secondo preferenze preconcette: finendo talora col contrabbandare per verità inconfutabili ipotesi ricostruttive che gli stessi giudici prospettano come possibili perché prive di prova certa. È evidente che così viene alterato il senso complessivo delle sentenze, e ciò ovviamente non giova alla successiva discussione pubblica sugli esiti processuali, specie quando si tratta di processi che hanno riflessi ad ampio raggio. La tormentata vicenda giudiziaria della Trattativa appare emblematica, non ultimo, per il fatto ben noto che l’impostazione accusatoria della procura palermitana ha finora trovato sia conferme sia smentite da parte di giudici diversi. L’ipotesi dei pubblici ministeri, avallata dalla Corte d’assise di Palermo con la menzionata sentenza del 2018 (in atto pende il giudizio d’appello), è stata invece contestata in termini abbastanza decisi dalle due sopra accennate sentenze di assoluzione dell’ex ministro Mannino. E non è priva di rilievo, proprio dal punto di vista dei rapporti tra giustizia e informazione, la circostanza che la corposa motivazione del giudizio di secondo grado, depositata pochi giorni fa, sia stata ignorata da grandi giornali come Repubblica e Corriere. Dobbiamo sospettare una disattenzione pregiudiziale e voluta, considerato che specie un giornale come Repubblica si è sempre contraddistinto per una tendenziale condivisione delle tesi dell’accusa? O la cosa è spiegabile col fatto che il tema della Trattativa si considera ormai privo di interesse nazionale, essendosi in ogni caso consolidato in buona parte della gente - anche per effetto di un bombardamento mediatico fino a poco tempo fa molto insistito - il pregiudizio che un turpe patto tra la mafia e lo stato ci sia stato davvero, per cui non sarebbe più il caso di rimettere in discussione questa supposta verità? Comunque sia, sarebbe in teoria auspicabile uno studio rigoroso e approfondito di queste decisioni giudiziarie in conflitto, per confrontarne il rispettivo percorso logico-motivazionale. Questa messa a confronto critico risulterebbe certo più agevole, anche per chi è esperto di materiali giurisprudenziali, se ci si trovasse in presenza di sentenze dalle proporzioni ben più contenute e se i giudici estensori, sottraendosi alla tentazione (affiorante in particolare nella sentenza di condanna della Corte d’assise) di fare storiografia politica e mafiologia, concentrassero le loro risorse intellettuali soprattutto sui fatti penalmente rilevanti e sui profili probatori. Se ciò avvenisse, avremmo un modello di motivazione giudiziaria più essenziale e compatta, senza ridondanze confusive e frammentazioni dispersive. Arrischierei, a questo punto, l’idea (provocatoria?) che anche una sentenza su vicende complesse potrebbe in teoria essere contenuta in un centinaio di pagine, se si facesse con puntualità rinvio per la consultazione dell’insieme degli elementi probatori ad apposite parti allegate, ma distinte dal corpo della motivazione in senso stretto. Chi si preoccupa di additare ai magistrati, specie nei corsi di formazione destinati ai più giovani, modelli di sentenze penali idonei a consentirne la lettura non solo da parte degli esperti, ma anche di cerchie più ampie di cittadini potenzialmente interessati? L’imperizia dei periti di Luca Simonetti Il Foglio, 21 gennaio 2020 Chi sceglie gli esperti nel processo? Come nascono i giudizi sbagliati. Contro-indagine. Ormai non sono poche le sentenze con cui i giudici italiani hanno condannato l’Inail a risarcire, come infortunio sul lavoro, tumori cerebrali sviluppatisi in persone che utilizzavano intensamente telefoni cellulari (ad esempio, App. Brescia n. 614/2009, confermata da Cass. n. 17438/2012, e Trib. Firenze n. 391/2017). In tutti questi casi, alla sentenza si è arrivati dopo che i consulenti tecnici di ufficio (Ctu) avevano ravvisato una maggiore probabilità di insorgenza di tumori cerebrali a seguito di una prolungata esposizione a radiofrequenze. La recentissima sentenza della Corte di appello di Torino del 3.12.2019, che ha confermato l’analoga decisione del Tribunale di Ivrea (n. 96/2017), è solo l’ultima della serie. La Corte torinese si è trovata a decidere un caso in cui tutti i Ctu, sia in primo grado sia in appello, avevano concluso per l’esistenza di un nesso di causalità fra l’esposizione a telefoni cellulari per diverse ore al giorno per oltre dieci anni (15, in questo caso) e l’insorgenza della rara neoplasia sviluppata dal lavoratore (un neurinoma). Quando i giudici si trovano a dover decidere di complesse questioni scientifico-tecniche, la legge prevede che essi si avvalgano di esperti di loro fiducia, cioè appunto i Ctu, perché questi li aiutino a prendere cognizione dello “stato dell’arte” sulla questione. Tanto che, quando il giudice segue il parere espresso dal Ctu, non è, salvo in alcuni casi eccezionali, neppure tenuto a motivare perché l’abbia fatto. Nel caso della sentenza di Torino, quindi, i giudici si sono trovati dinanzi a ben due consulenze d’ufficio (una in primo grado, una in appello) che hanno ritenuto provato il nesso causale. Difficile biasimarli se hanno ritenuto di adeguarvisi. Sarebbe più interessante, semmai, chiedersi come facciano dei periti a giungere regolarmente, sistematicamente anzi, a conclusioni come questa che non sono affatto condivise dalla comunità scientifica e sono, in particolare, rigettate dalle principali autorità di vigilanza tecnico-scientifica anche italiane, inoltre alcuni di questi, come l’Istituto Ramazzini, sono anch’essi enti “privati”. Né si comprende per quale ragione un ente “pubblico” non possa anch’esso, legittimamente, perseguire un proprio interesse che potrebbe benissimo, in astratto, far velo all’obiettività della ricerca. Senza contare che molte scoperte sulla nocività di determinate sostanze sono state finanziate proprio dagli enti privati che le producevano. Ma, soprattutto, è un argomento errato. Posto infatti che il ricercatore è tenuto alla trasparenza sui finanziamenti e su ogni circostanza che possa influire sulla sua ricerca, il giudizio sulla bontà dei suoi risultati non può certo ridursi al rilievo di un potenziale conflitto d’interessi. Se sono un professore di matematica al liceo, è chiaro che ho un forte interesse a che la scuola continui a prevedere l’insegnamento della matematica: ma non per questo avrò torto contro qualcuno che pretenda di dimostrare che la matematica è un’opinione perché 2+2=5. E d’altronde, il negazionismo climatico è scientificamente infondato non perché chi lo sostiene sia più o meno direttamente finanziato dalla lobby petrolifera (benché in molti casi sia davvero così), bensì perché i climatologi hanno portato argomenti validi a dimostrare l’origine antropica del riscaldamento globale. A poterci dire se una ricerca scientifica è corretta e se i suoi risultati sono validi non è chi sia il suo autore (chi lo paga, che opinioni abbia, eccetera): ce lo dice la ricerca stessa e il modo in cui il resto della comunità scientifica si confronta con essa. Ora, la Corte d’appello, e prima ancora il Tribunale di Ivrea, nonché i Ctu, per liberarsi delle ricerche che contraddicono la loro conclusione, invocano un presunto principio di “terzietà” o “indipendenza” sancito da una sentenza della Cassazione (n. 17438/2012). Tuttavia, non è la Cassazione a poter stabilire quali siano i criteri in base ai quali valutare le ricerche scientifiche. È la comunità scientifica, non un giudice, a determinare se una ricerca sia valida oppure no. Se poi il concetto di “comunità scientifica” vi pare vago (e infatti dappertutto esistono vasti corpus di giurisprudenza per stabilire proprio quale sia la comunità scientifica a cui fare riferimento: basti pensare alla sentenza “Daubert” negli Stati Uniti e alla sentenza Cass. n. 43786/2010 in Italia), potete usare una semplice rule of thumb: fidarvi degli organi tecnico-scientifici pubblici preposti per legge alla tutela della salute, che hanno tutte le competenze necessarie per giungere alla conclusione corretta. Se l’Istituto Superiore di Sanità ci dice che non esiste prova che i telefoni cellulari causino tumori, allora questo è il dato da cui periti e Tribunali dovrebbero partire. In Italia, invece, si sta affermando, sotto la maschera di una richiesta d’imparzialità e oggettività del parere tecnicoscientifico, la stranissima pretesa che, su questioni complesse, possano esprimersi tutti tranne proprio gli esperti, cioè coloro che della questione si sono già occupati. È successo, se ricordate, con il caso Stamina, quando il Tar del Lazio pretese che della commissione valutatrice del “metodo” di Vannoni e Andolina facessero parte solo esperti che su Stamina non si fossero ancora pronunciati. E infatti l’associazione che ha dato vita al caso deciso dalla Corte di Torino (la A.p.p.l.e, cioè “Associazione per la prevenzione e la lotta all’elettrosmog”), nel suo comunicato stampa celebrativo della “vittoria”, sostiene proprio che, siccome alcuni membri dell’Istituto superiore di sanità sono stati in passato membri di un organismo (l’Icnirp) che da decenni nega il nesso causale fra tumori e telefonini, allora essi si troverebbero in “conflitto d’interessi”. Ancora una volta, l’argomento prova troppo, e per di più è illogico e errato. Prova troppo, perché se essersi già pronunciati sulla materia costituisce conflitto d’interessi, allora era in conflitto d’interessi anche il Ctu del Tribunale di Ivrea, che dal 2010 circa scrive articoli per sostenere un nesso causale fra telefonini e tumori. Ed è illogico ed errato, perché in questo modo si finisce per escludere dal processo proprio coloro che sono più esperti. Nonostante la (comprensibile) tentazione di biasimare i giudici, insomma, questo tipo di sentenze “antiscientifiche” richiede di ragionare a mente fredda su riforme di sistema che risolvano il nodo cruciale: cioè i criteri di selezione e i metodi di controllo degli “esperti” nel processo. Non si tratta certo dell’unico problema che affligge la giustizia italiana, e nemmeno del più grave: perché, ad esempio, ci dovrebbe preoccupare ancora di più il crescente “interventismo” dei giudici in aree sottratte alla loro competenza, come dimostra la recente iniziativa della magistratura amministrativa (vedi Tar Lazio n. 500/2019 e Cons. Stato n. 5887/2019), proprio in materia di rischi connessi all’uso dei telefonini, di ordinare al Governo di effettuare una “campagna informativa” priva di senso. Ma, se parliamo della deriva “antiscientifica” dei tribunali, la soluzione è da ricercare qui. Il fatto poi che parti politiche e sociali, giornali e altri media straparlino di sentenze che avrebbero “confermato il nesso di causalità tra esposizione ai telefonini e tumore al cervello” è il frutto amaro di una decennale confusione tra esito processuale e verità scientifica: la verità non la stabiliscono i tribunali. Ma anche questo, un grave e diffuso problema di ignoranza e incultura, è di tutti noi italiani e non solo dei giudici. Nave Gregoretti, Salvini si manda a processo da solo (ma la partita è lunga) di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 21 gennaio 2020 Le prossime tappe verso l’eventuale processo. Dopo l’autorizzazione del Senato il fascicolo dovrà tornare a Catania dove si ricomincerà dall’udienza preliminare. Ammesso e non concesso che tutto vada come improvvisamente lui ha deciso che debba andare (almeno a parole), prima di poter scrivere “Le mie prigioni” sul caso “Gregoretti” Matteo Salvini dovrà aspettare ancora un po’. Perché l’auspicata autorizzazione a procedere concessa dal Senato non varrebbe un arresto né una condanna, così come il voto in Giunta di ieri sera. Dopo il clamoroso e per certi versi grottesco capovolgimento di fronti dovuto alla scelta aventiniana della maggioranza di ritirarsi al momento del voto, per protestare non tanto contro la propaganda dell’ex ministro ma contro le asserite “forzature” dei presidenti del Senato e della Giunta, si apre la partita dell’Aula. Che dovrà riunirsi e deliberare entro il 17 febbraio. A prescindere dalle strumentalizzazioni del procedimento giudiziario avviato, e dalla zoppicante coerenza con ciò che è stato detto fin qui sul presunto sequestro di 131 migranti trattenuti cinque giorni a bordo della nave militare Gregoretti (e di quel che gli stessi partiti fecero un anno fa, nel caso analogo della Diciotti), il Senato dovrebbe dibattere e decidere sul merito della richiesta avanzata dal tribunale dei ministri di Catania. Che per legge non può occuparsi di “stupratori, spacciatori e mafiosi”, come reclama Salvini nei suoi comizi, ma è chiamato a verificare, appunto, ipotetici reati ministeriali. La questione non riguarda le scelte politiche dell’ex titolare del Viminale, bensì la loro compatibilità con il diritto e le norme, nonché un potenziale “interesse pubblico preminente” che possa prevalere sul reato contestato. Tutto qui. Secondo i tre giudici siciliani che compongono il collegio, infatti, “le scelte politiche o i mutevoli indirizzi impartiti a livello ministeriale non possono ridurre la portata degli obblighi degli Stati di garantire nel modo più sollecito il soccorso e lo sbarco dei migranti in un luogo sicuro”. Quanto alla “difesa dei confini” invocata dal leader leghista per negare ai profughi il permesso di sbarco, i giudici hanno ritenuto che “la linea politica promossa dal ministro dell’Interno non fosse, in concreto, incompatibile con il rispetto delle Convenzioni internazionali vigenti”. Secondo il tribunale, “le persone soccorse ben potevano essere tempestivamente sbarcate e avviate all’hotspot di prima accoglienza per l’attività di identificazione, salvo poi essere smistate negli hotspot di destinazione secondo gli accordi raggiunti a livello europeo”. Argomenti rimasti finora pressoché assenti dalla discussione pubblica, tutta avvitata intorno a qualche slogan e frase a effetto. Ma qualora il fascicolo dovesse ripartire da palazzo Madama per Catania con l’autorizzazione a procedere, si aprirebbe un altro match, stavolta solo giudiziario, anch’esso dall’esito tutt’altro che scontato. L’iter prevede la restituzione degli atti al tribunale dei ministri “perché continui il procedimento secondo le norme vigenti”, che come ha chiarito una sentenza della Corte costituzionale nel 2002 significa tornare davanti “al pubblico ministero e agli ordinari organi giudicanti competenti”. La Procura di Catania dovrebbe quindi riproporre il capo d’imputazione formulato contro Salvini dal tribunale dei ministri e sottoporlo al giudice dell’udienza preliminare, che dovrà decidere sul rinvio a giudizio. Con una particolarità, che diventerebbe l’ennesimo paradosso di questa storia: la Procura etnea s’era già pronunciata per l’archiviazione del caso “Gregoretti” ritenendo (a differenza che nel caso “Diciotti”) che non esistano gli estremi del sequestro di persona; insussistenza del reato sotto il profilo oggettivo, oltre che soggettivo. Che farà davanti al gup? E che cosa deciderà il gup, rinvio a giudizio o proscioglimento? Prima del processo e dell’eventuale condanna (in tre gradi di giudizio, come sempre), l’accusa a Salvini dovrà superare questo ostacolo, nella corsa ancora molto lunga verso Le mie prigioni. Intervista a Massimo Cacciari. “Ma quale scontro tra politica e giustizia: è solo una sceneggiata” di Giulia Merlo Il Dubbio, 21 gennaio 2020 “Se i leghisti votano per l’autorizzazione contro Salvini, sarà un boomerang”. Sempre fuori dal coro, il filosofo Massimo Cacciari analizza i possibili esiti del caso Gregoretti e, soprattutto, come e se impatterà sul voto emiliano. Dove la vittoria di Bonaccini è probabile e, se così fosse, “si dovrà accendere un cero alle Sardine”. Professore, il caso Gregoretti ha tenuto col fiato sospeso il Parlamento... “Lei dice? Io non vedo davvero che interesse possa avere questo fatto. L’unica cosa certa è che tutti, Matteo Salvini da una parte e la maggioranza dall’altra, stanno usando la cosa in chiave unicamente strumentale”. Salvini rischia la galera, però... “Rimane politichetta di infimo livello”. Si rianima il solito scontro dualistico tra politica e giustizia? “Direi di no. Mi sembra, anzi, un fatto abbastanza lineare: i giudici hanno rilevato nel comportamento dell’ex ministro dell’Interno un comportamento che viola alcune norme penali e di diritto internazionale, per questo ha aperto il procedimento e chiede l’autorizzazione. Ora sta al Parlamento decidere e ognuno si assumerà le sue responsabilità. Ma non mi parli di scontro tra politica e magistratura, perché in Italia abbiamo assistito a drammi di ben altra portata, rispetto ai quali questo è poco più di un fatterello secondario”. E questo fatterello influenzerà il voto emiliano? La commissione ha votato l’autorizzazione, dunque bene o male Salvini ha una nuova cartolina da poter usare in questi ultimi giorni di campagna elettorale. Ci va anche grazie ai voti della Lega, è stata una mossa furba? “Direi piuttosto un boomerang, perché si tratta di una strumentalizzazione che grida vendetta al cielo. Mi sembra una mossa talmente spudorata che, paradossalmente, aggiunge una freccia all’arco dei suoi avversari”. Al netto dei fatti nazionali, come crede che finirà in Emilia? “Sono quasi certo che vincerà Bonaccini, ma gli scenari sono tutti ancora possibili”. Ipotizziamo, invece, che il centrosinistra perda... “Se così fosse, assisteremmo alla caduta di un piccolo muro culturale, politico e simbolico. Se succedesse, non vedo come il Pd e il governo potrebbero far finta di nulla. Per il Pd, almeno, non sarebbe possibile ignorare un evento di tale portata. Anche in questo caso, però, le ipotesi sono varie: se la Lega vincesse sarebbe il disastro; però esiste anche l’ipotesi che Bonaccini vinca sul fil di lana, ma la coalizione avversaria superi il 50%. Il Pd potrebbe dire che, tutto sommato, non ha perso e Bonaccini riuscirebbe a mettere in piedi un governo regionale, forte del fatto che nessuna Regione si è mai sciolta anzitempo”. Lei parla solo del Pd, ma al governo le conseguenze le subirebbero anche i 5 Stelle... “I 5 Stelle da mesi hanno smesso di ragionare. Era talmente evidente che in Emilia non avrebbero dovuto presentarsi ma stringere un accordo con Bonaccini per costruire una lista civica e garantirsi l’elezione senza andare alla conta, per poi dire che il Pd aveva vinto grazie a loro. Andare con un loro candidato è stata una scelta demenziale ed è incredibile che Luigi Di Maio continui a rimanere a galla”. Le Sardine, invece, hanno dato una mano, elettoralmente parlando? “Bisogna vedere, io spero e penso di sì. Certamente sono state loro la novità, perché hanno mobilitato le piazze quando i partiti tradizionali non riescono più nemmeno a organizzare un comizio decente. Sono state sicuramente utili, ma non è detto che la piazza si tramuti in voti”. Sarà difficile calcolarli, però. “Per farlo bisognerà vedere il combinato disposto del probabile tracollo 5 Stelle e dei livelli del Pd. Se i 5 Stelle finissero molto in basso e i dem facessero un risultato particolarmente positivo, probabilmente significherebbe che le Sardine hanno prodotto una osmosi tra Pd e grillini. In ogni caso, certamente le Sardine male non hanno fatto. Anzi, dico di più: se Bonaccini riuscisse a farcela, dovrebbe accendere un cero alle Sardine”. Il “garantismo a oltranza” che danneggia i minori di Silvia Ricciardi, Vincenzo Morgera, Giovanni Salomone* La Repubblica - Napoli, 21 gennaio 2020 Il gruppo di minorenni che irresponsabilmente transita contromano sulla tangenziale, ragazzi individuati e “puniti” con una sanzione amministrativa che si perderà nel tempo; altri ragazzi che si rendono responsabili di una rivolta nell’istituto penitenziario minorile di Nisida; altri ancora che ingaggiano una guerriglia urbana con la polizia nel Borgo di Sant’Antonio Abate, sono tutti segnali di un fenomeno che si sta riproducendo con una frequenza allarmante. Immaginate per un attimo questi stessi fatti, con protagonisti gli stessi ragazzi, quando accadono all’interno di una comunità, dove gli operatori non hanno lo schermo protettivo di una divisa, di una istituzione che li identifica come rappresentanti dello Stato. Il risultato è la tempesta perfetta. Le comunità e gli operatori, che sono attrezzati ai rischi del “mestiere di educatori”, soccombono nel confronto con un “branco di predatori” che si muovono con la pratica della violenza per la conquista del territorio e affermare il loro dominio. È capitato, capita e capiterà ancora se continuiamo ad allevarli con l’impunità offrendo loro diritti a costo zero. Quello che è peggio, però, è che la mancanza di una risposta adeguata alla gravità dei fatti di cui si rendono protagonisti toglie loro l’opportunità di un ripensamento del loro agire violento e deviante e la possibilità di avviare, con il sostegno dei servizi della giustizia minorile, di cui fanno parte anche le comunità che accolgono questa tipologia di ragazzi, quel normale percorso di rielaborazione e recupero. L’impunità è figlia di una cultura del “garantismo ad oltranza” che si limita a vedere, in questo parecchio miope, nelle disuguaglianza sia le cause che gli effetti dei comportamenti devianti dei tanti ragazzi in conflitto con la giustizia. Una lettura che può produrre danni incalcolabili perché, portata alle sue estreme conseguenze, e ciò spesso avviene, rischia di diventare una forma latente di razzismo. Bisogna stare attenti, così continuando si nega al minore “il libero arbitrio”, vale a dire la possibilità di scegliere, poiché non gli si prospetta una alternativa e dunque lo si lascia confinato nel mondo dove la scelta possibile è solo una. Far sentire ai minori il peso delle proprie responsabilità comporta che la società si assuma conseguenzialmente le proprie, di responsabilità, e garantisca ai minori la fruizione di diritti e doveri per la costruzione di una vita diversa. L’approccio basato sul “garantismo ad oltranza” si sta dimostrando pericoloso perché proietta i ragazzi in un delirio di onnipotenza e oltre a rendere loro refrattari ai doveri che ogni cittadino deve avere nei confronti della società, deresponsabilizza tutti (istituzioni, servizi) che scegliendo la mancata sanzione tirano i remi in barca togliendo ai minori la possibilità di pensare, di cambiare e di vedere che esiste un altro futuro. In queste condizioni l’offerta educativa della comunità (ma di qualsiasi altro servizio rivolto ai minori dell’area penale) è destinata a fallire miseramente. E fallisce perché perde rispetto alla rappresentazione che questi ragazzi hanno della vita, costruita su modelli che inneggiano alla violenza, alla sopraffazione, al potere, valori che rappresentano per loro l’unico percorso sulla strada del diventare “dei veri uomini”. Questo stato di cose, e la lettura che si propone, ci induce ad una ulteriore e decisiva considerazione. Questi fatti, e soprattutto le mancate risposte ad essi, generano nella cosiddetta “società civile”, nell’opinione pubblica, paura, insicurezza. E la conseguenza più immediata è che la gente si chiude, si defila, non per egoismo o indifferenza, ma per il timore. E questo è quello che una società democratica non può assolutamente permettersi, figuriamoci una comunità, che di questa società democratica rappresenta un piccolo avamposto. *Gli autori sono i promotori della associazione Jonathan Onlus Spazza-corrotti: prevale la norma più favorevole di Patrizia Maciocchi Il Manifesto, 21 gennaio 2020 L’entrata in vigore della legge “spazza-corrotti” non giustifica la revoca della sospensione dell’esecuzione in vista della domanda di misura alternativa alla detenzione concessa nel vigore della legge precedente più favorevole. La Cassazione, con la sentenza 1799, respinge il ricorso del Pm, che contestava la possibilità di applicare la legge più favorevole, in base al principio di diritto intertemporale, vista la natura processuale delle norme che regolano la fase dell’esecuzione penale. L’imputato era stato, infatti, condannato in via definitiva per concussione e falso in atto pubblico. Il primo dei due reati contro la pubblica amministrazione, previsto dall’articolo 317 del Codice penale, rientra nel raggio d’azione della legge 3/2019 la cosiddetta spazza-corrotti entrata in vigore il 31 gennaio dello scorso anno. Ad avviso della pubblica accusa la sopravvenuta natura “ostativa” del reato di concussione imponeva di revocare il primo ordine di esecuzione e di dare un colpo di spugna alla sospensione temporanea che aveva lo scopo di chiedere misure alternative alla detenzione: possibilità non più prevista dopo la legge peggiorativa. La Suprema corte non è d’accordo e respinge il ricorso. I giudici della prima sezione ricordano in prima battuta che sulla “spazza-corrotti”, proprio la prima sezione, ha sollevato, con un rinvio alla Consulta, dei dubbi di costituzionalità sia dal punto di vista della ragionevolezza e del rispetto del principio della pena intesa come mezzo di rieducazione, sia per quanto riguarda la corretta individuazione del regime intertemporale, non essendo stata prevista una disciplina transitoria. Un punto quest’ultimo sul quale la Cassazione si è già espressa ritenendo che l’entrata in vigore di una disciplina peggiorativa non faccia scattare la perdita di efficacia dei provvedimento adottati quando c’era una norma di maggior favore. E questo proprio in virtù del principio secondo il quale “il tempo regola l’atto” Niente pene accessorie se il reato tributario è patteggiato di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2020 Se viene patteggiato un reato tributario e la pena irrogata non supera i due anni di reclusione non si possono applicare le pene accessorie previste per i delitti tributari. A fornire questo interessante principio è la Corte di cassazione, terza sezione penale, con la sentenza 1439/2020. La pronuncia trae origine dalla condanna a dodici mesi di reclusione di un amministratore di una Srl, su sua richiesta, in base all’articolo 444 del codice di procedura penale, in relazione al reato di omessa presentazione della dichiarazione per due periodi di imposta. Contro tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il procuratore generale presso la Corte d’appello lamentando l’omessa applicazione delle pene accessorie previste dall’articolo 12 del Dlgs 74/2000 nonché l’omessa disposizione della confisca dei beni costituenti il profitto o il prezzo del reato, come previsto dall’articolo 12 bis del medesimo Dlgs 74/2000. In base all’articolo 12, la condanna per taluno dei delitti tributari previsti dal Dlgs 74/2000 importa: l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a tre anni; l’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione per non meno di uno e non più di tre anni; l’interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria per non meno di uno e non più di cinque anni; l’interdizione perpetua da componente di commissione tributaria; la pubblicazione della sentenza a norma dell’articolo 36 del codice penale. La Cassazione ha accolto il ricorso della Procura limitatamente alla mancata previsione della confisca del profitto del reato. I giudici infatti rilevano che sussistevano tutti i presupposti per la disposizione della confisca obbligatoria a seguito dell’applicazione della pena per uno dei reati contemplati dal Dlgs 74/2000, nella specie indebitamente omessa dal tribunale nel recepire il concordato di pena. Per effetto di tale omissione si è determinata una statuizione illegale in punto di applicazione di una misura di sicurezza obbligatoria, trattandosi di una statuizione difforme dal modello legale previsto come obbligatorio in una tale situazione che quindi, come richiesto dal pubblico ministero, deve essere rimossa. Relativamente invece ai rilievi relativi all’omessa applicazione delle pene accessorie, la sentenza li ha ritenuti manifestamente infondati. Secondo i giudici, la pena applicata in concreto per il reato di omessa presentazione della dichiarazione (articolo 5 del Dlgs 74/2000) è inferiore a due anni di reclusione e quindi a essa non poteva conseguire, in base all’articolo 445, comma 1, del codice di procedura penale, l’applicazione di pene accessorie. Tale disposizione prevede infatti che l’applicazione su richiesta di pena detentiva inferiore ai due anni non comporta la condanna alle pene accessorie. Nella specie essa deve trovare applicazione, trattandosi di disposizione speciale che prevale su quelle generali, dunque anche su quella di cui all’articolo 12 del Dlgs 74/2000 che appunto disciplina le pene accessorie nei casi di condanna per reati tributari. Appropriazione indebita, la “refurtiva” non serve di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sezione VII - Ordinanza 20 dicembre 2020 n. 1185. Per provare l’appropriazione indebita dell’amministratore condominiale non è necessario accertare dove sono stati nascosti i beni sottratti. L’amministratore condominiale è il mandatario del condominio e al termine del suo incarico deve rendere il conto e restituire tutto ciò che ha ricevuto a causa del mandato. Vale a dire che il denaro ed i documenti sono di proprietà del condominio e l’amministratore non può trattenerli, magari vantando crediti verso il condominio. Il reato di appropriazione indebita (articolo 646 del Codice penale) si avvera quando l’amministratore, oltre a omettere la restituzione compie atti su tali beni da cui emerge la sua volontà di considerarli come propri. In pratica esercita un’indebita signoria sugli stessi e ignora la richiesta di restituzione operata dai condòmini. La giurisprudenza ha precisato che l’amministratore ha la detenzione non per conto proprio delle somme sulle quali opera effettuando prelievi e pagamenti in favore del condominio. Pertanto la sua attività è un ufficio di diritto privato assimilabile al mandato con rappresentanza con la conseguente applicabilità nei rapporti tra l ‘amministratore e i condomini delle norme sul mandato. L’obbligo di restituzione sorge quindi a seguito della conclusione dell’attività gestoria. Il fatto che alla scadenza del mandato l’amministratore sia tenuto alla restituzione di ciò che ha in cassa si deduce anche dalla considerazione che egli potrebbe avere avuto anche l’incarico di recuperare somme dovute da condòmini morosi e riguardanti anche la precedente gestione. Il reato è procedibile a seguito della presentazione della querela entro novanta giorni dal momento del passaggio delle consegne al nuovo amministratore e la Cassazione (sentenza 34196/2018) sostiene il reato si consuma all’atto della cessazione dalla carica di amministratore. Ora la Corte di Cassazione (sentenza 1185/2020) afferma che l’accusa non deve provare dove siano stati allocati i fondi sottratti dall’amministratore condominiale. Nel ricorso, dichiarato inammissibile, l’amministratore ricorrente sosteneva l’ingiustizia della condanna perché i giudici di merito non avevano dimostrato dove erano stati collocati i fondi sottratti. La Cassazione respinge tale assunto in quanto sostiene che la sentenza di condanna è stata adeguatamente motivata poiché dimostrava l’indebita appropriazione delle somme conferite dai condòmini e non utilizzate a favore del condominio. La Corte di appello, tra l’altro, si basava anche sulla deposizione del nuovo amministratore che trovava riscontro nei documenti dal medesimo prodotti nel corso del dibattimento. Il diritto alla natura incontaminata è pubblico e solo allo Stato compete il risarcimento di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 20 gennaio 2020 n. 1997. Il ministero dell’Ambiente, cioè lo Stato, è l’unico legittimato a domandare il risarcimento per il danno ambientale in sé considerato. Infatti, i privati o le associazioni di cittadini hanno titolo a domandare un ristoro all’autore della condotta che danneggia l’ambiente solo se dimostrano di aver sofferto in proprio un danno patrimoniale o anche non patrimoniale quale conseguenza diretta dell’evento illecito. Secondo la sentenza di legittimità n. 1997, depositata ieri dalla terza sezione penale della Corte di cassazione, va appunto affermato che per il danno ambientale, inteso l’ambiente come valore collettivo e quindi pubblico, viene superata la logica alla base della responsabilità civile, cioè la funzione compensativa del risarcimento, e titolare attivo dell’azione civile è solo lo Stato. La Cassazione boccia perciò la sentenza di merito di appello che aveva riconosciuto il risarcimento dei danni a dei privati sulla base dell’affermazione che era stato violato il loro “diritto al godimento di una natura libera e incontaminata oltre che alla visuale del paesaggio violato”. Ma tale diritto è appunto di rilevanza generale tale da vedere titolare del diritto al risarcimento - in base al principio “chi inquina paga” - soltanto lo Stato. Il danno ambientale - Come spiega la Cassazione il danno ambientale ha risvolti pubblici e privati che vanno appunto tenuti distinti per evitare di duplicare le conseguenze di un illecito in tale ambito. Esiste perciò prima di tutto un danno ambientale di natura pubblica che non impedisce però la richiesta di risarcimento da parte di privati o di Regioni e Comuni, se provano l’esistenza di ulteriori danni che verranno riconosciuti in base alle regole della responsabilità civile ex articolo 2043 del Codice civile. Quella che obbliga a risarcire lo Stato per l’ambiente danneggiato, realizzando un’eccezione alla funzione compensativa del risarcimento, è responsabilità di natura extracontrattuale derivante dalla violazione di una norma di legge. Il deposito incontrollato di rifiuti - Nel caso in esame il ricorrente era stato accusato di aver depositato su un proprio terreno del materiale inerte realizzando di fatto una discarica a cielo aperto in assenza di autorizzazione di legge. Veniva quindi condannato, nonostante la prescrizione dei reati, a risarcire il danno di chi aveva lamentato il nocumento, che andava dal peggioramento del paesaggio al mancato godimento di specie di uccelli prima presenti nella zona, fino alla percezione di un puzzo proveniente dall’area di proprietà del ricorrente. Il punto è che il risarcimento di tali danni, patrimoniali e non, veniva riconosciuto senza una doverosa prova processuale del nesso eziologico tra i comportamenti dell’imputato e le conseguenze dannose lamentate. Sarà ora il giudice del rinvio a verificare specificamente i danni subiti direttamente dal singolo nella propria sfera privata e la causalità della condotta penalmente rilevante. L’eventuale disagio per la natura “rovinata” può essere percepito da chiunque, anche lontano da quei luoghi. Per cui l’ampiezza ipotetica della platea di danneggiati fa sì che il risarcimento vada in capo al soggetto pubblico che tutela gli interessi della collettività. In tali situazioni, quindi, il privato può ottenere un risarcimento per sé solo se dimostra di aver subito - se non un danno patrimoniale - anche un danno morale legato allo stato dei luoghi, magari anche per un breve lasso di tempo. Ai componenti del gruppo teatrale “Si rifà” di Pia Colombo, Casa circondariale di Voghera di Anna Parini Ristretti Orizzonti, 21 gennaio 2020 Giovedì 26 settembre è stato l’ultimo incontro con chi è rimasto della compagnia teatrale fondata da Pia Colombo “Si rifà”. Quel giorno, ho varcato i cancelli con un senso di ansia e di grande dispiacere perché dovevo salutare - a un mese dal debutto di “Don Raffaele, ‘o trombone” - le persone detenute ancora presenti, che sul palco chiamavo “ragazzi”. Non erano molte; e nessuno di noi aveva voglia di parlare di tutto il lavoro fatto che sarebbe rimasto inutilizzato. Gli anni passati insieme ci permettono di conoscere le nostre emozioni senza esprimerle e gli occhi umidi (compresi i miei) comunicano il nostro stato d’animo. È stato un periodo pieno di stimoli culturali, di prove, di letture e di conversazioni che hanno dato alla “parola” tutto il suo valore scenico e contenuto umano: credo che abbia arricchito il percorso di ognuno di noi. Voglio ringraziare le persone detenute che non ho potuto vedere prima della loro partenza, come ho potuto fare, invece, con quelle che la legge mi ha permesso di contattare. Le voglio ringraziare per quanto mi hanno insegnato su un tipo di umanità che non conoscevo e credevo lontano anni luce e che mi ha reso più consapevole dell’umanità in genere. Spero che la mia collaborazione ai vostri spettacoli, oltre a quello che avete egregiamente dimostrato sul palco, abbia contribuito a facilitare il vostro percorso di riabilitazione. Non ve l’ho mai detto esplicitamente, forse avrei aspettato ancora un po’ a causa della riservatezza del mio carattere: “bravi!”. Continuate ovunque voi siate il lavoro iniziato con Pia e proseguito con me: non sarà inutile per nessuno di voi e per il vostro reinserimento. Colgo l’occasione per augurare un sereno Natale a tutti, una pacificazione principalmente con voi stessi e poi anche con il mondo. Sardegna. Carceri sempre più affollate, tre penitenziari oltre il limite cagliaripad.it, 21 gennaio 2020 “È iniziato all’insegna dei vecchi problemi il nuovo anno nelle carceri della Sardegna. La conferma arriva dai dati del Ministero della Giustizia che presentano un quadro significativo sulla presenza oltre il limite regolamentare in tre istituti. La situazione più pesante a Oristano-Massama dove, a fronte di 265 posti, sono ristrette 280 persone (+105,6%). Quasi tutti ergastolani in regime di AS3 con circa 150 Agenti di Polizia Penitenziaria”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”. “A Badu e Carros - sottolinea - sono indicati 381 posti e 282 detenuti. In realtà una sezione di circa 90 posti è chiusa per lavori ne consegue che i ristretti hanno a disposizione circa 290 posti. Anche Nuoro, che ospita peraltro alcuni esponenti legati al terrorismo islamico, è quindi ormai prossimo alla saturazione come Lanusei (28 presenza per 33 posti) e Alghero (156 su 156). Va meglio a Tempio con 153 presenze per 168 posti”. “Sono oltre il limite regolamentare, benché in misura minore, anche Cagliari-Uta (565 presenze per 561 posti, con una sezione di circa 30 detenuti in regime AS) e Sassari-Bancali (460 su 454 con una novantina al 41bis). Frattanto - aggiunge Caligaris - sono ripresi i lavori, la cui conclusione è prevista per il 26 agosto prossimo, nel Padiglione destinato al regime di massima sicurezza a Cagliari-Uta. È quindi previsto, entro l’anno, l’arrivo di una novantina di personaggi di spicco della criminalità organizzata. Ciò comporterà il trasferimento degli attuali nelle strutture di Tempio, Massama e Nuoro”. “Dobbiamo segnalare ancora una volta, purtroppo, che le Colonie Penali con 692 posti sono occupate solo per poco più della metà - denuncia - Ci sono infatti complessivamente 364 detenuti prevalentemente stranieri. Nella Casa di Reclusione di Arbus su 100 ristretti 82 sono stranieri; a Mamone sono 139 su 175 mentre a Isili sono 44 su 89. Insomma il più volte annunciato rilancio delle Colonie ancora non si è verificato. Sono infatti un ricordo gli anni in cui le produzioni agricole e lattiero-casearie erano un vero fiore all’occhiello dell’amministrazione penitenziaria”. “Con il nuovo anno non è cambiato neppure il numero dei Direttori - conclude - La Sardegna si distingue per la gravissima carenza (4 su 10 istituti) a cui si aggiunge quella degli Agenti, degli amministrativi e dei funzionari giuridico-pedagogici”. Pescara. L’emergenza del carcere sarà discussa in Parlamento Il Centro, 21 gennaio 2020 Il Pd in visita al San Donato, annunciate interrogazioni a Roma e alla Regione Blasioli e Giampietro: il malessere è causa di aggressioni, risse e autolesionismo. Il Partito democratico porta il caso San Donato in Parlamento e in Regione. Ieri mattina il consigliere regionale Antonio Blasioli è stato nel carcere di Pescara insieme al consigliere comunale Piero Giampietro: “Daremo seguito alla visita”, assicura Blasioli, “incontreremo i sindacati degli agenti penitenziari e articoleremo tutte le funzioni ispettive sia in Regione sia in parlamento”. La visita è stata decisa dopo gli ultimi episodi, “che dimostrano il malessere”, sottolineano i due esponenti del Pd, “che si vive nella struttura, e che accomuna detenuti e agenti penitenziari”. L’istituto di pena dovrebbe accogliere duecento detenuti ma ce ne sono almeno il doppio. La pianta organica prevede 170 agenti, ma tra quelli in malattia o in distacco sono in realtà un centinaio. Inoltre negli ultimi anni sono andati in pensione circa cinquanta agenti, quasi trenta dei quali nel biennio appena trascorso. Secondo gli esponenti del Pd, sovraffollamento e carenze di personale a parte, ci sono anche casi che potrebbero essere affrontati e risolti nell’immediato. “Uno su tutti riguarda l’ospedale di Pescara che, all’ottavo piano, ha un reparto dedicato ai detenuti”, spiegano, “capita però che questo non venga utilizzato per carenza di infermieri, e così si verificano due distorsioni: ogni detenuto deve avere una scorta di due agenti, che sui 4 turni quotidiani richiede la presenza di 8 agenti. Se i detenuti fossero tutti ricoverati nel reparto riservato, basterebbero 8 persone per tutti. Ciò non avviene, e così dal 14 gennaio per i due detenuti ricoverati in reparti diversi ci sono 16 agenti al giorno impegnati. Se il reparto per detenuti è stato messo su, è indispensabile che funzioni: è una condizione che porremo all’assessore regionale alla Sanità Nicoletta Verì. A oggi, i detenuti sono nelle stesse stanze degli altri malati, e così capita che questi e i loro familiari siano costretti a imbattersi con agenti armati nei reparti”. Su quest’ultima questione, il Partito democratico è invece intenzionato a presentare un’interpellanza parlamentare. Altro problema che causato dall’esiguità del personale è “che solo in pochi possono partecipare alle attività formative come scuola di formazione lavorativa, e la noia è spesso causa di scontri, sia tra detenuti e agenti sia tra detenuti stessi”. C’è poi la questione dei pazienti psichiatrici: “A fronte dei sette posti assegnati per detenuti psichiatrici”, ricordano Blasioli e Giampietro, che insistono inoltre sulla mancanza di una camera di isolamento: “Spesso si utilizza la parte riservata ai collaboratori di giustizia, ma se questa è occupata non se ne può fare utilizzo”. “Insomma gli episodi di autolesionismo, i materassi bruciati e i detenuti scappati sul tetto sono degli allarmi che non possono restare inascoltati”, continuano i due esponenti del Pd, “e la sensazione è che spesso i problemi del carcere siano oggetto di poca attenzione da tutte le istituzioni. Per quel che riguarda il sovraffollamento, le sezioni diventano polveriere, in quanto oltre ai pochi spazi a disposizione dei detenuti, diventa difficile per l’operatore far fronte alla richieste quotidiane e pressanti degli stessi: da qui il malcontento”, concludono Blasioli e Giampietro, “che può sfociare in aggressioni, risse, tumulti, autolesionismo e proteste in generale”. Mestre (Ve). Mamma si dà fuoco davanti al tribunale: è gravissima di Eleonora Biral Corriere Veneto, 21 gennaio 2020 Sono le undici del mattino. Il viavai nel piazzale antistante il tribunale dei minori di Venezia è continuo. Avvocati che entrano ed escono dal palazzo per le udienze insieme ai loro clienti, residenti che passeggiano sotto la scalinata. Entra una donna. Chiede di acquisire dei fascicoli in segreteria e di poter incontrare il magistrato che ha seguito il caso dell’affidamento di sua figlia a una comunità. Deve aspettare, ci vuole tempo, ma lei di pazienza non ne ha. Esce dal tribunale e torna quasi un’ora dopo. In una mano ha un cartello, lo pianta sull’aiuola all’ingresso. Nell’altra ha una tanica di benzina, se la getta addosso: “Mi do fuoco”, dice. Chi è lì vicino grida aiuto, le guardie giurate cercano di fermarla ma lei aziona l’accendino e tempo pochi attimi si trasforma in una torcia umana. Si inginocchia, poi crolla a terra. Gli addetti alla sicurezza non perdono tempo. Prendono gli estintori e spengono il fuoco. La donna, 49enne di origini marocchine, è priva di sensi, viene caricata in ambulanza e portata all’ospedale dell’Angelo, dal quale poi viene trasferita al Centro Grandi Ustionati di Padova, dove si trova tutt’ora ricoverata. Le sue condizioni sono gravissime. Nell’attesa di sapere se si risveglierà, la polizia ha avviato un’indagine sulla vicenda, che risale a ieri mattina. Gli agenti della scientifica hanno sequestrato il cartello che la donna ha lasciato all’ingresso del palazzo di giustizia che ritraeva la figlia, di otto anni, e il papà della piccola. Sotto, una scritta: una sorta di pubblica denuncia nei confronti dell’uomo. “A. è il padre di mia figlia - si leggeva nel cartello. È un tipo di padre che ha violentato l’infanzia della sua bambina e ha fatto il più possibile per allontanare la piccola in una comunità”. Per comprendere l’origine di questo gesto estremo è necessario fare un salto indietro. I due si conoscono quando la donna comincia a lavorare come colf a casa di A. Nasce una relazione che non viene ufficializzata perché lui è sposato. Poi, la donna rimane incinta. L’uomo prende una casa per lei e per la piccola, a Mestre, e per anni consegna alla donna un assegno mensile. Conduce una doppia vita all’insaputa della sua famiglia. Gli equilibri cominciano a vacillare quando la 49enne chiede di più. Non solo soldi, ma che lui riconosca la figlia. Lo perseguita, lo minaccia, tanto che lui la denuncia. “La situazione è seguita da tempo da questo tribunale e dai servizi sociali con vari interventi di supporto alla genitorialità e da ultimo per una verifica delle capacità dei genitori di dare alla figlia le cure di cui ha bisogno per la sua crescita e per tutelare quest’ultima da una madre con disturbo di personalità, seguita da uno psichiatra e di cui la bambina ha paura”, ha spiegato la presidente del tribunale dei minori di Venezia, Maria Teresa Rossi. Vista la situazione, il giudice affida la bambina a una comunità. Il padre nel frattempo la riconosce, ma preferisce non tenerla con lui perché teme altre persecuzioni. La madre lotta per riaverla con sé ma secondo il giudice non ci sono le condizioni. Di recente, parte la procedura di adottabilità della piccola. La madre non ci sta e ieri, come aveva già fatto altre volte prima, raggiunge il tribunale. “È venuta in cancelleria chiedendo di parlare con il giudice, ha chiesto copia degli atti e, senza attendere che le venisse consegnato quanto richiesto, è uscita dal palazzo e 50 minuti dopo è tornata e si è data fuoco”, ha raccontato Rossi. I primi a intervenire sono stati i vigilanti, ma non sono riusciti a fermarla. Messina. Trasferita da un carcere all’altro per essere curata, ma non è cambiato nulla di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 gennaio 2020 Rosa Zagari rischia la paralisi, dopo una caduta che le ha provocato fratture. Se nel cittadino medio, soprattutto per reati mafiosi, prevale comprensibilmente l’istinto della giustizia retributiva, senza alcuna considerazione per l’articolo 27 della Costituzione Repubblicana che vieta l’esecuzione di pene contrarie al senso di umanità, ciò non dovrebbe valere per chi amministra la giustizia. Eppure non si rimedia al dramma che coinvolge Rosa Zagari, ancora a rischio paralisi, condannata in primo grado a otto anni al processo denominato “Terramara Closed”, compagna dell’ex latitante Ernesto Fazzalari di Taurianova - catturato nel 2016 - a considerato il ricercato più pericoloso dopo l’imprendibile Matteo Messina Denaro. Nei mesi scorsi, l’associazione Yairaiha Onlus ha più volte sollecitato interventi adeguati in merito alle condizioni di salute di Rosa Zagari, denunciando l’approssimatività delle cure che la stessa stava e starebbe tuttora ricevendo. La scorsa estate, grazie al sollecito dell’associazione e all’articolo pubblicato da Il Dubbio, Rosa Zagari è stata trasferita al centro clinico del carcere di Messina perché nel penitenziario precedente non veniva curata. Cosa le era accaduto? Un anno fa, quando era al carcere di Reggio Calabria, è caduta nella doccia. Subito è stata trasportata all’ospedale, nel reparto di neurologia, e dalla tac è emersa una “duplice rima di frattura lineare in corrispondenza del processo trasverso di destra di L3 e rima di frattura a livello del processo trasverso di L2”. Il primario ha quindi consigliato delle cure adeguate per evitarle peggioramenti. Ma i familiari e il suo avvocato, Antonino Napoli, fanno sapere all’associazione Yairaiha che la situazione, a oggi, non è cambiata. Inoltre, lo scorso 16 gennaio, dopo un colloquio con la sorella, rientrando in sezione, ha perso l’equilibrio accasciandosi a terra. Gli agenti in servizio hanno sollecitato l’intervento del medico e quest’ultimo avrebbe invitata la signora Zagari a “smetterla di fingere” disponendo che la stessa venisse messa in un ripostiglio per riposarsi. Solo l’intervento degli agenti e delle altre detenute ha impedito che ciò avvenisse facendosi letteralmente carico di riaccompagnarla in sezione prendendo la signora Zagari in braccio. Nel frattempo però si è aggiunta una vicenda dolorosissima. Proprio sulle pagine de Il Dubbio è stata pubblicata l’accorata lettera della madre nella quale annunciava che si sarebbe lasciata morire: detto fatto, l’associazione Yairaiha fa sapere che la signora è venuta a mancare lo scorso 4 gennaio, dopo due mesi in coma, e la salma non è ancora stata tumulata in attesa che i figli detenuti vengano autorizzati all’estremo saluto. A fine dicembre Rosa Zagari è stata visitata da un neurologo di fiducia, il dottor Burzomati, il quale ha richiesto alcuni esami strumentali specifici, ed una visita fisiatrica presso una struttura anche non carceraria per stabilire le effettive condizioni fisiche e motorie attuali, eventuali altre lesioni ed eventuali danni irreversibili. A oggi, nonostante il sollecito dell’avvocato Napoli del 3 gennaio sulle richieste mediche, tutto tace. “È questa la giustizia? È questo il rispetto della Costituzione?”, chiede a gran voce l’associazione Yairaiha alle autorità competenti, compreso il ministero della Giustizia. Bari. L’Università va in Carcere: studenti e docenti a lezione tra i detenuti Gazzetta del Mezzogiorno, 21 gennaio 2020 Quattro appuntamenti all’interno della Casa Circondariale del capoluogo pugliese. L’Università si “sposta” all’interno del carcere di Bari. Prende il via oggi il primo ciclo di seminari penitenziari, destinati a studenti del dipartimento For.Psi.Com e ai detenuti. Una sperimentazione che vede studenti e detenuti insieme, per confrontarsi, discutere, studiare, consultare testi. L’iniziativa, che si inquadra in un programma di ampia collaborazione tra Università di Bari e Istituzioni Penitenziarie, ed a cui sono sollecitati a partecipare anche altri docenti ed altre strutture penitenziarie oltre quella della città di Bari, vede inizialmente la partecipazione di circa 70 studenti, che avranno la concreta possibilità di conoscere da dentro una realtà complessa come quella di un istituto penitenziario: un modo per sfrondare le proprie idee da pregiudizi e luoghi comuni, stando fianco a fianco con persone che hanno avuto un’esperienza di vita completamente diversa. I docenti dovranno mantenere un sottile equilibrio tra un corso che sia soddisfacente dal punto di vista universitario, ma anche di stimolo per chi vive dentro al carcere. L’obiettivo finale, oltre l’iter usuale della lezione universitaria con tutti i crismi, è portare qualcosa di prezioso dentro alle mura del carcere, riflettendo, insieme, studenti, docenti e detenuti, su aspetti e questioni aperte ed importanti: Lo studio, la cultura, la ricerca danno un senso della pena? Lo studio in carcere deve essere uno spazio, per quanto limitato, di libertà e offre strumenti che cambiano la percezione che la persona ha di sé e del mondo. Si tratta, e non solo per i detenuti, di riflettere e riscattarsi da un passato per diventare persone migliori e sapere che ciò è possibile. Un progetto per prendere coscienza di come sia facile far prevalere la parte più buia di sé, ma allo stesso tempo prendere coscienza sulle questioni della legalità, educando alla cittadinanza, alla responsabilità, alla legalità, alla tolleranza. La speranza è che così si riesca a raccontare e ascoltare con mitezza, anche per dire “il mai detto” e ascoltare “il mai sentito”. Il primo ciclo di seminari è stato reso possibile grazie alla collaborazione tra la Direzione del Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia, Prof. Giuseppe Elia, il Provveditorato della Amministrazione Penitenziaria Regioni Puglia e Basilicata, dott. Giuseppe Martone e la Direzione della Casa Circondariale di Bari, dott.ssa Valeria Pirè. Il programma è così articolato: 20 Gennaio 2020. Prof. Luigi Cazzato, dott.ssa Marilù Mastrogiovanni “Cultura, giornalismo e discriminazione: noi e gli altri”. 21 Gennaio 2020. Prof.ssa Rosita Maglie “Letture, visioni e testimonianze dentro e fuori il Carcere” 27 Gennaio 2020. Prof. Armando Saponaro. “ Elementi di Vittimologia e Giustizia Riparativa” 4 Febbraio 2020. Prof. Ignazio Grattagliano “ La Vendetta, aspetti criminologici e psicologici-psichiatrico forensi”. Gorgona (Li). Protocollo d’intesa per la revisione dei percorsi di riabilitazione dei detenuti toscanaeventinews.it, 21 gennaio 2020 Il Comune di Livorno e Lav - Lega Anti Vivisezione martedì 21 gennaio 2020 alle ore 11.00 presso Sala Postconsiliare “Vitiello” - Palazzo Comunale, firmeranno il Protocollo d’Intesa per la revisione delle attività di riabilitazione presso la Casa Circondariale dell’Isola di Gorgona, in chiave di sostenibilità economica ed ambientale e di valorizzazione del rapporto dei detenuti con gli animali presenti sull’isola, che verranno salvati dalla macellazione. Il Protocollo d’Intesa, risultato di una proficua collaborazione tra Ministero della Giustizia, Amministrazione locale, Università e Associazioni, verrà sottoscritto dal Comune di Livorno, dalla Direzione della Casa Circondariale di Livorno, dalla Lav e dal Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, con gli auspici dell’Università degli Studi di Milano Bicocca - Dipartimento di Giurisprudenza. La firma del Protocollo inaugura un iter di rilancio e di aggiornamento dei percorsi di riabilitazione dei detenuti, basato sull’attivazione di buone prassi di economia circolare, di sostenibilità e di valorizzazione ambientale e sul recupero e lo sviluppo delle passate virtuose esperienze nella relazione tra detenuti e animali, che non potrà più concludersi con la macellazione. Alla firma del Protocollo d’Intesa prenderanno parte: Luca Salvetti, sindaco del Comune di Livorno; Carlo Mazzerbo, direttore della Casa Circondariale di Livorno e Gorgona; Giovanni De Peppo, garante delle Persone Private delle Libertà Personali del Comune di Livorno; Gianluca Felicetti, presidente Lav. Verona. “La mia azienda è nel carcere, in 15 anni ho assunto 984 detenuti” di Stefano Lorenzetto L’Arena, 21 gennaio 2020 Giuseppe Ongaro sta per aprire nella casa circondariale di Verona persino una cantina. Segregato nel castello d’If, sullo scoglio di fronte a Marsiglia, l’abate Faria riuscì a fabbricarsi scalpello, coltello e leva per scavare i 50 piedi di galleria che, anziché verso la libertà, lo condussero per sbaglio nella cella 34 dov’era rinchiuso Edmond Dantès, e così nacque Il Conte di Montecristo. Ma quello che Giuseppe Ongaro è riuscito a fare dentro il carcere di Verona avrebbe superato di gran lunga la fervida immaginazione di Alexandre Dumas: rastrelliere per biciclette, scale metalliche, parapetti, inferriate, cancelli, gazebo, box per cavalli, parti meccaniche, schede elettriche, filtri per i forni delle autocarrozzerie, magliette serigrafate, gadget pubblicitari, articoli promozionali per aziende ed eventi, mattonelle a mosaico con tesserine in pietra o in vetro, bat box (le casette-rifugio per i pipistrelli che danno la caccia alle zanzare). E ora si accinge addirittura a imbottigliare ed etichettare vino. Ongaro, 63 anni, nato nel rione di San Zeno, sposato due volte, due figli dal primo matrimonio, non è un detenuto, bensì un ex tagliatore di teste che ha passato buona parte della sua vita a licenziare e che dal 2005 ha deciso di assumere. Non dipendenti qualsiasi, però: solo carcerati. Lo fa con Lavoro & futuro srl, sede al numero 30 di lungadige Galtarossa, fondata insieme a Edgardo Somma, da cui sono nate Labor in jail srl e Segni onlus, cooperativa per il lavoro esterno, realtà nelle quali ai primi soci dipendenti oggi sono subentrati i figli, perché il futuro delle famiglie è ciò che più sta a cuore a Ongaro. Per capire la professione che svolgeva nella sua vita precedente, tocca per forza riferirsi alla figura di Ryan Bingham, il professionista interpretato da George Clooney nel film “Tra le nuvole”, che vola da un capo all’altro degli Stati Uniti per mandare a casa il personale di aziende travolte dalla crisi. Anche Ongaro per 15 anni ha disboscato piante organiche e per farlo usava il machete. “Il ricordo peggiore riguarda un’industria elettronica del Friuli: 480 licenziati in un colpo solo. Perciò non mi descriva come un santo, non lo sono mai stato”. In realtà, a riprova di come spesso gli uomini siano migliori di quanto appaiono a prima vista, subito dopo collaborò con i sindacati per 18 mesi al fine di ricollocare negli altri stabilimenti della regione il personale in esubero. Non era nato come tagliatore di teste, Ongaro. Fin dall’adolescenza ha dovuto provare sulla propria pelle quanto sia difficile procurarsi un lavoro. Suo padre Luciano, grande invalido di guerra reduce dai lager nazisti, morì a soli 56 anni. “A 12 io già ero nei campi a tirar giù mele, pere e uva”, racconta. “A 16 scaricavo all’alba i sacchi di farina nei panifici e poi correvo al liceo scientifico”. Dopo essersi diplomato all’Isef e laureato in Statistica all’Università di Padova, è stato responsabile vendite della Digitronica. “Chiuso con l’informatica, sono diventato consulente”. Come mai ha deciso di assumere proprio i carcerati? Una volta rinchiusi, a loro nessuno pensa più, la galera diventa una pattumiera. Dal punto di vista egoistico la scommessa era molto interessante. È stato difficile entrare? Quattordici mesi di scartoffie. Siamo controllati da tre ministeri e quattro sindacati. Quanti dipendenti ha nella casa circondariale di Montorio? In 15 anni ne abbiamo assunti 984. Due mesi fa erano 114. Ora sono scesi a 94 a seguito delle nuove norme. Prima potevamo far lavorare anche i detenuti in attesa di giudizio, oggi solo i condannati in via definitiva. Inoltre uscire di prigione è diventato più facile. Avevo questo sospetto, considerata l’escalation di furti. Prima le celle di Montorio erano sovraffollate. Oggi no: 540 reclusi contro i 950 di 10 anni fa. Nel Veneto quelli che stanno dentro sono circa 2.400, mentre 3.600 scontano pene alternative all’esterno, in affidamento o ai domiciliari. In che cosa vi siete specializzati? Siamo i secondi produttori al mondo di interruttori elettrici e i secondi in Europa di profumatori per la casa, deodoranti per auto, antitarme. Sono nostre le rastrelliere portabiciclette che vede in molti centri storici, da Verona a Catania, nate da un’idea di Tommaso Lentini, progettista di Colognola ai Colli che le ha brevettate. Il municipio di Bologna ce ne ha appena ordinate 300. Ho trasformato la galera in un’azienda. Il nostro gioiello è l’officina meccanica, che occupa 4.000 metri quadrati e ha comportato una spesa di 1,6 milioni di euro, interamente a nostro carico. La dirige Alberto Boggian, figlio di un carpentiere che ne possedeva una, storica, in Basso Acquar. È persino autorizzato a restaurare opere d’arte ferrose. Considerate tutte le tipologie di prodotti, ogni anno escono dal carcere 54 milioni di pezzi. Abbiamo costruito attorno al colonnato una cella frigorifera che ci consente di confezionare, per conto di un’azienda francese con sede a Vallese, cipolle, scalogno, patate e aglio destinati ai supermercati. A breve avvieremo la produzione biologica e la riparazione delle idropulitrici. Ma il progetto di cui andiamo più orgogliosi è Vinoincella. Ricorda il Valpolicella. È partito nel 2018 in collaborazione con l’azienda agricola La Pedrotta di Montorio. Mariagrazia Bregoli, la direttrice della casa circondariale, con molto coraggio ha autorizzato 12 detenuti a lavorare all’esterno, fidando nel fatto che la sera sarebbero rientrati in cella. Quest’anno sono andati a vendemmiare un terreno di 24 ettari. Dal 2021 avremo una cantina dentro il carcere e potremo imbottigliare il vino ed etichettarlo. Come ha fatto a trasformare i reclusi in agricoltori? Grazie alla sensibilità della Coldiretti, della Cantina sociale della Valpantena e a un vigneto didattico di 4.000 metri quadrati, creato all’interno della prigione in collaborazione con la sezione biotecnologie di San Floriano dell’Università di Verona. Stiamo trattando con la Compagnia delle opere, legata a Comunione e liberazione, per far sì che gli hotel regalino una bottiglia di Vinoincella a tutti i loro clienti. I prodotti che escono dal carcere non scontano un pregiudizio di fondo, ideologico o igienico? Ideologico non so. Igienico no, perché siamo in regola con le normative Iso e Haccp. Sono le stesse aziende a farci le certificazioni in quanto terzisti. Come la chiamano i detenuti? Giuseppe. Beppì i meridionali. Boss i cinesi. Capo gli africani e i rumeni. È amico di alcuni di loro? No, perché sarebbe un modo per far torto a qualcuno e gratificare qualcun altro. Impiega anche ergastolani? Tre o quattro, condannati per omicidio. Ma si fida a lasciargli in mano utensili pericolosi? Teniamo gli elenchi degli attrezzi. Alla sera li restituiscono e finiscono sotto chiave. Parliamoci chiaro: il personale del carcere dovrebbe vederci più come una spina nel fianco che come una risorsa, soprattutto per la sicurezza. E invece mi stupisce il fantastico rapporto umano creatosi fra guardie e reclusi. Merito della direttrice Bregoli, della comandante della polizia penitenziaria, Lara Boco, della sua vice, Gabriella Caputo, e di tutti gli agenti. Non temete una rivolta? No. Gli psichiatri hanno notato che chi lavora, soprattutto all’aperto, cambia in meglio. Come vengono scelti i reclusi da assumere? Decide una commissione formata dalla direttrice, dagli educatori, dalla polizia penitenziaria e da me. Quanto guadagnano? Dai 300 agli 800 euro netti al mese per 6 ore di lavoro. Però in base alla legge Smuraglia hanno diritto ai contributi previdenziali pieni, per cui ci sono lavoratori con molti figli a carico che magari percepiscono solo 400 euro ma altri 1.200 di assegni familiari. Dove glieli versa? Bonifichiamo l’importo complessivo delle retribuzioni alla direzione del carcere, che provvede a suddividerli sui libretti personali di ognuno. E possono spenderli? Certo, per l’acquisto di prodotti personali allo spaccio. Molti li fanno spedire a casa, e questo è un aspetto meraviglioso, perché vedo legami coniugali che riprendono, rifioriscono, si rinsaldano. Quando esci, se non trovi una famiglia ad aspettarti, è dura. La trovano? Al loro paese, ma non a Montorio. La liberazione è il momento peggiore. Un pomeriggio, all’improvviso, gli agenti di custodia ti dicono: “Te ne vai”. Fuori dal carcere non c’è nessuno ad attenderti. D’inverno alle 17 fa già buio. Ti ritrovi da solo al freddo, sotto la pioggia, nella nebbia e non sai dove andare. Con l’associazione Recupero dignità umana, mi sono sentito in dovere di consegnare un kit a questa gente: pochi euro per mangiare, una scheda per telefonare dall’ultima cabina sopravvissuta vicino alla casa circondariale, gli indirizzi degli ostelli dove passare la notte, i biglietti per l’autobus. Ma può capitare di peggio. Cioè? In galera funziona, invisibile, la banca della delinquenza. Chi non ha i soldi per comprarsi la schiuma da barba o altri generi di prima necessità deve chiederli in prestito, e così nel corso degli anni accumula debiti mostruosi. All’uscita trova un esattore che gli dice: “Paga”. E come può riuscirci un ex galeotto privo di soldi? Gli tocca ricominciare con l’unico mestiere che conosce: il malvivente. Dando lavoro in carcere, io rovino gli affari della malavita. Sa quante volte mi sono trovato l’auto con la carrozzeria rigata o le gomme bucate al momento di rincasare la sera? I suoi lavoratori hanno diritto alle ferie? Devo dargli il corrispettivo in busta paga, ovviamente. Se hanno bisogno di un giorno di riposo, non hanno che da dirmelo. Se rifiutano di presentarsi al lavoro, perdono il posto. Ne ha mai licenziati? Una ventina in 15 anni, o perché erano svogliati o perché rubacchiavano durante la produzione. Una saponetta o uno shampoo hanno su di loro lo stesso effetto delle caramelle sui bambini. Quando sente dire: “Bisognerebbe rinchiuderli e buttare via la chiave”, come reagisce? In alcuni casi sono d’accordo. Un po’ di semente, una vanga e lasciarli su un’isola deserta. Non sono per la redenzione a tutti i costi. Quante ore passa dietro le sbarre? Nove. Devo aver commesso qualcosa di grave. Anche il sabato e la domenica? Il sabato se c’è bisogno: nel 2019 è accaduto otto volte. La domenica se è in programma qualche manifestazione. Ricorda il suo primo contatto con la prigione? Avevo 16 anni. Nel mio quartiere gli ex galeotti non mancavano. Uno di loro mi disse che un suo compagno di cella era un fenomeno a pitturare con l’aerografo. Così un pomeriggio d’estate mi presentai al cancello del Campone, la tetra caserma fatta costruire nel 1847 dal feldmaresciallo Radetzky e poi adibita a casa di pena. Mostrai al piantone la mia bicicletta e gli chiesi se fosse possibile farla dipingere di azzurro metallizzato dal recluso. Anziché mandarmi al diavolo, andò a chiamare l’ispettore, che fu comprensivo: “Lasciala qui”. Tornai a riprendermela dopo 20 giorni. Stupenda, di un colore mai visto prima. Pagai 1.500 lire. Se un giorno dovesse finire in galera con un ordine di arresto, per lei cambierebbe poco. (Risata). Un grande vantaggio per i miei soci: sarei già pronto per il lavoro alle 7 di mattina. Perché non va in pensione? Non ho l’età, come Gigliola Cinquetti. Per fortuna. I nostri genitori li hanno tirati su bene, quelli della mia generazione. Non smetteremo mai. Sarebbe un dramma. Chi è il suo dipendente migliore? Laurentin, un rumeno. Un asso nelle saldature. Perché è dentro? Non lo so, non gliel’ho mai chiesto. A me i delitti non interessano. Bado solo alle persone. Quando uscirà? Fra due o tre anni. Sto cercando di trovargli un posto all’esterno. Come lei avrà capito, il mio unico scopo, in carcere, è di restare presto senza lavoro. Napoli. I 4mila “figli” della cooperativa Dedalus, che accoglie i minori soli di Alessandra Coppola Corriere della Sera, 21 gennaio 2020 Viaggio nella cooperativa che da dieci anni lavora per l’integrazione. Il coordinatore Glauco Iermano è l’unico italiano ad aver vinto il premio “Child 10”. E gli ex utenti rimangono per fare i mediatori. Dal Gambia al caos di piazza Garibaldi, il flusso delle auto aggrovigliato, la tettoia della nuova metropolitana, arrivi, partenze, un intreccio indecifrabile di nazionalità, lingue, commerci; cinque euro in tasca che in una rara cabina telefonica bastano appena a dire “pronto”. “Ma sono stato fortunato”, racconta adesso Sulayman. Perché tra i vicoli possibili a Napoli ha imboccato quello che porta al Centro Nanà, Cooperativa sociale Dedalus, “sono come un loro figlio”. Venuto su bene, elegante, sorridente, ex minore non accompagnato che oggi, 21 anni da compiere a giorni, lavora a sua volta con i ragazzini migranti: “Tutto l’affetto che volevo l’ho trovato qui” Da utente a operatore. È una delle specialità del centro, che è valsa al coordinatore Glauco Iermano il prestigioso premio internazionale “Child 10” (unico italiano) “per aver sostenuto negli ultimi dieci anni più di 4000 minori non accompagnati. Sotto la sua guida i ragazzi sono condotti verso un cammino di legalità, inclusione e opportunità, e in questo modo protetti dal rischio di sfruttamento. Concentrandosi sull’integrazione dei giovani migranti Glauco costruisce una società dove gli “stranieri” sono considerati una risorsa e non una minaccia”. Dilal, dal Bangladesh a Napoli, lo spiega con parole sue e in italiano perfetto: “Diamo il cento per cento, se troviamo qualcuno con un grande cuore”. Però non basta recuperare dalla strada o dalla piazza della stazione un adolescente perso, spiega Iermano a Buone Notizie. La sfida è dotarlo di tutti gli strumenti. E il più velocemente possibile, perché le tutele che ha da minore si perdono in un giorno, al compimento dei 18 anni. Quindi trovare il modo (bandi del Comune, finanziamenti europei e ogni altra possibile fonte) di farsi carico anche dei neo-maggiorenni, abbandonati dalla burocrazia in un momento particolarmente fragile e rischioso. Il Centro Nanà con le pareti colorate e un allettante calcetto appena all’ingresso, conta su una decina di operatori, assistenti sociali, esperti legali, insegnanti di lingua, volontari. In più gestisce quattro appartamenti, due per minori, altri due per neo-maggiorenni, nell’idea di avviare gli “ospiti” all’autonomia. “I ragazzi di oltre 18 anni che non riusciamo a prendere in carico - continua Iermano - cerchiamo comunque di renderli più forti, dal punto di vista della burocrazia ma anche della consapevolezza. Escono di qui con un codice fiscale, ma anche con una discreta padronanza dell’italiano e con alcune competenze che possono aiutarli a trovare un lavoro”. Laboratori, lezioni, computer. Tutto semplice ma lindo e colorato. Una partita di calcetto improvvisata. Un ragazzino del quartiere che s’affaccia e magari decide di partecipare. Al “Buvero”, il vecchio Borgo Sant’Antonio Abate tra la Ferrovia e la lunga arteria di via Foria, è una presenza importante. Così come è significativo che la sede principale della Cooperativa Dedalus sia poco più in là, all’ex Lanificio di Porta Capuana: “ventre” napoletano di antica sofferenza dove nei decenni si è innestata un’immigrazione spesso irregolare che irradia dalla piazza della Stazione (Garibaldi) verso il Centro Storico o poi su in direzione della Sanità. In quest’area, in particolare al Vasto, si sono registrati scontri tra abitanti e nuovi arrivati, commistioni tra criminalità locale e africana, disagi che rischiano di accendere tensioni. La Cooperativa lavora anche su questo, aprendosi alle seconde generazioni, ai giovani migranti ma anche ai bambini del quartiere, dialogando e favorendo (con successo) la convivenza. L’esperienza è di lunga data e molto radicata, Dedalus è dagli anni Ottanta punto di riferimento per l’indagine sul fenomeno migratorio, ben oltre Napoli. “Dagli anni Novanta - spiega la presidente Elena de Filippo - alla ricerca scientifica affianchiamo la “ricerca-azione”. All’inizio per promuovere e sollecitare politiche pubbliche sull’immigrazione”. Poi sono scesi sul campo, occupandosi concretamente di vittime di tratta, minori non accompagnati, violenza familiare, e così via. La linea di coinvolgere come mediatori gli ex utenti è una costante. Dietro una scrivania del Centro Nanà può testimoniarlo Edlir, sbarcato in Italia dall’Albania nel 1991. “Avevo 16 anni e facevo il primo anno di liceo”. Salì a bordo della nave come in una gita improvvisata: “Lasciai lo zaino a una compagna di classe” e partii. Si ritrovò in Salento senza mezzi né famiglia. “So che cosa significa dormire fuori, essere senza una rete di sostegno, sentire la solitudine e piangere. Se trovi le persone giuste, tutto diventa più facile”. “Mi piace - dice Amadou, 22 anni - aiutare chi ha bisogno: a me i ragazzi raccontano storie che ad altri non raccontano, perché io posso capire”. Perché ci è passato in prima persona. Partito pure lui adolescente dal Gambia, pescato nel Mediterraneo dalla Marina italiana attaccato a una bottiglia di plastica come boa, mentre attorno a lui la gente affogava bevendo acqua e benzina. Di Napoli conosceva solo la squadra di calcio, dice. E adesso eccolo qui, sul divano di pelle e lo sfondo verde, maturo e diplomato. L’orgoglio di Margherita, 34 anni, che insegna italiano per stranieri e che qualcuno addirittura riesce a portarlo con le scuole serali fino alla “maturità”: “Due ragazzi si sono anche iscritti all’università!”. Sorride: “È il lavoro più bello che esista, è come avere il mondo in classe”. Per Hawa, 54 anni, arrivata ragazzina dalla Somalia, è come avere “diecimila figli maschi”, scherza, oltre alla figlia che ha mandato a studiare in Olanda. Babysitter, badante, “lavoravo giorno e notte”, finché non ha risposto a un bando per un corso di mediatore culturale, e ha cambiato vita. “Voglio aiutare il prossimo ad avere quello che non ho avuto io, accogliere chi è venuto dopo di noi. Per i ragazzi sono come una mamma. È bello, ma ti fa male quando qualcuno non riesce a seguire il progetto, scappa, o siamo costretti a farlo uscire. In tanti casi, in compenso, è una grande soddisfazione”. Montecatini (Pt). Liceo Salutati, al via un progetto sulla vita in carcere di Iolanda Cosentino valdinievoleoggi.it, 21 gennaio 2020 Il progetto, di cui si sottolinea l’alto valore civico, è rivolto in modo particolare agli allievi delle classi quarte del triennio e porrà a tema la vita nelle carceri italiane, tenendo in mente l’art. 27 della nostra Costituzione e i grandi fautori dell’Illuminismo italiano da Voltaire a Cesare Beccaria del quale si ricorda: “Perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino deve esser essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi” (cap. XLVII, “ Dei delitti e delle pene”, 1764). Siamo convinti, infatti, che la scuola debba creare luoghi di conoscenza e di dibattito, mirati a formare nei futuri cittadini una sensibilità atta a tutelare i diritti della persona umana anche nei luoghi di pena, poiché solo in tal modo si potrà difendere un modello di società inclusiva, sicura, democratica e davvero libera. In data 20 gennaio, dalle ore 14.30 alle ore 17, presso l’aula Gamma del Liceo Salutati, si darà inizio al progetto con un’attività di cineforum relativa al film di Paolo e Vittorio Taviani: “Cesare deve morire”. In tal modo si porrà a tema l’argomento dell’intero percorso formativo, costruendo opportune traiettorie dialogiche anche alla presenza di Sauro Gori, volontario dell’associazione “Delfino” di Pistoia e della cooperativa “In cammino” di Pistoia. In data 21 gennaio seguirà l’incontro con Rosa Cirone, funzionario dell’organizzazione e delle relazioni della casa circondariale di Pistoia, che presenterà il suo ultimo libro: Storia della legislazione della giustizia e del sistema penitenziario in Toscana, da Pietro Leopoldo alla nascita della nuova Scienza penitenziaria. La dott.ssa Cirone fonderà storicamente l’evolversi del sistema penitenziario toscano, ponendo in essere un’analisi comparativa sospesa tra le innovazioni del passato e le criticità caratterizzanti l’attuale universo carcerario. Interverranno all’incontro Loredana Stefanelli, direttrice del carcere di Pistoia e Francesco Lisci, Ispettore superiore di Polizia presso il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria toscana e umbra con sede a Firenze. In data 22 gennaio seguirà, infine, una tavola rotonda (15:30-19), organizzata in collaborazione con le Acli Don Giulio Facibeni di Montecatini Terme, con il patrocinio del Lions Club Massa Cozzile Valdinievole, aperta alla cittadinanza, alla quale parteciperanno Roberto Filippini, vescovo di Pescia, già cappellano della casa circondariale Don Bosco di Pisa e Don Vincenzo Russo, direttore dell’Opera Madonnina del Grappa di Firenze e cappellano della casa circondariale Sollicciano di Firenze, esponente del comitato di presidenza delle Acli “Don Giulio Facibeni”. I ragazzi avranno modo di incontrare ex-detenuti esempi di riscatto sociale. Si sottolinea la collaborazione alla realizzazione del progetto della prof.ssa Laura Diafani del dipartimento di lettere, che ha curato l’organizzazione della seconda giornata prevista dall’iter progettuale. Palermo: “Cicoria”, a teatro la storia di due detenuti in un carcere nostrano palermotoday.it, 21 gennaio 2020 Dopo il Debutto Nazionale a Messina dello scorso dicembre, arriva a Palermo il nuovo spettacolo di Francesco Romengo “Cicoria” con Francesco Bernava e Alice Sgroi prodotto dalla fervida compagnia catanese MezzAria Teatro. Lo spettacolo andrà in scena il prossimo 24 e 25 gennaio 2020 (21.00) inserito all’interno del programma di Scena Nostra allo Spazio Franco dei Cantieri Culturali alla Zisa. Scena Nostra ha alla base della sua direzione il primario interesse di dare spazio a quelle realtà del territorio siciliano che, pur meritandolo e mietendo risultati in giro per l’Italia, non trovano in Sicilia e a Palermo la meritata attenzione, il giusto spazio e il relativo interesse. Una scelta di campo coraggiosa, che non si limita a guardare alle giovani e nuove proposte ma registi e autori con un percorso professionale consolidato, che hanno sviluppato nuove drammaturgie e nuovi linguaggi scenici con ottimi risultati, magari fuori dai circuiti mainstream e/o istituzionali ma comunque portatori di sguardi e approcci differenti e di qualità di cui il Teatro ha sempre bisogno e del quale non dovrebbe mai dimenticarsi se mira a un rinnovamento e restare al passo coi tempi. È il caso di Francesco Romengo, regista native e operante a Altavilla Milicia (Pa), diplomatosi alla Scuola di Recitazione del Teatro Biondo, che da più di 10 anni opera tra Palermo e provincia, sviluppando una sua scrittura originale che, ispirandosi a Franco Scaldati, di lui Maestro e con il quale ha più volte lavorato, si incanala con l’uso di una particolare lingua siciliana all’interno di storie borderline che restituiscono al contempo attualità e poeticità, personaggi estremi che vivono situazioni estreme e dal quale confronto scaturisce un urlo poetico che necessità di umanità. A pochi giorni da Natale, in un carcere del Sud, un detenuto ed una detenuta si svegliano e si ritrovano dentro la stessa cella. Inizia, dopo l’inevitabile stupore di entrambi, una discussione che dapprima è scontro ma che lentamente diventa amicizia. Angelo, poliziotto coinvolto nella morte di un giovane durante una manifestazione, e Rosa, arrestata perché spaccia per dare da mangiare ai suoi bambini, si confidano e parlano della loro vita. I loro racconti sono spontanei e amari come la cicoria. Cicoria oltre a volere fare da eco al malessere che accompagna la vita carceraria, è soprattutto un racconto denso di emozioni, un invito alla vita. Insieme Rosa e Angelo, coi loro gesti quotidiani, semplici eppure intensissimi, ci conducono in un dialogo appassionante, oltre ogni tempo. Fra realtà e visione si muovono due mondi distanti accomunati dalla solitudine nella quale vivono e dalla quale si difendono. È la solitudine, quindi, la comune radice, che nutre la disperazione nella quale entrambi si trovano. Eppure dietro gli sguardi disperati di questi “fantasmi” che sembrano destinati a restare prigionieri della rinuncia, c’è ancora la luce di chi vuole spiccare il volo e tornare ad essere anima libera; esplode l’inarrestabile forza della speranza. Cicoria ha una drammaturgia asciutta. Una lingua poetica e al contempo cruda, ricca di elementi vividi, di “sicilianitudini”, che danno efficacia umoristica ad uno spettacolo pieno di momenti onirici. Il tutto in una scena pressoché nuda, con solo qualche elemento dal valore simbolico; poi ci sono le incursioni musicali, svariate, diverse, che vanno da Arvo Part a Lola Marsh, da Puccini ai The Album Leaf. Ognuna descrive un quadro diverso, con emozioni sempre nuove. Vogliamo provare ad affrontare alcuni temi di cui si parla troppo poco, senza retorica né scontati moralismi, abolendo ogni falso pudore, parlando con onestà, mirando dritto al cuore. Cicoria ha ricevuto la menzione special alla XII edizione del Premio “Il Racconto nel Cassetto - Premio Città di Villaricca”. Viaggio nella costruzione sociale dell’immigrato come nemico di Francesco Antonelli Il Manifesto, 21 gennaio 2020 “La rabbia e l’imbroglio” di Fabrizio Battistelli, per Mimesi. Un volume che smonta la retorica di quella destra che si riconosce nelle tesi dell’ultima Fallaci. Tra i temi, un’analisi di quanto accaduto nel 2014 intorno al centro Spar di Tor Sapienza. Riappropriarsi del senso delle parole e dei fenomeni che esse sottendono è una delle sfide più urgenti che ci troviamo di fronte. Questo vale in particolare per il razzismo, l’antisemitismo, la xenofobia, il neo-fascismo. Termini e soprattutto fenomeni resi opachi ed edulcorati all’interno della retorica (a-politica) della lotta all’odio e all’hate speech. Animata si dalle migliori intenzioni ma che trasportando su un piano tutto emotivo la rappresentazione e il contrasto a quei comportamenti e movimenti, favorisce involontariamente sia il terreno “irrazionalista” sui quali proliferano sia il loro sdoganamento nell’opinione pubblica. Al contrario, occorre tornare alle persone, alle cose e alle parole, in un’espressione alla realtà, se si vogliono impostare sia politiche all’altezza delle sfide del mondo di oggi sia ridare senso al discorso critico. Questo compito, tipico delle scienze sociali, è quello che si assume Fabrizio Battistelli nel suo ultimo libro La rabbia e l’imbroglio. La costruzione sociale dell’immigrazione (Mimesis, pp. 148, euro 12,00). Articolato in cinque agili capitoli il volume, che sin dal titolo si propone di smontare la retorica semplificatrice e tutta ideologica di quella destra europea che riconosce la propria genesi culturale nelle tesi dell’ultima Fallaci, si muove principalmente su tre piani. Il primo punta ad analizzare il fenomeno delle migrazioni e quello dei rifugiati riportando al centro i dati empirici dai quali si apprende, ad esempio, come i paesi che ospitino più rifugiati nel mondo siano quelli meno sviluppati; come i flussi migratori dall’Africa verso l’Europa siano in crescita e non siano stati minimamente governati in modo davvero concertato tra i paesi dell’Unione. Il secondo piano affrontato, strettamente connesso al primo, riguarda invece il rapporto tra sicurezza, insicurezza e migrazioni. Il terreno sul quale sono cresciuti il discorso dell’estrema destra e i successi elettorali di forze come la Lega. In questo caso, Battistelli non utilizza solo i dati ma, dopo aver ribadito che il senso d’insicurezza è per varie ragioni un dato strutturale delle soggettività contemporanee - mentre sono di “destra” o di “sinistra” le risposte, molto diverse tra loro, che si possono dare a questo sentimento collettivo - si concentra su un’operazione di elaborazione teorica volta ad inquadrare gli attori del processo di costruzione sociale dell’insicurezza attraverso l’immigrazione: i politici e i mass media da una parte, i conflitti sociali e i contesti urbani dall’altra. Da questa analisi risulta che la città con le sue contraddizioni e sperequazioni è il terreno sul quale matura, soprattutto tra i ceti popolari, quel disaggio e quel senso di insicurezza strumentalizzato (anziché governato) da una certa classe politica e da una parte significativa del sistema mediatico. E qui veniamo direttamente al terzo tema affrontato dal libro: l’analisi del rapporto tra periferie, conflitti e costruzione sociale dell’immigrato come nemico. Presentando i risultati di una vasta indagine sociale da lui sviluppata nel quartiere romano di Tor Sapienza, protagonista nel 2014 di gravi disordini legati alla presenza del centro Spar, Battistelli mostra come nelle periferie la “rivolta contro i rifugiati” in quanto tale sia non solo portata avanti da una piccola minoranza ideologicamente orientata; ma come essa trovi un certo sostegno nel momento in cui canalizza su un classico capro espiatorio il degrado, la carenza di servizi pubblici e l’abbandono cronico da parte delle istituzioni di vasti territori delle grandi città. Non è la troppo semplicisticamente sbandierata “guerra tra poveri” quella che ci si trova di fronte (perché non esistono due attori organizzati “l’un contro l’altro armati”) ma un vasto disaggio sociale e territoriale che se da una parte imbarbarisce, dall’altro non trova altre narrazioni disponibili se non quella xenofoba per esprimersi. Attraverso il metodo della “giuria dei cittadini”, con il quale gli abitanti del quartiere Tor Sapienza vennero coinvolti dai ricercatori in un processo di discussione e razionalizzazione dei loro problemi e del loro rapporto con i rifugiati presenti, Battistelli mostra il valore della partecipazione e dell’informazione corretta come antidoto alla crescita dell’insicurezza e dell’intolleranza. Rimettendo così al centro della scena quel tema dell’emancipazione delle persone (indipendentemente da nazionalità ed etnia) senza il quale né la sinistra né le società europee possono davvero sperare di sopravvivere, di fronte alle sfide e alle minacce portate alla convivenza civile da un’estrema destra sempre più aggressiva. Oxfam denuncia della diseguaglianza più clamorosa della storia di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 21 gennaio 2020 Il lavoro di cura non pagato è il motore del capitalismo. Alla vigilia di Davos, Oxfam pubblica il rapporto “Time to care”. Le vite dei super-ricchi oggi dipendono dallo sfruttamento delle donne ridotte all’invisibilità. La ricchezza di 2.153 miliardari è oggi pari a quella del 60% di tutta la popolazione. Quando guarderemo indietro al 2020 ricorderemo il mondo organizzato come una piramide. Alla base c’erano 3,8 miliardi di persone poverissime, il cui reddito non superava l’1% della ricchezza planetaria. Il vertice era stato occupato da un commando di 2.153 super-miliardari che detenevano la stessa ricchezza detenuta da 4,6 miliardi di persone, circa il 60% della popolazione mondiale. Era il tempo in cui il 46% di persone viveva con meno di 5,50 dollari al giorno, mentre chi continuava a lavorare nei paesi del capitalismo occidentale diventava sempre più povero. C’è un’immagine della miniera inferno scattata da Sebastião Salgado a Serra Pelada in Amazzonia che può dare un’idea più precisa. Migliaia di minatori lottano contro il fango per risalire il cratere della miseria in cui sono sprofondate. Una moltitudine di miserabili che cercano di risalire dal fango arrampicando scale di fortuna, mentre la vetta si allontana sempre di più. Ricordiamo questa immagine: è il capitalismo del XXI secolo. È questo il mondo rappresentato in “Time to care - Aver cura di noi”, il nuovo rapporto sulle diseguaglianze sociali ed economiche pubblicato ieri da Oxfam alla vigilia del Forum economico mondiale di Davos. È il mondo che sfrutta i molti e mette ricchezze eccessive nelle tasche di pochi ricchi. È il mondo dove il potere economico è detenuto dagli uomini, la cui ricchezza cresce indipendentemente dal fatto che il valore che aggiungono alla società corrisponde alla ricchezza che accumulano. Questo capitalismo è “sessista e sfruttatore” si legge nel rapporto. Il dominio di classe e quello patriarcale sono fondati sullo sfruttamento del lavoro di cura non retribuito delle donne alle quali il rapporto Oxfam dedica un significativo approfondimento. Questo lavoro consiste nel prendersi cura dei bambini, dei malati e degli anziani, svolgere la maggior parte del lavoro domestico, lavorare precariamente ed essere tra l’altro soggette alla violenza sociale e a quella in famiglia. Le donne lavorano ogni giorno 12,5 miliardi e mezzo di ore senza retribuzione o riconoscimento, e dedicano innumerevoli ore in più a un lavoro di assistenza professionale sottopagato. Oxfam ha provato anche a ipotizzare un valore possibile di queste ore: almeno 10,8 trilioni di dollari all’anno, tre volte le dimensioni dell’industria tecnologica mondiale. Sono approssimazioni, utili per dare l’idea dell’eccesso e della sproporzione del potere attuale. La situazione può essere descritta in termini marxiani, oggi diffusi anche nelle analisi del lavoro di cura: il lavoro di cura è essenziale alla creazione del valore, ma la forza lavoro che lo produce è invisibile. Inoltre le vite e gli stili di vita dei super-ricchi dipendono dalla sua attività. “Questo lavoro non permette di liberare tempo, energie e risorse per poter accedere ad un lavoro retribuito, incide sul tasso di frequenza scolastica delle donne e delle giovani ragazze”, sostiene Misha Maslennikov, policy advisor di Oxfam. Il rapporto si concentra sul continente africano, soprattutto l’Africa subsahariana, ma è chiaro che si sta parlando di un rapporto di potere costitutivo del capitalismo oggi. Il rapporto formula una critica del “predominio dell’economia neoliberale” fondata sulla deregolamentazione e sulla riduzione della spesa pubblica, mentre assiste complice e impotente alla creazione di monopoli sempre più grandi nei settori del cibo, della farmaceutica, dei media, finanza e tecnologia. La scelta di campo è netta: “Questi monopoli, e i ricchi azionisti che li sostengono, sono responsabili dell’accelerazione della disuguaglianza economica - si legge - Permettono a queste società, e agli azionisti, di estrarre profitti dal mercato e di condividerli tra loro. Questo alimenta direttamente l’accumulo di ricchezza per pochi, a spese dei cittadini comuni, rendendo ancora più difficile la riduzione della povertà”. Circa un terzo della ricchezza miliardaria proviene dall’eredità. Alcuni individui come il presidente Usa Trump ereditano miliardi di dollari. La ricchezza ereditaria ha creato una nuova aristocrazia che rafforza un potere tramandato da generazioni. I super-ricchi usano il patrimonio anche per pagare meno tasse, impiegando eserciti di consulenti specializzati nell’elusione e nell’evasione fiscale. “Un miliardario è un fallimento politico”. Costruire una società più giusta, libera dalla povertà estrema, richiede la fine della ricchezza estrema, precisa Oxfam. Dal punto di vista di una critica dell’economia politica, il fallimento per una società coincide con il successo del Capitale. Restiamo nell’esigente attesa del tempo in cui “la parte di redentrice delle generazioni future”, di cui parlava Walter Benjamin nelle sue tesi sulla filosofia della storia, sarà di nuovo interpretata dagli sfruttati e dagli oppressi. E sarà più facile immaginare la fine del capitalismo, e non quella del pianeta. Non c’è giustizia senza ecologia di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi La Repubblica, 21 gennaio 2020 In attesa di una svolta verde decisiva, le disuguaglianze sul pianeta aumentano. Perché, come spiega il saggio del sociologo Mario Salomone, coscienza ambientale e sociale coincidono. L’anno concluso è stato, per molti versi, quello della coscienza ecologica, la copertina di Time dedicata a Greta Thunberg è solo la più recente conferma di un innegabile dato culturale e sociale. Sia chiaro: ciò non costituisce ancora una pur minima garanzia che la nuova sensibilità produca quel cambiamento radicale delle politiche ambientali ormai indifferibile. Ma può indurci a una più approfondita riflessione che, nel tempo lungo, non può non dare risultati tangibili sul piano delle scelte collettive e degli stili di vita condivisi. È importante, dunque, conoscere ed è essenziale farlo anche in una prospettiva storica. È quella che suggerisce Mario Salomone, nel suo ultimo libro Giustizia. Sociale e ambientale (Doppiavoce), tracciando una sintetica storia e un’efficace mappa delle diseguaglianze socio-ambientali. La svolta cruciale indicata da Salomone, sociologo dell’ambiente, è quella della metà del XVIII secolo, quando l’ingegnere scozzese James Watt, osservando le nuove macchine a vapore, scoprì uno spreco di lavoro meccanico potenziale. Le perdite di vapore costringevano la macchina a lavorare inutilmente e a non sfruttare per intero l’energia prodotta. Watt brevettò quindi un sistema di trasmissione del movimento dei pistoni, passato alla storia come il parallelogramma di Watt, capace di rendere più efficiente quel sistema meccanico. Per Watt “il vapore era il primo esempio di Dio che si sottomette all’uomo”, e non stupisce che Salomone riconduca - simbolicamente - la data di inizio dell’Antropocene (l’attuale era geologica profondamente condizionata dall’attività umana) proprio al giorno in cui l’inventore scozzese fece la sua scoperta. Salomone racconta di come questo miglioramento consentì un rapido sviluppo della macchina a vapore e un crescente utilizzo dei combustibili fossili. In luogo di “Antropocene”, altri autori hanno proposto di chiamare questo periodo Capitalocene, “individuando non tanto nella generica azione dell’homo sapiens, ma nel modo di produzione capitalistico”, la vera causa dei radicali cambiamenti registrati sul pianeta. È una tesi motivata. Pensare alla questione ecologica come a una conseguenza dell’antropocentrismo (l’umanità, tutta, colpevole e la natura sua vittima) è diverso dal considerare la crisi ambientale come conseguenza dei rapporti di capitale, dove una parte dell’umanità è sì colpevole, ma l’altra parte ne è vittima. “Il capitalismo - dice Jason W. Moore, colui che coniò il termine “Capitalocene” - è un regime ecologico, cioè un modo specifico di organizzare la natura”. L’uomo ha piegato la natura al suo volere, è vero, ma quale uomo? Nel saggio di Salomone viene definito “debito ecologico” quel debito contratto dalle nazioni più ricche verso altri paesi, a causa dello sfruttamento delle risorse naturali, dei danni ambientali esportati e del libero utilizzo dello spazio in cui vengono scaricati i rifiuti. Da un’inchiesta del New York Ti mes emerge drammaticamente la questione del riciclo e smercio dei residui - in questo caso elettronici - dei paesi più ricchi verso i paesi più poveri, in particolare nel sud-est asiatico. Secondo l’Onu ogni anno in tutto il mondo si producono circa 50 tonnellate di rifiuti elettronici e il cosiddetto e-waste, ossia lo smaltimento di apparecchi come laptop e telefonini, implica un processo di combustione che, se non viene fatto a temperature sufficientemente elevate, può provocare effetti dannosi per la salute. In Thailandia, scrive il New York Times, molti lavoratori presentano ferite e bruciature su tutto il corpo a causa delle sostanze prodotte dallo smaltimento di questi rifiuti. Lo scambio economico ineguale si traduce in uno scambio “ecologicamente” iniquo. Diseguaglianza che viene calcolata annualmente con l’Overshoot Day, il giorno in cui si può considerare esaurita la biocapacità del pianeta, ossia la capacità degli ecosistemi di rinnovarsi nell’arco di un anno e continuare quindi a fornire “servizi” indispensabili all’umanità. Per l’Europa l’ultimo Overshoot Day è caduto cinque mesi dopo l’inizio del 2019, ciò significa che per far sì che il cittadino europeo conservi il suo attuale stile di vita avremmo bisogno di 2,8 Terre. In uno studio della Stanford University su come il riscaldamento globale ha aumentato le diseguaglianze economiche, Noah Diffenbaugh e Marshall Burke affermano che i cambiamenti di temperatura causati, dagli anni ‘60 a oggi, dalle crescenti contrazioni di gas serra nell’atmosfera terrestre “hanno arricchito paesi freddi come la Norvegia e la Svezia, mentre rallentavano la crescita economica in paesi caldi come l’India o la Nigeria”. Per i ricercatori quindi, i paesi più poveri della Terra sono adesso molto più poveri di quanto lo sarebbero stati senza il riscaldamento globale. Ad andare in crisi, oltre alla biodiversità e all’equilibrio climatico, secondo Salomone è l’idea che l’ambiente sia uno solo degli aspetti dello scenario mondiale, non il principale, il più urgente e il più drammaticamente ineludibile. Per l’autore di Giustizia. Sociale e ambientale, è irrinunciabile una conversione ecologica che orienti gli strumenti di sostenibilità ambientale verso le fasce più deboli della popolazione. Ma tale conversione non può prescindere dalla costruzione di una sensibilità che richiama al proprio ruolo gli intellettuali, intesi nel significato più ampio di operatori della cultura, dei media, della formazione e dell’educazione. In tempi recenti lo scrittore Amitav Gosh ha sottolineato come la letteratura presti poca attenzione alla questione del cambiamento climatico, quasi che la narrativa potesse disinteressarsi del mondo del quale si nutre. La cultura e la scuola, dunque. Come scriveva nel 2009 il maestro elementare Franco Lorenzoni in Con il cielo negli occhi (Edizioni La Meridiana): “un’educazione ecologica comporta il tessere una parentela con animali e alberi, terra e acqua. E comporta l’ascolto di chi non ha parole per accorgerci della trama invisibile che lega la nostra vita al pianeta che abitiamo”. Vale la pena ricordare che, due secoli fa, Giacomo Leopardi nel suo Dialogo tra un folletto e uno gnomo, immaginava come quelle due creature fantastiche avrebbero sbeffeggiato l’uomo, scioccamente convinto che il mondo fosse stato creato solo per sé. E che “le stelle e i pianeti fossero moccoli da lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume alle signorie loro”. A proposito di cielo, ecco, per concludere un testo davvero ecologico: il critico letterario Franco Brevini ha pubblicato Il libro della neve (il Mulino), illustratissimo. È come buttarcisi dentro. I Centri di rimpatrio per migranti? Una bomba a orologeria di Daniela Fassini Avvenire, 21 gennaio 2020 La morte in condizioni sospette di un migrante di origine georgiana nel Cpr di Gradisca d’Isonzo apre nuovi interrogativi sulle strutture. Picco di proteste e rivolte. L’Asgi: sono un buco nero. Dopo le tre rivolte di Torino e la morte di un cittadino tunisino a Caltanissetta, c’è di nuovo un centro per i rimpatri sotto i riflettori. Si tratta del centro di Gradisca d’Isonzo, nel Goriziano, dove sabato scorso è morto un ragazzo straniero. L’ospite della struttura, Vakhtang Enukidze, un cittadino georgiano di 38 anni, si era sentito male sabato mattina nella sua stanza del Cpr. Il giovane era stato coinvolto in un pestaggio tra migranti avvenuto all’interno della struttura il 14 gennaio scorso. Nella rissa, sedata poi dalle forze dell’ordine intervenute con caschi, scudi e manganelli per riportare l’ordine, il ventenne aveva riportato lesioni che avevano richiesto il suo trasferimento in ospedale. Successivamente il giovane era stato dimesso, arrestato e processato per direttissima con l’accusa di lesioni, infine portato in carcere. Tornato al Cpr, le sue condizioni si sono aggravate tanto da richiedere un nuovo il ricovero. Ma una volta in ospedale, sempre a Gorizia, è deceduto. C’è preoccupazione, intanto, sulla condizione delle persone detenute all’interno dei centri per i rimpatri. Soprattutto dopo le vicende delle settimane scorse. Fra cui, appunto, la morte “per cause naturali” di un giovane cittadino tunisino di 34 anni nel Cpr di Caltanissetta, per il quale il deputato Leu, Erasmo Palazzotto aveva auspicato la chiusura per le “condizioni igienico-sanitarie” e la “inadeguatezza strutturale del centro”. Ma Palazzotto non è l’unico. Il deputato Radicali più Europa, Riccardo Magi, che ieri ha visitato il centro di Gradisca denuncia: “È peggio di un carcere per la totale negazione dei diritti dei detenuti: non ci sono spazi di socialità, dovrebbe essere prevista una mensa ma non è mai entrata in funzione. Sono delle gabbie con 200 telecamere. I Cpr devono essere chiusi, è da dieci anni che se ne parla ma non succede nulla, addirittura se ne aprono di nuovi”. Attacca il sistema anche Gianfranco Schiavone, presidente di Asgi (l’Associazione per gli studi giuridici sui migranti). “I Cpr? Un buco nero, un non luogo - spiega Schiavone - mettersi in contatto con un detenuto diventa un’impresa impossibile. Inoltre, il sistema non prevede alcun tipo di garanzia per gli “ospiti”. Non hanno i diritti dei detenuti perché semplicemente non esiste una normativa chiara”. La Procura di Gorizia intanto ha aperto un fascicolo per il reato di omicidio volontario contro ignoti. Sul corpo della vittima del Cpr di Gradisca, dovrebbe essere compiuta l’autopsia per stabilire l’esatta causa della morte. Gli investigatori, starebbero visionando le immagini delle numerose telecamere che sorvegliano l’interno e l’esterno della struttura. Critica l’associazione “No Cpr e no frontiere Fvg”, secondo cui Vakhtang Enukidze sarebbe stato picchiato dalle guardie, martedì, intervenute dopo una rissa tra la vittima e un compagno di stanza. Gli attivisti hanno diffuso una testimonianza audio, raccolta telefonicamente, di un altro detenuto del Cpr, che avrebbe assistito al pestaggio. “È un caso su cui è bene che siano fatti tutti gli approfondimenti e che non sia in qualche modo archiviato tout court” ha affermato il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, al termine di un sopralluogo al Cpr di Gradisca. Il Cpr isontino è aperto da poco più di un mese e già tante sono state le proteste dei detenuti, le fughe e gli episodi di autolesionismo. Attualmente ospita 62 persone, tutte senza permesso regolare sul territorio italiano. “Stiamo lavorando per superare le criticità strutturali del Cpr che si sono evidenziate e siamo persuasi di concludere positivamente il percorso a breve” ha dichiarato il Prefetto di Gorizia Massimo Marchesiello. Migranti. Gradisca, una morte annunciata nel Cpr di massima detenzione di Marinella Salvi Il Manifesto, 21 gennaio 2020 Migrante georgiano muore dopo un pestaggio nella struttura friulana. La versione ufficiale: ucciso durante una rissa. Non si doveva cambiare rotta? Il nuovo Governo non doveva modificare significativamente la scellerata gestione dei migranti imposta da Salvini? Sono passati mesi ma niente si è mosso. Non bastano le comprovate condizioni carcerarie, le rivolte quotidiane, le denunce anche di quanti operano nelle strutture, siano Cara o Cpr: uno dopo l’altro ci sono pure i morti ammazzati, si susseguono le indagini giudiziarie, ma dal Governo continuano a non arrivare né fatti né parole. Sabato è morto Vakhtang Enukidze, migrante georgiano di 37 anni, rinchiuso nel Cpr di Gradisca con altri 47 adulti e 12 minorenni, per la maggior parte afgani e pakistani. La versione ufficiale ipotizza una rissa tra reclusi conclusasi tragicamente. I vertici locali della polizia dichiarano che il migrante deceduto era stato arrestato martedì scorso per avere aggredito un altro ospite del Cpr e successivamente anche alcuni poliziotti intervenuti. Il prefetto di Gorizia Marchesiello ha ritenuto di escludere ci possano essere eventuali colpe delle forze dell’ordine. Il procuratore di Gorizia Massimo Lia ha aperto un’indagine contro ignoti per omicidio volontario; già sequestrati i cellulari a tutti i profughi ospiti del Cpr ed i video delle telecamere di sorveglianza (200 all’interno dell’area perimetrale!). Altre voci, altre versioni si sono però fatte sentire e subito dopo la notizia della morte di Enukidze, domenica pomeriggio, duecento persone hanno sfilato davanti all’alto muro di cemento che circonda la struttura per gridare la propria solidarietà ai migranti: da dentro il Cpr sono arrivate grida di saluto e richieste di aiuto, poi il fumo acre di materassi incendiati. Aperto da poche settimane, il Cpr di Gradisca è una polveriera. Drammatica la cronaca dell’ultima settimana. Sabato 11 gennaio c’era stato l’ennesimo presidio contro l’apertura del Cpr e si era realizzato un contatto telefonico tra i migranti dentro e i manifestanti fuori: più di un recluso aveva gridato la propria disperazione e la propria rabbia, denunciando le condizioni invivibili in cui si trovava. Secondo “No Cpr - No Frontiere”, nella notte, le forze dell’ordine sarebbero entrate in assetto antisommossa per una azione punitiva contro i migranti messisi in contatto con l’esterno e da questo sarebbe nata la rivolta: vetri rotti, materassi incendiati, il tentato suicidio di un ragazzo marocchino, letti divelti per salire oltre il muro, cinque migranti scappati. Dopo giorni di proteste e ancora polizia e/o carabinieri a menar botte, domenica scorsa, quando la notizia della morte di Enukidze arriva ai giornali, sul sito “nofrontierefvg” viene diffuso un video e una testimonianza registrata che negano ci fossero state risse tra migranti e descrivono le modalità con cui Vakhtang Enukidze sarebbe stato pestato, immobilizzato e portato via perché si rifiutava di rientrare in cella avendo perduto il cellulare. Questa la versione “antagonista” in un diario documentato giorno per giorno fino alla morte di Enukidze. La federazione sindacale della polizia di Stato “al netto delle solite incaute accuse sull’operato degli agenti” chiede che “non si aspettino altri drammi. Servono protocolli chiari e garanzie per la sicurezza”. I politici locali battibeccano attorno al nodo “Cpr”: il presidente Fedriga, sceso dal palco di Maranello, dichiara al quotidiano il Piccolo che quanto è successo “è un motivo in più per potenziare la struttura. È la conferma che nel Cpr, al contrario di quel che dice la sinistra, non ci sono persone che perdono il permesso di soggiorno. Quando il centro fu chiuso da Serracchiani gli ospiti avevano tutti dei precedenti penali” facendo finta di non sapere che, secondo normativa, i Cpr esistono esclusivamente per ospitare quegli extracomunitari che, non possedendo un documento amministrativo che permetta loro di soggiornare in Italia, sono in attesa si essere rimandati, prima o poi, nel loro Paese di origine. Sembra non ricordare, ancora, che la gestione dell’allora Cie di Gradisca, chiuso nel 2013 “gravemente danneggiato dagli ospiti”, ha portato a processo, assieme al Consorzio appaltatore “Connecting People”, prefetti, viceprefetti, funzionari e dirigenti, con un ventaglio di ipotesi di reato che vanno dalla sovrafatturazione, alla truffa, alla turbativa d’asta, al concorso esterno in associazione a delinquere, e chi più ne ha più ne metta, riguardo una struttura dove agli ospiti veniva negato tutto, persino l’acqua. Nel Cpr di Gradisca è entrato ieri pomeriggio, assieme al prefetto di Gorizia, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute: è lo stesso Mauro Palma che a dicembre scorso, a ridosso dell’apertura, aveva stigmatizzato la progettazione troppo claustrofobica della struttura e dichiarato “Ha le caratteristiche di un carcere di massima sicurezza più che da luogo di detenzione amministrativa”. Fuori dalle spesse inferriate il deputato di +Europa Riccardo Magi che, dopo aver visitato il Cpr domenica aveva raccontato di “ospiti abbandonati, prostrati e qualcuno in evidente disagio, anche mentale” e Debora Serracchiani con la combattiva sindaca di Gradisca Linda Tomasinsig che già domenica sera aveva commentato “cronaca di una morte annunciata” chiedendo fosse fatta piena luce “sulla morte di una persona affidata allo Stato”. Mauro Palma ha dichiarato che si costituirà parte civile nel eventuale processo per quanto avvenuto a Gradisca. Vakhtang Enukidze è stato brutalmente percosso, questo è certo, sarà l’autopsia a definire le cause della morte, la magistratura a stabilire le responsabilità, ma questa tragedia ha squarciato il silenzio sui Centri che ospitano migranti. Il Governo, la Ministra Lamorgese, vorranno dire qualcosa? Migrante muore nel Centro rimpatrio di Gradisca: “È stato ucciso di botte dalle guardie” di Riccardo Magi* Il Riformista, 21 gennaio 2020 Quando domenica notte, intorno alle 22.30, sono entrato nel Cpr di Gradisca d’Isonzo mi ha accolto la polizia in tenuta antisommossa: casco in testa e manganello in pugno. Le urla di alcuni ospiti superavano l’alto muro di recinzione. All’interno della struttura la tensione si poteva tagliare con il coltello, proprio come la nebbia all’esterno. Gli agenti parlavano tra loro di molto sangue in giro dovuto ai tagli che si era provocato qualcuno. Era terminata da poco un’operazione di “bonifica”, con gli agenti impegnati a sottrarre il cellulare agli ospiti della “zona verde”: la sezione dove era rinchiuso anche Vakhtang Enukidze, georgiano di 38 anni. Chi si trova in un Cpr non è un detenuto, pertanto ha il diritto di tenere con sé un telefonino, tuttavia la prassi - chissà perché - vuole che venga spaccata la fotocamera degli apparecchi per impedire alle persone di usarli per fare foto o video. Quando, dunque, dopo la morte dell’ospite georgiano si è diffusa la notizia dell’esistenza di un video girato all’interno del centro e poi trapelato all’esterno, si è resa necessaria una bonifica della sezione. Il sequestro dei telefoni, unico contatto con l’esterno per molti ha accresciuto la disperazione. Le circostanze che il 18 gennaio hanno portato alla morte di Enukidze, trasferito a Gradisca dal Cpr di Bari solo un mese prima, sono tutte da chiarire. In un primo momento le cronache l’hanno ricondotta alle conseguenze di una colluttazione con un altro giovanissimo ospite del centro avvenuta pochi giorni prima, il 14, poi sedata dall’intervento massiccio della polizia. Una versione che in tanti non hanno ritenuto convincente, puntando il dito proprio sull’operato degli agenti. Così ho accolto l’invito dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione a recarmi a Gradisca per effettuare una visita ispettiva al centro. Non solo gli ospiti della struttura con cui ho parlato domenica notte - quando a bonifica conclusa ho potuto incontrarli - ma anche dipendenti della cooperativa che la gestisce e uno dei poliziotti presenti, hanno escluso che la colluttazione con l’altro recluso potesse aver provocato lesioni tali da causare la morte dell’uomo. Una convinzione che mi è stata ribadita ieri mattina quando, durante una seconda visita, in diversi, nella “zona verde”, mi hanno descritto quell’episodio con dovizia di particolari, fornendo tutti la stessa versione. Il 14 gennaio scorso - hanno raccontato - Vakhtang Enukidze, che in molti descrivono come una persona piuttosto agitata, aveva aggredito e malmenato un giovane uomo di origini marocchine. Ma nella rissa sarebbe stato lui ad avere la meglio sull’altro, fino a che non era intervenuta la polizia: “una decina di agenti” avrebbero placcato il georgiano, “immobilizzato e colpito ripetutamente e poi trascinato via per i piedi”. Dopo un giorno e mezzo, che, secondo le ricostruzioni, avrebbe trascorso in carcere, Vakhtang Enukidze era stato ricondotto nel Cpr ma stavolta nella “zona rossa”. Qui, dalle testimonianze che ho potuto raccogliere, avrebbe vissuto la sua agonia. Piegato su se stesso con contusioni su tutto il corpo e sul viso. Così lo descrive chi ha trascorso in stanza con lui l’ultima notte: “non riusciva a stare in piedi, poi non riusciva più nemmeno a parlare, ha iniziato ad avere la bava alla bocca e durante la notte è caduto dal letto”. La mattina, riferiscono i compagni di stanza, in stato di incoscienza è stato portato via in ambulanza, ma in ospedale è giunto già cadavere. Ovviamente questa ricostruzione, estremamente grave dei fatti, è tutta da verificare. Per questo appena uscito dal Cpr sono andato in Procura per riportare ai magistrati - che stanno indagando per omicidio volontario a carico di ignoti - le informazioni e le testimonianze che ho raccolto; inclusa la telefonata - che ho potuto ascoltare e che è stata registrata - di un kosovaro rimpatriato da Gradisca subito dopo la morte di Enukidze nella quale ha raccontato l’accaduto al suo avvocato. Da quanto ho potuto apprendere, nei prossimi giorni sarebbe previsto il rimpatrio anche di altri ospiti del centro. L’imponente apparato di sorveglianza del Cpr (inaugurato solo il 16 dicembre) con l’occhio di circa duecento telecamere puntate sui locali della struttura, potrà forse aiutare a fare luce su un episodio dai contorni oscuri. La permanenza di qualsiasi ombra di sospetto su questa morte non sarebbe tollerabile in uno Stato di diritto. A proposito, se c’è una cosa su cui non occorre fare chiarezza, perché emerge in maniera lampante a chiunque abbia l’occasione di mettervi piede, è che in questi centri per migranti lo straniero è proprio lo Stato di diritto. Una realtà a cui non sfugge neppure una struttura nuova come quella di Gradisca, dove una sessantina di persone vivono praticamente chiuse in gabbia, come in uno zoo, senza occasioni di socialità, storditi da calmanti e psicofarmaci: in stanze gelide prive di porta, che affacciano su corridoio delimitato da sbarre e da pannelli di plexiglass che dovrebbero essere infrangibili, e che invece i migranti riescono a rompere per ricavarne le schegge con cui si feriscono. Deliberatamente. Gli atti di autolesionismo non si contano, tutti i reclusi ne portano addosso segni. E come potrebbe essere altrimenti in un luogo senza tempo, senza orizzonte, dove il diritto è sospeso e si sconta una pena senza colpa di cui non si conosce il termine. C’è chi viene portato lì dopo essere stato in carcere; chi in carcere non c’è mai stato e aveva un lavoro, ma poi l’ha perso e con esso anche il diritto di stare sul territorio italiano e ora aspetta di essere rimpatriato. C’è chi nel nostro Paese ha trascorso molti anni e chi qui ha anche la famiglia. I Cpr non sono carceri. Sono peggio. E non dovrebbero esistere. Fino a pochi anni fa, tra le forze politiche, quasi tutti erano giunti alla conclusione che andassero chiusi. Abbiamo ascoltato prefetti e politici di primo piano sostenerlo. E invece. Invece siamo tornati indietro. Oggi a meno di due mesi dal Cpr di Gradisca ha aperto il nuovo Cpr di Macomer. *Deputato Radicali +Europa Il Cnf delibera il 2020 l’anno dell’avvocato in pericolo nel mondo Il Sole 24 Ore, 21 gennaio 2020 Il Consiglio nazionale forense, riunito in seduta amministrativa, nell’ambito delle proprie prerogative di legge, ha deliberato di proclamare l’anno 2020 l’“Anno dell’avvocato in pericolo nel mondo”, riaffermando il proprio impegno nella difesa del libero esercizio della professione di avvocato, e potenziando, anche attraverso la delegazione italiana al Consiglio degli Ordini Forensi d’Europa, iniziative concrete, dagli osservatori internazionali ai processi a carico degli avvocati alle missioni nelle carceri, di concerto con l’Osservatorio Internazionale degli avvocati in pericolo. La decisione, presa all’unanimità dal plenum del Cnf lo scorso venerdì, è stata determinata dalla situazione in cui, in molti Stati, gli avvocati si trovano, subendo intimidazioni, violenze e ingiuste condanne solo perché “colpevoli” di difendere in autonomia e indipendenza i diritti dei loro assistiti. Il Consiglio nazionale forense rileva, nel testo di delibera, che “è necessario sensibilizzare maggiormente l’opinione pubblica e le istituzioni su tali temi”. La Giornata internazionale dell’avvocato in pericolo, istituita nel 2009 con l’obiettivo di richiamare l’attenzione della società civile e delle istituzioni pubbliche sulle violazioni del diritto alla difesa, si celebra il 24 gennaio e ogni anno evidenzia le situazioni di pericolo nelle varie Nazioni come Iran, Turchia, Filippine, Paesi baschi, Honduras, Cina, Egitto e di nuovo Turchia nel 2019. Il 2020 è dedicato al Pakistan, dove le violenze e le intimidazioni contro gli avvocati sono all’ordine del giorno, da febbraio 2018 sono stati uccisi più di 21 avvocati. L’obiettivo della Giornata internazionale dell’avvocato in pericolo è di richiamare l’attenzione della società civile e delle autorità pubbliche sulla situazione degli avvocati in un determinato paese, al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle minacce cui sono esposti gli avvocati nell’esercizio della loro professione. Grecia. Iraniano si impicca nel Centro di detenzione di Moria di Francesca Speri meltingpot.org, 21 gennaio 2020 Il 6 gennaio un uomo iraniano di 31 anni è stato trovato morto impiccato in una cella del PRO.KE.K.A., il Centro di Detenzione Pre-respingimento all’interno del campo di Moria sull’isola di Lesvos. Secondo quanto raccontano molti di coloro che hanno convissuto la detenzione con lui, la polizia era perfettamente a conoscenza della grave situazione riguardo alla salute mentale dell’uomo, ma, nonostante ciò, è stato lasciato in isolamento per le due settimane antecedenti alla sua morte. Il PRO.KE.KA è la prigione dove sono detenuti tutti gli “indesiderati” dall’Unione Europea e dallo Stato Greco. La maggior parte sono persone arrestate immediatamente in seguito al proprio arrivo dalla Turchia, detenute fin da subito in base alla loro nazionalità. Altri sono internati in quanto considerati “minacce alla sicurezza pubblica”, ma vengono detenuti senza aver ricevuto condanne o processi; altri ancora sono migranti a cui sono state rifiutate le richieste d’asilo, ma che sono state giudicate da un sistema che mira ad escludere i migranti dall’UE ed a mantenere una popolazione priva di documenti e conseguenzialmente sfruttabile sotto minaccia di rimpatrio.. Questa politica di punizione collettiva è comunemente replicata nei tribunali e dai media che criminalizzano i migranti e li definiscono come aventi un “insufficiente profilo da rifugiati”, ossia non eleggibili allo status di profugo, prima ancora di aver analizzato le richieste ed i casi delle singole persone. Questo concetto di “profilo insufficiente” è implementato nei PRO.KE.K.A. di Lesvos e Kos: coloro che arrivano da paesi per cui viene stimato un basso coefficiente di crisi, per cui non viene riconosciuta interamente la protezione internazionale, vengono detenuti appena sbarcati dalla Turchia; questo in particolare avviene per le persone provenienti dai paesi africani. Gli uomini che arrivano da tali paesi senza famiglia vengono arrestati appena giunti su suolo greco e vengono detenuti fino a tre mesi, prolungabili fino a 18 con la nuova legge sull’asilo appena varata. PRO.KE.KA opera con poco controllo e quasi completa incuranza delle necessità. Le persone detenute hanno poche possibilità di accedere a forme di supporto legale, medico o psicologico. I migranti sono detenuti in celle iper-affollate per 22 ore al giorno. Dalle testimonianze dei detenuti gli abusi fisici e psicologici da parte della polizia e dei carcerieri rasenta la quotidianità. Molti detenuti hanno raccontato di aver subito i seguenti abusi: le persone vengono svegliate di notte con forti rumori e luci puntate addosso nei momenti più svariati, per diletto dei carcerieri; sono costretti a passare due ore al giorno all’esterno, anche in periodo invernale o con le condizioni meteorologiche più avverse. Recentemente molte testimonianze raccontano di detenuti portati negli angoli ciechi di telecamere e sorveglianza per essere pestati dalla polizia mentre si trovano ammanettati ed inermi. Ai detenuti è concesso di utilizzare i propri cellulari solamente nei fine settimana, così che restino isolati durante la maggior parte del tempo dalle proprie famiglie e dalle reti di supporto, rendendo così quasi impossibile richiedere l’intervento del supporto legale. Le visite di amici e famigliari vengono spesso proibite e, per questo motivo, diventa impossibile denunciare gli abusi subiti. Molti internati inoltre denunciano il timore di ritorsioni da parte della polizia ogni volta che cercano un contatto all’esterno ed ammettono di non fidarsi degli enti governativi e delle organizzazioni ufficiali in quanto riscontrano come nonostante tutti i tentativi di segnalazione a queste gli abusi siano continuati sotto gli occhi di tutti. Quasi nessun bisogno primario viene soddisfatto, i detenuti non hanno vestiti adeguati alle stagioni più rigide e viene loro data un unica coperta che durante l’inverno è completamente inadeguata alle temperature più fredde. Senza la presenza degli interpreti i detenuti hanno pochi modi di comunicare con i propri carcerieri e per ciò molti di loro sono all’oscuro delle cause della propria situazione di detenzione o per quanto tempo si protrarrà. Il cibo è scarso ed inadeguato e moli di loro soffrono la fame o hanno problemi di salute dati dal cibo malsano; a volte viene servito un unico pasto al giorno ed è proibito ricevere cibo dalle persone in visita. All’interno della prigione non viene fornito sapone o dentifricio e sono spesso scoppiate numerose epidemie di scabbia tra i detenuti. Le richieste di asilo dei detenuti nei campi PRO.KE.K.A. sono sistematicamente velocizzate e la loro intervista per la richiesta d’asilo viene fissata a pochi giorni dopo il loro arrivo; inoltre, l’accesso al supporto legale è fortemente contrastato, viene spesso negato nonostante ne debba essere garantito il diritto; internati nel campo i migranti trovano grandissime difficoltà nel raccogliere prove a favore del loro status di richiedenti al sistema di asilo. La detenzione illegale di minori è pratica comune in quanto l’Agenzia Europea dei Confini FRONTEX registra sistematicamente i minori come adulti. Anche coloro che sono reduci da torture e ne portino i vistosi marchi sul proprio corpo sono detenuti nonostante l’obbligo di controllare ogni situazione che denoti vulnerabilità di ogni singola persona. Alle persone che soffrono di patologie mediche o psicologiche viene regolarmente impedito l’accesso alle cure sanitarie ed ai medicinali, anche quando provvisti di prescrizione medica e ne fossero in possesso durante il loro arrivo. Quando richiedono di venir visitati da un medico o da uno psicologo polizia ed AEMY (un’istituzione privata totalmente in mano al Ministero della Salute greco) scaricano la responsabilità l’uno sull’altro e spesso queste persone non vengono mai curate. L’autolesionismo è all’ordine del giorno nei campi PRO.KE.K.A.; a volte persone gravemente malate sono state detenute e successivamente deportate in Turchia da polizia e FRONTEX, fatti di cui l’UNHCR non è certo all’oscuro. Qui nel campo di Moria l’uomo morto il 6 gennaio è stato imprigionato a dicembre 2019. Secondo le testimonianze di altri detenuti ha trascorso un breve periodo di tempo con altre persone, prima di essere trasferito in isolamento per circa due settimane. Durante tale periodo d’isolamento era continuamente da solo, anche durante le ore d’aria che erano state sistematicamente organizzate in orari diversi da quelli degli altri detenuti. Per vari giorni è stato rinchiuso nella sua cella senza che potesse uscirne. In quei giorni il cibo gli veniva consegnato attraverso la finestra della sua cella e la sua condizione di disagio mentale era evidente a tutti gli altri detenuti ed alla polizia. L’uomo si abbandonava spesso a crisi di pianto durante le notti ed era solito battere sulla porta della sua cella chiedendo di uscire; aveva precedentemente minacciato atti di autolesionismo e gli altri detenuti raccontano di non aver mai visto nessuno fargli visita, né l’avevano mai visto uscire per ricevere valutazioni mediche o psichiatriche. L’assistenza sanitaria nella prigione è gestita dall’AEMY che legalmente è in mano allo stato greco ed il suo team medico consiste in uno psicologo ed un assistente sociale. Tuttavia, l’assistente sociale si è licenziato nell’aprile del 2019 e non è mai stato sostituito; lo psicologo invece era in ferie, sempre senza sostituzione, dal 19 dicembre al 3 gennaio. L’uomo è stato trovato morto il 6 gennaio e quindi ci sarebbero stati solamente due giorni in cui l’AEMY avrebbe potuto assisterlo nelle sue ultime tre settimane di vita, ossia quando avrebbe avuto bisogno dell’aiuto psicologico che non si è visto garantire. Questa situazione è pericolosamente adeguata in una prigione che al momento contiene un centinaio di persone. Keelpno è l’altra istituzione statale che può compiere degli screening riguardo la salute mentale dei migranti, tuttavia ha pubblicamente dichiarato che non interverrà in assenza del personale AEMY, nemmeno in casi di emergenza, e che in nessun caso ricontrollerà la salute mentale di un migrante già valutato. Se crediamo che questo individuo si sia tolto la vita per scappare dall’inferno del PRO.KE.K.A., allora è stato il risultato delle condizioni di prigionia che spingono la gente alla disperazione e il fallimento delle agenzie statali che sono tenute a garantire l’assistenza psicologica obbligatoria. Svizzera. Detenuti più facilmente recidivi di chi è stato condannato con la condizionale La Regione, 21 gennaio 2020 Una pena da scontare in carcere non impedisce la recidiva: chi ha effettuato un breve passaggio dietro le sbarre ha un rischio due volte e mezzo più elevato di essere nuovamente condannato rispetto alle persone colpite da pene con la condizionale. Su 38.121 condannati con pene sospese nel 2018, solo il 13% è ricaduto nel crimine nei tre anni successivi, si evince dai dati pubblicati ieri dall’Ufficio federale di statistica. Fra le 7.565 persone incarcerate, la quota sale al 36 per cento. Il rischio di recidiva diminuisce in ogni caso col tempo: la maggioranza ci ricasca l’anno successivo alla condanna, con il 37% di episodi nei primi sei mesi e il 22% dopo 12 mesi. Dopo tre anni si arriva al 6%. Solamente il 13% delle persone al primo delitto infrange di nuovo la legge, sottolinea l’Ust. Secondo l’Ust, si può affermare che il rischio di recidiva è più elevato fra le persone condannate al carcere rispetto a quelle che vengono colpite da condanne alternative (condizionale, lavori di interesse pubblico, pene pecuniarie). Libia. La Ue rilancia Sophia: “Riattiveremo la missione”. Contrasterà il traffico d’armi di Francesco Battistini Corriere della Sera, 21 gennaio 2020 Non si occuperà solo di migranti. In arrivo droni e aerei. Sophia’s Choice. Alla fine la scelta di Sophia è l’unica, vera proposta sulla Libia uscita dalla conferenza di tregua di Berlino. “Rianimeremo” la missione navale, dicono gli europei. Proprio lei: l’invisa Operazione Sophia, varata nel 2015 e poi “distrutta e abbandonata sotto il signor Salvini” (parole del ministro degli Esteri lussemburghese, Jean Asselborn), quella che nella sua “comprensione basica l’opinione pubblica italiana collega solo al salvataggio dei migranti” (citazione di Josep Borrell, responsabile Esteri Ue) e invece da febbraio sarà riformulata. “Ci concentreremo soprattutto sul traffico d’armi”, dice Borrell. Perché la Pax Libica comincia da lì, ripete da mesi l’inviato dell’Onu, Ghassam Salamé. E la risoluzione Onu 1970/2011, sull’embargo alle forniture belliche, non è mai stata rispettata da nessuno. D’ora in poi serviranno invece controlli satellitari, più aerei, nuovi droni: “Le armi non arrivano in Libia solo via mare, ma anche da cielo e terra. La maggior parte entra dopo lunghe traversate nel deserto”. Il problema migranti resta sullo sfondo, nei 55 punti sottoscritti a Berlino, ma non troppo. Di missione Ue, di peacekeeping o di caschi blu - sono tutti d’accordo -, è prematuro parlare. Di Maio s’affretta a spiegare che Sophia tornerà solo per bloccare le armi, non per salvare barconi. Il cirenaico Haftar entra nella questione avvertendo che 41 dei 2.400 combattenti siriani filoturchi, spediti da Erdogan a sostenere il nemico tripolino Serraj, si sono già spostati in Italia: finti migranti, in realtà puri jihadisti. Ankara, rispondendo di non voler mediazioni Ue in Libia, è dura: “E i 2.500 russi? E i 5 mila sudanesi? E i nigerini, i ciadiani, i mercenari arrivati in Libia? Sappiamo quali giochi si facciano con la pretesa di combattere il terrorismo”. L’alba del lunedì, a Tripoli, non è stata molto diversa da quelle della scorsa settimana. Il cessate il fuoco celebrato davanti a venti Grandi in Germania (“tecnicamente è solo una tregua”, spiegano gli sherpa: i due combattenti non hanno firmato nulla) sarà sorvegliato da una commissione 5+5 di militari delle due parti. Ma è di fatto un continuate-pure-a-sparacchiarvi: gli scontri di domenica sera fan domandare se e quanto la pausa durerà. La Mezzaluna libica ha approfittato del silenzio dei cannoni per recuperare sei cadaveri, comprese una donna incinta e una quattordicenne, che da giorni giacevano nelle strade di Sidra. “Abbiamo un ottimismo solo cauto - avverte Serraj - perché Haftar non rispetta gli impegni”. “A Berlino - confermano un po’ irritati gli amici russi del feldmaresciallo - Haftar s’è comportato in modo strano e se n’è andato senza avvertire nessuno, dopo avere spento il cellulare ed essersi reso irraggiungibile”. Non c’entrano solo le condizioni di salute, forse un peso l’hanno avuto certe pressioni saudite teleguidate dagli Usa: anche l’incontro del generalissimo con Putin, fissato a Mosca in settimana, è stato improvvisamente rinviato. Haftar s’è giocato la carta del petrolio, bloccando le esportazioni, e ieri i mercati sono saliti - non schizzati - a 66 dollari il barile. Qualche problema ce l’ha Eni in un suo giacimento. L’obiettivo del generale è disossare la spina dorsale libica, la National Oil Company, e succhiarne il ricco midollo. Una scommessa pericolosa: “Se passiamo da un 1,3 milioni a 70 mila barili - dicono i signori dei pozzi - sarà la catastrofe finale”. Paraguay. Evasione da film: decine di detenuti in fuga attraverso un tunnel di Marta Ferraro Il Mattino, 21 gennaio 2020 Decine di detenuti considerati altamente pericoli per la società, appartenenti alla più spietata banda brasiliana di malavitosi, sono evase da una prigione paraguaiana attraverso un tunnel. Il ministro degli Interni Euclides Acevedo ha annunciato “la massima allerta della polizia nazionale e il dispiegamento dei migliori investigatori” per catturare i fuggitivi, la maggior parte dei quali appartiene al Primeiro Comando da Capital (PCC), secondo la portavoce della polizia paraguaiana Elena Andrada, citata dai media locali. Al momento, le forze di sicurezza si sono trasferite al confine con il Brasile per tentare di rintracciare gli evasi. Andrada ha precisato che i criminali “hanno realizzato un tunnel come vediamo nei film, con illuminazione interna, che è iniziata in una delle toilette interne della prigione”, che si trova nella città di Pedro Juan Caballero, non lontano dal confine con il Brasile. Il ministro della giustizia del Paraguay, Cecilia Pérez, ha affermato che le autorità penitenziarie potrebbero essere a conoscenza del piano di fuga, poiché ci sono volute delle settimane per costruirlo. Diversi media con riferimento al ministro Pérez hanno indicato che in totale sono fuggite 92 persone e solo uno di loro è stato arrestato. Tuttavia, sul sito web del Ministero dell’Interno del Paraguay è stato pubblicato che il numero di fuggitivi è di 75. Acevedo ha affermato che è possibile che alcuni dei prigionieri fuggiti siano già arrivati in Brasile. In questo senso, il ministro della Giustizia e della Pubblica Sicurezza del Brasile, Sergio Moro, attraverso il suo account Twitter, ha assicurato che il paese “è disponibile per aiutare il Paraguay nella cattura di questi criminali”. In un altro tweet ha indicato che le forze di sicurezza brasiliane stanno lavorando “per impedire ai criminali sfuggiti di rientrare in Brasile”. “Se tornano in Brasile, ottengono un biglietto di sola andata per la prigione federale”, ha avvertito.