Una luce per il detenuto. “Mi riscatto per il futuro”: formazione doc di Marzia Paolucci Italia Oggi, 20 gennaio 2020 Firmato il protocollo d’intesa tra l’Enel e il ministero della giustizia. La promozione del lavoro penitenziario attraverso l’istruzione e la formazione professionale dei detenuti nell’ambito del progetto “Mi riscatto per il futuro”. È l’obiettivo del protocollo d’intesa che il ministro della giustizia, Alfonso Bonafede e l’amministratore delegato di Enel, Francesco Starace hanno siglato il 18 dicembre scorso in via Arenula. Il progetto punta a realizzare un programma formativo qualificante in favore dei detenuti, finalizzato all’acquisizione di competenze spendibili nel mondo del lavoro e all’efficientamento energetico degli istituti di pena. In particolare negli istituti penitenziari saranno attivati percorsi formativi, modulari e flessibili per contenuti e durata, per favorire il recupero e l’acquisizione di abilità e competenze individuali e individuare possibili inserimenti lavorativi professionalizzanti per i detenuti. L’intesa poggia sia sulle esperienze positive già sperimentate dal gruppo Enel per promuovere una formazione professionale sempre più indirizzata alle specifiche esigenze del mondo del lavoro come i programmi di formazione degli studenti nell’ambito del progetto apprendistato “scuola - lavoro”, che sull’impegno del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) del ministero della giustizia a sviluppare attività lavorative in favore dei detenuti per ridurne il rischio di recidiva e favorirne il reinserimento nella società. L’accordo prevede inoltre la possibilità di sviluppare ulteriori progetti congiunti, anche in campo internazionale: in questo senso, sarà a breve avviata una collaborazione nell’ambito del progetto di implementazione del lavoro di pubblica utilità nel sistema penitenziario di Città del Messico. Saranno individuate, inoltre, aree di intervento per rendere più sostenibili le strutture penitenziarie attraverso soluzioni di efficientamento energetico e lo sviluppo di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili. “Siamo particolarmente orgogliosi di aver sottoscritto un accordo che permetta un più rapido abbandono della zona grigia, quella tra l’uscita dal carcere e il reinserimento nella società civile, favorendo l’ingresso dei detenuti nel mondo del lavoro per ridurre il rischio di incorrere negli stessi errori del passato”, ha commentato in sede di firma l’ad Starace. “L’obiettivo è proporre una formazione professionale in linea con la rapida evoluzione del mondo del lavoro”, ha spiegato l’amministratore societario, “i progetti che saranno sviluppati grazie al protocollo confermano l’impegno che Enel si è assunta per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni unite; in particolare per crescita e istruzione eque e inclusive”. Il protocollo di intesa tra le parti, sei articoli per cinque pagine di documento, fa riferimento a una serie di leggi in materia a cominciare dall’ordinamento penitenziario e dalla sua recente novella del 2018 fino al legge Smuraglia n. 193 del 22 giugno 2000, “Norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti” che prevede sgravi fiscali per le imprese pubbliche o private che assumono lavoratori detenuti per un periodo di tempo non inferiore ai trenta giorni o che svolgono effettivamente attività formative nei confronti dei detenuti, e in particolare dei giovani detenuti. Sgravi che si applicano anche nei sei mesi successivi alla cessazione dello stato di detenzione. L’intesa della durata di tre anni dalla firma, ha come obiettivo specifico “l’acquisizione di competenze utilmente spendibili nel mondo del lavoro, nell’intento di contribuire ad arginare il problema della carenza di inserimenti lavorativi professionalizzanti per soggetti in esecuzione penale. Inoltre, le Parti potranno individuare specifiche aree di intervento, anche a carattere sperimentale, per il miglioramento e l’efficientamento energetico delle strutture penitenziarie”. I detenuti coinvolti nel progetto saranno individuati dal Dap e segnalati a Enel. Parole di apprezzamento del valore rieducativo di un apprendistato lavorativo come quello oggetto del protocollo, sono state quelle espresse dal ministro Bonafede: “Oggi si concretizza un importante impegno preso, un percorso virtuoso di collaborazione che mi auguro possa diventare un modello da ripetere. Il nostro impegno non mira solo alla rieducazione del detenuto ma comprende anche la sicurezza della collettività, perché quando un detenuto esce dal carcere, grazie a progetti come questo, difficilmente torna a delinquere”. Dalla Corte Costituzionale una riflessione sul mondo carcerario italiano di Francesca Accetta * avellinotoday.it, 20 gennaio 2020 I penitenziari italiani rappresentano lo specchio e il riflesso di una parte della comunità da non emarginare, ma da riabilitare. La Costituzione cammina fra la gente e per la gente, attraverso le gambe di chi la rappresenta in modo virtuoso. I Giudici della Corte Costituzionale hanno così deciso di uscire dall’alcova del Palazzo della Consulta per diffondere la conoscenza “della madre di tutte le norme” sulla scia dell’art. 27 Cost. e portare speranza, sollievo e coscienza a coloro che talvolta si sentono abbandonati dalla società, in cerca di una possibilità di riscatto nelle carceri italiane. I penitenziari italiani rappresentano lo specchio e il riflesso di una parte della comunità da non emarginare bensì da riabilitare, ma soprattutto l’anima di chi ha sbagliato e spera nel riscatto personale in una nuova vita. Giovedì 16 Gennaio, presso l’università la Sapienza di Roma, è stato proiettato il film “Viaggio in Italia. La Corte Costituzionale nelle carceri”. Attraverso le realtà penitenziarie delle carceri di Roma Rebibbia, Firenze Sollicciano, Bellizzi Irpino, Terni, Milano San Vittore, il minorile di Nisida, sono emerse le esigenze primordiali dei ristretti quali il diritto al lavoro, alla salute, alla maternità e all’identità. Vorrei riporre l’attenzione sul recupero dei minori per i quali nel processo minorile è previsto l’Istituto del perdono giudiziale, tuttavia sappiamo che il perdono ha senso soltanto se si dimostra di averlo meritato. Rammentiamo la storia di un giovane ristretto Emanuele, minore, detenuto modello, presso il carcere minorile di Nisida, per le cui capacità era addirittura propenso alla professione di giornalista, ma aveva scelto di fare il capoclan e uscito dal carcere era stato abbandonato a se stesso e ricaduto nella voragine della criminalità, ha trovato suo malgrado la morte. La paranza dei bambini, ci riporta alla memoria il romanzo di Roberto Saviano e la vita degli adolescenti nelle periferie dell’hinterland napoletano. Ragazzi che dopo il percorso di rieducazione detentiva, poiché la vita è rispetto delle regole, rendendo talvolta indispensabile comminare una sanzione giusta, adeguata e proporzionata, necessitano di essere seguiti dopo aver espiato la pena, attraverso un ulteriore percorso di guida e risocializzazione, avviati direttamente dal mondo penitenziario al mondo del lavoro, nei settori in cui hanno appreso arti e mestieri durante la lunga esperienza detentiva. Tante le storie da raccontare, come quella avvenuta nel Carcere di Bellizzi Irpino, dove un detenuto algerino 34enne ha tentato di togliersi la vita ingerendo del sapone liquido. O come accaduto sempre in Irpinia, dove un altro detenuto ha tentato di togliersi la vita ingoiando una lametta, tre pile e un tagliaunghie. Dietro al gesto dell’uomo, trentacinquenne, una forma di protesta per lo stato in cui versa proprio l’istituto penitenziario irpino. Tante situazioni al limite che impongono delle scelte. Concludo con una riflessione di Cesare Beccaria, autore del testo “dei delitti e delle pene”, nel quale asseriva che “non vi è libertà, ogni qualvolta le leggi permettono che in alcuni eventi, l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa”. *Esperta in criminologia e psicologia forense. Giustizia, migranti e taglio parlamentari: Casaleggio detta la linea al Pd di Angela Azzaro Il Riformista, 20 gennaio 2020 Il giorno dopo il voto in commissione Giustizia contro la Legge Costa, che comunque sarà nuovamente votata in aula il 27 gennaio, la polemica, invece di affievolirsi, cresce all’interno della maggioranza di governo che scricchiola sempre di più. Da una parte Movimento Cinque stelle, Pd e Leu, dall’altra Italia viva che si è schierata con il centrodestra per impedire, in tutti i modi, che la riforma della prescrizione continui il suo cammino. Chi ha tradito e chi no? Qui nasce la disputa. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha accusato Matteo Renzi di “essersi isolato dalla maggioranza” ma per il leader di Italia viva non c’è nessuna rottura, “abbiamo solo difeso lo Stato di diritto”. Lo scontro però è soprattutto con i vecchi amici del Pd. Il responsabile giustizia dei dem, Walter Verini, accusa: “Renzi bluffa. Italia viva ha votato con Salvini e con la destra per impedire l’avvio della riforma del processo penale che non si limita solamente alla riforma della prescrizione, ma punta a garantire il giusto processo”. Parole che non intimidiscono certo Renzi, che già in mattinata, con un post su facebook chiarisce la posizione del suo partito: “Guardiamo i fatti: c’era una legge sulla prescrizione voluta dal Pd e dal ministro Orlando. Poi sono arrivati i populisti giallo-verdi e con i voti leghisti e grillini hanno cambiato la legge eliminando la prescrizione e rendendo i cittadini imputati a vita. Un obbrobrio giuridico. Noi abbiamo votato per ripristinare la legge dei nostri Governi, cancellando le misure giustizialiste e populiste. Mi dispiace solo che il Pd abbia scelto di seguire i grillini anche su questo, andando purtroppo a rimorchio dei Cinque Stelle. Abbiamo fatto un governo insieme per mandare a casa Salvini, non per diventare grillini”. Se c’è una posizione che appare contraddittoria è quella dei dem, che su un terreno così delicato come la riforma della prescrizione hanno rinunciato a difendere, in linea con la Costituzione, il garantismo, a costo anche di andare contro le richieste e le battaglie dei penalisti. Ma non è l’unica questione su cui il Pd sembra andare dietro ai Cinque stelle, dai migranti al taglio dei parlamentari, l’agenda è quella che viene dettata da Casaleggio, mentre le bandiere del centrosinistra restano ben nascoste. Proprio nella fase in cui i Cinque stelle appaiono più in crisi, con divisioni decisive tra i leader e con un calo di consensi difficile da prevedere fino a poco tempo fa, il Pd di Zingaretti ha deciso di stringere ancora più forte l’alleanza con il partito della piattaforma Rousseau. È la questione emersa dal “conclave” dem dei giorni scorsi, che ha creato anche più di un malumore in chi non ne vuole sentir parlare di stringersi in un abbraccio mortale con i populisti. Zingaretti fin da subito ha scelto come strategia quella di allearsi con i Cinque stelle per provare a sottrarre loro consenso, ma il risultato ottenuto finora è opposto: il Pd è l’ancora di salvataggio per un movimento che invece sta attraversando la fase più difficile da quando è nato. Zingaretti e con lui Franceschini, tra i più accaniti sostenitori dell’alleanza con Di Maio, rischiano di sacrificare la propria identità per calcoli che appaiono politicisti. Le settimane a venire saranno decisive per la tenuta del governo. Matteo Salvini lo ha detto: se vince in Emilia Romagna chiede immediatamente la testa del premier Conte. Ma c’è una partita più grande che da più di un anno si gioca nella politica e nella società italiana (e non solo): lo scontro tra populisti e anti populisti. Votando la riforma Bonafede il Pd ha scelto di stare con i populisti: difficile poi correggere il tiro. Ora la partita si sposta in aula dove Italia viva potrebbe rivotare a favore della Legge Costa con un clamore ancora maggiore della scelta fatta nei giorni scorsi. Lucia Annibali, rappresentante di Italia viva in commissione Giustizia, ha ribadito: “Noi votiamo nel merito come sempre. Stupisce piuttosto chi cede su principi costituzionali in nome di future alleanze”. E sul fatto di aver votato con Lega e Forza Italia, risponde: “Vorrei ricordare che la riforma Bonafede è stata fatta durante il governo gialloverde da M5s e Lega. Noi vogliamo tornare alla riforma Orlando”. Da Italia viva si getta acqua sul fuoco di una possibile crisi di governo. Lo stesso Renzi lo ha ribadito in tutte le occasioni. Ma la questione resta seria, serissima e, indipendentemente dal voto, sarà uno dei punti su cui far chiarezza per il futuro. Davvero i dem sono disposti a sacrificare l’alleanza con i renziani per andare con Di Maio e Di Battista? Così l’ordine giudiziario ha sostituito la politica di Andrea Cangini* Il Giornale, 20 gennaio 2020 Due atti parlamentari e un anniversario: il voto della giunta delle immunità del Senato sulla richiesta di autorizzazione a procedere ai danni di Matteo Salvini, il voto della Camera sull’abolizione della prescrizione, il ventennale della morte di Beffino Craxi. Sono questi, oggi, i tre temi attorno ai quali ruota il dibattito politico e dal cui sviluppo in parte dipenderà il futuro stesso della politica italiana. Fosse un passatempo tipo “trova l’errore”, elementi incongrui rispetto al contesto sarebbero tutti e tre. Balza, infatti, agli occhi che il denominatore comune di queste tre pietre angolari della politica italiana non sia politico, ma giudiziario. Due fatti essenzialmente politici, le scelte di un ministro dell’Interno in quanto ministro dell’Interno e la memoria di un uomo di governo che mostrò la tempra dell’uomo di Stato, vengono letti attraverso le lenti non della politica ma della morale, per essere poi affrontati non in chiave istituzionale, ma penale. Uguale e contrario è il caso della prescrizione, la cui abolizione piace molto ai grillini di Giggino Di Maio e moltissimo sarebbe piaciuta al Grande Inquisitore di Dosto evsky. Non è un caso. È la logica conseguenza dell’ultradecennale processo di delegittimazione della politica e di centralizzazione dell’ordine giudiziario. Un processo magistralmente inquadrato dal professor Filippo Sgubbi in un imprescindibile pamphlet appena pubblicato dal Mulino: “Il diritto penale totale”. “Totale” nel senso di totalitario, come si evince dal sottotitolo “Punire senza legge, senza verità, senza colpa”. Scrive, infatti, Sgubbi che siamo ormai nel pieno di “una deriva neo-medievale in cui la jurisdictio esprime la totalità del potere, di ogni potere (legislativo, amministrativo, giudiziario)”, al punto che “la potestà penale si identifica ormai con l’etica pubblica”. Detta in volgare, l’ordine giudiziario ha preso il posto del potere politico. Ma allora quelle pur giuste attenzioni che vengono rivolte alla Politica andrebbero spostate sulla Magistratura. La formazione, la competenza, l’imparzialità, la trasparenza, la responsabilità. Una politica timorosa finge di non vedere il problema, ma mai come oggi assume carattere di necessità e di urgenza la riforma dei meccanismi di reclutamento e di valutazione dei magistrati. *Senatore di Forza Italia Giulia Bongiorno: questa maggioranza si è inventata la giustizia à la carte di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 20 gennaio 2020 La parlamentare e avvocato leghista: “Basta ipocrisie”. “Questa maggioranza sta elaborando qualcosa di mai visto prima, un nuovo tipo di giustizia: la giustizia à la carte”. Giulia Bongiorno, giurista di fama indiscussa, già ministro nel primo governo Conte, è anche la consulente giuridica più ascoltata da Matteo Salvini. Nel caso della nave Diciotti, l’allora ministro dell’Interno di slancio aveva chiesto di essere processato subito. Era stata lei a consigliargli la strategia diversa che ha portato, in quel caso, al no all’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini. Ma sul caso della Gregoretti, il segretario leghista è tornato a chiedere il processo. Cosa significa “giustizia à la carte”? “Hanno deciso di processare Salvini senza nemmeno prendersi la briga di legge le carte. Pretendono di decidere il quando, chiedendo di votare dopo le elezioni. In più, i 5 Stelle fingono di ignorare che quella per la Gregoretti era un’iniziativa collegiale nel perimetro dell’indirizzo politico del governo e vogliono che Salvini sia processato da solo, anche se il presunto sequestro di persona è avvenuto sotto gli occhi del mondo e certamente del governo”. Insomma giustizia su misura? “Ma sì. Però questa è un’aberrazione che fa tremare i polsi. Significa dire: decido io che cosa è la giustizia, i suoi modi e i suoi tempi”. Lei ha preso per i capelli Salvini quando voleva il processo per la Diciotti. Ora è d’accordo? “La decisione del segretario viene dalla voglia di squarciare il velo dell’ipocrisia clamorosa in cui si cerca di avvolgere questa vicenda. La prossima volta vorranno decidere anche la sede del processo? Anche la pena?”. Insomma, bene così... “La mia posizione è sempre stata la stessa: cerchiamo di far emergere l’interesse pubblico. Io ho sempre avuto una posizione più prudente e Salvini più diretta. Ma ormai gli inviti alla prudenza non servono più, sono superati dai fatti. E l’interesse pubblico è far emergere certe clamorose contraddizioni”. Quale è la più evidente? “Dal punto di vista politico, la bandiera dei grillini è sempre stata la prescrizione, ora chiedono il rinvio della questione a quando preferiscono. Dato che è venuta meno la possibilità di far capire le ragioni, dato che si guarda alle Regionali e non alla giustizia, siamo al di là di quello che si poteva immaginare. Ma si potrebbe continuare”. Per esempio, come? “Vada a rivedersi la conferenza stampa di fine anno del premier Conte. Appena gli chiedono della Gregoretti c’è l’ammissione di aver preso in carico lui la vicenda. Salvo poi ipotizzare che la ripartizione dei migranti tra i Paesi Ue e lo sbarco siano cose separate Come si fa a dirlo? E un ossimoro. Ci sono state dichiarazione anche di Di Maio, Bonafede e Toninelli: il caso era sotto agli occhi del mondo e ai riflettori più luminosi. E ora Salvini dovrebbe andare a processo da solo?”. FI e FdI hanno già detto che voteranno contro il processo a Salvini. Come finirà? “Guardi, il fatto che Matteo Salvini abbia scelto di invitare i componenti della Lega a votare per il processo, significa che non siamo lì con il pallottoliere in mano. Non ci importano certi conteggi, importa che la gente sappia la verità. Tanto più che il voto in Aula sappiamo benissimo come finirà. E del merito delle questioni, a nessuno importa nulla”. Perché dice questo? “Mi pare chiaro. Non si parla dei fatti, nessuno dice che non c’è stato alcun sequestro di persona e che la nave era libera di andare dove le pareva. Niente. Per questo Salvini fa bene a voler squarciare il velo”. Guida in stato d’ebbrezza: 2.000 casi l’anno. L’allarme dei pm di Giuseppe Guastella Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2020 L’attività dell’Ufficio Portale della Sezione reati stradali. Un mese per definire ogni caso, pochi i fascicoli archiviati. Sono circa tremila i nuovi fascicoli aperti per violazioni connesse alla circolazione stradale dalla “Sezione reati stradali” della Procura di Milano in poco più di un anno di attività dell’ Ufficio Portale, voluto dal procuratore Francesco Greco per velocizzare la trattazione di alcuni procedimenti che ingolfano gli uffici. I dati in possesso della Procura dicono che la maggioranza dei casi vengono definiti immediatamente e mandati alla valutazione del giudice. Sono sei gli agenti della Polizia locale che fanno parte del pool “Reati stradali” che, sotto la guida del responsabile del Portale, il sostituto Giancarla Serafini, si occupano di lesioni personali gravi e gravissime da incidente stradale, guida in stato di ebbrezza e guida sotto l’effetto di stupefacenti. Degli omicidi stradali si occupa direttamente il pm di turno. Dal 15 ottobre 2018, quando è entrato in funzione il Portale, al 10 gennaio 2020, ultimo dato rilevato, sono stati 2.142 i nuovi fascicoli aperti per guida sotto l’influenza dell’alcol nei confronti di altrettante persone identificate, e non può che essere così visto che si tratta di automobilisti che sono stati sottoposti al test dell’alcol dopo essere stati fermati dalle forze dell’ordine. In media quasi la totalità dei fascicoli in entrata (parte sono ancora aperti) sono stati definiti in un mese con 1.622 decreti penali di condanna,173 citazioni dirette in giudizio dovute essenzialmente a problemi relativi all’individuazione del domicilio dell’indagato che fanno scadere i termini previsti per il decreto penale, 12 decisioni di “non luogo a procedere” perché i soggetti fermati hanno superato positivamente la messa alla prova e 16 patteggiamenti di fronte al giudice. Solo per una minima parte dei fascicoli, in tutto 14, è stata chiesta l’archiviazione per questioni legate all’esecuzione del test. Per quanto riguarda il reato di guida in stato di alterazione psicofisica per uso di sostanze stupefacenti, sono 198 i casi registrati che sono stati trattati in una media di 70 giorni, perché sono necessari test più complessi. Anche in questo caso, la maggior parte dei fascicoli sono stati definiti velocemente con la richiesta di 77 decreti penali di condanna, 14 con citazione diretta in giudizio, 2 con l’affidamento in prova e 71 con archiviazioni dovute, spiegano in Procura, essenzialmente alla difficoltà di dimostrare, come ha stabilito la Cassazione, che l’assunzione è avvenuta nell’immediatezza del fermo. Sono state 564 le indagini aperte per lesioni personali stradali gravi o gravissime, quasi tutte esaurite con giudizio ordinario in 3-4 mesi, 32 sono state archiviate e tre invece si sono chiuse con il proscioglimento degli indagati. Ogni giudicato sulla sua strada. Il penale non rileva automaticamente nel tributario di Stefano Dorigo Italia Oggi, 20 gennaio 2020 Il giudicato formatosi in sede penale non rileva automaticamente nel giudizio tributario avente ad oggetto i medesimi fatti, a causa della diversità del regime delle prove che caratterizza i due procedimenti. Così l’ordinanza 30941 della Cassazione tributaria del 27.11.2019. I giudici di seconde cure, preso atto della sentenza penale di assoluzione del contribuente, avevano dichiarato illegittimi gli avvisi di accertamento relativi alla stessa vicenda oggetto del primo giudizio. La Cassazione, richiamando propri precedenti, ha invece ritenuto che il principio del doppio binario impedisca la reciproca influenza tra i due procedimenti, con la conseguenza che l’esito - assolutorio o meno - di quello penale non può avere efficacia con riferimento alle contestazioni delle Entrate, ferma la libertà del giudice tributario di valutarlo liberamente. Tale conclusione si giustifica, secondo la sentenza, con la diversità del regime delle prove nei due processi: l’inammissibilità della prova testimoniale in quello tributario e la rilevanza in esso di regole presuntive comportano l’impossibilità che una sentenza penale, emessa all’esito di un dibattimento nel quale la prova regina è quella per testimoni e non sono ammesse presunzioni, abbia effetto vincolante nel primo, pena altrimenti lo snaturamento delle regole proprie di quest’ultimo. In questo senso, l’ordinanza valorizza, oltre al principio del doppio binario, l’art. 654 cpp, il quale nega che la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento abbia efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo laddove la legge civile ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa (come per l’appunto avviene nel processo tributario). La Cassazione precisa che tale incomunicabilità vale anche se i fatti accertati in sede penale sono gli stessi per i quali l’amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente: ciò, di fatto, legittima il giudice tributario a ricostruire in modo autonomo la fattispecie oggetto del suo giudizio. Sebbene appaia coerente con il ricordato doppio binario, tale esito deve essere valutato alla luce della giurisprudenza europea sul ne bis in idem. L’incomunicabilità tra i due processi, che emerge dall’ordinanza, impattando sulla valutazione dei fatti può condurre a una duplicazione di sanzioni, penale e amministrativa, in assenza di qualsiasi possibilità di coordinamento tra le due. Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo (sent. A e B c. Norvegia), viceversa, le sanzioni amministrative, quando di ammontare particolarmente elevato, hanno natura afflittiva al pari delle penali. È il caso dell’ordinamento italiano, nel quale la sanzione amministrativa di regola è del 90% del tributo evaso. Pertanto, non è ammessa una loro duplicazione, se non nel caso in cui i procedimenti che le generano siano connessi tra di loro, nella fase di raccolta delle prove (per evitare valutazioni difformi del medesimo fatto) e nella determinazione del loro ammontare. La posizione della Cassazione esclude in radice che un simile collegamento possa realizzarsi e pertanto ammette che si possa pervenire a una difforme valutazione della medesima vicenda e quindi a un abnorme cumulo sanzionatorio. Emerge, dunque, un contrasto tra l’assetto interno e quello sovranazionale che, in prospettiva, potrebbe dar vita ad un conflitto dal quale non è scontato che il primo possa uscire indenne. Il contrasto tra dispositivo e motivazione della sentenza. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2020 Atti e provvedimenti del giudice - Sentenza - Divergenza tra motivazione e dispositivo - Ipotesi di contrasto apparente - Fattispecie. In tema di contrasto tra motivazione e dispositivo, se la divergenza è causata da un evidente errore materiale, obiettivamente riconoscibile, contenuto nel dispositivo, il contrasto deve ritenersi solo apparente ed è legittimo il ricorso alla motivazione per chiarire l’effettiva portata del dispositivo. Nel caso di specie il giudice è incorso in un’omissione materiale in ordine alla menzione nel dispositivo del giudizio di equivalenza tra le attenuanti riconosciute in favore dell’imputato e l’aggravante contestata, puntualmente esplicitato invece nella motivazione della sentenza. La natura di mera omissione è confermata dalla conformità della pena finale irrogata a quella determinata, con l’esplicitazione dei singoli passaggi intermedi nella motivazione la quale, permettendo di ricostruire la volontà del giudice, conserva la sua funzione di spiegazione delle ragioni fondanti la decisione, senza che sia necessaria una rettifica del dispositivo. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 7 gennaio 2020 n. 160. Atti e provvedimenti del giudice - In genere - Contrasto tra dispositivo e motivazione - Individuazione della volontà decisoria - Criteri. In caso di contrasto tra dispositivo e motivazione della sentenza, la regola della prevalenza del dispositivo, in quanto immediata espressione della volontà decisoria del giudice, non è assoluta, ma va contemperata, tenendo conto del caso specifico, con la valutazione degli elementi tratti dalla motivazione, che conserva la sua funzione di spiegazione e chiarimento delle ragioni della decisione e che, pertanto, ben può contenere elementi certi e logici che facciano ritenere errato il dispositivo o parte di esso. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 28 gennaio 2019 n. 3969. Impugnazioni - Appello - Questione di nullità - In genere - Divergenza radicale tra motivazione e dispositivo - Causa di nullità della sentenza di primo grado - Esclusione - Potere del giudice di appello di esaminare i motivi di appello - Sussistenza - Fattispecie. La radicale divergenza tra dispositivo e motivazione non rientra tra le cause di nullità della sentenza, espressamente e tassativamente previste dall’art. 604 cod. proc. pen., cosicché il giudice dell’appello deve prendere atto, nei limiti dell’effetto devolutivo, del predetto contrasto e procedere alla valutazione dei motivi di appello. (Fattispecie relativa a contrasto tra dispositivo di condanna e motivazione di una decisione di assoluzione in cui la Corte di appello, rilevato detto contrasto, in considerazione dell’effetto devolutivo conseguente all’appello proposto sia dall’imputato che dal Pubblico Ministero, ha proceduto alla valutazione dei motivi di appello, dando per presupposto che la sentenza di primo grado fosse una sentenza di condanna). • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 19 giugno 2018 n. 28212. Sentenza - Requisiti - Dispositivo - Contrasto tra dispositivo e motivazione - Prevalenza della motivazione - Legittimità - Presupposti - Presenza nel dispositivo di un errore materiale obiettivamente riconoscibile - Fattispecie. In caso di contrasto tra dispositivo e motivazione, qualora la divergenza dipenda da un errore materiale, obiettivamente riconoscibile, contenuto nel dispositivo, è legittimo il ricorso alla motivazione per individuare l’errore medesimo ed eliminarne i relativi effetti. (Nella specie, la Corte ha disposto la rettifica del dispositivo della sentenza di appello in cui mancava il riferimento nominativo alle posizioni di taluni degli imputati appellanti, rilevando che dall’esame della motivazione risultava chiaramente ricostruibile il percorso seguito dal giudice in merito alla conferma della condanna degli imputati, attraverso la disamina dei motivi di appello da questi proposti e l’analisi della sentenza di primo grado). • Corte di cassazione, sezione 6 penale, sentenza 29 maggio 2018 n. 24157. Sentenza - Requisiti - Dispositivo - Contrasto tra dispositivo e motivazione - Criteri di risoluzione - Fattispecie. Nell’ipotesi in cui la discrasia tra dispositivo e motivazione della sentenza dipenda da un errore materiale relativo all’indicazione della pena nel dispositivo, e dall’esame della motivazione sia chiaramente ricostruibile il procedimento seguito dal giudice per determinare la pena, la motivazione prevale sul dispositivo con la conseguente possibilità di rettifica dell’errore secondo la procedura prevista dall’art. 619 cod. proc. pen.(Fattispecie in cui la Corte territoriale, pur avendo in motivazione ridotto l’aumento per la continuazione in relazione a ciascun episodio di rapina aggravata contestato agli imputati, senza modificare gli altri parametri di calcolo, aveva indicato in dispositivo una pena più alta di quella risultante dalla corretta applicazione dei predetti criteri). • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 7 aprile 2016 n. 13904. Gradisca d’Isonzo (Go). Migrante muore nel Centro per i rimpatri. “Picchiato dagli agenti” di Gianpaolo Sarti La Repubblica, 20 gennaio 2020 S’indaga per omicidio. La Procura di Gorizia si muove dopo le dichiarazioni di un testimone. Morte e proteste. Al Centro per rimpatri di Gradisca è caos. Sabato è deceduto un trentottenne georgiano detenuto nella struttura isontina. Vakhtang Enukidze è spirato per cause misteriose all’ospedale di Gorizia: si era sentito male nella sua stanza del Cpr. Pochi giorni prima era stato protagonista di una rissa con un compagno. Gli agenti avevano placato il georgiano, lo avevano arrestato e portato in carcere. Non è chiaro cosa sia successo durante l’intervento dei poliziotti. Poi il drammatico epilogo. La Procura ha aperto un’indagine per omicidio volontario contro ignoti. La notizia del dramma ha innescato la ribellione dei migranti e il presidio del gruppo “No Cpr e no frontiere Fvg” all’esterno dell’edificio. Gli attivisti accusano la Polizia: “È stato ammazzato di botte dalle guardie del Cpr”. Sono giorni di tensioni altissime, lì come in altri centri: una settimana fa è morto un tunisino a Caltanissetta. Il Cpr di Gradisca è aperto da un mese, ma non si contano le proteste, le fughe, gli episodi di autolesionismo e i tentati suicidi. Ieri sono stati sequestrati i cellulari. E mentre fuori era in corso la manifestazione, dall’interno si alzava una colonna di fumo. È atteso per oggi l’arrivo del Garante nazionale dei detenuti Mario Palma. L’indagine sulla morte del georgiano, diretta dal pm Paolo Ancora, è affidata alla Squadra mobile. “Dobbiamo accertare se il decesso è frutto di condotte dolose, colpose o preterintenzionali - osserva Massimo Lia, procuratore capo a Gorizia - oppure se è frutto di un evento patologico indipendente dall’azione di terzi”. Serve l’autopsia. In queste settimane Enukidze aveva preso parte alle ribellioni. La lite con il compagno di stanza risale invece a martedì 14: lo straniero si era scagliato su un altro migrante per cause non note. Di qui l’irruzione dei poliziotti nella stanza. E l’arresto, con l’accusa di aggressione e resistenza a pubblico ufficiale. Non si sa come gli agenti abbiano agito. Il gruppo del “No-Cpr” ha diffuso una testimonianza audio, raccolta telefonicamente, di un altro detenuto che avrebbe assistito alla scena. Il migrante sostiene che il trentottenne georgiano è stato picchiato “da otto poliziotti”. La testimonianza è stata acquisita dagli investigatori. Dopo la rissa del 14 Enukidze è stato portato in carcere. E quindi processato per direttissima. Durante il processo presentava ferite: un’ecchimosi periorbitale e alcuni graffi. In Tribunale “ha partecipato all’udienza, ha interloquito e ha risposto alle domande del giudice”, precisa il procuratore. Due giorni dopo l’arresto, giovedì 16, Enukidze è stato trasferito nuovamente al Cpr per le procedure di espulsione. Sabato mattina si è sentito male. È deceduto poche ore dopo all’ospedale. “Prematuro fare qualsiasi tipo di affermazione”, rileva il questore di Gorizia Paolo Gropuzzo. “Per mettere le manette un’azione di forza c’è stata. Ma che l’episodio del 14 sia la causa del decesso, è un’ipotesi azzardata”. Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Asgi (Associazione studi giuridici immigrazione) segue la vicenda. “Il Cpr di Gradisca è fuori controllo”, accusa. “Tensioni e violenze si sono verificate da subito”. Visita del Garante nazionale al Cpr di Gradisca di Isonzo (Comunicato stampa) A seguito dei gravi episodi che hanno coinvolto il Centro di permanenza per il rimpatrio di Gradisca di Isonzo e della morte di una persona ristretta nel Centro, Il Garante nazionale Mauro Palma lunedì pomeriggio visiterà il Centro insieme al Prefetto di Gorizia Massimo Marchesiello e parlerà con le persone trattenute nel Cpr. La visita sarà anche l’occasione per incontrare le Istituzioni del territorio e assumere ogni informazione circa le azioni da queste conseguentemente intraprese. La presenza del Garante nazionale vuole così assicurare che la vicenda sarà seguita in ogni suo aspetto da un organismo indipendente nella consueta ottica di rispetto dei diritti delle persone private della libertà, del sostegno di chi opera in situazioni così complesse, di rispetto della comunità locale che ha il compito di ospitare tali strutture. Rimini. Meno psicofarmaci, basso sovraffollamento e attenzione al rapporto genitori-figli altarimini.it, 20 gennaio 2020 Il carcere “Casetti” è l’osservato speciale di associazioni quali Antigone che lo ha visitato l’ultima volta proprio il 20 novembre per verificarne le condizioni organizzative, logistiche e morali, il carcere di Rimini si trova ai piedi delle colline di Covignano e anche per questo, data la distanza con il resto della città, non vi è piena e chiara percezione della sua esistenza - o meglio, dell’esistenza delle persone che ci vivono e lavorano - a livello collettivo. Segnato da vicissitudini quali un susseguirsi di direttori in missione e l’incremento di arresti sotto il periodo estivo che richiederebbe un aumento del personale di polizia penitenziaria, il carcere “Casetti” di Rimini può contare su un numero congruo di educatori a garanzia dell’attività rieducativa trattamentale, in ossequio alle proporzioni inserite nell’Ordinamento penitenziario (uno ogni cento detenuti): stando alla scheda ministeriale al 6 novembre ospitava 153 persone (numero definito “tollerabile” dal personale di polizia), con una percentuale superiore almeno del 20 per cento rispetto ai posti normalmente disponibili ma che vengono ricavati con l’aggiunta di letti nelle celle già esistenti. L’isolamento del carcere “Casetti” è anche una fortuna, dal momento che nonostante questo non lo renda facilmente raggiungibile, la sua posizione offre visuali distensive per lo sguardo e la mente, anche dalle stesse sezioni (che sono sette, di cui una per i semiliberi chiamata “Andromeda” e un’altra per la custodia attenuata dedicato prevalentemente ai tossicodipendenti, mentre dal 2017 è chiusa la sezione “Vega” che era destinata a detenuti e detenute transessuali, ancora in attesa di ricollocamento). Ci sono anche una biblioteca curata e ben fornita gestita da persone detenute adeguatamente formate (e stipendiate) e alcune classi per la scuola e le attività rieducative gestite anche da alcune associazioni di volontariato, ma al momento mancato spazi esclusivamente dedicati per le lavorazioni (una trentina i dipendenti dell’amministrazione penitenziaria che si occupano di attività ordinarie come la cucina, le pulizie o la distribuzione del rancio) e per professanti di fede non cristiana (per la quale è presente un’ampia cappella di preghiera). Anche se mancano spazi esclusivamente riservati all’attività fisica, come una palestra, è possibile divertirsi nel campo da calcio o in quello da pallavolo o pallacanestro, anche se i fondi sono in entrambi i casi in cemento così come nello spazio dedicato alle due ore d’aria. Non tutte le sezioni sono organizzate allo stesso modo, con tutti i limiti di una costruzione con 50 anni sulle spalle: la prima sezione riservata alle persone condannate in via definitiva è quella che versa nelle condizioni peggiori mentre le altre sono state via via ristrutturate. Proprio qui le docce sono ancora all’esterno delle celle. C’è invece grande attenzione alla cura del rapporto tra genitori e figli al quale è dedicata la ludoteca, spazio arredato con cura e dalle pareti adornate da dipinti, e una figura che presenzia ai colloqui per offrire un momento di animazione e di distensione per i bambini. Nella relazione di novembre mancano i dati sul numero di casi di autolesionismo che però notoriamente non mancano all’interno della struttura, anche se pare in diminuzione, questo anche in virtù della “diversa gestione dell’osservazione e della gestione dei farmaci”, tanto che “l’uso degli psicofarmaci è calato di due terzi”. Sono circa un centinaio, quindi sempre nell’ordine dei due terzi, le persone che dichiarano di fare uso di sostanze al momento dell’incarcerazione. Sembra che abbia ben influito anche il sistema della “sorveglianza dinamica”, che diversamente da altre strutture sta dando buoni frutti in termini di attenuazione della tensione, sia per i detenuti sia per i dipendenti della struttura. Reggio Calabria. Grave carenza di infermieri nel carcere di Arghillà reggiotoday.it, 20 gennaio 2020 Vincenzo Marrari, coordinatore regionale Cgs Nursind Calabria, afferma che “vi è anche una situazione di emergenza per la mancata sostituzione di tre unità, cessate per varie motivazioni”. Un altro nuovo record negativo per l’ Asp 5 di Reggio Calabria, con il quasi totale azzeramento del personale infermieristico dedicato all’ assistenza all’ interno del penitenziario di Arghillà. La denuncia arriva dal NurSind, che da sempre si schiera a tutela degli infermieri di tutta Italia. “Ci viene riferito dai nostri iscritti - afferma Vincenzo Marrari, coordinatore regionale Cgs Nursind Calabria - che oltre alla storica carenza cronica di personale infermieristico da quando il penitenziario fu aperto nel 2013, attualmente, vi è una situazione di emergenza per la mancata sostituzione di tre unità cessate per varie motivazioni. Si continua a garantire un livello di assistenza accettabile, non di livello, si opera con dei contingenti miseri a fronte di un utenza composta da circa 350 detenuti”. “Il personale attivo, sono solo 4 gli infermieri, - spiegano ancora dal Nursind - è spesso chiamato a saltare i riposi, perché se cosi non fosse, si fermerebbe ogni attività. Tutto questo è causa certamente di stress psicofisico e continuo avvicinamento al limite orario settimanale, e, il Burn Out, ci risulta fra l’ altro una delle recenti cause che ha portato alcune colleghe ad astensione dall’ attività lavorativa da alcuni mesi, e mai più sostituite anch’esse”. Secondo il sindacato delle professioni infermieristiche siamo arrivati al paradosso. “alla metà del 2019 gli sforzi di dirigenti e coordinatori avevano consentito un integrazione di personale quasi sufficiente ad iniziare una turnazione H 24 per gli infermieri, ma, progressivamente con il tempo, le mancate sostituzioni di personale assente legittimamente per varie motivazioni (gravidanza, inidoneità, L. 104) ci portano ad oggi, dove, la sola presenza di 3 - 4 infermieri non riesce nemmeno a garantire la copertura di assistenza per le 12 ore giornaliere. Appare assai difficile continuare a garantire le cure necessarie alla popolazione detenuta, in un contesto che, di fatto, per varie problematiche è già ‘pesantè laddove si uniscono anche le carenze di personale di polizia penitenziaria ed il sovraffollamento di detenuti a fronte della regolare capienza di circa 300 utenti. Una situazione infernale insomma”. “Chi pensa che l’attività degli infermieri nel penitenziario - continua Marrari - sia solo quella di preparare e consegnare terapia si sbaglia di grosso. I nostri infermieri si sostituiscono al personale amministrativo (anch’esso da sempre assente) per la parte burocratica, svolgono le attività del Ser.T. per la somministrazione di terapia sostitutiva poiché lo stesso non ha il personale dedicato, coadiuvano con gli specialisti ambulatoriali, e, non da meno sono in prima linea sempre a sostenere con parole di conforto chi ha commesso errori nella propria vita. Non dimentichiamo che, il penitenziario di Arghillà rimane fra i pochi se non l’unico delle carceri italiane in cui la presenza di personale infermieristico non vi è per 24 ore al giorno”. Per il coordinatore Marrari “questo nostro monito al fine di sensibilizzare le istituzioni poiché, probabilmente, la commissione straordinaria, che non ci ascolta, è solo impegnata a fare quadrare i conti forse dimenticando che la sanità deve erogare salute, in questo caso, anche alle persone ristrette”. Pescara. Delegazione del Pd in visita al carcere di San Donato notiziedabruzzo.it, 20 gennaio 2020 “Pronti a mobilitarci per risolvere le criticità riscontrate”. Ieri mattina il consigliere regionale Pd Antonio Blasioli ha effettuato una visita ispettiva nel carcere di San Donato a Pescara, accompagnato dal consigliere comunale Piero Giampietro. “Abbiamo deciso di visitare il carcere dopo gli episodi verificatisi nelle ultime settimane che dimostrano il malessere che si vive nella struttura, malessere che accomuna detenuti e agenti penitenziari - riferiscono Blasioli e Giampietro- del Partito Democratico. La struttura dovrebbe accogliere circa 200 detenuti, ma in realtà ne accoglie più del doppio mentre la pianta organica prevede la presenza di 170 agenti. Nei fatti sono un centinaio effettivi, considerato che molti sono in malattia o in distacco. Divisi su tre turni, anziché su 4, sono costretti a svolgere diverse mansioni simultaneamente. Nel 2020 la previsione della dotazione organica del carcere di Pescara potrebbe arrivare a 200 unità, ma esattamente la metà è quella che presta servizio. Molti agenti sono anche prossimi alla pensione e ciò significa che senza un’alternanza a breve il loro bagaglio di conoscenze non verrà trasferito ai nuovi che arriveranno. Negli ultimi anni sono già andati in pensione circa 50 agenti e di questi 30 da due anni a questa parte. Occorrerà tempo per le assunzioni, ma intanto è forte la richiesta di una diversa organizzazione del lavoro, possibile ad esempio con la diminuzione dei posti di servizio fino a che il numero del personale non torni a livelli accettabili. Ma ci sono altri casi che potrebbero essere affrontati e risolti. Uno su tutti riguarda proprio il nosocomio pescarese che ha all’ottavo piano ha un reparto dedicato ai detenuti. Capita però che questo non venga utilizzato per carenza di infermieri e così si verificano due distorsioni evidenti. La prima: ogni detenuto deve avere una scorta di due agenti, che sui 4 turni quotidiani richiede la presenza di 8 agenti. Se i detenuti fossero tutti ricoverati presso il reparto a loro riservato basterebbero 8 persone per tutti. Ciò non avviene e così dal 14 gennaio per i due detenuti ricoverati in reparti diversi ci sono 16 agenti al giorno impegnati e se i ricoveri fossero 3, servirebbe un numero di agenti pari al 25% dell’intera forza lavoro. Questa è una situazione che va assolutamente risolta. Innanzitutto se il reparto per detenuti è stato messo su, è indispensabile che funzioni ed è una condizione che potremo già domani all’assessore regionale alla Sanità Verì. Questo eviterebbe che le forze lavorative a disposizione non siano ulteriormente ridotte, ma soprattutto garantirebbe la privacy dei detenuti. Ad oggi sono nelle stesse stanze degli altri malati e così capita che questi e i loro famigliari siano costretti ad imbattersi con agenti armati nei reparti. Ci chiediamo come questo sia possibile e non esiteremo ad andare a fondo, lo faremo affidando la situazione a una interpellanza parlamentare. Ci auguriamo inoltre che nel nuovo Pronto Soccorso in via di definizione, sempre per la privacy, venga sistemata una stanza di attesa per detenuto e scorta. Se la forza lavoro è un problema che dovrà essere risolto con il tempo, questi ed altri problemi organizzativi meritano di essere affrontati il prima possibile. L’esiguità del personale causa inoltre che solo in pochi possano partecipare alle attività formative come suola di formazione lavorativa e la noia è spesso causa di scontri sia tra detenuti e personale, sia tra detenuti stessi. Purtroppo il carcere di San Donato sconta anche il problema del sovraffollamento: oggi vi sono il doppio degli ospiti, fra cui una grande quantità di pazienti psichiatrici. Infatti, a fronte dei 7 posti assegnati per detenuti psichiatrici, ce ne sono altri 30, sistemati nei vari reparti e da notizie assunte permarrebbero nella casa circondariale anche detenuti psichiatrici che hanno scontato la propria pena per la mancanza di R.E.M.S. (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) istituite dopo la chiusura degli O.P.G. ospedali psichiatrici giudiziari. La mancanza di una camera di isolamento è un’altra problematica. Spesso si utilizza la parte riservata ai collaboratori di giustizia, ma se questa è occupata non se ne può fare utilizzo. Insomma gli episodi di autolesionismo, i materassi bruciati e i detenuti scappati sul tetto sono degli allarmi che non possono restare inascoltati e la sensazione è che spesso i problemi del carcere siano i meno attenzionati da tutte le Istituzioni. Per quel che riguarda il sovraffollamento le sezioni diventano polveriere in quanto oltre ai pochi spazi a disposizione dei ristretti, diventa difficile per l’operatore far fronte alla richieste quotidiane e pressanti degli stessi, da qui il malcontento che può sfociare in aggressioni, risse, tumulti, autolesionismo e proteste in generale. Per questo nei prossimi giorni come gruppi del centrosinistra in Regione, facendo seguito alla visita di questa mattina incontreremo i sindacati degli agenti penitenziari e articoleremo tutte le funzioni ispettive sia in Regione che in Parlamento”. Napoli. Cambio alla direzione del carcere di Poggioreale cronachedellacampania.it, 20 gennaio 2020 Dal 3 febbraio l’attuale direttrice del carcere di Poggioreale, Maria Luisa Palma sarà sostituita da Carlo Berdini, ex direttore a Sollicciano e attuale Direttore dell’Ufficio IV - Formazione Polizia Penitenziaria della Direzione Generale della Formazione. Il cambio del vertice del penitenziario napoletano viene definita una “mossa inutile” da Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria. “La grave situazione dell’Istituto di Poggioreale non troverà soluzione con questo cambio al vertice - scrive in una nota Di Giacomo - i problemi sono di altra natura ossia assenze di norme che vadano a contrastar il dilagante potere che le organizzazioni criminali stanno prendendo all’interno degli istituti di pena. Occorrerebbe una profonda revisione del sistema carcerario che renda dignitoso scontare la pena ai detenuti e dare dignità ai poliziotti penitenziari che vi lavorano, mettere al centro una reale rieducazione che consenta un reale rinserimento”. Firenze. Bonafede: “Parchi e ludoteche per i bambini di Sollicciano” La Repubblica, 20 gennaio 2020 I bambini presenti nel carcere fiorentino di Sollicciano insieme alle madri detenute avranno la possibilità di uscire dalla struttura detentiva accompagnati dagli operatori del “Telefono Azzurro” per frequentare parchi, giardini o ludoteche pubbliche. Lo prevede un progetto, finalmente esecutivo a partire dal prossimo mese, promosso insieme da ministero della giustizia. Amministrazione penitenziaria e Comune di Firenze, con la collaborazione essenziale di “Telefono Azzurro”. Il servizio, subordinato alla richiesta e alla conseguente autorizzazione da parte della madre del bambino interessato e rivolto anche ai minori in tenera età, sarà dunque disponibile a partire dai primi giorni di febbraio. I luoghi ricreativi verranno raggiunti dai bambini, insieme ai loro accompagnatori, utilizzando esclusivamente il trasporto pubblico. A tal proposito è stato richiesto un intervento al Garante comunale per le persone detenute affinché il Comune di Firenze consenta ai bambini e agli operatori del “Telefono Azzurro” di viaggiare gratuitamente. “Si tratta di un passo importante per risolvere una questione delicata e a cui è stata dedicata tutta l’attenzione possibile - spiega il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede -. Tutelare il percorso di crescita dei bambini è fondamentale”. Soddisfazione anche negli uffici del Comune, dove l’assessora Sara Funaro si è impegnata per la realizzazione di un progetto che ha definito “una priorità assoluta, affinché tutti i bambini, senza alcuna differenza, possano avere accesso a spazi educativi e ricreativi esterni a quelli del carcere. E i bambini di Sollicciano devono avere gli stessi diritti di quelli fuori”. Bisceglie (Bat). “Oltre la detenzione”, l’importanza dei percorsi formativi bisceglielive.it, 20 gennaio 2020 Lunedì 20 gennaio 2020, alle ore 18,00, a Bisceglie nel Palazzo Tupputi, in via Cardinale Dell’Olio n. 30, si svolgerà l’incontro conclusivo del corso organizzato da Agromnia Soc. Coop. per “Giardiniere (operatore per la realizzazione e la manutenzione di giardini)”. L’iniziativa nasce nell’ambito dell’Avviso 1/2017 - Linea 1 “Iniziativa sperimentale di inclusione sociale per persone in esecuzione penale.” Il Progetto finanziato dalla Regione Puglia - P.O.R. Puglia - Fesr - F.S.E. 2014 - 2020 - rilancia la collaborazione istituzionale tra Istituti penitenziari, Enti di formazione e terzo settore, fondamentale per l’efficacia dei percorsi di crescita personale e di reinserimento lavorativo e sociale della persona detenuta. Il corso di formazione è stato svolto in stretta collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale maschile di Trani con l’intento di creare continui momenti di osmosi, interazione e interrelazione con la comunità esterna al fine di ridurre quanto più possibile il fossato fra la società e la comunità della Casa Circondariale e per agevolare il ritorno dei detenuti alla loro vita sociale, civile e culturale. “I percorsi formativi sono essenziali per il recupero dei soggetti detenuti e una loro reintegrazione nel tessuto sociale - sostiene il dr. Mauro Guglielmi, agronomo di Agromnia”. Interverranno il dott. Antonio Montillo, rappresentante dell’Assessorato all’Istruzione, alla Formazione e al Lavoro della Regione Puglia. È previsto il saluto del sindaco di Bisceglie, Angelantonio Angarano, e di Roberta Rigante, Assessore alle Politiche Sociali dello stesso Comune. In rappresentanza del Comune di Trani interverrà Patrizia Cormio, Assessore alle Politiche Sociali. Giuseppe Altomare, direttore della Casa Circondariale maschile di Trani, spiegherà come è scaturita la comunione di intenti tra istituzione ed ente di formazione per offrire ai detenuti una concreta possibilità di riscatto. L’incontro sarà moderato da Lucia De Mari, giornalista de La Gazzetta del Mezzogiorno. L’ingresso è libero. Sarà possibile registrarsi a partire dalle ore 17.30. Napoli. Riccardo Muti al carcere minorile di Nisida, emozioni in musica Gazzetta del Mezzogiorno, 20 gennaio 2020 Tra i minori detenuti con orchestrali della Chicago Symphony. “Avevo detto ai nostri ospiti che questa è la città del sole ma ieri pioveva. Ho parlato con il Signore, spiegandogli che avrei fatto una brutta figura”. Ed è un angolo di paradiso Nisida, che ha accolto il maestro Riccardo Muti, accompagnato dai musicisti Jennifer Gunn, Charles Vernon e Gene Pokorny della sua Chicago Symphony orchestra, in visita ai ragazzi dell’Istituto penitenziario minorile napoletano. L’incontro ha preceduto di qualche ora il concerto del San Carlo, prima tappa italiana con la Chicago che dirige da dieci anni. “Volutamente ho portato qui gli strumenti estremi, il più piccolo e acuto e quello più grave, ‘o gruoss e ‘o piccirill”, scherza in napoletano il maestro presentando l’originale performance ai ragazzi raccolti sul Belvedere in una mattinata di sole. Si parte con ‘Oculus non vidit’ di Carlo Santino, per flauto, trombone e tuba, segue il Concerto in Do minore per due violini di Bach. Ad accogliere gli ospiti è stato il direttore Gianluca Guida. Roma. “Il teatro migliora la vita delle detenute”, la storia di PerAnanke di Laura Alteri ilcaffe.tv, 20 gennaio 2020 Confermati i finanziamenti regionali anche quest’anno all’associazione PerAnanke di Pomezia. L’associazione è attiva da 6 anni con progetti di teatro presso il carcere femminile di Rebibbia di Roma. Così con questi fondi, le compagnie “Donne del muro alto” (con le detenute di massima sicurezza) e “Più Voci” (con le detenute comuni), potranno proseguire le attività almeno fino a giugno 2020. “Per noi è importante la continuità dei nostri progetti che hanno scopo non solo ludico, ma soprattutto di reinserimento nella società - spiega a il Caffè la regista Francesca Tricarico, da anni impegnata con PerAnanke per progetti teatrali in carcere. Il teatro ha un effetto benefico su tutto l’ambiente carcerario: le detenute-attrici, spesso con problemi psichiatrici di instabilità emotiva e aggressività, migliorano la qualità della loro vita grazie alle attività che quotidianamente svolgiamo con loro. Il nostro impegno è legato all’intera compagnia, ma anche alla singola detenuta: le donne, attraverso un lavoro di introspezione, ascolto di sé, imparano a capirsi e a capire le altre donne. È evidente come, negli anni, sia migliorata la comunicazione tra le detenute e con gli agenti di polizia penitenziaria”. Il teatro diventa così valvola di sfogo, via di fuga e centro di ascolto per le detenute, che nelle 6 ore settimanali di corso, trovano ascolto e sostegno per il loro dolore, i problemi personali, i disagi quotidiani della vita da recluse. “Abbiamo un rapporto diretto e sincero con queste donne, riusciamo a cogliere sfumature che altrimenti sfuggirebbero. Lavoriamo costantemente anche con gli psicologi della struttura per confrontarci sui loro cambiamenti”. Quest’anno, in primavera, le donne di Rebibbia porteranno in scena la replica dello spettacolo “Ramona e Giulietta”, una rivisitazione del Romeo e Giulietta di Shakespeare, che racconta l’amore tra donne, all’interno e fuori dal carcere. “Una storia forte, un tema difficile che le detenute hanno voluto raccontare con fermezza. Con le ragazze stiamo anche lavorando su una scrittura drammaturgica ispirata alle opere di Pier Paolo Pasolini e Alda Merini, verrà fuori un lavoro originale e intenso”, conclude Francesca. Quella del teatro e di PerAnanke è una vera e propria storia di amore e comprensione che va oltre il muro di costrizioni e pregiudizi che troppo spesso si crea attorno alle donne detenute. Sguardo sulle imperfezioni del processo penale e sul perché dobbiamo continuare a difenderlo recensione di Luca Lupària sistemapenale.it, 20 gennaio 2020 “Prima lezione sulla giustizia penale”, di Glauco Giostra, Laterza, 2020. In un momento storico che troppo spesso costringe gli studiosi del processo a rincorrere l’ultima riforma dell’ultima maggioranza o a tentare di sistematizzare innesti normativi sempre più improvvisati, si sentiva davvero il bisogno di una boccata di ossigeno. Per chiamarsi fuori da quella che i comparatisti chiamano la “tirannia del dettaglio”, per alzare la testa dalle minute operazioni di micro-analisi legislativa occorrono infatti interventi dal lungo sguardo e dall’ampio orizzonte, capaci di rimettere al centro i valori che stanno sopra e dietro il rito celebrato nelle nostre aule di giustizia. Ad offrirci questo “bel respiro” in tempi di smog intellettuale è il pamphlet di Glauco Giostra, “Prima lezione sulla giustizia penale”, che si inserisce nel solco di un genere letterario - quello della riflessione rivolta a una pluralità di lettori - sovente sottovalutato. Per l’erronea convinzione che il giurista non debba uscire dal proprio studiolo dorato per dialogare con linguaggio semplice anche con i cittadini comuni e per una sorta di presunzione da “circolo di iniziati” che la nostra (come ogni) comunità scientifica ha sviluppato, si tendono a ritenere di minor pregio gli scritti che abbandonano il lessico specialistico e si cimentano in un’opera divulgativa. Niente di più fuorviante, a mio avviso: la tradizione anglo-americana, ma anche quella francese, mostra che il massimo dello stadio intellettivo e scientifico si manifesta proprio nella capacità di rendere piana e comprensibile una materia ontologicamente complessa e che l’abbassamento del grado di tecnicità può far guadagnare all’autore un angolo visuale più ampio e nitido. Non a caso scritti di siffatta natura, se vergati da studiosi autorevoli, ben si prestano ad un doppio livello di lettura, quello del cittadino comune (che prende coscienza di argomenti normalmente poco accessibili) e quello dell’esperto (che rinviene nuovi spunti e inedite prospettive in un’analisi condotta in maniera eccentrica rispetto agli standard tradizionali). Questa duplice fruibilità si apprezza pienamente nel libro di Giostra che ottiene il prezioso - e tutt’altro che scontato - risultato di far riflettere a fondo lo studioso e di avvicinare l’uomo comune alla filosofia del rito penale, cercando di colmare quel pericoloso e sempre più marcato distacco (l’autore parla ora di “disaffezione”, ora di “sfiducia”) tra collettività e giurisdizione che, alla lunga, rischia di trasformarsi in una ferita dura da rimarginare per il tessuto della nostra democrazia. In queste poche righe non si potranno ripercorrere i numerosi itinerari ermeneutici seguiti nel volume (peraltro già ben commentati in anteprima da Luigi Ferrarella: Il ponte fragile del diritto, in Corriere della Sera, 9 gennaio 2020, p. 36) che riescono a lambire quasi tutti i pilastri della disciplina del processo italiano, dal suo volto costituzionale all’architettura codicistica, dagli statuti epistemici ai canoni di dimensione etica, sino ad arrivare a tematiche di elezione dello studioso, come quelle dei rapporti tra media e accertamento penale (i condizionamenti, le deformazioni, il fenomeno della “giustizia percepita”) e dei delicati bilanciamenti tra diritto di cronaca, garanzie di riservatezza e fini ineludibili dell’inchiesta penale. Più modestamente, desidero svolgere qualche breve considerazione sul messaggio di fondo di questa “prima lezione” e sulla cifra culturale che anima i capitoli dell’Opera. Ebbene, non sfuggirà come, nel titolo, l’autore abbia voluto sostituire alla locuzione “processo penale”, che gli sarebbe stata più congeniale, quella, altrimenti evocativa, di “giustizia penale”. Non si tratta di una scelta meramente estetica o linguistica, ma il precipitato della sua precisa volontà di osservare il fenomeno processuale e le sue regole in un’ottica originale. Il cuore del ragionamento di Giostra non è infatti, come ci si potrebbe aspettare, rivolto in prima battuta al rito penale in senso stretto. Per carità, la disciplina codicistica è comunque tratteggiata magistralmente e in maniera completa rispetto alle finalità del volume, ma il vero interesse dell’autore sembra diretto ad altro: alla complessiva prospettiva valoriale che avvolge (o dovrebbe avvolgere) la regolamentazione di ogni atto del processus e, soprattutto, alla dimensione umana - anzi troppo umana - del rituale giudiziario. In merito a questo secondo aspetto, nelle pagine del saggio non troviamo elogi circa le potenzialità della liturgia giudiziale, necessaria in qualsiasi società, quanto piuttosto una piena confessione sulle imperfezioni e sui limiti del giudicare. È come se nei vari passaggi del libro intravvedessimo in controluce le debolezze degli attori della giustizia penale, a partire da un giudice non ammantato di certezze granitiche, ma tormentato dai dubbi tipici di chi si muove nel crepuscolo della probabilità più che nella luce meridiana di una verità solare irraggiungibile. Un giudice che rischia, suo malgrado, di cadere in fallacie logiche, che può essere condizionato da convinzioni personali o stereotipi e che potrebbe addirittura assumere decisioni diverse a seconda del pasto consumato. Ci sembra poi di osservare i testimoni, non già come portatori di percezioni affidabili, ma quali dichiaranti dalla memoria contaminabile e sdrucciolevole, magari oggetto di una subornazione mediatica “che li induce a rielaborare inconsapevolmente i loro ricordi alla luce degli input provenienti dai media”. In qualche misura si stagliano, in questo affresco nascosto tra le pieghe della trattazione, anche l’imputato e la vittima che, ai nostri occhi, appaiono “piccoli” e - seppure diversamente - “indifesi” rispetto ad un meccanismo troppo più grande di loro, connotato da un innato, insopprimibile disequilibrio tra individuo e autorità. Siamo allora in presenza di uno sguardo radicalmente pessimista o eccessivamente disincantato? Tutto il contrario. Esattamente partendo dalla fragilità del giudizio “dell’uomo sull’uomo” e dalle limitatezze che ci consegna la parabola storica del rito criminale Giostra fonda il suo discorso sulla giurisdizione penale. Un discorso lucidamente ottimista e strenuamente teso alla difesa del migliore strumento che conosciamo (e non sarà l’evoluzione tecnologica a farci cambiare idea…) per accertare la responsabilità dei nostri simili, di gran lunga preferibile alle drammatiche esperienze “che troppo spesso, a tutte le latitudini della storia e della geografia, prendono abusivamente il nome di giustizia”. È proprio perché giudicare appare sostanzialmente “un compito al di sopra delle nostre possibilità” che le norme del processo devono trasudare di etica e di civiltà, di autolimitazione da parte del Leviatano che ogni Stato nasconde in sé e di valori condivisi da un popolo. Un popolo che, solo se conoscerà (e condividerà) il modo attraverso cui si rende giustizia nelle aule d’udienza, sarà incline a considerare legittime le decisioni del giudice. Già, il giudice. Proprio intorno al suo ruolo e al suo statuto, ad avviso di Giostra (e come dargli torto), si misura molto della tenuta democratica e della legittimazione del processo penale: l’indipendenza della Magistratura, la sua imparzialità - accompagnata dal ripudio di commistioni politiche e di protagonismi che la allontanano “dall’alveo semantico tracciato dalla legge” - costituisce la gemma più preziosa nel forziere della giurisdizione penale. Il volume mira ad essere una “prima lezione” idealmente rivolta a un giovane che comincia ad affacciarsi alla procedura penale. Ecco, se questi sarà consapevole che il processo assomiglia maggiormente a un malfermo “ponte tibetano” piuttosto che ad un edificio di ferro armato, se comprenderà che le regole processuali, per quanto sempre perfettibili, rappresentano il diretto corollario e l’irrinunciabile baluardo delle garanzie soggettive e dei canoni epistemologici della nostra società, solo allora potrà proficuamente iniziare a studiare commi e capoversi. Per dirla con l’autore e parafrasando un famoso aforisma, “se per comprendere la giustizia penale bastasse conoscere gli articoli del codice (…) essere stupidi non sarebbe necessario ma aiuterebbe molto”. Abbiamo bisogno, per il futuro del nostro Paese, di donne e uomini pienamente edotti di quali cruciali valori entrano in gioco nell’applicazione della giustizia penale, perché, all’occorrenza, siano pronti a difendere i capisaldi della nostra civiltà processuale dagli attacchi che ciclicamente la storia ci consegna. “For Sama”: nascere, vivere e fuggire dalla Siria, con una profuga neonata di Marta Serafini Corriere della Sera, 20 gennaio 2020 Esce in Italia il 13 febbraio il documentario di Waad al-Kateab candidato agli Oscar. Lei, con la figlia e il marito, adesso vive a Londra e racconta: “Ho girato tutto questo perché voglio che Sama un giorno possa rivederlo”. “Sama, ti ricordi di Aleppo? Mi biasimerai per non averti portato via subito? O mi darai la colpa per essere venuta via?”. Sama sta giocando in cucina a Londra. A 4 mila chilometri da lei settimana scorsa sono morti 8 bambini in un raid ordinato dal presidente siriano Bashar Assad. Sama non si ricorda di Aleppo. È venuta via la notte del 21 dicembre 2016, in automobile, mentre faceva freddo ed aveva la febbre. E ora la casa, dove ha camminato e sorriso per la prima volta, non c’è più. “Ho iniziato a filmare e documentare proprio perché volevo che mia figlia un giorno avesse la possibilità di rivedere tutto questo”. Quando scoppia la rivoluzione in Siria, nel 2012, Waad al-Kateab ha 18 anni. Studia marketing alla Aleppo University. Incontra un giovane medico di nome Hamza. Gioia, rabbia, amore, paura e odio. Manifestano insieme, si innamorano, fanno politica, anche quando il regime ricorre alla violenza per soffocare le rivolte, gettando la città nel baratro della guerra. Alcuni dei loro amici muoiono e loro stessi sfuggono per un soffio ai cecchini, agli attacchi aerei e alle bombe. Ma Waad non smette mai di riprendere. Con la macchina fotografica, con il cellulare. Poi, nel mezzo di tutto ciò, Hamza chiede a Waad di sposarlo. E mentre i barrrel bomb, i barili bomba imbottiti di chiodi ed esplosivo, cadono sulla città, il 1° gennaio 2016 nasce Sama. Avanti veloce di quattro anni, la storia di quei ragazzi e di quella bambina è diventata un documentario :- For Sama - distribuito da Wanted Cinema, già presentato a Cannes e proiettato alle Nazioni Unite. E che il 13 febbraio esce in Italia con il patrocinio di Amnesty International e la voce di Jasmine Trinca. For Sama è la lettera di una madre a una figlia, una ninnananna, la stessa che canta alla piccola per distrarla dalle bombe. Perché ha deciso di renderla pubblica? “Ho iniziato a raccontare la mia storia senza un piano, filmando le proteste in Siria sul mio cellulare, come facevano tanti altri attivisti. Fin dall’inizio ho capito che ero più affascinata dal catturare storie di vita e umanità, piuttosto che concentrarmi sulla morte e la distruzione. E da donna, pur vivendo in una parte molto conservatrice di Aleppo, sono stata in grado di accedere alle esperienze di donne e bambini, tradizionalmente vietate agli uomini. Questo mi ha permesso di mostrare la realtà invisibile dei siriani”. Quando è nata Sama aveva già iniziato a documentare gli orrori di Aleppo per Channel 4. I suoi reportage sul conflitto in Siria hanno ricevuto quasi mezzo miliardo di visualizzazioni e hanno vinto 24 premi - incluso l’Emmy Award nel 2016... “Quando siamo riusciti a venire a Londra nel 2016, a Channel 4 mi hanno accolto come in una famiglia. Mi sono messa a lavorare con Edward (Watts, coregista del documentario, ndr) e guardando tutto quel materiale - erano più di 500 ore di girato - è nata l’idea del documentario. L’obiettivo, oltre a raccontare a Sama della sua infanzia, è di tenere accesa la luce sulla Siria”. In queste ore in Siria è in corso un’altra sanguinosa battaglia, quella di Idlib, l’ultimo bastione dell’opposizione, che Assad sta cercando di espugnare con il sostegno di Mosca. Perché ne parliamo così poco? “Non riesco a capacitarmi di questo buio. Ma la speranza - proprio come accaduto per la guerra in Vietnam - è che le immagini possano fermare il sangue. For Sama vuole anche essere un appello all’impegno: conoscere è una forma di resistenza ai regimi. Non so se sia il termine giusto ma non mi sento solo una regista, ogni tanto penso a me come ad un’influencer delle ingiustizie”. Parte degli oppositori sono passati con le milizie jihadiste e hanno commesso crimini di guerra. Come vive questa contraddizione? “Non condivo quella scelta ovviamente. Ma troppe persone in Siria hanno visto talmente tanto orrore da non poter sopportarlo. E allora hanno deciso di usare gli stessi metodi. Io sono stata fortunata. Ma chi può dire cosa avrei fatto se qualcuno avesse ammazzato Sama o Hamza... Inoltre ci sono tante persone che sono rimaste buone nonostante tutto. Ed è a loro che va il nostro supporto”. Lei e la sua famiglia avete ottenuto asilo politico in Gran Bretagna. Come ci siete riusciti? “Grazie al mio lavoro per Channel 4, dopo un anno che eravamo in Turchia, ho ricevuto il visto. Così a maggio 2018 siamo arrivati all’aeroporto di Heathrow e abbiamo richiesto asilo lì. La mia seconda figlia Taima, che all’epoca aveva quasi un anno, non aveva documenti. Ho chiesto aiuto all’ambasciata siriana, ma non ci hanno aiutato perché Hamza era ricercato dal regime. Così ho lasciato Taima in Turchia per cinque mesi fino a quando non ci è stato concesso l’asilo e abbiamo potuto portarla in Gran Bretagna”. Sperate di tornare in Siria, un giorno? “Ovviamente. Non solo perché significherebbe rivedere la casa dove sono nata. Mi piacerebbe portare le bambine nel mio giardino, far sentire loro il profumo delle rose”. Siete arrivati a Londra in un momento particolare, proprio in questi giorni la Gran Bretagna si sta organizzando per uscire dall’Europa. Com’è la vostra vita ora? “Tutti sono stati molto gentili. Dopo che i miei vicini hanno visto il film, mi hanno lasciato una montagna di biglietti davanti alla porta. Ho ottenuto una borsa di studio universitaria per un master in comunicazione. Hamza sta lavorando per una società che fornisce servizi bancari nelle aree di conflitto e quest’anno inizia un master in medicina. Arrivati qui Sama ha avuto parecchi incubi, la guerra deve averla sicuramente traumatizzata. Ma ora sta molto meglio. Entrambe le bambine parlano l’inglese con l’accento britannico e vivono come due bambine inglesi. Ma non abbiamo mai smesso di rivolgerci a loro in arabo. Non vogliamo che dimentichi. Non vogliamo che nessuno di noi lo faccia”. Oxfam, le diseguaglianze si accentuano. Duemila Paperoni più ricchi di 4,6 miliardi di persone di Barbara Ardù La Repubblica, 20 gennaio 2020 In Italia l’1% più ricco detiene quanto il 70% della popolazione. A pagare il prezzo più alto sono donne e giovani. Oltre il 30% dei ragazzi guadagna oggi meno di 800 euro lordi al mese mentre il 23% degli under 29 versa in condizioni di povertà lavorativa. Crescono gli abbandoni scolastici: peggio di noi solo Spagna e Romania. Jeff Bezos, patron di Amazon, nel 2018 perse per un po’ lo scettro di uomo più ricco del mondo, riconquistandolo poco dopo. Tutto riconducibile a un sali e scendi delle azioni in Borsa. Se non fosse per questa variabile, prontamente registrata dai media, il quadro delle diseguaglianze di ricchezza e reddito nel mondo non è che sia cambiato di molto da un anno all’altro, anzi forse è peggiorato e peggiora per le nuove generazioni. Ce lo ricorda puntuale come ogni anno Oxfam alla vigilia del meeting annuale del World economic Forum a Davos dove si incontreranno a giorni gli uomini più ricchi o più potenti del pianeta. Un antidoto, quello di Oxfam, al rischio di una assuefazione di massa alle diseguaglianze. E sì perché a scorrere i numeri i Paperoni di Forbes son sempre lì. In 2153, forti di un patrimonio di 2.019 miliardi (dati di metà 2019), vantano una ricchezza superiore a quella complessiva di 4,6 miliardi di persone, circa il 60% della popolazione mondiale. Una ricchezza quindi tutta concentrata al vertice della piramide sociale. Un esempio? Tutte le donne del continente africano messe insieme, hanno più o meno la ricchezza dei 22 uomini più ricchi del mondo. Numeri spaziali. E sì perché se il patrimonio di una delle persone più ricche del mondo fosse impilato con banconote da 100 dollari bucherebbe lo spazio suborbitale terrestre, superando i cento chilometri d’altezza. Immagini forti che tali rimangono perché negli ultimi tre decenni la crescita economica su scala globale che pur c’è stata, non ha avuto affatto un carattere inclusivo. Reddito e ricchezza salivano, ma si fermavano al top della piramide. Non solo. Appena il 4% degli introiti fiscali deriva da forme di tassazione della ricchezza. Ben diversa da quella sul reddito. È un po’ pochino. Certo le cose cambiano da Paese a Paese, ma che la redistribuzione sia lontana da un livello equo è evidente. E in Italia? Esistono e persistono diseguaglianze. Ecco i dati. A metà 2019 la quota di ricchezza in possesso dell’1% più ricco superava la quota di ricchezza complessiva detenuta dal 70% degli italiani più poveri sotto il profilo patrimoniale. Ricchi e poveri. Ma ciò che colpisce è che nell’ultimo ventennio la ricchezza dei più facoltosi è salita del 7,6%, quella del 50% dei più poveri si è ridotta del 36,6%. Una redistribuzione al contrario. E non è che in fatto di reddito le cose stiano diversamente. D’altra parte le retribuzioni in media son tutt’altro che salite (anche se non tutte). Tant’è che nel 2018 l’indice di Gini, che misura le diseguaglianze, collocava l’Italia al 23° posto nella Ue a 28. Paese ineguale insomma. E a pagare queste nuove diseguaglianze, questo ci mostra Oxfam ma in parte lo vediamo tutti i giorni, sono le nuove generazioni. E le donne. Più povere in fatto di ricchezza, retribuzioni e pensioni. Perché? Perché l’Italia è caratterizzata da una persistenza delle condizioni economiche da una generazione a quella successiva. Un Paese immobile, anche sotto il profilo patrimoniale. Come dire che l’ascensore sociale è rotto. E per ora non è in riparazione. Il figlio di un dirigente ha un reddito annuo superiore del 17% rispetto a quello percepito dal figlio di un impiegato anche se hanno avuto gli stessi percorsi formativi. Sempre che a scuola e all’università quest’ultimo ci arrivi, perché il fenomeno degli abbandoni scolastici è in crescita da due anni dopo un decennio di discesa. Peggio di noi in Europa fanno solo Spagna, Malta e Romania. “Siamo indietro rispetto all’Europa - sostiene Elisa Paciotti, direttrice campagne Oxfam Italia- le famiglie a basso reddito in Italia non possono supportare e sostenere un figlio nel percorso scolastico soprattutto quando si presenta un intoppo, un problema. Non ci sono supporti scolastici pubblici capaci di occuparsene sostenendo le famiglie. Ecco perché l’abbandono scolastico è così alto e perché abbiamo un così alto numero di giovani che non studiano e non lavorano. O se lavorano, e questo è un altro problema, lavorano per una paga risibile e meditano di partire in cerca di un futuro migliore. Oltre il 30% dei giovani occupati guadagna meno di 800 euro al mese mentre il 13% degli under 29 versa in condizioni di povertà lavorativa”. Poi ci si stupisce che il tasso di natalità in Italia sia così basso. Manca la legge sul fine vita ma negli ospedali è realtà di Claudia Guasco Il Messaggero, 20 gennaio 2020 L’annuncio del portiere di calcio pugliese Giovanni Custodero, morto a 27 anni, è arrivato come un fulmine: “Domani mi faccio addormentare”. E detta così, fa notare Italo Penco, presidente della Società italiana cure palliative, sembra la decisione improvvisa “presa da una persona lucida, mentre il giovane era malato di sarcoma e pativa dolori che non riusciva più a sopportare”. La sedazione profonda è solo una parte del percorso di cure palliative ed è “una pratica necessaria quando non ci sono altre possibilità”, ma non centra nulla con l’eutanasia: “Non è un atto che provoca la morte, ma la somministrazione di farmaci che consentono al paziente di perdere coscienza del dolore”. È l’altra strada del fine vita, un percorso che compiono sempre più persone: in Italia i malati terminali sono ogni anno 400-500 mila, numero in progresso per effetto della crescita delle demenze senili. Già nel 2017 l’Organizzazione mondiale della sanità sottolineava come “la necessità di cure palliative non è mai stata così grande, in relazione all’invecchiamento della popolazione e all’aumento delle malattie croniche e degenerative”. C’è una legge, la 38 del 2010, che ne fissa le regole eppure ben due cittadini su tre la ignora e gli hospice sono ancora pochi, circa 230. Obiettivo di queste cure - il cui nome deriva dal latino pallium, mantello che scalda e protegge - è cancellare la sofferenza e dare dignità alla morte. “La sedazione profonda è una procedura che può essere messa in atto su persone che hanno una malattia in fase terminale, laddove vi sia un sintomo refrattario a tutti gli altri trattamenti di tipo palliativo”, spiega Luigi Riccioni, anestesista e responsabile del comitato etico del Siaarti. Non aiuta solo chi soffre dolori intollerabili, “ma anche chi patisce per altri sintomi, come ad esempio la fame d’aria”. E “non è finalizzata ad abbreviare la vita, anzi spesso la sedazione profonda non solo non determina la morte, ma anzi prolunga la vita di qualche opera o qualche giorno”. Non è un’iniezione letale, sottolinea Riccioni, eppure “alcuni medici mostrano ancora alcuni timori a ricorrervi, perché viene praticata con farmaci che solo gli anestesisti sono abituati a utilizzare e c’è la paura che possa essere confusa con l’eutanasia”. Prima dell’entrata in vigore della legge 219/2017 sul biotestamento, non tutti i medici erano convinti della possibilità di operare la sedazione profonda. Con questa norma è stata data la possibilità al malato di rifiutare o sospendere qualsiasi terapia, comprese quelle che possono salvargli la vita. Ma spesso la morte, con il rifiuto dei trattamenti, è lenta e dolorosa e qui interviene l’addormentamento. Con le disposizioni anticipate di trattamento (Dat), ogni persona maggiorenne e capace di intendere e volere può consegnare ai medici un foglio nel quale indica gli interventi che, in futuro, intende accettare o rifiutare in caso di malattia irreversibile. Con sentenza 242/2019 la Corte costituzionale, pronunciandosi sul caso di Marco Cappato che ha aiutato Dj Fabo a morire in Svizzera, ha riconosciuto anche il diritto al suicidio medicalmente assistito per malati in piena lucidità, con patologia irreversibile, insopportabili sofferenze fisiche o psichiche e tenuti in vita da macchine. Ma una legge, nonostante le sollecitazioni dei magistrati, non c’è ancora. Stati Uniti. Il nonno si fa una canna: è boom di marijuana terapeutica tra gli anziani di Anna Volpicelli L’Espresso, 20 gennaio 2020 Cliniche specializzate, club di pensionati-consumatori e ricerche sugli effetti curativi nelle malattie senili. La nuova frontiera dell’erba negli Stati Uniti sono gli over 65. Che in questo modo combattono dolori di ogni tipo. Più di un milione e mezzo di over 65, negli Stati Uniti, hanno fatto uso di marijuana nell’ultimo anno. Ed è un fenomeno in crescita progressiva, come documenta un recente studio della New York University. Non è così strano: gli effetti terapeutici dei cannabinoidi sono ormai evidenti per una grande quantità di patologie tipiche proprie della terza età, dalla lombosciatalgia al glaucoma, dalle alterazioni del sonno all’artrite, dal Parkinson alla demenza - e molto altro. È quindi ancora meno strano che, con l’invecchiamento della popolazione in Occidente, il rapporto prevalente con la marijuana stia cambiando: non più “droga trasgressiva” dei ragazzi ma strumento di miglioramento della qualità della vita degli anziani, quindi da incentivare o quanto meno accettare. Di qui i cambiamenti anche nelle legislazioni: dagli Stati americani in cui la marijuana è stata legalizzata (ormai una ventina, tra uso ricreativo e terapeutico) fino al nostro Paese, dove prosperano i negozi di erba light e poche settimane fa la Cassazione ha depenalizzato la coltivazione in casa o in giardino per uso personale. Laguna Woods è una soleggiata località della contea di Orange, in California, dove da decenni si trasferiscono, una volta pensionati, molti anziani americani di ceto medio e medioalto. Non a caso questa è stata la prima città americana - nel 2008 - a offrire marijuana medica e qui è nato anche il Laguna Woods Medical Cannabis Club, un’associazione fondata da Lonnie Painter, 74 anni, pensionato ed esperto del settore “spinelli per anziani”. Pizzetto bianco e camicie aperte sul petto, Painter rivendica il suo lungo attivismo a favore della diffusione della marijuana per i “senior citizens”, obiettivo per il quale ha coinvolto anche medici, botanici e biologi. “Come collettivo abbiamo cominciato a offrire ai nostri membri Cbd, la parte più pura della pianta, già sette anni fa. Oggi posso dire di aver lavorato con centinaia e centinaia di anziani”, spiega Painter, specificando che “il nostro iscritto più vecchio ha 103 anni” e l’ingresso nel collettivo è riservato a chi ne ha compiuti almeno 55. “Io la uso da quando ne avevo più o meno sessanta e ho cominciato a studiarne scientificamente gli effetti nel 2010”, continua. “Quando sei vecchio, la cannabis ti può aiutare in molti modi. Io per esempio soffro di osteoporosi e artrite. Ho avuto anche un’operazione a una mano e grazie alla marijuana medica non ho mai avuto dolori. E, soprattutto, la mia condizione generale è ottima per la mia età”. Ogni mese Lonnie organizza per il suo club una conferenza dove vengono invitati a parlare diversi dottori, scienziati ed esperti del settore che affrontano tematiche specifiche relative ai trattamenti a base di marijuana specifici per gli anziani. Il presidente del Lw Medical Cannabis Collective considera la sua una missione sociale non così diversa da quando tanti anni fa, proprietario di un bar a Laguna Beach, assumeva senzatetto e disperati per insegnare loro un mestiere. Quello che però Painter dice di temere, adesso, è l’eccessivo successo industriale della cannabis, che sta portando sul mercato “prodotti di varie marche sui cui ingredienti noi non abbiamo alcun controllo”, mentre finora i suoi anziani hanno “sempre consumato la marijuana locale, da noi coltivata e testata”, insomma roba buona. Dopo l’approvazione della Proposition 64, conosciuta come The Adult Use of Marijuana Act, che in California ha legalizzato l’erba, molte compagnie farmaceutiche ne stanno sperimentando l’utilizzo per prodotti riservati agli anziani, di cui Painter tuttavia diffida. Il fatto è che la marijuana può aiutare i vecchi, è vero, ma non è un gioco: “Per chi ha più di 60 anni e vuole consumare cannabinoidi è fondamentale rivolgersi a persone specializzate”, ci dice Eloise Theisen, oncologa e cofondatrice di Radical Health, studio medico specializzato nella terapia a base di marijuana con sede a Walnut Creek, sempre in California. “Ci sono sempre tanti fattori di rischio da considerare negli anziani, in particolar modo l’interazione con gli altri farmaci che i senior spesso devono prendere”. Anche la dottoressa Theisen ormai è un’esperta: in sei anni - dal lancio della sua clinica - ha lavorato con circa 6.000 pazienti con un’età media di 75 anni. “Di solito”, spiega, “la terapia a base di marijuana è un po’ l’ultima spiaggia a cui i malati si rivolgono. Cercano la cannabis dopo aver sperimentato varie cure contro il dolore, l’insonnia e l’ansia o per alleviare alcuni sintomi legati al Parkinson e all’Alzheimer”. In molti casi, assicura la dottoressa, il tremore e la rigidità fisica di chi ha il Parkinson diminuiscono con una buona terapia a base di cannabinoidi mentre “per quanto riguarda l’Alzheimer il problema è il dosaggio: ogni corpo risponde in modo diverso in base ai geni, al genere e all’interazione con altre medicine assunte regolarmente. Gli uomini, per esempio, reagiscono in modo più veloce rispetto alle donne. La buona notizia comunque è che quasi sempre bastano due milligrammi per stare meglio e fra gli effetti più immediati vediamo una migliore gestione dell’ansia, dell’agitazione e il miglioramento della comunicazione con i familiari”. Intanto i programmi terapeutici per anziani a base di cannabis medica destinati ad anziani si diffondono in diverse città americane e non solo in California, dalla costa est al Colorado. Con le relative statistiche: l’American Academy of Neurology per esempio ha condotto uno studio su 204 pazienti attorno agli 80 anni di età iscritti al programma di cannabis medica di New York e ha riscontrato che dopo 4 mesi di assunzione di gocce di THC e CBD il 69 per cento dei partecipanti ha dichiarato la diminuzione o sparizione dei loro dolori, il 49 per cento ha detto di dormire meglio, il 18 per cento non dava più alcun segno di problemi neurologici e il 15 per cento ha dichiarato di non soffrire più di attacchi d’ansia. Un altro recente paradiso della marijuana per anziani è Israele, dove la Ben Gurion University ha appena pubblicato uno studio secondo il quale l’uso terapeutico della cannabis può essere molto più sicuro ed efficace nelle cure per un’ampia gamma di sintomi cronici legati a varie malattie neurologiche nei pazienti più anziani. Inoltre, può ridurre in modo drastico l’uso di altri farmaci, fra cui gli antidolorifici. Proprio in Israele tre anni fa è stata fondata NiaMedic, una clinica che fornisce terapie basate sulla marijuana per la cura esclusiva di anziani, con un “approccio olistico”, come ci dice Alon Blatt, direttore dello sviluppo del business della clinica. Ai vertici della quale c’è la cofondatrice Inbal Sikorin, che si è avvicinata alla cannabis terapia lavorando con gli anziani di un kibbutz dove era a capo del reparto di infermeria, per poi avviare una ricerca sull’effetto della marijuana medica sulla demenza senile e i vari disturbi che affliggono le persone anziane. Così è nata la prima clinica NiaMedic in Israele e un anno dopo ha fatto seguito l’apertura di due filiali negli Stati Uniti, una in California, a Beverly Hills e una in Orange County, a Laguna Hills. “Il nostro obiettivo è quello di integrare la terapia a base di marijuana all’interno di una cura più completa, che include anche metodi classici”, spiegano i responsabili. “Abbiamo anche un team di farmacisti che studiano l’interazione fra le medicine tradizionali e la marijuana. Così la somministrazione varia da paziente a paziente, ma ciò che accomuna ogni programma è il micro-dosaggio, fondamentale per comprendere come rispondono alla cura i ricettori presenti nel sistema endocannabinoide, uno dei più importanti per lo sviluppo e mantenimento dell’omeostasi nel nostro organismo. Noi cominciamo sempre con una dose di dieci milligrammi che poi viene a mano a mano aumentata in base alla risposta dei pazienti”. Più rare ma non dissimili sono le sperimentazioni in Europa: a Ginevra per esempio c’è una casa di riposo che da due anni somministra olio di marijuana agli anziani, sulla base di un programma dell’Ufficio Federale di Sanità Pubblica in collaborazione con gli Ospedali Universitari della città elvetica. E in Italia? Per adesso non esiste nulla di simile, anche per la legislazione più severa. Un pugno di farmaci a base di marijuana può essere acquistato in farmacia con ricetta medica, come l’Fm2, basato sull’erba coltivata dallo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze: è consigliata per la terapia del dolore in caso di sclerosi multipla, lesione del midollo spinale o per placare i sintomi dovuti a chemioterapia, radioterapia o terapie per Hiv, come il vomito e la nausea. Finora tuttavia la diffusione in Italia di questo farmaco e di altri simili è stata ridotta, anche perché pochissimi medici li prescrivono (c’è ancora un forte ostacolo culturale, nel nostro Paese) e non tutte le Regioni li rimborsano. In compenso crescono i clienti over 60 nei negozi di marijuana light (scarsi gli effetti terapeutici, ma aiuta a rilassarsi, a fugare le ansie e a prendere sonno). Ed è presumibile, dopo la sentenza della Cassazione, che sui balconi dei bilocali dei pensionati, accanto ai gerani d’ordinanza, inizino presto a vedersi anche delle belle foglie verdi a punta con inflorescenze appena più chiare, il cui profumo avvolgerà serenamente tutto il cortile. Libia. C’è l’accordo: tregua e stop alle armi. Haftar cede sulla commissione militare di Francesca Sforza La Stampa, 20 gennaio 2020 A Berlino siglata l’intesa politica. Un comitato intralibico monitorerà il cessate il fuoco. Resta il nodo degli Emirati. La Conferenza di Berlino sulla Libia si è conclusa sotto il segno di un accordo, ma saranno le prossime 48 ore a mettere il sigillo sulla sua effettiva riuscita. Nel momento stesso in cui sul terreno si riprenderà con la violenza e con i morti, l’impegno della diplomazia internazionale potrà dirsi ricondotto al punto di partenza. Allo stesso tempo bisogna riconoscere alla cancelliera Angela Merkel e al segretario gnerale dell’Onu Antonio Guterres, sostenuto dal suo inviato speciale per la Libia Ghassam Salameh, di essere riusciti nell’impresa non facile di tenere insieme per quattro ore tutti i maggiori player dello scacchiere libico e di ottenere da ciascuno di loro un impegno a tener fede al cessate il fuoco. Un risultato acquisito con fatica: mesi di lavoro da parte delle diplomazie coinvolte durante le sessioni preparatorie; messa a punto di un documento che riuscisse a tenere l’equilibrio tra i diversi interessi in campo; discussione fino all’ultima parentesi quadra nella giornata che ha preceduto la Conferenza; approvazione del documento da parte dei partecipanti; spola della cancelliera Angela Merkel dalla stanza dove si trovava il premier di Tripoli Al Sarraj a quella del generale Haftar per comunicare loro i contenuti del documento definitivo (pare che si sia utilizzata una procedura di comunicazione con auricolari perché Haftar si sarebbe collegato dall’albergo rifiutandosi di andare in Cancelleria per non incontrare Sarraj), infine la dichiarazione conclusiva della cancelliera e del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, in presenza anche dell’inviato delle Nazioni Unite in Libia Ghassam Salameh e il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas. La commissione militare - Il punto fondamentale della Conferenza di Berlino ai fini di una tregua duratura è la creazione di una commissione militare intralibica “5+5”, composta cioè da cinque membri nominati da Al Sarraj e cinque da Haftar, che secondo il piano di azione Unsmil, avrà il compito di monitorare il cessate il fuoco e stabilire la linea degli schieramenti. Fino a oggi il generale Haftar si era sempre rifiutato di offrire la sua partecipazione al formato, e anche se è vero, come ha detto Merkel, che “le divergenze fra i due leader libici sono numerose e non si parlano fra loro, il grande progresso è che hanno capito che si devono comportare in modo costruttivo”. Il comitato militare si riunirà a Ginevra il 27 gennaio, con l’obiettivo, ha dichiarato Guterres “di risolvere la crisi in Libia”, perché solo un meccanismo di monitoraggio costituito in accordo con le parti in conflitto può essere garanzia di successo nel tempo. Non si è parlato invece di sanzioni per chi viola l’embargo delle armi perché, stando a fonti qualificate, non è sembrato opportuno, in questa fase, forzare la mano ai diversi partecipanti su un tema che, come ha detto la Cancelliera, “sarà affrontato nel caso in cui la tregua sarà violata”. Sia la Turchia che la Russia hanno avuto un atteggiamento costruttivo mostrandosi disponibili ad accogliere i punti del documento finale, chiedendo in cambio che fosse riconosciuto il loro ruolo nel negoziato e, in particolare, nell’ottenimento di una tregua di fatto dopo il vertice di Mosca di una settimana fa. Più intransigente è sembrato invece l’atteggiamento degli Emirati, fermi nel condannare l’ingerenza della Turchia e allarmati dell’intesa russo-turca (dunque non favorevoli a tributare troppi riconoscimenti all’azione di Mosca e Ankara). Anche il segretario di Stato Usa Mike Pompeo ha ritenuto di dover intervenire con il ministro degli Esteri emiratino per ribadire la necessità di un cessate il fuoco duraturo. L’Europa più unita - Per quanto riguarda gli europei, se il presidente francese Macron ha lasciato Berlino subito dopo la fine dei lavori dichiarando soltanto che “deve finire immediatamente la presenza di combattenti stranieri”, il premier britannico Boris Johnson si è detto disponibile a inviare “persone ed esperti” per garantire il rispetto del cessate il fuoco. Angela Merkel, a chi le chiedeva se l’Europa questa volta è stata capace di parlare con un’unica voce, non ha rinunciato al suo consueto pragmatismo: “Non sempre gli europei hanno parlato con una voce sola, ma c’è stata la disponibilità a farlo, sia del presidente francese, sia del premier italiano e sia di Boris Johnson. Per quello che io ricordo - ha aggiunto - lo stato del dialogo è molto migliore di due o tre anni fa”. Libano. Dentro la battaglia che incendia Beirut di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 20 gennaio 2020 Sono sempre più violenti gli scontri che vanno avanti da ottobre. È iniziato tutto dalle tasse, ma la crisi è politica: “Siamo stanchi di partiti settari e confessionali, vogliamo una società laica”. Lo chiamano “lo sciopero delle tasse”. L’aumento del costo della vita, l’economia in ginocchio e l’inflazione alimentano le proteste. “Non se ne può più. I prezzi folli non risparmiano nulla e nessuno. Persino la Nutella è alla stelle. Nelle ultime tre settimane il costo di un barattolo è passato da 7 mila lire libanesi a 13. Neppure i bambini possono più godersi la vita come prima”, ironizzano i manifestanti in Piazza dei Martiri, il centro storico della Beirut ricostruita dopo gli orrori della guerra civile dal 1975 al 1990. La crisi è politica. Ma le sue origini sono economiche. Il Libano in ginocchio guarda sempre più preoccupato alle manifestazioni che bloccano le sue strade dal 14 ottobre scorso. Quasi 400 feriti solo sabato nel cuore della capitale, 114 ieri, di cui 47 in ospedale. “Non solo le banche sono paralizzate, l’intera economia non gira. Lo Stato non funziona più, occorre un cambiamento radicale. Siamo stanchi di partiti settari e confessionali, vogliamo una società laica che premi il merito individuale”, sostiene Michel Hajji Georgiou, giornalista locale che segue le sommosse sin dall’inizio. Suo terrore sono le politiche dell’Hezbollah sciita pro iraniano che accusa i leader delle piazze di essere “agenti pagati da Usa e Israele”, teme le alleanze tra una parte della minoranza cristiana e le fazioni pro siriane, vorrebbe che il premier dimissionario da fine ottobre, il sunnita Saad Hariri, se ne andasse davvero, ma paventa il vuoto di potere che ne seguirebbe. L’altra sera il centro città era paralizzato. “È stata la giornata più violenta di questi 96 giorni di scontri. Il presidente Michel Aoun ha voluto inviare alcune unità scelte dell’esercito. E la tensione è salita alle stelle”, ripetevano nelle piazze. Gli scontri non sono neppure lontanamente paragonabili a quelli che insanguinano il cuore di Bagdad e delle città del sud Iraq. Qui non ci sono i cecchini delle milizie sciite, ma gli slogan sono simili: “Via i partiti tradizionali, abbasso i politici corrotti, vogliamo lavoro e infrastrutture”. Però nelle piazze irachene dai primi di ottobre si contano circa 600 morti e almeno 22.500 feriti. In quelle libanesi quattro morti in tre mesi e un migliaio di feriti, molti leggeri. I manifestanti sono dispersi con l’utilizzo massiccio dei lacrimogeni. Ogni tanto lo sparo di un proiettile di gomma dura, che può comunque provocare ferite dolorosissime. Le strade lussuose attorno al parlamentosono coperte di detriti. Gli spazzini a tarda notte provano a ripulire. Ma già a metà mattinata la situazione torna caotica, con sassi e mattoni sparsi sul selciato, vetrine infrante, barre di ferro e copertoni in fiamme a fungere da barricate. I manifestanti più determinati trascorrono le notti in grandi tende erette a poche centinaia di metri dal parlamento, l’immondizia ammorba le aiuole. “La nostra rivolta covava da tempo e corrisponde con la crisi strutturale della nostra economia che causa disoccupazione e povertà. Ma quando dalla fine dell’estate le banche hanno iniziato a bloccare i nostri risparmi e cessato la distribuzione di contanti la situazione è precipitata drammaticamente”, racconta John Achar, attivista 29enne che è tra coloro che coordinano le folle. Una delle figure pubbliche più odiate è quella di Riad Salamè, il noto governatore oggi settantenne della Banca Centrale eletto nel 1993. Una volta era considerato una sorta di salvatore della patria, l’uomo che sapeva garantire oltre il 25 per cento di interessi ai risparmiatori anche nei momenti più bui, ma che oggi viene visto come l’ideal-tipo di una classe dirigente corrotta, anziana e da sostituire. “Non ne possiamo più di leader quasi novantenni. Vogliamo un governo neutro di tecnocrati e tecnici che ci accompagni verso una transizione capace di dare al Libano partiti e politici nuovi”, urlano decisi tra le tende. È stato Salamè a limitare i prelievi in contanti. Va da banca a banca. Ma in genere non si possono ritirare oltre 350 euro al mese. Uno shock per i piccoli risparmiatori in questo Paese abituato a commerciare liberamente col mondo, visto che di fronte a quattro milioni di cittadini residenti in Libano un’altra dozzina vive all’estero.