A chi importa dei detenuti? L’inquietante realtà del carcere in Italia di Marco Bellizi L’Osservatore Romano, 19 gennaio 2020 C’è un dato toccante che emerge dalle tristi statistiche sulle carceri italiane. I suicidi dei detenuti calano nei periodi in cui, nel dibattito pubblico, cresce l’attenzione sugli istituti di pena. Trarne una conclusione è forse azzardato, giacché occorre osservare sempre una grande cautela parlando di persone che decidono di togliersi la vita. Però si tratta di un dato reale. Al quale se ne può affiancare un altro: più spesso le persone scelgono di suicidarsi all’inizio del periodo detentivo (talvolta mentre sono addirittura in attesa di giudizio) o all’approssimarsi della sua conclusione. Se il primo caso può essere facilmente comprensibile nelle sue motivazioni, il secondo dovrebbe comunicare a tutti, almeno, una allarmante inquietudine. Di indifferenza si muore. E in fondo, oltre alla privazione della libertà, la dannazione di ogni prigioniero sta proprio nell’essere dimenticato. Lo sa bene il Garante per i detenuti e le persone private della libertà, Mauro Palma, quando, nell’anticipare ieri a Roma l’interessante rapporto che verrà illustrato in Senato il prossimo 17 aprile, rivendica soprattutto il diritto, per gli istituti di pena, di essere considerati “parte del territorio”. Perché, soprattutto in Italia, il carcere è ormai il ventre gonfio e insalubre di una società che non riesce a metabolizzare quanto di tossico produce e non riesce a farsene carico. “Vi entrano persone vulnerabili, ne escono solo quelle che non lo sono”, ha sottolineato Daniela de Robert, che, assieme ad Emilia Rossi compone il Collegio del Garante, nominato con decreto del Presidente della Repubblica. Poi, appunto, ci sono le persone vulnerabili cui anche la prospettiva di tornare fuori è ormai terrorizzante e scelgono di farla finita. I numeri, ogni tanto, aiutano a capire. In Italia l’indice di sovraffollamento è pari al 129,40 per cento (a fronte di una capienza, a pieno regime, di 50.692 posti sono presenti 60.885 detenuti). Ci sono 102 detenuti ogni 100.000 abitanti, dato sostanzialmente in linea con la Francia ma molto superiore alla Germania (che registra 78 detenuti ogni 100.000 abitanti; il forte tasso d’immigrazione evidentemente non si traduce in maniera automatica in una maggiore delinquenza). Il sovraffollamento è uno dei problemi. In quest’ottica è interessante osservare come poco meno di 10 mila detenuti siano stati condannati a pene non superiori a 3 anni e circa 23 mila circa hanno pene residue inferiori ai 36 mesi. Molti perciò potrebbero accedere a misure alternative, se ce ne fossero, e liberare spazi. C’è anche un altro elemento che Palma tiene a sottolineare: non è vero che in Italia, sotto i 4 anni di pena in carcere non ci va nessuno. Ci vanno quelli che non hanno le capacità e le risorse per difendersi adeguatamente. Quelli, per intendersi, che non possono pagarsi un buon avvocato o che non sanno districarsi nel complesso meccanismo giudiziario italiano. “Molti di questi, in cella, potrebbero proprio non passarci per niente, se esistessero delle strutture esterne capaci di farsene carico”, ha spiegato il Garante. Spesso si tratta di senza fissa dimora. O di persone che non sanno neanche esprimersi. Emblematico è il caso dei più vulnerabili fra i detenuti, i sofferenti psichici. Il rischio che l’istituto di pena si trasformi in un residuo manicomiale è ormai concreto. Delle 191 carceri in Italia, appena 32 hanno a disposizione strutture adatte per seguire questo tipo di pazienti. I Rems, (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) sono “sottodimensionati” mentre le cosiddette articolazioni per la salute mentale sono “realmente carenti”. Poi c’è il sommerso: le cosiddette “celle lisce”, sistemazioni di fortuna per i più esagitati. Dove per “lisce” si intende prive di arredi. Per inciso, anche gli ospiti sono “lisci”. Nel senso che sono privati degli abiti. Come misura di sicurezza. La sofferenza non è neanche solo quella dei detenuti. Ogni anno si registrano 800 aggressioni al personale carcerario. Si contano suicidi anche fra gli agenti di polizia penitenziaria, spesso lasciati soli ad affrontare situazioni che non sono in grado di gestire. In questo contesto crescono anche dei bambini. Attualmente in Italia ci sono 48 donne madri con 53 figli al seguito. Solo a Roma e a Milano, ha spiegato Emilia Rossi, esistono case famiglia. Il carcere, più che del territorio, andrebbe considerato parte della società. Anche perché, se i nuovi ingressi diminuiscono, i detenuti aumentano. “Che significa? Detto semplicemente, che una volta dentro non esci”, ha concluso Palma. Con buona pace del concetto di pena riabilitativa. “Carceri più umane”: l’impegno di Bonafede coi cappellani Avvenire, 19 gennaio 2020 L’ispettore generale, don Raffaele Grimaldi: occorre umanizzare i luoghi di reclusione per favorire il recupero del detenuto. Il ministro: fondamentale il ruolo dei sacerdoti nei percorsi di recupero. Carceri più umane. I cappellani degli istituti di pena lo hanno chiesto questa settimana, durante un incontro, al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Serve una “umanizzazione” dei luoghi di reclusione, per favorire il raggiungimento dello scopo a cui sono destinati: il recupero del detenuto. E dal Guardasigilli ieri è arrivato il riconoscimento sul ruolo dei cappellani. “I cappellani presenti nelle carceri svolgono una missione fondamentale nel percorso di rieducazione dei detenuti nell’interesse di tutta la collettività”. Non solo: Bonafede ha aggiunto su Facebook che “umanità e capacità di ascolto riescono a portare conforto e speranza in un luogo difficile”. “Solo umanizzando questi luoghi di solitudine e sofferenza, si può aiutare chi è privato momentaneamente della libertà personale, a un vero recupero della persona” aveva commentato don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei 250 cappellani che operano nelle carceri italiane, dopo il colloquio con il Guardasigilli ieri in una sala del carcere femminile delle Mantellate, a Roma. “Gli istituti di pena, che per molti vengono intesi solo come luoghi di emarginazione e luoghi per custodire la sicurezza della società, possono divenire - aveva proseguito don Grimaldi - una vera e propria provocazione, uno stimolo, una sfida a far nascere e a interrogarci affinché il nostro mondo sia più misericordioso e più attento alle persone”. Accoglienza, recupero, mai puntare il dito contro chi ha sbagliato ma spalancare il cuore offrendo amore e misericordia: sono queste le strade per una vera trasformazione della persona, secondo il sacerdote.”Non chiudiamo tra le sbarre la speranza - ha concluso l’ispettore dei cappellani - al contrario vorrei esortare la società civile ad essere sempre più accogliente verso coloro che hanno percorso vie sbagliate”. Spalancare le porte del cuore, offrendo amore e misericordia è stato alla fine l’augurio condiviso tra il ministro Bonafede e don Grimaldi. Per il ministro della Giustizia, riferisce il sito Vatican News, è molto importante il ruolo dei cappellani nel percorso di rieducazione perché svolgono un lavoro che è nell’interesse della collettività. Attraverso di loro, infatti, i detenuti scoprono la possibilità di cambiare, imparano la legalità “non come dovere ma come amore per le regole e come segno di rispetto nei confronti degli altri”. I rischi della giustizia utilizzata come un’arma di Paolo Mieli Corriere della Sera, 19 gennaio 2020 Da anni esponenti di ogni tendenza, da noi ma anche negli Stati Uniti, promettono che mai più, se un avversario avrà noie giudiziarie, cercheranno di approfittarne. Poi però ricadono in tentazione. È davvero molto difficile spiegare perché per Pd e Italia Viva dovrebbe essere dannoso pronunciarsi domani in Commissione a favore del rinvio a giudizio di Matteo Salvini. È del tutto evidente che chi in Emilia-Romagna si accinge a votare per la sinistra sa benissimo quale sia - in merito al caso della nave Gregoretti - l’orientamento della propria parte politica. E, anzi, questo elettore sarebbe ancor più motivato da una scelta esplicita (in sintonia, tra l’altro, con le richieste delle sardine). Se poi Salvini decidesse di dedicare a questo caso l’ultima settimana di campagna elettorale, non nuocerebbe certo a Bonaccini l’assenza di ambiguità nello schieramento che lo sostiene. Anzi. Semmai potrebbero trovarsi in imbarazzo il M5S e Giuseppe Conte che ai tempi dell’”affaire Diciotti” si erano mossi in soccorso del leader leghista (all’epoca loro alleato). Del resto un episodio analogo accadde nei giorni precedenti alle elezioni umbre del 27 ottobre scorso, quando con l’immaginabile intento di non influenzare il voto, vennero lasciati al largo delle acque siciliane quasi duecento profughi salvati dall’”Ocean Viking” e dalla “Alan Kurdi”. Già all’epoca Matteo Orfini, Graziano Delrio e Dario Franceschini avevano alzato la voce, solo però all’indomani delle elezioni. Ma per le logiche che governano le denunce delle Ong e le conseguenti azioni della magistratura, è improbabile che qualcuno si dia pena per quei migranti restati in mare più di dieci giorni prima di essere fatti scendere a Pozzallo. Accade sempre più spesso che le intromissioni giudiziarie nella vita politica complichino le cose anche per coloro che dovrebbero esserne beneficiati. In questo senso la situazione è assai diversa da come si presentava all’epoca in cui questa storia cominciò, all’inizio degli anni Novanta. A quei tempi tutto sembrava essere più chiaro per l’opinione pubblica e più evidenti apparivano gli effetti che iniziative del genere avrebbero avuto sull’intero sistema. Poi, però, le conseguenze non furono quelle auspicate e i risultati di quelle azioni misero in crisi il sistema stesso. Non solo in Italia. Qualche giorno fa su queste pagine abbiamo pubblicato un articolo di Ian Bremmer sui possibili effetti della vicenda giudiziaria che ha investito il presidente Usa con il “caso Ucraina”. Bremmer, esplicitamente ostile a Donald Trump, non si sbilanciava né sul “cui prodest” dell’intricata vicenda politico-giudiziaria, né in pronostici peraltro intempestivi. Quel che più gli premeva mettere in risalto era l’effetto, appunto, “di sistema” dell’eventuale (pressoché scontato) proscioglimento del presidente da parte del Senato in maggioranza repubblicano. Tale proscioglimento - secondo Bremmer - verrà considerato da metà degli americani, gli elettori democratici, come frutto di calcoli politici piuttosto che come esito di una riflessione su “inconfutabili dati di fatto”. Certo, un voto pur favorevole a Trump al termine della procedura di impeachment, offuscherebbe “immancabilmente” un’eventuale sua rielezione. Ma le conseguenze di questo complesso passaggio storico saranno probabilmente più rilevanti del caso in sé. Dall’esito della vicenda, Trump, secondo Bremmer, trarrà inevitabilmente la conclusione “che le regole tradizionali della politica statunitense non lo riguardano affatto” e “si comporterà di conseguenza”. Sul versante opposto, nel caso di una conferma di Trump alle prossime elezioni, “i suoi avversari considereranno infamante non solo la sua permanenza a capo dello Stato, ma anche, e soprattutto, il processo elettorale che avrà portato alla sua rielezione”. “Infamante”, scrive Bremmer. Nel caso, infine, che dalle urne non venga un risultato incontrovertibile, quasi sicuramente i perdenti non accetteranno “dignitosamente” la sconfitta. E ricorreranno alla Corte suprema, vale a dire a un’istituzione che, prosegue Bremmer, negli ultimi anni si è sempre più politicizzata, talché, nei sondaggi, il numero di interpellati che dice di fidarsene è sceso vertiginosamente: dal 47 per cento del 2000 al 38 di oggi. Se ne può trarre la conclusione che, anche a non voler dare per scontato che quest’anno passi alla storia come quello del “fallimento della democrazia americana”, una parte consistente della popolazione statunitense è già fin d’ora predisposta a considerare “truccate” le elezioni del 2020. Con grave nocumento, a prescindere da chi prevarrà, per l’intero sistema. Dobbiamo dedurne che i democratici americani avrebbero dovuto evitare di caldeggiare la procedura di impeachment nei confronti dell’inquilino della Casa Bianca? No. Impossibile. Quando prendono il via procedimenti giudiziari che investono un uomo politico, è pressoché inevitabile che i suoi avversari cedano alla malia di cavalcarli allo scopo di trarne profitto. Ma ciò su cui Bremmer attira la nostra attenzione è che gli effetti di queste azioni spesso danneggiano - oltre all’accusato (e non è neanche detto) - anche coloro che prendono parte al gioco nei panni di pubblici accusatori. Da molti anni, quando si discute di tali questioni in tempi tranquilli, cioè non a ridosso né di elezioni né di iniziative giudiziarie, esponenti di ogni tendenza politica, qui da noi ma anche negli Stati Uniti, giurano di aver capito la lezione del passato e promettono che mai più, se un loro avversario avrà noie con la giustizia, cercheranno di approfittarne. Poi, però, quando si presenta l’occasione, i suddetti esponenti dei più svariati partiti - soprattutto se non sono certi di prevalere con le tradizionali armi della politica (sostanzialmente una: la conquista di un maggior numero di voti) - puntualmente ricadono in tentazione. E la prova che si tratta di una ricaduta, cioè di qualcosa che prescinde dalla considerazione del merito di ogni singola questione, consiste nel fatto che il loro voto finale - in Italia, negli Stati Uniti, dappertutto - è in genere unanime per schieramenti, la sinistra tutta pro, la destra tutta contro o viceversa. Una unanimità che, ad ogni evidenza, appartiene più alla logica di partito o coalizione che a quella di una meticolosa valutazione degli accadimenti. Politici sotto sorveglianza, la giustizia ha troppo potere di Francesco M. De Sanctis* Il Riformista, 19 gennaio 2020 Il termine garantismo circola sempre più con una sorta di specializzazione semantica che lo rivolge in maniera prevalente all’attività inquisitoria della magistratura. In realtà, quando parliamo di garantismo, dobbiamo far riferimento all’intero sistema di garanzie che offre l’ordinamento giuridico, a partire dalle “garanzie costituzionali” che lo informano in tutta la sua struttura. Certo, nel vecchio Stato di diritto, la garanzia fondamentale del cittadino era che il giudice fosse sottoposto alla legge, ma con le costituzioni della seconda metà del XX secolo (tra cui la nostra) si è modificata in maniera radicale la posizione dei diritti fondamentali, che, dette costituzioni, non istituiscono più, affidandole al potere legislativo, ma presuppongono rispetto allo stesso potere costituente. E ciò proprio per evitare il “torto legale” imputabile a leggi (come ad esempio quelle “razziali”) pur valide dal punto di vista formale. E le Corti costituzionali sono istituite proprio come “giudice delle leggi” costituendo, così una garanzia apicale. Ma che significa questa presupposizione dei diritti fondamentali anche contro il potere legislativo come incarnazione della sovranità del popolo? Significa che la legittimazione dell’ordinamento non riposa più soltanto sulla sovranità che tale potere incarna, ma anche sulla vigenza di tali diritti, da mettere in salvo, per il fatto di essere fondamentali, anche nei confronti delle mutevoli maggioranze a cui la democrazia affida il potere di fare le leggi. Da questa nuova condizione consegue necessariamente l’ampliamento, rispetto agli altri poteri costituzionali, del potere del giudice posto in relazione diretta con i principi della costituzione. Alla vecchia separazione dei poteri, sotto la sovranità del legislativo, si è sostituita la “cooperazione” tra detti poteri tutti vincolati alla garanzia dei diritti come concorrente fondamento di legittimità dell’ordinamento. Resta scontato che la cooperazione può anche generare conflitti, nonché egemonie più o meno passeggere di un potere rispetto agli altri (come abitualmente avviene a favore del potere esecutivo) allorché si creano “vuoti di potere” in relazione all’espletamento di determinate competenze; ma tutto ciò può anche restare nella fisiologia, per così dire, della democrazia rappresentativa. È, invece, la patologia del tessuto dello Stato costituzionale democratico che può determinare gli eccessi del “potere del giudice” o (in caso di rigida subordinazione ad altri poteri) le sue deficienze. Se dunque partiamo dal presupposto oggettivo che lo Stato di diritto costituzionale in cui abita la democrazia occidentale poggia su una doppia legittimità, vale a dire sulla sovranità del popolo e sui diritti fondamentali, dobbiamo anche ammettere che tra le due possa esserci, oltre l’auspicata convergenza o addirittura sinergia, anche divergenza e frizione. La sovraesposizione del potere giurisdizionale a cui assistiamo oggi è, soprattutto, l’esito dell’indebolimento della volontà politica, talché la giustizia si offre come luogo di esigibilità della democrazia di fronte al discredito delle istituzioni politiche e alla depressione dello spirito pubblico. E parlo chiaramente della giustizia nel suo complesso e non solo di quella parte iperprotagonista che in Italia è rappresentata dai Pubblici Ministeri (pur interni all’unico “ordine” dei magistrati) e che, per altro, altrove (es. tradizione anglo-sassone), non rientra pienamente nel puro potere giudiziario (esponendo la natura politica della funzione). Il centro di gravità della democrazia si è spostato verso la giustizia: i suoi metodi, le sue argomentazioni, il suo vocabolario (trasparenza, motivazione, imparzialità, contraddittorio, ecc.) appaiono più credibili dell’esercizio della volontà politica. Tale tendenza ha accentuato un profilo a sua volta connaturato alla struttura ambivalente della democrazia costituzionale: la difesa dei diritti individuali e collettivi di cui i cittadini si sentono titolari al di là della loro soggettività politica attiva e che vogliono veder tutelati davanti a un’autorità imparziale. Ma, si badi bene, altro è la tutela giurisdizionale dei diritti - funzione coessenziale alla democrazia costituzionale - altro è la sfiducia nella rappresentanza politica, che ha generato un atteggiamento di sorveglianza “giudiziaria” dei cittadini sull’operato dei loro rappresentanti. *Professore emerito dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli (già Ordinario di Filosofia del diritto) Riforma prescrizione. Caiazza (Ucpi): “Bonafede vuole solo una bandierina” Il Giornale, 19 gennaio 2020 Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede “deve solo piantare una bandierina, non cambierà mai la sua posizione perché prescinde dal merito della questione”. È la denuncia del Presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza, ieri a Palermo. “Nella maggioranza il ministro Bonafede era isolato e il Pd aveva dichiarato dall’inizio di non condividere la riforma - dice Caiazza. La cosa paradossale è che la posizione del ministro era minoritaria e invece è l’unica che non si può modificare. E lui non modificherà mai la sua posizione. Lui deve piantare la bandierina nel dire “abbiamo eliminato la prescrizione che è il male assoluto e il privilegio dei pochi”. È il Pd che sorprende e che dal primo giorno diceva che era contrario. E non abbiamo ancora capito come vorrebbe rimediare. Il Pd sulla prescrizione ha solo alzato bandiera bianca, non ha avuto la forza di sfidare il ministro. Ha una responsabilità enorme”. “La riforma Bonafede - prosegue Caiazza - riguarda solo il 25% del fenomeno della prescrizione: perché non si parla del restante 75% delle prescrizioni che maturano prima della sentenza di primo grado? Noi domandiamo perché quel 75% di prescrizioni non pone problemi di giustizia e di etica? Improvvisamente contano dopo la Sentenza di primo grado”. Taser. Antigone: “preoccupati per il via libera del governo ad un’arma potenzialmente letale” di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 19 gennaio 2020 “Riteniamo un grave errore quello del governo che, nel Consiglio dei Ministri tenutosi ieri, ha dato il via libera alla dotazione stabile per tutti gli appartenenti alle forze dell’ordine della pistola elettrica taser, un’arma pericolosa e potenzialmente mortale, come ci dimostra la realtà dei paesi in cui è in uso”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. La sperimentazione del taser era partita nel settembre del 2018 in dodici città su iniziativa dell’allora ministro dell’Interno Salvini. Secondo un’indagine della Reuters il taser ha provocato oltre mille morti nei soli Stati Uniti. La stessa azienda americana che la produce - la Taser International Incorporation, da cui deriva il nome dell’arma - chiamata in causa sulla potenziale pericolosità, ha dichiarato che esisterebbe un rischio di mortalità pari allo 0,25%. Ciò significa che se il taser venisse usato su 400 persone una di queste potrebbe morire. “Nonostante il rispetto delle necessarie cautele per la salute e l’incolumità pubblica e il principio di precauzione a cui gli agenti saranno richiamati, la pericolosità di quest’arma non viene meno, soprattutto perché non è possibile sapere o stabilire se la persona cui si sta per sparare soffra o meno di cardiopatia o epilessia, due delle patologie per cui la pistola elettrica potrebbe risultare mortale” aggiunge ancora Gonnella, ricordando come anche alcuni organismi internazionali, tra cui la Corte Europea dei Diritti Dell’uomo ed il Comitato Onu per la prevenzione della tortura si siano espressi relativamente alle pericolosità di quest’arma e il rischio di abusi che l’utilizzo può comportare. Prima della pronuncia di ieri del Consiglio dei Ministri era stato lo stesso ex Ministro Salvini - attraverso il primo decreto sicurezza - ad allargare la platea dei possibili utilizzatori di quest’arma, dando ai comuni con più di 100.000 abitanti la facoltà di dotarne gli agenti di polizia locale. Proprio per rispondere a questa proposta Antigone aveva lanciato una campagna rivolta agli amministratori locali a cui si chiedeva, attraverso l’approvazione di un ordine del giorno, di non dare seguito a questa possibilità. Un invito a cui hanno risposto i comuni di Palermo, Torino, Milano e Bergamo. “Quello che auspichiamo e chiediamo al governo - sottolinea il presidente di Antigone - è che torni sui suoi passi, rinunciando a dotare le forze dell’ordine di quest’arma che, nella pratica quotidiana diventa un sostituto del manganello e non della classica pistola. Inoltre, speriamo che questo non sia il preludio per dare seguito alla proposta emersa nei mesi scorsi di dotare anche gli agenti di polizia penitenziaria, impegnati nel lavoro nelle carceri, di questa pericolosa arma. Se ciò accadesse - conclude Patrizio Gonnella - l’opposizione di Antigone sarebbe ferma e decisa”. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Sicilia. Gli scout antimafia nel mirino dei clan di Alan David Scifo Il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2020 “Giovanni Falcone ci disse: noi arrestiamo i padri, voi educate i figli”. È questo monito a dare la forza ai giovani scout siciliani della rete Agesci (associazione guide e scout cattolici italiani) che hanno subito due atti incendiari e un raid vandalico in tre mesi, in tre diverse sedi, una delle quali si trova in un terreno confiscato alla mafia. Un’azione sistematica che è cominciata a Marsala, nel Trapanese e continua a Mineo e poi Ramacca, dove c’è stato l’ultimo atto intimidatorio. Porte rubate, infissi distrutti e devastazioni generali nell’immobile inaugurato 10 anni fa in un terreno confiscato alla mafia. “Stiamo dando fastidio a qualcuno - spiega uno dei responsabili regionali dell’Agesci Sicilia, Giulio Campo - quando si pratica l’educazione, si smuovono le acque e sicuramente questo a qualcuno non piace. Noi non possiamo dire con certezza che sia stata la mafia, ma ci stiamo facendo un pensierino”. I danni, infatti, non sono opera di vandali sprovveduti, ma di gruppi d’azione ben organizzati che hanno deciso di colpire i gruppi scout siciliani con l’intento di fermarli. Le basi scout assumono infatti un significato diverso in Sicilia: i ragazzi dei gruppi cattolici sono infatti in prima fila a ogni marcia contro la mafia, soprattutto nei territori difficili, come la periferia catanese dove la criminalità è ben presente. Il danno complessivo nelle tre basi, cui si aggiunge anche la sede di Milo, anch’essa oggetto di “visite”, ammonta a circa 100 mila euro, una cifra spropositata se si pensa che per raccogliere offerte al fine di aprire la sede si sono mobilitati i ragazzi e i loro genitori. A Mineo, altra base danneggiata, erano state le famiglie degli scout a raccogliere i soldi per la struttura che doveva essere inaugurata il 15 dicembre. Un mese prima però tutto è andato distrutto per mano di ignoti che hanno incendiato l’intera ex casa cantoniera, rendendola inagibile. Gli scout però non si fermano: “I ragazzi non hanno paura - spiega ancora Giulio Campo - continueremo insieme a lottare con le nostre finanze anche se non è facile. Sia i giovani che noi non abbiamo voglia di mollare”. L’ombra della mafia è ben presente in questa vicenda mai ragazzi di Ramacca, così come gli altri, guardano oltre: “Questo atto ci mortifica ma ci chiede anche se siamo in grado di lottare contro un sistema che vuole svilire ciò che viene creato per il bene comune - dicono Luana Barbagallo e Davide Falcone del gruppo “Ramacca 1”. Noi abbiamo investito tempo e denaro in questo luogo per renderlo simbolo di una lotta concreta alla mafia e continuiamo”. E mentre le istituzioni latitano (solo dopo il terzo atto il vicepresidente alla Regione ha chiesto di incontrare i vertici) l’appoggio arriva dal mondo cattolico e da don Luigi Ciotti: “Bisogna continuare senza indietreggiare, con tenacia e con speranza - ha detto il sacerdote. La riconoscenza verso chi è stato assassinato per noi si paga portando avanti le sue idee, senza rinunciare a mordere le coscienze”. Monza. Suicidio in carcere, muore 24enne giornaledimonza.it, 19 gennaio 2020 Venerdì scorso il gesto estremo di un detenuto in regime di carcere aperto. Inutili i soccorsi. Ha approfittato di restare solo in cella per impiccarsi. È morto in carcere un uomo italiano di 24 anni detenuto al Sanquirico nel settore cosiddetto di “regime di carcere aperto”. L’uomo ha atteso che i due compagni si recassero uno al lavoro nella struttura e uno a un corso in un’altra sezione per mettere in atto il proposito suicida e farla finita. Il fatto è avvenuto venerdì attorno alle 14.30. A trovare il corpo senza vita del detenuto sono state le guardie di Polizia penitenziarie che hanno tentato inutilmente di rianimarlo. È il primo episodio del 2020, ma arriva a poco da un altro suicidio quando a togliersi la vita era stato a novembre un 46enne (detenuto per aver preso a martellate la moglie, ferendola gravemente). Santa Maria Capua Vetere (Ce). Carcere senz’acqua, l’odissea dei detenuti sta finendo di Antonio Tagliacozzi Edizione Caserta, 19 gennaio 2020 Sono ben 19 le ditte o le associazioni di imprese che partecipano alla gara di appalto per i lavori per la realizzazione di un condotta idrica al servizio della Casa circondariale e delle due aule bunker di Santa Maria. L’importo a base d’asta è stato fissato in un milione e 400 mila euro e l’appalto sarà aggiudicato con il criterio dell’importo più conveniente. Il responsabile unico del procedimento è il tecnico comunale, Luigi D’Addio. Di queste 19 ditte nove sono state ammesse con riserva dovendo procedere alla sistemazione di alcuni dettagli relativi alla documentazione prevista dal bando. Quindi, dopo oltre dieci anni di promesse e ritardi, qualcosa inizia a muoversi per la eliminazione della carenza idrica al carcere di massima sicurezza “Generale Uccella” che ospita 940 detenuti su una capienza massima di 833, 478 agenti di Polizia penitenziaria e circa altre cento figure professionali. Il carcere non è senza acqua, ma non è attaccato alla rete idrica cittadina e questa “mancanza” crea qualche problema di approvvigionamento che risale alla sua costruzione e da allora si è andati avanti con pozzi artesiani, autobotti e… bottiglie di acqua minerale. Gli uffici comunali competenti, infatti, hanno in precedenza liquidato oltre 52 mila euro ai tecnici che hanno approntato e consegnato gli atti per l’inizio dei lavori quali progettazione, relazioni geologiche, sondaggi ed altro. La gara per l’affidamento del servizio di progettazione e di tutte le indagini connesse è stata aggiudicata al Rtp (Raggruppamento temporaneo di persone) studio tecnico Colosimo ed altri che ha offerto un ribasso, sull’importo fissato in complessivi 96mila euro e 600, del 39,25 per cento determinando l’importo netto di aggiudicazione in 58mila 684 e 50 oltre Iva e cassa Previdenza per complessivi 15 mila 774,00 euro. È stato il primo atto concreto, questo, per la soluzione del problema che negli ultimi anni è stato più volte denunciato e al centro di vibrate proteste da parte dei detenuti e dei difensori dei loro diritti che hanno posto in essere una serie di iniziative che sono valse a smuovere la burocrazia e concretizzare tutte quelle iniziative necessarie per risolvere la questione. Il finanziamento dei lavori per l’allacciamento alla rete idrica comunale della casa di massima sicurezza e le due aule bunker è a carico della Regione che ha stanziato i soldi con una deliberazione dell’aprile del 2016 (un milione e quattro di euro) ed ora si è passati alla fase operativa per la eliminazione del problema. Certo, ancora molto vi è da fare, siamo solo in una fase preliminare, ma le intenzioni ci sono e basta velocizzare solo le procedure per allacciare finalmente la casa circondariale ed il suo complesso alla rete idrica comunale. Padova. Volontari nelle carceri, una missione lunga 40 anni Il Gazzettino, 19 gennaio 2020 Una realtà unica per presenza, costanza, affidabilità. Capace di precorrere i tempi e fungere da esempio nell’intero panorama italiano. Capace di lasciare un segno indelebile in chi si trova a vivere l’esperienza del carcere, come detenuto o come operatore. É Ocv, l’associazione “Gruppo operatori carcerari volontari” che quest’anno celebra quarant’anni dalla fondazione. Mai data fu più propizia dal momento che lo storico traguardo cade all’esordio dell’anno in cui Padova è capitale europea del volontariato, e per festeggiare la Onlus ha pubblicato Oltre le sbarre, presentato ieri a palazzo Moroni. Davanti a decine di volontari la presidente Ludovica Tassi ha accolto le figure più emblematiche della storia del gruppo. Ad aprire i lavori un emozionato vicesindaco: “Siete una realtà preziosa e unica, un orgoglio per la città con la vostra capacità di mettere in contatto la cittadinanza con una parte di comunità che esiste e va conosciuta, come quella del carcere - ha spiegato Lorenzoni - Grazie a voi possiamo creare una comunità matura e responsabile”. “A Padova è iniziato molto, se non tutto, ciò che riguarda il volontariato in carcere - esordiva Giovanni Tamburino, coordinatore nazionale dei magistrati di sorveglianza che per decenni ha lavorato in città - Alcuni volontari supportavano i detenuti già prima della riforma penitenziaria del 1975, specie nello studio universitario oggi fiore all’occhiello del carcere padovano con quasi cinquanta iscritti all’ateneo. Il volontariato padovano fa proprie due caratteristiche: preparazione e continuità. È un gruppo strutturato, preparato, che sa avere uno sguardo oggettivo e per questo ha saputo durare nel e integrarsi con le istituzioni”. Per Tamburino il volontariato è rappresentato da una metafora: “È il ponte sul fossato tra due città. L’elemento che segna la distinzione tra due realtà diverse ma non la loro separazione”. Applicare con successo la funzione rieducativa che il carcere dovrebbe avere non è cosa semplice e proprio questo è lo scopo dei volontari Ocv. Molteplici le iniziative in cui supportano i detenuti, dai corsi di cucina, teatro e bricolage fino alla scuola e all’università. “Un costante e invisibile esercizio di umanità che sa fungere da esempio al detenuto dimostrandogli che è possibile accogliere chi ha sbagliato, spendendo gratuitamente il proprio tempo e senza giudicare” ha ricordato Giovanni Maria Pavarin, successore a Padova di Tamburino, anticipando il presidente onorario e fondatore di Ocv Giorgio Ronconi nel ricordo dell’indimenticata Bianca Maria Bichi Vianello. “Il volontariato si è avvicinato ai carcerati in città fin dagli anni Sessanta con l’associazione San Vincenzo, partita dagli aiuti ai vagabondi che spesso avevano patito periodi di detenzione - ha ricordato Ronconi - Dopo la nascita di Ocv nel 2003 siamo arrivati ad avere il polo universitario in carcere e oggi abbiamo oltre 70 volontari”. Inusuale per l’incredibile presenza e costanza Ocv lo è anche per Claudio Mazzeo, direttore della casa di reclusione padovana, ma il segno più profondo lo ha lasciato in Marzio Casarotto e Roberto Conacchiari, che dietro le sbarre hanno trascorso una fetta di vita. “In quei periodi bui mi hanno fatto capire che un futuro esiste, che dovevo darmi degli obiettivi” spiega Marzio. “Non giudicano, diventano gli unici che si accorgono di bisogni piccoli, banali, ma importanti, come la data del tuo compleanno. Sono una famiglia che non ringrazierò mai abbastanza per aver dato la voglia di studiare e lavorare” gli fa eco Roberto. Milano. La libertà che non si può rinchiudere dentro una cella caritasambrosiana.it, 19 gennaio 2020 Martedì 21 gennaio alle ore 18.00 al Museo Diocesano “Carlo Maria Martini”, 20 detenuti provenienti da 9 carceri della Lombardia porteranno in scena il reading “La prima libertà. Vivere la religione in carcere”. Il testo, presentato in una precedente versione due anni fa, è ricavato dagli appunti e le note che gli stessi reclusi, appartenenti a differenti confessioni, hanno elaborato dopo la lettura di un antico poema persiano “Simurgh, la conferenza degli uccelli”. Diversamente dal precedente allestimento, in questa nuova edizione i protagonisti assoluti saranno proprio i carcerati. Lo spettacolo darà voce alla loro personale reinterpretazione del racconto poetico compiuta al termine di un lungo percorso incentrato su un’apparente contradizione: vivere la libertà religiosa in un luogo che si fonda sulla limitazione della libertà. “In realtà - osserva Ileana Montagnini, responsabile dell’area Carcere di Caritas Ambrosiana - proprio in carcere c’è chi si avvicina alla fede, chi la riscopre e anche chi la rivendica come limite invalicabile. Questi differenti atteggiamenti possono avere esiti molti diversi. Per lo più il percorso spirituale che si compie dietro le sbarre è espressione di una più generale presa di coscienza individuale dei propri limiti ed errori e quindi favorisce il processo riabilitativo. Altre volte, se questo cammino non è accompagnato, può diventare problematico in un contesto multi-religioso come è la realtà carceraria di oggi”. Il reading è la conclusione di un progetto triennale dedicato proprio alla gestione del pluralismo religioso nella carceri lombarde. Il corso ha coinvolto detenuti, agenti di polizia penitenziaria, insegnanti, cappellani e volontari dei 9 penitenziari inseriti nella sperimentazione unica in Italia, durante la quale il tema è stato affrontato sotto il profilo antropologico, sociologico-giuridico, etico-formativo, grazie agli interventi di esperti come il professore Paolo Branca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, i professori Silvio Ferrari e Daniela Milani dell’Università degli Studi di Milano ed esponenti di diverse tradizioni religiose: Hamid Roberto Distefano della Comunità Religiosa Islamica Italiana, monsignor Luca Bressan vicario episcopale della Diocesi di Milano e mons. Pier Francesco Fumagalli vice prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana, il rabbino Davide Sciunnach della Comunità Ebraica di Milano. “Attraverso questi incontri si è favorita una migliore conoscenza delle tradizioni religiose e culturali presenti negli istituti di pena del distretto lombardo, fornendo al personale carcerario strumenti per comprendere meglio la diversità delle culture e delle religioni, evitare il crearsi di resistenze o forme di pregiudizio e contrastare i fenomeni di radicalizzazione e di proselitismo aggressivo. In questo contesto sono state anche affrontate tematiche concrete e specifiche che incidono in maniera rilevante sulla vita dei detenuti quali l’alimentazione, la preghiera, i rapporti con la famiglia”, spiega la professoressa Daniela Milani, coordinatrice del progetto, che illustrerà i risultati insieme a Giovanna Longo, responsabile dell’ufficio detenuti del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia. “Oggi quasi la metà dei detenuti nei penitenziari italiani professa altre fedi. Riconoscere effettivamente la libertà di culto ai carcerati, prevista per altro dal nostro ordinamento per legge già dal 1975, significa prendere atto della realtà e quindi evitare degenerazioni, come i fenomeni di radicalizzazione, pericolosi all’interno e fuori, nella società civile, al termine delle misure restrittive. Ci auguriamo che progetti come questo spingano le istituzioni pubbliche a fare i passi necessari per la piena attuazione delle norme”, osserva Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana. Dopo il reading, introdotto da mons. Luca Bressan, i detenuti della Casa Circondariale di Monza si esibiranno in una performance di percussioni dal titolo “I ritmi dal mondo”. Il progetto Simurgh, cofinanziato dalla Fondazione Cariplo, è stato promosso dall’Università degli Studi di Milano, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Provveditorato regionale della Lombardia, dalla Comunità Ebraica di Milano, dalla Comunità Religiosa Islamica Italiana (Coreis) dalla Diocesi di Milano, dalla Caritas Ambrosiana e dalla Veneranda Biblioteca Ambrosiana, dall’Istituto di Studi di Buddismo Tibetano di Milano Ghe Pel Ling. I laboratori formativi si sono svolti negli istituti penitenziari di Milano (il carcere di San Vittore), Pavia e Brescia (nel 2017), Como, Cremona, Vigevano (nel 2018), Opera, Monza, Bergamo (nel 2019). Piacenza. Colloqui tra padri e figli in carcere, Croce Rossa riqualifica la stanza liberta.it, 19 gennaio 2020 Uno spazio più bello e accogliente per ricucire le ferite emotive tra i padri detenuti in carcere e i loro figli. La stanza della casa circondariale delle Novate destinata ai colloqui coi minori verrà presto riqualificata grazie al comitato provinciale della Croce Rossa, che ieri mattina, 18 gennaio, ha donato barattoli di vernice, pennelli e altri materiali per la tinteggiatura. A descrivere l’importanza di questa azione di solidarietà ci pensano i numeri: nel 2019, a Piacenza i locali penitenziari riservati all’incontro fra genitori e bambini hanno registrato 1.200 accessi di minori sotto ai quattordici anni d’età, a fronte di circa 510 detenuti presenti alle Novate. Attraverso il gesto dei volontari soccorritori, quindi, gli appuntamenti fra i padri carcerati e i loro figli potranno contare su un ambiente ancora più sereno e stimolante. Livorno. Isola d’Elba, la chiesa del carcere è aperta a tutti. Anche per sposarsi La Nazione, 19 gennaio 2020 I cittadini potranno partecipare alle celebrazioni insieme ai detenuti del carcere di Porto Azzurro. Sono ripresi a pieno ritmo, dopo le soste forzate per il maltempo, i lavori di ristrutturazione della seicentesca chiesa di san Giacomo, situata nell’omonimo forte che ospita il carcere. Chiesa che, il direttore del penitenziario Francesco D’Anselmo intende riaprire all’esterno facendola tornare un importante punto di riferimento per Porto Azzurro ed i suoi abitanti. “La chiesa - dice D’Anselmo - appartiene al paese ed è parte integrante di esso. Oltre a celebrarvi i matrimoni con l’offerta di un ‘pacchetto’ comprensivo del ‘catering’ a cura dei detenuti - spiega D’Anselmo - vogliamo riprendere la vecchia tradizione della messa domenicale alla quale, insieme ai reclusi, può assistere la popolazione. Per rafforzare il legame tra carcere e territorio, d’accordo con il sindaco Papi, intendiamo inoltre far ripartire dal Forte la processione in occasione della festa patronale di san Giacomo”. Il maltempo farà slittare di alcune settimane la conclusione dei lavori per i quali è stata prevista una spesa di circa 250 mila euro coperta per il 70% con una donazione dalla Fondazione Terzo Pilastro di Roma e per il 30% dall’amministrazione penitenziaria. “Il rifacimento del tetto - aggiunge il direttore D’Anselmo - è stato quasi completato. Si passerà agli intonaci esterni per poi iniziare i lavori nella parte interna. Contiamo di inaugurare la chiesa entro fine giugno”. L’Italia nella morsa delle diseguaglianze di Guido Alfani La Stampa, 19 gennaio 2020 Il 2020 non si apre bene per la società italiana: la recente revisione dei dati Eurostat sulla distribuzione del reddito mostra come la diseguaglianza continui a crescere. Qualcuno potrebbe stupirsi, visto che appena a dicembre l’Inps sembrava aver certificato un netto calo della povertà - già peraltro assai ridimensionato nelle dichiarazioni degli ultimi giorni. Diseguaglianza e povertà sono due mali strettamente collegati ed è utile fare chiarezza sulla situazione attuale per capire che cosa ci aspetta nel nuovo anno. Iniziamo dalle dimensioni del problema. I dati Eurostat si riferiscono al 2018, anno in cui in media il 20% più ricco degli Italiani ha avuto un reddito pari a 6,1 volte quello del 20% più povero. Nel 2017, tale rapporto era pari al 5,9. Dieci anni prima, nel 2007, era solo del 5,4: già abbastanza alto, ma non troppo lontano dalla media dell’Unione europea (5,0). Nel 2018, invece, con il suo 6,1 l’Italia guidava la classifica dell’Europa occidentale, essendo ben lontana dalla media dell’Unione (5,2) e venendo superata solo da alcuni Paesi dell’Europa orientale come Bulgaria (7.7) o Romania (7.2). Per quanto riguarda la povertà, sempre l’Eurostat stima che nel 2018 la quota di popolazione italiana a rischio povertà ed esclusione sociale sia stata del 27,3%, anche in questo caso ben sopra la media europea del 21,9% e molto lontano da Paesi quali Francia o Germania (17,4% e 18,7% rispettivamente). L’Italia, poi, soffre per la sua elevatissima diseguaglianza interna: nel 2018, la popolazione a rischio povertà era il 15,7% in Lombardia e il 18,7% in Piemonte ma toccava addirittura il 53,6% in Campania. Sulla base di questi dati, è chiaro che contenere la tendenza all’aumento della diseguaglianza (tra ricchi e poveri e tra Nord e Sud), ridurre la povertà e costruire una società più equa e inclusiva dovrebbe costituire una priorità per l’Italia. È altrettanto chiaro che nulla lascia presagire che nel corso del 2020 il problema possa ridursi da sé. Occorre agire. Il governo giallorosso ha già operato una scelta importante abbandonando ogni ipotesi di flat tax. Gli interventi a contrasto della povertà, dal Reddito di Inclusione del governo Gentiloni al Reddito di Cittadinanza dei governi Conte, sono utili a creare le condizioni minime perché la parte meno fortunata della popolazione possa sperare in un futuro migliore. Ma non sono sufficienti, anzi: se non accompagnati da politiche incisive sul fronte occupazionale e di promozione della mobilità sociale non faranno altro che curare i sintomi senza guarire il paziente. Sarà il periodo dell’anno, che induce a sperare per il meglio, ma proviamo a trasformare i disastri industriali annunciati, specialmente al Sud, in occasioni di rilancio su grande scala del tessuto non solo economico, ma anche sociale del Paese. Il caso Ilva è un ottimo punto di partenza, e in merito il governo pare avere obiettivi ambiziosi. Troppo ambiziosi, obietteranno alcuni, ma in questo momento della storia nazionale, e a fronte di una situazione di elevatissima diseguaglianza interna e povertà troppo diffusa e radicata, forse gli obiettivi ambiziosi sono gli unici meritevoli d’essere perseguiti. Migranti. La “detenzione” come deterrente ai viaggi verso l’Europa di Maria Maggiore Il Fatto Quotidiano, 19 gennaio 2020 Minorenni reclusi nei campi: la Ue come gli Usa di Trump. Reza è iraniano, ha 17 anni e vive in prigione da un anno. In una “zona di transito” in Ungheria, a Rószke. “Di transito” perché non è completamente chiusa: aperta se decidi di tornare in Serbia, chiusa se vuoi chiedere asilo in Ungheria. Il ragazzo è arrivato qui con lo zio e i cugini, ma loro sono riusciti a passare con la protezione umanitaria. A Reza è stata negata e da più di un anno aspetta da solo, con altri 99 minori non accompagnati, in una città dove le case sono container, i confini sono filo spinato e tutto è sorvegliato da soldati armati, che ti accompagnano ammanettato anche dal medico. “Non dormo da due giorni dopo l’ultimo rigetto della mia domanda”, ci dice Reza. “Il dottore mi ha detto di non pensare troppo, ma è difficile, tutto è difficile qui. Siamo venuti dalla Serbia, con i documenti, non illegalmente. Perché l’Ufficio immigrazione gioca con noi, trascina le decisioni per mesi? Non abbiamo fatto nulla di male. Perché siamo rinchiusi qui? Pensare troppo è una bomba nella testa”. L’Ungheria è sotto accusa perché lascia senza cibo i migranti a cui è stato negato l’asilo, in attesa di espulsione. Anche i bambini. Nel luglio scorso, la Commissione europea ha denunciato il governo Orban alla Corte di Giustizia Ue per violazione dei diritti fondamentali. Come Reza ci sono migliaia di minori in prigione ai confini dell’Europa, in attesa dell’asilo o dell’espulsione. Non hanno commesso reati, sono solo entrati illegalmente nel territorio Ue. L’Unione europea ha fortemente criticato il presidente americano Donald Trump per aver diviso le famiglie al confine con il Messico e chiuso i bambini nelle gabbie. “Noi abbiamo altri valori” ha detto stizzito un portavoce del governo di Parigi nel 2018. Ma la Francia ha il record di condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo - sei dal 2012 - per la detenzione dei minori migranti, la maggior parte li tiene nell’isola di Mayotte nell’Oceano Indiano. Il diritto internazionale condanna la detenzione dei bambini migranti, fin dalla Convenzione sui diritti del fanciullo (art. 37) del 1989. Nel 2017, un Comitato speciale delle Nazioni Unite, ha ribadito che “i minori non dovrebbero mai essere detenuti per ragioni legate allo stato migratorio loro o dei genitori. Qualsiasi tipo di detenzione per immigrazione minorile dovrebbe essere vietata dalla legge”. Ma l’Europa non sente. Sostiene che la detenzione dei minori dovrebbe essere solo “l’ultima ratio”, ma di fatto la tollera, la incoraggia. “La Commissione peri diritti umani nel Senato italiano ha scritto nel 2014 che oltre i 45 giorni un migrante (anche adulto, ndr) non partecipa più alla sua identificazione, quindi la detenzione è inutile e costosa”, spiega Marta Gionco della piattaforma Picum, a Bruxelles. La rivista Lancet scrive che la detenzione “provoca danni alla salute mentale e fisica dei bambini”. La rete europea per l’Alternativa alla detenzione ritiene che “consentire alle persone di rimanere nella comunità, coinvolgendole nel processo di integrazione, offrendo consigli legali, accesso a servizi e un “gestore sociale”, pagato dallo Stato ma indipendente, è molto più economico”. Ma l’ex commissario all’Immigrazione, Dimitri Avramopoulos non la pensa così. Nel 2018 scriveva: “Un uso più efficace della detenzione renderà più efficace l’applicazione dei rimpatri”, lamentandosi che il numero dei rimpatri restava al 36,6% nel 2017. La nuova Commissione non ha cambiato politica. “Abbiamo cercato, nella scorsa legislatura, di vietare per legge la detenzione dei bambini migranti - spiega l’eurodeputata Caterina Chinnici (Pd), presidente dell’intergruppo per i minori - ma non ci siamo riusciti”. L’Europarlamento aveva infatti approvato il divieto di privare i minori della libertà nelle riforme della Convenzione di Dublino e dei rimpatri. Manon c’è stato l’accordo con i governi, i testi non sono stati votati. Non c’è la volontà politica di vietare la detenzione dei piccoli migranti”. Peggio, la detenzione è vista come un deterrente alla migrazione in Europa. Il campo di Moria, a Lesbo (Grecia), ne è la prova. Prima di tutto senti colpi di tosse da quasi tutte le tende, a Moria, migliaia di tende, sparse fuori dal campo. E la tosse dei bambini che non hanno abbastanza cibo, abbastanza caldo, abbastanza cure. Li vedi correre in mezzo al fango, di notte fanno la coda per il bagno, al buio. In un’ex base militare che può contenere fino a 3.000 persone, oggi ce ne sono 18.000, di cui 1.200 bambini non accompagnati, 8.300 minori in tutto. Aspettano l’esito delle richieste d’asilo e non possono lasciare l’isola. È scritto nell’accordo Ue-Turchia firmato nel 2016 da tutti capi di governo Ue. Si erano impegnati a distribuirsi poi i migranti arrivati in Grecia e a rispedire indietro, in Turchia, chi non aveva diritto all’asilo. Ma da allora solo 1.975 persone su 98.000 sono state rimandate in Turchia. Le altre sono rimaste bloccate nelle cinque isole greche trasformate in prigioni a cielo aperto: Lesbo, Leros, Kos, Samos e Chios. La psicologa di Medici senza Frontiere, Danae Papadopoulou, dice: “Moria è in un posto così isolato da costringere le persone a vivere come in prigione. È una bomba a orologeria”. Sono i più fortunati: sulla terraferma 240 minori non accompagnati vivono in un commissariato di polizia, in attesa dell’asilo. Nei nostri Paesi la detenzione minorile è vietata ai minori di 13-14 anni. Ma non se il bambino è un migrante. Per la Commissione Ue “migliorare i rimpatri, anche con la detenzione, manderà un forte segnale a chi vuole intraprendere viaggi pericolosi verso l’Europa”. I bambini, però, continuano ad arrivare in barca, a Lesbo e in Europa. Migranti. Lettera al Pd: la discontinuità passa dai decreti sicurezza di Massimiliano Iervolino*, Igor Boni** e Giulia Crivellini*** Il Manifesto, 19 gennaio 2020 “Un’idiozia”: così è stata etichettata l’accusa rivolta al Pd di mancata discontinuità dal primo governo Conte. Tanto infondata non sembra, dal momento che negli ultimi giorni si sono moltiplicati gli esponenti del Pd che hanno voluto rispondere promettendo cambiamenti concreti. Quando dai proclami si passerà all’azione? Sono passati oltre 4 mesi dall’instaurazione del Conte bis e non vi è stato alcun intervento sui provvedimenti rispetto ai quali “rilevanti perplessità” sono state espresse dal Presidente della Repubblica. Alle parole non hanno fatto seguito i fatti. E i fatti, in materia di immigrazione, non possono prescindere dai decreti sicurezza. Solo da agosto, quando è entrato in vigore il decreto sicurezza bis, almeno 165 persone sono morte o risultate disperse nel Mediterraneo centrale. Nel frattempo le organizzazioni non governative erano (e sono ancora) alle prese con navi sotto sequestro e sanzioni. Nei Tribunali di tutta Italia aumentano i ricorsi dei richiedenti asilo contro i rigetti delle commissioni territoriali e la durata dei procedimenti, conseguenze della riforma del sistema di protezione introdotta dal primo decreto. Circa 80mila persone rischiano di divenire irregolari, esposte a sfruttamento lavorativo e criminale. Eppure i testi di legge restano in piedi, inalterati. Se il Governo giallorosso vuole fregiarsi dell’aggettivo “discontinuo” agisca. I numeri per attuare il cambiamento ci sono. Faccia di più: stabilisca una discontinuità anche col memorandum Italia-Libia, che in tre anni ha ricondotto in Libia 40mila persone, forse poi torturate, abusate, morte. Lo sospenda. Noi continueremo a chiederlo, ogni giorno. E il 2 febbraio saremo in piazza per ribadirlo. *Segretario Radicali Italiani **Presidente Radicali Italiani ***Tesoriera Radicali Italiani Pena di morte: 184 esecuzioni in Arabia Saudita nel 2019, in Bielorussia 2 esecuzioni nel 2020 La Repubblica, 19 gennaio 2020 Il periodico report di Nessuno Tocchi Caino sulla pratica delle esecuzioni capitali nel mondo. In Pakistan annullata l’impiccagione dell’ex presidente Musharraf. Attivisti per i diritti umani del Somaliland, Stato auto-proclamato indipendente dell’Africa orientale, che non ha alcun riconoscimento della comunità internazionale, formato dalle province settentrionali della Somalia, hanno confermato l’esecuzione dei sei detenuti nella prigione di Mandheera, situata nella capitale Hargeisa. Il funzionario del Somaliland Human Rights Center, Guleid Ahmed Jama, ha detto che i sei sono stati giustiziati il 15 gennaio mattina. Lo si apprende dal portale di “Nessuno Tocchi Caino”. Secondo l’attivista per i diritti umani, questa esecuzione è la prima per un caso relativo ad Al-Shabaab in Somaliland dal 2016. Il Somaliland, ufficialmente la Repubblica del Somaliland, è considerato a livello internazionale come una regione autonoma della Somalia. Bielorussia - Un colpo alla nuca: emesse le prime 2 condanne del 2020. Il tribunale regionale di Mogilev il 10 gennaio 2020 ha condannato a morte due fratelli, di 19 e 21 anni, che sono stati giudicati colpevoli di aver commesso un omicidio in modo particolarmente violento, ha reso noto il Centro per i Diritti Umani Viasna. La Bielorussia è l’unico paese europeo che applica la pena di morte. Il metodo d’esecuzioni è il seguente: il condannato viene bendato, costretto a inginocchiarsi e ad aspettare circa 2 minuti prima che il boia lo finisca con un colpo alla nuca sparato con una pistola. I due fratelli giustiziati. Sono stati giustiziati due fratelli, Ilya Kostin e Stanislav Kostin, in un’udienza fuori sede a Cherikov. Sono stati accusati di aver ucciso la loro insegnante, che era anche loro vicina, dando fuoco alla sua casa”, ha detto il Centro. Nell’aprile 2019, mentre spegnevano un incendio in una casa a Cherikov, gli addetti dei servizi di emergenza trovarono il corpo della sua proprietaria di 47 anni. Numerose ferite da taglio furono trovate sul cadavere. I presunti autori dell’omicidio furono identificati poco dopo; erano due fratelli con precedenti penali, di 19 e 21 anni, che avevano litigato con la donna il giorno prima. Arabia Saudita - 184 giustiziati nel 2019. L’Arabia Saudita ha messo a morte 184 persone nel 2019, il numero più alto in un anno solare da sei anni, ha reso noto l’organizzazione per i diritti umani Reprieve, definendola una “tragica pietra miliare” per il Regno. Delle esecuzioni annunciate dall’agenzia di stampa saudita l’anno scorso, 88 sono state di cittadini sauditi, 90 di cittadini stranieri mentre sei persone erano di nazionalità sconosciuta, secondo quanto dichiarato da Reprieve il 13 gennaio 2020. Il gruppo per i diritti ha riferito che 37 persone sono state messe a morte dal governo saudita in un solo giorno il 23 aprile, inclusi tre prigionieri che erano minorenni quando hanno commesso i loro presunti reati. “Questa è un’altra tragica pietra miliare per l’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman - ha detto la direttrice del gruppo per i diritti, Maya Foa - i sovrani del Regno credono chiaramente di avere totale impunità nel violare il diritto internazionale quando pare a loro”. La dichiarazione di Reprieve ha sottolineato che il principe ereditario saudita aveva dichiarato, in un’intervista televisiva nel 2018: “Abbiamo cercato di ridurre al minimo la pena di morte. Ci vorrà un anno, forse un po’ di più, per porre fine. Non ci riusciremo al 100%, ma la ridurremo notevolmente”. Pakistan - Annullata la condanna a morte dell’ex presidente Musharraf. Il 13 gennaio scorso, un tribunale pakistano ha annullato la condanna a morte pronunciata nei confronti dell’ex presidente del Paese Pervez Musharraf. L’Alta Corte di Lahore ha stabilito che il tribunale speciale istituito per processare l’ex presidente non fosse legale. Il collegio di difesa di Musharraf aveva presentato una petizione all’Alta Corte in seguito alla condanna a morte emessa lo scorso dicembre dal tribunale, secondo cui l’ex generale dell’esercito era colpevole di aver imposto leggi di emergenza, in violazione della Costituzione, durante il suo governo. Nove anni al potere. Musharraf prese il potere nel 1999, quando estromise il governo eletto dell’ex primo ministro Nawaz Sharif, con un colpo di stato militare. Otto anni dopo, impose leggi di emergenza e mise diversi giudici chiave agli arresti domiciliari. Queste mosse provocarono condanne e proteste a livello nazionale che portarono alle sue dimissioni nel 2008. L’avvocato di Musharraf, Azhar Sadique, ha detto: “Vedremo come reagirà il governo”. Secondo il legale, Musharraf è stato un obiettivo politico, falsamente accusato di tradimento dal governo nel 2014, dopo che l’ex premier Sharif era tornato al potere. Myanmar - Condannato all’impiccagione per omicidio. Un tribunale della regione di Ayeyarwady nel Myanmar, il 13 gennaio 2020 ha condannato all’impiccagione un ex assistente sanitario per aver ucciso un insegnante e aver nascosto il cadavere dopo che nel 2016 un triangolo amoroso era diventato violento. L’ex assistente sanitario Than Zaw, che lavorava in un centro sanitario rurale nel villaggio di Payagon nella township di Hinthada, è stato dichiarato colpevole dal Tribunale Distrettuale della stessa Hinthada, di aver cospirato con la sua ragazza per uccidere il suo ex fidanzato Ko Aye Naing, un insegnante di 34 anni della scuola primaria del villaggio di Mayan Lay, nella stessa township. Il processo è durato tre anni e nove mesi. Il 13 gennaio il tribunale ha stabilito che ai due imputati debbano essere applicate le massime punizioni previste dalla legge. L’ex assistente sanitario è stato condannato all’impiccagione per omicidio premeditato. La sua fidanzata, Hnin Cherry, è stata condannata a sette anni di prigione con lavori forzati per aver nascosto le prove dell’omicidio. Stati Uniti. Gli artefici del programma di torture della Cia testimoni a Guantánamo amnesty.it, 19 gennaio 2020 A partire dal 20 gennaio i due psicologi responsabili della creazione e dell’applicazione delle “tecniche avanzate di interrogatorio” della Cia nel centro di detenzione di Guantánamo saranno chiamati a testimoniare durante la fase istruttoria del processo nei confronti di Khalid Sheikh Mohammed - considerato l’ideatore degli attacchi dell’11 settembre 2001 - a altri quattro imputati. I due psicologi a contratto, James E. Mitchell e John “Bruce” Jessen, sono responsabili di aver messo a punto tecniche di interrogatorio, tra i quali il water-boarding, l’isolamento in celle di dimensioni minuscole, i pestaggi e la privazione del sonno che equivalgono tutti a tortura. Molti detenuti hanno subito tali trattamenti in centri segreti di detenzione in tutto il mondo, compresa l’Europa, con la complicità di numerosi governi europei. Alle udienze saranno presenti due osservatori di Amnesty International: Julia Hall, avvocata ed esperta del Segretariato Internazionale di Amnesty International in materia di giustizia penale, antiterrorismo e diritti umani, e Zeke Johnson, direttore dei programmi di Amnesty International Usa. “Il perverso lavoro di questi psicologi ha fortemente compromesso la lotta globale contro la tortura. I metodi interrogatorio da loro caldeggiati hanno avuto un effetto domino in tutto il mondo”, ha dichiarato Julie Hall. “Invece di doverne rispondere, i responsabili del programma di torture della Cia, tra i quali Mitchell e Jessen, sono stati protetti e, in alcuni casi, difesi. Il fatto che essi testimonino in questa importantissima circostanza dimostra che la Cia non ha voluto sradicare le violazioni dei diritti umani su cui si basava il loro programma antiterrorismo. Questa impunità costituisce una macchia nella storia degli Stati Uniti. La tortura non può mai essere giustificata e chiunque ne faccia uso deve risponderne”, ha sottolineato Hall. Da tempo, Amnesty International sostiene che i funzionari governativi coinvolti in torture e maltrattamenti di detenuti durante la “guerra al terrorismo” globale degli Usa debbano rispondere delle loro responsabilità e che i detenuti di Guantánamo debbano essere rilasciati o processati tempestivamente nei tribunali ordinari federali statunitensi. Amnesty International continua ripetutamente a chiedere al governo statunitense di chiudere il centro di detenzione di Guantánamo e mettere fine ad anni, ormai 18, di violazioni dei diritti umani. L’organizzazione per i diritti umani richiama inoltre l’attenzione sul fatto che i programmi governativi basati su maltrattamenti e torture, insieme ai ripetuti ritardi nel celebrare processi equi nei confronti dei presunti autori degli attacchi dell’11 settembre, hanno contribuito in maniera diretta all’assenza di una vera giustizia e di risarcimenti per le vittime dell’11 settembre e i loro familiari. Nelle udienze dei prossimi giorni si valuterà se dichiarazioni estorte con la tortura debbano o meno essere escluse dalle prove nei confronti dei presunti autori degli attacchi dell’11 settembre. I cinque imputati potrebbero essere condannati a morte se giudicati colpevoli dalle commissioni militari, organismi le cui procedure non rispettano gli standard internazionali in materia di processi equi. La loro eventuale condanna a morte costituirebbe la negazione estrema dei diritti umani fondamentali. Libia. Bloccati i porti del petrolio, le pressioni di Haftar su Berlino di Francesco Battistini Corriere della Sera, 19 gennaio 2020 Via alla conferenza: “Evitare un’altra Siria”. Bozza in 6 punti per la pace: tregua e nuovo governo unico. Giù le carte. Che poi sono i mercenari, le armi, il petrolio. L’instabilità, la paura, il caos. Oggi alle 14, il mondo si ricorda finalmente della Libia e a Berlino si radunano i grandi per spegnere le troppe scintille d’una guerra che sta incendiando un’intera regione e per “evitare che davanti alle porte di casa nostra esploda una nuova Siria” (parole del ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas). Si scommette pesante e i giocatori arrivano, ciascuno, coi carichi che ha: il generale cirenaico Khalifa Haftar, coi consiglieri militari di Mosca e la decisione last minute di chiudere i pozzi di petrolio, bloccando le esportazioni; il presidente tripolino Fayez Sarraj, col nuovo alleato turco che lo sta rifornendo di mercenari siriani e contraerea made in Usa; tutti gli altri, con la speranza di contare di più (Russia e Turchia) o di rischiare di meno (Europa e Usa). Lo scenario di colpo si fa nero. Come il petrolio. E la carta migliore se la gioca Haftar poche ore prima della conferenza internazionale: causa “forza maggiore” - ovvero combattimenti che durano da anni e per la verità non hanno mai toccato davvero i pozzi - il generale rompe il tabù della Risorsa Nazionale, quella che ha evitato il collasso alla Libia del dopo-Gheddafi e ha finanziato finora tutte le milizie, bloccando l’export dagli impianti centrali e orientali di Brega, Ras Lanuf, Hariga, Sidra e Zueitina. Una perdita secca di 800 mila barili al giorno (su 1,3 milioni), quasi due miliardi di dollari al mese, con l’accusa alla National Oil Company (Noc) - che sta a Tripoli e che Haftar voleva già in passato decentrare a Tobruk - d’usare il greggio “per sostenere le milizie siriane e turche” giunte in sostegno al governo Sarraj. “È come dare fuoco alla casa di tutti”, avverte la Noc: “Petrolio e gas sono la nostra linfa vitale”. Le “conseguenze saranno devastanti”, teme l’Onu. Il generale dà la colpa alle tribù locali, ma è evidente che le guardie della Mezzaluna petrolifera dipendono da lui: oggi, in cambio d’uno sblocco che tranquillizzi i mercati, chiederà il ritiro dei turchi e una nuova, più favorevole road map. Che Libia sarà? La tregua imposta a Mosca da Putin ed Erdogan regge dal 12 gennaio, piccole violazioni a parte. Si tratta di capire se da Berlino - tra Johnson e Merkel, Macron e Putin, Erdogan e Al Sisi, con Trump che riscopre il dossier nordafricano e invia Mike Pompeo - possa uscire una specie di pace. L’assedio di Tripoli dura da aprile. I siriani filoturchi, circa duemila, pagati 2mila dollari al mese e con la promessa d’un passaporto di Ankara fra sei mesi, sono pronti allo scontro con gli haftariani. All’ultimo minuto alla conferenza si presenta anche Sarraj, riluttante, per le voci che da giorni lo danno come la vittima designata e arrabbiato per l’esclusione dalla lista degli invitati di Tunisia e Qatar, suoi sponsor. Non si sa se il tripolino e Haftar siederanno allo stesso tavolo. Si sa che bozza di documento, in sei punti, verrà loro sottoposta: cessate il fuoco, embargo delle armi, processo politico d’unità nazionale, riforme economiche, nuovo sistema di sicurezza, diritti umani. La proposta prevede una commissione internazionale Onu di controllo, che s’incontri una volta al mese in Libia o a Tunisi, più gruppi speciali di lavoro bisettimanali che rivedano i poteri di polizia e milizie, risistemino i centri di raccolta dei migranti, trasferiscano gli armamenti pesanti, ricostruiscano il Paese. Condizione necessaria, che ci siano “passi credibili, verificabili, in successione e reciproci”. Il punto chiave sarà la forza militare che faccia rispettare tutto questo: truppe europee, dell’Unione africana, dell’Onu? O niente del tutto? Libia. Il testo dell’accordo è già stato scritto. Ma nessuno sembra crederci di Yurii Colombo Il Manifesto, 19 gennaio 2020 L’auspicio è “la formazione di un governo unico approvato dalla Camera dei rappresentanti libica”. La Conferenza di pace per la Libia di oggi a Berlino si tiene sotto gli auspici dell’Unione europea e dell’Onu e con una nutrita partecipazione di Stati (Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia, Cina, Emirati Arabi, Turchia, Congo, Italia, Egitto, Algeria, Unione Africana e Lega degli Stati Arabi), ha comunque come attori principali la Turchia e la Russia con Fayez Al Sarraj e Khalifa Haftar a muoversi come ombre nel palcoscenico della politica mondiale. Secondo quanto ha rivelato Sergey Lavrov, ministro degli esteri russo, se fosse per i due grandi nemici le trattative non sarebbero neppure iniziate. “La cosa principale ora è che dopo la conferenza di Berlino, se tutto procede come previsto, i partiti libici non ripetano i loro errori passati e non inizino a presentare condizioni aggiuntive e incolparsi l’un l’altro. Il rapporto tra loro è molto teso, non vogliono nemmeno stare nella stessa stanza, per non parlare del parlarsi o incontrarsi”, ha detto Lavrov nella conferenza stampa sui risultati delle attività della diplomazia russa nel 2019. Alle trattative di lunedì a Mosca le 2 delegazioni libiche sono erano state ospitate in sale su piani diversi, con i mediatori russi a far da spola. Come promesso ad Angela Merkel e a Recep Erdogan, Vladimir Putin ha imposto un sì, seppur stentato, ad Haftar sulla bozza di accordo, il quale prima di volare a Berlino si è prodigato con parole di amicizia verso presidente russo: “La ringrazio - ha detto Haftar rivolto a Putin - ed esprimo il pieno sostegno all’iniziativa russa di tenere colloqui di pace a Mosca, che dovrebbe portare alla pace in Libia”. Un dettaglio non da poco quello di Mosca perché nella bozza la sede delle future trattative era stato indicato nella capitale russa ma poi era stato cancellato su insistenza di Al Sarraj. A Mosca di Haftar non preoccupano tanto le mosse tattiche (la sua decisione di chiudere i rubinetti del petrolio libico stanno rifacendo schizzare verso l’alto brent e rublo) quando la malcelata speranza di giungere alla fine a una spartizione del paese. E cioè l’ipotesi ciò l’accordo di Berlino intende mettere in soffitta. In queste ore la Tass, l’agenzia ufficiale russa, ha fatto circolare la bozza dell’accordo che si firmerà domani, giratagli con compiacenza dal ministero degli esteri, in modo tale che il gioco sia a carte scoperte e le fazioni libiche non possano fare scherzi dell’ultimo minuto. L’accordo è basato in sei punti: “cessate il fuoco, l’attuazione di un divieto di importazione di armi in Libia, la ripresa del processo politico nel paese, il ritorno del controllo statale sull’esercito, l’attuazione di riforme economiche e l’osservanza dei diritti dell’uomo”. Per attuare i sei punti i partecipanti creerebbero “un meccanismo internazionale per accompagnare le decisioni del vertice al fine di mantenere il coordinamento dopo il vertice di Berlino sotto gli auspici delle Nazioni Unite” e lo stesso accordo si afferma nel documento sarà ratificato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. La quale avrà anche l’ingrato compito di monitorare la tenuta del cessate il fuoco. “Ci impegniamo incondizionatamente e pienamente a rispettare e applicare l’embargo sulle armi imposto dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza 1970, nonché dalle successive risoluzioni del Consiglio, inclusa la proliferazione di armi dalla Libia, e sollecitiamo i rappresentanti della comunità internazionale a fare altrettanto” si dice ancora nel documento fatto circolare dalla Tass. Il tutto condito con gli scontati appelli di rito al rispetto dei diritti umani, dovrebbe avere poi come suggello “la formazione di un governo libico unico, unito, inclusivo ed efficace, approvato dalla Camera dei rappresentanti della Libia” è scritto ancora nel documento. Al Cremlino si dice che Putin sia convinto che non sia un programma che diventerà realtà in poco tempo, ma ci crede. Del resto il “miracolo siriano” gli dà ragione. Intanto Mosca tiene d’occhio anche l’evolvere della situazione in Iran. Quattro giorni fa l’Aeroflot - sola tra le grandi compagnie di bandiera - ha ripreso a far volare i suoi aerei su Teheran, segno di una fiducia che gli ayatollah avranno sicuramente apprezzato. Iran. Il regime teme proteste degli studenti: “Pagliacci manipolati” di Umberto De Giovannangeli Il Garantista, 19 gennaio 2020 La Guida Suprema sfida la piazza democratica. E rivendica la sua leadership, politica più ancora che religiosa, della Repubblica islamica dell’Iran. “Nelle ultime due settimane ci sono state giornate amare e dolci, un punto di svolta nella storia. I due grandi avvenimenti dei funerali del generale Qassem Soleimani e del giorno in cui l’Iran ha attaccato le basi Usa sono stati “Giorni di Allah”. I due episodi, miracoli delle mani di Allah, hanno mostrato il potere di una nazione che ha dato uno schiaffo in faccia agli Usa e che la volontà di Allah è continuare il cammino e conquistare la vittoria”. Così dixit la Guida suprema iraniana Ali Khamenei nel suo primo sermone dopo 8 anni alla preghiera islamica a Teheran. Khamenei oscura il presidente Hassan Rouhani, e rilancia la sfida al Grande Satana americano. Con l’attacco missilistico contro la base militare statunitense in Iraq della settimana scorsa, l’Iran “ha colpito il prestigio e l’orgoglio dell’America”, sentenzia Khamenei durante l’atteso sermone nella grande moschea. A Teheran un’immensa folla ha assistito alla preghiera guidata dal leader religioso e l’intervento è stato trasmesso in diretta dalla Tv di stato. Khamenei, parlando dello scontro tra Iran e Stati Uniti, l’ha paragonato alla “resistenza opposta da Mosé ai Faraoni” egiziani, superpotenza dell’epoca. La “tragedia amara” dall’abbattimento dell’aereo ucraino a Teheran “non deve oscurare il sacrificio di Soleimani”. “Il fatto che l’Iran abbia il potere di schiaffeggiare un arrogante” come gli Stati Uniti “dimostra che Dio ci sostiene”. In riferimento all’attacco condotto dai Guardiani della Rivoluzione iraniana (i Pasdaran) contro due basi americane in Iraq e alla folla che ha partecipato alle cerimonie funebri per il generale Qassem Soleimani, Khamenei ha parlato di “giorni divini”. “Il presidente terrorista dell’America”, Donald Trump “ha commesso il crimine” di uccidere il generale iraniano Qassem Soleimani “non nel campo di battaglia, ma in modo vigliacco”. Soleimani “combatteva nelle prime linee contro i terroristi dell’Isis. Era il più importante comandante nei combattimenti contro l’Isis in Siria e in Iraq ma gli americani non hanno avuto il coraggio di affrontarlo sul campo di battaglia e lo hanno ucciso mentre era in vista a Baghdad dietro invito del governo iracheno”, ha rimarcato Khamenei. La Guida Suprema affonda a piene mani nella retorica antiamericana, con le forze di sicurezza schierate per cercare di indirizzare le persone ed evitare incidenti collegati a eventuali proteste. Khamenei ha continuato affermando che “usando tecnologia, armi, politiche ingannevoli e falsa propaganda, l’Occidente ha cercato di dominare la regione e dividere le nazioni di Iran e Iraq. Alcune persone irresponsabili (riferendosi ai manifestanti anti-Iran, ndr), che si sono fatte influenzare dalla propaganda satanica dei nemici, hanno fatto dichiarazioni gli uni contro gli altri, ma il martire Soleimani ha sventato questo complotto”. Ed ancora: “Quei pagliacci che sostengono di essere dietro il popolo sono bugiardi - ha aggiunto riferendosi ai manifestanti anti-regime - Sono manipolati dai nemici e non hanno dedicato le proprie vite alla sicurezza dell’Iran, diversamente da gente come Soleimani”. Ma i giovani che hanno riempito le piazze iraniane chiedendo la fine del regime teocratico-militare, sfidando il carcere, la repressione e le brutali milizie Basiji, mettendo direttamente sotto accusa l’Ayatollah Khamenei, sono “pagliacci” indomiti che fanno paura alla Guida Suprema e ai suoi Pasdaran. Sono quei “pagliacci” la speranza di un nuovo Iran. Germania. I “santi bevitori” di Berlino di Angelo Ferracuti Corriere della Sera, 19 gennaio 2020 C’è una casa di riposo nella capitale tedesca, ospita alcolisti senzatetto, dirottati dalla vita. Qui possono continuare a bere, birra e vodka soprattutto, in una situazione protetta. Li abbiamo incontrati. C’è un piromane nella Wohnheim, la casa protetta di via Nostizstrasse 6/7 di Berlino, ma nessuno sa chi sia. Provoca piccoli incendi, soprattutto di notte, sempre e solo al primo piano, quando gli altri ospiti dormono i loro sonni agitati. È in quel momento che l’incendiario infido entra in azione nella casa per senzatetto e alcolisti della Chiesa evangelica, qui a Kreuzberg, un quartiere con un’anima popolare, patria degli squatter che occupano le case e dei punk, al confine con la città dell’Est, con una forte presenza della comunità turca. Su lunghe vie ordinate si affacciano palazzi squadrati e ristoranti etnici; a pochi passi, una pompa di benzina, un locale per scambisti sull’altro lato della strada e, accanto, la rivendita di bibite dove molti di loro vanno a rifornirsi di alcol, soprattutto birra a buon mercato, piromane compreso. Nell’edificio vivono 46 persone, tutti uomini, tra i quaranta e gli ottant’anni, in piccoli appartamenti con dentro tutti i loro ricordi, le rare fotografie e i pochi abiti, le scarpe che possiedono, quello che sono riusciti a salvare dal loro naufragio, quando si sono persi. Il mattino, quando varco la soglia dello stabile, alcuni ospiti siedono davanti ai tavolini dell’ingresso. Già alle otto è consentito bere, ma solo vino e birra, i superalcolici, quelli si possono consumare solo in camera: questa è la regola. Altri fisicamente più rovinati si trascinano sfibrati nei carrelli e nelle carrozzine, o stanno nel refettorio, seduti chini a bere intorno ai tavolinetti, gli occhi lucidi, i capelli arruffati, unti, le facce intorpidite e le labbra gonfie, le bocche con pochi denti ingialliti, e fumano, fumano di continuo sigarette puzzolenti spesso rollate a mano, che intanfano le stanze, penetrano negli intonaci, un odoraccio che t’insegue ovunque quando sali ai piani. Sono i “santi bevitori” di Berlino, tutti con storie di disperazione e violenza alle spalle, problemi con la giustizia, alcolisti cronici con fallimenti matrimoniali, gente finita in strada per via dei debiti o dopo aver perso il lavoro. Non tutti salutano, o danno confidenza, certi passano come fantasmi silenziosi in quel luogo di transito, tra la solitudine angosciosa dei loro appartamenti - dove hanno trovato asilo dopo anni di vagabondaggio - e questo ingresso e la via circostante. Tra di loro, seduto su un tavolino all’angolo, c’è Karsten, un testone rasato, il pizzetto biondo rado e la pancia grossa, che fino a due anni fa viveva ancora nomade. Indossa una maglietta logora di colore bordò. Tiene tra le dita ingiallite dalla nicotina una sigaretta che aspira di continuo. Ha le braccia robuste, segnate dalle cicatrici della vecchia vita randagia, affollate di tatuaggi sbiaditi. È un senzatetto che ha vissuto per sei anni e mezzo in strada nella parte orientale, nel Brandeburgo e a Marzahn, non ha più contatti con la sua famiglia, tutti giostrai, “famiglia tabù” bofonchia con disprezzo, strofinando le froge del naso, emettendo un verso sgraziato, “cancellata”, aggiunge mentre sorseggia la sua birra. Prima di diventare un barbone è stato in carcere quattordici anni, forse ha commesso un omicidio, ma non vuole parlarne, “il ricordo no - dice confuso - tutti possono finire per strada: prima perdi il lavoro, poi la casa, arriva la depressione, cominci a bere forte...”, confessa senza finire di pronunciare la frase. Neanche dei tatuaggi vuole dire niente, non ricorda nulla di quei segni che porta sulla pelle, poi all’improvviso alza la maglietta con entrambe le mani, mi fa vedere al centro del petto il volto di una donna dai capelli lunghi, dice che si è lasciato tatuare in galera per noia. Chi è quella donna misteriosa? Mi guarda senza rispondere, mentre comincia a scolare una nuova birra. Ne ha altre due tatuate, di femmine, lo stesso volto sugli avambracci, destro e sinistro, “sempre la stessa”, ammette con un sorriso sbiadito. Beve molta birra, da adesso fino a quando, stordito, se ne andrà a dormire nella celletta di dieci metri quadrati, che non ha voglia di farmi vedere. Quella che sta bevendo è birra molto economica, ha come marchio un leone, “è prodotta a Frankfurt, nella Germania dell’Est”, ne fa fuori sei o sette al giorno; invece una volta, negli anni ruggenti della strada, dice vantandosi, “scolavo anche quattro o cinque bottiglie di vodka al giorno”. Mentre continuiamo a discorrere, all’improvviso comincia a tossire forte ripetutamente, senza riprendere fiato, poi dopo un conato inizia a colargli dalla bocca un liquido giallastro, che non riesce a bloccare e cade sulla superficie del tavolino, subito dopo gli scivola addosso, macchiando i pantaloni. Continua a tossire, non smette più. Del piromane non vuole parlare nessuno, ma sopra la porta del bagno al primo piano sul muro ci sono ancora tracce di fumo; qui sono arrivati diverse volte i pompieri, la struttura è stata temporaneamente evacuata. Certo di tipi strani ne girano parecchi qua dentro, come Oki, il punk anarchico di quarant’anni che odia la polizia ed è stato al fresco per piccoli furti e storie di violenza, o Werner, un cinquantenne magrissimo, la testa piccola e la pelle del viso rubizza che non mangia, ma beve tosto da trenta, con il quale non sono riuscito a parlare perché già alle dieci di mattina aveva alzato troppo il gomito, e non era di buon umore, “un’altra volta”, mi ha detto mesto. Oppure Gerhard, un anziano con pochi capelli argentati che gira a torso nudo sulla sedia a rotelle trascinata da un nero taciturno che sta spesso seduto all’ingresso. Lui preferisce trangugiare Korn, una bevanda tedesca che somiglia alla vodka prodotta da un fermentato di semi di cereali, alcol puro di pessima qualità che può essere utilizzato anche come disinfettante per uso domestico. All’ultimo piano, in una stanza luminosissima con una finestra panoramica che dà sul quartiere, il soffitto con tutti i suoi disegni di simboli di cavalieri medievali, vive da tredici anni beato insieme alle sue chitarre e ai mandolini Ernst Siegfried, soprannominato Eisbär, orso polare, boy scout e hippy, un ottantenne anche lui magrissimo dal viso esangue e gli occhi celesti, malato di cancro, in testa un cappello di raso rosso, che fa parte di un gruppo che in Germania chiamano dei Wandervogel, uccelli che vagano. Si incontrano sotto un ponte, qui a Berlino, suonano, bevono e parlano di viaggi che hanno fatto o che faranno on the road. Sulla porta d’ingresso, al numero 401, c’è scritto il suo motto, carpe diem. Sangho, l’infermiera tibetana dai capelli nerissimi che sta nella guardiola di fronte alla direzione, mi spiega che bevono tutti e la maggior parte di loro “sono alcolizzati con forme di epatite cronica, ulcere, molti soffrono di depressione, demenza, con vuoti di memoria provocati dall’alcol”. Alcuni hanno disturbi della personalità, secondo lei raccontano storie alle quali non bisogna credere, mischiando cose della vita vissuta con quelle che gli sono state raccontate da altri o hanno visto nei film. Una patologia grave è la Sindrome di Korsakov, dovuta all’alcolismo e alla malnutrizione, che provoca amnesie, cambi della personalità, allucinazioni. Alcuni bevono sempre le stesse quantità di alcol, altri lo fanno periodicamente, chi fa uso di superalcolici non riesce a sopportare tutto quel bere ogni giorno.