Carcere, tutti i fronti aperti. “C’è un senso di abbandono” di Luca Liverani Avvenire, 18 gennaio 2020 Negli istituti quasi il 30% in più dei posti disponibili. Quasi 10 mila in attesa di primo giudizio. Picco di suicidi nel 2019: 53 tra i detenuti e 9 tra gli agenti. Da inizio anno già 41 aggressioni. Allarme dal pianeta carcere. Sovraffollamento, aggressioni, suicidi - anche tra gli agenti - e carenza nelle strutture sanitarie per i detenuti. È l’immagine delle carceri italiane dipinta oggi dal Garante dei detenuti, Mauro Palma, in un incontro sulle “vulnerabilità in carcere”. Un’anticipazione in vista della presentazione del nuovo rapporto, sui dati del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, in programma il 17 aprile in Senato. “Le aggressioni sono sempre più in aumento - spiega Palma - e sono la conseguenza dello stato di abbandono che si respira nelle carceri”. Attenzione particolare è stata posta sullo stato delle strutture sanitarie per i detenuti, come le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) e le articolazioni per la salute mentale, in un caso “sottodimensionati” e nell’altro “realmente carenti”. A questo, poi, si aggiunge il sovraffollamento che registra un indice di 129,40%. Vale a dire che a fronte dei 50.692 posti a disposizione negli istituti penitenziari italiani, sono presenti 60.885 detenuti. Di questi, il 67% è di nazionalità italiana, il 5% è comunitario e il 28% è composto da extracomunitari. Il sovraffollamento colpisce alcune regioni più delle altre: quelle con maggior presenza di detenuti risultano essere Lombardia (8.560 a fronte di una capienza di 6.199), Campania (7.440 a fronte di 6.164 posti), Lazio (6.675, mentre la capienza regolamentare è pari a 5.247) e Sicilia (con 6.443 detenuti e 6.497 posti). La tendenza registrata nel 2019 è stata sempre superiore alle 60mila presenze, con un picco di 61.174 detenuti al 30 novembre scorso. Secondo il Garante il sovraffollamento può essere contrastato ad esempio con un maggiore ricorso alle misure alternative: “Circa 23 mila detenuti (23.024) stanno scontando una pena o un residuo di pena inferiore a 3 anni. Potrebbero quindi accedere a misure alternative”, sostiene Mauro Palma, secondo il quale in questi anni “sono diminuiti gli ingressi in carcere dalla libertà eppure aumentano le presenze”. Ma sono molti i segnali preoccupanti. Già nel 2020, in meno di un mese, si devono registrare 41 aggressioni in carcere ai danni di agenti penitenziari, più altri 5 contro personale amministrativo. Molti anche i suicidi: nel 2019 sono stati 53 tra i detenuti. “Degli ultimi 8 casi avvenuti in dicembre - spiega il garante Mauro Palma - 4 riguardavano persone senza dimora, 3 in attesa di primo giudizio”. Ma il dramma dei suicidi coinvolge anche il personale di Polizia penitenziaria: “C’è stato un picco, con 9 casi secondo le fonti ufficiali, 11 secondo gli Osservatori”. Un sesto dei detenuti, poi (9.843) sono in attesa del primo giudizio, altrettanti (10.363) sono sottoposti al regime del 41 bis o reclusi in sezioni ad Alta sicurezza, a fronte di 43.830 detenuti comuni e 6.692 inseriti nella categoria “protetti” e altro. La legge prevede per le detenute con figli fino a tre anni la possibilità di tenere i bambini in carcere: nell’anno passato sono state 48, con 53 bambini al seguito. Nel Lazio sono 13, 11 in Lombardia, 8 in Campania e Piemonte. Il tasso di detenzione registrato in Italia infine “è in linea con la media degli altri Paesi europei”, afferma il Garante nazionale per i diritti dei detenuti, che segnala come una “bella eccezione la Germania, con 78 detenuti ogni 100 mila abitanti, mentre in Italia ci sono 102 reclusi ogni 100 mila abitanti e in Francia 105. Problemi forti ci sono in Turchia, dove questo numero ha raggiunto quota 300, e in Russia con 390”. Spetta agli Stati Uniti d’America il triste record. A inizio 2016 nelle carceri americane c’erano 2 milioni 145.100 persone in 4.575 prigioni (locali, statali, federali, private a vario livello). Il tasso detenzione degli Usa era di 666 detenuti ogni 100 mila abitanti, probabilmente il più alto al mondo. In cella ci sono più di 23mila “candidati” a misure alternative di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 gennaio 2020 Conferenza stampa del collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà. “In carcere tanto non ci va più nessuno”, è il luogo comune che spesso si sente evocare quasi come un mantra tra la gente. E ciò diventa più problematico quando questo pensiero proviene dall’alto, da una parte di élite intellettuale come taluni professori universitari e autorevoli magistrati. Ospiti di alcuni giornali, quest’ultimi sottolineano soprattutto che se una persona non prende almeno 10 anni di carcere, dentro non ci va. Ma ieri, durante la conferenza stampa, tutto ciò è stato smentito dal collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà composto dal presidente Mauro Palma e i membri Daniela De Robert ed Emilia Rossi. Al 13 gennaio risultano 23.024 detenuti che stanno scontando una pena inferiore ai tre anni. Altro dato che colpisce è la presenza di ben 1572 persone condannate ad una pena inferiore ad un anno. Sono 3.206, invece, le persone che hanno una pena inflitta da uno a due anni. Resta il dato oggettivo - come ha evidenziato il garante Mauro Palma - che attualmente ci sono più di 23mila persone “candidate ad una misura alternativa”, ma rimangono dentro. Il sovraffollamento, che al 13 gennaio risulta del 129,40%, potenzialmente potrebbe affievolirsi garantendo appunto una pena alternativa per tutti quei detenuti che stanno scontando una pena molto bassa. Se le entrate - a causa della commissione dei reati in decrescita - diminuiscono, nello stesso tempo però diminuiscono le uscite. La conferenza stampa di ieri ha avuto come titolo “Le vulnerabilità in carcere. Riflessioni di inizio anno”. Sono proprio le vulnerabilità lo scenario impietoso che riguarda numerosi soggetti socialmente fragili che cominciano ad ingrossare le fila dei detenuti. Un problema, promette il collegio del Garante, che sarà sviscerato nella relazione annuale che verrà presentata in parlamento il 17 Aprile prossimo. Nel frattempo alcuni dati sono stati snocciolati. Sui 53 suicidi del 2019, dieci riguardano i senza fissa dimora. A dicembre, quattro sono i senza fissa dimora che si sono suicidati. Senza contare poi chi è morto per altre cause. Il Garante ha raccontato il caso emblematico di un senza fissa dimora recluso nel carcere di Viterbo per una pena di 4 mesi e ucciso a sgabellate da un suo compagno di cella che aveva dei problemi psichiatrici. E proprio il discorso delle persone con patologie mentali è l’altro elemento che rappresenta la vulnerabilità in carcere. Le articolazioni psichiatriche, aree sanitarie su misura per questa tipologia di detenuti, come ha spiegato la garante Emilia Rossi, “rischiano di ricalcare il vecchio schema del manicomio” e inoltre sono poche, “presenti solo in 32 istituti su 191”. A ciò si aggiunge il “sommerso” cioè l’utilizzo delle celle lisce per contenere i soggetti psichiatrici che vanno in escandescenza. Problemi che poi si ripercuotono anche agli agenti penitenziari. D’altronde - come è stato evidenziato alla conferenza stampa - nell’anno 2019 gli agenti hanno subito 800 aggressioni, e sono già 41 all’inizio dell’anno 2020. Quindi vediamo un carcere che diventa un contenitore di tutte quelle fragilità che la società libera non riesce a far fronte. “Certe aree di disagio potrebbero essere intercettate prima che le persone coinvolte possano entrare in carcere”, ha spiegato il garante Palma. Gli fa eco la garante Daniela De Roberts, auspicando la necessità che il territorio sia attento “prima e dopo il carcere”. Per discutere di tutto ciò Palma ha chiesto un incontro con l’Anci, l’associazione dei Comuni italiani. Il Garante nazionale Palma ha anche affrontato le criticità riguardanti il 41bis, sementendo certe ricostruzioni giornalistiche che lo vedono “ammorbidito” nel tempo. “Non mettiamo in discussione la necessità del 41bis, legittimato anche da alcune sentenze della corte costituzionale, ma qualsiasi misura ulteriormente afflittiva è inutile e dannosa, perché travalica lo scopo per il quale il carcere differenziato è nato”. Per quanto riguarda lo schema delle disposizioni delle celle al 41bis, per il garante, sicuramente è auspicabile come quello del carcere di Sassari. “Ma non sottoterra come purtroppo si trovano nel carcere sardo”, sottolinea il Garante. “Un carcere, quello di Sassari, che è complesso e meriterebbe una direzione stabile”, aggiunge sempre Palma. La metà dei detenuti può essere scarcerata subito di Piero Sansonetti Il Riformista, 18 gennaio 2020 In Italia meno reati e più carcerati. Indovinate perché. 10mila persone sono in prigione in attesa di giudizio. 23mila sono in prigione per scontare pene di uno o due anni: potrebbero uscire, a norma di legge, ma restano in cella In Italia ci sono un po’ più di 60 mila detenuti. Diecimila più di quelli che il sistema carcerario è in grado di ospitare. Quindi l’indice di sovraffollamento è molto alto. Sta crescendo. Sebbene negli ultimi anni è crollato il numero dei reati. Non è crollato solo il numero dei reati: è diminuito anche il numero degli ingressi in carcere, nonostante una legislazione sempre più severa, spinta dal vento torrido del giustizialismo politico. Come è possibile che meno persone entrino in carcere e però il sovraffollamento aumenti? Succede che dal carcere è sempre più difficile uscire. Le cifre sono impressionanti. Le ha fornite ieri alla stampa il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma. Il dato forse più clamoroso è questo: ci sono circa 23mila persone che devono scontare pene inferiori ai tre anni, o perché hanno ricevuto una condanna leggera, per reati molto piccoli, o perché hanno già scontato grande parte della pena. Queste persone, a norma di legge, potrebbero uscire e subire le famose misure alternative. E invece restano in prigione. O perché i giudici non danno il benestare o, molto più spesso, perché non esistono strutture esterne al carcere in grado di realizzare le misure alternative. Poi ci sono altri 10 mila detenuti in attesa di giudizio (e le statistiche dicono che più della metà di loro sarà assolto, nei tre gradi di giudizio, o sarà condannato a pene molto contenute) e la stragrande maggioranza di loro non è in carcere perché costituisce un pericolo per la società, ma per ragioni relative al funzionamento delle indagini, cioè alla necessità di esercitare su di loro pressioni psicologiche perché confessino, visto che altrimenti mancano le prove per condannarli. Di solito queste persone sono in cella in violazione della legge che prevede che il carcere preventivo possa essere deciso solo per ragioni straordinarie e per tempi brevi. Diciamo che di questi 10mila detenuti che la Costituzione considera innocenti, almeno 7.000 non dovrebbero stare in cella. Poi sommiamo questi 7.000 ai 23.000 con breve periodo residuo di pena e arriviamo a 30 mila detenuti che potrebbero essere scarcerati senza violare le leggi - anzi rispettandole pienamente - e senza mettere in discussione la sicurezza. 30.000 vuol dire la metà. Cioè potremmo dimezzare il numero dei detenuti senza compiere nessuna rivoluzione. Non vi sembrano cifre e considerazioni sconvolgenti? Perché non succede, cioè non succede che si svuotino le carceri e si ristabilisca un discreto livello di civiltà? Un po’ per la pigrizia della burocrazia e per il poco coraggio di alcuni magistrati. Un po’ perché l’impeto del senso comune giustizialista rende difficilissima una ragionevole politica carceraria. E su questo c’entrano molto la politica e soprattutto i giornalisti. La nostra categoria professionale, forse, è la più pericolosa: vive nella ricerca di chi si può mettere in prigione, nella speranza che più gente possibile sia ingabbiata, e nella corsa spasmodica a trovare casi clamorosi da raccontare sui giornali, di persone che avrebbero potuto stare in carcere e invece -maledizione - non ci stavano. Pensate allo scandalo sollevato nei giorni scorsi per un permesso premio concesso dopo un quarto di secolo a quelli della “Uno Bianca”. Poi c’è un secondo dato molto inquietante. Quello del 41bis. Sapete che il 41bis è un regime carcerario speciale, che anche i magistrati chiamano “carcere duro”. Siamo nel 2020, non siamo nel Settecento. Eppure in Italia esiste ancora il carcere duro, dove le condizioni di vita violano ogni principio costituzionale e si fanno beffe della dichiarazione dei diritti universali dell’uomo. Beh, ci sono più di diecimila persone che vivono al carcere duro (o in Sezioni di “Alta Sicurezza”). 10mila, evidentemente, vuol dire che non sono solo boss mafiosi o terroristi. Ci sono tra loro, inevitabilmente, anche condannati (o sospettati) per reati minori. Manovalanza. Probabilmente anche una discreta percentuale di innocenti. Perché li hanno messi al carcere duro? Per puro sadismo? Forse in parte è così. In parte invece il motivo è un altro: farli parlare, confessare, accusare i complici. Non tutti sono in grado di reggere il 41bis. E non tutti, tra quelli che parlano, dicono la verità. E comunque, è legittimo, in un paese democratico davvero, usare il carcere duro come strumento di indagine? Non è un metodo molto, molto vicino al metodo della tortura? La relazione del Garante è interessante anche per molti altri aspetti. Tra i quali l’analisi della provenienza geografica dei detenuti. Pensate che un quarto dei detenuti sono campani e un terzo calabresi. Sommando le due cifre si scopre che più della metà dei detenuti viene da queste due regioni del Sud. Che, insieme, hanno una popolazione che rappresenta circa il 15 per cento della popolazione italiana. Poi c’è la presenza degli stranieri, che è altissima: più del 30 per cento, mentre gli stranieri in Italia sono circa l’8 per cento della popolazione. È altissima, ma in proporzione è poco inferiore alla presenza dei campani ed è più meno uguale alla presenza dei calabresi. Forse non è vero che esiste un rapporto diretto tra immigrato e reato, piuttosto il filo diretto è tra “povero” o “disagiato” e reato. Però questo è inutile dirlo, tanto non trovi mai nessuno che abbia voglia di starti a sentire. Infine questo dato sorprendente (legato al ragionamento iniziale sulle possibile scarcerazioni). Le persone che sono in prigione pur avendo ricevuto una condanna a meno di un anno di prigione sono 1.572. Possiamo anche dire che sono, almeno loro, perseguitati: 1.572 persone sicuramente perseguitate. Poi ce ne sono altre 8.705 che hanno subito pene maggiori, ma devono scontare solo un anno. E altre 3.000 che sono in cella e sono stati condannati a meno di due anni. Sempre più persone “vulnerabili” nelle carceri italiane di Roberto Zichittella Famiglia Cristiana, 18 gennaio 2020 Mauro Palma, Garante nazionale delle persone detenute o private della libertà personale, anticipa alcuni dei temi che affronterà in aprile nella relazione al Parlamento. Riflessioni di inizio anno da parte di Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. La relazione al Parlamento è fissata per il 17 aprile, ma Palma sente l’urgenza di fare il punto sulle carceri italiane, in particolare sulle situazioni di vulnerabilità all’ interno degli istituti di pena. “La situazione richiede un’attenzione speciale”, sottolinea Palma. Intanto i numeri. Nelle carceri italiane, al 13 gennaio 2020, ci sono 60.885 detenuti, di fronte a una capienza di 50.692. In Italia ci sono 102 detenuti ogni 100.000 abitanti, numeri in linea con quelli della Francia, ma molto superiori alla Germania, dove ci sono 78 detenuti ogni 100.000 abitanti. Esiste quindi un sovraffollamenti che può creare disagio e tensioni. Nel 2109 ci sono state 827 aggressioni fisiche al personale penitenziario e 45 aggressioni al personale amministrativo. Il 67 per cento dei tenuti sono italiani, gli extracomunitari il 28 per cento (16.767), i comunitari (3.140). I detenuti con una condanna definitiva sono 37.229 (il 61 per cento del totale), mentre quelli in attesa del primo giudizio sono 9.843 (il 16 per cento). Le persone detenute con una pena inflitta (non residua) massima di un 1 anno sono 1.572. “Sono troppi”, dice Palma, “e in genere si tratta di persone che entrano in carcere già vulnerabili, magari senza fissa dimora. Di sicuro sono persone che non sono in grado di trovarsi un buon avvocato”. Dieci dei 53 suicidi in carcere del 2019 (8 solo nel mese di dicembre) hanno coinvolto persone che in libertà erano senza fissa dimora. Palma sottolinea un altro dato: 23.024 detenuti stanno scontando una pena o un residuo di pena inferiore ai 3 anni. “Queste persone”, spiega il Garante, “sarebbero candidate a poter avere misure alternative. Misure chiaramente sanzionatorie, ma alternative al carcere. Invece questo non accade. Diminuiscono gli ingressi nelle carceri, eppure aumentano i detenuti. Questo significa che, una volta dentro, c’ è una maggiore difficoltò ad uscire”. Altre persone vulnerabili sono quelle con problemi di salute mentale. Le aree a loro dedicate sono solo 32 su 191 istituti e, dove ci sono, si corre il rischio che le strutture ricalchino gli schemi dei vecchi manicomi. Sono carenti anche le strutture di accoglienza per le madri detenute. In questo momento nelle carceri italiane ci sono 48 detenute madri con 53 figli al seguito. Palma chiede alla politica, in primo luogo agli enti locali, di intervenire sul territorio “per investire su cosa non è ancora carcere, sperando non lo diventi mai”. Certe aree di disagio potrebbero così essere intercettate prima che le persone coinvolte possano entrare in carcere. Per discutere di questo Palma ha chiesto un incontro con l’Anci, l’associazione dei Comuni italiani. Infine un dato positivo e uno negativo: in Italia 926 detenuti sono iscritti a corsi universitari, ma sono altrettanti i detenuti analfabeti. I carcerati anziani che non vogliono uscire di prigione di Claudia Osmetti Libero, 18 gennaio 2020 Tanti di loro, una volta scontata la pena, preferirebbero restare dentro perché non hanno nessuno e non sanno dove andare. L’allarme lanciato dal garante dei detenuti di Roma. “Fatemi morire qui, non so dove andare”. Se fossimo in un Paese civile, quando la garante dei detenuti di Roma si è trovata davanti a una richiesta simile, arrivata sulla sua scrivania in una busta proveniente dal carcere di Rebibbia, con tanto di appello e firma di un carcerato di 75 anni, ecco, se fossimo in un Paese civile, con quell’istanza in mano la garante dei detenuti di Roma avrebbe strabuzzato gli occhi. Sarebbe rimasta sconcertata, forse persino disorientata. Invece niente. Invece la dottoressa Gabriella Stramaccioni non ha fatto manco un plissé. E non perché si disinteressi del suo lavoro, al contrario. Difende i disperati dietro le sbarre talmente bene, Gabriella Stramaccioni, che si è abituata a quella supplica. L’ha ripiegata con cura e l’ha messa assieme alle altre. “Solo fra Rebibbia penale e Nuovo complesso ci sono sessanta uomini ultrasettantenni - spiega - molti di questi scelgono di rimanere negli istituti penitenziari perché non ci sono strutture esterne dove possano scontare l’ultimo periodo della loro pena e della loro vita”. Una sberla in pieno viso, al Paese (cosiddetto) civile. Sono 5.216 i carcerati over 60 “ospitati” (si fa per dire) nelle patrie galere: di loro, 986 hanno più di 70 anni. Cioè gente che dietro le sbarre non ci dovrebbe neanche stare, almeno secondo l’articolo 47ter dell’ordinamento penitenziario. Invecchia la popolazione nazionale, ma invecchia anche quella carceraria: dal 2005 al 2019 gli anziani reclusi sono aumentati sempre, di anno in anno, in maniera inesorabile. Oggi rappresentano circa il 7 per cento. Fa già abbastanza tristezza così. Ma il dramma, per questi detenuti, prosegue paradossalmente anche quando la pena finisce. Non si tratta dunque del nostro malandato sistema carcerario. È il famoso “reinserimento”, il “recupero alla società” dei detenuti che la loro pena l’hanno scontata. Un problema sociale, dunque. Che, a quanto pare, interessa a nessuno. “Spesso sono persone che non hanno più legami, molti provengono dalla strada”, continua Stramaccioni. Spiantati, disgraziati. “Potrebbero accedere alle misure alternative che stabilisce la legge, ma non ci sono posti. E il carcere rimane l’unica accoglienza possibile, si trasforma in un deposito inevitabile”. Con le infermerie stracolme e le celle che traboccano (tra l’altro, l’annosa questione del sovraffollamento carcerario è tutt’altro che risolta). “Oggettivamente è un fenomeno in crescita che sta diventando un problema serio”, chiarisce Alessio Scandurra. Scandurra è il coordinatore dell’osservatorio Antigone, ogni anno dalle sue mani passano tutti i dati possibili del mondo carcerario. Compresi questi. È l’associazione per cui lavora, infatti, a sottolineare come l’età media dei detenuti in Italia sia di quattro anni superiore alla statistica europea (40 a 36). “Ci sono diversi fattori che si intersecano, creando uno scenario preoccupante - prosegue. Molte persone che potrebbero chiedere i domiciliari in vista dell’età non lo fanno perché fuori non hanno più nessuno, perché per loro rientrare in una situazione domestica che è stata messa in crisi dalla condanna subita non è facile, magari perché i loro famigliari non li vogliono più vedere”. Chiariamoci: restare in galera dopo aver scontato la pena non è possibile. “Però ci sono tanti operatori del carcere che si adoperano per evitare che queste persone finiscano sul marciapiede - specifica Scandurra, - per esempio contattando i servizi sociali”. Ma i servizi sociali sono legati al territorio e con frequenza i detenuti vengono assegnati a strutture lontane da casa. Insomma, è un dramma infinito. Che fa scattare perfino il paradosso di giudicare la vita “al gabbio” concretamente “migliore” di una vita in libertà, che però non offre nulla: “Succede che chi è molto povero e senza niente riesca a contare solo sull’assistenza sanitaria della prigione. Che ha una carenza diffusa, ma che è sempre meglio di niente”. Malati a vario titolo (e con l’età i disturbi si moltiplicano) e via dicendo. Il tutto, ovviamente, ha un costo: è vero che a un carcerato viene presentato il conto una volta fuori, ma finché è dentro pesa sulla spesa collettiva. E per non metterci una mano sulla coscienza, la mettiamo nel portafoglio. Tanto sono sempre mezze canaglie quelle che finiscono in prigione. “La detenzione è resta più sopportabile dell’idea di avere un dopo - chiosa Scandurra - per molti anziani detenuti questo pensiero non c’è, o è molto labile”. In carcere tra impegno e rinascita, nel segno dell’umanità di Davide Dionisi vaticannews.va, 18 gennaio 2020 A Roma, nei giorni scorsi, l’incontro tra il ministro della Giustizia Bonafede e l’Ispettore generale dei cappellani, don Grimaldi. Al centro del colloquio le condizioni di chi vive in carcere, tema da sempre trattato ne “I Cellanti”, trasmissione di Radio Vaticana. L’esperienza dell’associazione “Sulleregole” e la storia di Pietro. “Solo umanizzando questi luoghi di solitudine e di sofferenza, si può aiutare chi è privato momentaneamente della libertà personale, ad un vero recupero della persona”: così don Raffaele Grimaldi, Ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, dopo il colloquio con il Guardasigilli Alfonso Bonafede nella sede dell’Ispettorato in via delle Mantellate a Roma. “Gli istituti di pena, che per molti vengono intesi solo come luoghi di emarginazione e luoghi per custodire la sicurezza della società, possono divenire - afferma don Grimaldi - una vera e propria provocazione, uno stimolo, una sfida a far nascere e ad interrogarci affinché il nostro mondo sia più misericordioso e più attento alle persone”. Non chiudere tra le sbarre la speranza - Accoglienza, recupero, mai puntare il dito contro chi ha sbagliato ma spalancare il cuore offrendo amore e misericordia: sono queste le strade per una vera trasformazione della persona, secondo don Raffaele. Per il ministro Bonafede è molto importante il ruolo dei cappellani nel percorso di rieducazione perché svolgono un lavoro che è nell’interesse della collettività. Attraverso di loro, infatti, i detenuti scoprono la possibilità di cambiare, imparano la legalità “non come dovere ma come amore per le regole e come segno di rispetto nei confronti degli altri”. Colombo: insegnare ai detenuti il rispetto delle regole - Volto noto dell’inchiesta “Mani Pulite” che portò alla luce il giro di tangenti nella politica e nell’imprenditoria, il magistrato Gherardo Colombo ha fondato nel 2010 l’Associazione “Sulleregole”, che si dedica alla riflessione pubblica sulla giustizia e nell’educazione alla legalità. Ogni anno incontra circa 250 mila studenti in tutta Italia e proprio per tale attività ha ricevuto il Premio nazionale “Cultura della Pace 2008”. “È molto importante con i detenuti - spiega Colombo - avere una relazione nella quale ci si riconosce reciprocamente. La prima cosa è far vedere che le regole si possono rispettare e il rispetto delle regole è vantaggioso soprattutto in carcere. È un passaggio fondamentale”. “La mia visione del carcere è cambiata” - Nel racconto Gherardo Colombo ripercorre la sua esperienza con i detenuti. “Un conto - sottolinea - è vedere un carcere e un conto è riconoscere le persone che ci sono dentro”. L’ex magistrato ricorda di aver sempre messo in primo piano la dignità degli imputati e le loro garanzie soprattutto quando subivano un trattamento pesante come la prigione. “Ad oggi - racconta - non sono riuscito a dare una risposta a tanti interrogativi che mi hanno accompagnato in questi anni. Io non riesco a trovare il principio per cui si toglie un padre al proprio figlio piccolo, spedendolo in prigione, perché ha commesso una rapina. Dov’è il principio che rende giusto il fatto di togliere il padre al bambino? Ho vissuto sempre con questi interrogativi, pur tenendo conto delle esigenze di sicurezza per i cittadini ed il rispetto delle vittime. Ho fatto però un percorso che ha compreso letture e persone e attraverso questo devo dire che la mia ottica è cambiata veramente tanto. Adesso penso che il carcere non solo sia inutile ma anche dannoso”. La storia di Pietro: bisogna solo guardare avanti - Consigliere di Confcooperative Roma, imprenditore nel campo della movimentazione delle merci nel porto di Gioia Tauro poi l’accusa di associazione mafiosa, l’arresto e la condanna a 11 anni di reclusione. È la storia di Pietro D’Ardes che dal carcere però rinasce a nuova vita. “Ero un imprenditore a livello europeo, sono rimasto coinvolto in una vicenda giudiziaria che ha comportato sequestri, confische e condanne. In carcere ho condiviso momenti con persone che mai avrei pensato di frequentare - racconta Pietro - e mai avrei pensato di vivere l’esperienza del carcere di massima sicurezza”. Ma lì tra le sbarre, Pietro pensa al suo futuro e non si arrende. “Mi sono messo a studiare, mi sono iscritto a Giurisprudenza e in tre anni e mezzo sono riuscito a conseguire il titolo accademico, dando un senso a questo mio percorso. Quando poi sono uscito dal carcere, con qualche risparmio che mi aveva lasciato mia madre, ho messo su uno studio legale ed ho iniziato il praticantato. Ho intenzione di fare l’avvocato. Oggi - spiega - non sono più l’imprenditore di un tempo quando mi sentivo come un capitano di vascello o un generale, oggi voglio continuare il percorso iniziato dentro il carcere ma che ha preso il via con la condanna e sta continuando fuori di lì fino, possiamo dire così, alla guarigione. Di fatto il condannato, per me, è come un malato che si deve curare e deve fare una convalescenza”. Nel carcere si vede la vita che non si può più toccare - Pietro non nasconde i momenti difficili vissuti in prigione. “Ho assistito anche a dei suicidi, sono stati anni molto duri, ci sono stati dei momenti di grande sconforto, di desolazione e devastazione. Il carcere è una delle prove più forti che ci siano, per me, è una prova più dura anche della malattia. Mentre un malato è rassegnato, in carcere una persona è sempre vigile con la mente, però si trova in un mondo parallelo. È dentro le mura di un istituto penitenziario ma fuori - sottolinea Pietro - la vita continua ed è come se vedesse quella vita che non può più toccare. In quel momento è come parcheggiato”. “Una persona che è stata in carcere - insiste - porterà sempre quella cicatrice, ma è necessario trasformarla in qualcosa di positivo, per dare una testimonianza, aiutare gli altri e far capire che comunque nella vita non si può tornare indietro. Il carcere va vissuto in una certa maniera con dignità. Bisogna sapere accettare, rispettare le persone che fanno parte dell’istituto penitenziario, scontare la propria pena e in questo frangente capire gli errori. Io personalmente - conclude Pietro - ho deciso di studiare la giurisprudenza per il mio futuro ma anche per capire il perché della mia condanna e quindi ho voluto andare a fondo perché si può solo andare avanti e non si può più tornare indietro”. Prescrizione, Forza Italia rilancia: il 27 alla Camera sarà guerra di Aldo Torchiaro Il Riformista, 18 gennaio 2020 La commissione Giustizia della Camera ha condannato la prescrizione, ma il provvedimento torna in aula per una votazione plenaria il 27 gennaio. Ancora a caldo rispetto all’esito delle regionali, con qualche speranza che l’emorragia del M5s e le riflessioni in casa Dem possano cambiare gli equilibri. Questo il wishful thinking che circolava ieri al convegno garantista “L’omicidio della ragionevole durata del processo”. In omaggio alla canzone di Gino Paoli, ieri Forza Italia ha riunito un panel di esperti per denunciare “la drammatica controriforma” del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Una battaglia che Forza Italia intende giocare sino alla fine, a sostegno della proposta di legge promossa da Enrico Costa, bocciata ieri in Commissione: “Ieri - attacca la capogruppo azzurra alla Camera, Mariastella Gelmini - abbiamo perso ma è solo il primo tempo, certamente non tutta la partita che non è assolutamente finita: faremo di tutto in vista del 27 quando la legge Costa arriva in Aula. Ora speriamo che non passi questo grave vulnus alla nostra civiltà giuridica”. Durissima anche la capogruppo azzurra al Senato, Anna Maria Bernini, secondo cui questa riforma è “un atto di inciviltà giuridica da parte di due avvocati, Conte e Bonafede. Aderire a questa riforma - aggiunge - vuol dire sposare in pieno la filosofia di Davigo, massimo esponente di questo giacobinismo arrembante, il quale continua a ripetere che nel processo la difesa ha fin troppe garanzie”. A provare a fermare la riforma Bonafede è stato il deputato Enrico Costa, la cui Pdl è stata affossata due giorni fa in commissione Giustizia. È lui, al convegno, a parlare di un “Pd imbarazzatissimo, ha parlato di “ergastolo processuale”, di “fine pena mai”, di “incostituzionalità”, ma poi si sono rimangiati tutto sulla base del lodo Conte, che significa distinguere i condannati in primo grado dagli assolti in primo grado, una palese violazione della Costituzione. Il 48 % delle sentenze di primo grado sono appellate, in tutto o in parte. Significa che l’appello è una fase di controllo fondamentale, ma loro l’appello vogliono cancellarlo”. Gli fa eco il senatore della Lega Andrea Ostellari, presidente della commissione Giustizia a Palazzo Madama, che non si tira indietro: “Insieme collaboreremo a stendere delle proposte di legge che consentano di evitare processi infiniti e garantiscano il diritto alla difesa degli italiani”. La parola passa alla difesa, il battagliero avvocato Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali. “Saremo in piazza davanti a Montecitorio con tutti gli avvocati, il giorno del voto”, annuncia. Il timore è che la mannaia dei giacobini non si fermi qui. “Adesso aboliranno anche l’appello”, paventa Caiazza. “Perché la competenza tecnica di chi spiega il valore della prescrizione non conta più nulla. Interessa solo dare la sensazione di una lotta contro i poteri forti, mentre sono 120.000 i processi in Italia interessati ogni anno dalla prescrizione”. Presenti all’iniziativa anche Francesco Paolo Sisto, capogruppo azzurro in commissione Affari Costituzionali, Carlo Nordio, già procuratore aggiunto a Venezia, il senatore di Forza Italia Niccolò Ghedini, Edoardo Bianchi, vicepresidente Ance, Marcella Panucci, direttore generale Confindustria, Alessio Falconio, direttore di Radio Radicale. Il premier Conte da Algeri fa sapere: “Offriremo a tutte le forze politiche quindi anche a Italia Viva una riforma complessiva”. La rivolta delle toghe contro la proposta delle sanzioni per i più inefficienti di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 18 gennaio 2020 I magistrati contro la proposta del ministro Bonafede. Tutte le correnti compatte: “la lentezza dei processi non è certo determinata dalla pigrizia dei magistrati”. Prima di “minacciare ipotesi di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati qualora i tempi imposti per legge non vengano rispettati”, il governo dovrebbe varare un serio piano di investimenti nel settore della giustizia. È stato sufficiente che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ventilasse la possibilità di “sanzionare” i magistrati che sforino i tempi di fase del dibattimento, previsti nella riforma del “processo breve”, per ricompattare le correnti dell’Anm. Da Area a Magistratura indipendente, il gruppo moderato delle toghe, è un coro unanime di critiche. “La lentezza dei processi non è certo determinata dalla pigrizia dei magistrati; all’opposto, nel quadro normativo attuale, deve a loro essere riconosciuto il merito della residua, per quanto insufficiente, funzionalità della giustizia penale. Al fine di renderla più rapida sono necessarie risorse umane e materiali ben maggiori di quelle attuali e di quelle che il ministro Buonafede ha in animo di integrare”. Scrive in una nota il ordinamento di Area. “La magistratura italiana rappresenta un esempio di produttività nel panorama comparato dei sistemi giudiziari europei e non accetta di diventare, in ragione di una mediazione politica”. La replica della segreteria nazionale di Mi. Per far “digerire” alle altre componenti della maggioranza lo stop della prescrizione, Bonafede ha giocato la carta delle sanzioni alle toghe “lumaca”. Solo prevedendo delle “pene” per i ritardatari sarebbe possibile evitare che i fascicoli restino per anni negli armadi, il ragionamento dalle parti di via Arenula. Ma, come si è visto, le toghe hanno già fatto capire che sarà alquanto improbabile che una simile riforma veda la luce. Da dove partire, allora? La risposta la forniscono sempre le toghe: Sono necessarie riforme strutturali del codice processuale”. Via libera del governo all’uso del taser per tutte le forze dell’ordine di Francesco Grignetti La Stampa, 18 gennaio 2020 La “pistola elettronica” è classificata come arma di ordinanza. I Sindacati: “In caso di lesioni gravi o mortali l’operatore è responsabile penalmente”. Ottantanove casi di utilizzo registrati dal 5 settembre 2018 a oggi: per 30 volte la pistola ha “sparato” impulsi elettrici attraverso i due dardi, per il resto è stato sufficiente brandirla per ottenere la deterrenza. Finita la sperimentazione, è stato autorizzato in via definitiva l’uso della pistola elettronica, il cosiddetto taser, per le forze di polizia anche in Italia. Il consiglio dei ministri ha dato il via libera ieri al regolamento che disciplinerà l’uso della pistola elettronica. Ma c’è un ma. Pure se a impulsi elettrici, il taser resta una pistola. E infatti è classificato come “arma di ordinanza”. Come tale, Amnesty International avverte che non è affatto inoffensiva. Il Garante per i diritti dei detenuti, Mauro Palma, è altrettanto perplesso e ne ritiene “giustificato” l’uso solo in un ambito limitatissimo di casi. Anche i sindacati dei poliziotti nutrono dubbi. Non sulla pistola elettrica in sé, perché riconoscono che è un ottimo deterrente per i malintenzionati, e che protegge i poliziotti o i carabinieri quando sono alle prese con energumeni, peggio se armati di coltelli, ma per le possibili conseguenze civili e penali su chi lo utilizza. Dicono i sindacati: sicuramente meglio gli impulsi elettrici dell’arma di ordinanza, che deve restare un’estrema risorsa. “Questo strumento consentirà, senza il contatto fisico con i violenti, di bloccarli evitando che le loro azioni possano produrre pregiudizio o danni alla sicurezza dei cittadini. Il Siulp lo richiedeva da anni proprio per queste ragioni e anche per l’escalation delle aggressioni delle donne e degli uomini in uniforme, che ormai si registrano ogni 4 ore”, afferma ad esempio il segretario generale del Siulp, Felice Romano. Il problema nasce dalle possibili ricadute sull’agente o sul carabiniere che ne facciano uso. Già, perché in Italia l’operatore deve vedersela con la magistratura, qualora ecceda nell’uso della forza. E il regolamento stabilisce che il suo impiego “dovrà sempre avvenire nel rispetto delle necessarie cautele per la salute e l’incolumità pubblica e secondo principi di precauzione condivisi con il ministero della Salute”. Qui però salta su il Silp-Cgil: “Si tenga davvero conto di due diritti inalienabili che vanno bilanciati: la sicurezza dell’operatore di polizia e quella del cittadino”, dice Daniele Tissone, segretario generale del sindacato. “In particolare occorre un parere vincolante del ministero della Salute e soprattutto un protocollo operativo che dica con chiarezza come e quando usare la pistola elettrica. Un parere che non ci è mai stato fornito nonostante l’avessimo richiesto”. Il nodo è il pericolo per chi viene colpito dalle scariche elettriche. Si consideri che nelle linee-guida ministeriali, c’è un’avvertenza: non usare con un cardiopatico, con una donne incinta, se il soggetto può farsi male cadendo. Il Silp teme la fregatura. “Nel nostro ordinamento giuridico, che ci piaccia o meno, la responsabilità penale è sempre personale e nessuno può garantire che non ci siano conseguenze per l’operatore di polizia se dovessero verificarsi lesioni gravi o mortali a causa dell’utilizzo della pistola elettrica. Stare realmente e concretamente dalla parte dei poliziotti significa anche questo, non cedere alla facile demagogia che rischia solo di danneggiare l’operatore in divisa”. Sulla stessa falsariga il sindacato Coisp: “I limiti troppo stringenti - ragiona Domenico Pianese - rischiano di trasformare questa novità in un boomerang. Le linee guida prevedono l’obbligo di considerare la “visibile condizione di vulnerabilità” e i rischi “associati” alla caduta della persona. Valutazioni complesse, difficili se non impossibili nelle situazioni di particolare rischio e concitazione, quando tutto avviene in tempi brevissimi. Il rischio è che i poliziotti vengano esposti a richieste di indennizzo da parte dei soggetti colpiti per eventuali lesioni. E questo è inaccettabile”. Entusiasta invece è Matteo Salvini, che ha voluto fortissimamente la sperimentazione e si considera il padrino del taser in Italia. I leghisti sono anzi polemici contro il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che non ha dato la pistola elettrica alla polizia penitenziaria. “La criminalità foggiana imita la ‘ndrangheta” di Gianmario Leone Il Manifesto, 18 gennaio 2020 L’allarme della Dia. La relazione: “C’è la consapevolezza di una mafia che punisce chi si ribella”. L’invio di un contingente straordinario di forze di polizia nella provincia di Foggia e, dal 15 febbraio, l’attivazione nel capoluogo dauno di una sezione operativa della Dia con venti unità. È la risposta dello Stato all’escalation di episodi che dall’inizio dell’anno ha visto ben dieci attentati a danno di imprenditori e commercianti. Una situazione che oramai appare ogni giorno più grave e che è stata descritta con dovizia di particolari dalla stessa Dia nella relazione semestrale al Parlamento. Nella provincia di Foggia “il forte legame dei gruppi criminali con il territorio, i rapporti familistici di gran parte dei clan foggiani e la massiccia presenza di armi ed esplosivi favoriscono un contesto ambientale omertoso e violento” si legge. “L’assoggettamento del tessuto socio-economico, quando non è direttamente connesso agli atti intimidatori perpetrati dalle cosche, è il risultato della diffusa consapevolezza che la mafia di quella provincia è spietata e punisce pesantemente chi si ribella”. Secondo la relazione “la mafia foggiana vuole assumere nuovi assetti organizzativi, più consolidati e fondati su strategie condivise, emulando in tal modo, anche in ottica espansionistica, la ‘ndrangheta”, nonostante “la peculiare eterogeneità della mafia foggiana, suddivisa nelle tre distinte articolazioni della società foggiana, della mafia garganica e della malavita cerignolana”. Il tutto grazie al fatto che anche in provincia di Foggia si sta consolidando “un’area grigia, punto di incontro tra mafiosi, imprenditori, liberi professionisti e apparati della Pa”. Una vera e propria ‘terra di mezzo’ dove “affari leciti e illeciti tendono a incontrarsi, fino a confondersi”. Lo scioglimento dei Consigli comunali di Monte Sant’Angelo e Mattinata, nonché quelli di Manfredonia e Cerignola avvenuti nel mese di ottobre 2019, sono per la Dia “indicativi di questa opera di contaminazione”. Nella città di Foggia continuano le dinamiche di rimodulazione tra le tre batterie della società foggiana. Attraverso il “rapporto federativo” tra le tre batterie dei Pellegrino-Moretti-Lanza per la conduzione di affari particolarmente rilevanti, tra cui la gestione di una cassa comune ed il controllo condiviso delle estorsioni. Lo scenario criminale del Gargano continua invece ad essere contraddistinto da una forte instabilità sulla quale incide in modo determinante la cruenta contrapposizione tra i clan Romito e Li Bergolis, clan dediti al traffico di sostanze stupefacenti, estorsioni, rapine ai portavalori e riciclaggio di denaro di provenienza illecita in attività commerciali. In questo clima però, c’è gran parte della comunità che non vuole soccombere e continua a ribellarsi. Lo dimostrano le oltre 20 mila persone scese in piazza la scorsa settimana alla mobilitazione #foggialiberafoggia promossa da Libera per rispondere alla violenza mafiosa dopo l’escalation registrata in questi primi giorni del 2020. E soprattutto la grande partecipazione di ieri al Comitato provinciale ordine e sicurezza pubblica convocato dal prefetto Raffaele Grassi e aperto alla cittadinanza. Oltre 500 partecipanti e più di 10.000 spettatori in streaming hanno aderito all’iniziativa, promossa dal commissario straordinario del governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura Anna Paola Porzio. Si tratta di un evento a sostegno della comunità che conclude una serie di attività, avviate dal prefetto di Foggia e dal commissario antiracket, a dimostrazione della vicinanza dello Stato agli abitanti del capoluogo pugliese e allo scopo di spingere alla denuncia chi è oggetto di attenzioni da parte della criminalità organizzata. “La presenza delle forze di polizia sul territorio - ha dichiarato il prefetto Porzio - è senza dubbio importante, ma è altrettanto importante che ci sia una riscossa sociale che coinvolga la società civile”. Il morso di Bagarella pietra tombale sul regno di Corleone di Attilio Bolzoni La Repubblica, 18 gennaio 2020 L’aggressione del boss all’agente in cella rompe i codici sull’uso del corpo. Dai baci in bocca alle “taliate” mute, così comunicavano fedeltà e potere. La mafia di Corleone l’avevamo dichiarata estinta il 17 novembre del 2017 con la morte di Totò Riina ma (anche se gli storici forse riporteranno quella data come epilogo della stirpe criminale più sanguinaria della Sicilia) la cronaca ci sta raccontando qualcos’altro di molto interessante. E cioè che la scomparsa antropologica di quella razza mafiosa si è consumata per davvero il 16 gennaio 2020, giorno in cui Leoluca Bagarella ha preso a morsi un agente di custodia. Un “muzzicuni”, che in siciliano vuole dire appunto morso, all’orecchio di un operatore della polizia penitenziaria che lo stava scortando dalla cella alla sala delle videoconferenze del carcere di Sassari, per presenziare al processo palermitano sulla trattativa Stato-mafia. È il gesto banale e finale, l’atto che rivela sino in fondo l’impietosa fine dei Corleonesi, l’impotenza che trasforma uno degli uomini più pericolosi d’Italia - ideatore delle stragi Falcone e Borsellino e di quella di Firenze, l’assassino del commissario Boris Giuliano e del colonnello Ninni Russo, l’esecutore materiale dei delitti contro il boss Giuseppe Di Cristina e dell’esattore Ignazio Salvo - in una sorta di Hannibal the Cannibal dei poveri che può sfogarsi ormai solo addentando qualcosa o qualcuno. Cognato dello “zio Totò” che ne ha sposato la sorella Ninetta, incarcerato al 41 bis dal giugno del 1995, Leoluca Bagarella con quell’atto così poco mafiosamente “corretto” ha messo una pietra tombale sul regno di Corleone. Lui che faceva paura perfino a Bernardo Provenzano quando reggeva la Cosa Nostra dopo le bombe di Capaci e di via D’Amelio, che irrideva il vecchio padrino titubante sulla strategia del terrore portata avanti e gli diceva: “Allora, se non ci vuoi seguire appenditi un cartello al collo con su scritto “Io, Provenzano, non sono d’accordo con le stragi”. Provenzano non replicò intimidito. Lo Stato non ha perso e la mafia non ha vinto come scrivono i professori Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo che alla vicenda hanno dedicato una pregevole pubblicazione (per mafia indichiamo esclusivamente quella Corleonese) e in effetti il “gesto” del disperato Bagarella rappresenta il capolinea per quell’anomala generazione di boss. Gesti. La mafia che ha sempre parlato senza parlare, ne ha fatto largo uso. Del bacio per esempio. Nelle borgate palermitane fra di loro si baciano ancora in bocca “ma senza lingua”, antica consuetudine ai più ignota sino a quando è arrivata la storia nel 1987 del famoso bacio (molto presunto) fra il capoclan Balduccio Di Maggio e l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Lo raccontò lo stesso Balduccio ai procuratori ma i giudici non gli credettero. Un incontro a casa dei Salvo, una specie di trattativa misteriosa che non si capì mai sin quando non ci venne in soccorso con la sua intelligenza lo straordinario attore Ciccio Ingrassia. Con parole che sono oro: “Io non lo so se si siano mai incontrati Andreotti e Riina, ma sono sicuro di una cosa: se si sono incontrati si sono baciati”. Gesti. Anche più recenti, giugno 2017, Locride, San Luca. C’è il latitante Giuseppe Giorgi detto “La Capra”, ricercato dal ‘94 arrestato dai carabinieri a casa sua. Lo trascinano fuori e un uomo - legato a lui con il “San Giovanni”, che significa una parentela acquisita - si precipita verso l’ammanettato per inchinarsi e baciargli la mano. A nome di tutta la famiglia. Anche “mezza parola” a volte è troppo. Basta la “taliata”, la guardata. Come quella dei detenuti del maxi processo riservata al grande pentito di Cosa Nostra Tommaso Buscetta, quando per la prima volta entra nell’aula bunker dell’Ucciardone come testimone. Nessuna invettiva, nessun “gran cornuto” gridato dalle gabbie, solo silenzio. Un po’ paura e un po’ rispetto. La mafia è fatta anche così, di queste cose che si mischiano. E poi i patti e i ricatti. Le mani che s’intrecciano e poi si confondono. Vito Ciancimino e Bernardo Provenzano negli anni 70 e negli anni 80 che sono una sola persona, la politica e il sangue, il profumo e la merda, le sale damascate e le borgate, la legge e l’impunità. Mani sudate e volti invisibili. C’è tutta una letteratura che va da fine ‘800 ai nostri giorni. Dove tutto è indistinto, il bene e il male, i buoni e i cattivi. Ecco perché quel “muzzicuni”, quel morso, segna la fine di un’epoca. È l’afflizione, l’angoscia di chi non ha più speranza. Leoluca Bagarella, la tua storia finisce qui. Ivrea (To). Caso di legionella nel carcere, grave detenuto torinoggi.it, 18 gennaio 2020 L’uomo è stato ricoverato in ospedale, nel reparto di rianimazione: le condizioni sono gravi. Un caso di legionella riscontrato nel carcere di Ivrea preoccupa e non poco detenuti e lavoratori presso la casa circondariale. Un 50enne detenuto è stato ricoverato d’urgenza nel reparto di rianimazione dell’ospedale cittadino a seguito di un’infezione da legionella. L’uomo è in condizioni gravi. Stando a una prima verifica, si tratterebbe di un uomo probabilmente già alle prese con alcuni problemi di salute, che lo hanno predisposto alla malattia. Il servizio di igiene e sanità pubblica dell’Asl To4 sta effettuando alcuni accertamenti per risalire all’origine dell’infezione, che non si trasmette da persona a persona ma, per via respiratoria, mediante inalazione e aspirazione. Intanto, in via precauzionale, sono in corso controlli sugli impianti dell’acqua e dell’aria della struttura circondariale. “Si faccia luce al più presto sulle cause del caso di legionella nel carcere di Ivrea. Ne va anche della incolumità della salute dei nostri agenti di polizia penitenziaria”. Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, commenta così il ricovero di un detenuto in ospedale per legionella. “La sicurezza dei luoghi di lavoro - aggiunge Beneduci - è una priorità dalla quale non si può prescindere, a tutela di tutti. Sia del personale di polizia penitenziaria e del personale del comparto funzioni centrali, sia della popolazione detenuta”. Firenze. Lavori di pubblica utilità per i detenuti quinewsfirenze.it, 18 gennaio 2020 Firmato un accordo tra Città Metropolitana, Tribunale e Procura per consentire l’accesso alla messa alla prova presso gli uffici giudiziari. Lavori di pubblica utilità presso l’autorità giudiziaria ma solo a precise condizioni previste da una convenzione sottoscritta questa mattina tra la Città Metropolitana e Comune, Tribunale, Procura della Repubblica, Uiepe, Ordine degli Avvocati, Camera Penale e Fondazione Solidarietà Caritas. La convenzione “per la messa alla prova presso l’autorità giudiziaria” di durata triennale è stata siglata stamani in Palazzo Medici Riccardi dal sindaco Dario Nardella e il presidente del Tribunale Marilena Rizzo, insieme ai rappresentanti degli altri soggetti firmatari: Luca Tescaroli, Sostituto Procuratore della Repubblica; Salvatore Nasca, dirigente l’Uiepe-Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna di Firenze; Andrea Simoncini, costituzionalista e coordinatore del Piano strategico della Città Metropolitana; Lapo Gramigni, su delega del Presidente dell’Ordine degli Avvocati; Luca Bisori, Presidente della Camera Penale; Vincenzo Lucchetti, Presidente del Consiglio direttivo della Fondazione Solidarietà Caritas Onlus-Firenze. “Facciamo un ulteriore significativo passo avanti - ha detto Dario Nardella - nella promozione di azioni volte all’educazione alla legalità. È un obiettivo strategico, di grande civiltà, che abbiamo inteso sottolineare già nel Patto per giustizia firmato nel 2017 con il Tribunale, l’Università, la Camera di Commercio di Firenze e la Fondazione Cassa di Risparmio. È possibile e doveroso reintegrare nella vita comune persone che hanno sbagliato, attraverso percorsi educativi che portano in sé la dignità del lavoro e il segno di un servizio portato alla collettività”. “L’obiettivo della presente convenzione - ha detto Marilena Rizzo - è costituito dalla creazione di un partenariato per garantire una giustizia penale che eviti i danni della carcerazione, prevenga la recidiva e nel contempo ripari la collettività del danno ricevuto dalla commissione del reato con una prestazione lavorativa gratuita volta a velocizzare e favorire la realizzazione del processo penale telematico e quindi a rendere un servizio alla collettività e alla Giustizia”. Sulla base delle Regole europee e del Codice di procedura penale, il giudice, sentito l’imputato e il pubblico ministero, può applicare la sospensione del procedimento con messa alla prova, subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità, che consiste nella prestazione di un’attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso Enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato. Nell’ambito della convenzione l’indagato - imputato sottoposto alla messa alla prova presso gli uffici giudiziari verrà individuato sulla base di specifiche condizioni: l’assenza di precedenti penali e di altri procedimenti iscritti a carico dell’indagato/imputato; l’assenza di misure cautelari o di sicurezza in atto; la buona conoscenza della lingua italiana se il titolo di studio è stato rilasciato all’estero; l’assenza di condizioni di marginalità estrema qualora siano preclusive per il rispetto degli orari, per esigenze di spostamento o per altri motivi che possano pregiudicare le sue stesse aspettative; l’assenza di forme di dipendenza da sostanze. Il lavoro di pubblica utilità reso presso gli uffici giudiziari non riguarderà in nessun caso i compiti istituzionali dell’autorità giudiziaria, ma avrà ad oggetto principalmente l’attività di digitalizzazione dei procedimenti penali, contribuendo così ad una più celere realizzazione del processo penale telematico. L’obiettivo è quello di rafforzare nelle persone accusate di condotte illecite sentimenti di legalità e accentuare la percezione da parte della cittadinanza dell’impegno dell’autorità giudiziaria verso una giustizia prossima ed efficace. Quali sono i compiti di ciascun soggetto sottoscrittore della Convenzione? Il Tribunale e la Procura presso il Tribunale assumono l’impegno di accogliere parte degli indagati-imputati presi in carico dal Comune di Firenze e dalla Fondazione Solidarietà Caritas Onlus Firenze per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità. Il Tribunale e la Procura si impegnano altresì a favorire un percorso educativo e formativo di questi soggetti, che preveda contatti con la magistratura, con le forze dell’ordine, con strutture di tipo detentivo o riabilitativo, con esperti nelle materie psicologiche nonché con le vittime che manifestino disponibilità all’incontro. L’Ordine degli Avvocati di Firenze e la Camera penale di Firenze si impegnano a far conoscere ai propri iscritti e associati la presente Convenzione e lo spirito che la anima in modo che il singolo avvocato qualora condivida con il cliente la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova compia una prima valutazione sull’opportunità di un lavoro di pubblica utilità presso l’autorità giudiziaria e, in caso positivo, la inserisca nella richiesta di programma all’Uiepe (Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna. L’Uiepe di Firenze, attraverso le sue articolazioni locali, si impegna, all’atto della richiesta di programma di messa alla prova da parte dell’indagato/imputato, a valutare l’opportunità della effettuazione del lavoro di pubblica utilità presso l’autorità giudiziaria. La Città metropolitana di Firenze si impegna a promuovere l’istituto della messa alla prova presso i Comuni del suo territorio, il Comune di Firenze e la Fondazione Solidarietà Caritas Onlus Firenze si dichiarano disponibili a inserire presso il Tribunale e la Procura della Repubblica di Firenze nei limiti quantitativi da essi indicati imputati/indagati da loro presi in carico per la messa alla prova. L’attività non retribuita in favore della collettività sarà svolta secondo le modalità indicate nell’ordinanza di sospensione del processo con messa alla prova nella quale il giudice indica il tipo e la durata del lavoro di pubblica utilità. Mentre è fatto divieto di corrispondere alle persone ammesse ai lavori di pubblica utilità una retribuzione, in qualsiasi forma, per l’attività svolta, è invece obbligatoria ed è a carico del Comune di Firenze e della Fondazione Solidarietà Caritas Onlus Firenze l’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali nonché riguardo alla responsabilità civile verso i terzi. Parma. In arrivo 200 detenuti, ma il carcere sta già scoppiando di Antonio Bertoncini Gazzetta di Parma, 18 gennaio 2020 Incontro in Comune sulla casa circondariale. Evidenziati problemi e carenze di organico. L’orizzonte non è sereno per il carcere di Parma. Così proprio non va. È una grande macchina fatta di celle che non ha spazi per le attività che si potrebbero svolgere e che fa fatica persino a gestire i soldi messi a disposizione da Fondazione, mondo imprenditoriale e dallo stesso Comune. “E l’imminente arrivo di altri 200 detenuti farà esplodere i problemi che già ci sono”. A parlare così è Roberto Cavalieri, garante dei detenuti nominato dal Comune, che ha preso parte ad un incontro delle commissioni consiliari in Municipio, convocato dal presidente Alessandro Tassi Carboni, con lo scopo di dimostrare che la città non si scorda di quella città nella città che è il carcere di via Burla. All’incontro, al quale erano presenti anche i due direttori delle Aziende sanitarie, sono intervenuti anche i rappresentanti sindacali. Donato Colelli (Cgil), Gaetano Catalano (Sappe) e il rappresentante della UIL hanno ribadito la loro preoccupazione per l’arrivo dei nuovi detenuti a fronte di una drammatica situazione del personale: oltre al direttore stabile, mancano il 90% dei sottufficiali, c’è un solo commissario su 4 previsti, le figure educative sono la metà di quelle che servono e c’è la cronica carenza di agenti. Inoltre già ora ci sono problematiche di sovraffollamento e gestionali, a cui si aggiungono la carenza dei posti in ospedale (5 per 600 detenuti), dei collegamenti dei bus e dei parcheggi. I consiglieri intervenuti (Marco Maria Freddi, Roberta Roberti, Christian Salzano, Lorenzo Lavagetto e Daria Jacopozzi) e l’onorevole Laura Cavandoli, hanno espresso preoccupazione. In particolare la Jacopozzi ha proposto un tavolo di lavoro permanente con istituzioni, imprese e associazionismo. L’assessore Laura Rossi, lamentando le difficoltà di relazionarsi con la gestione del carcere, ha ricordato che il Comune ha stanziato 212.000 euro per tirocini lavorativi, sportello, mediazione culturale e attività teatrali. Ma - ha concluso la Rossi - bisognerebbe poter fare molto di più. Chieti. Protocollo per “esperimenti” sui detenuti, è polemica chietitoday.it, 18 gennaio 2020 Il Garante firma un protocollo con la d’Annunzio e la Casa circondariale per valutare le risposte comportamentali di detenuti sottoposti ad un determinato stimolo. Maurizio Acerbo (Rc): “Grazie a destra e M5S ci ritroviamo un imitatore di Lombroso”. Fa discutere il protocollo d’intesa firmato dal garante regionale dei detenuti Gianmarco Cifaldi con l’università d’Annunzio e la casa circondariale di Chieti per promuovere una ricerca che mira a valutare le risposte comportamentali di detenuti sottoposti a un determinato stimolo. Ieri, venerdì 17 gennaio, la sottoscrizione di Cifaldi con il rettore della d’Annunzio Sergio Caputi e il direttore della casa circondariale di Madonna del Freddo Franco Pettinelli del progetto che verrà svolto attraverso la collaborazione del Dipartimento di Scienze Giuridiche e Sociali nella persona dello stesso Cifaldi, del Dipartimento di Scienze Mediche, Orali e Biotecnologichee del Dipartimento di Neuroscienze, Imaging e Scienze Cliniche. “La ricerca - ha spiegato Gianmarco Cifaldi - volge a verificare i presupposti di un comportamento deviante mediante una metodica di stimolo-risposta attraverso una strumentazione non invasiva per verificare il grado di aggressività del detenuto. Gli stessi test verranno eseguiti su una popolazione esterna eterogenea come gruppo controllo. Si andrà a verificare se c’è o meno un cambiamento posturale in soggetti dotati di una particolare aggressività in funzione di stimoli somministrati attraverso immagini visive utilizzando apparecchiature non invasive”. Il test sarà suddiviso in tre fasi: il soggetto, durante le registrazioni posturo-stabilometriche e termografiche, verrà sottoposto alla visione di immagini emotivamente significative ed emotivamente neutre; ad un questionario di anamnesi medica ed odontoiatrica; infine verrà testato col protocollo posturale del professor D’Attilio mediante pedana posturo-stabilometrixa e termocamera. “Il confronto statistico tra il gruppo test e controllo e tra i vari esami ci darà informazioni circa l’obiettivo del nostro studio” conclude Cifaldi. Un progetto che non convince tutti: tra i ‘delusi’ c’è il segretario nazionale di Rifondazione Maurizio Acerbo, promotore e autore della legge che nel 2011 istituì in Abruzzo la figura del garante dei detenuti: “Siamo di fronte a un novello Lombroso - dice riferendosi a Cifaldi - che insieme ad altri colleghi farà i suoi esperimenti sui detenuti. Siamo di fronte alla palese distorsione del ruolo che dovrebbe avere il Garante che non è certo quello di retribuire un professore già stipendiato dall’Università per emulare Cesare Lombroso. Tra i compiti che la legge affida al garante - ricorda Acerbo - non c’è quello di trasformarli in cavie! Ho lottato per anni affinché si istituisse il garante affinché qualcuno si occupasse degli ultimi. Con il massimo rispetto per il professor Cifaldi mi sembra che sia in una situazione evidente di conflitto di interessi. Si dimetta e poi presenti a un nuovo garante le sue proposte di sperimentazione”. Firenze. Carceri, visita al “Gozzini”. Lensi: “Stati Generali del carcere in Toscana” stamptoscana.it, 18 gennaio 2020 Alla conclusione della visita alla Casa Circondariale “Mario Gozzini” di Firenze, il presidente di Progetto Firenze, Massimo Lensi, ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Con la visita al carcere di Solliccianino terminiamo questo giro di sopralluoghi negli istituti penitenziari fiorentini, cominciato il 10 dicembre nell’Istituto Penale Minorile Meucci e proseguito a Sollicciano la vigilia di Natale. La Casa Circondariale “Mario Gozzini” è un istituto in buone condizioni strutturali, ma con una missione da definire con maggiore intensità. Se ne parla da anni come futuro carcere femminile di Firenze, senza che a queste voci sia offerta un minimo di credibilità programmatica. “Oggi nell’istituto risultavano ristretti 114 detenuti, di cui 86 in custodia attenuata e 28 semiliberi, su una capienza regolamentare di 92 posti letto; 51 i detenuti di nazionalità italiana e 63 gli stranieri. Abbiamo potuto constatare come su questo istituto, che dalla sua apertura è stato al centro di sperimentazioni e programmi volti con continuità a una concreta attuazione dell’articolo 27 della Costituzione, si concentrino gran parte dei progetti che il Comune di Firenze ha attivato sul carcere. Ci auguriamo che in tempi rapidi altrettanta azione si focalizzi sugli altri due istituti carcerari fiorentini, in particolare su Sollicciano”. “Anche a supporto di questo, sarebbe forse il caso di considerare, proprio nei giorni in cui si sta discutendo dell’elezione del nuovo garante regionale dei detenuti, la possibilità di giungere a una convocazione degli Stati Generali del carcere in Toscana. Sarebbe il modo più opportuno per offrire al nostro territorio e alle sue istituzioni un’occasione di ampia riflessione e proposta sulle relazioni interdisciplinari politiche ed economiche tra sicurezza e diritti, carcere e disciplina, città e marginalità sociali per rendere il precetto costituzionale della rieducazione, un aspetto vivo e responsabile della nostra società”. La delegazione che ha visitato la CC Mario Gozzini era composta da: Massimo Lensi (Progetto Firenze), Grazia Galli (Progetto Firenze), Emanuele Baciocchi (Progetto Firenze) Antonella Bundu e Dmitrij Palagi (Consiglieri comunali Sinistra Progetto Comune), Duccio Martellini (Osservatorio Carcere, Camera Penale di Firenze). Sassari. Il Polo universitario penitenziario di Sassari cresce: superati i 60 iscritti sassarioggi.it, 18 gennaio 2020 Il Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Sassari (Pup) supera per la prima volta i 60 studenti iscritti. “Un traguardo che conferma e rafforza quanto già ottenuto negli scorsi anni, in cui siamo passati dai 40 ai 50 studenti - afferma Emmanuele Farris, delegato del Rettore per il Pup - “Dei nostri 66 studenti, ben 35 sono nuovi immatricolati. Per la prima volta siamo presenti contemporaneamente in 5 istituti penitenziari sardi (Alghero, Nuoro, Oristano, Sassari e Tempio) e in 5 istituti peninsulari (Cuneo, Regina Coeli, Rossano Calabro, Sulmona e Tolmezzo), dove abbiamo studenti in tutti i circuiti di detenzione, dalla media sicurezza al 41bis. I nostri studenti in regime di detenzione studiano in 15 corsi di laurea diversi, afferenti ai dipartimenti di Agraria, Scienze Economiche e Aziendali, Giurisprudenza, Storia Scienze dell’Uomo e della Formazione e Scienze Umanistiche e Sociali”. Ma l’alto numero di studenti, costantemente in crescita negli ultimi 5 anni, la loro distribuzione geografica in Sardegna e sulla Penisola, e l’eterogeneità dei circuiti detentivi, pongono notevoli problemi gestionali. Come affrontare questa domanda crescente, e come dare risposte adeguate a utenti così differenti e talvolta così lontani dalla sede universitaria? “La qualità si costruisce anno dopo anno - spiega il professore Farris - Noi stiamo investendo su tre assi principali: il rafforzamento del partenariato istituzionale; l’incremento delle risorse umane; l’introduzione di servizi informatici negli istituti in cui operiamo”. Il modello Pup si basa su un partenariato istituzionale diffuso, costantemente arricchito e rinforzato. “Al centro vi è l’intesa tra Università e Amministrazione Penitenziaria, con la quale abbiamo stabilito negli anni un’interazione davvero proficua e stimolante, un bel modello, a nostro modo di vedere, di collaborazione tra istituzioni ed efficientamento della macchina amministrativa statale - prosegue Farris - In particolare con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Cagliari, oltre ad un Protocollo d’Intesa del 2014, che sarà rinnovato e implementato nei prossimi mesi, abbiamo convergenza di vedute e di intenti, pur nel rispetto dei diversi ruoli. Contemporaneamente, data la nostra presenza in molti istituti penitenziari peninsulari, e soprattutto perché siamo il Pup italiano con il più alto numero di studenti detenuti in Alta Sicurezza e regime 41bis, abbiamo un dialogo costante e molto positivo con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di Roma. A queste partnership che possiamo definire strutturali, se ne aggiungono altre essenziali per la riuscita del progetto, con il Tribunale di Sorveglianza di Sassari, Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità e il nostro Ente per il Diritto allo Studio Universitario, ERSU Sassari - partner fondamentale di questo progetto - che da anni eroga fondi per l’acquisto di libri di testo destinati agli studenti detenuti”. I detenuti che vogliono intraprendere un percorso di studi universitari manifestano il bisogno di un’interazione diretta con il personale universitario. L’Università di Sassari anche quest’anno ha garantito da parte di docenti e amministrativi dell’ateneo tre servizi avviati lo scorso anno: l’Orientamento per diplomati nel mese di luglio 2019, il supporto amministrativo per le iscrizioni in carcere nei mesi di ottobre e novembre 2019, l’accoglienza in ingresso dei nuovi studenti nei mesi di dicembre 2019 e gennaio 2020. Un’azione capillare che ha visto l’adesione di un numero elevato di docenti (15 referenti dei dipartimenti e dei corsi di laurea) e di personale amministrativo dell’Università (16 unità). Ma la vera novità rispetto allo scorso anno è l’attivazione, a partire da luglio 2019, della Segreteria del Pup: si tratta di un servizio importantissimo per supportare gli studenti detenuti nella gestione della propria carriera universitaria, reso possibile dall’utilizzo delle risorse derivanti dal fondo premiale da 220.000 euro ricevuto (unico ateneo in Italia) nel 2018 dal Miur. Su questo fondo, dopo le 23 posizioni per tutor bandite lo scorso anno, che hanno permesso di erogare complessivamente 1700 ore di tutoraggio a 34 studenti, quest’anno si replica con un nuovo bando per 17 tutor (33 studenti beneficiari per un totale di 1542 ore), con scadenza il 20 gennaio alle 13.00, pubblicato sul sito dell’Università di Sassari. Per il Rettore Massimo Carpinelli, “il Polo Universitario Penitenziario è un presidio di inclusività, che l’Università di Sassari intende implementare anche in futuro, in un’ottica di miglioramento continuo delle proprie politiche di apertura e radicamento territoriale, destinate ad utenze con esigenze specifiche, tra le quali appunto gli studenti in regime di detenzione. Il PUP è anche uno strumento per potenziare le sinergie con gli altri 30 atenei italiani che realizzano attività didattica in ambito penitenziario, riuniti da aprile 2018 nella Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli Penitenziari (Cnupp), in cui il nostro Ateneo ha un ruolo di coordinamento, facendo parte insieme a Torino, Pisa, Padova e Napoli Federico II del direttivo nazionale in carica”. Prossimamente, il Polo universitario penitenziario dell’Università di Sassari si impegnerà per la realizzazione di aule didattiche nei penitenziari e l’introduzione di servizi informatici. Pescara. Per protesta detenuto inchioda i genitali allo sgabello di Alessandro Ricci Il Messaggero, 18 gennaio 2020 Situazione fuori controllo nel carcere di Pescara. Sovraffollamento, personale sotto organico, risse, casi limite come quello di un detenuto di origine italiana che, in segno di protesta, nei giorni scorsi si è inchiodato lo scroto allo sgabello. Richiedendo l’intervento del 118, per la rimozione del chiodo di ferro e le cure. La denuncia arriva da Sabino Petrongolo segretario regionale Unione sindacati di polizia penitenziaria. “Siamo in agitazione da maggio scorso - spiega. Rischiamo il collasso”. Il “San Donato” ospita 408 detenuti, ha una capienza per 270. Il sovraffollamento aumenta il malessere e acutizza la situazione. “Le tre sezioni più grandi hanno 80 detenuti ognuna - prosegue Sabino Petrongolo -. Un solo agente fronteggia la situazione, se il servizio è coperto. Può capitare di dover tenere sotto controllo anche più sezioni insieme”. La lista degli episodi di questo periodo è lunga. Poco prima di Natale, gli agenti - che non hanno dotazioni specifiche per questi casi - hanno fronteggiato un principio di incendio causato da due detenuti algerini che hanno appiccato il fuoco al materasso, non dopo aver creato scompiglio e risse. Tre poliziotti intervenuti sono stati medicati nell’infermeria dell’istituto. Cassino (Fr): Ergastolo ostativo: relatori d’eccezione ne discuteranno in carcere linchiestaquotidiano.it, 18 gennaio 2020 Lunedì 20 gennaio, presso la Casa Circondariale di Cassino, a partire dalle ore 10.00, si terrà un importante evento a cura dell’Università degli studi di Cassino e del Lazio meridionale e dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, sottosezione di Cassino, in collaborazione col Garante regionale dei detenuti. Si discuterà di ergastolo ostativo e del suo possibile superamento, dopo la nota pronuncia n.253/19 della Corte Costituzionale e della sentenza Viola, licenziata lo scorso giugno dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo. L’evento, patrocinato, tra gli altri, dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Cassino e dalla Conferenza Nazionale dei delegati dei Rettori dei Poli penitenziari - organismo a cui l’Università di Cassino ha aderito recentemente - vede la presenza di relatori d’eccezione, tra i quali lo stesso estensore della discussa sentenza della Corte Costituzionale, prof. Nicolò Zanon, oltre al Procuratore Nazionale Antimafia, Cafiero De Raho. Tra i partecipanti anche il Capo del DAP, dott. Basentini, il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Rom, dott.ssa Vertaldi, il Presidente del Consiglio Regionale, Mauro Buschini. A margine del Convegno, si terrà la firma della nuova Convenzione sul diritto allo studio in Carcere; progetto già attivo dallo scorso anno, ma arricchito, nella sua nuova veste, dalla collaborazione della stessa Associazione Nazionale Magistrati, a cui verrà affidato un ciclo di seminari, che fungerà da pregevole arricchimento dell’offerta formativa per gli studenti detenuti. “Sarà un’utile occasione di confronto su un tema che ha fatto molto discutere in questi mesi e che richiede un approfondimento critico e scientifico. Ringraziamo fin d’ora gli illustri relatori che hanno da subito accolto il nostro invito” afferma il Presidente della sottosezione Anm di Cassino, dott. Salvatore Scalera, che, assieme all’avvocato Grieco, coordinatrice dei diversi progetti universitari in carcere, modererà l’evento. “Abbiamo fortemente voluto che l’incontro si tenesse in carcere, a dispetto delle innegabili complicazioni organizzative, non solo per consentire ai nostri studenti detenuti di assistervi, ma perché siamo convinti che gli “spazi fisici” hanno la loro importanza e non potevamo scegliere luogo più adatto per parlare di carcere e diritti” conclude l’avvocato Grieco. Milano. “Con il teatro ci sentiamo liberi” di Cristina Lacava Corriere della Sera, 18 gennaio 2020 Al carcere minorile Beccaria, a Milano, è stato appena inaugurato l’unico teatro all’interno di un istituto, ma aperto alla città. Un esperimento, il primo in Europa, che si sta rivelando vincente. Silenzio, si prova. Mentre si spengono le luci, sul palco salgono due ragazze: sono Antigone e Ismene. I loro fratelli si sono uccisi a vicenda ma Antigone ha appena saputo che il re di Tebe, Creonte, ha permesso la sepoltura solo a uno di loro, Eteocle. Lei non ha dubbi: nonostante la contrarietà della sorella, sfiderà la legge pur di seppellire anche Polinice. Nell’ombra il coro, che entrerà poco dopo, da protagonista. In questa versione della tragedia di Sofocle la scena è essenziale. Al centro c’è una grande pedana in legno, dove gli attori salgono e scendono, corrono, fanno capriole. Durante lo spettacolo, spiega il regista, si apriranno alcune botole, rivelando il “mondo di sotto”. I protagonisti sono tutti giovani, molto attenti, motivati. Bravi. Dopo un po’, lo stop: è arrivato un gran vassoio di focaccia genovese, è il momento della pausa. Siamo nel teatro Puntozero del carcere minorile Beccaria, alla periferia di Milano, non lontano dalla linea del metrò 1. È l’unico teatro in carcere in tutt’Europa aperto direttamente all’esterno: un progetto partito parecchi anni fa, arrivato adesso in porto dopo mille traversie. Una scommessa senza precedenti, vinta. Dopo un’anteprima prenatalizia con un sold out da 2800 presenze per Romeo & Juliet Disaster, la prima vera e propria è dal 22 gennaio con l’Antigone; una tragedia che parla di legge divina e umana, di libertà e obbligo morale, ma soprattutto di gioventù. Un testo che non può non farsi amare da questi ragazzi, detenuti ed ex detenuti, italiani e stranieri, affiancati dagli operatori dell’associazione Teatro Puntozero/Beccaria, da 25 anni presente nell’istituto penitenziario. C’è molta attesa per lo spettacolo; le matineé sono già tutte prenotate dalle scuole. Chi vuole assistere, può comprare i biglietti online (su puntozeroteatro.org). Per assistere allo spettacolo si entra da una porta sulla strada e si sale di un piano fino a una comoda sala da 200 posti, con bel le poltroncine rosse donate dal Teatro alla Scala. Sembra un qualunque teatro cittadino, ma all’interno, dalla parte opposta, un’altra porta si apre invece verso la casa di reclusione. Poco prima della pausa arrivano Cosima Buccoliero, direttrice del Beccaria (oltre che del carcere di Bollate), Mimma Belrosso, responsabile del Centro di prima accoglienza (il servizio che accoglie per 96 ore i ragazzi dopo l’arresto, in attesa della decisione del giudice minorile), e il cappellano don Gino Rigoldi. I ragazzi li salutano con calore, sono contenti che assistano alle prove. Ci sono abbracci, pacche sulle spalle. Cosima Buccoliero è arrivata al Beccaria da poco più di un anno, la maggior parte dei lavori erano stati già fatti. Ma è stata lei a dare gli ultimi permessi, a imprimere lo scatto decisivo per arrivare all’apertura. “Ci siamo battuti per un’assoluta indipendenza del teatro dal carcere, così come per la chiesa a fianco, che abbiamo aperto ai fedeli. Alla messa di Natale si poteva entrare direttamente dall’esterno, senza controlli”, spiega. A spingere in questa direzione è l’idea che “il carcere chiuso possa fare ben poco, soprattutto per i giovani. La pena è qualcosa di cui tutta la comunità dovrebbe farsi carico, perché se un ragazzo viene recuperato, è una vittoria per tutti. Non si può dire: chiudiamo questo qua in cella e buttiamo via le chiavi. Al contrario, noi dobbiamo pensare a un percorso che permetta a lui, o a lei, di essere autonomo e rifarsi una vita”. Che sia la strategia giusta lo dimostrano i risultati del carcere per adulti di Bollate: un 18 per cento di recidiva contro la media nazionale del 68/70 per cento. Sicuramente un modo per aumentare la sicurezza sociale. Al Beccaria ci sono 35 detenuti, tutti maschi (la sezione femminile è a Pontremoli), tra i 14 e i 25 anni (conta l’età al momento del reato), rinchiusi per reati anche gravi contro il patrimonio e la persona. C’è la scuola dell’obbligo, un laboratorio di cucina, la manutenzione del verde, due ditte esterne (prodotti da forno, quadri elettrici) che offrono lavoro. Nel laboratorio di teatro sono impegnati 7/8 ragazzi, che ricevono un piccolo stipendio da 500 euro al mese: “Imparano tutti i mestieri che servono; recitano, fanno i tecnici ma anche le pulizie”, dice il regista Giuseppe Scutellà. C’è Stan, rumeno, in Italia da 14 anni, ora in affidamento, che sarà libero tra 5 mesi. C’è Christian, albanese, che ha finito di scontare la pena, la mattina si alza alle 5, va a fare il muratore ed è “contentissimo”, poi nel tardo pomeriggio arriva al Beccaria e si trasforma in attore. La sera scrive canzoni; pare sia un rapper molto in gamba. Spera di ottenere la carta di soggiorno e trovare una casa sua; per ora, è ospite del regista e della sua compagna Lisa Mazoni, attrice (è lei Creonte) e socia fondatrice di Puntozero/Beccaria. In Antigone, i detenuti interpretano il coro, mentre le parti femminili sono affidate alle operatrici dell’associazione, studentesse universitarie o liceali. Sulla scelta dell’opera, il regista spiega che “è molto importante, perché parla di giustizia giusta e sbagliata, di libertà e di legge morale, di trasgressione. Aiuta questi ragazzi ad avere maggiore consapevolezza. Stando insieme tutto il giorno per le prove, detenuti e studenti riflettono, è un arricchimento reciproco. I detenuti capiscono che c’è un modo per stare insieme più sano rispetto all’unico che conoscono: lo sballo. Almeno, proviamo a farglielo capire”. Antigone arriva dopo il comico Romeo & Juliet Disaster, ma in programma c’è anche una versione integrale e più classica di Romeo e Giulietta: “Speriamo che entri in cartellone nella prossima stagione del Piccolo Teatro”, dice Scutellà. “Abbiamo molti progetti; se vogliamo andare avanti, dobbiamo creare più opportunità, sia per i ragazzi, sia per la compagnia”. L’obiettivo della direttrice è, intanto, quello di concludere la ristrutturazione del Beccaria perché accolga più ragazzi: ora molti vengono dislocati in altre strutture. “Non ha senso avviare un percorso di recupero in un luogo lontano dove i detenuti, una volta usciti, non andranno a vivere”. L’altro, ancora più impegnativo, è “incidere sulla quotidianità, coinvolgere le famiglie, preparare il futuro”. Scommettere sulla speranza. Latina. Per le detenute la proiezione del film “Sezione femminile” radioluna.it, 18 gennaio 2020 È stato possibile grazie alla Caritas diocesana. Lunedì prossimo le detenute del carcere di Latina si ritroveranno in una saletta per assistere alla proiezione del film “Sezione femminile”, del regista Eugenio Melloni e prodotto da R2Production di Riccardo Badolato. Il titolo già fa intuire il soggetto, la condizione che devono vivere le donne in carcere, certamente non facile ancor più per le recluse pontine della sezione di alta sicurezza. Questo speciale evento è stato reso possibile dal gruppo della Caritas diocesana che svolge il servizio di volontariato carcerario nella struttura di Via Aspromonte, dove gestisce lo sportello di ascolto per i detenuti. “Questa esperienza che faremo domani è scaturita da un’altra iniziativa che come Caritas stiamo portando avanti nel carcere”, ha spiegato Pietro Gava, coordinatore del servizio, “si tratta di un progetto con cui riusciamo a offrire un laboratorio di lettura e scrittura, che al momento per esigenze organizzative la direzione del carcere ha autorizzato solo per la sezione femminile”. In sostanza, i volontari hanno voluto creare un ponte comunicativo letterario tra l’interno e l’esterno dell’istituto penitenziario per mettere in comunicazione questi due mondi apparentemente così diversi, scegliendo la lettura come attività di comprensione del mondo e favorendo allo stesso tempo la connessione con partner di ogni tipo: istituzioni, altre associazioni, librerie, editori, scuole, lettori. “Siamo convinti che la cultura è una leva strategica per favorire l’inclusione sociale, contrastare le disuguaglianze e le discriminazioni. Pensiamo che la lettura e la scrittura possano essere occasione di crescita”, ha concluso Pietro Gava. Le detenute hanno accettato ben volentieri questa esperienza tanto da dare anche un nome al loro gruppo: il cerchio magico. La proposta è arrivata da una delle recluse, ispirandosi all’omonimo gioco che il figlio faceva alla scuola dell’infanzia: si entrava nel cerchio e si parlava delle proprie emozioni. Come andare oltre un muro almeno grazie alla fantasia. “La Cella Zero. Morte e rinascita di un uomo in gabbia” di Marianna Donadio informareonline.com, 18 gennaio 2020 Pietro Ioia presenta il suo libro di denuncia: “La Cella Zero. Morte e rinascita di un uomo in gabbia”. “La Cella Zero” è la prima pubblicazione di Pietro Ioia, ex detenuto che ha scontato in carcere una pena di 22 anni per narcotraffico. Tra i 20 diversi istituti penitenziari nei quali è stato trasferito c’è anche il carcere di Poggioreale, dove Pietro per la prima volta incontra la realtà della Cella Zero, nella quale ha subito torture di una violenza inaudita. “Noi la chiamavamo O’ Zer. Era una cella non numerata dove la polizia penitenziaria ci spogliava e ci picchiava con manganelli, calci e pugni. Nell’arco di 30 anni ci sono passati oltre 50.000 detenuti”. Spiega Ioia durante la presentazione del suo libro, tenutasi a Napoli il 13 gennaio. La cella zero non esiste solo a Poggioreale ma, come confermano numerose denunce, in svariati carceri italiani. Pietro in quella cella ci è stato due volte e ha deciso di rompere il silenzio sulle violenze che ha subito in prima persona e che continua a subire chi si trova ora al suo posto. Nel suo libro ha scelto infatti di parlare di tutto quello che ha visto e vissuto negli anni di detenzione, nei quali ha raccolto storie difficili da raccontare. “La seconda volta che finii allo Zero fu perché ci trovarono delle armi. Ci portarono al piano terra, ci spogliarono e ci fecero correre per un corridoio, buttandoci i cani addosso. Uno dei detenuti venne morso nelle parti intime”. Questa è solo una delle storie che Pietro ci racconta, che ci apre gli occhi su una realtà che, afferma, ricorda quella di un campo di concentramento. Sono questa e le tante esperienze di questo genere vissute nel carcere di Poggioreale che lo spingono ad iniziare la sua lotta per i diritti dei detenuti, denunciando nel 2014 le torture subite in carcere. Dopo la sua, di denunce, ne arrivano più di 150. Da allora Pietro ha continuato con coraggio la sua battaglia, riconosciuta e premiata anche dal sindaco De Magistris, che gli ha recentemente affidato l’incarico di garante per i diritti dei detenuti. “Per me questo incarico è una missione” commenta l’autore, raccontandoci delle sue recenti visite nei carceri napoletani e di come il suo operato sia continuamente intralciato dalle interferenze della penitenziaria. Poggioreale, tra tutti gli istituti, resta il più invivibile. Le condizioni di vita che ci vengono descritte, tra sovraffollamento, strutture fatiscenti e diritti negati, sono davvero inumane. “Io ho pagato. Ora, forse, è il turno dei carnefici” Queste le parole con cui si conclude “La Cella Zero”, che racchiudono il senso di rivalsa non solo personale ma collettiva che ha spinto e spinge Ioia a portare avanti la sua missione, con la speranza che la giustizia possa finalmente vincere sul potere. A presentare il libro di Pietro Ioia è presente anche Giuseppe Ferraro, docente di filosofia morale alla Federico II che da anni lavora come volontario in carcere, a stretto contatto con i detenuti. Il professore analizza la situazione carceraria da un punto di vista sociale. “Il grado di democrazia di un Paese si misura in base alle condizioni delle sue scuole e delle sue carceri” afferma, sottolineando come entrambe le istituzioni dovrebbero svolgere un ruolo educativo. Pessime notizie per l’Italia che, in entrambi gli ambiti, non fa di certo una bella figura. Di quanti altri Stefano Cucchi c’è bisogno prima che la polizia penitenziaria paghi per le proprie responsabilità? Di quante altre vittime, prima che il sistema carcerario venga riformato partendo da zero? Classi ghetto anche didatticamente sbagliate, ce lo dice Gandhi di Eraldo Affinati Il Riformista, 18 gennaio 2020 Quando aveva dodici anni Gandhi, che apparteneva a una famiglia benestante indiana, avrebbe voluto giocare con il figlio di un servitore di casa, ma la madre del futuro Mahatma glielo vietò: il sistema delle caste rendeva impossibile tale promiscuità. E così il sorriso di gioia fece presto a spegnersi sulle labbra del bambino che tuttavia si ricordò per sempre della mortificazione patita, al punto di immortalarla nelle prime pagine della sua autobiografia: Antiche come le montagne. Tanta acqua è passata sotto i ponti, il mondo è cambiato, ma certe diffidenze tendono a riemergere, anche sotto mentite spoglie, magari mascherate dalle cosiddette buone intenzioni, persino nei meandri protocollari delle nostre raffinate democrazie occidentali: non è la prima volta e purtroppo non sarà l’ultima che un istituto scolastico, nel presentare l’offerta formativa in vista delle prossime iscrizioni, non esita a divulgare pubblicamente l’origine sociale dei propri studenti, indicando la separazione tra quelli di estrazione alto borghese e quelli che invece sono “figli di lavoratori dipendenti occupati presso queste famiglie (colf, badanti, autisti e simili)”. I primi, leggiamo nel sito, frequentano una sede, i secondi un’altra. È quanto incredibilmente accade a Roma presso l’Istituto Comprensivo di Via Trionfale. Già un paio di anni fa un rinomato liceo della capitale, il Visconti, finì sotto i riflettori mediatici perché nel rapporto di autovalutazione si considerava particolarmente vantaggiosa l’assenza fra i banchi di disabili o immigrati. A nulla è servita l’indignazione nazionale che ne seguì con tanto di grancassa televisiva. Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Eccoci di nuovo a commentare una situazione paradossale considerando la legislazione innovativa dell’istruzione italiana, che avrà pure tanti difetti ma resta una delle più inclusive del Vecchio Continente. E allora come spiegare questa ennesima buccia di banana che la stessa neo-ministra Lucia Azzolina, insieme alle rappresentanze dei dirigenti scolastici, si è giustamente affrettata a stigmatizzare? Le ragioni sono più profonde di ciò che sembra. Non pochi genitori credono ancora che le classi migliori siano quelle composte da alunni selezionati secondo criteri socio-economici: è lì che, a parer loro, si studia meglio e viene valorizzato il famigerato merito. “Mio figlio non può restare indietro col programma in attesa che tutti gli altri lo seguano”: questo è in sostanza il retropensiero che spinge tanti padri e tante madri a voler scegliere per i propri pargoletti il plesso scolastico meno disagiato. Difficile convincerli del contrario: le classi di gran lunga più valide dal punto di vista didattico, lo dico per esperienza diretta, sono le altre, quelle eterogenee, composte da adolescenti diversi: bravi e mediocri, capaci e negligenti, maschi e femmine, ricchi e poveri, bianchi e neri, forti e deboli, italofoni e non. La scuola non è altro che l’intensificazione della vita: sempre meglio mescolare le carte piuttosto che suddividerle per gruppi e sezioni. Solo nella relazione un ragazzo può crescere, non certo inoculandogli una sapienza fine a se stessa. Tutto ciò che siamo, se non lo condividiamo, è destinato a inaridirsi. In teoria la grande maggioranza si dichiara d’accordo, poi però, all’atto pratico, non si comporta in modo conseguente. Gli spettri tornano a riaffacciarsi nella compilazione dei Piani Triennali di Offerta Formativa. Chi li compone crede di attirare l’utenza verso il proprio istituto scolastico mostrando la ruota del pavone. Guarda quanto siamo belli: abbiamo ragazzi di ogni classe sociale e li teniamo staccati gli uni dagli altri. Prima di scrivere questo articolo ero nella scuola Penny Wirton, a Casal Bertone, un quartiere capitolino, dove gli immigrati imparano l’italiano. Abbiamo messo insieme nello stesso banco un sedicenne del Liceo Pilo Albertelli con un coetaneo albanese della stessa età. Il primo, studente di terza superiore, spiegava i verbi al secondo, appena arrivato nel Centro di Accoglienza di Torre Spaccata. Sono stati due ore a capo chino sul quaderno. È questa la scuola che voglio. Me l’ha insegnata Gandhi. Migranti. Svolta del ministro Lamorgese: chi lavora può restare di Mario Morcone Il Riformista, 18 gennaio 2020 Finalmente si sta aprendo una riflessione più ampia sulla normativa che regola l’immigrazione in Italia; un complesso di istituti in parte vecchi e superati da uno scenario completamente nuovo e in parte violentati dai cosiddetti Decreti che portano il nome del senatore Salvini. È una materia molto complessa sulla quale poco nobilmente si è giocato negli ultimi due anni il consenso elettorale avvelenando i rapporti interni alle nostre comunità, con un linguaggio aggressivo e con un’ossessione della paura del diverso inoculata abilmente giorno dopo giorno; si è costantemente alimentata cioè quella che va sotto il nome di percezione dell’insicurezza. Una percezione costruita e utilizzata non per ripristinare una corretta valutazione del contesto sociale, ma al preciso scopo di alterare la realtà. Ora che la polvere mano a mano sta cadendo, ci si rende conto della necessità di individuare soluzioni ragionevoli a un enorme problema che si è creato e che sta determinando in molte persone marginalità, frustrazione se non addirittura rancore. Si intravedono le prime aperture a una nuova emersione, dopo l’ultima portata avanti dal governo Monti, come possibile provvedimento per l’immediato contenimento dei numeri delle irregolarità. E allo stesso tempo un’opportunità per dare una risposta alle richieste degli imprenditori di una manodopera che scarseggia soprattutto nel nord del Paese o che viene illegalmente utilizzata in alcuni settori economici del Mezzogiorno. Naturalmente qualsiasi provvedimento che possa venire incontro alle necessità e anche alla disperazione di tante persone è comunque il benvenuto. Ma non sono convinto dell’attuale efficacia di soluzioni molto tradizionali, come quelle adottate nel recente passato attraverso gli strumenti dell’emersione o della nomina di commissari. Si era fatto un lungo e faticoso lavoro in stretto rapporto con i Comuni e con i territori per costruire una infrastruttura dell’accoglienza che non fosse costantemente travolta dalle periodiche ondate migratorie che hanno investito e che possono in futuro investire il nostro Paese. Parlo del patto interno Anci per la distribuzione in piccoli numeri sostenibili dalle comunità locali: parlo dei progetti Sprar che affidano alla responsabilità politica del sindaco la qualità del percorso di accoglienza e integrazione. A mio avviso da qui bisogna ripartire, ridando respiro a tutti quegli strumenti di inclusione delle persone che sono sul nostro territorio a cominciare dal lavoro, perché siano una leva di sviluppo economico e non un peso per tutti noi. Nessuna ansia di reintrodurre istituti come la protezione umanitaria né di cancellare astrattamente le previsioni normative introdotte dal ministro Salvini, ma un po’ di ragionevolezza nel rendere più ampie le categorie di coloro che possono godere di una forma di protezione nel nostro Paese. Migranti. Nave Gregoretti, la giunta ha deciso: il voto su Salvini prima delle elezioni emiliane di Paolo Delgado Il Dubbio, 18 gennaio 2020 La giunta per le autorizzazioni voterà sulla richiesta a carico di Salvini il 20 gennaio. La giostra impazzita si è fermata tornando al punto di partenza: un esito che accentua, se possibile, il carattere assurdo dell’intera vicenda. Ieri è stata un’altra giornata sulle montagne russe, e stavolta le polemiche hanno preso di mira la stessa presidente del Senato Casellati, per aver deciso di partecipare al voto della giunta per il regolamento, determinando così il passaggio dell’odg della minoranza che chiedeva di derogare da una regola che appena una mezz’ora prima era stata dichiarata “perentoria”. La vicenda, come tutto in questa assurda storia, è complessa e di difficile comprensione al di fuori delle alchimie tecniche del Palazzo. Dopo una serie di rimpalli durata giorni, la decisione era stata affidata alla giunta per il regolamento del Senato, nella quale l’opposizione di centrodestra era sino a ieri mattina in netta maggioranza. Da mesi la maggioranza chiedeva pertanto alla presidente Casellati di integrare la giunta con due nuovi ingressi, essendo per prassi abituale cercare di rispecchiare anche nella giunta la composizione e i rapporti di forza dell’aula. Chiamata a esprimersi in via consultiva, la giunta si era pronunciata contro l’integrazione e la presidente aveva lasciato la questione in sospeso. Ieri, anche per evitare le polemiche che sarebbero inevitabilmente sorte se una scelta così combattuta fosse stata affidata a una giunta in mano all’opposizione, la Casellati ha deciso di far entrare in giunta la presidente del Misto Loredana De Petris (LeU) e quella delle autonomie Julia Unterberger. In questo modo maggioranza e opposizione si sono trovate in parità. Il quesito posto dall’opposizione chiedeva se si la regola per cui il verdetto della giunta deve arrivare entro 30 giorni dalla richiesta di autorizzazione a procedere ha caratteri di perentorietà oppure, come sin qui era stato, di ordinarietà. Proprio la maggioranza aveva infatti impugnato l’ordinarietà della regola per sostenere la possibilità di rinviare il voto. In giunta, però, i rappresentanti della maggioranza di governo si sono invece espressi a favore della perentorietà. Non che fosse intervenuto un cambiamento d’opinione. I gruppi di maggioranza avevano semplicemente consultato il calendario: dal momento che i 30 giorni “perentori” scadevano alla mezzanotte di ieri, la seduta della giunta per le autorizzazioni non si sarebbe potuta tenere e la parola sarebbe passata direttamente all’aula a metà febbraio, dunque dopo le elezioni in Emilia-Romagna. Una gara di furbizie e di astuzie di piccolo cabotaggio alla quale l’opposizione non si è sottratta, ponendo subito ai voti la richiesta di derogare dalla perentorietà appena sancita. La presidente Casellati ha scelto di votare, cosa inusuale per i presidenti delle camere, nella convinzione che per una norma appena sancita come perentoria fosse opportuno intervenire con una norma transitoria. La maggioranza la ha di conseguenza accusata in aula di essere venuta meno al proprio ruolo di terzietà, scegliendo a sorpresa di votare. In realtà si tratta di un’accusa molto esagerata, tanto più se si tiene conto del fatto che la giunta per le autorizzazioni era stata convocata per il 20 gennaio invece che per il 17, all’unanimità, per consentire a due rappresentanti dell’opposizione in missione negli Usa, Grasso di LeU e Giarrusso del M5S, di partecipare al voto. La denuncia di una istituzione di garanzia come è la presidenza del Senato per un caso simile, nel quale le manovre tattiche si sono sprecate, dimostra quanto alta sia la tensione alle porte del voto in Emilia Romagna. Del resto, dagli spalti dell’opposizione, Salvini suona la stessa musica accusando un’altra istituzione di garanzia, la Corte costituzionale di essere “una sacca di resistenza del vecchio sistema”. Il caso del Senato è però reso ancora più esasperato dalla futilità dell’oggetto del contendere. La bussola della maggioranza è stata infatti solo il cercare di evitare che il voto certamente favorevole all’autorizzazione contro Salvini arrivasse prima delle elezioni in Emilia-Romagna. E non è detto che sia finita. Pd e 5Stelle meditano di disertare la commissione il 20 gennaio. In questo caso l’autorizzazione verrebbe respinta salvo poi cambiare il verdetto in aula a urne chiuse. Ma certo sarebbe davvero assurdo per la maggioranza di aver sì permesso il salvataggio di Salvini ma solo per affossarlo dopo senza ammettere che l’unico problema è i voto del 26 gennaio. Il fatto che sia arrivati a tanto per una simile preoccupazione dovrebbe essere, per i partiti della maggioranza, più che inquietante. Rivela infatti la convinzione che la maggioranza degli elettori stiano in realtà con Salvini, in particolare sul fronte dell’immigrazione, e siano quindi pronti a rispondere positivamente alla propaganda che certamente lo dipingerà come un martire. Migranti. Sea Watch 3: Carola Rackete ha agito per necessità, non andava arrestata di Adriana Pollice Il Manifesto, 18 gennaio 2020 La Cassazione respinge il ricorso della procura di Agrigento che si era opposta alla scarcerazione della comandante decisa dal Gip. La comandante della nave Sea Watch 3 Carola Rackete non andava arrestata. A stabilirlo in via definitiva è stata la Corte di Cassazione, che ha respinto il ricorso della procura di Agrigento contro l’ordinanza che lo scorso 2 luglio l’aveva rimessa in libertà. La comandante tedesca il 29 giugno era entrata nel porto di Lampedusa nonostante il divieto della Guardia di finanza, imposto dal Viminale allora retto da Matteo Salvini. Il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, aveva contestato alla capitana i reati di resistenza a pubblico ufficiale, resistenza e violenza a nave da guerra ma la gip Alessandra Vella non aveva convalidato l’arresto bocciando l’ipotesi accusatoria. La Cassazione le ha dato ragione. “Chi aiuta le persone in difficoltà non andrebbe perseguito - ha scritto ieri su Twitter Rackete. È un verdetto importante per tutti gli attivisti che salvano vite in mare. L’Ue dovrebbe riformare le direttive contro i “crimini si solidarietà”. In attesa delle motivazioni della Cassazione il legale della comandante, Leonardo Marino, ha commentato: “Carola non andava arrestata, il dovere di soccorso non poteva essere esaurito con la messa in salvo dei naufraghi a bordo della Sea Watch 3, le normative internazionali includono nell’operazione di salvataggio anche lo sbarco in un porto nel quale siano assicurati, oltre che la salvaguardia della vita, anche la tutela dei diritti fondamentali”. E ancora: “Adesso sappiamo con certezza che avevamo ragione noi. Vedremo se la procura di Agrigento darà seguito a questa pronuncia della Cassazione ponendo fine alla vicenda giudiziaria o se andrà avanti su questa sua tesi, che riteniamo folle. Arrestata perché aveva salvato vite umane”. All’alba del 29 giugno Carola Rackete decise di entrare senza autorizzazione nel porto di Lampedusa. Salvini aveva lasciato la nave dell’ong Sea Watch bloccata in mare con circa 40 persone per 17 giorni. La comandante già nelle 36 ore precedenti aveva invocato lo stato di necessità. Una motovedetta della Gdf provò a ostacolare la manovra spostandosi lungo la banchina per impedire l’attracco. Rackete proseguì l’accostamento spingendo le Fiamme gialle contro il molo ma il tutto avvenne a velocità bassissima. I finanziari salirono a bordo e l’arrestarono. Nel ricorso in Cassazione la procura ha sostenuto che “la permanenza nelle acque territoriali era illegittima sulla base del provvedimento dei ministeri di Interni, Difesa e Infrastrutture, confermato dal Tar e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”. Inoltre, “l’obbligo di far sbarcare i migranti incombeva sull’autorità di pubblica sicurezza e non certo sul comandante”. Infine, lo stato di necessità non sussisteva poiché “la nave aveva ricevuto, nei giorni precedenti, assistenza medica ed era in continuo contatto con le autorità militari”. Di diverso avviso la gip Vella che aveva negato la convalida dell’arresto e, nel farlo, aveva smontato il decreto Sicurezza bis. L’ordinanza della gip spiega perché Rackete ha rispettato il diritto, al contrario della misura bandiera di Salvini. L’accusa di resistenza e violenza nei confronti della nave della Fiamme gialle viene cassata perché, spiega Vella, le unità della Gdf sono considerare navi da guerra solo “quando operano fuori dalle acque territoriali”. Inoltre, “sulla scorta di quanto dichiarato dall’indagata e dai video”, la manovra pericolosa viene “molto ridimensionata” e anche giustificata perché l’indagata “ha agito in adempimento di un dovere”: il divieto di ingresso può scattare solo in presenza di attività di carico e scarico di merci o persone, ma non è il caso in esame perché si tratta di un salvataggio e per questo la nave non può considerarsi “ostile”. La resistenza a pubblico ufficiale è poi giudicata inevitabile, come cioè “l’esito dell’adempimento del soccorso” che, ricorda Vella, si esaurisce solo con “la conduzione fino al porto sicuro”. Il dem Matteo Orfini ha commentato: “Un abbraccio a Matteo Salvini e Giorgia Meloni. E due lezioni per loro: le sentenze le emettono i giudici; chi non ha nulla da temere non scappa dai processi”. Il leader leghista ha tirando in ballo il caso Gregoretti: “Per qualche giudice una signorina tedesca che ha rischiato di uccidere cinque militari Italiani non merita la galera, ma il ministro che ha bloccato sbarchi e traffico di esseri umani sì”. Da Sinistra italiana la replica di Nicola Fratoianni: “Carola Rackete ha onorato i principi di umanità e solidarietà, Salvini ha disonorato le istituzioni della Repubblica”. Svizzera. Suicidio assistito anche per i detenuti condannati all’ergastolo? di Paolo Vites ilsussidiario.net, 18 gennaio 2020 Un detenuto condannato all’ergastolo ha chiesto di essere ammesso al suicidio assistito. Patria del suicidio assistito, la Svizzera si trova adesso ad affrontare le estreme conseguenze della scelta di permettere di morire. Nella confederazione elvetica, dove si reca gente da tutto il mondo e come ben sappiamo anche dalla vicina Italia, il suicidio assistito è negato per un solo motivo: ragioni “egoistiche”. Cioè se uno chiede di essere ucciso semplicemente perché stanco o stufo di vivere, ma non è un malato terminale o soffre di dolori fisici considerati insostenibili. Viene accettata anche la malattia mentale qualora risulti portatrice di “sofferenza insostenibile”. Il che non è molto facile, se non impossibile, da quantificare. Ecco allora che un detenuto, condannato nel 1996 all’ergastolo per numerosi casi di violenze sessuali su bambine di 10 anni fino a donne di 56, ha chiesto di essere ammesso al suicidio assistito. “È una cosa naturale chiedere di suicidarsi piuttosto che essere sepolto vivo per il resto della vita, meglio essere morto che lasciato a vegetare dietro le mura” ha detto nella sua richiesta. Il che non fa una grinza, seguendo la logica della legge attuale. Richiesta che l’apposita commissione che permette o meno il suicidio assistito composta da due medici (entrambi devono dare l’ok) ha detto di non essere in grado di valutare perché dubbiosi si tratti di richiesta “egoistica”. Ovvio: nel momento in cui ammetti il suicidio per chi è malato, perché no per una persona condannata all’ergastolo? Se nel primo caso la vita diventa “una sofferenza insopportabile” lo è anche essere rinchiusi in prigione fino alla morte. La legge si ritorce contro se stessa: il suicidio assistito dimostra di essere soltanto un modo di eliminare una realtà inconfutabile, la vita, solo perché non si è in grado di gestirla. Non perché non sia possibile farlo. Certo, l’ergastolo è una pena comparabile a quella di morte, perché non permette la possibilità di riscatto, di rifarsi una vita a chi è sinceramente pentito (di fatto Papa Francesco si è detto contro l’ergastolo non a caso), ma in ogni caso c’è la possibilità di rifarsi una vita anche dietro le sbarre. Il detenuto, Peter Vogt, spera di morire in occasione del suo compleanno, il prossimo 13 agosto, se la sua richiesta sarà accettata. Possiamo solo immaginarci quanti detenuti scomodi, in possesso di informazioni o verità su fatti criminali, verranno fatti fuori se la legge cambierà. Le autorità svizzere sono già preoccupate del fatto che, essendo la popolazione detenuta in carcere parecchio invecchiata, ci sarà un boom di richieste. Nel caos in Libia i migranti detenuti nei lager ricattati per combattere nelle milizie di Umberto De Giovannangeli globalist.it, 18 gennaio 2020 La denuncia dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati: si cercano soprattutto sudanesi che parlano arabo. Non bastavano i tagliagole e i mercenari reclutati dalle due parti in guerra e dai loro sponsor esterni. Nel caos libico, s’inserisce ora un’altra pagina inquietante, vergognosa: o combatti, o ti ammazziamo. Il ricatto ai migranti. Le parti impegnate nel conflitto in Libia stanno usando i migranti come combattenti. Lo denuncia l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati. “Abbiamo le prove, da parte di persone che si trovano nei centri di detenzione, che è stata offerta loro la proposta di restare lì per un periodo indefinito oppure di combattere al fronte”, ha detto alla Dpa il rappresentante speciale dell’Unhcr per il Mediterraneo centrale, Vincent Cochetel. Ricatto mortale - Al momento, Cochetel dice di non essere in grado di dire quanti migranti abbiamo accettato l’offerta. “Se decidono di farlo, viene data loro una uniforme, un fucile e vengono immediatamente portati nel mezzo della guerriglia urbana”, ha aggiunto.”Abbiamo visto che questi tentativi di reclutamento” dei migranti “riguardano prevalentemente i sudanesi - ha proseguito Cochetel - Riteniamo questa scelta motivata dal fatto che parlano arabo. Entrambe le parti” in conflitto in Libia “sono coinvolte”, ovvero le milizie fedeli al governo del premier libico Fayez al-Sarraj e l’autoproclamato Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar. Nel frattempo, preoccupa la presenza di soldati provenienti da Russia e Turchia sul territorio libico. La scorsa settimana il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha annunciato pubblicamente l’invio dei militari turchi in Libia a sostegno del Governo di accordo nazionale, guidato dal al-Sarraj, affermando che le forze armate di Ankara avranno per lo più funzioni di addestramento delle truppe di Tripoli. A sostegno delle milizie di Haftar ci sarebbero invece i mercenari russi del Wagner Group, un’organizzazione paramilitare e vicina al presidente Vladimir Putin. Anche se Mosca ha ripetutamente negato ogni coinvolgimento, il governo di Tripoli ha denunciato la presenza di circa 800 soldati russi al fronte. L’Unione europea ha ripetutamente denunciato l’implicazione di soldati stranieri nel conflitto libico. Qualche giorno fa, durante la plenaria dell’Europarlamento a Strasburgo, l’Alto rappresentante Ue per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, denunciando le ingerenze di Russia e Turchia ha dichiarato: “Le cose ci stanno sfuggendo di mano. Noi europei, non volendo partecipare a nessuna soluzione militare, ci barrichiamo dietro la convinzione che non ci sia una soluzione militare”. Per poi tracciare un parallelo con il conflitto in Siria: “In Siria c’è stata una soluzione militare, portata dai turchi e dai russi”. Sottolineando che Bruxelles non possa accettare i “flussi di armi e mercenari” da Paesi terzi verso la Libia, Borrell ha avvertito l’Unione sui nuovi equilibri presenti nel Mediterraneo a causa dell’azione di Russia e Turchia. “Sono sicuro che nessuno sarebbe davvero contento se sulla costa libica, di fronte all’Italia, venissero poste una seria di basi militari della marina militare turca e russa, che controllerebbero entrambe le vie di immigrazione illegale verso l’Europa. Nel Mediterraneo orientale e ora anche in quello centrale”, ha aggiunto Borrell. Tragedia umanitaria - Secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) solo nelle prime due settimane del 2020 sono almeno 953 i migranti (tra cui 136 donne e 85 bambini) riportati in Libia dalla Guardia costiera. La maggior parte sono sbarcati a Tripoli e tutti sono stati portati nei centri di detenzione. Inoltre, sono tante le persone che continuano a scappare: le navi di ricerca e salvataggio delle ong negli ultimi giorni hanno salvato 237 persone. Tra loro anche famiglie di libici in fuga: almeno 17 sono stati salvati dall’ong tedesca Sea Watch, erano tutte su un unico barchino, 10 uomini e 7 donne, tra cui 9 minori. “In Libia c’è una guerra, una situazione drammatica che negli ultimi mesi ha visto un’accelerazione con l’intensificarsi delle violenze e quindi con vittime, moltissime civili - spiega la portavoce di Unhcr Carlotta Sami. Almeno 1 milione di persone ha bisogno di assistenza umanitaria. Da aprile ad oggi oltre 180mila libici sono stati costretti ad abbandonare le proprie case. Gli sfollati interni sono ormai più di 340mila. Unhcr non riesce ad avere accesso a tutte le zone della Libia. Ad esempio il sud del Paese e l’area di Bengasi sono irraggiungibili. Anche la via terrestre di accesso alla Tunisia è impraticabile”. Il conflitto armato “rende la situazione quotidiana estremamente volatile e questo complica enormemente la costruzione e la messa a disposizione di soluzioni per i rifugiati e i richiedenti asilo presenti in Libia - aggiunge Sami -: registriamo come anche quando le autorità locali sono disposte a discutere della protezione dei rifugiati e dei richiedenti asilo, non riusciamo poi a concretizzare perché esse stesse sono principalmente concentrate sulle problematiche relative al conflitto. Va detto che nonostante il conflitto le persone ancora arrivano dalle frontiere meridionali”. Per questo Unhcr chiede un cambio di passo e un sostegno maggiore ai Paesi di primo asilo come Etiopia, Sudan, Ciad, per offrire condizioni di accoglienza e lavoro sostenibili. “Chi poi cerca di attraversare il Mediterraneo viene nella maggior parte dei casi intercettato dalla Guardia costiera libica, centinaia già nei primi mesi dell’anno. A questo proposito si è venuta a definire una nuova dinamica: “Il conflitto armato ha indebolito il coordinamento tra Guardia costiera e ministero dell’Interno libici nelle procedure di sbarco - aggiunge la portavoce di Unhcr -. Di conseguenza, non tutti i migranti sbarcati e i richiedenti asilo vengono oggi sistematicamente detenuti. Stimiamo che circa il 30% venga liberato al momento dello sbarco. Questo è positivo di per sé ma sicuramente l’Onu e i partner devono intensificare gli sforzi per fornire assistenza a queste persone. E resta il fatto che la Libia non è un porto sicuro”. In tutto i richiedenti asilo rinchiusi nei centri di detenzione gestiti dal governo libico sono circa 2.500. La guerra per procura ha interrotto la fornitura di servizi essenziali da parte delle autorità, compreso il cibo. “Per questo motivo alcuni centri sono stati aperti per far uscire le persone ma da settimane assistiamo a una dinamica terribile: in tanti pagano per rimanere o entrare nelle carceri, convinti di poter essere selezionati da noi per le evacuazioni umanitarie. È un tragico equivoco: informati male e disperati pensano che questo sia l’unico modo per arrivare in Europa - spiega ancora Sami. La realtà è diversa e il terribile dilemma che viviamo ogni giorno, lavorando in Libia, è dato dal fatto che non ci sono posti per tutti nei Paesi sicuri e noi siamo costretti a scegliere tra i casi più vulnerabili. I canali legali e sicuri sono troppi pochi”. Unhcr ha chiesto ai Paesi europei la disponibilità a ricollocamenti per almeno 5mila persone ma per ora le offerte di accoglienza beneficeranno meno della metà delle persone. “Dobbiamo essere presenti perché ce lo impone il nostro mandato umanitario e dobbiamo dialogare con tutti gli attori in campo. Dobbiamo riequilibrare gli aiuti indirizzati ai rifugiati in detenzione, che sono comunque del 50 per cento rispetto ad alcuni mesi fa, e a quelli che vivono nelle città, nelle strade, senza riparo - conclude Sami -. Sono almeno 43mila le persone che spesso si trovano in una situazione umanitaria disastrosa e sono costretti ad adottare dei meccanismi di sopravvivenza molto danno si come il lavoro minorile, il matrimonio tra minorenni, la prostituzione e certamente i viaggi mortali attraverso il Mediterraneo. Vogliamo incrementare l’assistenza umanitaria per questi “rifugiati urbani” insieme ai nostri partner, attualmente riusciamo a fornire dei pacchetti di aiuto a circa 850 famiglie sul territorio di Tripoli, e di aumentare le soluzioni legali e sicure al di fuori della Libia”. Mosca tende una mano - Non è l’Italia “ad aver fatto errori” nella crisi libica, dato che l’errore principale è stato compiuto nel 2011 quando la Nato decise di bombardare la Libia e l’Italia “non era tra i Paesi che hanno spinto per questa soluzione”. A sostenerlo ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov rispondendo a una domanda di Rai e Ansa in conferenza stampa. “Ora quel che serve è unire i libici e non è facile dato che Haftar e Sarraj non riescono nemmeno a stare nella stessa stanza”, ha osservato Lavrov, aggiungendo che vedrà il ministro degli Esteri Luigi Di Maio per un incontro la mattina della conferenza di Berlino.Il premier di Tripoli e l’uomo forte della Cirenaica - ha detto Lavrov, secondo l’Agi - non sono pronti al momento per contatti diretti. “È molto importante che ora la tregua venga osservata”, ha ribadito Lavrov. “È un passo avanti certo e speriamo che venga preservata, preferibilmente per un periodo di tempo indefinito”, ha aggiunto, sottolineando come Haftar, nonostante non abbia firmato il documento di Mosca dopo i negoziati, abbia confermato di voler rispettare il cessate il fuoco. “La Russia sostiene la conferenza di Berlino, più Paesi prendono parte al processo di soluzione della crisi libica e meglio è: i documenti sono stati quasi tutti negoziati, sono in linea con la risoluzione dell’Onu e noi ci aspettiamo che il consiglio di sicurezza dell’Onu sostenga le conclusioni della conferenza”, ha dichiarato Lavrov, sottolineando che la cosa più importante, dopo Berlino, è “non ripetere gli errori del passato”. Il generale Haftar, intanto, si trova ad Atene per colloqui in vista della conferenza di Berlino dalla quale la Grecia è stata esclusa. Lo riporta la Milli Gazete. Come ha mostrato la tv greca, Haftar è arrivato ad Atene ieri sera a bordo di un aereo privato, per essere poi trasferito in un hotel della capitale greca. Qui ha incontrato il ministro degli Esteri greco Nikos Dendias, che vedrà nuovamente questa mattina. Previsto per oggi un incontro tra Haftar e il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis. La Grecia ha contestato l’accordo sulla sicurezza e i confini marittimi che il Governo di accordo nazionale di Tripoli ha firmato con le autorità di Ankara.