Ricorsi Cedu, l’Italia è quinta dopo Russia, Romania, Ucraina e Turchia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 gennaio 2020 In Parlamento la relazione 2018 della Corte europea dei diritti dell’uomo. Nonostante siano diminuite le pendenze dei casi italiani dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, il nostro Paese rimane comunque al quinto posto nella classifica degli Stati con il maggior numero di ricorsi. Tra i nostri ricorsi spicca al primo posto, con 1.200 casi, il problema dell’irragionevole durata del processo e la mancata applicazione della legge Pinto. Ricorsi che sono però destinati ad aumentare, soprattutto dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 2018 che ha dichiarato illegittimo l’articolo 4 della legge n. 89 del 2001, nella parte “in cui preclude la proposizione della domanda di equa riparazione in pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione della durata ragionevole si assume essersi verificata”. Parliamo della relazione relativa all’anno 2018, presentata in Parlamento, in merito all’esecuzione delle sentenze Cedu da parte dell’Italia. Come detto il nostro Paese continua a pesare sul carico di lavoro della Corte di Strasburgo considerato che è al quinto posto nella classifica degli Stati con il maggior numero di ricorsi e che il carico italiano rappresenta il 7% del totale. In vetta c’è la Russia (11.745), seguita dalla Romania (8.503), dall’Ucraina (7.267) e dalla Turchia (7.107). Dal documento, risulta che l’Italia migliora la posizione per numero di condanne, con 11 sentenze (nel 2017 erano state 28) e si colloca al settimo posto preceduta da Russia (248), Turchia (146), Ucraina (91), Romania (82), Ungheria (38), Grecia (35), Moldavia (33), Lituania (32) e Bulgaria (29). L’accertamento delle violazioni ha riguardato l’articolo 3 (divieto di tortura e trattamenti disumani o degradanti, con 2 violazioni), l’articolo 6 (diritto all’equo processo, con 5 condanne), il principio nulla poena sine lege (articolo 7, con 1 violazione), il diritto al rispetto della vita privata e familiare (articolo 8, con 4 violazioni), il diritto di proprietà (articolo 1, Protocollo n. 1, con 3 violazioni), il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva (articolo 13, 1 violazione). È aumentato in modo sensibile, invece, il numero di decisioni di carattere procedurale nei confronti dell’Italia, che passa dalle 49 del 2017 alle 94 nel 2018. Ben 70 decisioni hanno avuto al centro la radiazione dal ruolo dei ricorsi perché è stato raggiunto un regolamento amichevole tra le parti o perché vi è stata una dichiarazione unilaterale del Governo accettata dalla Corte. Nella relazione, tra le varie sentenze di condanna, si richiama l’attenzione sulla sentenza pronunciata per violazione dell’articolo 3 sul ricorso Provenzano c. Italia, presentato dall’ex boss di Cosa nostra sottoposto al 41bis. La violazione dell’articolo 3 è stata ravvisata nell’insufficienza della motivazione in relazione alla mancanza di una esplicita valutazione del deterioramento dello stato cognitivo del detenuto nell’ultimo decreto di proroga del regime speciale. Secondo la Corte, seppure possa essere necessario sottoporre a restrizioni, rispetto al normale regime carcerario, un particolare detenuto, tali restrizioni devono essere di volta in volta giustificate dall’esistenza di speciali necessità, non potendosi dare per assodata “una volta per tutte” la pericolosità sociale estrema di un soggetto pur condannato per la commissione di gravissimi e reiterati fatti criminosi, ma dovendosi motivare le restrizioni al normale regime e l’esclusione dai benefici previsti per la generalità dei reclusi, per periodi di tempo limitati alle dimostrate esigenze eccezionali. La Corte ha ripetutamente ritenuto che, quando si valuta se la proroga dell’applicazione di alcune restrizioni ai sensi del regime previsto dall’articolo 41- bis raggiunga la soglia minima di gravità richiesta per rientrare nel campo di applicazione dell’articolo 3, la durata temporale deve essere esaminata alla luce delle circostanze di ciascuna causa, il che comporta, inter alia, la necessità di accertare se il rinnovo o la proroga delle restrizioni contestate fossero, di volta in volta, giustificati o meno. Secondo i giudici europei deve soprattutto essere smantellato il principio dell’automatismo, per fare in modo che siano i giudici a decidere caso per caso, con riguardo al contemperamento delle esigenze di tutela della sicurezza pubblica e a quelle di salvaguardia dei diritti della persona detenuta, entrambe meritevoli di considerazione. Carceri, Bonafede ai cappellani: “Grazie perché ridate fiducia e speranza” di Gianni Parlatore gnewsonline.it, 17 gennaio 2020 “I cappellani svolgono un ruolo fondamentale nel percorso di rieducazione di chi ha commesso errori, nell’interesse non solo dei detenuti stessi ma di tutta la collettività. Incarnano un volto buono ma al contempo severo, si fanno testimoni della parola di Dio e portano, in luoghi dove per troppo tempo lo Stato è risultato assente, un messaggio di serenità e di speranza a chi si sente abbandonato”. Con queste parole il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha preso parte al brindisi augurale di buon anno organizzato da don Raffaele Grimaldi, Ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane: “Per me - ha proseguito il Guardasigilli - è un vero piacere vivere un momento di condivisione con chi svolge una missione spirituale ma anche sociale e morale. Grazie ai cappellani i detenuti comprendono l’importanza di un possibile cambiamento e imparano ad apprezzare la legalità non come dovere ma come amore per le regole e come segno di rispetto nei confronti degli altri”. Don Raffaele Grimaldi, per più di 20 anni cappellano del carcere di Secondigliano a Napoli, e ora alla guida dei 250 cappellani presenti nelle carceri italiane, ha sottolineato il delicato ruolo svolto dai cappellani nelle strutture penitenziarie con “passione e in modo riservato. L’azione pastorale nelle carceri non riguarda solo i detenuti ma tutti quelli che operano nelle strutture di pena. Tendere una mano e donare fiducia è certamente un investimento sulla responsabilità di coloro che hanno vissuto la loro vita nell’illegalità, e sono consapevoli e bisognosi di risarcire il danno arrecato”. Don Grimaldi: “occasione per riflettere su esigenza di umanizzare questi luoghi di sofferenza” “Individuare percorsi condivisi di vera vicinanza e attenzione al mondo penitenziario”. L’Ufficio dell’Ispettorato dei cappellani delle carceri italiane, ieri pomeriggio alle ore 14, ha ricevuto la visita del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, congiuntamente ai sottosegretari alla Giustizia e ai dirigenti generali dell’Amministrazione penitenziaria e della Giustizia minorile. “L’incontro in programma nasce dall’esigenza di poter consolidare un rapporto di amicizia e di collaborazione con i cappellani che operano all’interno degli istituti penitenziari italiani”, spiega l’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, don Raffaele Grimaldi. “La presenza e la visita del ministro è anche un importante occasione per poter riflettere sul disagio che si vive nelle carceri, perché solo umanizzando questi luoghi di solitudine e di sofferenza, si può aiutare chi è privato momentaneamente della libertà personale, ad un vero recupero della persona - evidenzia don Grimaldi -. In molti istituti di pena i detenuti lavorano e ricevono il dovuto compenso per la loro opera, ma tutto ciò non basta: occorre offrire, a questo anello debole della società, occasioni di vero recupero e di reinserimento sociale, soprattutto quando varcano le soglie del carcere per la tanto desiderata libertà”. Per l’ispettore generale, “tendere una mano e donare loro fiducia è certamente un investimento sulla responsabilità di coloro che hanno vissuto la loro vita nella più totale illegalità, e sono consapevoli e bisognosi di risarcire il danno arrecato”, ma “una società che esclude, emargina e scarta è certamente ostaggio di una mentalità prigioniera di un individualismo esasperato, che fa perdere il senso della solidarietà, facendo crescere l’indifferenza e la responsabilità che noi tutti abbiamo verso gli altri”. Al tempo stesso, il sacerdote rivolge “uno sguardo particolare alle tante vittime della violenza gratuita da parte di coloro che per questa deprecabile azione hanno subito la privazione della libertà”. E “un pensiero va anche a coloro che hanno perso innocentemente i loro cari”: “Proprio a loro vorrei dire di non trasformare la rabbia, la sofferenza che covano dentro di sé in vendetta”. Stop alla prescrizione, è lite Bonafede-Italia viva. Appello di Conte a Renzi di Mario Ajello Il Messaggero, 17 gennaio 2020 Chiusa la grana referendum, la maggioranza è costretta a tornare sul nodo della prescrizione. E questo è un problemaccio che sembra tutt’altro che risolto e che potrebbe vedere il governo in difficoltà alla Camera, se si votasse. Scontro tra Matteo Renzi e i renziani da una parte e il Pd con i 5 stelle dall’altra. Il premier Conte cerca di mediare ma il clima è incandescente. Renzi difende il suo “no!” al provvedimento caro al Guardasigilli, e su cui i dem non hanno il coraggio di mettersi di traverso. “Abbiamo fatto un governo insieme per mandare a casa Salvini, non per diventare grillini”, tuona il leader di Italia Viva. Ed è un contrattacco rispetto a Bonafede che aveva detto che i renziani si erano isolati, finendo ai margini di una partita importante. Ce n’è abbastanza insomma perché Conte intervenga. Facendosi promotore di una mediazione che, però, potrebbe tradursi in un testo solo dopo le elezioni in Emilia Romagna. Questa la sua linea: “Ai cittadini interessa una riforma che renda più efficiente il sistema della giustizia. Tutte le forze politiche hanno dato un contributo, Bonafede sta lavorando alla versione definitiva, poi la riproporremo alla forze politiche per un’ulteriore valutazione, anche a Italia Viva. Mi aspetto che Italia Viva la possa valutare nel merito”. L’appello del premier è rivolto a Renzi, ma Bonafede continua ad attaccare il leader italo-vivista: “Ormai sta con Forza Italia, e nessuno lo segue nel centrosinistra”. E Renzi se la prende anche con il Pd: “Noi non siamo la sesta stella. Zingaretti ha il diritto di fare ciò che ritiene giusto, è il capo del Pd e lo rispetto. Sullo stato di dritto i riformisti vanno a rimorchio dei 5 stelle. Dispiace per chi ha sempre pensato che il Pd fosse il campo dei riformisti”. E ancora: “Se ci viene proposta la schifezza del Guardasigilli, in aula diremo di no”. Ma esclude la crisi di governo Renzi. L’ex ministro Orlando, vicesegretario del Pd, replica così: “O si tratta o ci si scontra, sbagliato fare le due cose insieme. Ed è sbagliato votare con il centrodestra”. E ancora: “Il Pd non è d’accordo con la riforma Bonafede ma che il lodo Conte rappresenta un passo avanti per proseguire il confronto”. Nei giorni scorsi il presidente Conte ha avanzato infatti una nuova proposta in proposito. Distinguere tra condanne e assoluzioni (per le quali non si interromperebbe la prescrizione) e prevedere nell’ambito della riforma del processo una sanzione disciplinare legata al singolo procedimento. “Ci sono in questo impianto alcuni elementi interessanti”, dicono al Nazareno. Non sembra sia un passo avanti per Italia Viva, però, che ha votato con le opposizioni in commissione Giustizia alla Camera. E M5S ha una posizione ferrea, di chiusura su tutto: “Bisogna andare avanti a qualsiasi costo e anche contro tutti sulla riforma Bonafede”. Prescrizione infinita, dunque: ecco il grido identitario dei grillini, a dispetto di ogni tipo di garanzia per i cittadini. La polemica Pd-Iv non va in prescrizione. Sulla giustizia Conte traballa davvero di Rocco Vazzana Il Dubbio, 17 gennaio 2020 Le polemiche sulla riforma Bonafede non vanno in prescrizione. Le fratture in seno alla maggioranza, con i renziani schierati al fianco dell’opposizione, rischiano di rivelarsi più profonde del previsto e alla lunga potrebbero minare la tenuta stessa dell’intero esecutivo. Pd e Movimento 5 Stelle da una parte, Italia viva dall’altra. I tre pilastri su cui poggia il “Conte due” non sono mai stati così fragili. “Prendo atto che Italia Viva si è isolata dalla maggioranza votando insieme a Forza Italia e alle opposizioni”, esordisce di prima mattina il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, commentando quanto accaduto il giorno prima in Commissione. “La proposta che voleva abolire la prescrizione non è passata, abbiamo bloccato FI e il centro destra”, aggiunge l’esponente M5S, garantendo l’ impegno per offrire ai cittadini una riforma un processo penale con tempi ragionevoli. E a differenza di molti, tra cui l’agguerrito Partito radicale, il Guardasigilli si dice anche certo della tenuta costituzionale del cosiddetto “lodo Conte”, cioè la proposta di bloccare la prescrizione solo per i condannati in primo grado ma e per gli assolti, per i quali si immagina un periodo di sospensione della prescrizione. Ma se il ministro attacca, Matteo Renzi di certo non sta a guardare. Attende la fine dell’intervento di Bonafede, poi replica su Facebook. “Un obbrobrio giuridico”, dice, a proposito della prescrizione, accusando il suo ex partito, il Pd, di “seguire i grillini anche su questo, andando purtroppo a rimorchio dei Cinque Stelle. Non abbiamo rotto la maggioranza, abbiamo solo difeso lo stato di diritto”, rivendica l’ex premier. “C’era una legge sulla prescrizione voluta dal Pd e dal ministro Orlando. Poi sono arrivati i populisti gialli- verdi e con i voti leghisti e grillini hanno cambiato la legge eliminando la prescrizione e rendendo i cittadini imputati a vita”, è il ragionamento del leader di Italia Viva. Che però non convince del tutto proprio uno dei protagonisti citati da Renzi: Andrea Orlando. “È bello quando il tuo lavoro viene, passato un certo tempo, valorizzato ed addirittura esaltato. Senza alcuna strumentalità, poi. Sì, per certi aspetti è commovente”, ironizza il vice segretario del Pd ed ex ministro della Giustizia sugli apprezzamenti tardivi nei confronti della sua riforma. Ma Renzi insiste: “Abbiamo fatto un governo insieme per mandare a casa Salvini, non per diventare grillini”. L’ex premier esclude crisi di governo, ma nel pomeriggio continua a stuzzicare gli alleati: “Se Bonafede vuole cambiare la sciagurata legge che lui stesso ha fatto, lo faccia, siamo al suo fianco”, dice. A ruota, arrivano i commenti degli altri big renziani, tutti mirati a colpire gli ex compagni di partito. “Mentre vota la riforma Bonafede scritta da Lega e 5 stelle, il Pd ci accusa di tradimento perché votiamo una riforma scritta dall’attuale vicesegretario del Pd”, twitta la capogruppo alla Camera di Italia Viva, Maria Elena Boschi. “In questa storia c’è qualcuno in malafede”, aggiunge. Nella mischia si gettano anche Davide Faraone e Lucia Annibali. Ma dal Nazareno si dicono convinti che Renzi stia bluffando. “Ieri, infatti, Italia Viva ha votato con Salvini e con la destra per impedire, sostanzialmente, l’avvio della riforma del processo penale che non si limita solamente alla riforma della prescrizione ma punta a garantire il giusto processo”, è la tesi di Walter Verini. Giuseppe Conte, dal canto suo, prova a raffreddare il clima, ma invita Italia Viva ad abbassare i toni. “Con Bonafede stiamo lavorando alla versione definitiva e la riproporremo alla forze politiche per un’ulteriore valutazione. Mi aspetto che Italia Viva la possa valutare nel merito”, dice il premier. E mentre tra ex compagni di partito impazza la guerra fatta di botta e risposta, il centrodestra si gode il momento, soffiando sul fuoco delle contraddizioni interne alla maggioranza. Il deputato azzurro Enrico Costa, primo firmatario della pdl bocciata in Commissione con cui si chiedeva l’abrogazione della riforma Bonafede, è pronto a scommettere col ministro che il 27 gennaio, data in cui la sua proposta approderà alla Camera, ci saranno delle novità eclatanti. “Scommettiamo che il 27 gennaio, in Aula, sarà lei ad essere isolato ed a finire in minoranza? Scommettiamo che tantissimi deputati della maggioranza, quando avranno l’opportunità di esprimersi liberamente, manderanno in soffitta la sua riforma?”, è la provocazione dell’onorevole di FI, che ha già incassato il sostegno ufficiale di Matteo Renzi. “Scommettiamo che i veri garantisti non accetteranno di essere complici dell’omicidio del processo penale? Signor ministro, ha ancora 10 giorni di tempo per proporre una soluzione seria. Ci lavori”. L’opposizione ritrova dunque vigore dopo l’incidente sulla giustizia che ha spaccato la maggioranza. E oltre alla battaglia sulle Regionali ha trovato un altro fronte su cui provare a colpire la tenuta del governo. Tanto che la Lega sceglie di schierarsi apertamente al fianco delle camere penali, che per il 28 gennaio hanno indetto una giornata di sciopero. “Siamo al loro fianco nella battaglia contro la sciagurata riforma Bonafede sulla prescrizione”, afferma Andrea Ostellari, presidente leghista della commissione Giustizia a Palazzo Madama. “Insieme collaboreremo a stendere delle proposte di legge che consentano di evitare processi infiniti e garantiscano il diritto alla difesa degli italiani”, aggiunge, evitando però di ricordare che la riforma in questione, quella della prescrizione, è legge dal primo gennaio proprio grazie ai voti del Carroccio, alleato dei 5Stelle nel precedente governo. Ma questi sono solo dettagli. La battaglia sulla giustizia appesa alle elezioni in Emilia Romagna di Simone Canettieri Il Messaggero, 17 gennaio 2020 Anche la prescrizione passa dalla via Emilia. Dopo lo strappo renziano in commissione dell’altro giorno, il calendario inchioda tutti a lunedì 27 gennaio, il day-after del voto regionale. Quando la Camera sarà chiamata a esprimersi sulla proposta di legge di Enrico Costa (Fi) che punta a cancellare la riforma Bonafede. Matteo Renzi ha già annunciato che, coerentemente con la posizione già esplicitata in commissione, Iv voterà con il centrodestra. E allora tutto potrà succedere, soprattutto a seconda del risultato di Stefano Bonaccini in Emilia Romagna. Di sicuro, pallottoliere in mano lo spostamento di Italia Viva verso Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia mette sotto stress la maggioranza: 286 a 300. Con il ruolo determinante del gruppo Misto, che conta anche una quindicina di deputati di centrodestra (a partire da quelli di Cambiamo di Giovanni Toti). Con un risultato beffardo: se saltasse il governo rimarrebbe solo lo stop alla prescrizione tanto caro ai grillini. Dal Nazareno osservano lo scenario. E, come confidato dal segretario Nicola Zingaretti a Il Messaggero, i sospetti che Renzi voglia rompere o trovare un incidente che porti al crash ci sono tutti. Non a caso i vertici del Pd con un pensiero di insieme alla situazione politica attuale dicono: “A Renzi la paura del fallimento e gli insuccessi stanno dando alla testa. Ormai attacca solo il Pd. Ha iniziato il boicottaggio delle elezioni in Emilia Romagna e Calabria per far vincere Salvini”. Accuse pesanti perché, per la prima volta, tirano in ballo anche la partita cruciale nella regione rossa per eccellenza. D’altronde sul “non possumus” in Calabria e Puglia (dove si vota in primavera) Renzi è stato netto: non ci saremo con il centrosinistra. Discorso diverso, adesso, per la madre di tutte le sfide, appunto. Fatta questa premessa si capisce perché il nodo prescrizione sia solo una parte dell’ingranaggio che rischia di incepparsi a Palazzo Chigi, già dalla notte del 26. Sulla giustizia, da sempre tema a rischio per la salute di tutti gli esecutivi, il premier Conte predica ecumenismo. Sul tavolo della maggioranza - al di là di Iv - rimane la sua proposta di mediazione sulla prescrizione. La quadra trovata la settimana scorsa sul disegno di legga delega “non è che ci faccia impazzire, ma siamo consapevoli che un’intesa vada trovata”, dicono da via Arenula, sede del ministero della Giustizia guidata dal grillino Alfonso Bonafede. In queste ore lo scontro si sta polarizzando tra Iv e M5S. Il Pd si trova in mezzo alle prese con le accuse dell’ex premier fiorentino che rimprovera al suo vecchio partito di aver smarrito l’impronta riformista. Ecco perché la materia va trattata con cura. Per Andrea Orlando, ex Guardasigilli e vice di Zingaretti, “la prescrizione è sempre una sconfitta per lo Stato ma una norma che interrompe la prescrizione al primo grado di giudizio sta in piedi soltanto se ci sono tempi certi nel processo. Attualmente questa certezza non c’è”. Al momento c’è, invece, la proposta mediana di Conte: distinguere tra condanne e assoluzioni (per le quali non si interromperebbe la prescrizione) e prevedere nell’ambito della riforma del processo una sanzione disciplinare legata al singolo procedimento. Bonafede assicura che la legge delega il prima possibile - “al massimo entro due settimane” - inizierà a camminare. Altrimenti dal Nazareno sono pronti a rispolverare dalla soffitta la loro soluzione: “Un disegno di legge già pronto per non confondere la nostra posizione con quella della Lega”, dice Orlando. Si gioca tutto dunque sul filo dei nervi, ma anche dei tempi. In mezzo, e prima, rimane grande come una casa la grande incognita del voto in Emilia Romagna: tra accuse di sabotaggio (nei confronti di Renzi) e la paura (da parte del Pd) di perdere lo storico baluardo. Anche per questo motivo da Zingaretti a Franceschini, passando per i ministri dem, tutti nei prossimi giorni scenderanno in campo - da Piacenza a Rimini - per sostenere Bonaccini. Il giorno dopo il voto, comunque vada, la maggioranza non sarà più la stessa. E la prima prova sarà appunto sulla prescrizione. Con annessi tentativi di spallata da parte di Salvini. La guerra fantasma alla corruzione di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 17 gennaio 2020 Otto italiani su dieci sono convinti che la situazione non sia cambiata rispetto ai tempi di Tangentopoli. Eppure da mesi non c’è un pilota all’Anac. “Così come il pesce guizza sotto l’acqua e non è possibile verificare se stia bevendo acqua o meno, allo stesso modo non è possibile scoprire se i funzionari pubblici stiano rubando soldi per loro stessi”. Figuratevi poi se l’acqua fosse torbida. Lo sostiene l’Arthasastra, un antico trattato attribuito al filosofo, economista e pensatore indiano Chanakya. Citato ad esempio da due studiosi della corruzione, Lucio Picci e Alberto Vannucci, nel libro “Lo zen e l’arte della lotta alla corruzione”. Sono parole consegnate a chi voglia ben governare fra il secondo e terzo secolo d.C. Ma sembrano scritte ieri a proposito della pretesa di tanti pubblici dirigenti d’essere esentati, ai livelli apicali e non solo a quelli inferiori, dall’obbligo di “rendere pubblici i dati reddituali e patrimoniali”. Dovere che “esiste per i parlamentari dal lontano 1982”, ricordava ieri nella sua lettera al Corriere il presidente “facente funzioni” dell’Anac Francesco Merloni, senza che alcuno abbia mai “gridato allo scandalo”. È fondamentale, la trasparenza. Tanto più in un Paese come il nostro dove la percezione di vivere assediati dalla corruzione, stando all’ultimo ranking di Transparency International, ci vede davanti a tutti gli altri Paesi europei meno la Grecia e quelli a lungo dominati dal socialismo reale. Dove le interdittive antimafia ogni 100.000 abitanti sono salite dal 2014 ad oggi passando da 12 a 43 nel Nord-Est e da 19 a 73 nel Nord-Ovest. Dove perfino gli appalti per i lavori al ministero dell’Economia sfociano in una decina d’arresti a Roma mentre altre tangenti fanno scattare le manette ai polsi dei direttori generali di due grandi aziende pubbliche milanesi e un prefetto calabrese. Per non dire di quanto accade in Sicilia dove l’inchiesta sulla mafia dei pascoli e le truffe sui fondi europei, già denunciate dall’ex presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci, scampato a un attentato ma non alla rimozione politico-burocratica, hanno portato all’arresto di 94 persone e alla denuncia di 151 aziende infettate da mafia e corruzione. Corruzione dentro gli enti di assistenza che non si accorgevano di come tanti “agro-imprenditori” rivendicassero come loro perfino terreni appartenenti alla Nato. Corruzione tra veterinari che per aiutare aziende amiche le certificavano “indenni” a dispetto delle vacche tisiche. Corruzione fra notai disposti anche ad assegnare per usucapione poderi altrui. Fino all’impunità: 15 mila ettari gestiti da una famiglia mafiosa con l’uso, negli anni, di oltre 700 contratti stipulati con defunti. Uno dei quali nell’aldilà da una dozzina d’anni. Tema: in un contesto tanto imputridito che 8 italiani su 10 sono convinti che la corruzione, come spiegava sei mesi fa Nando Pagnoncelli, non sia calata affatto dai tempi di Tangentopoli (anzi, uno su tre crede sia aumentata) possiamo permetterci di stare per mesi senza un pilota all’Anticorruzione? Per carità, la macchina continua tutti i giorni a lavorare, studiare, preparare rapporti. E sarebbe ingiusto sottovalutare il ruolo del “presidente f.f.”. Facente funzione. Quel che può fare fa. Ma un organismo centrale come quello, che ha incarnato negli anni, a torto o a ragione, tante speranze da parte dei cittadini italiani esausti dalla piaga del malaffare dai tempi in cui le tangenti erano chiamate “zuccherini”, avrebbe quanto mai bisogno, tanto più dopo la stagione di Raffaele Cantone che alcuni arrivarono addirittura ad additare per un’ascesa al Quirinale, di una guida salda. Di peso. Investita di un pubblico riconoscimento di leadership. Che spazzi via i cattivi pensieri (lo vogliono davvero, un responsabile della lotta ai corrotti?) che si stanno affacciando nella testa degli italiani dopo questo vuoto seguito all’uscita di Cantone il quale si era sgolato per avvertire i rischi di una vacanza di poteri. Inutilmente. Questo Grande Silenzio, secondo Don Luigi Ciotti e molti con lui, “è un segnale pessimo. C’è chi ha pensato che dopo lo “spazza-corrotti” tutto sarebbe stato sistemato. Non è così. È solo illusionismo. Fumo in faccia. La verità è che la politica ha fatto di tutto per smantellare penalmente la guerra alla corruzione. Trascurando il legame profondo che c’era e che c’è tra la corruzione e gli appalti. La corruzione e la mafia”. Il solito incendiario? Difficile dargli torto. La verità è che la lotta alla corruzione va a ondate. E non bastano le parole d’ordine. O capisci come cambia via via quello che Papa Francesco chiama “il pane sporco” per adattarsi meglio ai tempi, o finisci per perdere di vista quanto sta accadendo. Basti pensare a qual è oggi la “contropartita” della corruzione. Certo, ci sono ancora le mazzette. Ne abbiamo viste girare ancora tante, nei servizi televisivi di questi giorni. Ma stando all’ultimo rapporto dell’Anac dello scorso ottobre, di cui ha già scritto Giovanni Bianconi, lo scambio di fruscianti banconote è sceso al 48%. Pesano sempre di più, piuttosto, altre merci di scambio. Le regalie di un viaggio, una crociera, una gentile accompagnatrice. Le consulenze fatte avere alla società giusta. Le assunzioni di un figlio, un cugino, un amante. Non bastano le retate. Non bastano le sfuriate. Non bastano le manette. Quella che manca è una svolta culturale. La consapevolezza che la guerra ai corrotti non è solo un dovere morale. E un punto di partenza indispensabile per l’economia, la scuola, le istituzioni, il risanamento ambientale... A chi gli chiedeva come mai la magistratura non sia riuscita in tanti anni a debellare il problema, Pier Camillo Davigo rispondeva giorni fa: “I giudici hanno fatto quello che in natura viene fatto dalle specie predatorie: migliorare la natura delle sue prede. Le indagini che come magistrati abbiamo fatto dal 1992 al 1996 hanno reso la corruzione più subdola, come se i ceppi virali si fossero fatti più resistenti, più difficili da individuare, più furba, in fin dei conti, ancora più diffusa di allora”. Non avvertire questa insidia, oggi, è davvero sconfortante. La ferocia primitiva della “quarta mafia”: la scalata dei clan pugliesi di Pino Pisicchio Il Dubbio, 17 gennaio 2020 Chissà che cosa avrebbe da dire, di fronte all’esplosione esponenziale di cronaca nera nell’area foggiana, Federico Secondo di Svevia, imperatore della casata Hohenstaufen, quel “puer Apuliae” che tanto amo’ la terra di Capitanata dove il destino (preannunciato dai suoi maghi, che lo mettevano in guardia da località con il “fiore” nel nome) stabilì che sarebbe morto. E a cinquantasei anni così fu: si spense in quel di Torremaggiore, a 37 chilometri da Foggia, nei pressi di un agro che nel 1250 faceva di nome “Castel Fiorentino”. Federico, sensibile alle arti e curioso di tutto ciò di cui è fatta l’umanità, oltre all’orrore per lo sfregio alla terra amata, avrebbe forse avuto da muovere anche obiezioni estetiche sul modo del crimine, antropologicamente primitivo e quasi tribale. Perché la cosiddetta “quarta mafia” che riempie le aperture dei giornali, in allineamento ideale con la mafia siciliana, la ‘ndrangheta calabrese e la camorra campana, da ultima arrivata si propone come un modello di efferatezza più simile alle brutali derive omicidiarie della camorra arcaica piuttosto che alla letale criminalità dai guanti bianchi delle mafie tecnologiche e finanziarie di nuova generazione. La terra di Foggia, che lo scorso anno conquistò il poco desiderabile record di provincia con il più alto numero di reati estorsivi in Italia, offre un panorama di stratificazione territoriale che porta a distinguere tre distinte tipologie di malavita organizzata: la mafia foggiana, che ha il suo epicentro nel capoluogo e si allarga al suo hinterland, la mafia garganica che opera nei territori di San Nicandro garganico e Apricena, e la mafia di Cerignola, che include i territori di Trinitapoli e San Ferdinando di Puglia. A parte, tra Foggia e San Nicandro, si ritaglia una sua autonoma fisionomia la malavita di San Severo, grosso borgo agricolo di oltre 50.000 abitanti, negli ultimi anni umiliato da ripetuti episodi di violenza criminale a scopo di rapina. Il territorio, crocevia delle antiche culture sannitiche, molisane e daune, ha una forte radicazione nelle antropologie legate alla terra: all’agricoltura, prospera ancora oggi nell’immenso granaio del Tavoliere, e alla pastorizia. È questa la storica zona di transito degli armenti abruzzesi e molisani in transumanza. La “quarta mafia”, dunque, sociologicamente è nutrita da arcaismi tribali in cui legami di sangue e abigeato rinnovano una loro perversa attualità. Che, peraltro, erigono barriere tra la terra di Foggia e il resto della Puglia, proiettata verso livelli economici e traguardi sociali assai diversi per modernità e dinamismo. Il clima da far-west che la malavita foggiana ha inflitto al territorio, ha creato una condizione di panico nella popolazione, abitata da un sentiment in cui angoscia e rabbia si combinano in una miscela esplosiva che non riesce a trovare sbocchi istituzionali convincenti. Peraltro il quadro occupazionale della provincia non è affatto incoraggiante, nonostante la grande tradizione del settore agro- industriale e la pur valida proposta turistica ed enogastronomica del Gargano e dei borghi del sub- appennino: come si fa a fare turismo sano e moderno nell’epicentro della mafia garganica? Situazione irreversibile e dannata, dunque? Ovviamente no. Innanzitutto perché non siamo di fronte ad una organizzazione criminosa di impianto storico che trovi una forma di penetrazione sociale così come le tre mafie meridionali, che hanno offerto nel corso della loro (ahimè) lunga presenza territoriale anche fenomeni di “patronage” criminale alle comunità, occupando lo spazio lasciato vuoto dallo Stato. Siamo di fronte a bande di paese che stanno compiendo il balzo in avanti verso le pratiche estorsive organizzate e l’allargamento del business criminale verso attività più remunerative, come droga e prostituzione. Dunque è una struttura organizzativa ancora in coming, non consolidata come nelle altre tre mafie e, ciò che è più rilevante, che non trova alcun sostegno nel corpo sociale (e nella politica, se non per episodi minori ed isolati). E non è cosa da poco. Ma, per poter intervenire con qualche possibilità di successo, occorre innanzitutto prendere coscienza dell’esistenza del problema, senza rimuoverlo o derubricarlo a ingiuria minore. E poi è necessario richiudere il cerchio del circuito Stato- cittadini: il senso dell’abbandono, dell’estraneità, della lontananza, ricordiamolo, ha reso fecondo il terreno di coltura delle altre mafie, quelle “storiche”. Alla politica nazionale e locale si chiederebbe meno inutile chiacchiericcio e più fattualità, soprattutto nel farsi facilitatrice per le occasioni di sviluppo, unico vero antidoto al degrado. C’è un detto, forgiato dagli stessi foggiani, che Federico II non ha conosciuto: tradotto dal dialetto dice più o meno “fuggi da Foggia, non per Foggia ma per i foggiani”. Ecco: compito della politica è proprio quello di frantumare questo letale aforisma. Riforma della procedibilità d’ufficio, retroattiva a metà di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2020 Corte di Cassazione, sentenza 16 gennaio 2020 n. 1628. La nuova condizione di procedibilità per l’appropriazione indebita e cioè la presentazione della querela non agisce sulle sentenze definitive e in fase di esecuzione. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza 1628 della prima sezione penale depositata ieri con la quale è stato giudicato inammissibile il ricorso presentato dalla difesa di un imputato sanzionato con 11 mesi di carcere e risarcimento danni alla parte civile per i reati di appropriazione indebita e falso in bilancio. La condanna emessa in appello nel 2006 era diventata definitiva nel 2007. Rispetto a entrambi i reati era stato proposto incidente di esecuzione per ottenere la revoca della condanna, sul presupposto della modifica del regime di procedibilità dell’azione penale per effetto dell’entrata in vigore nel 2018 del decreto legislativo n. 36. Quest’ultimo ha, di fatto, stabilito che, con alcune limitate eccezioni, il delitto di appropriazione indebita diventa procedibile solo a querela della persona offesa. La tesi difensiva era che la modifica normativa avrebbe effetti anche per le sentenze già passate in giudicato prima della sua entrata in vigore perché la previsione della querela, a natura mista processuale e sostanziale, di condizione di procedibilità e di punibilità, avrebbe la conseguenza di rendere necessaria l’applicazione dell’”ordinario” articolo 2 del Codice penale che, disciplinando la successione di leggi penali nel tempo, lo fa nel segno del favor rei. Conclusione che, per certi versi almeno, la Cassazione neppure contesta. In particolare, la Corte condivide la posizione favorevole all’applicabilità dell’articolo 2 del Codice alle modifiche del 2018, come pure la valorizzazione della natura “mista” dell’istituto della querela (e in questo senso la Cassazione ritiene che l’ordinanza impugnata non sia corretta, dove qualifica la querela come istituto solo processuale e soggetto quindi al principio tempus regit actum). Tuttavia, a fare la differenza e condurre a una bocciatura del ricorso è il fatto che questo orientamento è stato espresso con riferimento a rapporti processuali ancora in corso, per reati commessi in una data antecedente alla modifica sulla querela, ma non comprende invece la fase dell’esecuzione. Del resto, avverte la Cassazione, lo stesso articolo 2 contiene una clausola di esclusione che sancisce l’inapplicabilità ai casi di sentenza ormai irrevocabile. In questa chiave si sono espresse, comunque, anche le Sezioni unite che, nel 2018, con la sentenza n. 40150, hanno escluso che il giudice dell’esecuzione possa revocare la condanna, contestando la mancata integrazione dei presupposti di procedibilità. “E ciò - mette in evidenza ora la Cassazione - per la dirimente considerazione che il sopravvenuto regime di procedibilità a querela, non integrando un elemento costitutivo della fattispecie penale, da cui dipenda la sua accertabile esistenza, non è idoneo ad operare l’abolitio criminis, capace di prevalere per sua funziona abrogatrice sul giudicato e da determinare la revoca della sentenza di condanna in sede esecutiva ai sensi dell’articolo 673 del Codice di procedura penale”. Per la dichiarazione fraudolenta bastano le note spese gonfiate di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2020 L’inasprimento delle sanzioni penali in caso di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di documenti per operazioni in tutto o in parte inesistenti e l’estensione della responsabilità amministrativa delle società in presenza di questo reato - previsti dal decreto fiscale - comporta un’attenta valutazione delle modalità attraverso cui potrebbe manifestarsi la condotta illecita. Spesso, infatti, quando si parla di false fatturazioni si pensa all’ipotesi fraudolenta tipica rappresentata dalla contabilizzazione (e successiva utilizzazione in dichiarazione) di una fattura a fronte di un’operazione che non sia mai avvenuta. In realtà, tra le ipotesi più frequenti ci sono anche i casi di fatture soggettivamente inesistenti nelle quali l’imprenditore, che riceve i documenti fiscali è ignaro della frode in atto, risultando coinvolto solo perché non avrebbe utilizzato la normale diligenza e accortezza nei rapporti con il fornitore. A ciò si aggiungono altre ipotesi, nella prassi non rare, in cui si è in presenza non di fatture in senso tecnico, ma di meri documenti che hanno rilevanza ai fini fiscali e, in quanto tali, idonei a integrare l’illecito penale. A norma dell’articolo 1 del Dlgs 74/2000 per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” cui fanno riferimento i delitti di dichiarazione fraudolenta (articolo 2) e di emissione dei medesimi documenti (articolo 8) si intendono non solo le fatture in senso tecnico, ma anche gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie. Per l’integrazione dei delitti in esame occorre poi che fatture e/o documenti siano emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’Iva in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi. Si pensi ad esempio alle note spese che vengono prodotte dagli amministratori in occasione di trasferte. Questi documenti vengono poi dedotti dalla società. Nel caso in cui - a seguito di specifici riscontri - le spese chieste a rimborso (e dedotte) dovessero risultare non sostenute in tutto o in parte dall’interessato (nota spesa gonfiata), non vi è dubbio che si è in presenza di un documento avente rilevanza fiscale che riporta i corrispettivi in misura superiore a quella reale o addirittura relativo ad operazioni mai effettuate. La società che riporta (tra i costi) in dichiarazione tali documenti potenzialmente sta integrando la condotta illecita di dichiarazione fraudolenta prevista dall’articolo 2 del Dlgs 74/2000. Va da sé che è il rappresentante legale responsabile in prima battuta di tale reato e potrebbe addurre a propria difesa l’assenza dell’elemento soggettivo non essendo a conoscenza della falsità (totale o parziale) del documento dedotto ove questo sia stato prodotto da altro soggetto. Tuttavia, se la nota spese è stata predisposta proprio dall’amministratore o da uno degli amministratori che si è recato in trasferta è evidente che la consapevolezza della commissione dell’illecito non è più in discussione. La sanzione penale a seguito delle modifiche introdotte dal Dl 124/2019 per questo delitto è ora della reclusione da 4 a 8 anni se l’imponibile non veritiero dedotto supera i 100mila euro in un periodo di imposta o da 18 mesi a 6 anni se l’importo è inferiore. Madri di minori estradabili extra Ue se ci sono garanzie per la prole di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sentenza 16 gennaio 2020 n. 1677. Il divieto di estradizione (a meno di esigenze cautelari di “eccezionale gravità”) per le madri di prole sotto i tre anni, previsto dalla legge 69/2005 (modificata dalla legge 117/2019), vale unicamente per gli Stati membri dell’Ue. Tuttavia, essendo la tutela dei minori un principio generale dell’ordinamento, riconosciuto anche a livello internazionale dalla Convenzione sui diritti del fanciullo e dalla Cedu, l’estradizione verso paesi terzi è legittima soltanto quando gli Stati extra Ue forniscano adeguate garanzie sia ai bambini che alla famiglia nel suo complesso. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 1677 di ieri, rigettando il ricorso di una madre contro la sentenza della Corte di appello di Brescia che ne autorizzava l’estradizione in Albania per il reato di “falsa denuncia”. Per la Suprema corte dunque “non costituisce condizione ostativa all’estradizione la circostanza che l’ordinamento dello Stato richiedente preveda per l’esecuzione delle pene detentive forme di tutela a favore della madre di prole in tenera età non corrispondenti a quelle previste dall’ordinamento italiano: è infatti sufficiente che siano previste disposizioni comunque funzionali a preservare l’integrità psicofisica del minore, oltre che dei genitore e della stessa famiglia”. “Al di fuori di meccanismi improntati a rigidità assoluta - prosegue la decisione -, l’esistenza nello Stato richiedente di un sistema di tutela di tali situazioni, per quanto possa essere realizzato secondo differenti e peculiari modalità, consente comunque una pronuncia favorevole all’estradizione, dovendo escludersi che ricorrano le condizioni ostative”, previste dal c.p.p. (articolo 705), “purché venga salvaguardata - si ripete - l’integrità psicofisica non solo del minore, che altrimenti resterebbe privato del rapporto affettivo con la madre in una fase delicata della sua esistenza, ma dello stesso genitore e dell’intera famiglia”. E per garantire “concreta effettività” alla verifica è previsto che la Corte di appello “attivi gli strumenti suoi propri”. Così, tornando al caso concreto, il giudice di secondo grado dopo aver correttamente escluso “l’estensione analogica” della legge 69/2005 al procedimento di estradizione, ha proceduto all’accertamento “dapprima delle generali condizioni di detenzione nello Stato albanese”, e poi allo “specifico trattamento penitenziario” cui sarebbe stata sottoposta la ricorrente. Ed ha così accertato che sarebbe stata collocata presso la struttura femminile “Ali Demi” di Tirana che prevede il diritto delle madri di “mantenere presso l’asilo nido della istituzione il loro bimbo fino all’età di tre anni”. E che l’accomodamento del minore avviene in “sezioni dedicate alle madri con prole, con personale qualificato”. Mentre il controllo sull’esecuzione è assicurato da una serie di istituzioni e comitati esterni. Stalking per chi con l’auto di traverso non fa entrare nel garage i proprietari di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 16 gennaio 2020 n. 1551. Stalking per chi con la propria vettura si mette davanti il garage di terzi e ne impedisce l’accesso. I Supremi giudici, con la sentenza n. 1551/2020, hanno precisato che la condotta integra quanto previsto dall’articolo 612-bis del codice penale, ovvero atti persecutori. I fatti - La sentenza prima di fornire un giudizio di condanna ha ripercorso la vicenda. E allora un soggetto ha rivolto insulti e minacce agli occupanti della macchina che volevano accedere al loro garage, impedendo peraltro l’accesso con la macchina parcheggiata davanti all’ingresso del garage. Il soggetto si era rifiutato di spostare il veicolo anche a fronte di reiterate richieste in tal senso, con l’aggravante quindi di aver commesso il fatto al fine di eseguire il reato di condotte persecutorie. Secondo la Corte ricorre il reato di stalking in quanto la famiglia è stata costretta a cambiare le proprie abitudini di vita dovendo accedere al garage dal retro. Non solo, la famiglia ha denunciato (in pieno accordo con la psicologa che era stata chiamata quale consulente tecnico) di avere accumulato ansia a seguito del fatto. La vicenda, quindi, anche sulla base di precedenti sentenze della Cassazione sull’argomento è stata correttamente letta dalla Corte di appello, che aveva specificato come per integrare il reato ex articolo 612-bisè richiesta la contestuale presenza delle due condizioni (cambio di abitudini e insorgere dell’ansia). Per concludere l’esito del giudizio di responsabilità fondato, come nel caso in esame, su motivazione non manifestamente illogica né contraddittoria, non può essere invalidato da prospettazioni alternative del ricorrente, che si risolvano in una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, ovvero nell’autonoma assunzione di diversi parametri di ricostruzione e di valutazione dei fatti da preferirsi a quelli adottati dai giudici di merito, perché indicati più plausibili. Il giudizio di Cassazione. Con le critiche proposte il ricorrente non censura la motivazione mancante, contraddittoria o manifestamente illogica, ma si duole di una decisone erronea. È noto, tuttavia, che il controllo di legittimità concerne solo il rapporto tra motivazione e decisione e non quello tra prova e decisione. Appello quindi respinto. Marche. Carceri tra sovraffollamento e carenza di organico: tossicodipendente 1 detenuto su 3 di Alessandra Napolitano centropagina.it, 17 gennaio 2020 Il Garante Andrea Nobili ha presentato il report 2019 sulla situazione degli istituti penitenziari della regione. “Il vero problema è quello dei percorsi da attivare per il reinserimento dei detenuti”. Sovraffollamento negli istituti penitenziari di Montacuto ad Ancona e Villa Fastiggi a Pesaro; carenza di psicologi e di agenti di polizia penitenziaria; tossicodipendenza e difficoltà di reinserimento lavorativo dei detenuti. Sono queste le criticità principali che emergono nel report 2019 sulla situazione delle sei carceri marchigiane. Per il quinto anno consecutivo, il garante regionale dei diritti della persona, Andrea Nobili, ha voluto fotografare, con oltre 50 visite, più di 400 colloqui con i detenuti ed altri incontri, le problematiche degli istituti penitenziari marchigiani. Per la prima volta l’indagine ha riguardato approfonditamente anche la situazione sanitaria. Alla presentazione ufficiale del report a Palazzo delle Marche hanno partecipato (oggi, giovedì 16 gennaio) il presidente del consiglio regionale, Antonio Mastrovincenzo e alcuni rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria, tra questi anche la direttrice degli istituti di Montacuto e Barcaglione, Manuela Ceresani. “Abbiamo fatto un’analisi seria e approfondita ascoltando la voce di chi spesso non ha voce: i detenuti - spiega il Garante. Permangono delle criticità che non caratterizzano solo la nostra regione. Mi riferisco al sovraffollamento presente ancora a Montacuto e a Villa Fastiggi. Questo ha conseguenze sulla qualità della vita dei detenuti e sulla vivibilità dei luoghi. Altra problematica che dobbiamo nuovamente segnalare è la carenza di organico, quindi agenti di polizia penitenziaria e operatori destinati ad area trattamentale e Uepe. Il dato relativo alla presenza di tossicodipendenti nelle carceri è inaccettabile. Anche se siamo in linea con il resto del Paese, circa un detenuto su tre ha problemi di tossicodipendenza. Il sistema si deve interrogare e capire con quali strumenti affrontare questa situazione”. La tossicodipendenza si conferma il problema principale nelle carceri marchigiane con 270 casi, pari al 29%, numerosi sono i detenuti in terapia metadonica. Un’altra criticità ritenuta particolarmente rilevante è quello dei percorsi da attivare per il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. Anche il presidente del Consiglio regionale, Antonio Mastrovincenzo, ha ribadito l’impegno istituzionale sul versante delle attività trattamentali, sottolineando l’importanza del reinserimento dei detenuti nella società. Il Garante inoltre, ha rinnovato il suo appello affinché le Marche tornino a potersi avvalere di un’adeguata presenza del Prap (Provveditorato amministrazione penitenziaria), con un dirigente che si occupi, in modo esclusivo, del territorio regionale. “Non è piu’ possibile - ha stigmatizzato Nobili - suddividere l’intervento tra Marche ed Emilia Romagna. È indispensabile che a livello centrale ci si faccia carico al più presto di questo problema”. Per quanto riguarda invece le criticità strutturali, a Montacuto sono terminati i lavori di ristrutturazione, a Fossombrone sono partiti recentemente e saranno completati nel giro di 2-3 anni. “La qualità delle strutture riguarda tutto il sistema penitenziario in Italia. Alcuni necessitano ristrutturazioni, alcuni non hanno spazio per la socializzazione” conclude Nobili. I numeri dei sei istituti marchigiani I detenuti presenti nelle Marche sono 898 (fonte Ministero Giustizia, 31 dicembre 2019), nel 2018 erano 929. Gli stranieri sono 278, nell’anno precedente erano 314. Sulla base dei dati raccolti dal Garante, risultano effettivamente in servizio 613 agenti di polizia penitenziaria (su 657 assegnati), 18 educatori e 8 psicologi. Entrando nello specifico delle singole realtà, la casa circondariale di Montacuto ad Ancona conta 328 detenuti (di cui 112 stranieri) ma la capienza è di 256. Ci sono 132 agenti di polizia penitenziaria a fronte dei 150 assegnati; è presente un solo psicologo mentre gli educatori sono 3. Sempre ad Ancona si trova la casa di reclusione Barcaglione con 97 detenuti (31 stranieri) a fronte di una capienza di 100 posti. Gli agenti presenti sono 53 (assegnati 55), ci sono 2 psicologi e tre educatori. La casa circondariale di Pesaro - Villa Fastiggi conta 225 detenuti (di cui 85 stranieri e 21 donne) per una capienza complessiva di 153 unità. Gli agenti in servizio sono 159 (assegnati 164); è presente un solo psicologo mentre gli educatori sono 3. A Fossombrone (Pu) ci sono 89 detenuti (uno solo è straniero) a fronte di 202 posti disponibili, ma in questo caso è da considerare la chiusura di una sezione per detenuti comuni, a causa dei lavori di ristrutturazione che sono stati avviati dopo un lungo periodo di attesa. Gli agenti presenti sono 100 (106 quelli assegnati), ci sono 4 educatori e uno psicologo. A Marino del Tronto (AP) ci sono 102 detenuti (26 stranieri) su 105; gli agenti presenti sono 121 (134 quelli assegnati); gli psicologi sono 3 e gli educatori 2. Nella casa di reclusione di Fermo i detenuti sono 63 (16 stranieri) ma la capienza è di 40. Gli agenti di polizia penitenziaria sono 48 sui 50 assegnati. Sono presenti due educatori e due psicologi. Per quanto riguarda la Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) di Macerata Feltria, al momento è ubicata nella struttura “Case Badesse” e si registrano 25 ospiti (3 donne), di cui 22 provenienti dalle Marche. La situazione sanitaria Come già detto, il problema della tossicodipendenza è molto frequente nelle carceri marchigiane (270 casi pari al 29% della popolazione detenuta): a Montacuto ci sono 120 casi, 66 a Villa Fastiggi, 50 a Barcaglione, 14 a Fermo, 5 a Fossombrone e a Marino del Tronto. Preoccupano anche le patologie di tipo psichiatrico e i casi di autolesionismo, con un primato per Villa Fastiggi (58) e a seguire Montacuto (42 episodi), Marino del Tronto (24), Barcaglione (4), Fermo (3). Presenti anche diversi detenuti affetti da Epatite C, Hiv ed altre problematiche. Le attività trattamentali Attraverso la sottoscrizione di accordi specifici con Ats di Pesaro, Assam e Comune di Ancona e l’attivazione di altre collaborazioni, Andrea Nobili è riuscito a portare in carcere laboratori, letteratura, poesia, cinema e danza. Tra le novità più significative, l’avvio del Polo professionale (Regione, Prap e Garante), istituito presso l’istituto penitenziario di Ancona Barcaglione, dove fino al prossimo mese di luglio è in programma il corso di aiuto cuoco con il coinvolgimento di 16 detenuti (entro breve partirà anche quello per meccanico). Primo laureato, invece, per il Polo universitario di Fossombrone (Uniurb, Prap e Autorità di garanzia), a compimento del previsto percorso triennale. E come annunciato nel corso dell’incontro, sono in fase di partenza nei sei istituti penitenziari le “Lezioni sulla legalità”, progetto curato dal Comitato regionale della Croce Rossa Italiana e promosso dal Garante, che si protrarrà fino a maggio. Campania. La Regione ripristina il diritto alla salute per i minori presenti nelle Comunità cronachedellacampania.it, 17 gennaio 2020 Il Garante dei detenuti: “Una vertenza democratica. Una vittoria per i minori”. “La Regione ripristina il diritto alla salute per i minori presenti nelle comunità. Durante le settimane scorse, le comunità per minori dell’Area penale insieme al Garante regionale dei detenuti, hanno portato avanti una battaglia di giustizia per ripristinare il diritto alla salute per gli adolescenti che sono presenti (più di 100) nelle comunità residenziali della Campania. I loro coetanei, ristretti presso gli Istituti penali, si vedono rispettati il loro diritto alla salute”. Così in una nota Samuele Ciambriello, Garante regionale dei detenuti e Vincenzo Morgera, della comunità “Jonathan”, che aggiungono: “La notizia della decisione, da parte della Regione Campania, di ripristinare il codice di esenzione F01 per i minori dell’area penale accolti presso le comunità, ci riempie di orgoglio e dimostra che esiste ancora lo spazio per rivendicare i diritti e praticare la giustizia sociale. L’essere riusciti a sancire che minori in custodia cautelare presso gli Ipm e minori in misura cautelare presso le comunità debbano avere, allo stesso modo, accesso gratuito al Ssn è una vittoria democratica, innanzitutto per i minori stessi, ma anche e forse soprattutto per il sistema nel suo complesso. Un sistema che ha trovato la forza per riformarsi, per tornare sulle proprie posizioni e correggere un vulnus discriminante e pericoloso”. Ciambriello e Morgera concludono: “È doveroso ringraziare tutti coloro che ci hanno affiancato in questa vertenza: le Comunità, il Cgm di Napoli, il Presidente Franco Roberti e la Regione Campania, la quale ha mostrato quella capacità di mettersi in discussione e di tornare sulle proprie posizioni che oggi è sempre più merce rara”. Parma. Nel carcere una situazione esplosiva: 200 nuovi detenuti e personale in deficit di Arianna Belloli La Repubblica, 17 gennaio 2020 In Comune una commissione allargata ha analizzato le ricadute sulla città del penitenziario. In via Burla a breve sarà aperto un nuovo padiglione. Il Comune di Parma si mobilita, nelle sue capacità e competenze, sulle problematiche del carcere di Parma soprattutto in vista dell’ampliamento della struttura che oggi vede detenute 600 persone, ma vedrà la realizzazione di un nuovo padiglione per 200 detenuti. I detenuti in aggiunta, senza tuttavia che sia arrivata all’Amministrazione comunale la conferma ufficiale, saranno di media sicurezza, ossia provenienti dalla condanna per crimini come lo spaccio di sostanze stupefacenti, per esempio. La commissione Affari istituzionali e servizi sociali, sanità e sicurezza si è riunita così il 16 gennaio alla presenza di autorità e sindacati coinvolti. Previsto per oggi, 17 gennaio, invece, l’incontro del Clepa, organismo paritetico provinciale che si occupa della rilevazione dei bisogni del sistema carcerario. Presenti i consiglieri comunali, l’assessora Laura Rossi, i rappresentanti sindacali degli agenti penitenziari, il direttore generale dell’ospedale di Parma, Massimo Fabi, il direttore del Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria, Marco Bonfiglioli, il Garante dei detenuti per il Comune di Parma, Roberto Cavalieri, la direttrice generale Ausl Parma, Elena Saccenti e la dottoressa Maria Teresa Luisi che cura le procedure per il trasferimento dei detenuti dal carcere all’ospedale. Il presidente del Consiglio comunale, Alessandro Tassi Carboni, annuncia che l’incontro sarà il primo di altri e aprendo la discussione, ricorda la situazione del penitenziario cittadino: a partire dalla direzione che vede da anni affidi temporanei che non permettono la programmazione di azioni a lungo termine; alla profonda carenza di personale; la difficoltà nel portare a esecuzione nuovi progetti lavorativi per i detenuti anche se supportati da finanziamenti privati; criticità anche sui fondi e risorse, probabilmente insufficienti visto che è stata stanziata la stessa cifra dell’anno precedente al fronte invece di 200 persone in più da gestire. L’assessora Rossi spiega come il Comune concorra ai finanziamenti di 212 mila euro per il penitenziario: 90 mila euro arrivano dal Comune, 72 mila euro dalla Regione e il restante dal fondo sociale territoriale “che non era scontato li destinassimo al carcere, ma che dimostra la nostra attenzione per questo tema. - commenta Rossi -. Fondi che devono supportare non solo il pagamento dei costi per i detenuti e le retribuzioni dei lavoratori ma anche molti progetti: teatro, laboratori musicali e dell’università, lo spazio giochi per i figli dei detenuti, lo sportello per avvicinare i detenuti agli uffici comunali per consegna di documenti o procedure varie, attività sportive, rassegne cinematografiche. Tutte attività che fortunatamente vedono la collaborazione di molte associazioni e volontari”. “Il carcere in questi anni ha dimostrato tuttavia come faccia fatica a gestire questi finanziamenti” aggiunge il Garante Cavalieri. “Non ho voluto prima di ora fare ingerenza sulla decisione di ampliamento del penitenziario - dichiara ancora l’assessora Rossi - perché credo che ogni decisione presa sia fatta con motivazione. Ad oggi però il Comune non è ancora stato contattato dal ministero della Giustizia per capire come programmare l’ampliamento e quindi i servizi. Serve quindi pressione perché si parli di questi problemi insieme”. Tutti gli intervenuti hanno mostrato preoccupazione per le ricadute che si avranno sul territorio per le persone che saranno dimesse dal carcere e saranno senza fissa dimora, per la già difficile situazione dell’ospedale nell’accogliere pazienti detenuti: che oggi vede infatti - come ricorda Catalano segretario della federazione sindacati penitenziari - solo 5 posti riservati su una popolazione carceraria di 600 persone tra cui alcune nel settore 41bis, ossia massima sicurezza. Colelli, della segreteria Cgil, ha commentato la situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani in generale, che nel luglio 2019 era in media del 128%, “e sono sicuro che Parma superi addirittura questa percentuale. Chiediamo personale adeguato almeno nei numeri. Solo per gli agenti sottoufficiali si registra una carenza del 90%. A Parma abbiamo solo un commissario quando dovrebbero essere 4. Le figure educative sono invece in carenza del 50%”. Tante le aggressioni, assenza di un direttore di nomina stabile, forte carenza di funzionari e inaccettabile mancanza di figure di sottufficiali, nonché un numero inadeguato di agenti per l’apertura del nuovo padiglione. Un nuovo padiglione che aprirà senza alcune risorse necessarie e con 200 problemi in più, denuncia la Fp Cgil. Carlo Parnanzone, di Uil, porta invece richieste semplici quanto concrete per migliorare il benessere all’interno del carcere, a partire dai parcheggi per gli agenti e famigliari in visita e i parcheggi riservati all’ospedale per gli agenti che devono trasportare detenuti per i soccorsi, fino al miglioramento del collegamento delle linee urbane dei bus. “Sembrano richieste banali - commenta il capogruppo di Effetto Parma Cristian Salzano - rispetto alla complessità del problema. Ma migliorare le linee dei bus come i parcheggi e altre proposte sono fondamentali per migliorare il benessere di lavoratori come dei detenuti. Su questo il Comune può lavorare e dare il suo contributo”. I consiglieri del Pd Lorenzo Lavagetto e Daria Jacopozzi sottolineano invece l’importanza del ruolo riabilitativo che deve avere la pena. “Il 68% degli ex detenuti ha ricadute, soprattutto quelle persone che non hanno avuto opportunità di lavoro e attività all’interno del penitenziario” specifica Jacopozzi. “La nostra disponibilità come Comune c’è - conclude Rossi - Il problema è capire cosa serve per queste 200 persone in più che saranno detenute nel carcere di Parma”. Trento. Il Presidente della Provincia: “Carcere sovraffollato, a breve dossier aggiornato” Corriere del Trentino, 17 gennaio 2020 Il governatore Maurizio Fugatti torna a parlare del sovraffollamento del carcere di Spini di Gardolo. Rispondendo a una interrogazione di Futura collegata alla relazione della garante dei detenuti del luglio scorso (nella quale si sottolineava che il problema di sovraffollamento “non esiste”), il Presidente della Provincia parla di limiti di capienza superati e di inviti disattesi per il rispetto di tali limiti. E ricorda le questioni sollevate a luglio dello scorso anno al ministro della giustizia e al capo dell’amministrazione penitenziaria del ministero: “Ho evidenziato la necessità di disporre di un rapporto completo e aggiornato dell’amministrazione penitenziaria sulla situazione gestionale del carcere, sia con riferimento al numero dei detenuti che alla situazione dell’organico del capo di polizia penitenziaria presente nella casa circondariale di Trento”. Non solo: “È mia intenzione provvedere nelle sedi opportune a promuovere un intervento teso a far rientrare i numeri della popolazione carceraria nei parametri sanciti dall’accordo di programma quadro (240 detenuti, ndr)”. Perché, conclude Fugatti, “il sovraffollamento della casa circondariale, unito alla carenza di personale, determina gravi lacune alla garanzia di sicurezza non solo nei momenti tipici della vita carceraria, ma anche nel corso delle attività culturali-ricreative che richiedono una particolare e attenta vigilanza”. Piacenza. Pene alternative a Cadeo: dalla Caritas arrivano i chiarimenti richiesti piacenzaonline.info, 17 gennaio 2020 Depositato in Comune un addendum al progetto originario che chiarisce alcuni dei dubbi sorti durante l’incontro organizzato dal comitato di cittadini “Sicurezza e Territorio”. Lo scorso novembre ci eravamo occupati del progetto della Caritas diocesana di Piacenza e Bobbio relativo alla costituzione di un carcere alternativo presso una cascina situata sulla provinciale Cadeo-Carpaneto. Alcuni cittadini, riuniti nel comitato Sicurezza e Territorio” avevano indetto una riunione per discutere della questione ed alcuni abitanti avevano espresso la necessità di avere chiarimenti che sono ora arrivati attraverso il deposito da parte della Caritas Diocesana Piacenza-Bobbio, presso il comune di Cadeo, di un Addendum Progetto Housing (19 dicembre 2019 - protocollo n° 0018077). Nel documento sono state accolte le proprio le richieste di chiarimento presentate dal Comitato Sicurezza e Territorio nel corso della serata del 14 novembre tenutasi presso la Sala Consiliare del Comune di Cadeo. Il Progetto Housing prevede l’accoglienza di detenuti che sconteranno pene alternative alla detenzione in carcere presso la Cascina dell’Opera Pia situata sulla Provinciale Cadeo/Carpaneto. Il nuovo documento illustra in maniera precisa alcuni elementi del Progetto Housing che potevano essere oggetto di interpretazioni che -secondo il comitato - avrebbero potuto mettere in pericolo il rispetto della legalità nel territorio di riferimento. “L’Addendum Progetto Housing - fa sapere il comitato - è stato il frutto di una serie di proficui e collaborativi incontri tra i vertici della Caritas Diocesana Piacenza-Bobbio ed i rappresentanti del Comitato Sicurezza e Territorio”. I chiarimenti contenuti nell’Addendum possono essere così riassunti: il Progetto Housing sarà gestito per tutta la sua durata esclusivamente dalla Caritas Diocesana di Piacenza-Bobbio e prevederà l’accoglienza non solo di detenuti ma anche di altre categorie di persone bisognose di aiuto; i detenuti inclusi nel progetto non potranno avere pene detentive inflitte con sentenza definitiva superiore ai tre anni e non potranno aver compiuto reati relativi ad associazione mafiosa e reati violenti; inoltre i detenuti non potranno superare il numero di tre presenti contemporaneamente nella struttura e la loro permanenza massima sarà di 18 mesi. Il programma prevedrà personale qualificato addetto ai controlli ed al rispetto degli obblighi imposti ai detenuti e sarà svolto in stretta collaborazione con le forze dell’ordine presenti sul territorio. Il Comitato Sicurezza e Territorio tiene a sottolineare la propria soddisfazione per aver avuto nei vertici della Caritas Diocesana Piacenza-Bobbio un interlocutore comprensivo delle preoccupazioni della cittadinanza e, allo stesso tempo, attento e disponibile nell’assicurare il rispetto della legalità. Macomer (Nu). Nell’ex carcere nasce il primo Centro regionale permanente per migranti di Jacopo Norfo castedduonline.it, 17 gennaio 2020 La struttura sarà in grado di ospitare già da lunedì una cinquantina di migranti considerati irregolari, cioè che dovranno poi lasciare la Sardegna secondo le procedure previste. Adesso è ufficiale: il primo centro regionale permanente per il rimpatrio dei migranti (Cpr) di Macomer aprirà lunedì 20 gennaio. La pec inviata dalla Prefettura di Nuoro è arrivata al Comune ieri pomeriggio. È tutto pronto, dunque, nell’ex carcere della cittadina del Marghine, ristrutturato per accogliere gli stranieri irregolari. “Già da lunedì la struttura è operativa per ospitare una cinquantina di persone, ma appena verranno completati i lavori si arriverà a 100 posti disponibili - spiega la vice Sindaca di Macomer, Rossana Ledda - Non sappiamo se già lunedì arriverà qualcuno o se ci vorrà ancora qualche giorno per vedere qui i primi migranti. Il Comune ha lavorato tanto negli ultimi anni per arrivare all’apertura del centro e fare in modo che ci fosse una ricaduta economica favorevole per la città. C’è una società che si è aggiudicata il bando di gara per i servizi interni: mensa, lavanderia, pulizie, infermeria. Tutto questo genera nuovi posti di lavoro e restituisce vitalità”. Massimo impegno da parte del Comune anche sul fronte della sicurezza, tema ‘caldo’ su cui si era spaccato il Consiglio comunale. “Abbiamo ottenuto tutte le rassicurazioni necessarie dalla Prefettura - dichiara la vice Sindaca - ci è stato garantito il massimo dell’attenzione, mettendo a disposizione su questo fronte carabinieri, polizia e una vigilanza esterna alla struttura da parte dei militari della Brigata Sassari. L’auspicio è che gli impegni vengano mantenuti per consentire al centro di funzionare ma anche la dovuta tranquillità ai cittadini”. Crotone. “La dura vita dei detenuti”, intervista al Garante comunale Federico Ferraro di Antonia Opipari calabria7.it, 17 gennaio 2020 Cartelle cliniche consegnate tardi o mai date, scarsezza di farmaci, relazioni che tardano ad essere depositate, laboratori non finanziati, attività lavorative ridottissime e assoluta carenza di mediatori linguisti e culturali. E se a questo si aggiunge il fatto che si trovano a vivere in un carcere, la vita dei detenuti nella casa circondariale di Crotone deve essere più dura di quanto non sia già. A raccontarcelo è il Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Crotone Federico Ferraro, al quale abbiamo chiesto qual è la situazione reale del penitenziario. “Nella casa circondariale di Crotone ci sono attualmente oltre un centinaio di detenuti, il 60% dei quali stranieri.; si tratta di un carcere maschile, suddiviso in tre sezioni tutte di media sicurezza, vale a dire per reati con condanne non superiori ai 7 anni, come ad esempio illeciti legati all’immigrazione, spaccio, furto, rapine e qualche forma di violenza” spiega Ferraro. Cosa fanno giorno dopo giorno i detenuti? Come trascorrono il loro tempo? “Certamente non sono abbandonati a loro stessi: alcuni di loro si rendono utili nel servizio mensa, cucinano, si occupano della lavanderia e quant’altro. Ci sono state anche tutta una serie di attività all’esterno, come laboratori di cucina, falegnameria, lavorazione del ferro, che hanno anche permesso ai detenuti di conseguire degli attestati spendibili una volta fuori dal carcere. Vero è che si potrebbe fare molto di più se ci fossero i fondi; alcuni laboratori, che prima erano aperti non lo sono più e, questo fa molto male a queste persone alle quali è necessaria dare la possibilità di imparare un mestiere, per poter sperare in un reinserimento lavorativo e sociale che non li porti a delinquere nuovamente. La mia figura di Garante comunale dei diritti dei detenuti, ha permesso di creare una collaborazione tra l’amministrazione penitenziaria, il provveditorato regionale, la direzione della casa circondariale, il Comune di Crotone e le associazioni, che ha fatto sì che all’interno del carcere di svolgessero tutta una serie di attività che hanno come obiettivo la tutela del benessere del detenuto: un’attenzione particolare, ad esempio, all’aspetto ricreativo - culturale con spettacoli teatrali, musicali e da ultimo, un laboratorio di poesia e di scrittura conclusosi lo scorso dicembre, nel quale i detenuti hanno elaborato un quaderno di lettere ed una poesia a sfondo religioso dedicata al nuovo arcivescovo Mons. Franzetta. Con il Comune di Crotone, poi, è stata stabilita una convenzione che riguarda i lavori di pubblica utilità, non retribuiti in quanto esecuzione della pena, ma la firma dell’accordo è stata rimandata a causa della vicenda del commissariamento del Municipio”. Insomma, sforzi tanti, problemi troppi… e nel frattempo i detenuti aspettano il più delle volte invano, anche solo per poter ottenere ciò che spetta loro di diritto, ovvero vedere i propri familiari. “È vero. Mi sono state segnalate delle mancate nomine di assistenti sociali a tutela dei figli minorenni dei detenuti. Inoltre a causa della carenza di organico del personale dell’ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe), esistono eccessivi ritardi nell’invio delle relazioni utili alla concessione dei benefici (permessi premio, trascorrere del tempo con la famiglia, etc.) che naturalmente non aiutano la permanenza in carcere del detenuto. Partendo dal presupposto che la pena non deve avere solo una funzione punitiva, bensì rieducativa, ritardare gli incontri, non permettere agli stranieri di inserirsi a causa della carenza di mediatori linguistici e culturali, procrastinare visite sanitarie per scarsezza di personale o dover agognare per la somministrazione di un farmaco perché non ce ne sono, non fa altro che esasperare gli animi. Tutte cose che si sta cercando di risolvere con l’aiuto delle istituzioni”. Qual è la percezione della gente “lì fuori”? “Credo non buona, dal momento che più e più volte ho anche chiesto aiuto all’imprenditoria locale perché prendesse qualcuno di loro a lavorare ma non ho mai ottenuto risposta. Un esempio? lo sport è importante e per questo all’interno del carcere si sta ultimando un campetto che possa ospitare delle manifestazioni sportive. Ecco, io stesso ho invitato ripetutamente il Crotone Calcio a venire a fare visita ai detenuti e, a tutt’oggi non c’è stata nessuna attenzione”. Trapani. Favignana modello di reinserimento dei detenuti di Pietro Vultaggio Quotidiano di Sicilia, 17 gennaio 2020 Protocollo d’intesa fra Carcere di Favignana, Area Marina Protetta e Uepe di Trapani. Saranno impegnati in attività finalizzate alla rieducazione e al reinserimento sociale. Non sempre il carcere permette una rieducazione pratica ed un reinserimento nel mondo lavorativo, ma nella più grande riserva marina d’Europa si sta portando avanti un nobile progetto nel tentativo di cambiare lo stato delle cose. Saranno i detenuti del carcere di Favignana ad avere l’opportunità di essere impiegati, per la prima volta, in diverse attività ricadenti nell’ambito dell’Area Marina Protetta del territorio egadino, anche se da anni risultano già coinvolti in occupazioni temporanee retribuite sull’isola. Il lavoro è, infatti, uno dei principali strumenti, previsti dalla Costituzione e dall’ordinamento penitenziario, per la risocializzazione ed il trattamento rieducativo del condannato. Entrando nel vivo del progetto, è stato firmato un protocollo d’intesa fra la casa di Reclusione, l’Area Marina Protetta e l’Uepe di Trapani (Ufficio esecuzione penale esterna), rappresentato da Maria Rosaria Asta, che consentirà l’impiego di una decina di detenuti per lo svolgimento di lavori sul territorio delle isole Egadi, nell’ambito delle attività e dei beni che ricadono nella riserva naturale. Il documento prevede la corretta applicazione della Legge sei dicembre 1991, che configura le Aree Naturali Protette quali “luogo di sperimentazione e conduzione di modelli sociali consapevoli ed orientati allo sviluppo economico sostenibile dei territori, anche attraverso progetti d’inclusione sociale” e della Legge Penitenziaria che prevede l’inserimento socio lavorativo dei soggetti sottoposti a detenzione. Un modello positivo in un Paese che non funziona ovunque allo stesso modo. Qualche mese fa è stata realizzata una relazione sull’attuazione delle disposizioni di legge relative al lavoro dei detenuti per l’anno 2018, inviata al Parlamento dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Quello che emerge è una sostanziale diminuzione dei detenuti lavoranti (17.614) rispetto ai 18.405 del 2017, il 4,29% in meno. Eppure nello stesso periodo i detenuti in carcere sono invece saliti da 57.608 a 59.655. Un aumento di presenze che non ha portato ad un aumento del lavoro. La situazione non è quindi delle migliori, ma realtà come quelle egadine fanno ben sperare per il futuro del territorio trapanese. Chieti. Il carcere incontra la cultura, protocollo tra Garante dei detenuti e Università rpiunews.it, 17 gennaio 2020 Oggi, venerdì 17 gennaio 2020, alle ore 10.30, presso l’Università di Chieti, è in programma la firma di un protocollo di intesa tra il Garante regionale dei detenuti Gianmarco Cifaldi, il Rettore della d’Annunzio Sergio Caputi e il direttore della Casa Circondariale di Chieti Franco Pettinelli. Il protocollo di collaborazione riguarda un argomento di ricerca altamente innovativo che mira a valutare le risposte comportamentali di detenuti sottoposti ad un determinato stimolo. In particolare, il progetto verrà svolto attraverso la collaborazione tra tre diversi Dipartimenti dell’Ateneo, ovvero il Dipartimento di Scienze Giuridiche e Sociali nella persona del Professor Gianmarco Cifaldi, il Dipartimento di Scienze Mediche, Orali e Biotecnologiche nella persona del Professor Michele D’Attilio e il Dipartimento di Neuroscienze, Imaging e Scienze Cliniche nella persona del Professor Arcangelo Merla. Questo progetto avverrà in collaborazione con il carcere di Chieti e attraverso l’aiuto del garante dei detenuti d’Abruzzo. “La ricerca - spiega Gianmarco Cifaldi - volge a verificare i presupposti di un comportamento deviante mediante una metodica di stimolo-risposta attraverso una strumentazione non invasiva per verificare il grado di aggressività del detenuto. Gli stessi test verranno eseguiti su una popolazione esterna eterogenea come gruppo controllo. Si andrà a verificare se c’è o meno un cambiamento posturale in soggetti dotati di una particolare aggressività in funzione di stimoli somministrati attraverso immagini visive utilizzando apparecchiature non invasive: la pedana posturo-stabilometrica, uno strumento che rileva le variazioni del baricentro corporeo neo tre piani dello spazio; la termografia, uno strumento che rileva la temperatura dei muscoli superficiali del viso”. “Il test - continua Cilfadi - sarà suddiviso in tre fasi: il soggetto, durante le registrazioni posturo-stabilometriche e termografiche, verrà sottoposto alla visione di immagini emotivamente significative ed emotivamente neutre; il soggetto verrà sottoposto ad un questionario di anamnesi medica ed odontoiatrica; il soggetto verrà testato col protocollo posturale del Prof. D’Attilio mediante pedana posturo-stabilometrixa e termocamera. Il confronto statistico tra il gruppo test e controllo e tra i vari esami ci darà informazioni circa l’obiettivo del nostro studio. Il progetto - conclude Cifaldi - si è potuto realizzare anche grazie alla disponibilità del Ministero della Giustizia e del provveditore interregionale del Dap dott. Carmelo Cantone”. Nei giorni scorsi, intanto, due appuntamenti hanno visto come protagonisti gli studenti detenuti della casa circondariale San Donato di Pescara, iscritti alle classi del corso di Amministrazione Finanza e Marketing dell’Istituto Aterno-Manthoné, diretto dalla preside Antonella Sanvitale. Promotore delle iniziative è il Garante dei detenuti della Regione Abruzzo, Gianmarco Cifaldi, anche docente del corso di laurea di Sociologia e criminologia dell’Università d’Annunzio di Chieti-Pescara. Martedì mattina, il docente di Sociologia del diritto, Michele Cascavilla, ha illustrato le caratteristiche del corso di laurea; cinque detenuti, diplomatisi nell’ultimo anno scolastico nella scuola carceraria dell’Aterno-Manthoné, infatti, si sono iscritti nell’ateneo teatino-pescarese. Cascavilla ha dato indicazioni sugli insegnamenti caratterizzanti il percorso universitario, assicurando la piena disponibilità dei docenti universitari per lezioni specifiche che saranno tenute all’interno della casa circondariale San Donato diretta da Lucia Di Feliciantonio. Quest’ultima ha accolto con entusiasmo l’opportunità offerta dalla d’Annunzio ai detenuti che, grazie all’intervento del Garante, hanno potuto beneficiare dell’iscrizione gratuita. I detenuti, in ogni caso, potranno contare sull’appoggio digitale di Marina Di Crescenzo, vicepreside dei corsi serali e per adulti dell’Istituto di via Tiburtina e Assunta Pelatti, docente di Lettere, per tutte le pratiche burocratiche. Mercoledì, invece, Pasquale D’Alberto e Marcella Leombruni, organizzatori del premio Croce di Pescasseroli, hanno presentato l’edizione 2020 della manifestazione alla quale parteciperanno, in qualità di giurati popolari, anche gli studenti di San Donato. I detenuti leggeranno i volumi partecipanti alla sezione di Letteratura giornalistica e concorreranno, con il loro voto, alla scelta del vincitore tra i tre finalisti. Con gli studenti della scuola superiore erano presenti anche i frequentanti delle classi di scuola media ed elementare del Cpia (Centro provinciale per l’istruzione degli adulti) Pescara-Chieti, diretto da Michela Braccia. Milano. Il cappellano dell’Ipm Beccaria: “educare è una partita a scacchi” leccoonline.com, 17 gennaio 2020 Per educare bisogna mettersi in gioco, bisogna rischiare, lasciarsi usare e saper aspettare, lasciando che i figli, i giovani, sbaglino e su quegli sbagli crescano. Così don Claudio Burgio, cappellano al carcere minorile Beccaria di Milano e presidente dell’associazione Kairos che gestisce comunità per il reinserimento dei minori, relatore in un affollato incontro tenutosi giovedì sera all’oratorio di San Giovanni nell’ambito di un cammino formativo per adulti promosso dalla comunità pastorale Don Monza e Beato Mazzucconi retta dal parroco don Claudio Maggioni. “Educare oggi: missione impossibile” era il tema della serata rivolta in particolare a genitori, educatori, insegnanti, catechisti. Ai quali don Burgio ha trasmesso il frutto delle riflessioni maturate nel corso dei suoi anni a contatto con adolescenti “difficili” e fragili, ma tali anche in virtù del “nostro sguardo di adulti”, se preferiamo guardare al disagio o non invece alle potenzialità dei ragazzi. Ricordandosi - è stata la chiusa - delle primissime parole che, nella Genesi, Dio dice all’uomo: “Tu potrai”. Prima di qualsiasi divieto. Perché un ragazzo per quanto fragile è sempre un ragazzo ed è sempre molto di più di quanto manifesti. “E allora noi - ha detto il sacerdote - non possiamo sostituirci alla libertà nei nostri figli, non possiamo pensare di comandare. Educare è una partita a scacchi. Quando i figli sono i piccoli, noi muoviamo anche le pedine per loro, ma quando crescono ognuno muove le proprie. Bisogna mettersi in gioco, non puoi imporre ma proporre. Non puoi pretendere di impostare la vita dei tuoi figli come vuoi tu. Il peggior genitore è quello che desideri sui propri figli”. Si creano aspettative di fronte alle quali “se un figlio si sente inadeguato va in crisi e a quel punto si apre una voragine. Soprattutto in presenza di una società molto esigente che richiede prestazioni: se sei primo sei qualcuno, se sei secondo sei nessuno. E allora c’è la vergogna di finire in panchina. I reati in età giovanile sono un grido di aiuto”. Ecco perché “imporre regole non basta. Occorre mettere i figli davanti alla propria libertà, dargli fiducia, un figlio ha bisogna di sbagliare. Certo, è un rischio: ma bisogna accettare il rischio educativo. Non siamo padri e madri a priori. Noi siamo solo genitori. Sono i figli che decidono di riconoscerci come padri e madri. Non si può restare fermi alle proprie idee, devi cambiare anche tu con i tuoi figli. Bisogna avere il coraggio di lasciarsi guardare. E basta con il giovanilismo dei genitori: i figli non ne possono più. I figli ci chiedono verità. Non dobbiamo inventare scuse per non affrontare discussioni”. Una testimonianza che il cappellano del Beccaria ha rafforzato con una serie di esempi presi proprio dalla sua opera in carcere e in comunità che gli ha insegnato anche a fare i conti con il dolore (quanti giovani sono morti o si sono persi) e con i fallimenti ma che fallimenti non sono come gli ha dimostrato la lettera inviata dalla madre di un ragazzo ucciso da un coetaneo, lettera che la donna ha scritto all’omicida: “Ho già perso un figlio, non ne voglio perdere un altro”. Parole di perdono sulle quali il colpevole ha potuto costruire il proprio riscatto. Como. L’Uisp Lariano racconta lo sport in carcere con un convegno uisp.it, 17 gennaio 2020 Il comitato Uisp partecipa al “Mese della pace” 2020, collaborando con associazioni e realtà locali che si occupano dei detenuti. Per il secondo anno l’Uisp Lariano aderisce al “Mese della pace” 2020 di Como. Quest’anno, in particolare, l’impegno del comitato Uisp si rivolge al gruppo di lavoro Carcere e periferie, al fianco di altre associazioni che svolgono attività all’interno della Casa circondariale “Il Bassone” di Como. Il Comitato Uisp, infatti, svolge da 20 anni attività sportiva insieme ai detenuti e alle detenute, con l’obiettivo di offrire uno strumento ricreativo ed educativo, utile anche per la socializzazione e come strumento per il benessere psicofisico. Venerdì 17 gennaio alle 21, presso la Biblioteca comunale “Paolo Borsellino” di Como, si terrà l’incontro “Vi raccontiamo il carcere”, per conoscere la Casa circondariale di Como e le realtà che la animano. Interverranno: Fabrizio Rinaldi, direttore del carcere del Bassone; Padre Michele, cappellano del carcere del Bassone; Patrizia Colombo, Homo Faber; Federico Ioppolo, vicepresidente Uisp Lombardia; Concetta Sapienza, vicepresidente Uisp Lariano. Modera: Marco Gatti, giornalista de Il Settimanale. Obiettivo dell’incontro è informare la popolazione di Como sulla realtà del carcere, per contrastare la narrazione diffusa che vorrebbe il carcere come luogo di emarginazione per soggetti irrecuperabili e indegni dell’interesse della comunità. Il carcere del Bassone, invece, è come un grande quartiere, quasi una città dentro la città ed è importante riportarlo metaforicamente al centro di Como e del dibattito cittadino e farlo conoscere. Per l’evento Facebook clicca qui Il Progetto Carcere dell’Uisp Lariano spazia dalle classiche proposte sportive fino ad attività più originali, come il qi gong. Ad esempio durante l’estate del 2019 è stata promossa la pallavolo nei settori donne e trans della Casa circondariale. L’attività ha coinvolto le detenute per tutto il periodo estivo, due giorni alla settimana, in un percorso gestito da due giovani allenatrici, al termine del quale si è svolto un torneo cui hanno partecipato anche squadre esterne. Quest’anno il progetto ha avuto una particolare attenzione per i diritti delle persone Lgbtiq, che spesso nell’ambito del carcere incontrano maggiori difficoltà e sono vittime di episodi di emarginazione. Ad inizio anno, invece, i detenuti hanno avuto la possibilità di sperimentare il qi gong: questa disciplina orientale genera armonia a livello psico-fisico-spirituale e accresce lo stato di equilibrio energetico generale. L’esecuzione sistematica degli esercizi di qi gong, tramite una postura e una respirazione corretta, aiutano a migliorare sensibilmente le rigidità, acquisire maggiore capacità di rilassamento, armonia e un generale benessere psico-fisico. Praticare questa attività è molto utile per migliorare il modo di relazionarsi ed affrontare un momento faticoso dell’esistenza, come può essere quello del carcere. Migranti. Il sogno di mettere in regola l’esercito delle colf in nero di Fulvio Fulvi Avvenire, 17 gennaio 2020 Dopo l’apertura del Viminale sulla possibile emersione dei lavoratori stranieri irregolari, la reazione delle parti sociali. “Una “sanatoria” per i lavoratori stranieri irregolari? Sarebbe sacrosanta”. Il presidente di Assindatcolf, Andrea Zini, che rappresenta i datori di lavoro domestico, non ha dubbi: “La loro regolarizzazione è una necessità primaria, ma da sola non basterebbe: deve essere accompagnata da un concreto sostegno dello Stato alle famiglie che assumono badanti, colf e baby-sitter. Come? Con una deducibilità fiscale delle spese, per esempio”. Non un colpo di spugna ma un welfare indotto e autogestito tra le parti: è questo l’auspicio di chi paga, per esempio, tra le 850 e i 1.000 euro al mese una badante a tempo pieno (quasi sempre straniera) per assistere un anziano o un malato con problemi di autosufficienza. Non chiamiamola sanatoria, però. Per il momento è solo un’ipotesi. A beneficiarne sarebbe un esercito “nascosto” di circa 400-500mila immigrati che potrebbe diventare “linfa vitale” per l’economia del Paese e per le disastrate casse dell’Inps, con un gettito fiscale previsto di almeno 1,4 miliardi di euro ed entrate previdenziali per una cifra che raggiungerebbe i 3 miliardi. Si parla, dunque, di un “provvedimento di emersione”, di un intervento normativo che renda regolari quei cittadini stranieri (senza pendenze penali) arrivati in Italia in maniera irregolare in cerca di un’occupazione e che magari l’hanno trovata, seppure “a tempo” e “in nero”: migranti che sono costretti nel 90% dei casi a impieghi stagionali, provvisori, precari, sottopagati. “Sulla regolarizzazione si sta ragionando” ha annunciato martedì alla Camera il ministro degli Interni, Luciana Lamorgese, durante il question time innescato da un’interrogazione presentata dal deputato Riccardo Magi (Radicali +Europa), relatore - tra l’altro - della proposta di legge di iniziativa popolare “Ero straniero”, una riforma complessiva del testo unico sull’immigrazione che prevede canali di ingresso attraverso la mediazione di centri per l’impiego e camere di commercio, o la presentazione di garanzie a chi dimostra di essere radicato e integrato da almeno due anni avendo svolto un’attività lavorativa o partecipato a misure di politica attiva del lavoro. Un superamento della Bossi-Fini. Ma oggi, purtroppo, siamo ancora di fronte a condizioni di grave sfruttamento degli stranieri, con salari da miseria e riduzioni dei lavoratori in schiavitù, come conferma Mohamed Saady, presidente Anolf (Associazione nazionale oltre le frontiere) e segretario nazionale di Fai Cisl: “La cosiddetta “sanatoria”? Una soluzione al fenomeno dell’irregolarità che può favorire una sistemazione definitiva e l’integrazione sociale del lavoratore immigrato”. Secondo il sindacato, i numeri dei lavoratori “fantasma” sarebbero ben più pesanti delle stime ufficiali: circa 600 mila, considerando il bracciantato agricolo, fenomeno stagionale governato dai “caporali”. “Fantasmi? No, persone in carne ed ossa, spesso trattati in modo disumano”. “In un Paese come il nostro - aggiunge Saady - che non è in grado di applicare una politica dei rimpatri, oltre alla sanatoria serve una programmazione dei flussi migratori: nessuno dice “apriamo le porte” senza condizioni, ma cerchiamo di individuare il fabbisogno del mercato del lavoro, settore per settore, e facciamo entrare quelli che servono”. E non è un’impresa impossibile. In Italia, il contributo economico degli immigrati è determinante. “Inoltre - conclude il sindacalista della Fai-Cisl - una sanatoria, o meglio, una “regolarizzazione” dei lavoratori stranieri, di chi ora vive nell’ombra, eliminerebbe i conflitti sociali trasmettendo un senso di sicurezza tra tutti i cittadini”. Cassazione: “I racconti dei richiedenti asilo sono stereotipati e troppo simili tra loro” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 17 gennaio 2020 Per i giudici chiamati a stabilire l’attendibilità delle denunce “il controllo di logicità è ormai la principale, se non l’unica, difesa dell’ordinamento”. Gli stranieri arrivati in Italia con mezzi di fortuna richiedono lo status di rifugiati “sovente attraverso narrazioni stereotipate e tessute intorno a canovacci fin troppo ricorrenti” e quindi palesemente false, da smascherare attraverso “un controllo di logicità, che appare ormai la principale, se non l’unica, difesa dell’ordinamento”. Così scrive la prima sezione civile della Cassazione, in una sentenza in materia di protezione internazionale. La vicenda riguarda A.S., togolese cui sia la commissione della prefettura sia il tribunale hanno rifiutato lo status di protezione internazionale e umanitaria. A.S., musulmano, aveva raccontato di essere stato costretto a fuggire dal suo Paese per evitare le ritorsioni causate dalla distruzione di un idolo in una zona in cui si pratica la religione animista. Ma secondo esperti della commissione amministrativa e tribunale il suo racconto non era credibile, in quanto sfornito sia di riscontri oggettivi, sia di quella intrinseca ed elementare coerenza logica, che consentirebbe di ritenere provate “circostanze che non lo sono affatto”. È infatti “del tutto implausibile che A.S., appartenente alla minoranza musulmana, avesse distrutto l’idolo da solo e lo avesse fatto repentinamente pur nella consapevolezza delle reazioni alle quali sarebbe andato incontro, così da pregiudicare, per un gesto tanto insensato, non solo la buona posizione lavorativa raggiunta, ma anche la relazione familiare con la moglie e una figlia appena nata”. La Cassazione difende “il controllo di logicità”, senza il quale “al giudice non resterebbe che prendere supinamente atto della domanda proposta, accogliendola in ogni caso, per quanto strampalata possa apparire”. Il giudice, spiega la Cassazione, ha la possibilità di “stabilire quale sia la situazione complessiva in cui versa il Paese di provenienza (esistenza di culti animisti e di minoranze di religione musulmana)”, ma non “di accertare in concreto se la narrazione dei fatti riferita dal richiedente sia vera o inventata di sana pianta”. Come appare quella del musulmano A.S, “della cui fede pare nessuno si fosse mai interessato fino alla discreta età di circa 25 anni”, fino a che, “improvvisamente sollecitato dal capo villaggio a partecipare a una cerimonia animista, preso da incontenibile furia iconoclasta nei riguardi di un idolo, e dimentico della famiglia e del suo avviato mestiere di sarto, lo abbia distrutto a colpi di bastone e di machete e, già con i soldi in tasca per darsi alla premeditata fuga, sia poi scappato immediatamente dopo perché una donna lo aveva visto e riconosciuto”. La Cassazione non solo boccia il ricorso del togolese A.S., ma trae da esso ulteriore conferma di una generalizzata tendenza che “emerge dall’esperienza dal collegio”, al punto da poterne ricavare una casistica di “narrazioni stereotipate”, che il relatore impietosamente elenca: “quella del giovane musulmano che ha messo incinta una ragazza cristiana, o del giovane cristiano che ha fatto lo stesso con una musulmana (le religioni possono peraltro variare), e scappa dalle furie dei genitori di lei; quella dell’uomo che il capo-villaggio ha destinato a sacrifici umani (il caso in esame appare una variante di questa trama) o ad altra non commendevole sorte; quella del sedicente omosessuale che, se lo fosse, sarebbe perseguitato al suo Paese; quello della lite degenerata in fatti di sangue in cui il richiedente ha, si intende senza volerlo, ferito o ucciso il proprio contendente, in un contesto in cui, quale che sia il Paese di provenienza, le forze di polizia del luogo sono sempre e irrimediabilmente corrotte ed astrette da oscuri vincoli alla potente famiglia della vittima, e così via”. La sentenza, risalente all’agosto 2019, è stata pubblicata ora da Questione Giustizia, rivista online di Magistratura Democratica, e accompagnata da un commento critico di Alessandro Simoni, professore di sistemi giuridici comparati dell’Università di Firenze. Il quale, pur dubitando del criterio logico seguito dai giudici (“in astratto non sembra regola universale che ogni fervore religioso o iconoclasta si spenga una volta che si è messa su famiglia e gli affari procedono”), rispetta la decisione giudiziaria, poiché “è ben possibile che le carte non lasciassero grandi spazi di manovra anche all’ermellino più benevolo”. Tuttavia Simoni vede nell’argomentazione generalizzata, “inutile” ai fini del caso concreto, “un interessante indicatore della permeabilità dei corpi giudiziari a un modo sempre più diffuso di leggere il mondo”. I giudici della Cassazione, anziché limitarsi a un’asettica valutazione probatoria sul caso di A.S., non hanno resistito “alla tentazione di fare dell’ironia” sul suo racconto e su quelli di gran parte dei richiedenti asilo, “in particolare quelli dell’Africa subsahariana (quindi di un gruppo umano accomunato da una precisa immagine razziale o etnica”), tacciandoli di ricorrere a “narrazioni di fantasia, unicamente finalizzate a vincere i ricorsi”. “La rappresentazione caricaturale - conclude Simoni - produce una sensazione sgradevole”, evocando “stereotipi sui migranti che hanno radici solidissime nella cultura italiana meanstream”. “Foto-trappole per migranti”, il confine disumano della Lega di Marinella Salvi Il Manifesto, 17 gennaio 2020 L’ultima trovata dell’assessore leghista di Trieste. Il Cpr di Gradisca come un carcere di massima sicurezza per chi non ha commesso reati. La Lega non demorde: l’assessore regionale alla Sicurezza e all’Immigrazione (che già il connubio è significativo) ha dichiarato di voler collocare “fototrappole spia” lungo il confine con la Slovenia per contrastare l’afflusso dei migranti. Almeno nella zona di Trieste dove lo sconfinamento è quotidiano. Dopo aver promesso droni e reticolati, la fantasia dell’assessore Roberti continua a dilagare. Dovrebbe conoscere le proprie competenze, l’assessore leghista, ma evidentemente non è così: non è informato, evidentemente, che la Regione non ha alcuna competenza su questo e mai potrebbe, su proprio bilancio, collocare sistemi di rilevazione e controllo. Dice che così le riammissioni in Slovenia dei migranti sarebbero automatiche, dimostrando di non conoscere la normativa e probabilmente senza rendersi conto che tra Italia e Slovenia da anni esiste soltanto un “confine interno” alla Ue, con tutto quello che ne consegue. Intanto, coerentemente, la gestione dei migranti in Friuli Venezia Giulia peggiora di giorno in giorno e sta diventando esplosiva. Soprattutto a Gradisca d’Isonzo dove operano affiancate due strutture carcerarie, il Cara e il nuovo Cpr aperto in sordina a fine dicembre: stesso muro perimetrale di cemento alto quattro metri con aguzzi frammenti di vetro e reticolati sulla sommità, nuovo sistema di videosorveglianza, doppia recinzione esterna, gabbie nei cortili interni per tenere isolati i gruppi di persone. Due strutture assieme: un unicum per l’Italia del Nord. Alcuni operatori dei Centri gradiscani, pochi giorni fa, hanno inviato una lettera aperta al quotidiano il Piccolo descrivendo una realtà intollerabile: “È ora che si venga a sapere che cosa succede in questi posti dimenticati da Dio e dagli uomini” hanno scritto. La cooperativa che gestisce il Cpr è la Edeco di Padova, tra l’altro indagata per precedenti gestioni irregolari e, scrivono ancora i lavoratori: “ogni settimana arrivano da Padova due persone che mangiano, si lavano e dormono dentro il Cpr. Lavorano 12 ore al giorno e fanno anche il turno di notte alternandosi con un solo operatore in servizio. In caso di problemi, uno sveglia l’atro”. Gli stessi due operatori fanno anche le pulizie ma non esiste igiene e nessuno degli operatori è vaccinato. I pasti arrivano ogni mattina da Padova e, tenuti dentro contenitori di acciaio, devono bastare sia per il pranzo che per la cena. Non c’è un ambulatorio, un’infermeria, il medico è presente per quattro ore ma solo tre giorni alla settimana. Di mediazione culturale, assistenza legale, o quant’altro, nemmeno l’ombra. Frutto avvelenato, del tutto prevedibile, del decreto Salvini che fissa in 19 euro il budget giornaliero per ospite del Cpr, a scapito del servizio e degli operatori che, con un gioco al massacro di riduzioni di orario e turnazioni, portano a casa stipendi da 5-600 euro al mese: “Ci chiediamo come lo Stato possa far finta di non sapere nulla di ciò che accade all’interno di questo meccanismo”. “Ci portano da mangiare come ai cagnolini!” è riuscito a dire un migrante rinchiuso nel nuovo Cpr di Gradisca durante una breve drammatica telefonata filtrata all’esterno. Non c’è un refettorio, non c’è nulla, solo celle da sei persone dove chi aspetta il rimpatrio deve restare chiuso per gran parte del tempo con una feritoia sulla porta che fa anche da passavivande. Carcere di massima sicurezza destinato non a chi ha commesso reati: le “irregolarità” sono puramente amministrative e molte lo sono diventate soltanto in forza dei decreti salviniani. Galera, e di quelle peggiori, dove rinchiudere anche gli stranieri che già avevano avuto un permesso di soggiorno, che lavoravano, che studiavano, che si erano illusi di aver trovato un luogo dove ricostruirsi una vita. E così si moltiplicano gli episodi di autolesionismo ed i tentativi di fuga (già in una decina sono riusciti a scappare). E cresce anche la conta dei morti annegati nell’Isonzo. La Regione, secondo l’ordinamento giuridico, dovrebbe realizzare progetti di inclusione sociale per gli stranieri, ma alla maggioranza leghista non interessa: meglio le fototrappole per la loro sguaiata propaganda. È il metodo migliore per creare disordine e insicurezza, ma tant’è. Libia. Subito una forza civile europea e un nuovo governo di intesa nazionale di Alberto D’Argenio La Repubblica, 17 gennaio 2020 Domenica a Berlino la Conferenza di pace con Serraj e Haftar. L’Europa pronta a inviare militari in una seconda fase. Nella bozza del documento del vertice anche il disarmo delle milizie e l’unificazione dell’apparato di sicurezza. Tregua duratura, missione civile per garantirne la tenuta e - successivamente - invio di militari in Libia per bloccare l’afflusso di materiale bellico e disarmare le milizie, favorendo la nascita di un governo di unità nazionale. L’Europa si prepara alla Conferenza di Berlino di domenica con qualche grado di ottimismo in più rispetto ai giorni scorsi. Il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, è volato a Bengasi dove ha ottenuto la certezza che, oltre al premier di Tripoli Serraj, anche il generale Haftar tra due giorni sarà nella capitale tedesca. Dopo l’incontro con l’uomo forte della Cirenaica, Maas si è sbilanciato: è pronto a rispettare il cessate il fuoco. Gli europei intravedono un possibile successo nel summit organizzato da Angela Merkel - al quale tra gli altri parteciperanno Pompeo, Putin ed Erdogan, oltre ai leader Ue - e iniziano a prepararsi per il dopo. In una bozza di conclusioni pubblicata ieri da Agenzia Nova, la Conferenza di Berlino oltre a un cessate il fuoco duraturo e un embargo alle armi, chiederebbe la smobilitazione delle forze sul terreno, unificazione degli apparati di sicurezza, rifiuto di ingerenze straniere (Russia e Turchia), garanzia di integrità territoriale e “nascita di un nuovo, rappresentativo e unificato governo di accordo nazionale che eserciti la sua autorità su tutto il territorio libico” favorendo una soluzione politica al conflitto e la ricostruzione del Paese. Al momento manca ogni riferimento alla missione che garantisca il cessate il fuoco e l’avvio del processo politico chiamato a mettere fine al conflitto. Su questo spingono ora gli europei, con gli americani più cauti. “La partecipazione di Sarraj e Haftar a Berlino è un successo della diplomazia europea a dimostrazione che quando l’Ue agisce unita è in grado di far sentire la propria voce”, dice il presidente dell’Europarlamento, David Sassoli. Che aggiunge: “Per il monitoraggio del cessate il fuoco dobbiamo essere pronti ad utilizzare ogni strumento a disposizione, sia civile che militare”. Per il premier Giuseppe Conte, l’Italia “è disponibile a partecipare a un contingente di interposizione e di pace”. L’Europa non vuole correre il rischio che un eventuale successo a Berlino venga travolto da nuove escalation sul terreno. Ecco perché già lunedì a Bruxelles l’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, presenterà ai ministri europei le opzioni per la forza di interposizione. Secondo quanto il “ministro degli Esteri” dell’Unione ha già comunicato alle capitali, raccontano fonti europee, sono possibili diverse opzioni. Per Borrell una prima possibilità consiste nel dispiegamento di una missione civile in Libia in tempi rapidi, al massimo entro qualche settimana, sul modello di quella inviata in Georgia nel 2008.11 personale europeo dovrebbe tracciare i confini tra le parti belligeranti e interporsi tra loro, monitorando la tenuta del cessate il fuoco. Per questa missione servirebbero un forte mandato politico della comunità internazionale e il consenso delle parti libiche. La seconda opzione prevede una missione militare sul modello Libano (Unifil), che però richiederebbe tempi più lunghi per essere dispiegata tra pianificazione, risoluzione delle Nazioni Unite e voto dei parlamenti nazionali dei Paesi coinvolti. In entrambi i casi i numeri del personale non sarebbero altissimi: si parla di poche centinaia di uomini al massimo. La forza militare avrebbe un comando a rotazione tra i partecipanti che, a differenza di quanto ipotizzato nei giorni scorsi, potrebbero non essere solo europei, ma anche partner dell’Unione africana e di stati asiatici. Borrell ipotizza anche un sostegno alle forze di sicurezza: disarmo, smobilitazione e reintegrazione nella società delle milizie. Scarponi sul terreno dunque, ma anche e soprattutto aerei per assicurare efficacia all’embargo delle armi monitorando dal cielo gli estesi confini libici. Oltre a una forza navale per un analogo controllo in mare: Bruxelles non esclude di riattivare Sophia, bloccata lo scorso anno da Salvini, come chiede la Francia perché rapida da mettere in acqua. Roma invece spinge su una missione nuova a meno che non vengano cambiate le regole sullo sbarco dei migranti, che per Sophia è previsto solo in Italia. Con queste opzioni sul tavolo, in queste ore nelle telefonate tra le cancellerie continentali sta emergendo l’orientamento dei leader europei di spingere affinché i partecipanti a Berlino approvino questo schema: missione civile subito per stabilizzare la tregua in tempi rapidi ed evitare il rischio di un attacco a sorpresa di Haftar su Tripoli. Quindi una più solida missione militare in un secondo tempo, appena i passaggi tecnici e politici lo consentiranno. Non è detto che a Berlino finirà così, ma questo è quello su cui al momento puntano i governi dell’Unione. Stati Uniti. Troppi detenuti morti, Jay-Z fa causa alle autorità carcerarie del Mississippi di Simone Re tio.ch, 17 gennaio 2020 Il rapper e la sua Team Roc contro le autorità di due centri di detenzione del Mississippi: “Lo stato ha fallito”. I rapper Jay-Z e Yo Gotti, attraverso Team Roc (la divisione della Roc Nation che si occupa di attività filantropiche), hanno fatto causa - in rappresentanza di 29 detenuti - alle autorità carcerarie dello stato del Mississippi per le condizioni “inumane” di alcune delle sue strutture detentive. Se da un lato il numero di persone incarcerate in Mississippi “continua a crescere”, dall’altro lo stato ha “drasticamente ridotto il finanziamento delle sue prigioni”, si legge nel testo della denuncia, riportato dai media statunitensi. Solo nelle ultime settimane, cinque detenuti hanno perso la vita nelle strutture detentive dello stato. Quattro di questi erano rimasti coinvolti in alcuni violenti disordini. La conseguenza di questo sotto finanziamento sono “condizioni di detenzione incapaci di garantire il minimo dei diritti umani”, prosegue il Team Roc, chiedendo di prendere provvedimenti immediati. In caso contrario, i firmatari della denuncia si dicono “pronti a percorrere ogni via per riuscire a ottenere il sollievo della popolazione carceraria del Mississippi e dei loro familiari”. Nepal. In arrivo il bavaglio alla libertà d’espressione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 gennaio 2020 Fino a un paio d’anni fa, il Nepal era considerato uno degli stati asiatici più tolleranti nei confronti del dissenso e delle opinioni critiche. Dall’anno scorso, questa reputazione è fortemente a rischio. Intanto, prima della sua prevista sostituzione con norme più aggiornate, è stata riesumata una legge del 2006, quella sulle transazioni elettroniche, per stroncare le critiche. Ne hanno fatto le spese, con gli arresti, il giornalista Arju Giri per aver denunciato una serie di frodi finanziarie, l’attore Pranesh Gautam per aver pubblicato su YouTube un filmato satirico e i musicisti Durgesh Thapa e Samir Ghishing per i contenuti dei loro brani. Nel 2019 il governo ha presentato tre diverse proposte di legge il cui obiettivo palese è di mettere il bavaglio all’espressione delle idee, soprattutto online. C’è la Legge sull’organizzazione dei mezzi d’informazione, che introduce nel codice penale i reati di calunnia e diffamazione a mezzo stampa. Segue, in ordine cronologico di presentazione, la Legge sui mezzi di comunicazione di massa, che prevede fino a 15 anni di carcere per i giornalisti che pubblicano o trasmettono contenuti ritenuti contrari alla sovranità nazionale, all’integrità territoriale e all’unità nazionale. infine, la Legge sulla tecnologia dell’informazione su cui si sta concentrando l’attuale dibattito. Se verrà definitivamente approvata, consentirà al governo di censurare arbitrariamente contenuti online, punendo i loro autori con cinque anni di carcere e multe esorbitanti. La portata della legge è enorme. L’articolo 94 criminalizza in modo del tutto vago contenuti ritenuti contrari “all’unità nazionale, al rispetto per se stessi, agli interessi nazionali e alle relazioni tra le componenti federali”. Altri articoli puniscono contenuti “irridenti”, “ingannevoli”, “demotivanti” e “degradanti”, impedendo la loro divulgazione attraverso qualsiasi mezzo elettronico: newsletter, blog, portali e persino e-mail. L’articolo 114 prevede addirittura la costituzione di tribunali ad hoc i cui componenti saranno di nomina governativa. Il 2020 rischia dunque di essere, in Nepal, l’anno del bavaglio. “Io, detenuto da un mese: ecco il mio incubo a Dubai” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 17 gennaio 2020 Dice di essere sbarcato a Dubai per un viaggio di piacere, assieme alla moglie e ai due figli. Dice di essere un imprenditore napoletano, da tempo titolare di un ristorante pizzeria a Panama, giunto all’aeroporto di Dubai da turista, assieme alla famiglia, con tanto di biglietto di rientro prenotato e di albergo riservato per trascorrere una vacanza. Una storia sempre più strana, un intrigo internazionale che resta tale, a dispetto della fitta corrispondenza che in questi giorni ha riguardato reparti investigativi di Napoli, di Roma e della stessa capitale degli Emirati. A tenere in piedi il caso è una lettera dettata telefonicamente da Domenico Alfano, proprio lui, il napoletano arrestato prima di Natale con l’accusa di essere in realtà Bruno Carbone, broker del narcotraffico, ricercato da anni per ordine del Tribunale di Napoli e di Catania. Una vicenda che si arrotola su se stessa, in attesa di una risposta delle autorità emiratine e - di rimbalzo - delle istituzioni italiane. Un giallo, al momento, fin troppo facile da ripercorrere: pochi giorni prima di Natale - tra il 19 e il 20 dicembre scorsi - Domenico Alfano è stato arrestato a Dubai. Per gli inquirenti non ci sono dubbi: si tratta di Carbone, braccio destro di Raffaele Imperiale, uno che gestisce centinaia di migliaia di euro, trafficando cocaina con il Sudamerica, con i paesi bassi, con l’est europeo. Scattano le manette ai polsi, ma la notizia arriva in Italia solo ai primi di gennaio, con un buco informativo di almeno una decina di giorni. Cosa è accaduto a Dubai? Stando all’interrogatorio di garanzia, ma anche alla denuncia del sedicente Domenico Alfano (a cui è stato consentito di stabilire contatti telefonici con la famiglia, il legale e che è stato visitato dal console italiano), l’Interpol avrebbe preso un granchio. Avrebbero arrestato l’uomo sbagliato, o meglio, un soggetto estraneo alle accuse credendolo un pericoloso narcotrafficante. Ed è in questo scenario che si fa avanti un sospetto. È possibile infatti che la polizia emiratina abbia saputo dell’arrivo a Dubai, nei giorni prima di Natale, del latitante Bruno Carbone, con un volo proveniente da Panama. Una traccia investigativa che potrebbe aver spinto le autorità locali a verificare, tramite i terminali, tutti i cittadini napoletani in arrivo da Panama, più o meno della stessa età di Carbone, anche alla luce di una precedente traccia investigativa. Già in un recente passato, Carbone sarebbe arrivato a Dubai sotto falso nome, sempre battendo rotte internazionali legate al Sud America o all’est europeo. E sarebbe sfuggito agli arresti - secondo un pentito - grazie a una tangente versata da Imperiale in persona. Fatto sta che in questi giorni, anche gli inquirenti napoletani si sono mossi, con un blitz nella casa partenopea di Alfano, nel tentativo di acquisire impronte digitali, fotografie e altri indizi in grado di chiudere il caso, in un senso o nell’altro, sulla cattura messa a segno a Dubai dalle forze dell’ordine locali. Ma intanto si leva la denuncia dell’uomo detenuto a Dubai. In sintesi, da quasi un mese, la sua famiglia è in un hotel, mentre lui si trova in cella, alle prese con accuse da brividi: “Mi chiamo Domenico Alfano, sono cittadino italiano, ho una moglie colombiana con cittadinanza italiana e due bambini, una di 13 anni e un altro di 9. Da tredici anni viviamo a Panama. Siamo partiti da Panama il 18 dicembre per una vacanza di trenta giorni qui a Dubai. Possiedo un ristorante pizzeria a Panama Santiago de Veraguas. Abbiamo fatto una sosta in Francia, prima di atterrare negli Emirati, ma quando siamo atterrati è iniziato un incubo. Un uomo con la giacca viene a cercarci e ci invita a seguirlo, passiamo davanti agli altri passeggeri. Alla porta numero due, mi chiedono il passaporto, declino le mie generalità, gli dico che sono Domenico Alfano. Mi dicono di far parte dell’Interpol, ci portano nell’ufficio migrazione: a questo punto, uno dell’Interpol porta mia moglie con i bambini verso una finestra, mentre io seguo attraverso un percorso un altro uomo. Controllano la mia valigia, poi mi portano in un ufficio. Mostro loro la scheda di presentazione del mio ristorante, mentre mi fanno foto, prima di mettermi in una cella. Passano due o tre ore, mi fanno altre foto, mi mettono le manette e mi trasferiscono in prigione”. E non è finita. “Lì, in cella, arrivano altri funzionari dell’Interpol, che mi mostrano le foto di due uomini con due nomi e cognomi diversi, dicendomi che in realtà si tratta della stessa persona. Mi accusano di essere un leader della mafia, che mi stanno cercando da diversi anni. A questo punto, dentro di me, mi sento rassicurato, perché so che hanno sbagliato persona e che prima o poi la cosa verrà fuori. Intanto, mi prendono le impronte digitali, mi prendono il sangue per fare un test del Dna, mi scattano le foto e mi tranquillizzano: mi dicono di stare calmo, che alla fine - se non sono Bruno Carbone - mi libereranno presto”. Un mese dopo, il sedicente Domenico Alfano è ancora detenuto, il caso resta aperto, nell’imbarazzo generale. Ecco il finale della lettera: “Oggi 16.1.2020 sono da 28 giorni in cella, ma non sono la persona che stanno cercando. Tutta la mia vita sta finendo, tutte i miei impegni di lavoro infranti, il danno psicologico alla mia famiglia è indescrivibile, scrivo questa lettera in modo che tutti sappiano la verità sull’incubo che stiamo vivendo”.