Quei detenuti anziani che chiedono di restare in carcere di Paola Lo Mele Gazzetta di Parma, 16 gennaio 2020 “Non fatemi uscire, non so dove andare, fatemi morire in pace qui”. In carcere. La richiesta, tanto accorata quanto inimmaginabile per i non addetti ai lavori, è arrivata personalmente alla garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni. A voler restare dietro le sbarre, rinunciando alla possibilità dei domiciliari, è un romano di 75 anni, malato e attualmente ancora recluso nella casa circondariale di Rebibbia. Il suo, stando ai dati raccolti dalla stessa Stramaccioni, non è affatto un caso isolato: “Solo fra Rebibbia penale e Nuovo Complesso ci sono 60 uomini ultrasettantenni. Molti di questi rimangono negli istituti penitenziari perché non ci sono strutture esterne dove possano scontare l’ultimo periodo della loro pena e della loro vita”. L’allarme della garante sulle condizioni di vita di questi uomini riguarda soprattutto i malati: “Si tratta di persone sole che non hanno più legami familiari, molte provenienti dalla strada. Vista l’età e la malattia, potrebbero accedere alle misure alternative, il problema è che non ci sono posti - spiega. Ed il carcere, che rimane l’unica accoglienza possibile, si trasforma inevitabilmente un deposito”. Diversi di loro finiscono nel reparto infermeria: “Può capitare, come sta accadendo in questi giorni, che in questi reparti sia rotto il riscaldamento e le persone, malate ed anziane, vivano in condizioni disperate”. All’origine del dramma, oltre alla mancanza di reti personali dei carcerati (alcuni dei quali hanno interrotto i rapporti con le loro famiglie in seguito al reato), “c’è anche la carenza di posti nelle Rsa, le residenze sanitarie assistite che potrebbero accoglierli - afferma ancora la garante romana. Così, anche con il certificato medico di incompatibilità con il carcere, non escono...Dopo l’ultimo giorno di carcere, quando proprio devono lasciare la struttura, in qualche caso siamo riusciti a trovare loro una collocazione con l’aiuto della Chiesa”. E la situazione di sovraffollamento delle strutture permane: al 31 dicembre 2019 nei 14 istituti di pena del Lazio erano presenti 6.566 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 5.247. Non finisce qui. “Sono carenti anche i posti disponibili nelle Rems - punta il dito Stramaccioni -. Si tratta delle residenze per le misure di sicurezza, che hanno sostituito gli ex Opg e che dovrebbero ospitare chi ha problemi psichici. In tutto il Lazio ci sono solo 80 posti e le liste d’attesa non sono più sostenibili. Finisce che anche queste persone, insieme agli anziani malati, restano in carcere. E la struttura diventa impraticabile”. In un convegno organizzato dalla Fondazione Di Liegro che si è svolto a Roma lo scorso novembre Stramaccioni ha chiesto esplicitamente alla Regione Lazio di aumentare l’offerta di Rems: “Ci hanno promesso che entro gennaio sarebbero stati attivati altri 20 posti. Li aspettiamo”. Doppio vantaggio per le aziende che assumono detenuti o internati di Riccardo Pallotta* ipsoa.it, 16 gennaio 2020 Anche nel 2020 imprese private e cooperative sociali possono fruire di uno sconto del 95% sui contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro e dei lavoratori per l’assunzione di detenuti o internati. Gli sgravi contributivi si applicano, a determinate condizioni, per ulteriori 18 o 24 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo e sono riconosciuti dall’Inps in base all’ordine cronologico di presentazione online delle domande da effettuare con il modulo “Deti”. La domanda deve essere rinnovata ogni anno anche per i rapporti di lavoro già autorizzati. A fronte delle medesime assunzioni alle imprese spetta anche un credito d’imposta. Assumere un detenuto o un internato può rappresentare un’opportunità per le aziende. Sono previsti, infatti, vantaggi contributivi e fiscali per le cooperative sociali che impieghino persone detenute o internate negli istituti penitenziari, ex degenti di ospedali psichiatrici giudiziari e persone condannate e internate ammesse al lavoro esterno, nonché alle aziende pubbliche o private che organizzino attività produttive o di servizi, all’interno degli istituti penitenziari, impiegando persone detenute o internate. *Esperto di previdenza e di organizzazione e funzionamento della Pubblica Amministrazione L’Inail assicura anche i detenuti che fanno lavori di pubblica utilità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 gennaio 2020 Una Circolare dell’istituto, del 2 gennaio 2020, illustra le novità. Anche i detenuti che svolgono lavori di pubblica utilità avranno una copertura assicurativa. L’Inail, con circolare n. 2 del 10 gennaio 2020, ha comunicato l’estensione della copertura assicurativa contro le malattie e gli infortuni prevista dall’articolo 1, comma 312, L. 208/ 2015, ai detenuti e agli internati impegnati in lavori di pubblica utilità ai sensi dell’articolo 20ter, L. 354/ 1975, a decorrere dall’anno 2020. La circolare illustra le novità introdotte dall’articolo 2, comma 2, D. Lgs. 124/ 2018, che ha integrato, a decorrere dal 2020, la dotazione del Fondo finalizzato a reintegrare l’Inail dell’onere per la copertura degli obblighi assicurativi per alcune tipologie di soggetti e ha esteso la copertura assicurativa anche ai detenuti e agli internati impegnati in lavori di pubblica utilità. Sono, pertanto, coperti dal Fondo i seguenti soggetti: beneficiari di ammortizzatori e di altre forme di integrazione e sostegno del reddito, coinvolti in attività di volontariato a fini di utilità sociale in favore di comuni o enti locali; detenuti e internati impegnati in attività volontarie e gratuite; stranieri richiedenti asilo in possesso del relativo permesso di soggiorno; soggetti impegnati in lavori di pubblica utilità, compresi appunto i detenuti e internati. a ricordare che Il lavoro di pubblica utilità (Lpu) è ritenuto una sanzione penale sostitutiva anche se i suoi eterogenei ambiti di applicazione non ne consentono una precisa collocazione sistematica. Il lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti e organizzazioni di assistenza sociale o volontariato. La prestazione di lavoro, ai sensi del decreto ministeriale 26 marzo 2001, viene svolta a favore di persone affette da Hiv, portatori di handicap, malati, anziani, minori, ex detenuti o extracomunitari; oppure nel settore della protezione civile, della tutela del patrimonio pubblico e ambientale o in altre attività pertinenti alla specifica professionalità del condannato. L’attività viene svolta presso gli Enti che hanno sottoscritto con il Ministro, o con i Presidenti dei Tribunali delegati, le convenzioni previste dall’art. 1 comma 1 del D. M. 26 marzo 2001, che disciplinano le modalità di svolgimento del lavoro, nonché le modalità di raccordo con le autorità incaricate di svolgere le attività di verifica. Originariamente, la sanzione era prevista nei procedimenti di competenza del giudice di pace, ai sensi dell’art. 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 274. Lo spettro di applicazione della sanzione è stato successivamente allargato a numerose e diverse fattispecie penali, che hanno configurato il lavoro di pubblica utilità come una modalità di riparazione del danno collegata all’esecuzione di diverse sanzioni e misure penali, che vengono eseguite nella comunità. Attualmente trova applicazione anche nei casi di violazione del Codice della strada; nei casi di violazione della legge sugli stupefacenti, ai sensi dell’art. 73 comma 5 bis del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309; come obbligo dell’imputato in stato di sospensione del processo e messa alla prova, ai sensi dell’art. 168 - bis del codice penale, introdotto dalla legge 28 aprile 2014 n, 67; congiuntamente alla pena dell’arresto o della reclusione domiciliare, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. i) della legge 28 aprile 2014 n, 67, ancora in attesa della regolamentazione prevista dai decreti legislativi in corso di emanazione; come obbligo del condannato ammesso alla sospensione condizionale della pena, ai sensi dell’art. 165 codice penale e art. 18bis delle Disposizioni di coordinamento e transitorie del codice penale e come modalità di attuazione del programma di trattamento del detenuto ammesso al lavoro all’esterno ai sensi dell’art. 21, comma 4ter dell’ordinamento penitenziario introdotto dal decreto legge 1 luglio 2013, n. 78, convertito nella legge n. 94/ 2014. L’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe) può essere incaricato dal giudice di verificare l’effettivo svolgimento dell’attività lavorativa a favore della collettività, eseguita presso gli Enti convenzionati. Nei casi di sospensione del procedimento e messa alla prova l’Uepe ha il compito specifico di definire con l’imputato la modalità di svolgimento dell’attività riparativa, tenendo conto delle attitudini lavorative e delle esigenze personali e familiari, raccordandosi con l’ente presso cui sarà svolta la prestazione gratuita. Il lavoro di pubblica utilità diventa parte integrante e obbligatoria del programma di trattamento per l’esecuzione della prova che è sottoposto alla valutazione del giudice nel corso dell’udienza. Stato-mafia: dei 336 detenuti al 41bis solo 18 erano di Cosa nostra e a sette fu riapplicato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 gennaio 2020 Lo scrivono i giudici nella motivazione della sentenza Mannino. L’unica prova dell’avvenuta trattativa Stato- mafia è il mancato rinnovo del 41 bis a centinaia di detenuti. Lo disse a dicembre del 2018 anche il dottore Sebastiano Ardita intervenendo a un dibattito sul tema, svoltosi a Roma al club del golf dell’Olgiata. “L’unico fatto concreto provato è il ritiro, nel novembre 1993, del 41bis a 336 mafiosi detenuti”, aveva detto con estrema chiarezza. Infatti secondo le motivazioni della sentenza principale sulla presunta trattativa dove hanno condannato gli ex Ros e Marcello Dell’Utri per aver veicolato le minacce ai governi che si sono succeduti tra il 1992 e 1994, non c’è ombra di dubbio: l’allora capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, si adoperò per rimuovere dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Niccolò Amato (Dap), ritenuto troppo duro con i boss, e per sostituirlo con Adalberto Capriotti (con Francesco Di Maggio come vice), nel giugno del 1993. Fu lì, secondo le motivazioni di condanna, che si insinuarono una serie di iniziative per favorire la mafia e quindi la trattativa. Il 41 bis è il fulcro del teorema della trattativa. L’iniziativa dei due ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno sarebbe stata, a differenza di quanto da loro sostenuto, non autonoma e non eminentemente volta a catturare i latitanti mafiosi, bensì indotta dall’allora ministro per gli Interventi straordinari per il mezzogiorno Calogero Mannino. Detta trattativa sarebbe sfociata nella presentazione da parte di Totò Riina del cosiddetto “papello”, che, come è noto, è stato fornito materialmente da Massimo, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, in copia ai Pm nell’ottobre del 2009, e in cui si riassumevano in dodici punti le richieste di benefici per Cosa nostra. Riina non avrebbe offerto null’altro in cambio dell’accoglimento delle sue istanze che l’abbandono del piano stragista. Tale papello sarebbe stato consegnato da Vito Ciancimino ai Ros, i quali, in concorso con Calogero Mannino, si sarebbero adoperati per esercitare una pressione sul governo, che puntasse all’approvazione di provvedimenti validi a soddisfare siffatte pretese di Riina. Quale obiettivo sarebbe stato raggiunto? Quello, appunto, relativo alla mancata proroga del 41 bis per centinaia di mafiosi. Quindi la sentenza di condanna si basa principalmente su questa tesi. Se viene meno crolla l’intero impianto della trattativa Stato-mafia. Nel frattempo però è stata depositata una sentenza che confermando l’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino, il quale scelse di essere processato con un rito abbreviato - smonta tale ricostruzione. Le motivazioni di assoluzione fanno una ulteriore chiarezza sulla questione del mancato rinnovo del 41 bis ai 336 detenuti in scadenza a decorrere dal primo novembre del 1993. La vicenda - chiarisce il collegio presieduto da Adriana Piras, a latere Massimo Corleo e Maria Elena Gamberini - è originata dall’invio della nota del 29 ottobre, finalizzata ad aprire - dopo la sentenza della Corte costituzionale che invitava il governo a valutare il 41 bis caso per caso - un’articolata istruttoria con le autorità giudiziarie e di polizia competenti, per acquisirne i relativi pareri. Così avvenne. Nelle motivazioni di assoluzione si evidenziano diversi dati oggettivi che smentiscono la tesi basata sul fatto che l’omessa proroga dei 336 decreti applicativi del 41bis sia stato effetto della cosiddetta trattativa. Punto primo. Tale mancata proroga era stata posta in essere dall’ex ministro della giustizia Giovanni Conso, il quale giustamente non è stato indagato per questo. Punto secondo. Se fosse stato frutto della trattativa, non si capisce quale vantaggio avrebbe avuto Cosa nostra a fronte delle cosiddette “stragi di continente”. I giudici sottolineano che dei 336 detenuti non sottoposti al rinnovo, soltanto 18 appartenevano alla mafia (a sette dei quali, peraltro, nel giro di poco tempo, nuovamente riapplicato). Dunque gli aderenti a Cosa nostra erano pari a meno del 5,5% di tutti i detenuti con decreto in scadenza. Ma non solo. I giudici scrivono che “né dalla Procura di Palermo, all’uopo interpellata, né dalla Dia, né dalla Dna, né dalle altre forze politiche richieste di parere, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro”. Il terzo fattore che piccona la prova dell’avvenuta trattativa riguarda la necessità di una ragionata distensione del clima di pressione all’interno del carcere “a tratti - scrivono i giudici - e per lunghi lassi di tempo, luoghi sovraffollati di disumanità”. Una distensione già avviata, tra l’altro, con il precedente capo del Dap Niccolò Amato con la sua nota del marzo 1993. Una distensione, sottolineano i giudici, “che nulla ha a che fare con il venire a patti con la criminalità, ma che molto ha a che fare con la tutela della dignità dei detenuti, di qualunque estrazione sociale essi siano”. Dunque l’ex ministro Calogero Mannino non fece alcuna pressione per la revoca del regime duro. Quindi cade in via definitiva la tesi accusatoria che vuole l’ex ministro come input, garante, e veicolatore alle autorità statali (a Di Maggio, in particolare) della minaccia contenuta nella presunta trattativa. Così come decade l’intero impianto accusatorio e quindi il teorema giudiziario sulla trattativa Stato-mafia. Nel frattempo è in corso il processo d’appello sul troncone principale e i giudici della corte non potranno non tenerne conto. Religione in carcere: un diritto reale per 50mila detenuti credenti di Marco Belli gnewsonline.it, 16 gennaio 2020 Professare la propria fede religiosa, oltre ad essere di conforto e sostegno nell’affrontare le restrizioni della vita detentiva, costituisce un valido supporto per mantenere il senso della propria identità in un contesto che può essere spersonalizzante. Inoltre può contribuire a porre le basi per una profonda riflessione sul proprio vissuto e sui percorsi devianti che hanno condotto alla commissione del reato e quindi alla detenzione. Il principio della libertà religiosa, sancito all’art. 19 della nostra Costituzione in favore di ogni cittadino, trova ampio riscontro nell’Ordinamento Penitenziario: l’art. 26 considera infatti la religione uno degli elementi del trattamento penitenziario. Proprio la possibilità di praticare il proprio credo può quindi sollecitare il detenuto ad una positiva adesione alle offerte trattamentali dell’istituto, ponendo le basi per la (ri)costruzione di un sé nell’ambito della legalità. Per questo l’Amministrazione Penitenziaria da sempre presta attenzione nell’assicurare a tutti i detenuti, di qualunque fede, la possibilità di praticare in carcere il proprio culto, anche mettendo a disposizione, quando possibile, appositi locali. Alla data odierna sono quasi 50mila i detenuti che hanno dichiarato di professare una fede religiosa. L’assistenza viene assicurata per tutti i culti: per i cattolici è presente un Cappellano in ogni istituto penitenziario; per i culti diversi dalla religione cattolica, sono ad oggi 1.505 i ministri di culto che, attraverso due differenti modalità, possono entrare in carcere. Per le Confessioni religiose che hanno stipulato un’intesa con lo Stato Italiano, i relativi ministri possono entrare “senza particolare autorizzazione”, secondo le rispettive Leggi d’Intesa ed ai sensi dell’art. 58 del Regolamento di Esecuzione della Legge 354/75. In questi casi, le suddette Confessioni trasmettono ogni anno al Dap ed ai Provveditorati Regionali gli elenchi dei ministri destinati a prestare assistenza spirituale negli istituti penitenziari. Allo stato attuale, le Confessioni che hanno stipulato un’Intesa con lo Stato Italiano, sono le seguenti: Tavola Valdese, Assemblee di Dio in Italia, Chiesa Evangelica Luterana, Unione delle Comunità Ebraiche, Chiesa Cristiana Avventista, Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia, Chiesa Apostolica, Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, Unione Buddhista Italiana, Istituto Buddista Italiano “Soka Gakkai”. Per i ministri di culto che appartengono a Confessioni che non hanno stipulato alcuna Intesa con lo Stato, l’istanza presentata dal singolo o dalla Congregazione per accedere in uno o più istituti è trasmessa dalla Direzione Generale Detenuti e Trattamento del Dap all’Ufficio Culti del Ministero dell’Interno, che svolge gli accertamenti di rito e rilascia un Nulla Osta. Negli ultimi anni, con l’aumento della presenza di detenuti stranieri di fede islamica, è cresciuta la richiesta di assistenza religiosa di tale culto. Tuttavia, mancando una struttura unitaria rappresentativa dell’islamismo in Italia e quindi un interlocutore istituzionale, per l’accesso degli Imam negli istituti penitenziari si segue la stessa procedura utilizzata per i ministri di culto che appartengono a Confessioni religiose che non hanno stipulato un’Intesa con lo Stato italiano. Ad oggi sono 43 gli Imam che hanno ottenuto il Nulla Osta del Ministero dell’Interno: alcuni accedono alle strutture penitenziarie periodicamente; altri soltanto in occasione del Ramadan, ricorrenza per la quale il Dipartimento impartisce ogni anno precise disposizioni per consentirne la celebrazione, sempre nel rispetto delle norme di sicurezza. Nel 2015 è stato siglato un Protocollo d’Intesa tra il Dap e l’Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia: sono attualmente 13 gli imam indicati dall’Ucoii che hanno ottenuto il Nulla Osta e sono stati inseriti nell’elenco dei ministri di culto già autorizzati all’accesso negli istituti. Con riferimento ad altre fedi, è presente una minoranza di detenuti di fede ortodossa, che sono attualmente seguiti da 24 ministri di culto di varie Chiese Ortodosse, anch’essi autorizzati ad accedere negli istituti penitenziari a seguito di rilascio del Nulla Osta del Ministero dell’Interno. La Legge 126/2012 ha inoltre regolarizzato i rapporti tra lo Stato Italiano e la Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia: i sacerdoti attualmente autorizzati sono 32. Nel 2015, anche l’Unione Buddista Italiana, a seguito di stipula dell’Intesa con lo Stato (Legge 245/2012), ha trasmesso per la prima volta un elenco dei propri monaci che la Direzione Generale Detenuti e Trattamento ha provveduto a diramare ai PRAP: ad oggi se ne contano 17. Infine, l’Istituto Buddista Italiano “Soka Gakkai” di Firenze ha stipulato un’Intesa con lo Stato Italiano con legge 130/2016, grazie alla quale 73 ministri di culto ad essa aderenti possono accedere agli istituti penitenziari. Consulta, la Cartabia apre agli “amici della Corte” di Susanna Marietti* ilfattoquotidiano.it, 16 gennaio 2020 Una novità nella tutela della Costituzione. L’inizio di questo 2020 ci ha portato un’importante innovazione che riguarda la tutela della nostra Costituzione. La nuova presidente della Corte Costituzionale - la prima donna nella storia d’Italia a ricoprire tale ruolo - ha introdotto alcune modifiche nel regolamento della Consulta che segnano in qualche modo una rivoluzione nei procedimenti dell’organismo deputato a proteggere il dettato costituzionale. La giudice Marta Cartabia ha infatti aperto il Palazzo della Consulta all’ascolto di soggetti esterni, a organizzazioni della società civile, soggetti istituzionali, associazioni di categoria che potranno utilizzare lo strumento dell’amicus curiae. Si tratta di documenti e memorie presentate da coloro che si fanno portatori di interessi collettivi. Sono ‘amici della Cortè, in quanto contengono informazioni utili al fine di aiutare i magistrati nella decisione. Nel diritto romano, da cui tale istituto giuridico è stato mutuato, l’amicus curiae consentiva al giudice di ottenere un sostegno obiettivo ed equo da qualcuno che non era direttamente coinvolto nel procedimento. Oggi il suo senso è quello di consentire a chi sia parte di un interesse generale di influire nella decisione pur quando non è diretta parte in causa e non avrà dirette imposizioni dalla sentenza in questione. Non più disinteressato, dunque, bensì portatore di un interesse che in passato si è molte volte prestato a essere del rango più alto e valoriale. Molte le Corti che infatti accettano amici curie da ben prima dei nostri giudici costituzionali e molti i casi in cui tale strumento è stato utilizzato per affermare diritti fondamentali della persona. Già nel lontano 2001 la stessa Unione europea sceglieva questa strada per intervenire davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America e ribadire, nel caso Ernest Paul Mc Carver v. State of North Carolina, la propria opposizione alla pena di morte per persone con problemi psichiatrici. E il Tribunale speciale per il Ruanda vedeva nell’amicus curiae il solo strumento attraverso il quale la voce delle vittime del genocidio poteva davvero farsi sentire, là dove l’accusa era spesso portatrice di interessi e punti di vista diversi. E, nel nostro piccolo, più volte come associazione Antigone a vario titolo ci siamo rivolti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, portando le ragioni di chi crede in un sistema carcerario che rispetti la dignità umana di tutte le persone detenute. La tutela dei valori costituzionali riguarda tutti noi. Il passo appena compiuto dalla Consulta, disposta oggi a uscire da se stessa nell’ascolto dell’esterno, è un passo fondamentale di democrazia e apertura. Ringraziamo Marta Cartabia e l’intera Corte per questo. *Coordinatrice associazione Antigone Giustizia, più Falcone e meno Bonafede di Gianluigi Da Rold ilsussidiario.net, 16 gennaio 2020 Il Italia abbiamo una giustizia sgangherata e il governo mira a una sua riforma. Impossibile, però, senza partire dalla separazione delle carriere. Chissà se in qualche stanza dei moderni “feudi” italiani, le Procure della Repubblica, c’è una traccia di questo importante documento europeo in cui tra l’altro si specifica: “È anche necessario garantire l’imparzialità dei giudici distinguendo tra la carriera dei magistrati che svolgono attività di indagine - i cosiddetti “examining magistrates” - e quella del giudice al fine di assicurare un processo giusto”. Questo inciso è tratto da una risoluzione, la numero 112/97 approvata il 4 luglio del 1997 dal Parlamento europeo, in una delibera sul rispetto dei diritti umani nell’Unione europea. Tra tanti magistrati progressisti italiani, gli europeisti non dovrebbero mancare! Eppure non tutto sembra semplice e lineare. Anche su questa vicenda della riforma della giustizia, sulla separazione tra inquirenti e giudicanti, esistono da anni problemi che sembrano insolubili in Italia e che neppure l’attuale ministro della Giustizia, il pentastellato Alfonso Bonafede, “rapidissimo” a condannare la prescrizione come se fosse un reato al quale si appellerebbero i corrotti, non riesce o probabilmente non vuole risolvere l’annoso e irrisolto problema della separazione delle carriere. Comunque, Bonafede non è il solo oppositore a una reale riforma della giustizia. Si pensi che in Italia c’è voluto quasi mezzo secolo perché il principio del “giusto processo”, sancito fin dagli anni Cinquanta dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu), venisse inserito dal Parlamento italiano tra i princìpi fondamentali della nostra Costituzione con il nuovo articolo 111. E per fare questo ci sono volute anche centinaia di sentenze della Corte di Strasburgo, che hanno bollato il sistema giudiziario italiano per violazione dei princìpi di garanzia dei cittadini. Proprio in questo periodo in cui la prescrizione è stata mandata in pensione, ridimensionandola e quasi annullandola (e pensare che siamo nella patria di Cesare Beccaria, il nonno di Alessandro Manzoni, e non solo), non si riesce a predisporre un’organica riforma della giustizia, non solo quella civile, ma neanche quella penale, che ha un codice, di fatto, ancora con la firma di Alfredo Rocco, il guardasigilli di Benito Mussolini Il 27 dicembre 2019, proprio per commentare lo stato della giustizia italiana, Angelo Panebianco ha scritto un fondo sul Corriere della Sera con un titolo choc: “L’equilibrio dei poteri che abbiamo perduto”. Scriveva Panebianco: “È questo della prescrizione l’ultimo atto di un movimento iniziato molto tempo fa, teso alla penalizzazione integrale della società italiana, alla affermazione di un panpenalismo che soffoca la società senza peraltro rimediare affatto a quei mali che il panpenalismo medesimo pretende di curare”. Panebianco, nel suo articolo, colpisce duro. Parla di “repubblica giudiziaria”, richiama la Costituzione dove la magistratura è definita un “ordine”, così come aveva ricordato polemicamente, tanti anni fa, il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Le reazioni non si sono fatte attendere, soprattutto da parte di molti pubblici ministeri, che sostengono un’interpretazione diversa: la magistratura non è un ordine, ma un potere, forse facendo un po’ di confusione. È soprattutto l’Associazione nazionale dei magistrati che si oppone risolutamente alla separazione delle carriere. È vero che è passato molto tempo dai teorici della tripartizione dei poteri come Montesquieu e che, in questo periodo, sia più di moda Rousseau (tanto amato dai giacobini di ogni epoca), ma gli Stati democratici hanno applicato i suggerimenti di Montesquieu e Tocqueville, che sostenevano senza esitazione che se il pubblico accusatore e il giudice avessero fatto lo stesso mestiere ci si sarebbe trovati di fronte a un abuso. È un concetto e un principio di democrazia che evidentemente spaventa i magistrati italiani, soprattutto i pubblici ministeri, diventati protagonisti di sconfinamenti nel campo della politica, dell’economia, del costume pubblico, investiti inoltre dell’obbligatorietà della legge penale. Di fatto, la penalizzazione della società, che descrive Panebianco, comincia con l’avviso di garanzia, il sospetto, la lunghezza del processo e l’onere della prova che è a carico dell’imputato, mentre in qualsiasi Stato democratico le prove si stabiliscono nel corso del dibattimento processuale e l’onere della prova è a carico della pubblica accusa. L’imputato può essere condannato solo dopo un “giusto processo” e “oltre ogni ragionevole dubbio”. È questa la ragione per cui lo Stato democratico di diritto prevede il giudice terzo, mentre difesa e accusa, sullo stesso piano, discutono e dibattono ad armi pari dell’eventuale reato commesso. La separazione delle carriere discende da questa serie di considerazioni maturate da tempo immemorabile, persino nel diritto romano. Ora, in Italia, mentre si parla di una riforma organica della giustizia, ci si divide nella commissione della Camera e si rispolverano i soliti argomenti. Contro la separazione delle carriere ci sono naturalmente l’Associazione nazionale magistrati, come si diceva, ma anche alcune forze politiche e diversi commentatori che ritengono che la separazione delle carriere sia stata addirittura un obiettivo del maestro venerabile della P2, Licio Gelli. A questo punto, si può ritenere che Gelli avrebbe influenzato non solo Stati come Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Germania e chi più ne ha più ne metta, ma anche giuristi che restano figure di prim’ordine nella tradizione italiana, come gli esponenti del socialismo giuridico, Francesco Saverio Merlino e Leonida Bissolati, o con il pensiero giuridico cattolico di Francesco Carnelutti e quello democratico di uomini come Sergio Cotta e Giuseppe Capograssi. Senza contare la figura di Piero Calamandrei, che ha sempre speso parole sagge sulla terzietà del giudizio, premessa inevitabile alla separazione delle carriere. Si può dire che se il cospiratore principale era Licio Gelli, il suo più importante avversario storico era stato il ministro mussoliniano Dino Grandi, il più accanito difensore dell’unicità per concentrare potere giudicante e potere requirente in un sola categoria di magistrati. Ma chi si batte ora contro la separazione delle carriere offende soprattutto il pensiero di un uomo, o meglio di un eroe, come Giovanni Falcone. Ricorda Giuseppe Ayala: “Con Giovanni non discutevamo tanto dell’autonomia e dell’indipendenza del pubblico ministero, ma dell’indubbia anomalia rappresentata dalla unicità delle carriere, estranea, non a caso, a tutti gli ordinamenti dei più importanti paesi democratici”. Falcone è stato motivatissimo sulla separazione delle carriere: “Comincia a farsi strada faticosamente - diceva - la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e quindi, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi. Su questa direttiva bisogna muoversi. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura”. E sulla cultura del sospetto indiscriminato, Giovanni Falcone fu ancora più tranchant: “È solo l’anticamera del khomeinismo”. Si può quasi scommettere che il “nuovismo” politico riuscirà a non fare alcuna riforma della giustizia, oppure a stenderne una insignificante, magari “nel nome di Falcone”. L’ipocrisia unita all’ignoranza in Italia, soprattutto in un periodo come questo, non ha limiti. Quindi si può prevedere di tutto e di più anche nel campo di una delle giustizie più sgangherate e meno affidabili del mondo. La prescrizione è salva, il governo no. Italia Viva vota con la destra di Rocco Vazzana Il Dubbio, 16 gennaio 2020 Affossata in Commissione la proposta di legge Costa. Bocciata la proposta del forzista Costa che avrebbe bloccato la riforma di Bonafede. Polemiche sul voto di Businarolo. Ventitré a ventidue. La partita sulla prescrizione in commissione Giustizia finisce come pronosticato. Pd, M5S e Leu votano compatti per cancellare la proposta di legge Costa che chiedeva l’abrogazione della riforma Bonafede, e Italia Viva invece, si unisce alle opposizioni di centrodestra e vota contro il governo. Risultato: la maggioranza ha la meglio solo grazie alla presidente Francesca Businarolo, che a dispetto della grammatica parlamentare partecipa al voto, e tra gli alleati volano gli stracci. I renziani accusano i dem di essere andati “a rimorchio del Movimento 5 Stelle anche sulla giustizia” e il Pd imputa a Iv di essere andata “a rimorchio di Salvini”. Non solo, il responsabile giustizia del Nazareno, Walter Verini, si dice “stupito” dall’atteggiamento degli alleati. “Respingiamo ogni maldestra accusa di Iv che in commissione ha tenuto un atteggiamento ambiguo”. A esultare con convinzione rimane il solo Guardasigilli Alfonso Bonafede, che su Facebook prende “atto che la proposta di Forza Italia sulla prescrizione è stata bocciata” e annuncia novità sulla riforma del processo penale: “Nei prossimi giorni manderò il nuovo testo della riforma”, dice, “sulla base di quanto emerso nell’ultimo vertice di maggioranza”. Ma il ministro della Giustizia dovrà fare i conti con l’esito del voto di ieri in Commissione, che di fatto ha creato una crepa profonda all’interno della maggioranza. Anche perché nonostante l’approvazione dell’emendamento M5S che ha soppresso la proposta di legge Costa, il testo del deputato forzista approderà comunque in Aula il 27 gennaio, come stabilito dalla Conferenza dei capigruppo. Quello di ieri è stato “solo il primo tempo”, ironizza il padre della proposta respinta in Commissione. “Il secondo si giocherà in Aula e siamo sicuri di poter ribaltare il risultato”, aggiunge Enrico Costa, comunque soddisfatto per aver sollevato la questione ed evidenziato le divisioni in seno maggioranza. E proseguendo con la metafora calcistica, il parlamentare di Forza Italia commenta così il “match” sulla prescrizione: “La maggioranza ha segnato un gol decisivo grazie all’arbitro”, dice Costa, riferendosi al voto espresso dalla presidente della Commissione. “È come se all’improvviso l’arbitro si mettesse a giocare per una della squadre in campo. Finora la presidente della Commissione non aveva mai votato”. La diretta interessata, Francesca Businarolo, replica alle critiche con regolamento alla mano. “A noi spetta il compito di portare avanti il lavoro della maggioranza e in questo senso ho ritenuto di partecipare alla votazione”, spiega, “una scelta coerente con il regolamento e già fatta dai miei predecessori e da altri miei colleghi attuali”, è la difesa. Ma la presidente non si limita a parare i colpi sulle sue scelte, stigmatizza il comportamento di una parte della maggioranza, quella renziana, che in qualche modo ha obbligato Businarolo a prendere parte alla contesa. “La scelta politica del gruppo di Iv deve essere oggetto di valutazione nelle sedi appropriate”, puntualizza. E in attesa di individuare le sedi appropriate del confronto tra alleati, la “verifica” al momento avviene a colpi di dichiarazioni e accuse reciproche tra ex compagni di partito. I renziani organizzano un fuoco di fila imponente. Inizia Lucia Annibili, capogruppo Iv in Commissione. “Il Pd mostra che si sta “grillizzando”, è la prima cartuccia a segno. I dem “oggi si sono rimangiati tutto e mostrato la evidente subalternità alla linea giustizialista dei grillini che umilia la civiltà giuridica che ha segnato il nostro paese da decenni”, commenta Roberto Giachetti. “L’anima del grillismo si sta impossessando del Pd che oggi ha votato per il processo a vita”, è il colpo sparato dal capogruppo Iv al Senato, Davide Faraone. “Che il Pd abbia scelto di abbracciare il giustizialismo a 5 Stelle lascia senza fiato”, rincara la dose la ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova. La replica dem è affidata al capogruppo il Commissione, Alfredo Bazoli. “Dopo aver votato con la Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia, facendosi scudo della responsabilità del Partito democratico, mi sarei aspettato da Italia viva un silenzio pudico”, è il contrattacco. E se il vice capogruppo Pd alla Camera, Michele Bordo, esorta i renziani a chiarire se intendono rimanere in maggioranza, il vice segretario del partito ed ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, replica a Iv in modo pacato ma puntuale. “Abbiamo fatto questa scelta per non mischiare i nostri voti a quelli della destra, sempre compatta in questa legislatura nell’approvazione delle norme più illiberali”, spiega, prima di aggiungere: “Chi ha affossato, tra l’altro, la riforma del sistema penitenziario non merita alcuna patente di garantismo”. E mentre le opposizioni si godono lo spettacolo, gli avvocati penalisti annunciano sciopero e manifestazione nazionale contro la prescrizione per il 28 gennaio. Diverso l’atteggiamento dell’Ocf, l’Organismo congressuale forense, che, pur critico nei confronti della riforma della prescrizione, esprime soddisfazione per la disponibilità al dialogo mostrata dal Guardasigilli con l’estensione all’ Ocf dei tavoli di consultazione indetti sulla risoluzione alternativa delle controversie e sull’equo compenso. Renzi vota con Forza Italia: la maggioranza si spacca sull’emendamento anti-prescrizione di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 16 gennaio 2020 Passa per un voto, in commissione giustizia, l’emendamento M5S anti-prescrizione, che sopprime la norma del forzista Costa. Decisivo il voto della presidente Cinque Stelle. L’opposizione accusa: “La maggioranza segna con l’arbitro”. “La legge Bonafede è un obbrobrio e il Pd sta inseguendo il populismo giudiziario di Bonafede e di M5S”. Al termine di una giornata di accuse incrociate tra Pd e Iv, Matteo Renzi rivendica la scelta dei suoi deputati in commissione giustizia, che ha spaccato la maggioranza. Al voto, ieri, c’era un emendamento dei 5 Stelle per sopprimere la proposta di legge formulata dal responsabile giustizia di Forza Italia, Enrico Costa, che elimina il blocco della prescrizione ma - soprattutto - fa esplodere le contraddizioni interne al governo. E così è stato. I due deputati di Iv hanno votato contro con FI, Lega e FdI. E l’emendamento è passato per un solo voto: quello della presidente della commissione Giustizia, Francesca Businarolo (M5S). Bonafede: “Presupposti per dare risposta concreta” - Tenta di sanare la ferita, il Guardasigilli Alfonso Bonafede: “Prendo atto della bocciatura. Nei prossimi giorni presenterò la riforma del processo penale. Dopo l’ultimo vertice ci sono tutti i presupposti per dare finalmente una risposta concreta”. Ma lo scontro interno alla sinistra di governo è ormai aperto. Con i renziani all’attacco del Pd, considerato “a rimorchio” dei Cinque Stelle. “Il Pd schierato col giustizialismo M5S lascia senza fiato”, twitta Teresa Bellanova. E, a Porta a Porta, Renzi rimarca: “Abbiamo votato per riportare in vigore la legge del governo Renzi fatta dal ministro Orlando. Per dire: non è possibile che ci sia un processo senza fine. Paradossalmente, Lega e FI hanno votato con noi, il Pd con il M5S. Un abbraccio di solidarietà ai riformisti Pd che stanno inseguendo i grillini”. Respinge ogni “maldestra accusa” il responsabile giustizia dem Walter Verini. E contrattacca: “Noi non andremo mai a rimorchio di Salvini, la nostra è una scelta di campo”. Costa: “Maggioranza salvata dal gol dell’arbitro” - Consapevole che la proposta Costa è (volutamente) analoga a quella già presentata dal Pd, Verini specifica: “La nostra proposta di riforma farà il suo iter, senza furbizie, senza ammiccamenti alla destra. E aspettiamo il ddl di riforma del processo penale, con tempi certi dei processi”. Michele Gubitosa, portavoce M5S alla Camera, definisce la scelta del gruppo di Renzi di “isolarsi e formare asse con la Lega”, “grave” e “da valutare nelle sedi opportune”. Emma Bonino annotando la “prima evidente spaccatura interna alla maggioranza”, ricorda l’emendamento di +Europa al Milleproroghe (che rinvia la riforma Bonafede) e invita a “non pasticciare alla ricerca di una soluzione che vada bene a tutti”. Elettrizzato dal “grande” risultato politico incassato Enrico Costa. “Maggioranza salvata dal gol decisivo dell’arbitro” critica, all’unisono con Mariastella Gelmini che accusa la Businarolo di “grave forzatura”. E rilancia: “È solo il primo tempo. Il 27 in aula. Ribalteremo il risultato”. Anche la magistratura scarica il “lodo Conte”: dubbi di costituzionalità di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 16 gennaio 2020 La Costituzione non prevede distinzioni tra assolti e condannati fino al terzo grado di giudizio. Mi: “serve un punto di equilibrio che garantisca la ragionevole durata del processo”. “Prevedere il blocco della prescrizione solamente dopo la sentenza di condanna di primo grado rischia di condizionare fortemente il giudice, limitando la sua imparzialità e terzietà”. Dall’avvocatura e anche da diversi settori della magistratura inizia a farsi strada l’idea che il cosiddetto “lodo Conte”, la proposta di Federico Conte, deputato di Leu, avvocato penalista, possa avere solo effetti controproducenti. “La mia idea - aveva detto la scorsa settimana Conte - è servita come argomento per trovare un terreno comune di mediazione politica: in caso di condanna, indubbiamente, si affievolisce il principio di non colpevolezza, visto che c’è il pronunciamento di un giudice. Sia chiaro il principio di non colpevolezza non scompare, ma si affievolisce”. Quale giudice, però, sapendo che con l’assoluzione la prescrizione continuerà a correre, avrà la forza di assolvere l’imputato nei processi caratterizzati da forte impatto mediatico? C’è la concreta possibilità che, per evitare di rimanere travolto dalle polemiche e dalle accuse di non aver reso giustizia, il giudice preferisca condannare, scaricando la responsabilità di una assoluzione ai colleghi d’Appello. Ma non solo. Tale sistema a “doppia velocità” per condannati e assolti ha immediatamente fatto sorgere dubbi sulla sua legittimità costituzionale. La Costituzione, infatti, non prevede distinzioni tra assolti e condannati fino al terzo grado di giudizio, dal momento che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Secondo Piercamillo Davigo, fra i fautori del blocco della prescrizione, potrebbero esserci dubbi sotto il profilo di precedenti pronunce della Consulta. Magistratura indipendente, il gruppo moderato dell’Anm, è intervenuta ieri nella discussione con un comunicato critico nei confronti del governo. Si deve individuare “un punto di equilibrio che, scongiurando il rischio di abuso dei tempi del processo da parte dell’imputato, ne favorisca e stimoli la ragionevole durata, evitando congiuntamente l’eventualità che la persona accusata di un reato resti indefinitamente esposta alla pretesa punitiva dello Stato, con naturale e conseguente compromissione di plurimi valori costituzionali”. Il problema di fondo, sottolineano le toghe di Mi, è che “manca l’approntamento delle fondamentali risorse, umane (e il riferimento è, in particolare, alla dotazione di personale amministrativo ndr), materiali e finanziarie, che rientra nei doveri primari della politica: la situazione esistente è insuscettibile di effettiva favorevole evoluzione”. I modi dei magistrati per umiliare gli imputati come un sergente con il soldato semplice di Iuri Maria Prado Il Riformista, 16 gennaio 2020 In questi giorni di rievocazioni mi sono rivisto un po’ di udienze del processo Cusani-Enimont, quello sulla cosiddetta maxi tangente. La cosa più impressionante era il modo in cui il giudice - peraltro una brava persona - si rivolgeva agli imputati e ai testimoni. Così: “Senta, Martelli…”; “Sama, lei che ci dice?”, e simili. Come fa un sergente con il soldato semplice. Come fa il padrone con il maggiordomo. A che titolo si permetteva di rivolgersi in tal modo a quelle persone? È presto detto: quelle persone erano “cadute in basso”. E non perché avevano commesso illeciti, così guadagnandosi una riprovazione che toglieva loro il diritto di ricevere riguardo, ma “in basso” perché sottoposte al potere del processo. Ti interrogo, ti giudico, e questo implica una degradazione sufficiente a permettermi di non darti di “signore”. Si noti che i magistrati incassano senza perplessità roba come “Eccellentissima Corte” o “Illustrissimo Signor Presidente”, certamente anche per responsabilità degli avvocati che si lasciano andare a queste disgustose manifestazioni di servilismo indegno: ma proviamo a immaginare quale reazione avrebbero se il cittadino che loro sottopongono a processo esordisse con qualcosa tipo “Senta un po’, Davigo…”. Inutile precisare che mentre esistono magistrati rispettosissimi, ai quali neppure verrebbe in mente di rivolgersi all’imputato come fa il prof. con l’alunno delle medie, altri che non si fanno troppi riguardi ritengono evidentemente che si tratti di sciocchezzuole: e non avvertono il pericolo che lo stato di soggezione in cui è posto chi finisce “sotto” processo sia generalmente trattato con noncuranza. E invece bisognerebbe che l’amministrazione della giustizia risentisse come primario l’obbligo di non degradare in nessun modo, e anzi di trattare con il massimo grado di rispetto, il cittadino affidato alle cure giudiziarie. Perché è un “signore” qualunque cosa abbia fatto, e revocargli questo attributo rappresenta una versione solo attenuata di messa in berlina. Non è ancora come lasciare che gli lancino verdura marcia, ma condivide la medesima causa: l’idea che chi giudica sia “superiore”, stia sopra, appunto, e sotto di lui il bandito che ha perso rango civile. La medesima causa e dunque il medesimo effetto: l’imbarbarimento della società che, indifferente o compiaciuta, assiste allo scempio. Una task force di 100 toghe per affrontare le emergenze di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2020 Ministero della giustizia, relazione tecnica al Dm sulle nuove piante organiche. Una task force di (almeno) un centinaio di magistrati da destinare agli uffici di merito per fare fronte alle situazioni di emergenza. Anche l’amministrazione della giustizia scopre la flessibilità. E con l’ultima manovra di bilancio prima e il decreto di determinazione delle nuove piante organiche dei tribunali poi riconosce l’opportunità di attrezzarsi per le emergenze. In questo senso il decreto ministeriale che ha cristallizzato il nuovo assetto degli organici per tribunali e procure vi ha destinato “solo” 400 dei 530 posti di magistrato disponibili. De restanti 130 la quasi totalità, una limitata quota è ora in carico alla discrezionalità del Csm per correggere l’intervento sulle piante organiche, andrà a costituire un “pacchetto di mischia”, da utilizzare per fronteggiare situazioni di difficoltà anche momentanea delle sedi del distretto. A provvedere dovrà essere un futuro provvedimento del ministero della Giustizia, d’intesa con il Csm, ma, nel perimetro delle situazioni di emergenza, già la manovra ha anticipato che potrebbe trattarsi di un volume di arretrato particolarmente consistente, di eventi sismici oppure, di criticità di rendimento. Dove allora i riferimenti possono essere i più diversi e comprendere eventi come il crollo del ponte Morandi a Genova o le crisi bancarie in realtà giudiziarie di piccola dimensione. La ripartizione dovrà essere effettuata su base distrettuale anche sulla base del lavoro fatto dal Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria di analisi dei flussi e dei carichi di lavoro. Con qualche sorpresa. L’analisi effettuata ha infatti messo in luce come le disomogeneità territoriali, per esempio, nei rapporti iscritti e pendenti su organico non sempre sono indice di cattiva performance e di tempi di risposta lunghi nel servizio al cittadino. Per esempio, la Corte di appello di Ancona, che ha il più alto numero di procedimenti iscritti per magistrato, fa registrare ottimi valori di smaltimento dei procedimenti sopravvenuti ed è sotto media nazionale, quanto a durata, nel periodo di riferimento (2016-2018), sia nel civile che nel penale, con un dato di assoluta eccellenza nella durata dei procedimenti penali (373 giorni). E così, ancora, il tribunale di Pisa, terza peggiore sede di tribunale nel rapporto iscritti su organico (943 procedimenti) e tra le più critiche anche nel dato delle pendenze (913 procedimenti pro capite), registra un dato di assoluta eccellenza nella durata penale di periodo, con soli 211 giorni per la trattazione dei relativi processi. “Ciò è il segno del fatto che le condizioni organizzative, che sono in grado di incidere sulle performance dell’ufficio in un dato periodo di riferimento, sono plurime e non necessariamente connesse agli equilibri di rapporto degli organici dei magistrati con i flussi procedimentali”. Nello stesso tempo, a essere riavviato è stato anche un minimo di politiche di assunzione sul fronte amministrativo: dal 2014 ad oggi, si è proceduto all’ingresso di oltre 5.400 nuove risorse. Pubblicato poi un concorso pubblico per la copertura di 2.242 posti di funzionario giudiziario e l’avvio di una selezione per 616 operatori giudiziari. Trattativa Stato-mafia, una bufala enorme per nascondere la verità di Piero Sansonetti Il Riformista, 16 gennaio 2020 Le fake news inondano i social. Già. Le fake news, spesso, inondano anche i giornali. Non ci stupiamo più. Alle volte leggiamo le prime pagine e pensiamo che la metà delle cose scritte non sono verificate, o addirittura son propaganda. Forse però c’è da stupirsi almeno un po’ se una Corte d’Appello solennemente giura che anni e anni di indagini, e di processi, e di gigantesche e potenti campagne di stampa - guidate da qualche Procura - e ore infinite di trasmissioni televisive, tutto questo è stato prodotto e alimentato da fake news create e sostenute, a voce altissima, da un gruppetto di Pm un po’ arruffone. Fake news di Stato. O di palazzo. O di palazzo di Giustizia. E poi giura che la storia della trattativa Stato-Mafia, quella che ha portato a condanne infamanti contro alti ufficiali dei carabinieri con la carriera gloriosa, come il generale Mori e il colonnello De Donno e il generale Subranni, e anche Marcello Dell’Utri, era una storia di fantasia. Anzi, di più: di una fantasia impazzita, perché non si limitava a modificare la storia reale ma la rovesciava, facendo passare per amici della mafia alcuni uomini che invece alla lotta alla mafia hanno dedicato la loro vita. È successo esattamente questo, capite? Le motivazioni con le quali la Corte d’Appello di Palermo ha mandato assolto l’ex ministro Calogero Mannino - democristiano, accusato di essere stato il cervello e il motore della trattativa Stato-Mafia, e anche di essere un amicone dei corleonesi - non solo riabilitano Mannino e proclamano “l’inconsistenza e l’incongruenza e l’illogicità” del lavoro dei Pm, ma smantellano tutta la teoria della trattativa Stato-Mafia. Diciamolo meglio: spiegano come quello che un gruppetto di magistrati aveva scambiato per trattativa era il contrario esatto: “un’azione investigativa di polizia giudiziaria” pensata e realizzata con l’obiettivo di arrestare Totò Riina, cioè il capo della mafia. Proprio così: la Corte d’Appello, nelle motivazioni della sentenza che ha depositato l’altra sera, conferma la sentenza di primo grado (di assoluzione piena), sostiene che le obiezioni dell’accusa sono “infondate illogiche e incongruenti”, spiega che Mannino non trattò con la mafia ma al contrario contrastò la mafia, e per questo si guadagnò l’inimicizia delle cosche, afferma in modo drammaticamente solenne che non ci fu alcuna “violenza o minaccia ad un corpo politico o istituzionale dello Stato”. E questa frase, testuale, è molto importante perché è esattamente questa (“violenza o minaccia…”) l’accusa che era stata rivolta a Mannino, ai Ros e a Dell’Utri dalla Procura di Palermo, e precisamente prima dal Pm Ingroia e poi dal Pm Di Matteo. Poi i due processi si indivisi. Mannino ha chiesto il rito abbreviato, e finalmente è arrivato a sentenza di secondo grado e a completa e tardivissima riabilitazione. I carabinieri e Dell’Utri invece sono andati a processo senza rito abbreviato e sono stati condannati in primo grado per un reato che ora la Corte d’appello definisce inesistente e per una trattativa anche questa negata da un collegio giudicante. Ora come si può serenamente continuare il processo di appello contro Dell’Utri e i carabinieri - che è in corso alla Corte d’Appello di Palermo - se la stessa Corte d’Appello ha già detto che quelle accuse sono fantasiose e incongruenti? Dovremo alla fine assistere a una sentenza politica che stabilisce che alcune persone sono colpevoli di qualcosa che una Corte ha accertato non essere mai avvenuta? E questo solo per provare a incastrare in qualche modo Berlusconi? Beh, è un po’ troppo persino per la magistratura italiana, no? Le motivazioni della sentenza d’appello vanno ancora oltre le cose che abbiamo scritto fin qui. Parlano di Paolo Borsellino. E rovesciano il teorema Di Matteo. Di Matteo sostiene che Borsellino fu ucciso perché stava opponendosi alla trattativa Stato-Mafia condotta dai carabinieri dei Ros (dal generale Mori, in primo luogo). Questa sentenza sostiene il contrario. Dice che Borsellino si fidava solo dei Ros, e che pochi giorni prima di morire aveva voluto incontrare il generale Mori per avere notizie sul dossier Mafia-Appalti, preparato da Mori (su input e sotto la direzione di Falcone) nel quale si puntava il dito contro molte aziende del Nord e anche contro alcuni politici. Borsellino voleva mandare avanti quel dossier e non si fidava della procura di Palermo, né del procuratore Giammanco né dei suoi sostituti (alcuni dei quali ancora in attività). E infatti chiese a Mori di vedersi in caserma e non in Procura. La storia (quella vera) racconta che pochi giorni dopo questo incontro, e mentre stava per prendere in mano quel dossier, Borsellino fu ucciso e la sua scorta sterminata. E che la Procura di Palermo, pochi giorni dopo, archiviò il dossier Mori. Forse Mori ha pagato carissimo per quel dossier, così fastidioso. Le motivazioni della sentenza di Palermo dicono: se volete risolvere i misteri di quegli anni lasciate stare la trattativa, scavate qui. E cercate di capire perché polizia e settori della magistratura depistarono le indagini su Borsellino, e perché cancellarono il dossier mafia-appalti, e forse bisognerà capire come è successo che la punta di diamante della lotta contro la mafia, e cioè il colonnello Mori (che poi fu quello che catturò Riina, dando un colpo mortale a Cosa Nostra) fu addirittura mandato sotto processo sulla base di accuse strampalate. Ha ragione Mannino, che dice nell’articolo sul Riformista, che ora, per fortuna, non esiste più la storia scritta da Ingroia e Caselli. E santificata da stampa e Tv. E la storia vera qual è? È troppo tardi per stendere un velo sulle fake e provare a ricostruire la verità di quei tragicissimi anni? Forse, purtroppo, sì. Responsabilità delle imprese, il rinvio a giudizio dell’ente ferma la prescrizione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2020 Corte di cassazione, sentenza 15 gennaio 2020, n. 1432. La richiesta di rinvio a giudizio dell’ente, per illecito ammnistrativo, interrompe la prescrizione. La Cassazione, con la sentenza 1432, accoglie il ricorso del Pubblico ministero, contro la decisione della Corte d’Appello che aveva dichiarato di non doversi procedere, per avvenuta prescrizione, contro la persona fisica e un’altra società coinvolta nei fatti contestati. Conclusione estesa alla Srl parte del procedimento come previsto dal Dlgs 231/2001, sulla responsabilità ammnistrativa degli enti. Una decisione, ovviamente, corretta per la società che riteneva di aver giustamente beneficiato della sentenza di assoluzione della compagine che aveva impugnato, per ragioni non personali e dunque valide anche per la Srl, finita nel mirino della pubblica accusa. La Cassazione accoglie però il ricorso del procuratore generale. I giudici chiariscono che, in tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche, la richiesta di rinvio a giudizio per l’ente, in quanto atto di contestazione dell’illecito “interrompe per il solo fatto della emissione, la prescrizione e ne sospende il decorso dei termini, fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio”. Nello stesso giorno la Suprema corte affronta ancora il tema della 231 (sentenza 1420) per affermare l’impossibilità di applicare all’ente la norma sulla non punibilità per particolare tenuità del fatto. Ancora una volta i giudici di legittimità accolgono la tesi del Pm contro l’assoluzione ai sensi dell’articolo 131-bis, di una Società in nome collettivo, in relazione al reato di recupero illecito di rifiuti speciali commesso dal suo legale rappresentante. La Cassazione ricorda che la responsabilità dell’impresa ha natura autonoma, rispetto a quella penale della persona fisica che commette il reato presupposto. La sua “colpa” va dunque affermata, anche nel caso in cui l’autore del reato non sia stato identificato, non sia imputabile o anche quando il reato sia estinto per una causa diversa dall’amnistia. Per questo il giudice deve procedere comunque all’autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giuridica, nel cui interesse il reato è stato commesso. Circostanza incompatibile con la non punibilità per particolare tenuità del fatto. Pavia. Detenuto trovato morto in cella, forse è caduto battendo la testa su uno spigolo di Adriano Agatti La Provincia Pavese, 16 gennaio 2020 Il corpo del 43enne riverso a terra in una pozza di sangue l’allarme dato da un altro recluso che tornava dalla doccia. Il compagno di cella lo ha trovato riverso sul pavimento in un lago di sangue. Un detenuto del carcere di Torre del Gallo, Andrea Nobile, 43 anni, della provincia di Lecco, è morto poco dopo la caduta dal suo letto nonostante la rianimazione effettuata dal personale del 118. Un decesso i cui contorni non sono stati chiariti con certezza. Ieri sera il personale della scientifica ha eseguito un sopralluogo all’interno della cella che si trova nella sesta sezione, quella riservata ai detenuti comuni. L’ipotesi principale è che il 43enne sia stato colpito da un malore e sia caduto dalla branda battendo la testa contro un spigolo. Questo potrebbe spiegare l’abbondante perdita di sangue. Ma è solo un’ipotesi che dovrà essere verificata dall’inchiesta che è stata affidata alla polizia penitenziaria. Il compagno di cella è stato interrogato a lungo ma sembra che non abbia nulla a che fare con il decesso. Anzi è stato proprio lui a chiamare le guardie. La tragedia è avvenuta, ieri pomeriggio vero le 16.30, nel reparto che ospita i detenuti comuni del carcere di Torre del Gallo. Un istituto penitenziario già provato per l’incendio di una cella avvenuto domenica pomeriggio all’ottava sezione. Qui siamo nella sesta. Da una prima ricostruzione della tragedia sembra che Andrea Nobile, originario della provincia di Lecco, fosse rimasto solo nella sua cella. Il compagno era appena uscito per fare la doccia. Una giornata tranquilla senza problemi particolari per la sesta sezione. Per spiegare quello che è successo dopo si possono fare delle ipoteso perché non ci sono testimoni. Il detenuto potrebbe essere caduto dalla branda e aver battuto la testa sul pavimento oppure su qualche spigolo. In ogni caso è rimato svenuto sul pavimento della sua cella. Lo ha visto, per primo, proprio il compagno di cella che è rientrato dalla doccia. L’altro detenuto ha chiamato gli agenti della Polizia penitenziaria. Gli agenti sono entrati e si sono resi conto che il 43enne era in fin di vita. Cagliari. L’allarme di Sdr: “Emergenza educatori e personale nel carcere di Uta” castedduonline.it, 16 gennaio 2020 “È emergenza funzionari giuridico-pedagogici (educatori) e personale amministrativo nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta dove tra trasferimenti e pensionamenti l’Istituto Penitenziario “Ettore Scalas” rischia di non poter garantire l’indispensabile efficienza amministrativa e la costante attenzione per il reinserimento sociale dei detenuti. La situazione critica si aggiunge alla carenza del personale penitenziario e perfino del Direttore che, com’è noto, deve gestire anche la Colonia di Isili, il carcere di Lanusei e l’Ufficio Contenzioso del Prap. Insomma aldilà del senso di abnegazione di ciascuno la crisi c’è e si fa sentire”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” sottolineando che “i funzionari giuridico-pedagogici sono ormai ridotti a un numero del tutto inadeguato alla realtà delle persone private della libertà. Sono infatti solo 7, compresa una figura in part-time”. “Dal 16 dicembre scorso - osserva Caligaris - lo storico capo area Claudio Massa, ha vinto il concorso e ha ottenuto il trasferimento in un’altra sede della Penisola. L’incarico è stato assunto dalla dott.ssa Giuseppina Pani che, ovviamente, dovrà occuparsi a tempo pieno di tutte le problematiche relative al suo nuovo ruolo. Fra qualche mese inoltre andrà in pensione un’altra colonna dell’area educativa dell’Istituto con la conseguenza che gli operatori, salvo un immediato intervento del Ministero, resteranno solo 5 a fronte di una presenza di detenuti che supera costantemente il numero regolamentare di 561 per raggiungere e superare spesso la soglia dei 590”. In queste condizioni ciascun funzionario è messo a dura prova dovendo non solo organizzare le attività di recupero sociale e culturale dei detenuti ma anche inoltrare le istanze alla Magistratura di Sorveglianza e predisporre le relazioni di sintesi per tutte le diverse esigenze dei singoli”. “Di non minore peso - rileva ancora la presidente di Sdr - è la situazione degli impiegati amministrativi, molti dei quali prossimi alla quiescenza. Spesso si ignora il ruolo determinante di queste figure professionali che hanno il compito di rendere fruibili i diritti di tutte le componenti del sistema a partire dagli Agenti della Polizia Penitenziaria. Se non si provvede immediatamente questa carenza può determinare il blocco totale delle attività. Un problema questo che non riguarda solo la Casa Circondariale di Cagliari ma anche gli altri Istituti ed in particolare le Colonie”. “Nel formulare gli auguri di buon lavoro alla Capo Area Educativa Pani, esprimiamo l’auspicio che, in attesa dell’espletamento di concorsi, si rivedano le piante organiche e si stabiliscano criteri rispondenti a una gestione razionale del personale. Se il sistema non funziona infatti si creano situazione di disagio che si ripercuotono negativamente sui delicati equilibri tra le diverse componenti. Resta poi grave e irrisolta la questione dei Direttori. Dieci Istituti Penitenziari non possono essere gestiti solo da 4 persone che devono fare centinaia di chilometri - conclude Caligaris - per garantire l’ordinario in una realtà dove tutto è straordinario e richiede eccezionale attenzione e dedizione”. Padova. “Gruppo Operatori Carcerari Volontari”, oltre quarant’anni di impegno padovanet.it, 16 gennaio 2020 L’associazione “Gruppo Operatori Carcerari Volontari” celebra gli oltre quarant’anni di attività con un convegno, sabato 18 gennaio, dalle ore 10:00, nella sala Anziani di Palazzo Moroni. L’incontro, intitolato “La funzione rieducativa all’interno del carcere, contributi di volontariato” e moderato dallo scrittore Livio Ferrari prevede, dopo i saluti di benvenuto del Sindaco e della presidente dell’associazione Ludovica Tassi, gli interventi di Giovanni Tamburino, direttore dell’ufficio Studi del Dap e coordinatore nazionale dei Magistrati di sorveglianza, Giovanni Maria Pavarin, già presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, Giorgio Ronconi, fondatore e presidente onorario del Gruppo operatori carcerari volontari, Claudio Mazzeo, direttore della Casa di Reclusione di Padova, e di Attilio Favero, referente Ocv per il Polo Universitario. L’associazione Gruppo operatori carcerari volontari si forma all’indomani della Riforma carceraria del 1975, che riconosceva un ruolo ufficiale al volontariato carcerario, quando alcuni volontari che già frequentavano la Casa di Reclusione di piazza Castello pensarono di allargare ad altri la loro attività, facendo anche opera di informazione e sensibilizzazione sul problema del carcere e dei detenuti. Appoggiati dalla Società di San Vincenzo dè Paoli e dal Comune di Padova, organizzarono nel 1976 nella Sala della Gran Guardia un primo incontro aperto alla Città, in cui presentare le novità della Riforma e invitare alla partecipazione. Per dare maggiore visibilità e autonomia al loro impegno civile nel 1978 si organizzarono in una associazione, dandosi uno statuto per coordinare e valorizzava le esperienze dei singoli e promuovere tutte le iniziative e le attività utili a migliorare la loro formazione. Prese allora il via un “Centro di informazione e studi sull’assistenza carceraria” che stabilì rapporti con altri volontari del triveneto e di importanti città come Torino, Firenze e Bologna. Si organizzarono a Padova incontri formativi, di carattere giuridico, etico, sanitario, che si tennero nella sede del Pio X e nel ridotto del teatro Verdi, ai quali partecipavano anche rappresentanti di altre città del triveneto. Nel carcere, oltre ai colloqui coi detenuti, i volontari svolgevano attività scolastiche, artigianali, come il corso di xerigrafia, e insegnamenti individualizzati per iscritti all’Università. Col trasferimento della Casa di Reclusione in via Due Palazzi acquistò rilevanza la presenza femminile a partire dal servizio di fornitura del vestiario, specie nella Casa Circondariale. Nella Casa di Reclusione si avviarono invece corsi per il conseguimento del diploma di geometri, che funzionarono fino al 1998, quando il sevizio fu assunto dalla Scuola pubblica. Nel 1999 il Gruppo si ampliò in seguito all’apertura di una Casa di accoglienza temporanea per detenuti dimessi dal carcere, che si chiamò “Piccoli Passi” e che ben presto fu destinata ad ospitare detenuti che, dopo un certo periodo di detenzione, che coincideva in genere con la metà della pena, potevano godere di un permesso premio, da trascorrere coi familiari fuori del carcere. Il Comune di Padova concesse una struttura confinante col Comune di Limena, detta casa del Dazio, che venne ristrutturata grazie a un finanziamento della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo. Il servizio, tuttora funzionante, ha finora ospitato decine e decine di detenuti, che hanno potuto ricongiungersi ai loro familiari per un periodo di uno o più giorni, a seconda del provvedimento emesso dal magistrato di sorveglianza. Con l’avvio dei corsi regolari per il diploma di scuola media superiore si fece strada l’idea di creare i presupposti per facilitare ai detenuti l’accesso all’Università, come già avveniva a Firenze per iniziativa di universitari volontari. Alcuni docenti appartenenti al Gruppo presero contatti col Provveditore agli Istituti di Pena e col Rettore dell’Università ponendo le basi per la creazione di un “polo universitario” all’interno del carcere di Padova. Fu coinvolta anche la Fondazione della Cassa di Risparmio, che contribuì alle spese per la sistemazione di alcuni locali del carcere, alle tasse universitarie e all’acquisto di libri e materiale didattico. Questa nuova attività, avviata ufficialmente nel 2003, è oggi organizzata direttamente dall’Università che si avvale di tutor qualificati, mentre continua l’apporto di volontari ex docenti, in particolare per le discipline letterarie e l’informatica. Mentre nella Casa circondariale il sostegno al detenuto aveva carattere più sporadico, prevalendo l’attività di distribuzione del vestiario ai molti chi arrivavano in carcere presi sulla strada, nella Casa di Reclusione ebbe molta rilevanza la relazione periodica coi detenuti. L’Associazione infatti, in base ad un accordo con la Direzione, a partire dal 2006 ha dato sistematicità a questi colloqui creando dei Gruppi di ascolto, ossia coppie di volontari che si recano settimanalmente in determinati orari nei diversi reparti per incontrare i singoli detenuti, a partire da quelli che si sentono più isolati e bisognosi di sostegno, anche per impedire che il disagio provochi atti di autolesionismo o spinga al suicidio. Il servizio coinvolge una trentina di volontari. Accanto al sostegno offerto con la vicinanza e l’ascolto, i volontari hanno cercato di coinvolgere i detenuti con attività più concrete, rivolte alla lettura, alla scrittura e ad altre espressioni creative, come il disegno, l’oggettistica e la pittura. Già negli anni novanta c’erano volontari che aiutavano a leggere i giornali o che insegnavano a dipingere, promuovendo a volte l’esposizione di questi lavori in centri parrocchiali o comunali. In anni più recenti i volontari hanno dato vita a due laboratori, di cucito e di falegnameria, che coinvolgono una decina di detenuti del reparto di alta sicurezza, condannati a pene lunghe per reati associativi. Sono opera loro le “pigotte”, bambole di pezza che vengono donata all’Unicef e all’Oncoematologia dell’Ospedale di Padova. L’esperienza e la creatività li ha portati anche a realizzare originali lavori di patchwork, con stoffe che l’Associazione riceve in regalo. I volontari si sono fatti promotori anche di corsi di alfabetizzazione, di insegnamento di lingue straniere e di informatica. Continuano inoltre l’attività di sostegno scolastico, grazie alla fattiva collaborazione cogli insegnati della scuola istituzionale, organizzando nelle ore pomeridiane dei doposcuola sulle più impegnative materie di studio. Questo rapporto col mondo della scuola ha suggerito di recente un’altra iniziativa: far accedere alcuni detenuti al lavoro di pubblica utilità, esterno, organizzando, con l’accordo delle autorità competenti, la ridipintura di aule scolastiche di istituti cittadini. Il Gruppo ha sempre dato grande importanza alla formazione e all’informazione sulla realtà carceraria promuovendo incontri riservati agli associati ed altri, a carattere più generale, rivolti ai cittadini sensibili alle problematiche carcerarie. Tra questi va ricordato il ciclo di conferenze dal titolo “Il Carcere a Padova”, organizzato in collaborazione con il Comune nel marzo 1999 nella sede universitaria di Palazzo Maldura, e quello successivo, dal titolo “Il volto dietro le sbarre” tenuto tra gennaio e aprile del 2003 nell’Aula magna dell’Istituto Camerini Rossi, in collaborazione con la Caritas diocesana. Altri ne sono seguiti, con varia frequenza, fino all’ultimo, del 2019, in collaborazione col Comune nella Sala “Diego Valeri”. I volontari che a vario titolo si sono impegnati nelle attività del Gruppo dalla sua fondazione sono stati più di trecento. Attualmente ne sono attivi una settantina, distribuiti fra il servizio nella Casa di accoglienza “Piccoli Passi” e nei due Istituti padovani. Cagliari. Nel carcere il “ViolaFest” in ricordo di Piero Farulli di Antonella Barone gnewsonline.it, 16 gennaio 2020 Il ViolaFest, tre giornate nel segno della musica per ricordare Piero Farulli nel centenario della sua nascita, violista del leggendario del Quartetto italiano e fondatore della Scuola di musica di Fiesole. Per la prima volta un concerto di musica cameristica verrà eseguito in un istituto penitenziario, in particolare in Sardegna, nella casa circondariale di Uta. In programma oggi una matinée per i detenuti con il violinista Attilio Motzo e il violista Gioele Lumbau che eseguiranno musiche di A. Vivaldi e G. P. Telemann. L’esibizione in carcere apre la terza e ultima giornata della rassegna cagliaritana - rientrante nelle celebrazioni nazionali Farulli 100 - che si concluderà stasera con il gran concerto e che è stata caratterizzata da numerose masterclass con musicisti di rilievo internazionale. La scelta di un istituto penitenziario come uno dei luoghi in cui portare la musica “sottolinea il significato sociale di forte impatto di tutto il festival” dice Gianluca Floris, presidente del Conservatorio “Da Palestrina” ente organizzatore delle celebrazioni cagliaritane con il sostegno dell’Associazione Italiana della Viola. Piero Farulli, figlio di un calzolaio e ultimo di sei fratelli, vedeva nella musica un importante strumento di integrazione sociale e ha sostenuto la formazione di giovani musicisti e tante iniziative per valorizzare le attività musicali amatoriali. “La musica è un atto di amore verso l’umanità - era solito affermare - l’ho imparato dai quartetti di Beethoven e mi sono impegnato a farlo capire a tutti”. Sant’Angelo dei Lombardi (Av). Arte musica ed emozioni, concerto speciale per i detenuti sciscianonotizie.it, 16 gennaio 2020 Emozioni intense, grandi artisti e commozione per un evento senza dubbio unico: il carcere di Sant’Angelo dei Lombardi ha ospitato, su iniziativa dell’Istituto Superiore “Francesco De Sanctis” di Sant’Angelo dei Lombardi, in collaborazione con l’Istituto Superiore “Luigi Vanvitelli” di Lioni e il Cpia di Avellino, un concerto straordinario in occasione delle festività di fine anno. Ad esibirsi per i detenuti dell’istituto penitenziario sono stati Vincenzo Romano, Erasmo Petringa e la Scuola di Tarantella Montemaranese. Vincenzo Romano, “Cantore Pellegrino delle Tradizioni”, ha portato tra le mura del carcere la sua arte popolare e etnica tra sacro e pagano, con i suoi canti che vibrano, si spandono e catturano. Sin dall’età di 9 anni si è esibito, suonando e cantando, con i grandi nomi della tradizione musicale campana, da Francesco Tiani, a Marcello Colasurdo, a Tullio De Piscopo. Erasmo Petringa, compositore, polistrumentista, direttore d’orchestra, con l’attivo collaborazioni con grandi artisti di fama nazionale ed internazionale nonché la direzione dell’Orchestra del 58esimo Festival di Sanremo, ha portato in scena i suoi virtuosismi che lo rendono unico nel panorama musicale italiano. Quindi la Scuola di Tarantella Montemaranese, con la tradizione irpina intramontabile e sempre di grande impatto, e le poesie e gli interventi musicali portati in scena dai detenuti stessi. Per i detenuti del carcere si è trattato di un momento di grande emozione, tanto da far registrare il tutto esaurito tra i posti disponibili, in un momento molto particolare dell’anno per un istituto penitenziario come le festività natalizie, quando la lontananza da casa fa sentire di più il suo peso. Grazie alla collaborazione e gioco di squadra da parte dell’area educativa tutta (ispettrice, educatrici e docenti) e dell’amministrazione penitenziaria, si è potuto realizzare un evento importante, già con l’obiettivo di essere ripetuto, andando ad arricchire i momenti che il carcere riserva ai suoi detenuti per avvicinare il mondo esterno. Tante le autorità presenti per l’occasione: il Comandante dei Carabinieri di S. Angelo dei Lombardi, il Comandante della Guardia di Finanza di Sant’Angelo dei Lombardi, l’assessore Giuseppe Landolfi in rappresentanza dell’amministrazione comunale di Sant’Angelo dei Lombardi, la polizia penitenziaria che ha assicurato il servizio di vigilanza, il Comandante del Reparto, Commissario coordinatore Giovanni Salvati, la direttrice del carcere, anche direttrice del carcere minorile di Airola, Marianna Adanti, il Dirigente scolastico del “De Sanctis”, Gerardo Cipriano, e il vicepreside Michelangelo Fischetti, per l’Istituto “Vanvitelli”, la vicaria Valeria Marcucci e i responsabili dei plessi, la dirigente del Cpia Maria Stella Battista. Ad arricchire l’evento anche il buffet offerto dall’istituto alberghiero “Vanvitelli” ai detenuti, alle autorità e agli artisti, mentre il service per lo spettacolo è stato offerto da Discoservice Musicheria. La Direttrice e tutta l’Amministrazione Penitenziaria hanno ringraziato gli istituti scolastici per la proposta e per aver collaborato nella riuscita dell’iniziativa, a conferma di un quadro generale di estrema collaborazione con il mondo della formazione all’interno del carcere. Una realtà che viene spesso definita un modello, con due corsi scolastici, Ragioneria e Alberghiero, attraverso i quali i detenuti possono acquisire un diploma di scuola superiore per approcciare al mondo del lavoro, oltre alla scuola media, primaria e all’alfabetizzazione per gli stranieri. Il carcere ha inoltre ben quattro lavorazioni penitenziarie, dove è impiegata la maggior parte della popolazione penitenziaria: tipografia e sartoria, con commesse da tutta Italia, officina meccanica e carrozzeria e tenimenti agricoli. Per non pregiudicare l’istruzione, inoltre, i corsi scolastici si tengono di pomeriggio. Un percorso importante, dunque, per costruire un bagaglio da poter spendere una volta fuori dal carcere. Senza dubbio un modello da imitare, tanto da far registrare il record di costituiti, che scelgono di scontare la propria pena a Sant’Angelo dei Lombardi proprio per l’ampio ventaglio di opportunità di formazione scolastica e professionale, e vincendo nel 2011 il Premio Qualità delle Pubbliche Amministrazioni promosso dal Dipartimento della Funzione Pubblica in collaborazione con il Consiglio Nazionale Consumatori e Utenti (Cncu), da Confindustria e dall’Associazione Premio Qualità Italia (Apqi). Catanzaro. “Creme e pan di Spagna fanno dolce anche il carcere” di Romano Pitaro Corriere della Calabria, 16 gennaio 2020 Cos’hanno in comune Luca Montorsino, maestro pasticcere di fama internazionale, e Fabio Valenti, ergastolano da 25 anni fra le sbarre di un carcere? Gravitano in mondi paralleli: rutilante di successi e di sogni possibili quello di Montorsino, sfibrante di passi senza speranza nel silenzio della notte che non passa quello di Valenti. Il primo è nato a Torino, ha 46 anni, calca le scene della cucina più trendy in tv, quando non è in Italia è a New York o a Tokio ed ha ideato la prima pasticceria salutistica e alternativa italiana. “Non sono i dolci i nemici della salute - spiega - ma la qualità degli ingredienti e la scarsa attenzione per valori nutrizionali e calorici”. Il secondo è nato ad Alessandria della Rocca (Agrigento) e ha 50 anni, s’è fatto dieci anni di isolamento duro e, dopo aver viaggiato per vari istituti penitenziari, sta scontando l’ergastolo più lugubre (e contrario alla Costituzione) della “fine pena mai” nel carcere “Ugo Caridi” di Catanzaro diretto da Angela Paravati, una tosta funzionaria dello Stato che sdegna la pena inutilmente afflittiva e si è adoperata per avere un Laboratorio di pasticceria. Confida Valenti: “Ho iniziato a ricreare dolci pasticciando tra fornelli e farine. Volevo provare a risentire quei profumi che ormai da tempo non mi appartenevano più. Erano gli odori del forno di fronte il negozio di papà. Profumi che mi raccontavano di un’altra vita che mi sembrava perduta per sempre ed io volevo disperatamente tornare, anche per pochi istanti, a quello che avevo lasciato”. Distanti geograficamente e per storie di vita, galeotta la passione per la cucina dolciaria che in questo caso non centra nulla con i peccati di gola né coi peccatori che Dante caccia all’Inferno, i due finiscono per conoscersi, parlarsi. E così il blasonato chef pasticcere firma la prefazione al libro del detenuto appena pubblicato: “Dolci/c/reati” (Città del Sole - Edizioni, a cura di Ilaria Tirinato con nota introduttiva del Garante regionale per i diritti delle persone detenute Agostino Siviglia e postfazione del pedagogista Nicola Siciliani de Cumis). Il calembour del titolo svela l’originalità di questo nuovo ricettario, mentre le due vispe bambole della copertina, Dolcina e Dolcetto, sono state realizzate in carcere. Valenti è diventato ergastolano pasticcere, con facoltà di uscite dal carcere per “creativamente” occuparsi di eventi importanti come l’inaugurazione dell’Anno accademico dell’Università Magna Grecia di Catanzaro, studiando sui libri di Montersino. Che commenta: “Sapendo che Fabio si è costruito addirittura la bilancia, gli stampi per i babà, e che ricava la farina di mandorle grattugiandole a una a una su una scatola di tonno forata, mi è tornato in mente il mio inizio carriera, confermando una delle teorie che sostengo da sempre: nella vita le cose basta volerle profondamente per poterle ottenere. Persino un Laboratorio di pasticceria in un carcere per esempio”. Sono i dolci, piuttosto che l’esortazione dei Vangeli a far visita ai carcerati, la molla di questo singolare scambio di esperienze pregno d’umanità. Se Fabio ha appreso l’arte dal “professore di pasticceria” Luca Montersino di cui ha seguito tutte le trasmissioni televisive (“I dolci li ho ricreati senza dimenticare i reati che hanno portato dolore nella mia esistenza a cui ho voluto dare un senso nuovo. E cosi ho provato a pasticciare e a rimescolare non solo farine ed ingredienti, ma anche sensazioni e pezzetti di giornate vissute…al fresco”), Luca ha imparato a conoscere l’universo dietro le sbarre da Fabio. Premettendo “di essere sempre stato poco tollerante verso chi ha commesso cose gravi”, scrive Montorisino nella prefazione, “ho sempre pensato: io ce la farei mai a perdonare una persona che magari ha toccato la mia famiglia?” È la richiesta del suo contributo al libro che gli fa irrompere la curiosità verso un detenuto “che ha voglia di aggrapparsi a un mestiere per riempire le lunghe giornate dentro un carcere. Ho letto le ricette e le descrizioni, e si evince che si è formato sulle mie lezioni. Questo mi fa molto piacere e devo dire che mai avrei immaginato di essere utile nella vita di un detenuto. Grazie a Fabio mi sono avvicinato a un mondo che per me era sconosciuto”. Nato “per gioco, come una scommessa con me stesso” racconta Valenti, il cui primo forno in carcere era una doppia padella alta mentre una piccola asta di legno fungeva da bilancia, il libro ci delizia (gli occhi) con le creme pasticciere, le confetture di albicocche, il cioccolato fondente, la panna semimontata, il burro, le uova. E ogni ricetta, ben 50 (selezionate da un folto archivio), di qui il calembour del titolo, è associata a specifici reati del codice penale. I profiteroles con l’associazione a delinquere (art.416 c.p.), i cioccolatini alla calunnia (art.368 c.p.), i saccottini alla pesca con il favoreggiamento personale (art. 378 c.p.) e i cantucci all’abuso d’ufficio (art.323 c.p.). L’idea, suggerita dagli stessi detenuti che hanno fatto da consulenti a latere di Valenti e perfezionata dalla curatrice del volume, “mira a convertire i reati del codice in reati dolciari. Quasi a voler dire al lettore: io e i miei compagni siamo consapevoli delle realtà che ci hanno riguardato, al punto da trasformare ciò che è stato in qualcosa da cui prendere le distanze con serenità e ironia”. Un libro leggero, dove la leggerezza (secondo Nicola Siciliani de Cumis che cita Italo Calvino), è da intendersi come antidoto alla pietrificazione dei sentimenti. Che trascende se stesso. Significando che, aldilà delle leccornie e delle immagini “mangiami mangiami” che corredano le ricette, benché sulle prigioni l’indifferenza della società e dei decisori pubblici (stoltamente) regni sovrana, c’è tuttavia gente che si prende (a costo di sacrifici) la responsabilità di dare un senso alle pene. Ha affermato Angela Paravati nel corso della presentazione del libro (in carcere) a cui ha partecipato anche il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute Mauro Palma: “Nei confronti dei detenuti va realizzato un sistema di attività volto alla rieducazione e al reinserimento nel rispetto della persona umana. Con il mondo esterno che si mescola e si preoccupa di attuare, assieme a noi, le previsioni dell’articolo 27 della Costituzione”. Ed è quanto sta accadendo all’ “Ugo Caridi”, un carcere con 700 detenuti, anche attraverso uova, farina e pan di Spagna. “Naufraghi… in cerca di una stella”, il libro di Beccarini e Aversa sui laboratori di Rebibbia di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 16 gennaio 2020 Oggi 15 gennaio 2020, dalle 18, alla biblioteca Moby Dick, in via Edgardo Ferrati, 3, a Roma si presenta “Naufraghi… in cerca di una stella” che è un libro edito da UniversItalia, frutto del laboratorio di pratica filosofica che i professori Emilio Baccarini e Fernanda Francesca Aversa hanno tenuto nell’arco di quattro anni nel carcere di Rebibbia a Roma con detenuti dell’alta sicurezza. Sono quasi tutti laureati: Juan Dario Bonetti in lettere come Pietro Lo Faro, Maurizio De Luca e Giuseppe Gambacorta; Fabio Falbo, Filippo Rigano e Giacomo Silvano in giurisprudenza; Giovanni Colonia in drammaturgia antica; Giuseppe Perrone al Dams. Tra gli autori figurano anche Mario Sgambellone ed Enrico Zuppo. Grazie a loro ha preso corpo questo testo straordinario, una guida per i naufraghi della vita, e chi non si è sentito tale almeno una volta nell’arco della sua esistenza. Se i testi introduttivi scritti dai docenti spiegano il senso del laboratorio, quelli dei detenuti compiono quel senso con il vissuto del loro naufragio che ha coinciso con l’ingresso in carcere e la condanna a una lunga pena detentiva. Perso così il salvagente, cioè la strategia esistenziale, che fino a quel momento li ha tenuti a galla nel mare della vita, hanno scoperto in carcere che ognuno può cambiare, può “trascendersi” e trovare nel proprio sé autentico le risorse per far fronte a quell’insieme di tempeste, onde, correnti e calma piatta in cui si può identificare il tempo della pena. Questo libro spiega come la conoscenza autentica sia un processo che coinvolge tutta la persona, non solo la ragione che schematizza e semplifica per giudicare, e come la verità non possa mai cogliersi da un’unica prospettiva esistenziale. Insomma è un testo di altissimo livello umano, civile, filosofico e giuridico che non solo dimostra come siano uomini autenticamente liberi coloro che lo hanno scritto ma che può aiutare chiunque a liberarsi da semplificazioni e pregiudizi malsani per chi li pensa e per chi gli sta attorno. Nella lettura di questo libro e nella presentazione che se ne è fatta nel teatro di Rebibbia alcuni giorni fa mi è risuonato molto di quanto Nessuno tocchi Caino fa nei laboratori “Spes contra spem” delle sezioni di alta sicurezza, perché la stella di riferimento, guida e orientamento, che i naufraghi di Rebibbia hanno cercato per quattro anni nel loro laboratorio, non l’hanno vista luccicare lontana in alto nel cielo, l’hanno scoperta dentro di sé brillare di una luce più potente e irresistibile di quella di una stella cometa, quale è la luce che emana dalla propria coscienza. “Perché chi è capace di scavare in sé stesso, perforando e frantumando gli strati profondi di quelle irreali e false certezze di cui tutti, più o meno, siamo portatori, è degno di fiducia. Perché l’unica via che porta a un “radicale cambiamento” è quella che ha la sua origine nella profondità del proprio sé, in quel cammino detto dell’auto-trascendenza” come scrive Juan Dario Bonetti. Partecipano alla presentazione di oggi, insieme ai curatori, anche Filippo La Porta ed Eligio Resta mentre modera Stefano Anastasia. Sarà presente Rita Bernardini che con Nessuno tocchi Caino anima il laboratorio a Rebibbia. So anche che alcuni dei detenuti, autori del libro, avevano chiesto un permesso per partecipare alla presentazione di questo importante loro lavoro che più di ogni altro argomento testimonia il cambiamento nel loro modo di pensare e di agire. Processo penale, tempo di domande di Paolo Borgna Avvenire, 16 gennaio 2020 Un agile libro del giurista Glauco Giostra affronta il tema con precisione scientifica ed efficacia divulgativa sollevando tutti i problemi e le urgenze su cui la politica dibatte da anni senza riuscire a sciogliere i nodi: dalla certezza della pena alla responsabilità civile al rapporto spesso malato con la stampa. Si intitola “Prima lezione di giustizia penale” (Laterza, pagine 193, euro 14). Un libro scritto per chi, spinto da curiosità e interesse civile, voglia avvicinarsi per la prima volta al tema del processo. Raggiunge il suo scopo, ma va anche oltre. Cantore, Glauco Giostra riesce infatti a parlare ai non addetti ai lavori, con penna agile che però non elude la profondità dei temi sottesi al processo penale, affrontandoli e mettendoli a nudo nella loro essenzialità, con la chiarezza pedagogica di chi, docente di Procedura penale, su quei temi, per un’intera vita ha riflettuto, insegnato, discusso, cercato il confronto, ingaggiato battaglie. Perché giudicare è compito “impossibile ma necessario”. Perché la comunità affida nelle mani di giudici di professione lo strumento (il processo) per punire comportamenti che qualsiasi società non può lasciare privi di conseguenze. Come questo compito si coniuga con i diritti fondamentali dei cittadini. Quanto e in che misura la libertà personale, la segretezza delle comunicazioni, la inviolabilità del domicilio devono cedere all’esigenza dell’accertamento dei reati. Le regole del processo, viste come un “guard rail metodologico” entro cui cercare e valutare la prova. Perché le regole del processo vanno vissute innanzitutto come “limiti valoriali” all’accertamento dei fatti: non si può perseguire la verità a ogni costo, non tutti i mezzi di ricerca della prova sono ammissibili. Percorrendo tale strada, in passato, si è legittimata la tortura (non a caso chiamata, dai giudici dell’epoca, rigoroso esame). Ma tali regole non pongono solo limiti formalistici: sono criteri di accertamento della verità - definiti sulla base di una secolare esperienza storica - che impediscono scorciatoie che spesso portano ad aberrazioni ed errori di giudizio. E dunque, il contraddittorio nell’assunzione della prova come architrave del nostro processo: come metodo che, più di ogni altro, garantisce l’affidabilità della ricostruzione storica di un fatto. Ed ecco che, qui, il libro va oltre il suo scopo dichiarato. Perché, riflettendo sui valori che sottendono l’architettura del processo e illustrando in tale luce le varie fasi della procedura - da quella delle indagini preliminari sino all’appello e al giudizio di cassazione - Glauco Giostra parla anche agli operatori di giustizia che quotidianamente sono chiamati a celebrare i processi. Ricorda loro che, ogni tanto, un buon artigiano deve lucidare i ferri del mestiere. E ricordarsi perché quegli strumenti sono stati messi nelle sue mani. Qui la lezione si fa davvero preziosa. Perché il clima che oggi ci circonda e le aspettative che il cittadino medio nutre parlano una lingua molto diversa da quella dell’articolo 111 della Costituzione. Processo come anticipazione della pena e risposta all’allarme sociale, a costo di andare oltre la legge; bisogno immediato della condanna; magistrati che non devono limitarsi ad applicare le regole ma, torcendole al raggiungimento della verità a ogni costo, devono condurre una guerra contro il nemico del momento, devono “moralizzare”, lottare per il bene, anche a costo di sostituirsi alla politica (senza però pagare il prezzo della responsabilità che ogni eletto dal popolo deve periodicamente affrontare). Queste le parole d’ordine dell’odierno “spirito del popolo”, che sibila nelle orecchie dei magistrati e rischia di alimentare in loro quel “malinteso orgoglio della funzione” che il giudice Domenico Riccardo Peretti Griva additava come una malattia che mina “quel senso critico, quella sensibilità umana e quel timore costante di errare” che debbono far guardare alla funzione “pressoché sovrumana” del giudicare gli altri. E qui la limpida lezione sul processo come dovrebbe essere si increspa, scontrandosi con gli enormi problemi del processo reale, così diverso dal modello ideale. La sua eccessiva lunghezza. Una fase delle indagini che dovrebbe essere semplicemente propedeutica al dibattimento in cui la prova è formata col metodo del contraddittorio; e che invece è diventata il vero cuore pulsante del processo. La custodia cautelare, applicata non sulla base di prove, ma di meri indizi, che sempre più, nella percezione diffusa, sta tornando ad essere l’anticipazione della pena che, settant’anni fa, Salvatore Satta denunciava come “il surrogato di una condanna alla quale si ha la sensazione che non si riuscirà mai ad arrivare, o quanto meno di una pena che non si riuscirà mai a far espiare”. I media che, da strumento di controllo sociale del processo, si sono trasformati in strumento di condizionamento delle indagini; a volte additando il colpevole e tendendo a guidare il magistrato su una strada da loro tracciata, in una sorta di velenosa cogestione del processo. Il “malsano reticolo carsico” che si è formato tra pubblici ministeri e operatori dell’informazione che, snaturando il ruolo di quel che era il giornalismo di inchiesta, ha trasformato i cronisti giudiziari “da cani da guardia della democrazia a cani da salotto delle Procure, in attesa del boccone informativo”. Temi che aleggiano in tutte le pagine del libro e che si fanno più espliciti nel capitolo finale. E che aprono molte domande: come riportare il processo al suo scopo originario? Come diminuire la sua intollerabile lentezza (che è la benzina che alimenta tutte le forme di populismo giudiziario)? Come assicurare ai magistrati il loro ruolo di garanti, senza sovraccaricarli di funzioni improprie? Come difendere la loro indipendenza, evitando che si trasformi in irresponsabilità e arroganza? Domande che, chiudendo il libro, fanno nascere, nel lettore, l’attesa di una “seconda lezione di giustizia penale”. Che speriamo non manchi. La Giustizia non si amministra “A furor di popolo” di Sergio Lorusso Gazzetta del Mezzogiorno, 16 gennaio 2020 Nel 1789 il popolo parigino, vessato dalle prevaricazioni, ma anche dall’indifferenza della monarchia che lo aveva ridotto letteralmente alla fame, assalta la Bastiglia. È l’esordio della Rivoluzione francese, ma anche la premessa di quella che sarà la sua degenerazione culminata nel Terrore rosso, corollario delle lotte fratricide tra i protagonisti della rivolta. L’immagine ben si attaglia a una particolare modo di fare giustizia: la giustizia amministrata “a furor di popolo”, tipica dei tempi in cui il processo si celebrava in piazza, al cospetto della popolazione, uno show ante litteram nel quale i giudici erano influenzati dagli umori e dai giudizi della folla, che si lasciava andare a tumulti e sommosse quando disapprovava i verdetti. Lungi dall’essere stato archiviato, tale approccio-naturalmente adeguato ai tempi - si ripresenta ciclicamente, bucando epoche e forme di Stato. Ce lo ricorda, mettendoci in guardia dai suoi pericoli sempre attuali, Ennio Amodio nel suo incisivo e originale saggio “A furor di popolo” (Donzelli ed., 2019, p. 162, euro 22,00). Autorevole docente universitario e avvocato, tra i padri del vigente codice di procedura penale, Amodio sviluppa la sua tesi leggendo in filigrana l’esperienza del governo gialloverde sulla scorta delle leggi in materia nelle quali individua un filo comune: quello della giustizia vendicativa. Il populismo penale è il fil rouge che lega due forze politiche a prima vista antitetiche, “una giustizia senza bilancia”, fatta di eccessi, furori e paure. La conseguenza? L’abbandono dei princìpi dell’illuminismo giuridico, barattati - anche per ragioni di consenso - con una visione che pone al centro la supremazia punitiva del popolo, da esercitarsi a scapito del potere. Da un lato, l’anti-cultura del giudiziario di stampo leghista, dall’altro l’adesione all’azione della magistratura rispetto a determinati temi (come la corruzione) dei Cinque Stelle, che convergono nella medesima direzione grazie al più generale populismo politico che connota entrambe le formazioni che hanno sostenuto il primo governo Conte. Il risultato, infatti, è quello di rivalutare in qualche modo la giustizia privata (emblematica, in tal senso, è la “nuova” legittima difesa), con un’involuzione che recupera modelli premoderni materializzando - rispetto a determinate tipologie di reato - il motto la loi c’est moi e aprendo così spazi alla collera e alla ritorsione come fondamenta della sanzione penale. La vendetta, insomma, che diventa connotato fondante della giustizia populista made in Italy. Ed è sull’antinomia esistente tra i termini “vendetta” e “giustizia” che l’Autore si sofferma, evidenziando l’abbandono di secoli di civiltà giuridica e di valori che sembravano ormai pacifici e consolidati. Quali i pericoli? La marginalizzazione del processo penale e della sua disciplina, di per sé oscura per i non addetti ai lavori e dunque in contrasto con lo stereotipo della semplicità incarnata dall’uomo comune, privo di competenze specifiche, cavalcato soprattutto dai Cinque Stelle; l’assenza di attenzione per le garanzie dell’imputato; la sfiducia nei confronti della magistratura, della quale vanno drasticamente ridotti gli spazi di discrezionalità, perché ritenuta buonista, remissiva e incapace di tutelare la collettività; la correlativa propensione per le forze dell’ordine, stante la loro immediatezza operativa che consente di “punire” istantaneamente, etichettata in maniera colorita da Amodio come favor militiae; la distorsione della custodia cautelare in carcere, percepita - specie dalla vittima - come sanzione tempestiva e lenitiva dell’allarme sociale; il proliferare della giustizia mediatica, che dei tempi e delle forme del processo fa a meno, trasformando quest’ultimo in un talk show dove trionfa la giustizia rapida e sommaria celebrata da conduttori ed “esperti” che appaga il telespettatore e fa lievitare l’audience. Un luogo in cui innocentisti e colpevolisti si scontrano, prima di un verdetto tranchant e inappellabile. Uno scenario fosco ed oscuro, che evoca un futuro pesantemente regressivo per la nostra giustizia penale. E che rimane attuale anche dopo il mutamento di maggioranza verificatosi nell’estate scorsa, se si guarda allo stato di empasse della riforma che avrebbe dovuto garantire tempi ragionevoli al nostro processo quale contrappeso della scure abbattutasi sulla prescrizione. Riflessioni come quelle di Amodio, che riesce a rendere fruibile il dato tecnico anche ai non addetti ai lavori collocandolo in una più ampia prospettiva storica e culturale, possono aiutare tutti a comprendere i rischi cui andiamo inconsapevolmente incontro barattando la giustizia con gli impeti vendicativi. Anche perché Maria Antonietta non c’è più e neanche il popolo affamato cui promettere brioche. Da Hugo Micheron una lettura non banale del jihadismo di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 16 gennaio 2020 Lo studioso contesta il “negazionismo” di chi pensa che l’Islam non avrebbe niente a che fare con gli attentati in Europa, esressione di disagio sociale o esistenziale. Uno dei libri del momento in Francia è il voluminoso saggio di Hugo Micheron sul “Jihadismo francese: quartieri, Siria, prigioni”, pubblicato da Gallimard con la prefazione di Gilles Kepel. Micheron, 31 anni, ricercatore all’École normale supérieure e docente a Sciences Po, per cinque anni ha indagato nelle periferie e nelle altre zone a forte penetrazione islamista, ha viaggiato in Siria e ha intervistato 80 jihadisti detenuti nelle carceri francesi. Il risultato è una descrizione molto argomentata e poco ideologica dell’universo “salafo-jihadista”. Già questa espressione rivela le conclusioni dell’indagine di Micheron: il salafismo (il ritorno a un islam ortodosso, basato sull’osservanza rigida dei precetti del Corano) e il jihadismo sono secondo lui fenomeni correlati, gli attentati terroristici islamici sono quasi sempre il passaggio all’atto di persone che da tempo avevano abbracciato una visione salafita dell’islam, simile a quella del wahabismo saudita. Quella di Micheron non è una visione banale in Francia, dove la stagione degli attentati islamici del 2015 ha prodotto una serie di teorie da lui definite “negazioniste”: l’islam non avrebbe niente a che fare con la jihad europea, il terrorismo islamico sarebbe una espressione di disagio esistenziale o sociale, i terroristi sarebbero solo degli emarginati, oppure semplicemente squilibrati che non sanno quello che fanno. Alcuni esperti in Francia hanno sostenuto che il salafismo con le sue pretese - dalla sottomissione quotidiana della donna agli orari separati per uomini e donne nelle piscine - fosse sì un problema per la convivenza civile, ma senza relazione con gli attentati. Micheron invece sostiene che il presente e purtroppo anche il futuro del terrorismo in Europa non si fonda sull’esistenza o meno di uno Stato islamico in Siria o in Iraq, ma sulla presenza sul nostro territorio di “enclave”, quartieri dove i salafiti vogliono vivere come nella Raqqa dell’Isis Che fare se l’Occidente si riscopre un “elefante” vecchio e impoverito di Ugo Intini Il Dubbio, 16 gennaio 2020 Perché nei paesi sviluppati la globalizzazione genera rabbia e scontento. “L’inverno dello scontento”, di cui ho scritto il mese scorso su queste colonne, non riguarda soltanto l’Italia ma tutto l’Occidente. Da noi è più rigido, perché l’economia va molto peggio, perché le diseguaglianze si sono aggravate più che altrove e perché siamo sempre stati l’anello debole tra le democrazie. Ma l’inverno si avverte dappertutto, dovunque alimenta il voto di protesta, la destra e l’antipolitica. Le cause sono comuni (e anche le conseguenze). Cominciamo dalle prime. I nostri nonni e bisnonni, anche quelli nelle condizioni più modeste, si consideravano (ed erano) economicamente e culturalmente superiori al resto del mondo. Di gran lunga. Alla fine dell’Ottocento, la ricchezza prodotta da Francia, Germania e Gran Bretagna (da sole) rappresentava il 35 per cento di quella mondiale, non poco più del 10 come oggi (e con un trend in continuo calo). Eravamo il centro del mondo: all’inizio del Novecento, l’Europa aveva un quarto della popolazione mondiale (non si avviava come oggi a pesare meno del 5 per cento). Ospitava tutti gli avvenimenti scientifici e culturali di rilievo. I nostri nonni e bisnonni erano giovani, proiettati verso il futuro e anche verso gli altri continenti. Un surplus di popolazione si muoveva infatti in direzione opposta all’attuale: gli inglesi in Asia, Africa e Medioriente; i francesi in Nord Africa e Indocina; gli italiani in Etiopia e Libia, dove negli anni 30 eravamo oltre il 13 per cento e quindi un terzo più numerosi di quanto oggi gli stranieri siano in Italia. Gli immigrati eravamo noi, ma come dominatori sul piano economico, militare e culturale. Gli occidentali in generale (e gli europei in particolare) hanno perso status e anche reddito. Non in senso assoluto (a parte purtroppo l’Italia). Ma in senso relativo: sono sempre più o meno allo stesso livello, mentre nel resto del mondo è esploso un boom economico. Eravamo ad altezze apparentemente irraggiungibili, mentre oggi i cinesi, gli indiani (anche alcune repubbliche ex sovietiche) si avvicinano ai nostri livelli. E questo conta moltissimo. Perché l’autostima e la percezione di sé, nella vita degli individui come in quella delle Nazioni, si valuta spesso nel confronto rispetto agli altri. Con le invidie, le superbie, i complessi di inferiorità e superiorità Inevitabilmente connessi. Ciò che avvertono i comuni cittadini occidentali (magari a volte confusamente) è assolutamente confermato - per una volta - da tutti gli studi scientifici degli economisti. Branko Milanovic ad esempio, un autorevole esponente del Fondo Monetario Internazionale, ha reso famoso un grafico che viene chiamato, per la sua forma, “l’elefante”. Spiega con chiarezza che la globalizzazione ha trasformato in classi medie, togliendole dalla povertà, due miliardi di persone nei Paesi emergenti. E che ciò è avvenuto a scapito delle classi medie nei Paesi occidentali. Per le quali “l’inverno dello scontento” è reso più grigio dall’ enorme aumento delle diseguaglianze. L’elefante di Milanovic aggiunge infatti (con la linea del grafico svettante clamorosamente verso l’alto) che l’ 1 per cento più ricco dei Paesi avanzati ha moltiplicato a dismisura il suo reddito. Le diseguaglianze si sono accresciute soprattutto negli Stati Uniti (probabilmente per la politica iper- liberista vincente) e, tra i Paesi europei, in Italia (probabilmente per la “non politica”). Il che spiega molto sulla rabbia dei nostri elettori. La tecnologia ha cancellato le distanze e la conseguente globalizzazione rende tutto ciò inevitabile. Il problema non è più soltanto la delocalizzazione materiale delle fabbriche, ma quella immateriale. E non soltanto dei servizi a basso livello. Perché l’impiegato della Tim può informarti sulle tariffe in italiano dall’Albania, il call center di Los Angeles può ordinarti in inglese una Margherita telefonando dall’India alla pizzeria a te più vicina. Ma l’ingegnere o il matematico può impostarti il disegno di una macchina oppure il piano di fatturazione, via computer, indifferentemente, da Shanghai e da Mumbai come da Roma. La sfida è aggiungere a ogni unità di prodotto o servizio occidentale una percentuale di tecnologia, cultura o creatività sempre superiore. Esportare i nostri diritti umani e sindacali nei Paesi che non li hanno, rendendoli quindi meno competitivi, grazie alla perdita graduale del vantaggio costituito per loro dal basso costo della manodopera. Sfida difficile. Difficilissima per Paesi come l’Italia dove l’istruzione peggiora anziché migliorare e dove si tende a importare lo sfruttamento dei lavoratori piuttosto che a esportare i diritti sindacali. L’inverno dello scontento ha dunque cause simili in tutto l’Occidente. Ma anche conseguenze politiche assolutamente comuni. Esse sono quasi inevitabilmente una spinta indietro, verso il passato ed epoche che non possono più tornare: nazionalismo (o come si dice oggi sovranismo), chiusura sospettosa in se stessi, timore del nuovo e del diverso. La spinta all’indietro, naturalmente, non è generalizzata. Divide anzi profondamente le società occidentali secondo linee nette, visibili dovunque. Da una parte quanti accettano i tempi nuovi: i giovani, i più istruiti, gli abitanti delle metropoli. Dall’altra quanti vogliono tornare al passato: gli anziani, i meno scolarizzati, gli abitanti delle province. Lo si vede dalle statistiche sul comportamento elettorale: ultime e più clamorose quelle in Gran Bretagna sul voto dei giovani per l’Europa e a sinistra, dei vecchi per la Brexit e per Johnson. Lo si vede soprattutto nella geografia politica: il vento della modernità elegge sindaci democratici “liberal” o socialisti a Los Angeles, New York, Londra, Parigi, Berlino, Praga, Vienna, Varsavia, Budapest e persino Istanbul. Quindi anche in Paesi dove le province portano invece al governo nazionale i conservatori. E non c’è da stupirsi. I giovani e i ceti professionali viaggiano, lavorano in società spesso multinazionali e in metropoli cosmopolite che appaiono, anche nella loro composizione etnica, microcosmi del mondo. Cavalcano la globalizzazione e il vento del 21° secolo. Chi ha lavori a livello più esecutivo soffre la concorrenza sia dell’immigrato che del dipendente di multinazionali In Asia e Africa. L’anziano o il residente in provincia si chiude nel suo passato e nei suoi orizzonti ristretti, avvertendo più i danni che i vantaggi della modernità. Naturalmente, la risposta non è quella di protestare contro la globalizzazione. Innanzitutto perché questa è assolutamente inevitabile, ma anche per altri due solidissimi motivi. Primo. Detto crudamente, se due miliardi di persone sono uscite dalla povertà, lo scontento di poche centinaia di milioni (i ceti medi di Europa e Stati Uniti) risulta negli equilibri mondiali assolutamente marginale. Secondo. I giovani e i ceti metropolitani moderni dell’Occidente lo intuiscono; lo sanno e lo spiegano gli economisti che (come Milanovic con il suo “elefante”) hanno chiarito la situazione reale: le conseguenze negative della globalizzazione sui ceti medi dell’Occidente non sono affatto inevitabili (già lo si accennava nelle osservazioni precedenti). Possono essere corrette da politiche adeguate. Naturalmente (e qui sta la contraddizione dei sovranisti) si tratta di politiche che nessun singolo Stato nazionale può perseguire da solo. Può farlo soltanto (forse) l’azione congiunta tra un’Europa politicamente unita e gli Stati Uniti. Migranti, possibile sanatoria. Lamorgese: “Il governo riflette sulla regolarizzazione” di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2020 Magi: “Una importantissima apertura, non scontata”. All’esame della commissione Affari costituzionali della Camera c’è la pdl popolare “Ero straniero”. “L’intenzione del Governo e del ministero dell’Interno è quella di valutare le questioni poste all’ordine del giorno che richiamavo in premessa, nel quadro più generale di una complessiva rivisitazione delle diverse disposizioni che incidono sulle politiche migratorie e sulla condizione dello straniero in Italia”. Nel rispondere all’interrogazione del deputato Riccardo Magi (+Europa), la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha annunciato che è intenzione del Governo valutare un provvedimento straordinario di regolarizzazione degli irregolari già presenti in Italia a fronte dell’immediata disponibilità di un contratto di lavoro. L’ordine del giorno accolto il 23 dicembre - La ministra ha ricordato l’ordine del giorno accolto il 23 dicembre scorso, in sede di approvazione della legge di bilancio, con il quale il Governo “si è impegnato a valutare l’opportunità di varare un provvedimento che, a fronte dell’immediata disponibilità di un contratto di lavoro, consenta la regolarizzazione di cittadini stranieri irregolari già presenti in Italia, prevedendo, all’atto della stipula del contratto, il pagamento di un contributo forfettario da parte del datore di lavoro e il rilascio del permesso di soggiorno per il lavoratore”. La richiesta di Magi al question time - Nel question time Riccardo Magi aveva chiesto alla ministra se, in attesa di una riforma della normativa sull’immigrazione, si stesse riflettendo su un provvedimento straordinario di emersione di questi cittadini, che consenta la regolarizzazione, a fronte di una immediata disponibilità all’assunzione. Una operazione, ha sottolineato Magi, che “consentirebbe al nostro Paese di effettuare una grande operazione di legalità e anche di effettiva e reale sicurezza”. Si tratta, ha spiegato, di circa 700mila “fantasmi irregolari”, che “magari, hanno un datore di lavoro pronto ad assumerli domani”. La risposta della ministra, ha detto Magi al Sole24ore.com, “è stata una importantissima apertura, non scontata”. Ora Magi si augura che “questa volontà politica si concretizzi in tempi rapidi, in attesa di una riforma strutturale che consenta la regolarizzazione su base individuale degli stranieri già radicati nel territorio, come prevede la proposta di legge d’iniziativa popolare “Ero straniero” attualmente in discussione in commissione Affari costituzionali alla Camera”. La proposta di legge “Ero straniero” - La proposta di legge di iniziativa popolare, di cui Magi è relatore, è frutto della campagna”Ero straniero”. Si tratta di una riforma complessiva del testo unico sull’immigrazione. Presentata alla Camera nella XVII legislatura - il 27 ottobre 2017 - è stata mantenuta all’ordine del giorno nella XVIII legislatura e assegnata alla commissione Affari costituzionali in sede referente. Obiettivo della proposta è quello di “superare l’attuale modello di gestione dell’immigrazione in Italia”. La proposta di legge propone l’abrogazione del decreto flussi, con le quote di ingresso annuali e l’adozione di due nuovi canali di ingresso. I canali di ingresso previsti dalla pdl - Il primo è basato sull’attività di intermediazione svolta da soggetti istituzionali autorizzati, come centri per l’impiego e camere di commercio, che si impegnano a promuovere l’incontro tra l’offerta di lavoro da parte di stranieri e la richiesta di lavoro da parte di datori di lavoro in Italia. Il lavoratore viene autorizzato all’ingresso nel Paese e gli viene rilasciato un permesso di soggiorno per ricerca di lavoro. Il secondo canale è invece costituito dalla prestazione di garanzia per l’accesso al lavoro - la cosiddetta sponsorizzazione - da parte di soggetti pubblici (regioni, enti locali, associazioni no-profit, sindacati) e privati, finalizzato all’inserimento nel mercato del lavoro del lavoratore straniero con la garanzia di risorse finanziarie adeguate e la disponibilità di un alloggio per il periodo di permanenza sul territorio, agevolando in primo luogo quanti abbiano già avuto precedenti esperienze lavorative in Italia o abbiano frequentato corsi di lingua italiana o di formazione professionale. La terza possibilità riguarda gli stranieri già presenti nel territorio del Paese. A loro, in presenza di condizioni che ne dimostrino l’effettivo radicamento e integrazione nel Paese, è riconosciuto il permesso di soggiorno per comprovata integrazione di due anni. Il permesso può essere rinnovato solo se l’interessato ha svolto nel frattempo una attività lavorativa o ha partecipato a misure di politica attiva del lavoro. Decreti sicurezza. Cara maggioranza, avrai il coraggio di metterti a rischio pur di abolirli? di Emma Bonino Il Riformista, 16 gennaio 2020 La questione migranti per essere affrontata avrebbe bisogno di una libertà politica che i partiti di maggioranza, diversi dai 5 stelle, non hanno. A meno che non siano disposti a far cadere l’esecutivo. Sei mesi fa non credevo che il governo Conte2 avrebbe rappresentato una alternativa al governo Conte 1 e mi pare che i fatti abbiano confermato questa facile previsione. Allo stesso modo oggi temo che la coalizione che sostiene l’esecutivo non prenderà alcuna decisione significativa sui decreti sicurezza, fino a che per Pd e Italia Viva la tenuta del governo verrà considerata una “variabile indipendente” e un “valore non negoziabile” a cui qualunque altro principio e obiettivo deve essere subordinato. In questo quadro, la trattativa sui decreti sicurezza è destinata a finire come quella su quota cento, sul reddito di cittadinanza, sul blocco della prescrizione e sul taglio dei parlamentari: nella certificata subalternità alla linea populista del MSS. I decreti sicurezza sono stati un deliberato sabotaggio alle politiche di integrazione e alle attività di soccorso dei naufraghi raccolti nel Mediterraneo. Sono stati, molto più degli sbarchi, il primo fattore di incremento del numero degli irregolari e hanno rischiato di aprire una vera e propria emergenza umanitaria interna, che il ministro Lamorgese ha provvisoriamente scongiurato evitando, ma solo per i prossimi sei mesi, che migliaia di titolari di protezione umanitaria finissero, da un giorno all’altro, in mezzo a una strada. Inoltre, il decreto sicurezza bis ha autorizzato il governo a adottare provvedimenti contrari non solo al buon senso e ai doveri di umanità, ma agli stessi obblighi stabiliti dalle convenzioni sul soccorso in mare e sui rifugiati, ratificate dall’Italia. Oltre alle conseguenze dirompenti sul piano normativo, i decreti sicurezza hanno dirottato l’attenzione degli italiani dalle cause agli effetti della destabilizzazione politica dell’area sud del Mediterraneo, dando loro l’impressione che l’Italia si sarebbe messa al riparo dalle conseguenze del disordine generale semplicemente impedendo gli sbarchi dei disperati in fuga. Il risultato è che mentre il Ministro degli interni Salvini gonfiava il petto vantandosi di avere difeso i confini della patria dalle navi delle Ong, eleggendo la Libia a porto sicuro, proprio l’esplosione libica dimostrava la totale marginalità dell’Italia in un’area in cui si concentrano nostri rilevanti interessi economici e strategici. Per queste ragioni ritengo che sarebbero del tutto irrilevanti i semplici e minimali aggiustamenti, che vengono oggi prospettati, come quelli suggeriti dal Quirinale sulla graduazione delle sanzioni per l’ingresso non autorizzato nelle acque nazionali e sulla precisazione dei criteri di determinazione della natura e gravità delle violazioni. Né ci si può accontentare, come sembra suggerire il Viminale. di una parziale estensione dei permessi straordinari che hanno sostituito il permesso per protezione umanitaria. I decreti sicurezza per la parte che attiene alle politiche migratorie vanno aboliti, non “migliorati”, perché non c’è niente da migliorare in due provvedimenti che sono serviti unicamente alla strategia di consenso dell’ex titolare del Viminale. Peraltro, neppure questo sarebbe sufficiente, senza intervenire su quanto sta a monte dei decreti sicurezza e ne ha anticipato contenuti e direzioni. Il primo e più urgente problema riguarda i termini dell’accordo con la Libia, che il 2 febbraio dovrebbe essere rinnovato per il prossimo triennio e che l’evoluzione della situazione libica rende da un certo punto di vista astratto e dall’altro particolarmente sinistro, perché la situazione del Paese, in assenza di una effettiva autorità statuale, non consente neppure più quella finzione che per tre anni ci ha permesso di qualificare come interlocutori locali i capi di vere e proprie milizie para-criminali. Il secondo problema, che si va cronicizzando in modo sempre più grave, è la situazione di quei seicentomila stranieri irregolari che vivono e lavorano stabilmente in Italia e che, come è evidente, per il numero e per l’assenza di accordi con la maggior parte dei paesi di origine, non possono essere rimpatriati. L’irregolarità di questo pezzo di Italia formalmente invisibile è davvero un problema di sicurezza: in primo luogo per gli interessati, che sono privi di tutele e riconoscimento, e in secondo luogo per la società. La loro regolarizzazione garantirebbe invece ricavi fiscali e contributivi di almeno 4 miliardi di euro annui e ridurrebbe questa forma di inquinamento illegale dell’economia reale. Rispondendo ieri a una interrogazione del deputato di +Europa Riccardo Magi, che è anche relatore della proposta di legge di iniziativa popolare “Ero straniero”, per la riforma della legge Bossi-Fini, il ministro Lamorgese ha espresso la disponibilità a ragionare su un provvedimento di regolarizzazione, di cui in Italia non mancano i precedenti, in due occasioni (nel 2002 e nel 2009) sotto governi di centro-destra. Però, per tornare a quanto si diceva all’inizio, un discorso serio su tutto questo dossier, che comprende i decreti sicurezza ma non si esaurisce in essi, avrebbe bisogno di una libertà politica che i partiti di maggioranza diversi dal M5S non hanno e di tutta evidenza non vogliono avere, se non sono disposti a mettere sul piatto la vita stessa dell’esecutivo. Turchia. Prigioniera politica si toglie la vita nel carcere di Burhaniye retekurdistan.it, 16 gennaio 2020 La prigioniera politica Nurcan Bakir in carcere da 28 anni, si è tolta la vita per protesta contro le misure repressive nella carceri turche.La 47enne prigioniera politica era stata trasferita contro la sua volontà dal carcere femminile di Gebze nel carcere di Burhaniye. Questa mattina la sua famiglia questa mattina è stata informata dalla direzione del carcere che la prigioniera si era tolta la vita in cella. La prigioniera aveva davanti ancora due anni fino al rilascio e si era rivolta alla Corte di Giustizia Europea per i Diritti Umani a causa della sua grave malattia. Martedì in un colloquio con la sua famiglia aveva dichiarato di “non tacere di fronte alla repressione” e di ricordare “ogni notte nei sogni i suoi figli assassinati”. Questa mattina la famiglia si è messa in viaggio per prelevare la salma di Bakir dal carcere di Burhaniye nei pressi di Mêrdîn (Mardin). Iran. “Scusatemi, ho mentito per 13 anni” Si dimette presentatrice della tv iraniana di Viviana Mazza Corriere della Sera, 16 gennaio 2020 L’annuncio di Gelare Jabbari della televisione di Stato dopo la notizia che l’abbattimento dell’aereo ucraino è stata causata da missili iraniani. Altre due presentatrici hanno fatto la stessa scelta. La tv di Stato iraniana aveva riportato la notizia della morte dei 80 soldati americani negli attacchi contro le basi in Iraq, in risposta all’uccisione del generale Soleimani. Non era vero. Poi per giorni ha continuato a ripetere che l’aereo ucraino partito da Teheran era precipitato per problemi tecnici, anche questa una notizia rivelatasi falsa. Così, tra le proteste nel mondo della cultura, ci sono state lunedì scorso quelle di tre presentatrici della televisione di Stato iraniana, che hanno annunciato le dimissioni. Una di loro, Gelare Jabbari, ha scritto su Instagram: “Perdonatemi per avervi mentito per 13 anni. Non tornerò mai più in televisione”. A farle eco è anche l’associazione dei giornalisti di Teheran, che ha diffuso una dichiarazione molto dura: “Ciò che mette a rischio la nostra società in questo momento non sono soltanto i missili o gli attacchi militari, ma la mancanza di media liberi. Nascondere la verità e diffondere bugie traumatizza l’opinione pubblica. Quel che è accaduto è una catastrofe per i media in Iran”. L’impatto è più che altro simbolico, dato che l’influenza della tv di Stato è da tempo in declino e la maggior parte degli iraniani non apprendono là le notizie. Da tempo gli iraniani hanno accesso attraverso la tv satellitare e internet a canali anche in farsi gestiti dall’estero. Il fatto stesso che Jabbari abbia dato la notizia su Instagram, raggiungendo così milioni di potenziali lettori, lo conferma. Anche Telegram e WhatsApp sono molto usate. Molti siti di informazione stranieri non sono bloccati e se lo sono è possibile usare il Vpn per connettersi. Per questo lo scorso novembre le autorità hanno deciso di bloccare completamente internet per una settimana. Secondo un sondaggio di Gallup condotto nel 2012, gli iraniani sono sospettosi sia nei confronti dei contenuti della loro tv di Stato che dei media stranieri. I media locali possono creare confusione e dubbi nella mente delle persone, e far loro dubitare la narrativa occidentale, ma mai sostituirla del tutto. Le dimissioni di tre presentatrici mostrano tuttavia i limiti di questa strategia.