Prendiamone atto: la pena è necessariamente afflittiva di Francesco d’Agostino Avvenire, 15 gennaio 2020 Che il sistema penale sia in crisi profonda dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti: basti pensare alle tanto accese quanto sterili discussioni che stanno accompagnando la riforma dell’istituto della prescrizione, avviata tra mille polemiche all’inizio del nuovo anno e nella sostanziale indifferenza della pubblica opinione, incapace di percepire correttamente le valenze tecniche della questione. Se come prova questa non bastasse, dovrebbero meritare un minimo di attenzione alcuni durissimi dati statistici, da quello che ci conferma come le carceri italiane accolgano ormai praticamente il doppio (il doppio!) dei detenuti per i quali sono state progettate e costruite a quello, ancora più tragico e incredibilmente rimosso dalla coscienza collettiva, dell’altissimo numero di suicidi, che si riscontrano tra i carcerati e tra gli stessi agenti di custodia. E infine perché non considerare ulteriori indicatori di crisi, che non hanno il rilievo sociologico-statistico di quelli appena citati, ma che sono forse ancora più significativi, perché rinviano a una cattiva coscienza che ci travolge tutti e di cui colpevolmente non vogliamo prendere atto? Facciamo un solo esempio: la vicenda della professoressa Nicoletta Dosio, attivista no-Tav, condannata ad un anno e mezzo di detenzione non per le sue idee contestatrici, ma per le modalità - qualificate dai giudici come penalmente rilevanti e con sentenza definitiva - con cui le ha non solo manifestate, ma “praticate” (violenza privata e interruzione di pubblico servizio). La condanna che le è stata inflitta potrebbe sembrare molto gravosa, rispetto alla tipologia del reato imputatole; ma chi ha una pur minima conoscenza del nostro sistema penale non può non sapere benissimo che si tratta di una di quelle condanne destinate a restare sulla carta, tali e tanti sono i ‘benefici’ previsti dalle nostre leggi destinati a vanificare la detenzione o almeno a svuotarla dal suo reale contenuto afflittivo (ad esempio con la sostituzione con gli arresti domiciliari o con l’affidamento del condannato ai servizi sociali). Ma in questa vicenda si è verificato un evento tanto singolare, quanto imprevisto: la professoressa ha rifiutato ogni beneficio legale a sua disposizione e ha richiesto la puntuale applicazione della condanna, chiedendo di essere sottoposta alla detenzione carceraria indicata nella sentenza stessa. Vedremo come le cose andranno a finire; per ora rileviamo che questa mossa sia stata mediaticamente straordinaria, al punto che sono già partite richieste perché il presidente Mattarella conceda la grazia alla professoressa no-Tav, evitandole il carcere e nello stesso tempo onorando la sua fermezza ideologica. La vicenda su cui stiamo riflettendo può certamente apparire marginale, ma dovrebbe obbligarci a porci una volta per tutte e con assoluta serietà la totale perdita di credibilità del nostro sistema penale. Se le pene, secondo il nobile dettato del secondo comma dell’art. 27 della Costituzione, devono tendere alla rieducazione del condannato, che senso hanno i molteplici benefici che di fatto proteggono dalla detenzione in carcere (tranne situazioni estreme) tutti coloro che ricevono una condanna inferiore ai quattro anni? Non sarebbe più onesto riconoscere l’insostenibilità teorica e il fallimento pratico della detenzione come prassi rieducativa (oltre che come sistema di difesa sociale)? Perché continuare a trattare in modo omogeneo (come fa la legislazione penale) crimini di profonda eterogeneità, come quelli contro la persona, contro il patrimonio, contro la pubblica amministrazione, quelli informatici o quelli a motivazione ideologico-politica, prevedendo per fronteggiarli essenzialmente due sole tipologie di sanzioni, quelle pecuniarie e quelle carcerarie? So benissimo la risposta che viene data ai pochi che continuano a porre queste domande: perché non abbiamo a nostra disposizione un paradigma penalistico alternativo, diverso da quello (di ormai lontana e consunta origine illuministica) di cui stiamo usufruendo e soprattutto perché non abbiamo il coraggio di riaprire una riflessione spregiudicata e coraggiosa sul carattere necessariamente afflittivo della pena e sulle nuove possibilità, che pur sarebbero a nostra disposizione, di tornare a rimodularla con intelligenza in tal senso (senza violare il senso di umanità). La mia opinione, insomma, è netta: a tal punto il sistema penale è ormai privo di credibilità, che quando i giudici riescono a punire qualche reato, è come se si sentissero in colpa: di qui il dilagare delle attenuanti e la ricerca affannosa di misure di pena alternative. Di qui la (paradossalmente coerente) richiesta di grazia per la professoressa Dosio, che, avendo coraggiosamente richiesto di scontare la pena cui è stata impeccabilmente condannata, avrebbe per ciò stesso dato la prova provata di non meritarla. Copertura assicurativa per detenuti e internati impegnati in lavori di pubblica utilità eclavoro.it, 15 gennaio 2020 L’Inail, con circolare n. 2 del 10 gennaio 2020, ha comunicato l’estensione della copertura assicurativa contro le malattie e gli infortuni prevista dall’articolo 1, comma 312, L. 208/2015, ai detenuti e agli internati impegnati in lavori di pubblica utilità ai sensi dell’articolo 20-ter, L. 354/1975, a decorrere dall’anno 2020. La circolare illustra le novità introdotte dall’articolo 2, comma 2, D.Lgs. 124/2018, che ha integrato, a decorrere dal 2020, la dotazione del Fondo finalizzato a reintegrare l’Inail dell’onere per la copertura degli obblighi assicurativi per alcune tipologie di soggetti e ha esteso la copertura assicurativa anche ai detenuti e agli internati impegnati in lavori di pubblica utilità. Sono, pertanto, coperti dal Fondo i seguenti soggetti: beneficiari di ammortizzatori e di altre forme di integrazione e sostegno del reddito, coinvolti in attività di volontariato a fini di utilità sociale in favore di comuni o enti locali; detenuti e internati impegnati in attività volontarie e gratuite; stranieri richiedenti asilo in possesso del relativo permesso di soggiorno; soggetti impegnati in lavori di pubblica utilità, compresi detenuti e internati. Prescrizione, uccidere la legge Costa? L’ultimo dilemma del Pd di Errico Novi Il Dubbio, 15 gennaio 2020 Domani in commissione giustizia alla Camera. Il Guardasigilli chiede la prova di lealtà: dire sì all’emendamento grillino che sbarra al testo di fi la via dell’Aula. I Dem guadagnano tempo e fanno slittare il voto di un giorno. Cosa farà il Pd? Intanto ieri gli uomini di Zingaretti hanno chiesto e ottenuto lo slittamento di un giorno del voto, inizialmente previsto per oggi. Ufficialmente per rientrare in tempo dal seminario di Rieti, di fatto anche per poterci ragionare meglio. Devono decidere se appoggiare la modifica-killer proposta dai 5 Stelle: un emendamento soppressivo della stessa legge Costa. Approvare quella modifica è il solo modo per impedire che il testo del deputato azzurro approdi in aula. Ed è proprio lui, Enrico Costa, a rivolgere il seguente appello: “Lasciamo i grillini soli con il loro emendamento, tutti insieme costruiamo una legge credibile e civile”. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, sabato scorso, ha chiesto esattamente il contrario: “Basta minacce di votare le proposte dell’opposizione, è più leale misurarsi su quelle della maggioranza”. Destinatari di sicuro i renziani - assai tentati di mandare avanti la legge forzista per tenere gli alleati sulla graticola - ma pure i dem, ovviamente. In teoria anche a loro potrebbe far comodo continuare a tenere in piedi la proposta degli azzurri. Almeno fino a quando il dimezzamento della nuova prescrizione (cioè la limitazione della sua efficacia alle sole sentenze di condanna) non sarà formalmente trascritta in un ddl. In ogni caso la partita di domani si giocherà sul filo di lana. La commissione è composta da 45 deputati: e pentastellati più dem ne totalizzano in tutto 22, uno in meno della maggioranza assoluta. Se davvero Italia viva voterà con l’opposizione e il Pd coi grillini, saranno decisivi Federico Conte di Leu, autore del lodo sulla prescrizione e sulla cui lealtà non c’è da dubitare, e soprattutto Francesca Businarolo, presidente della commissione e 5 Stelle doc. Forza Italia ricorda che “in casi del genere i presidenti di commissione non votano”. Il pari terrebbe viva la legge Costa, pronta ad atterrare in aula dopo le Regionali. Bonafede si augura ben altro esito. Martedì scorso ha già depositato a Palazzo Madama la legge di conversione del decreto intercettazioni. In pochi giorni si decide: definitiva schiarita sulla giustizia o ritorno della maggioranza nel tunnel. Sulla prescrizione i renziani votano col centrodestra di Rocco Vazzana Il Dubbio, 15 gennaio 2020 Si ricompattano Pd e M5S ma la maggioranza di governo perde pezzi. Il Pd si fida di Giuseppe Conte e Alfonso Bonafede. Italia Viva no. Per questo oggi i dem, a differenza dei renziani, voteranno in commissione Giustizia l’emendamento del Movimento 5 Stelle che sopprime la proposta Costa per l’abrogazione della nuova legge sulla prescrizione. L’extra time richiesto dal partito di Zingaretti - 24 ore in più per riflettere sul da farsi - ha prodotto il risultato sperato dai grillini, ma ha creato nuove crepe in seno alla maggioranza. “Nel confronto in atto sui temi della giustizia, la novità davvero rilevante sta nelle proposte formulate dal presidente del Consiglio per giungere, finalmente, a tempi certi nei e dei processi”, dice Walter Verini, responsabile Giustizia del Pd. “Nel ddl sulla riforma del processo penale, infatti, saranno contenute norme che riguarderanno, tra l’altro, tempi certi tra la chiusura delle indagini e l’avvio del dibattimento; velocizzazione delle notifiche; allargamento del patteggiamento” e tante altre ancora, sottolinea il deputato democratico, convinto che con l’approvazione di un “pacchetto” di questo tipo si potrebbe “davvero giungere a tempi certi e ragionevoli dei processi”. E i cambiamenti previsti anche sulla prescrizione, assicurano i dem, certificano un cambiamento d’approccio da parte degli alleati, finalmente disponibili al confronto. “Sarebbe importante”, chiosa Verini, “che tutte le forze della maggioranza, ma anche altre forze parlamentari, deponessero le armi della propaganda e le bandierine e cogliessero un’occasione importante per riformare ambiti fondamentali della giustizia italiana”. Ma Italia Viva non sembra affatto intenzionata a deporre le armi e annuncia un “voto contrario alla soppressione” della pdl Costa. Ovviamente neanche sembrano entusiaste della sintonia ritrovata in casa giallo- rossa sul tema della giustizia. “L’innovativo corso del “nuovo” Pd si inaugura sulla giustizia, con l’adesione totale alle tesi di Bonafede sulla prescrizione”, commenta il deputato azzurro Enrico Costa, autore della proposta di legge, composta da un solo articolo, che prevede l’abrogazione della riforma Bonafede. “Il Partito democratico non ha una linea autonoma sulla giustizia, ma si adagia su quella di Davigo e dei Cinque stelle. Non c’era bisogno di stare due giorni in un’abbazia per partorire queste grandi novità”, aggiunge, ironizzando sul “conclave di Contigliano”, convocato da Zingaretti per riflettere sulle prospettive dell’alleanza di governo. Con questo quadro, la partita sulla prescrizione dovrebbe concludersi con una vittoria di misura dell’asse giallo- rosso: 23 a 22, sempre che la presidente grillina della Commissione, Francesca Businarolo, decida di fare uno strappo alla prassi parlamentare, partecipando al voto. Per dare una prospettiva al matrimonio giallo-rosso - da estendere in maniera organica in tutta Italia nei desiderata di Franceschini - il Pd ha dunque scelto di ingoiare il rospo della prescrizione, generando però nuovi malumori interni. “Mi auguro che il Pd non vada avanti sulla linea dell’intesa con il M5s sulla prescrizione, che non faccia passi in avanti verso quello che è un imbarbarimento del Paese”, diceva fino a ieri il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, intervenendo al seminario organizzato dal suo partito “Davvero possiamo immaginare che così sia un Paese civile?”. La risposta del suo partito è, evidentemente, “sì”. Prescrizione: i fake di Ermes Antonucci Il Foglio, 15 gennaio 2020 Perché non è vero che si applica solo agli imputati colpevoli, come sostengono al Fatto Roma. “La prescrizione si applica solo agli imputati colpevoli”. È l’ultimo mantra alimentato dai giustizialisti per difendere la riforma Bonafede che abolisce la prescrizione dopo una sentenza di primo grado, aprendo la strada a processi eterni. Lo ha ripetuto ancora una volta il capofila del fronte forcaiolo, Marco Travaglio, sul Fatto quotidiano la scorsa settimana: “La prescrizione nel processo riguarda i colpevoli, non gli innocenti: se il giudice ritiene l’imputato innocente, ha l’obbligo di assolverlo, non di prescriverlo”. A spalleggiare Travaglio ci ha pensato anche Peter Gomez, direttore del sito del Fatto, che su Twitter ha scritto: “Ai sensi del nostro codice e come ribadito più volte dalla Cassazione, il giudice, durante il processo, non può dichiarare prescritto il reato di chi è ritenuto innocente, ma ha l’obbligo di pronunciare sentenza di assoluzione. Questi sono i fatti. Le opinioni poi sono libere”. Peccato che i fatti siano completamente diversi, e per capirlo basterebbe leggere l’articolo 129, comma 2, del codice di procedura penale, che recita: “Quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta”. Ciò che Travaglio, Gomez e Co. ignorano (o fingono di ignorare) è il significato del termine “evidente”. Per fortuna, però, ci ha pensato la giurisprudenza della Cassazione a chiarire a tutti, anche ai manettari, il senso dell’articolo in questione. Come sottolineato, infatti, dalle Sezioni unite della Cassazione, “in giurisprudenza è stato costantemente affermato, senza incertezze o oscillazioni di sorta”, che il giudice è obbligato ad assolvere l’imputato, e a non dichiarare prescritto il reato, “soltanto nei casi in cui le circostanze idonee a escludere l’esistenza del fatto, la sua rilevanza penale e la non commissione del medesimo da parte dell’imputato emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, al punto che la valutazione da compiersi in proposito appartiene più al concetto di “constatazione” (percezione ictu oculi), che a quello di “apprezzamento”, incompatibile, dunque, con qualsiasi necessità di accertamento o approfondimento” (sentenza n. 35490 del 2009). In altre parole, aggiungono gli ermellini, “l’evidenza richiesta dall’art. 129, comma 2, c.p.p. presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara e obiettiva da rendere superflua ogni dimostrazione oltre la correlazione a un accertamento immediato, concretizzandosi così addirittura in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l’assoluzione ampia”. Ciò significa, al contrario delle fake news spacciate da Travaglio, che il giudice è obbligato ad assolvere l’imputato, e a non dichiarare prescritto il reato, solo se nel momento in cui è maturata la prescrizione gli elementi che rivelano l’innocenza dell’imputato emergono in maniera evidente, incontrovertibile, tanto da dover essere soltanto “constatati”. Di conseguenza, quando un imputato viene prosciolto per prescrizione, ciò non significa che egli è colpevole, ma soltanto che in quel momento non siano emerse prove “evidenti” della sua innocenza: nulla esclude che, approfondendo i fatti, cioè andando oltre la constatazione di una “evidenza”, il giudice possa rintracciare elementi che scagionano l’imputato, né che successivamente possano emergere le prove che confermano l’innocenza dell’imputato. Il bello è che, prima di diffondere ancora una volta la bufala, Travaglio ha pure avuto la solita modestia di affermare che “il guaio del dibattito sulla prescrizione, come su ogni aspetto della giustizia, è che i politici e gli opinionisti che se ne occupano sono perlopiù dei totali incompetenti”. Viste le inesattezze scritte, praticamente una confessione. Prescrizione abolita. E adesso aboliranno l’appello di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 15 gennaio 2020 La riforma Bonafede è un cavallo di Troia, i registi dell’operazione già spiegano che occorre togliere il diritto all’impugnazione. Sognano il mondo in cui Tortora sarebbe morto da camorrista, è questa la vera partita. Per il Ministro Bonafede (a differenza dei suoi ben più smaliziati suggeritori e sostenitori) la prescrizione è solo una battaglia mediatica. Postulata la equazione “prescrizione = impunità dei potenti”, deve poter dire: abbiamo sconfitto l’impunità dei potenti. Né più né meno che la “sconfitta della povertà” con il reddito di cittadinanza. Infatti lo dice, e rivendica - iddio lo perdoni - un Paese divenuto più civile dal 1 gennaio 2020. Ma è intanto cresciuta nella opinione pubblica e nel Parlamento, in questi lunghi mesi di battaglia politica, la consapevolezza o almeno il sospetto che quella equazione sia una truffa. Infatti lo è. La prescrizione per il suo 75% libera le già collassate scrivanie di PP.MM. e Giudici da centinaia di migliaia di fascicoli per reati minori, sotto il cui peso altrimenti il nostro sistema giudiziario affonderebbe definitivamente. Una volta si otteneva questo indispensabile repulisti in modo più limpido e democratico, cioè con ricorrenti provvedimenti di amnistia dei quali almeno ci si assumeva la responsabilità politica; oggi, riformato irresponsabilmente l’istituto dell’amnistia, ci pensa la prescrizione, arbitrariamente gestita dalle Procure della Repubblica. Non c’è un solo magistrato italiano che sarebbe disposto a vedersi privato di questa manna dal cielo, una vera e propria bombola di ossigeno per l’enfisematoso sistema giudiziario nostrano. Provate a chiederlo al Presidente dell’Anm Luca Poniz, inflessibile sostenitore di questa riforma sciagurata, e vediamo cosa vi risponde. Se la eliminazione della prescrizione è imposta da superiori esigenze di giustizia, dal rispetto delle vittime del reato, dalla lotta contro ogni impunità, come mai di quel 75% del fenomeno ce ne fottiamo tutti bellamente, i magistrati per primi? Le vittime dei furti d’auto, reati in ordine ai quali addirittura si attrezzano istruttorie simulate, sono meno vittime, che so, di quelle di un fumoso traffico di influenze? Per le prime non sanguina il cuore a nessuno, dott. Poniz? Invece, la prescrizione diventa farina del diavolo appena pronunciata una sentenza di primo grado. Il P.M. decide, letteralmente, quali procedimenti far silenziosamente abortire per prescrizione, liberandosi la scrivania a propria discrezione (con tanti saluti alle vittime di quei reati), e quali far proseguire fino ad un primo giudizio di merito. Se poi, per arrivarci, si tiene in sospeso la vita dell’imputato (e con lui le persone offese) 5 o 7 o 10 anni, per sovrappiù - secondo questi illuminati uomini di giustizia e di diritto - egli deve rimanere imputato senza più un limite di tempo. Vita natural durante, se necessario, in nome della Giustizia che deve fare îl suo corso. costi (all’imputato, s’intende) quel che costi. Qualunque persona di buon senso, debitamente informata, comprende che un sentimento elementare di giustizia imporrebbe l’esatto opposto. Se non ti sei fatto bastare un decennio o un quindicennio per pronunciarti definitivamente sulla mia imputazione, hai addirittura il dovere, etico e giuridico, di rinunziare alla tua potestà punitiva. La prescrizione opera solo se sono trascorsi questi tempi indecorosi senza una pronuncia definitiva. Ecco perché in Europa il problema non esiste: perché i processi durano quattro o cinque volte di meno, non certo perché in quei Paesi viga questo indecente principio pentastellato dell’imputato a vita! Ed infatti i registi del giustizialismo nostrano hanno ben altro in mente. Sanno perfettamente che questa sciagurata riforma sarà ulteriormente paralizzante, ma pensano: meglio così. Ci spiegheranno - già lo stanno facendo - che occorre ora sottrarre agli imputati il diritto di impugnazione, riducendolo ad ipotesi eccezionali, e con esso una serie di garanzie processuali, vissute come irritanti ed inutili rallentamenti del processo. Fino a ieri ci hanno raccontato che gli imputati senza il miraggio della prescrizione non faranno più appello. Quando anche questa grottesca e stupida falsità sarà disvelata (cioè subito), diranno - già lo dicono - che bisogna proprio toglierglielo, all’imputato, il vizio di impugnare le sentenze. Che si facciano bastare le sentenze di primo grado, già fin troppo generose (poi con calma si lavorerà pure a quelle). Il mondo che costoro sognano è quello nel quale Enzo Tortora avrebbe chiuso la sua vita da camorrista spacciatore di morte. Non è il nostro, e non deve diventare - non diventerà - quello in cui dovranno vivere i nostri figli. Questa è la vera partita che siamo chiamati tutti a giocare, la prescrizione è solo un cavallo di Ecco perché oggi il Partito democratico, che ancora nicchia e traccheggia, confuso ed intimorito, è chiamato ad una scelta netta contro questa assurda ossessione paranoide fattasi legge. Perché la partita sulla prescrizione è in realtà la partita tra chi vuole chiudere i conti con il processo accusatorio del 1988, e chi vuole difenderlo ed anzi rafforzarlo in nome dell’art. 111 della Costituzione. La Riforma Bonafede della prescrizione deve essere abrogata, non c’è più tempo per l’incertezza. *Presidente Unione Camere Penali Tempo senza giustizia di Giuseppe Losappio* Il Foglio, 15 gennaio 2020 L’irragionevolezza della riforma della prescrizione va contro ogni principio costituzionale. I dati, elusi dal legislatore, e l’esperienza quotidiana della giustizia penale documentano che il rapporto fra tempo e processo penale ricorda il comportamento dei gas. Come le particelle di “etere” tendono a occupare tutto lo spazio a disposizione, così il processo penale tende a occupare tutto il tempo reso disponibile dalla prescrizione. L’uno cresce quanto si dilata l’altra. È una specificità della realtà nazionale che implica tra le altre tre conseguenze difficilmente eludibili: rende il nostro sistema penale pressoché non confrontabile con gli ordinamenti dei paesi nei quali il giudizio dura anche solo un terzo rispetto a quello italiano; falsifica il principale argomento a favore della riforma, che nelle intenzioni dei sostenitori dovrebbe accelerare il processo; avvalora, all’opposto, il timore che la “riforma” esponga l’imputato al rischio di un giudizio penale senza fine. Per quest’ultima ragione, in particolare, la “nuova” prescrizione in vigore dal 1° gennaio traccia un solco profondo con le secolari consolidazioni della cultura europea, con il paradigma garantista e con la Carta costituzionale. La riforma detta un tempo senza ragione, sorretta da ragioni senza giustizia. Tempo senza ragione. Il tempo è inesorabile. Difficile dire meglio di Shakespeare: “Come incalzano le onde verso la spiaggia petrosa. Così gli istanti nostri si affrettano a lor fine. Mutando ognuno luogo con quello che innanzi corre, In affannosa sequela essi urgono avanti”. Non meno di tutte le altre realtà mondane, il diritto e il delitto sono consumati dal tempo. Più degli altri “diritti”, il diritto penale “sente” il tempo che passa non solo per l’intima correlazione tra la responsabilità dell’autore con uno specifico, irripetibile fatto storico che allo stesso autore dev’essere personalisticamente attribuibile. Il divenire sfibra, fino a dissolvere, le trame del “diritto punitivo”, sia dal punto di vista dell’attesa di giustizia della “società”, sia dal punto di vista dell’autore e della vittima. Difficile dire meglio di Blaise Pascal: “Il tempo guarisce i dolori e le polemiche, perché mutiamo, perché non siamo più la stessa persona. Né l’offensore né l’offeso sono gli stessi”. Ragioni senza giustizia. Perseguire e punire, sempre e comunque, qualsiasi reato anche decine di anni dopo la commissione è ingiusto. Una metafora mitologica chiarisce efficacemente questo aspetto cruciale del tema. Crono, dio del tempo, per fermare Urano, che in un ciclo infinito fecondava Gea e ne assassinava i figli, lo rende sterile. L’autorità accettabile è quella che subisce gli effetti del tempo. Non è accettabile l’autorità assolutisticamente padrona dell’esistenza altrui, come denunciò Madame de Maintenon (“Le roi prend tout mon temps”). Per contro, ogni potere è legittimo se “subisce” una qualche ragionevole misura. Senza questo limite il processo resta esposto al rischio, di per sé inaccettabile, che l’azione penale, per ogni reato, per tutti i reati, in caso di assoluzione o di condanna, si prescriva quando piace al “Procuratore del Re”. Occorre un limite, occorre un “tetto”. Perseguire e punire, sempre e comunque, qualsiasi reato anche decine di anni dopo la commissione è ingiusto e profondamente in contrasto con la Costituzione. La soluzione della legge n. 3 del 2019 stride con la natura sostanziale dell’istituto, sancita dalla Consulta, ed è comunque inadeguata sotto il profilo dei criteri di proporzionalità e ragionevolezza. Se alla cosiddetta legge ex Cirielli è stato dai più contestato di avere eretto la dimensione sostanziale della prescrizione a socio tiranno di quella processuale, la riforma recide il legame tra prescrizione e diritto penale sostanziale e, quindi, i princìpi di precisione della legge penale, di responsabilità penale, di colpevolezza. Come faceva intendere Pascal, l’imprescrittibilità processuale di tutti i reati contrasta anche con la finalità rieducativa della pena. È irragionevole che la prescrizione, fino alla sentenza di primo grado ovvero al decreto penale di condanna, operi secondo un criterio di tendenziale proporzionalità diretta in rapporto alla gravità dell’illecito, mentre con l’introduzione della fase di appello, ovvero con l’opposizione, nel processo, si perda ogni traccia di questa correlazione e per ogni reato venga adottata l’opzione che fino a quel punto è riservata solo ai delitti in assoluto più gravi. In ogni caso, è palese l’assenza di proporzione in una disciplina che impone a tutti gli imputati, quale che sia il reato commesso, dalla strage all’esercizio molesto dell’accattonaggio (art. 663-bis c.p.), un giudizio potenzialmente infinito. È una soluzione inconciliabile con il principio del giusto processo, che annichilisce l’esigenza sottesa al medesimo articolo 111 della Carta di un giudizio non “vincolato” solo a un’endemica e incontrollabile discrezionalità e che abbia una durata compatibile con la conservazione delle prove. *Avvocato, professore di Diritto penale Università degli studi di Bari “Aldo Moro” La scelta del procuratore di Roma: il Csm stia al riparo dalle correnti di Armando Spataro La Repubblica, 15 gennaio 2020 Il Consiglio Superiore della Magistratura assume le sue decisioni nelle assemblee plenarie sulla base di rapporti e proposte delle Commissioni referenti. Tra le commissioni con compiti più delicati c’è la “quinta”, per il conferimento di incarichi direttivi e semi-direttivi ai magistrati che ne fanno domanda dopo bandi di concorso. Ed è proprio in relazione a queste procedure che si agitano polemiche, accuse, recriminazioni, soprattutto nei confronti del Csm, quasi tutte gravitanti attorno alla denuncia di interessi e accordi correntizi che le condizionerebbero. Ne nascono ipotesi di modifica del sistema di elezione dei suoi componenti e la “vicenda Palamara-Ferri-Lotti”, esplosa lo scorso maggio, ha generato la impresentabile proposta di sorteggio per designare i componenti togati del Consiglio. Il 23 maggio dell’anno scorso, prima dell’emergere del caso citato, la V Commissione aveva trattato la pratica per la nomina del Procuratore della Repubblica di Roma, arrivando a formulare tre proposte: una in favore del procuratore generale di Firenze sostenuta da quattro componenti del Csm (due togati e due laici), e altre due rispettivamente per i procuratori di Palermo e di Firenze (ciascuno sostenuto dal voto di un membro togato). Gli elementi emersi nel corso delle indagini, tra cui le aspettative per le nomine oggetto di conversazioni intercettate, inducevano però la V Commissione a settembre scorso, a revocare le tre proposte e a riaprire la discussione, mentre cinque membri togati si dimettevano dall’incarico. Mutava, quindi, anche la composizione della Commissione: sostituiti due dei togati dimessi e, per normale rotazione, i due laici, solo due togati continuavano a farne ancora arte. Intanto nuovi esiti di indagini e conseguenti polemiche inducevano anche alte cariche istituzionali (tra cui il vice presidente del Csm) e magistrati (inclusa l’Anm) a ferme prese di posizione: il Capo dello Stato, a giugno, nel corso di un plenum straordinario, affermava la necessità di far comprendere alla pubblica opinione che magistratura e il Csm hanno “al proprio interno gli anticorpi necessari e sono in grado di assicurare nelle proprie scelte rigore e piena linearità”. E tutti i componenti del Consiglio sottoscrivevano un documento manifestando forte amarezza. A poco più di sette mesi dai fatti ricordati, la V Commissione ha ridiscusso la nomina del Procuratore di Roma, formulando di nuovo tre proposte: una in favore del procuratore di Palermo, sostenuta da due componenti del Csm (un togato e un laico), e altre due per il procuratore di Firenze e per il procuratore aggiunto di Roma (ciascuna sostenuta dal voto di un membro togato). La novità è costituita da due astensioni, quelle di un membro togato e di uno laico, e il quadro diventa di ancor più incerta comprensibilità rispetto al voto del 23 maggio. Certo non si può tacere sulla complessità dei criteri previsti dalla circolare del Csm per la nomina dei dirigenti delle Procure. Nella loro quadriennale successione, i Consigli subentranti tentano spesso di riscriverli, per migliorarne interpretazione e applicazione, tentando di ancorare a parametri oggettivi la selezione dei candidati da nominare. Ma anche il caso in questione dimostra che non sarà mai possibile eliminare una quota di discrezionalità nelle scelte. Nell’attesa di conoscere le motivazioni delle proposte, l’elevata professionalità dei tre candidati alla guida della più importante procura italiana, può tranquillizzare tutti, senza dimenticare che anche in altre occasioni il Csm ha dovuto prendere in considerazione proposte plurime e decidere con maggioranze esigue. Ma il futuro dibattito in assemblea plenaria sarà comunque necessario per comprendere la ragioni di tali divergenti scelte: la piena trasparenza del processo decisionale deve essere auspicata non solo a tutela del prestigio della magistratura e per fugare ogni rischio di polemica, ma anche perché il futuro Procuratore di Roma dovrà operare in condizioni di meritata e riconosciuta legittimità. Processi in calo e più rapidi. In arrivo 400 magistrati nei tribunali di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2020 Dai 50 di Roma ai 2 di Trento, il ministero della Giustizia ha messo nero su bianco le nuove piante organiche degli uffici giudiziari, ripartendo, distretto per distretto, i 402 nuovi magistrati destinati al merito (la Cassazione aveva già visto assegnati 70 nuovi consiglieri dall’aprile scorso). Un lavoro imponente, ora all’esame del Csm per il parere, soprattutto perché preceduto da una significativa ricerca sui dati, per capire meglio dove più urgente sarebbe stato il rafforzamento: “Non ci siamo limitati - spiega Barbara Fabbrini, capo Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria - a una valutazione statica con il saldo tra giudizi sopravvenuti e definiti, ma abbiamo preso in considerazione i flussi, in maniera più dinamica e prospettica. Come riferimento temprale, per esempio, sono stati valorizzati gli ultimi 5 anni, per potere considerare gli effetti della riforma della geografia giudiziaria”. In questa chiave un valore particolare hanno assunto elementi come il numero dei procedimenti iscritti su organico e i pendenti su organico che ha reso evidenti profonde differenze territoriali. Per le Corti d’appello, per esempio a fronte di un dato nazionale di 185 procedimenti iscritti per magistrato, se ne registrano 72 a Bolzano e 287 ad Ancona. Le differenze risultano ancora più marcate con riguardo alle pendenze: il numero dei procedimenti pendenti in rapporto all’organico varia da un minimo di 73 nella corte di Trento a un massimo di 612 in quella di Napoli. Non molto diverso il quadro dei tribunali. A fronte di un dato nazionale di 662 procedimenti iscritti e 745 procedimenti pendenti in rapporto all’organico totale, a Tivoli gli iscritti (1.146) superano di circa 4 volte quelli di Caltanissetta (298). A Tempio Pausania, il rapporto tra pendenze e organico è di 1.879 procedimenti, un valore di oltre 5 volte superiore rispetto a quello di Bolzano (348). Centrale, quanto alla durata il disposition time, calcolato rapportando il numero di procedimenti pendenti al 31 dicembre 2018 alla media dei procedimenti definiti nel triennio 2016-18. Su questa base, i più significativi punti critici sono in Corte d’appello, con valori nazionali del disposition time di 702 giorni per il civile e di 889 giorni per il penale, superiori di oltre due volte i corrispondenti valori dei tribunali. In particolare vengono in evidenza i 1.293 giorni di disposition time civile della sezione distaccata di Taranto, e, nel penale i 1.560 giorni e i 1.498 giorni di Napoli e Roma. Però, sarebbe assolutamente sbagliato, puntualizza Fabbrini, pensare alla giustizia italiana come ferma, se non in peggioramento. In ambito civile, sono 115 i tribunali (82%) e 25 le Corti d’appello (90%) che hanno fatto registrare una riduzione delle pendenze tra il 2018 e il 2014. Nello stesso periodo, l’arretrato si è ridotto in 117 tribunali (84%) e nella quasi totalità delle Corti d’appello (28). Miglioramenti anche nel penale. Nel 2018 ben 86 tribunali (61%) avevano pendenze inferiori a quelle del 2014; in 72 la riduzione è stata maggiore del 10% (dato nazionale); 67 tribunali (48%) nel 2018 avevano un disposition time penale inferiore a quello del 2014. Le pendenze si sono ridotte in 11 Corti d’appello, il disposition time in 15. Criminalità, 65mila beni sequestrati e confiscati in 8 anni. E nessuno sa quanto valgano di Adele Grossi Corriere della Sera, 15 gennaio 2020 Solo negli ultimi 8 anni, la nostra magistratura ha sequestrato o definitivamente confiscato un totale di 65.502 beni fra mobili, immobili, beni finanziari e aziende. Che fine fa tutta questa ricchezza? Dal momento del sequestro e sino alla confisca di secondo grado i beni sono gestiti dall’amministrazione giudiziaria; dalla confisca di secondo grado in poi, subentra invece un ente autonomo controllato dal ministero dell’Interno, creato nel 2010: l’Agenzia Nazionale per l’Amministrazione e la Destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati (Anbsc). Il compito dell’Agenzia è quello di gestire i beni sino alla loro destinazione, vale a dire il riutilizzo da parte della collettività. Gli immobili o le aziende, infatti, possono essere mantenuti al patrimonio dello Stato oppure trasferiti agli enti territoriali, che devono utilizzarli per finalità istituzionali, uffici pubblici o assegnarli, tramite bando pubblico, a realtà sociali in comodato d’uso gratuito. Quanti immobili e aziende sono finiti agli Enti - Dal 1982 - cioè da quando è stata emanata la legge Rognoni-La Torre, che per la prima volta ha previsto il reato di associazione mafiosa e la necessità di aggredire i beni degli appartenenti alle cosche - al 31 ottobre 2018, i beni immobili tornati alla collettività sono stati 15.037. Di questi, e al netto degli immobili andati distrutti o demoliti o di cui è stata revocata la destinazione, 2.208 sono stati mantenuti al patrimonio dello Stato, 757 sono stati venduti, 12.056 sono stati trasferiti agli enti. Restano invece ancora in mano all’Agenzia 17.318 immobili, perché la confisca non è definitiva o perché non è riuscita ancora a dargli una destinazione. Per le aziende: dal 1982 ne sono state destinate 944, mentre 3.023 risultano ancora in gestione. Come avviene il processo di destinazione - Per agevolarne i meccanismi, dal 2016, i beni vengono proposti agli enti interessati, mediante delle conferenze dei servizi telematiche, su una piattaforma ad hoc: “Open Regio”. Ad oggi sono state indette 28 conferenze dei servizi che hanno interessato in particolare Sicilia, Calabria, Campania, Puglia, Emilia Romagna, Lazio, Toscana, Lombardia, Veneto. Una volta assegnato, l’Ente deve attivarsi affinché il bene sottratto alla criminalità torni concretamente alla collettività. Succede spesso che l’immobile, disabitato da anni, richieda interventi di ristrutturazione, o i capannoni siano ormai fatiscenti, e che i Comuni di piccole dimensioni non abbiano le risorse per metterli a posto e riutilizzarli. In sostanza, sebbene la destinazione sia l’ultimo atto di un processo che toglie al mafioso per restituire ricchezza allo Stato e ai cittadini, talvolta finisce con il rappresentare un costo insostenibile. Sperpero della ricchezza: aziende fallite e immobili inutilizzati - Cominciando dalle aziende, il destino di quelle restituite alla collettività, nel 93% dei casi, è la loro messa in liquidazione. Nel 2018 l’Agenzia ha fatto il punto sugli immobili destinati: 11.948 risultavano assegnati agli enti territoriali che, contattati per conoscere lo stato del bene, hanno risposto solo in 1.800. Risultato: 609, ossia il 34%, giacevano inutilizzati. “La percentuale è destinata ad aumentare”, scriverà la stessa Agenzia nella sua relazione poiché, se per gli altri 10.148 beni non è stata nemmeno data una risposta, forse è perché non sarebbe stata positiva. In realtà, stando al Codice Antimafia, il destino dei beni dovrebbe essere facilmente monitorabile sia dall’Agenzia che dai cittadini poiché gli enti sono tenuti a pubblicare in un’apposita sezione dei propri siti istituzionali, aggiornata con cadenza mensile), tutte le informazioni sui beni acquisiti: consistenza, utilizzo e, in caso di assegnazione a terzi, i dati identificativi del concessionario e gli estremi, l’oggetto e la durata dell’atto di concessione. La mancata pubblicazione è addirittura sanzionata, eppure sono pochissimi gli enti che rispettano queste regole. Da Palermo a Trieste: cosa stanno facendo dei beni assegnati? - A Palermo, l’Agenzia conta 1991 immobili destinati, ma sul sito istituzionale ne risultano 846, di cui 177 dichiarati inutilizzati e 83 occupati abusivamente. A Caltanissetta su 270 immobili destinati, sul sito del Comune se ne contano appena 39 e per 24 di questi non appare alcun dato sull’utilizzazione. A Monreale pare siano stati destinati 130 immobili, ma sul sito se ne riportano zero. Comune di Motta Sant’Anastasia (Catania) 230 immobili destinati, recensiti sul sito istituzionale zero. Comune di Lamezia Terme 212, recensiti sul sito 21, dichiarati inutilizzati 6. Ultimo aggiornamento tre anni fa. Comune di Rosarno: su 113 destinati, sul sito dell’ente se ne comunicano 51, di cui 33 inutilizzati. Il Comune di Bologna teoricamente ne gestisce 13, ma sul sito ne risultano 2, di cui uno non ancora assegnato. Per i 9 immobili destinati al Comune di Trieste, la pagina corrispondente all’elenco è in bianco. In Veneto, il Comune di Bussolengo (Verona), risulta destinatario di 26 immobili, ma nessuna informazione risulta sul sito. Ma l’Agenzia e il Ministero dell’Interno lo sanno? 470 giorni solo per comunicare all’Agenzia l’avvenuta confisca - Quando il bene è stato assegnato all’ente pubblico, l’Agenzia ne dovrebbe monitorare il destino per due anni, e nel caso in cui il bene non venisse destinato all’uso per il quale era stato affidato, l’Agenzia dovrebbe riprenderselo. Di fatto, però, rarissimi sono i casi di revoca e il motivo è che anche la revoca ha un costo, e l’Agenzia ha già un mare di problemi nella gestione di tutta la ricchezza che maneggia a causa di croniche difficoltà nello stesso scambio di informazioni. Stando agli ultimi dati elaborati nel 2016 dalla Corte dei Conti, fra la confisca di un bene e la sola comunicazione all’Agenzia Nazionale trascorrono in media 470 giorni, fino a punte di 5.400 giorni, vale a dire 15 anni. A correggere il tiro, fin dal 2011, avrebbe dovuto provvedere un sistema informatico per la gestione dei dati. “Appare inspiegabile - scrive la Corte dei Conti nel 2016 - che, nonostante i notevoli finanziamenti erogati per la realizzazione dei sistemi e applicativi informatici, siano ancora limitate a meno del 10 per cento le comunicazioni per via telematica tra gli uffici giudiziari e l’Agenzia”. Ignoto il valore di questi immobili - Eppure la relazione parlamentare che accompagnava il provvedimento di istituzione dell’Agenzia era chiara: “Se non compressi drasticamente i tempi intercorrenti tra l’iniziale sequestro e la definitiva destinazione dei beni, si rischia di provocare una crisi irreversibile nel sistema di contrasto alle mafie, con patrimoni rilevanti destinati all’abbandono e riflessi negativi per la credibilità delle istituzioni”. Del resto pure l’entità di questo “patrimonio rilevante” è abbastanza ignota. Quanto valgano in denaro tutti gli immobili in capo all’Agenzia nessuno lo sa. Il dato mancava nel 2016 e manca oggi. La spiegazione: gli amministratori giudiziari spesso non stimano il valore dei beni perché fra il sequestro, la confisca e la destinazione possono passare anche dieci anni, e pertanto la stima iniziale non corrisponderebbe più a quella finale. In pratica se ne lavano le mani. I dati nel 2016 erano stati richiesti dalla Corte dei Conti al Ministero dell’Interno che, solo per il periodo 2009-2015, aveva comunicato un valore di oltre 5.306.000 euro per un totale di 14.913 immobili confiscati. Magistrati, il Consiglio di Stato può richiedere al Csm di rivedere le nomine di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2020 Corte di cassazione, Sezioni unite, sentenza 14 gennaio 2020, n. 413. Il Consiglio di Stato può dare indicazioni vincolanti al Consiglio superiore della magistratura perché riveda la sua valutazione sulla scelta dei candidati al conferimento di funzioni. I giudici di Palazzo Spada così facendo non superano il loro potere giurisdizionale, perché non invadono la sfera di azione riservata ad un organo di rilevanza costituzionale come il Csm, lasciando a quest’ultimo la definizione dei rapporti controversi. Le Sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza 413 depositata ieri, ha considerato inammissibile il ricorso di Maurizio Romanelli, ex Pm di Milano e oggi al coordinamento del pool anticorruzione della procura di Milano. Il 28 luglio 2016, Romanelli era stato nominato dal Csm procuratore nazionale antimafia aggiunto, dopo una valutazione dei “curricula” degli altri aspiranti. Una scelta che aveva fatto scattare il ricorso della collega Maria Vittoria De Simone, che aveva chiesto anche la nomina di un commissario ad acta. Una mossa che ha portato alla sua nomina, il primo marzo scorso, come vice capo di Federico Cafiero De Raho vertice della Dna. Risultato ottenuto dopo circa due anni, e dopo una prima sentenza contraria del Tar e due verdetti favorevoli del Consiglio di Stato, con l’ultimo del quale (108/2019) i giudici amministrativi imponevano al Csm di rispettare la prima sentenza e rivedere la nomina di Romanelli, perché basata su una valutazione comparativa, incongrua e in parte contraddittoria. In particolare l’organo di autogoverno delle toghe aveva valorizzato le funzioni semi-direttive di Romanelli e la vasta e apprezzata esperienza internazionale, senza chiarirne però - ad avviso del Cds - la rilevanza in relazione ai parametri richiesti. I giudici amministrativi avevano, infatti, imposto l’obbligo di valutare, con una priorità stabilita per legge, le capacità organizzative e l’esperienza nel trattare procedimenti di criminalità organizzata. Con l’adesione del Csm al giudicato c’era stato il ricorso di Romanelli contro l’organo di autogoverno delle toghe, la De Simone e il ministero della Giustizia. Per la Cassazione non c’è stata però la violazione dei limiti esterni della giurisdizione. Palazzo Spada può legittimamente sindacare le ragioni di coerenza dei criteri nella selezione dei magistrati adatti a svolgere gli incarichi e le funzioni direttive alle quali devono essere assegnati. La stessa sentenza impugnata precisa che non compete al giudice dell’ottemperanza attribuire la preferenza all’uno o all’altro dei candidati e neppure esprimere un giudizio di condivisione o meno sull’operato del Csm, che esuli dal riscontro del vizio di legittimità, nello specifico già accertato nel giudizio precedente a quello di ottemperanza. Nel caso esaminato “la definizione dell’assetto dei rapporti controversi non è stata operata direttamente dal Consiglio di Stato ne lo stesso ha nominato un commissario ad acta”. Gli atti sono stati restituiti al Csm per una nuova valutazione in linea, come avvenuto, con il giudicato. Una decisione che resta nei confini dell’interpretazione per verificare o meno la violazione di legge. Senza una radicale stravolgimento di norme. Misure cautelari: alle sezioni unite la necessità dell’interrogatorio di garanzia di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 14 gennaio 2020 n. 1243. Saranno le sezioni unite a stabilire se in caso di applicazione di una misura cautelare coercitiva da parte del tribunale, in accoglimento dell’appello del Pm contro la decisione del Gip, sia o meno necessario procedere all’interrogatorio di garanzia ai fini della sua efficacia. I giudici della sesta sezione penale, con la sentenza 1243, chiedono al Supremo collegio di sciogliere i dubbi su una questione ermeneutica di natura processuale sulla quale si registra un contrasto nella corte di legittimità. La Sezione remittente era impegnata a dare una risposta al ricorso di un segretario comunale e presidente dell’Unione dei Comuni, indagato per concussione continuata. La difesa contestava la scelta del tribunale di respingere la richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere, che era stata applicata all’indagato dallo stesso tribunale, in seguito all’appello della pubblica accusa, contro l’ordinanza del Gip. Per il ricorrente la misura non aveva efficacia, perché imposta senza l’interrogatorio previsto dall’articolo 294 del Codice di rito penale. Un passaggio che andava fatto perché l’udienza camerale davanti al Tribunale della libertà non equivale ad un giudizio di cognizione piena, visto che i diritti della difesa e il “patrimonio conoscitivo del giudice sono limitati”. I giudici del rinvio danno conto di orientamenti opposti. Secondo una prima tesi l’interrogatorio non sarebbe necessario, in quanto il provvedimento emesso in sede di appello cautelare è preceduto dall’instaurazione di un contraddittorio pieno, finalizzato ad approfondire prima tutti i temi dell’azione cautelare, anche attraverso i contributi forniti dalla difesa. Un principio di segno opposto afferma invece la necessità dell’interrogatorio di garanzia della persona sottoposta alla misura, a meno che non sia già iniziato il dibattimento. E in caso di mancata celebrazione la misura cautelare perde efficacia. La sezione remittente, propende, con il supporto delle sentenze della Consulta, per la necessità dell’interrogatorio, soprattutto per la sua funzione difensiva. Ma l’ultima parola spetta alle Sezioni unite. In Calabria sono tutti mafiosi, fango dell’Espresso dopo l’inchiesta di Gratteri di Tiziana Maiolo Il Riformista, 15 gennaio 2020 Padri, mogli, fratelli, suoceri, amici e vicini di casa. Non era difficile profetizzare, dopo la retata del 19 dicembre e dopo il siluro del Fatto quotidiano al candidato Cinque Stelle, che in Calabria si sarebbe aperta la caccia mediatico-giudiziaria a un’intera classe politica. Anche tramite i parenti (non si sa fino a quale grado) dei candidati. Non si guarda in faccia a nessuno, nessun partito, con sprezzo del pericolo. Ha provveduto l’Espresso che, pur sempre meno agguerrito, ha dedicato quindici pagine alla Calabria, naturalmente intitolandole alla ‘ndrangheta, in vista delle elezioni del prossimo 26 gennaio. E lo strano è che ormai, come ci dicono e scrivono ogni giorno tanti improvvisati storiografi a supporto delle inchieste giudiziarie, questa forma di criminalità si sarebbe trasferita al nord, fino alla punta estrema della Val d’Aosta. Pure non si può nominare la Calabria senza identificarla con la ‘ndrangheta. La tentazione è sempre forte. Nella campagna elettorale per l’Emilia, la regione gemella nell’appuntamento del 26, si parla di buona o cattiva amministrazione, di risultati da collegare solo a questioni locali o a problemi politici nazionali, di programmi. Addirittura del Salvini di turno da esorcizzare. Al massimo, se proprio vogliamo andare sul piano giudiziario, di Bibbiano e di bambini sottratti alle famiglie naturali. Non si criminalizzano i parenti dei candidati, e neanche si dice che, se una lista è “pulita”, non è perché è composta di persone per bene, ma perché “…la vittoria appare sicura e i poteri occulti preferiscono presentare le loro richieste a giunta fatta”. In Calabria invece è così. E questo è il messaggio per Jole Santelli, candidata al ruolo di governatore del centrodestra, rispetto alla quale, evidentemente, il grande circo giudiziario e mediatico non è riuscito a trovare parenti né vicini di casa che possano gettare ombre. Quindi ci si prepara al “dopo”. Non sono così fortunati gli uomini del Pd. Citiamo in modo anonimo gli esempi che l’Espresso sciorina con nomi e cognomi, risparmiando solo la riproduzione delle impronte digitali. C’è un candidato che ha il torto di essere figlio di un altro che è stato sindaco ai tempi del “boia chi molla” e che ha un fratello indagato. Un’altra ha il padre condannato. Poi ce ne è uno che addirittura è considerato “vicino” a persona coinvolta nell’inchiesta sui rimborsi ai consiglieri regionali. E un altro contiguo a un imprenditore coinvolto in un’inchiesta di mafia, anche se poi assolto. Purtroppo, par di capire. È rimasto invece fuori dalle liste - e in questo caso ci pare giusto farne il nome - Luigi Incarnato, arrestato nella retata organizzata dal procuratore Nicola Gratteri, anche se nel frattempo il tribunale del riesame lo ha già scarcerato. A tal proposito va detto che non è andata così per l’avvocato Giancarlo Pittelli, finito nella stessa retata del 19 dicembre. All’udienza del riesame ha reso dichiarazioni spontanee in videoconferenza durata cinque ore dal carcere di Nuoro, e al termine, proprio ieri, il tribunale ha confermato la sua detenzione in carcere, anche se ha derubricato il reato a “concorso esterno” nell’associazione mafiosa. Un altro colpettino, comunque, alla solidità dell’inchiesta. La quale, proprio come quella parallela giornalistica dell’Espresso, parte da un assunto. È vero, dice, che ormai la ‘ndrangheta si è trasferita al nord, dove esistono mercati finanziari più appetitosi. Ma ci sono pur sempre qui in Calabria i “capi invisibili”, quelli come l’avvocato Pittelli accusati di fungere da cerniera tra i due mondi, quello degli ignoranti montanari calabresi e quello degli uomini del nord in grisaglia con il master alla Bocconi. Non a caso nel “portafoglio contatti” dell’avvocato calabrese ci sono nomi come quello di Fabrizio Palenzona, ex numero due di Unicredit, il cui nome viene buttato lì, insieme a quello di Tronchetti Provera, quasi a casaccio. E chi deve intendere, intenda. La sintesi di questa triste storia sta nell’ancor più disperante titolo: “Calabrexit”, che pare quasi un invito a scappare, e invece fa quasi venir voglia di tornarci, nella più bella e tragica regione italiana. Se non altro per un piccolo sfizio, per guardare in faccia la sardina Jasmine, che secondo l’Espresso è l’unica speranza di un’intera regione, la quale ha formulato il seguente profondo pensiero politico, in vista delle elezioni: “Abbiamo dato solo un’indicazione di voto, molto precisa: non votare Jole Santelli”. Forza Calabria, vien da dire. Altro che Calabrexit. Calabria. Violenza di genere, ecco il docu-film prodotto dall’Osservatorio L’Avvenire di Calabria, 15 gennaio 2020 Oggi la presentazione ufficiale a Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale della Calabria. L’Osservatorio regionale sulla violenza di genere presenta report finale. Mercoledì 15 gennaio ore 11, alla sala “Giuditta Levato” del Consiglio Regionale della Calabria sarà presentato il report delle attività svolta dall’organismo nei suoi sedici mesi di funzionamento attraverso un video che descrive le azioni svolte, riporta interviste di familiari di vittime di violenza, contributi del questore Maurizio Vallone, del comandante dei carabinieri Giuseppe Battaglia, da operatori dei centri e delle associazioni impegnati nel contrasto alla violenza di genere in Calabria che hanno collaborato con l’osservatorio. Saranno inoltre formulate proposte ed indicazioni al nuovo governo regionale che sarà eletto tese a migliorare il sistema di contrasto alla violenza di genere in Calabria. Il sussidio audio visivo, che sarà presentato dal giornalista Sergio Conti dell’agenzia Iamu che lo ha curato, sarà messo a disposizione dei mezzi di informazione, delle scuole, delle forze dell’ordine e delle associazioni come strumento di informazione e sensibilizzazione sulla tematica. Saranno presenti Mario Nasone e Giovanna Cusumano, rispettivamente coordinatore e vice coordinatore dell’osservatorio. L’invito a partecipare è rivolto ai rappresentanti delle istituzioni, delle forze dell’ordine, e delle associazioni che hanno sostenuto e collaborato alla realizzazione delle attività, in tale occasione sarà possibile ritirare copia del rapporto sulla violenza di genere. Roma. Sei anni per una sentenza, processi penali fuori tempo massimo di Valentina Errante Il Messaggero, 15 gennaio 2020 Nella Capitale si arriva in Cassazione dopo 2.241 giorni. Ignorata la “ragionevole durata”. Il nodo corte d’Appello. Sei anni in tutto. La Capitale non è la prima nella classifica delle città lumaca, ma i tempi della Giustizia sono ancora lunghi. Per la definizione di un procedimento penale, dalle indagini preliminari alla sentenza della Cassazione, occorrono in media 1241 giorni. I sei anni previsti dalla legge Pinto, per la “ragionevole durata del processo”, oltre la quale lo Stato è chiamato al risarcimento. E invece è ancora troppo. L’imbuto è sempre la Corte d’Appello dove, in media, si impiegano 1.128 giorni a fronte dei due anni di soglia. La situazione è comunque migliorata rispetto all’ultimo quinquennio, durante il quale, secondo la relazione tecnica del ministero della Giustizia sul progetto di determinazione delle piante organiche della magistratura, duravano invece 1.498 giorni. La causa del ritardo ha origini lontane, a cominciare dalla riforma del 2000, che ha portato all’aumento della produttività dei tribunale senza prevedere di adeguare le Corti d’appello, soprattutto dal punto di vista dell’organico. I dati, però, vanno letti, ci sono processi che hanno corsie preferenziali, sia nel penale che nel civile. E dunque tempi più ridotti. Mentre nel calcolo del ministero rientrano anche i procedimenti giù prescritti. E c’è anche una buona notizia, come annuncia il presidente della Corte d’Appello di Roma Luciano Panzani: “Ci saranno nove consiglieri in più, prevediamo un incremento di circa duemila sentenze ogni anno”. Il nodo dell’organico riguarda anche il Tribunale. E non soltanto per quanto riguarda le toghe. Proprio ieri il presidente del Tribunale, Francesco Monastero, in un vertice, ha illustrato al procuratore aggiunto Nunzia D’Elia e a Panzani la difficile condizione in cui tutti i giorni lavora: 800 amministrativi, a fronte di una pianta organica di 1.200. A spiegare che non tutti i processi sono uguali e ci sono procedimenti, sia nel penale nel civile, che vengono definiti in tempi più stretti è proprio Panzani. Nel penale sono quelli con i detenuti e i procedimenti a rischio prescrizione, nel civile le cause di lavoro e quelle della sezione famiglia. “Le pendenze sono diminuite - spiega - il nostro problema rimane l’arretrato, se non avessimo quello saremmo in pareggio. Anche la percentuale di cause sulla legge Pinto è diminuita”. Panzani fa riferimento alla “Pinto della Pinto”, un assurdo giudiziario. Ossia procedimenti che duravano troppo a lungo anche per stabilire l’indennizzo per un processo durato troppo a lungo”. Reggio Calabria. Da 2 anni al 41bis: non è mafioso, il ministro tace e il giudice anche di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 gennaio 2020 Il 28 ottobre 2019 la Corte di appello di Reggio Calabria ha ridotto la pena da 27 a 13 anni, riqualificando il reato, escludendo l’aggravante mafiosa. Dopo la risposta inevasa da parte del ministero della Giustizia sulla richiesta di revoca del 41bis, ancora tarda ad arrivare quella della magistratura di sorveglianza. Da quasi due anni si trova ininterrottamente recluso al regime duro, nonostante che nel frattempo i giudici hanno non solo escluso la sua posizione di promotore dell’ipotizzata associazione semplice (e non mafiosa), ma gli è stata esclusa la circostanza di aggravante del metodo mafioso di cui all’art. 7, L. 203/91. Parliamo della vicenda, recentemente già trattata da Il Dubbio, di un calabrese settantenne, Nicola Antonio Simonetta, che rimane ancora al 41bis nel carcere di Parma, nonostante la presenza di due sentenze che escludono la partecipazione al sodalizio mafioso. Il suo avvocato difensore Maria Elisa Lombardo, del foro di Locri, aveva fatto istanza direttamente al ministro della Giustizia per chiedere l’immediata revoca del regime del carcere duro visto che non ci sono più i presupposti. A questo si aggiunge anche la sua delicata condizione di salute: ha il morbo di Crohn. Se trasferito nel centro clinico di altro regime, infatti, potrà con maggiore facilità essere curato. Ma il guardasigilli non solo non ha disposto la revoca (come è invece accaduto con Massimo Carminati quando gli era stata decaduta l’associazione mafiosa), ma non ha dato alcuna risposta in merito. Passati oramai due mesi, l’avvocata Lombardo ha quindi fatto istanza il 2 gennaio scorso al tribunale di sorveglianza di Roma che ha la competenza per il 41bis. La richiesta di revoca si basa quindi alla luce delle sopraggiunte pronunce che ne fanno venire meno i presupposti giuridici. Il 28 ottobre del 2019 la sentenza dalla Corte di Appello di Reggio Calabria, Simonetta ha visto più che dimezzata l’originaria condanna che è stata ridotta da 27 a 13 anni, previa riqualificazione del reato, non più promotore dell’ipotizzata associazione semplice. Nella medesima pronuncia è stata esclusa l’aggravante mafiosa. Prima ancora, il 26 luglio scorso. è stata emessa altra sentenza dal Tribunale Penale di Locri, nel quale il Collegio ha assolto Simonetta dall’ipotesi di reato associativo di stampo mafioso ed ha disposto l’inefficacia della misura cautelare con immediata scarcerazione. Alla luce delle pronunce sopraggiunte, coerenti fra loro, nelle quali si esclude il coinvolgimento di Simonetta a contesti mafiosi e anche il solo utilizzo del metodo mafioso, appare quindi evidente che sono venuti meno tanto i presupposti quanto le motivazioni che hanno animato l’originaria richiesta applicativa del 41bis. Di tutto ciò, da ribadire, è stato edotto anche il ministro della giustizia a fine ottobre. Ma, ad oggi, nessuna risposta. Come se non bastasse, il recluso versa in condizioni precarie di salute tanto da essere collocato nel Centro Clinico del carcere di Parma: il trasferimento presso altro centro clinico di altro regime, gli potrebbe consentire maggiore facilità nelle cure nonché maggiore sostentamento da parte della famiglia. Intanto si è in attesa, oramai da quasi due settimane, di una risposta da parte della magistratura di sorveglianza. Resta da domandarsi se tutto ciò risulti rispettoso dei principi dello Stato di Diritto, quando un uomo, nonostante non ci siano i presupposti, rimanga recluso nella frontiera massima dell’intervento punitivo dello Stato. Caserta. Detenuti a lavoro nel Museo Campano, faranno i custodi casertanews.it, 15 gennaio 2020 La convenzione voluta dal presidente della Provincia, Magliocca, durerà un anno. “Fondamentale per costruire percorsi di recupero e di reinserimento sociale degli autori dei reati”. È stata firmata un’apposita convenzione, fortemente voluta dal presidente della Provincia, Giorgio Magliocca, tra il Museo Campano di Capua e l’Ufficio Locale Esecuzioni Penali Esterne di Caserta (Ulepe) del Ministero della Giustizia, diretto dalla dottoressa Maria Laura Forte. La convenzione ha la finalità di promuovere azioni concordi tese a sensibilizzare, nei confronti della comunità locale, azioni di sostegno e di reinserimento di persone in esecuzione penale; promuovere la conoscenza e lo sviluppo di attività riparative a favore della collettività e di favorire la costituzione di una rete di risorse, che accolgano i soggetti, ammessi a misura alternativa o ammessi alla sospensione del procedimento con messa alla prova, che hanno aderito al progetto riparativo. “Con questa convenzione, appena firmata, abbiamo dato la possibilità di svolgere una nuova esperienza di lavoro, in forma gratuita, ad un certo numero di persone sottoposte a misure carcerarie, ovvero a misure alternative al carcere, come custodi museali - ha dichiarato il presidente della Provincia Giorgio Magliocca - presso il nostro Museo Provinciale Campano di Capua. In tal modo, costoro potranno svolgere attività sociali utili alla collettività, oltre che costituire, per se stessi, una concreta occasione di riabilitazione personale, secondo le nuove linee di sviluppo della cosiddetta giustizia riparativa”. “Questa convenzione permetterà al Museo di impiegare, di qui a breve, - ha evidenziato il direttore del Museo Provinciale Campano di Capua, Giovanni Solino - un certo numero di persone in maniera completamente gratuita, come custodi museali. Tutti sanno della assoluta carenza di personale al Museo e dell’impossibilità della Provincia di farvi fronte. Questa convenzione - ha concluso - potrebbe offrire una prima importante soluzione per garantire standard minimi di servizio nonché ampliamenti di orari per i visitatori”. “L’Uepe è l’Ufficio di esecuzione esterna del Dipartimento giustizia minorile e di comunità - ha precisato il direttore Maria Laura Forte - e si occupa di tutto ciò che è esecuzione penale alternativa al carcere. La necessaria e preziosa collaborazione, in questo caso con il Museo Provinciale Campano di Capua, è fondamentale per costruire percorsi di recupero e di reinserimento sociale degli autori dei reati”. La durata della convenzione è fissata in un anno. Il Museo Provinciale Campano di Capua è lieto di attuare un’esperienza pilota di giustizia riparativa, cioè sostanzialmente un nuovo approccio che consente di coinvolgere la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di soluzioni agli effetti del conflitto generato dal fatto delittuoso, al fine di promuovere attività di riparazione del danno, di riconciliazione tra le parti e di rafforzamento del senso di sicurezza collettivo. San Gimignano (Si). Caso delle presunte torture in carcere, gli agenti tornano al lavoro di Laura Valdesi La Nazione, 15 gennaio 2020 L’avvocato Delli: “Misura scaduta il 13 gennaio, non è stata chiesta la prosecuzione”. Quattro gli operatori inizialmente interdetti. Presunte torture nel carcere di Ranza a San Gimignano, c’è una novità. I quattro operatori - tra cui un ispettore e due assistenti capo - che erano stati sospesi dal servizio a seguito di una misura interdittiva emessa dal gip Alessandro Buccino Grimaldi, sono tornati al lavoro. Il 13 gennaio, infatti, scadeva appunto la misura che li ha costretti a restare lontano dal penitenziario dove svolgevano da tempo l’attività. E che era stata disposta, si ricorderà, perché accusati di aver avuto un comportamento terribile nei confronti di un detenuto tunisino di 31 anni che non si trova più a Ranza. E che doveva scontare una pena per droga. L’uomo nell’ottobre 2018 era stato spostato di cella e proprio per quanto avvenuto in quei momenti, nel reparto di isolamento dove si trovava, sono finiti nei guai complessivamente 15 operatori penitenziari. Solo quattro però sono stati sospesi quattro mesi dal lavoro. E ieri mattina si sono presentati dunque al carcere di Ranza. “Confermo che la misura interdittiva è scaduta e che al momento non c’è alcun provvedimento che impedisce al mio assistito di riprendere a svolgere la sua attività”, spiega l’avvocato Sergio Delli. Che si limita ad aggiungere, insieme al collega Manfredi Biotti difensore di un ispettore e di due assistente capo: “Attendiamo le valutazioni che assumerà il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. Potrebbe anche spostarli - ma queste sono solo ipotesi - in altri carceri. Intanto la procura ha dissequestrato i cellulari presi a tutti gli indagati per effettuare una maxi-perizia e valutare in particolare le conversazioni. I rapporti, eventuali commenti magari proprio su quell’episodio che, si ricorderà, ha portato alla ribalta della cronaca nazionale la vicenda Ranza, con l’arrivo del leader della Lega Matteo Salvini. È stato anche sentito, durante un lungo incidente probatorio, il detenuto tunisino che sarebbe stato picchiato. Credeva di andare a fare la doccia, invece gli sarebbe stato assestato un pugno sulla testa venendo colpito, mentre si trovava in terra, da pugni e calci. Con tanto di frasi ingiuriose e minacce che dovevano servire da monito a tutti gli altri. Gli indagati hanno sempre negato le torture che contesta il pm Valentina Magnini che nel corso dell’inchiesta ha indagato anche un medico. I reati inizialmente contestati, a vario titolo, ai 15 che hanno un’età fra i 26 e i 55 anni, variavano dalla tortura alle minacce, dalle lesioni alla falsità ideologica. Varese. Educazione alla legalità, gli studenti imparano a conoscere il carcere varesenews.it, 15 gennaio 2020 Il progetto messo in campo dalla Casa Circondariale di Varese, prevede il coinvolgimento di docenti e insegnanti di sei istituti scolastici del varesotto, di personale dei Miogni e di alcuni carcerati, appositamente formati. Carcere e territorio: un’interazione possibile? A crederci è la Casa Circondariale di Varese, da un anno guidata dalla dottoressa Carla Santandrea. Ed è grazie alla sensibilità e all’impegno della direttrice e di chi opera al suo fianco, ovvero il vice comandante del reparto per l’Area Sicurezza ispettore Rosario Arcidiacono e il capo Area Educativa, Domenico Grieco hanno avviato un progetto che coinvolge alcuni istituti superiori del territorio. Dalla loro sinergia è maturata la XIII edizione di “Educazione alla legalità”, il cui scopo è quello di avvicinare i giovani a tematiche delicate e attuali. “Un progetto - commenta la dottoressa Carla Santandrea - che permette di aprire spazi di riflessione importanti sul concetto di legalità, e favorire proficue occasioni di confronto tra mondi solo all’apparenza così lontani come il carcere e la scuola”. Il progetto, attraverso un’articolazione che si svilupperà per alcuni mesi, prevede il coinvolgimento di docenti e insegnanti di sei istituti scolastici del varesotto, personale della Casa Circondariale di Varese e di alcuni detenuti definitivi, appositamente formati. Gli istituti coinvolti nel progetto saranno il Liceo Artistico di Varese, l’Isis di Gazzada Schianno, l’Isis Newton di Varese, l’Isis “Edith Stein” di Gavirate, il Collegio De Filippi di Varese e la Fondazione Enaip di Varese. Ogni scuola individuerà 12 allievi, le cui generalità saranno comunicate alla Casa Circondariale, che parteciperanno alla sensibilizzazione delle tematiche affrontate tra i loro coetanei, partecipando e animando i diversi incontri proposti, secondo il modello della peer education. Presso una delle scuole coinvolte nel progetto saranno presenti, nell’ambito di uno degli incontri previsti, anche alcuni detenuti della Casa Circondariale, debitamente individuati. Nell’ambito dell’edizione di quest’anno è prevista, inoltre, la collaborazione con l’Ufficio Locale di Epe (Esecuzione Penale Esterna) che, attraverso i propri referenti, illustrerà il proprio impegno, oltre alle altre attività previste dalla legislazione vigente in tema di messa alla prova per gli imputati e di lavoro di pubblica utilità, avvalendosi anche delle testimonianze di persone condannate in misura alternativa o imputati ammessi alla prova. Gli incontri negli istituti scolastici si svolgeranno secondo questo calendario: Il primo si è tenuto lunedì 13 gennaio presso il Liceo Artistico di Varese. A questo primo incontro hanno preso parte tutti i protagonisti del progetto: referenti, operatori di Polizia penitenziaria, allievi. Martedì 28 gennaio 2020, ore 09.00-12.00, presso l’Isis “Newton” di Varese. Molti gli argomenti che verranno approfonditi (la Polizia Penitenziaria: attività, modalità d’intervento, servizi e specialità; i reati più comuni tra gli adolescenti; la normativa sugli stupefacenti). Per l’occasione sarà presente il vice comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria di Varese, nonché referente del progetto per l’Area Sicurezza, l’ispettore superiore Rosario Arcidiacono. All’incontro parteciperà anche una piccola rappresentanza di agenti di Polizia Penitenziaria che prestano servizio prevalente a contatto con i detenuti e potranno raccontare le proprie esperienze e rispondere alle domande degli allievi. Mercoledì 12 febbraio 2020, ore 09.00-12.00, alla Fondazione Enaip di Varese. Gli allievi, con i rispettivi docenti, avranno la possibilità di ascoltare la testimonianza del giornalista e scrittore Marco Gatti, autore del libro: “Un padre da galera. La strada, il carcere, mio figlio”. In questa occasione saranno presenti anche alcuni detenuti, che condivideranno la loro esperienza con i presenti; Giovedì 27 febbraio 2020, ore 10.00-12.00, presso l’Isis “Newton” di Varese. In programma l’esibizione delle Unità del Nucleo Regionale Cinofili della Polizia Penitenziaria. Martedì 10 marzo 2020, ore 09.00-12.00, presso il Liceo Artistico di Varese. A questo incontro prenderanno parte i referenti del progetto, i rappresentanti dell’Uepe (Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna) e alcune persone condannate in misura alternativa, cioè imputati ammessi alla prova. Venerdì 27 marzo 2020, ore 9.00-12.00, avrà luogo una visita guidata presso la Casa Circondariale di Varese nel corso della quale gli allievi coinvolti nel progetto, con i loro docenti, incontreranno i vertici dell’Istituto: direttrice, comandante del reparto e, a piccoli gruppi, saranno accompagnati all’interno della struttura penitenziaria, taluni con la presenza di detenuti, sotto la guida del Vice Comandate e di altri operatori dell’Area Sicurezza. Al termine seguirà una riunione nella Sala dell’Affresco dell’Istituto penitenziario per un breve confronto anche con la presenza dei detenuti selezionati preventivamente. Giovedì 2 aprile 2020, il progetto si concluderà con un nuovo ingresso presso la Casa Circondariale durante la quale tutti i partecipanti al progetto (referenti, allievi ed eventuali altri ospiti) si ritroveranno presso la Sala dell’Affresco per un confronto finale e un momento conviviale. Gorizia. Fuga da Gradisca, in otto evadono dal Centro per i rimpatri Il Gazzettino, 15 gennaio 2020 Tre immigrati irregolari detenuti nel Cpr sono stati riacciuffati, è caccia agli altri cinque fuggitivi. Lungo il perimetro del Cpr (Centro per il rimpatrio) di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, sono state installate 200 telecamere collegate a un moderno impianto centralizzato che diffonde le immagini in diretta. Eppure otto migranti irregolari detenuti all’interno della struttura sono riusciti a portare a termine la fuga. È accaduto domenica pomeriggio, secondo la ricostruzione delle forze dell’ordine, ma i fatti sono stati resi noti solamente ieri. I cittadini stranieri, che si trovavano in regime di detenzione amministrativa all’interno del centro riaperto meno di un mese fa, sono riusciti a raggiungere l’esterno della struttura scavalcando il muro di cinta grazie all’uso degli idranti anti-incendio, utilizzati come corde da arrampicata. Un piano architettato e riuscito in tutti i suoi dettagli. Per tre di loro, però, la fuga è durata poco: il contingente di vigilanza, formato da polizia di Stato, carabinieri e Guardia di finanza ha individuato i primi due fuggitivi ancora nel territorio comunale di Gradisca d’Isonzo, quindi a breve distanza dal Cpr isontino. Il terzo migrante irregolare è stato rintracciato dopo alcune ore a Palmanova, a più di dieci chilometri di distanza. I cittadini individuati sono stati riportati all’interno del Centro per il rimpatrio. Degli altri cinque fuggitivi invece non c’è alcuna traccia, e le ricerche sono ancora in corso. L’allarme, all’interno della struttura, è rimasto alto anche ieri, per il timore che il gesto degli otto migranti fuggiti domenica potesse essere emulato da altri detenuti del Cpr. Quanto alle modalità di fuga, sono state rese note nei dettagli nel pomeriggio di ieri: i migranti avrebbero infranto alcune lastre di protezione per superare la prima barriera, dopodiché hanno messo in pratica l’arrampicata sul muro di cinta grazie alle pompe anti-incendio. Infine un volo di quattro metri per atterrare sulla campagna che circonda la struttura. All’inizio dell’anno altri tre migranti erano fuggiti dallo stesso centro di detenzione amministrativa. All’interno del Cpr attualmente sono presenti 61 migranti, tenuto conto della fuga riuscita dei cinque soggetti che si sono allontanati senza essere in seguito rintracciati. Molti dei cittadini che si trovano nel perimetro dell’ex caserma di Gradisca arrivano da altri Cpr di tutta Italia. Il prefetto di Gorizia, Massimo Marchesiello, ha parlato di “criticità da risolvere all’interno della struttura” e di “Centro per il rimpatrio che deve ancora entrare a regime”. La situazione è potenzialmente esplosiva: nelle ultime settimane sono stati segnalati anche atti di autolesionismo e almeno un tentativo di suicidio. Gorizia. Con il nuovo forno ritrovata la dignità dei detenuti goriziani di Stefano Bizzi Il Piccolo, 15 gennaio 2020 Problemi nella cucina da quindici anni. Una donazione ha permesso l’acquisto. A Natale i profumi della pasta pasticciata, del pollo arrosto e delle patate al forno hanno di nuovo invaso le celle e i corridoi del carcere di Gorizia. Il merito è stato di una donazione che ha permesso di acquistare e installare nella cucina della casa circondariale di via Barzellini un forno. A feste concluse, don Alberto De Nadai e Steven Stergar hanno voluto ringraziare pubblicamente chi ha permesso di migliorare la vita dei detenuti. Entrambi notano che tra i tanti problemi riscontrabili all’interno del carcere, quello della cucina pare essere il più sottovalutato e trascurato dal momento che si trascina da oltre 15 anni. Al di là del fatto che la struttura si trovi nel seminterrato, i problemi erano dovuti principalmente al malfunzionamento del piano cottura a gas e del forno e ai danni a due delle quattro piastre elettriche. E questo costringeva a rigidi menù. Nel corso degli incontri del sabato pomeriggio dedicati alla formazione dei detenuti per l’avviamento a un inserimento sociale e lavorativo tenuti dagli stessi don Alberto e Stergar è emerso il desiderio di avere in cucina almeno un forno “adeguato” alle esigenze che potesse permettere una maggiore varietà di menù, ma anche la realizzazione di corsi formativi di cucina. “Questo stimolo, presentato all’istituzione carceraria è stato messo in disparte dalla frase “non ci sono soldi”, ricorda Stergar aggiungendo: “Nonostante le difficoltà amministrative, la sensibilità di tanti cittadini che conoscono l’impegno di don Alberto sui problemi dei carcerati, ha permesso, anche con offerte, l’acquisto di un nuovo forno. I benefattori accompagnano sempre il loro gesto con la frase “Lei sa dove metterli” e infatti uno di questi, venuto a conoscenza del progetto si è dedicato spassionatamente alla causa”. Si è trattato di una persona che a suo tempo aveva vissuto l’esperienza del carcere ed è riuscita a riprendere in mano la propria vita. “Con volontà e umanità, non trascurando i suoi impegni lavorativi - spiega ancora Stergar - ha cercato, trovato, trasportato e, infine, installato il forno superando vari ostacoli burocratici”. Rivolgendosi a tutte le persone che nel tempo gli sono state vicine nella condivisione dei suoi progetti, don Alberto sottolinea in ogni caso: “L’acquisto del forno ha permesso di cambiare pacificamene una situazione che per tantissimi anni ha vissuto incatenata a cattivi pensieri e, di conseguenza, a cattivi comportamenti”. “La proposta concreta del forno - conclude l’assistente spirituale del carcere goriziano - fa sentire i detenuti e anche noi volontari meno soli nelle nostre disarmate battaglie per la dignità delle persone. Dal laboratorio di formazione del sabato sta rinascendo una “detenzione nuova”, piena di voglia di cambiare in meglio la vita di tutti. È solo una prima minima tappa verso un ben più coinvolgente impegno sociale e politico perché non ci può essere carità senza giustizia”. Modena. Sognalib(e)ro presenta “Il treno dei bambini” in carcere comune.modena.it, 15 gennaio 2020 Venerdì 24 gennaio alla Casa circondariale Sant’anna. Partecipano l’autrice, Viola Ardone, e Bruno Ventavoli, giornalista direttore dell’inserto “Tuttolibri” del quotidiano “La Stampa” e direttore del Premio letterario nazionale per le carceri Sognalib(e)ro. Iniziativa promossa dal Comune di Modena in collaborazione con la Direzione generale del Ministero della Giustizia - Dipartimento amministrazione penitenziaria, Giunti editore, e con il sostegno di Bper Banca. Viola Ardone è nata a Napoli nel 1974, è insegnante di latino e italiano al liceo e scrittrice. Ha pubblicato La ricetta del cuore in subbuglio (2013) e Una rivoluzione sentimentale (2016) entrambi editi da Salani. Il suo ultimo libro è Il treno dei bambini (Einaudi, 2019), in corso di traduzione in ben 25 lingue. Il romanzo racconta una storia commovente ispirata ai “Treni della felicità” (come li chiamò l’allora sindaco di Modena Alfeo Corassori) grazie ai quali nel secondo dopoguerra quasi settantamila bambini provenienti dalle zone più povere dell’Italia meridionale ebbero un’occasione per riscattarsi da fame e analfabetismo, accolti da famiglie in Emilia. È il 1946, infatti, quando Amerigo, dieci anni e occhi che hanno visto troppe cose, lascia il suo rione di Napoli per salire su un treno. Assieme a migliaia di coetanei del Sud attraversa la penisola e trascorre alcuni mesi in una famiglia di Modena, dove il Partito Comunista ha creato una rete di solidarietà per strappare i bambini alla miseria. Bruno Ventavoli è il giornalista responsabile dell’inserto “Tuttolibri” del quotidiano “La Stampa”, traduttore dall’ungherese, vive e lavora a Torino. È autore di gialli ambientati ora in ambito mitologico, ora nelle periferie delle grandi città dell’Italia del nord, tra pornografia, prostituzione, immigrazione clandestina e nuova tratta degli schiavi, animando trame ben congegnate con una scrittura briosa e immaginifica, ricca di metafore sorprendenti. In “Al diavolo la celebrità” ha ricostruito la carriera cinematografica di Stefano Vanzian, in arte Steno. Sognalib(e)ro. Il premio letterario nazionale per le carceri nasce con l’obiettivo di promuovere lettura e scrittura negli istituti penitenziari dimostrando che possono essere strumento di riabilitazione, principio sancito dalla Costituzione. La finalità di Sognalib(e)ro è promuovere lettura e scrittura nelle carceri come strumento di riabilitazione, dando espressione compiuta all’articolo 27 della Costituzione della Repubblica Italiana. Di particolare rilievo umano, culturale e sociale, il progetto consiste in un concorso letterario che prevede l’assegnazione di due premi, uno a un’opera letteraria valutata e votata dai detenuti, l’altro a un elaborato prodotto dai detenuti stessi, che potrà, essere pubblicato da Giunti editore. Per la seconda edizione del premio sono stati individuati dal ministero della Giustizia 16 istituti, dove sono attivi laboratori di lettura o di scrittura creativi: la Casa Circondariale di Torino Lorusso e Cotugno, quella di Modena, la Casa di Reclusione di Milano Opera, quelle di Pisa, Brindisi, Verona, Saluzzo, Trento, Pescara, Firenze Sollicciano, Napoli Poggioreale, Sassari, Paola, Ravenna; quelle femminili di Roma Rebibbia e Pozzuoli. Come già nell’edizione 2018, il premio si articola in due sezioni. Nella Sezione Narrativa italiana (che comprende anche il Premio speciale Bper Banca), una giuria popolare composta dagli aderenti ai gruppi di lettura degli Istituti attribuisce il premio valutando il migliore di una rosa di tre romanzi: La straniera di Claudia Durastanti (La nave di Teseo, 2019); Fedeltà di Marco Missiroli (Einaudi, 2019); Le assaggiatrici di Rosella Postorino (Feltrinelli, 2018). La Giuria è composta da gruppi di detenuti in ogni istituto. Ogni componente dovrà esprimere la preferenza attribuendo 3 punti al libro migliore, 2 al secondo e 1 punto al terzo. Ogni gruppo è seguito da un operatore incaricato, che raccolti i voti della giuria interna (sono stati complessivamente oltre 100 i lettori votanti) li trasmette al Comune di Modena. Tutti i voti trasmessi riferiti alla medesima opera, sommati determinano il vincitore. Il premio consiste nell’invio di titoli scelti dall’autore a tutti gli Istituti partecipanti, accrescendo così il loro patrimonio librario. Lo scrittore vincitore, inoltre, potrà presentare il proprio libro nelle carceri partecipanti. Nella sezione Inedito, invece, una giuria di esperti presieduta da Bruno Ventavoli e composta dal disegnatore satirico Makkox, con gli scrittori Barbara Baraldi e Paolo di Paolo affiancati da Antonio Franchini, editor Giunti, attribuirà il premio a un’opera inedita (romanzo, racconto, poesia) prodotta da detenuti o detenute sul tema “Ho fatto un sogno…”. La giuria sceglierà a maggioranza il miglior testo (tra i 62 presentati) esprimendo la valutazione con un giudizio sintetico. Il premio consiste nella donazione di libri alla biblioteca del carcere dove è recluso il vincitore, da parte della editrice Giunti. Qualora i testi vincitori possiedano le caratteristiche necessarie, saranno pubblicati dalla medesima casa editrice in un’antologia tematica. Il Comune di Modena si riserva ulteriori iniziative di divulgazione dei testi in concorso, come pubblicarli con casa editrice civica digitale il “Dondolo”, diretta da Beppe Cottafavi). La partecipazione al Premio è stata aperta ai cittadini italiani e stranieri, comunitari ed extracomunitari, senza limiti di età, attualmente detenuti negli istituti penitenziari individuati dal Ministero della Giustizia. A ogni detenuto è stato consentito partecipare a una o a entrambe le sezioni. La serata finale di Sognalib(e)ro con le premiazioni e la partecipazione dell’autore o dell’autrice vincitori si svolgerà a Modena il 20 febbraio al Teatro dei Segni in via San Giovanni Bosco 150, a cura di Bruno Ventavoli e del Teatro dei Venti. In programma la lettura pubblica delle riflessioni e dei commenti dei detenuti che hanno votato le opere in concorso; la cerimonia di premiazione dei partecipanti alle due sezioni; la presentazione dello studio scenico sull’Odissea, realizzato dal Teatro dei Venti con alcuni degli attori detenuti della Casa Circondariale di Modena e della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia. Piacenza. Oggi presentazione del libro “Uno spicchio di cielo dietro le sbarre” piacenzasera.it, 15 gennaio 2020 “Uno spicchio di cielo dietro le sbarre”, il diario dal carcere di un obiettore di coscienza al servizio militare negli anni 70, scritto da Claudio Pozzi, sarà presentato nella Scuola azzurra di Fabbrica & Nuvole in via Roma a Piacenza mercoledì 15 gennaio alle ore 18. Dialogherà con l’autore Brunello Bonocore, interverranno anche Giuseppe Bruzzone, obiettore di coscienza, Rocco Altieri, direttore del Centro Gandhi Edizioni e Federico Fioretto, Associazione Neotopia. Il 15 dicembre del 1972 fu approvata la legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare che permise ai giovani di poter svolgere un servizio civile alternativo. A ciò si arrivò sull’onda di un forte movimento di opinione pacifista e antimilitarista, creatosi attorno ad alcune decine di giovani che avevano affrontato il carcere pur di non contravvenire ai propri principi, come Giuseppe Bruzzone che, negli anni 66-68, rifiutò la divisa per ben quattro volte derivandone 26 mesi complessivi di carcere. L’autore di questo libro, allora 24enne, fu uno di questi. Avendo rifiutato di fare il servizio militare, fu detenuto nel carcere militare di Gaeta per 5 mesi e 10 giorni. Tra quelle mura scrisse il diario che qui pubblichiamo. Vogliamo che i giovani e le giovani di oggi, spesso vittime della propaganda per l’arruolamento militare, conoscano la sua testimonianza e ne traggano ispirazione per il loro impegno contro la guerra. Milano. “La prima libertà”, al Museo diocesano detenuti in scena mi-lorenteggio.com, 15 gennaio 2020 Martedì 21 gennaio alle ore 18.00 al Museo Diocesano “Carlo Maria Martini”, 20 detenuti provenienti da 9 carceri della Lombardia porteranno in scena il reading “La prima libertà. Vivere la religione in carcere”. Il testo, presentato in una precedente versione due anni fa, è ricavato dagli appunti e le note che gli stessi reclusi, appartenenti a differenti confessioni, hanno elaborato dopo la lettura di un antico poema persiano “Simurgh, la conferenza degli uccelli”. Diversamente dal precedente allestimento, in questa nuova edizione i protagonisti assoluti saranno proprio i carcerati. Lo spettacolo darà voce alla loro personale reinterpretazione del racconto poetico compiuta al termine di un lungo percorso incentrato su un’apparente contradizione: vivere la libertà religiosa in un luogo che si fonda sulla limitazione della libertà. “In realtà - osserva Ileana Montagnini, responsabile dell’area Carcere di Caritas Ambrosiana - proprio in carcere c’è chi si avvicina alla fede, chi la riscopre e anche chi la rivendica come limite invalicabile. Questi differenti atteggiamenti possono avere esiti molti diversi. Per lo più il percorso spirituale che si compie dietro le sbarre è espressione di una più generale presa di coscienza individuale dei propri limiti ed errori e quindi favorisce il processo riabilitativo. Altre volte, se questo cammino non è accompagnato, può diventare problematico in un contesto multi-religioso come è la realtà carceraria di oggi”. Il reading è la conclusione di un progetto triennale dedicato proprio alla gestione del pluralismo religioso nella carceri lombarde. Il corso ha coinvolto detenuti, agenti di polizia penitenziaria, insegnanti, cappellani e volontari dei 9 penitenziari inseriti nella sperimentazione unica in Italia, durante la quale il tema è stato affrontato sotto il profilo antropologico, sociologico-giuridico, etico-formativo, grazie agli interventi di esperti come il professore Paolo Branca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, i professori Silvio Ferrari e Daniela Milani dell’Università degli Studi di Milano ed esponenti di diverse tradizioni religiose: Hamid Roberto Distefano della Comunità Religiosa Islamica Italiana, monsignor Luca Bressan vicario episcopale della Diocesi di Milano e mons. Pier Francesco Fumagalli vice prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana, il rabbino Davide Sciunnach della Comunità Ebraica di Milano. “Attraverso questi incontri si è favorita una migliore conoscenza delle tradizioni religiose e culturali presenti negli istituti di pena del distretto lombardo, fornendo al personale carcerario strumenti per comprendere meglio la diversità delle culture e delle religioni, evitare il crearsi di resistenze o forme di pregiudizio e contrastare i fenomeni di radicalizzazione e di proselitismo aggressivo. In questo contesto sono state anche affrontate tematiche concrete e specifiche che incidono in maniera rilevante sulla vita dei detenuti quali l’alimentazione, la preghiera, i rapporti con la famiglia”, spiega la professoressa Daniela Milani, coordinatrice del progetto, che illustrerà i risultati insieme a Giovanna Longo, responsabile dell’ufficio detenuti del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia. “Oggi quasi la metà dei detenuti nei penitenziari italiani professa altre fedi. Riconoscere effettivamente la libertà di culto ai carcerati, prevista per altro dal nostro ordinamento per legge già dal 1975, significa prendere atto della realtà e quindi evitare degenerazioni, come i fenomeni di radicalizzazione, pericolosi all’interno e fuori, nella società civile, al termine delle misure restrittive. Ci auguriamo che progetti come questo spingano le istituzioni pubbliche a fare i passi necessari per la piena attuazione delle norme”, osserva Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana. Dopo il reading, introdotto da mons. Luca Bressan, i detenuti della Casa Circondariale di Monza si esibiranno in una performance di percussioni dal titolo “I ritmi dal mondo”. Il progetto Simurgh, cofinanziato dalla Fondazione Cariplo, è stato promosso dall’Università degli Studi di Milano, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Provveditorato regionale della Lombardia, dalla Comunità Ebraica di Milano, dalla Comunità Religiosa Islamica Italiana (Coreis) dalla Diocesi di Milano, dalla Caritas Ambrosiana e dalla Veneranda Biblioteca Ambrosiana, dall’Istituto di Studi di Buddismo Tibetano di Milano Ghe Pel Ling. I laboratori formativi si sono svolti negli istituti penitenziari di Milano (il carcere di San Vittore), Pavia e Brescia (nel 2017), Como, Cremona, Vigevano (nel 2018), Opera, Monza, Bergamo (nel 2019). “Prima lezione sulla giustizia penale”, di Glauco Giostra recensione di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 15 gennaio 2020 Quel vincolo che lega la natura del processo a libertà e democrazia. Il motivo per cui le comunità degli uomini abbiano voluto e continuino a volere il processo, nonostante l’atto del giudicare sia tanto “necessario” quanto “impossibile”, è da cercare proprio nell’ostinato e azzardato tentativo di superare quello “stallo” creando quell’”imperfetto” ma ineliminabile strumento conoscitivo che è il processo penale. Glauco Giostra, nel suo saggio edito da Laterza, “Prima lezione sulla giustizia penale”, ne illumina la fluttuante ingegneria, il suo essere un esile ponte gettato fra due sponde, fra la res judicanda e la res judicata. Un percorso apparentemente lineare che, al contrario, svela sotto i passi di chi lo percorra la complessità di un organismo vivente con i suoi principi vitali e con le sue patologie. E sebbene si tratti di un organismo la cui struttura complessa non è altro che una macchina cognitiva volta alla ricostruzione dei fatti e delle responsabilità di un reato, tuttavia quella sua stessa funzione si intreccia, non solo con i limiti intrinseci delle nostre capacità conoscitive (“I limiti epistemologici alla ricerca della verità”), ma anche con tutti quei valori morali e quei principi etico- politici di cui è intessuta la nostra convivenza civile che ci impongono di rinunciare ad una prova se quella acquisizione dovesse comportare la violazione di tali principi e il tradimento di quei valori (“I limiti valoriali alla ricerca della verità”). Ed è proprio quest’ultimo aspetto a mettere in tensione il sistema ed a svelare come nel fondo il processo penale porti inevitabilmente con sé un intero bagaglio valoriale che da millenni ci fa interrogare sul fatto se la ricerca del reo e la repressione del crimine siano in ogni caso più importanti dei principi, se dunque la preda valga più delle regole della caccia e se, infine, violare quelle regole non significhi rinnegare proprio la nostra stessa natura di animali politici destinati a sottoporre noi stessi al limite della ragione. Da quando la più antica furia vendicativa del ghenos si scontrava con i nuovi valori della polis, sino al più moderno scontro fra pulsioni securitarie ed equilibri costituzionali, fra diritto penale del nemico e difesa della dignità dell’individuo, un filo rosso sembra snodarsi nel tempo alla ricerca di quel limite razionale. È tuttavia anche vero che il processo penale, come spiega l’Autore, non può raggiungere i suoi scopi se la comunità in cui vive non ne condivide le regole ed i valori fondanti, se non accoglie come razionalmente adeguato il suo metodo di ricerca e di conoscenza e come convenzionalmente vero il suo risultato, così “riattivando il moto circolare che esprime la vitalità democratica e civile del Paese”. Quella profonda unità di senso che secondo Glauco Giostra si deve cogliere all’interno di una comunità nel riconoscimento delle regole del processo, dovrebbe tuttavia risultare tanto più necessaria proprio con riferimento alla legittimazione della figura del Giudice che in una moderna società democratica non può non trovare la sua radice più credibile in una riaffermata “terzietà”. Se oltre che essere “imparziale” - visto che, come riconosce l’Autore, appare assai improbabile che il testo costituzionale contenga una ridondante endiadi il Giudice dovrà essere anche “terzo”, occorrerà riconoscere che quella effettiva “terzietà” non si potrà realizzare pienamente se non attraverso un netto rifiuto di ogni condivisione ordinamentale, disciplinare e di carriera del giudice e del pubblico ministero, la cui persistenza priva il processo penale di un suo essenziale punto di equilibrio. Sarebbe, infatti da chiedersi se tutte quelle derive istituzionali, quelle prassi degenerative e quelle “torsioni” del sistema processuale, che affliggono oggi la giurisdizione penale, così acutamente e puntualmente individuate dall’Autore (dalla applicazione in chiave sostanziale delle nullità, alla interpretazione della norma che “esonda dagli argini dell’alveo semantico tracciato dalla legge” risolvendosi di fatto nel compimento di “scelte politiche”) non abbiano una origine proprio in quella mancata riforma ordinamentale che avrebbe dovuto accompagnare ab origine l’introduzione del modello accusatorio nel nostro Paese, in quell’ormai lontano 1989. Riflettere dunque sui fondamenti, anche quelli apparentemente più elementari, del sistema processuale è quanto mai importante e necessario in un momento in cui i presupposti liberali delle nostre stesse democrazie vengono messi in dubbio. Non solo dalle nuove ideologie conservatrici e sovraniste, ma anche nel sentire comune, in quella cultura della disintermediazione che ha in odio il pensiero ed ha silenziosamente trasformato l’opinione pubblica in un “pubblico senza opinione” ed il cittadino in suddito plaudente, grato al suo nuovo sovrano del ruolo generosamente assegnatogli. Ripensare allo statuto del processo penale ed alle sue regole epistemologiche come risultato di una lunga elaborazione democratica, oltre che filosofica e scientifica, significa infatti inevitabilmente ricondurre il discorso - come ricorda l’Autore - alla radice dei rapporti fra libertà del singolo e autorità dello Stato, ed a quel vincolo profondo che lega la natura del processo alla natura della democrazia, all’interno della quale esso è nato ed è cresciuto. Trasmutando spesso, cercando forme nuove e nuovi modelli ed anche tramontando, ma per poi risorgere e riaffermarsi con i suoi valori inestinguibili, anche quando la presunzione dell’uomo ha creduto di poterne fare a meno, scioccamente pensando che il processo penale riguardi solo la repressione dei crimini e non le libertà di ciascuno di noi. Se dunque quella barca affonda non possiamo restare ad osservarla fra i flutti con indifferenza. Dimenticando in proposito il terribile ammonimento di Blaise Pascal: “vous êtes embarqué”. *Avvocato penalista, già segretario dell’Ucpi Migranti. Il progetto di Lamorgese per cambiare l’accoglienza di Alessandra Ziniti La Repubblica, 15 gennaio 2020 “Ampliare le categorie di permessi umanitari”. La ministra dell’Interno studia modifiche al decreto sicurezza per evitare che a giugno migliaia di persone finiscano in strada. Ampliare le tipologie di protezione umanitaria per evitare che a giugno migliaia di migranti perdano il diritto all’accoglienza e finiscano in strada. È questa la strada che la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese intende percorrere, con un’ulteriore modifica al decreto sicurezza (anticipata da Repubblica) che riguarda i tagli all’accoglienza da cui al momento vengono messi fuori coloro che sono titolari di protezione umanitaria e ovviamente tutti quelli (la maggioranza) che non si vedranno rinnovare il permesso alla prima scadenza. Intervenendo a “Otto e mezzo”, la ministra dell’Interno ha detto:” “Va ampliata la categoria dei permessi umanitari per evitare quanto stava per succedere a dicembre, ovvero che chi era senza permesso finisse per strada. Oltre a recepire i punti indicati dal presidente della Repubblica - ha spiegato Lamorgese - va fatto anche un discorso più complessivo. Come permessi umanitari eravamo arrivati al 28 per cento contro il 3-4 per cento di altri Paesi ma limitare al massimo questa forma di protezione non va bene”. Come anticipato da Repubblica, non si arriverà ad un ripristino della protezione umanitaria (abolita di fatto dal primo decreto sicurezza) ma gli uffici legislativi del Viminale stanno ipotizzando ulteriori forme di protezione speciale, oltre a quelle che hanno sostituito l’umanitaria, in modo da potere aumentare la percentuale di persone da proteggere, a cominciare da quelle che hanno già un permesso in scadenza e che dunque (dopo la proroga di sei mesi concessa dal Viminale grazie a fondi europei) a giugno dovrebbero lasciare le strutture di seconda accoglienza in cui sono ospitate. La ministra dell’Interno chiede al governo maggiore coraggio: “ Può fare ancora tanto ma serve coraggio. Se si crede in un progetto, anche se le scelte non sono sempre condivise bisogna avere il coraggio di portarlo avanti”. E su Salvini: “ In quanto ministri nessuno di noi è sottratto o può sottrarsi alle leggi vigenti. Come ex ministro va davanti al Tribunale dei ministri e lì si decide se deve essere processato o meno”. Lamorgese dice anche di temere che l’instabilità in Libia possa portare ad una ripresa dei flussi migratori: “La preoccupazione esiste. Un Paese instabile come è ora la Libia può avere grandi ripercussioni sull’entità dei flussi migratori. Non è possibile far numeri, ma certamente sono numeri consistenti. Bisogna lavorare ad una soluzione politica a livello europeo, in questo senso la Conferenza di Berlino può fare tanto”. Migranti. La Svizzera blocca l’espulsione di una donna nigeriana in Italia di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 15 gennaio 2020 “Col decreto Salvini assistenza non garantita”. “L’italia - scrive il tribunale federale - ha tagliato i fondi per l’accoglienza”. Al centro del caso una donna nigeriana che aveva chiesto asilo alle autorità elvetiche e che ha bisogno di cure mediche. Un tribunale svizzero ha bloccato l’espulsione verso l’Italia di una donna nigeriana richiedente asilo ritenendo che, in seguito al decreto Salvini, l’Italia non sia più in grado di garantire una adeguata assistenza umanitaria e sanitaria ai migranti. Lo ha reso noto l’agenzia Swissinfo citando una sentenza del tribunale amministrativo federale del 17 dicembre scorso. Secondo l’agenzia, il provvedimento seguirebbe una linea tenuta dai giudici elvetici anche in altri casi analoghi. Dalla Nigeria alla Svizzera - Protagonista del caso è una donna proveniente dalla Nigeria e che si era stabilita in un primo tempo in Italia (dove si era anche sposata). Da qui però la donna era fuggita in Svizzera, in seguito a una serie di violenze subite dal marito, dove aveva presentato domanda di asilo politico. Nel luglio del 2018 la Segreteria di Stato per l’immigrazione (Sem) di Berna aveva però respinto la domanda interpretando alla lettera l’accordo di Dublino: l’esame della richiesta di asilo spetta al primo Stato in cui il migrante fa ingresso, in questo caso l’Italia. Per la donna si prospettava un accompagnamento alla frontiera di Chiasso ma la sentenza del tribunale federale ha bloccato l’espulsione invitando la Sem a riesaminare più da vicino il caso della donna prestando attenzione “alle condizioni effettive e concrete della presa a carico delle famiglie in Italia nei centri di prima accoglienza”. Il precedente del 2014 - La sentenza del tribunale federale, presieduta dalla giudice Emilia Antonioni, ritiene che in Italia, in seguito al decreto Salvini siano peggiorate le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo, in particolare quelli che devono avere accesso a cure mediche specialistiche, come nel caso della donna nigeriana al centro del contendere. Tutto questo perché il decreto ha smantellato il sistema degli Sprar (che prevedevano un’accoglienza diffusa, in piccoli gruppi), concentrando invece l’accoglienza in strutture di grandi dimensioni. Il tribunale - secondo quanto riporta Swissinfo - ha anche rilevato che le sovvenzioni statali per l’assistenza ai migranti sono state tagliate. I giudici si sono mossi anche sulla base di una precedente sentenza del 2014 (caso Tarakhel) in cui si raccomandava di espellere migranti solo nel caso venisse loro garantita dal paese di destinazione una adeguata assistenza umanitaria, sanitaria e giuridica. “Tenere conto del decreto Salvini” - “Tenuto conto dei cambiamenti avvenuti in seguito all’entrata in vigore del Decreto Salvini - dice un passo della sentenza - il Tribunale è del parere che la giurisprudenza Tarakhel deve essere estesa alle persone che soffrono di malattie (somatiche o psichiche) gravi o croniche, che necessitano una presa a carico immediata al loro arrivo in Italia”. Da qui la richiesta di allontanare la donna nigeriana - e tutte le persone che si trovassero nella sua identica situazione - solo dopo essersi assicurati che l’Italia garantisca livelli di assistenza adeguati. Il dipartimento dell’immigrazione ha a sua volt a diffuso una nota in cui afferma che la sentenza viene applicata solo nei casi “di persone e famiglie che necessitano di cure mediche immediate”. 1.114 espulsi verso l’Italia - Il flusso di migranti tra l’Italia e la Svizzera risente dell’andamento generale degli sbarchi dal sud del Mediterraneo ed è drasticamente calato negli ultimi anni. Tuttavia ancora oggi diverse centinaia di persone l’anno riescono ad attraversare il confine di nascosto. Applicando l’accordo di Dublino sui richiedenti asilo le autorità elvetiche tra gennaio e novembre del 2019 hanno rimandato in Italia 1.114 richiedenti asilo. Migranti. Il Regno Unito impedisce il ricongiungimento dei minori con le loro famiglie di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 gennaio 2020 In un rapporto di 38 pagine intitolato “Senza la mia famiglia”, tre organizzazioni non governative britanniche (Amnesty International, Save the children e il Consiglio dei rifugiati) hanno accusato il governo di Londra di impedire “volutamente e in modo distruttivo” i ricongiungimenti dei minorenni rifugiati con le loro famiglie. Il rapporto, realizzato attraverso una serie di interviste con persone di età compresa tra 15 e 25 anni, tutte arrivate nel Regno Unito quando avevano meno di 18 anni, elenca gli effetti devastanti della separazione tra i minori rifugiati e le loro famiglie: ansia permanente, timore per i propri familiari rimasti nel paese di origine e, in alcuni casi, gravi disturbi mentali. Gli operatori sociali e gli altri professionisti che seguono i minori rifugiati senza famiglia hanno espresso tutto il loro disagio sottolineando quanto la famiglia abbia un ruolo cruciale nel benessere dei minori e nella fase dello sviluppo dell’identità, dell’istruzione e dell’integrazione sociale. I minori rifugiati sono soggetti a ripetuti eventi traumatici, che si aggiungono allo stress del vivere soli e lontano dal proprio paese. Nel 2019 il Regno Unito ha riconosciuto come rifugiati solo 1070 minori, meno di tre al giorno. Nel farlo, le autorità hanno dunque riconosciuto che i richiedenti asilo erano fuggiti da conflitti, persecuzioni e altre violazioni dei diritti umani e che sarebbe stato insicuro rinviarli nei paesi da cui erano scappati. Eppure, esse impediscono a questi rifugiati di ricongiungersi ai loro genitori, ai loro fratelli e alle loro sorelle. Infatti le norme vigenti prevedono che solo i rifugiati maggiorenni che desiderano ricostruire le loro vite nel Regno Unito possano chiedere il ricongiungimento con i familiari stretti. Non anche i rifugiati minorenni e le autorità britanniche sono le uniche in Europa a comportarsi in questo modo. Il governo di Londra sostiene, senza portare alcuna prova al riguardo, che le riunificazioni familiari potrebbero incoraggiare le famiglie a inviare in Europa dei minori non accompagnati in modo da farne delle “ancore” per gli altri membri della famiglia. Il rapporto evidenzia anche le costanti critiche mosse al governo di Londra da alti rappresentanti della magistratura, da commissioni parlamentari e dal Comitato per i diritti dell’infanzia. Sebbene nel 2018 un’ampia maggioranza trasversale di parlamentari avesse approvato una mozione per cambiare la normativa, il governo ha continuato a bloccare e a rinviare l’iniziativa. Amnesty International, Save the children e il Consiglio dei rifugiati chiedono con urgenza che i minori rifugiati abbiano le stesse opportunità degli adulti di ricongiungersi coi loro familiari. Droghe. Dalla canna all’eroina, un luogo comune senza fondamento di Antonella Soldo* Il Manifesto, 15 gennaio 2020 Quello che è necessario nel nostro paese è che il dibattito su questo tema venga ricondotto in una dimensione di confronto scientifico e razionale. Quello del passaggio dalle droghe leggere alle pesanti è uno degli argomenti più utilizzati dai proibizionisti italiani. L’ultimo a rispolverato, nelle settimane scorse, è stato l’ex presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani: “Quelli che fanno uso di droghe pesanti hanno iniziato facendosi una canna”. Così commentando la sentenza delle Sezioni unite della Cassazione che decriminalizza la coltivazione di cannabis per uso personale. Quello della “cannabis porta di tutte le droghe” è un argomento che sopravvive agli anni, attraversa le stagioni, è rivendicato da politici di ogni colore, conquista titoli nelle maggiori testate giornalistiche, e la sua diffusione - nei bar, nelle parrocchie, nelle file alle poste - lo ha reso luogo comune. E perciò, verità inconfutata. Per questo vale la pena provare a prenderlo sul serio e ribattervi, anche se è forte la tentazione di liquidarlo con una battuta (persino uno come Roberto Burioni ci è caduto: “Tutti quelli che hanno infilzato il cognato con un serramanico hanno iniziato tagliando il filetto con un coltello da cucina”). Dunque, cosa c’è di vero - se c’è - nell’affermazione che chi usa “cocaina eroina o acidi” ha cominciato con la cannabis? Come nasce questa convinzione? Quante persone coinvolgerebbe questo fenomeno? E che cosa si può fare per affrontarlo? Partiamo dai dati. Secondo l’ultima relazione del Dipartimento per le politiche antidroga, le persone in cura presso i servizi pubblici per le dipendenze patologiche (SerD) consumano soprattutto eroina e cocaina/crack, e poi cannabinoidi e alcool. Si tratta, per la gran parte di persone già conosciute dai servizi negli anni precedenti: solo il 14% sono nuovi utenti. Ciò che è curioso è che gli utenti trattati per uso di oppiacei risultano in costante diminuzione negli ultimi vent’anni, mentre aumentano quelli che consumano cocaina/crack e cannabinoidi. Inoltre, ciò che accomuna quasi tutti i consumatori problematici è il cosiddetto poli-consumo: ovvero il fatto di associare all’utilizzo di una sostanza quello di altre sostanze psicotrope e/o dell’alcol. I dati che riguardano il fenomeno del consumo delle droghe più di altri meritano di essere disaggregati e guardati molto da vicino. Ci si dovrebbe chiedere, ad esempio, chi sono queste persone? Soprattutto per quanto riguarda i cannabinoidi si tratta di migranti che hanno visto fallire il proprio progetto e vivono in situazioni di grande marginalità. La letteratura scientifica sull’argomento è scarsa, ma basta ascoltare quello che dicono gli operatori delle unità di strada per farsi un’idea di come si tratti di una costante. E ancora, dovremmo andare a vedere cosa succede nelle carceri dove oltre un quarto dell’intera popolazione carceraria (27,9%) è tossicodipendente. Ma tornando alla nostra questione, possiamo dire che da un punto di vista scientifico non vi è alcuno studio che dimostri come la cannabis possa fare da “ponte” al consumo di altre sostanze. Quello che è incontrovertibile, invece, è che il mercato nero mette in contatto le persone con le sostanze più disparate. Questa constatazione banale ha portato altri governi ad adottare misure diverse da quelle proibizioniste. I coffee shop olandesi nascono così: in un regime di tolleranza che ha il preciso scopo di tenere separato chi consuma cannabis dallo spaccio. E il premier canadese Justin Trudeau ha sostenuto la legalizzazione spiegando di voler tenere i giovani lontani dal contatto con la criminalità. Ecco, quello che è necessario nel nostro paese è che il dibattito su questo tema venga ricondotto in una dimensione di confronto scientifico e razionale. Un primo, semplicissimo, passo dovrebbe essere quello di discutere in Aula la relazione del Dipartimento per le politiche antidroga, invece di lasciarla sempre lettera morta. *Direzione di Radicali italiani Iran. L’Occidente ricordi l’Iraq di Saddam: non si ributti in una guerra sbagliata di Claudio Magris Corriere della Sera, 15 gennaio 2020 La crociata del 2003 contro Bagdad e le “armi chimiche” (inventate) del suo dittatore ci regalò Isis e la polveriera libica. Non ripetiamo lo scriteriato errore contro l’Iran. Nel 2003 c’è stata la crociata contro l’Iraq, allora governato da Saddam Hussein. Lui e il suo regime lo meritavano, ma le conseguenze sono state un disastro. Per giustificare la guerra in Iraq si sono inventate, mentendo, armi terribili di cui l’Iraq del feroce dittatore sarebbe stato in possesso e che era necessario distruggere. Lo dissero, mentendo - e ammettendo più tardi, troppo tardi, di aver mentito - personaggi illustri quali Colin Powell, segretario di Stato americano, e Tony Blair, primo ministro inglese. Se Giovanni Paolo II era così decisamente contrario non era per pacifismo ad oltranza, che non dimostrò durante la guerra in Jugoslavia, né tantomeno per simpatie terzomondiste. Semplicemente conosceva la Storia; era esperto - grazie alla sua origine, alle sue vicende e alla sua conoscenza dei tremendi focolai latenti nei Paesi di frontiera e di nazionalità e religioni diverse - delle disastrose conseguenze di tali tamburi di guerra. Grazie a quella guerra in Iraq baldanzosamente proclamata si sono scatenate in quelle terre conflitti di ogni genere fra siriani, turchi, curdi, iraniani, arabi. È quella guerra ad averci più tardi regalato l’Isis, così come ora occorre fronteggiare la polveriera libica creata pure da benintenzionati interventi militari, ovviamente democratici e umanitari. Papa Wojtyla non fu ascoltato perché parlava a sordi e ad ignoranti; ignoranti di storia e di geografia, così come Dick Cheney, vice presidente degli Stati Uniti al tempo di George W. Bush, non sapeva bene dove fosse Francoforte. Nella sua autobiografia Powell dichiarò, dieci anni più tardi, che le sue informazioni che avevano contribuito a provocare quella guerra non erano credibili e che sentiva il dovere di ammetterlo per salvare il suo onore di soldato. Anche Blair, pur proclamando la sua buona fede, fece un mea culpa a proposito di quella guerra, dei morti inglesi e iracheni e dello sciagurato errore politico. Sembra ed è sperabile che ora non si voglia ripetere lo scriteriato errore con l’Iran. Il Medio Oriente brucia già abbastanza per conto suo e l’Occidente non ha bisogno di nuovi incendi. Egitto. Un cittadino americano morto dopo 6 anni nelle carceri askanews.it, 15 gennaio 2020 Un cittadino americano è deceduto dopo aver trascorso oltre sei anni nelle carceri egiziane. Mustafa Kassem, 54 anni, aveva la doppia cittadinanza egiziano-americana ed era stato arrestato al Cairo nell’agosto del 2013, durante la repressione seguita alla presa di potere da parte dell’allora generale Abdel Fattah al Sisi, oggi presidente dell’Egitto. Come ricorda oggi la Cnn, Kassem venne picchiato dalle forze di sicurezza e tenuto in detenzione preventiva per oltre cinque anni prima di essere condannato, nel settembre 2018, a 15 anni di prigione. Poco dopo la sentenza, inviò una lettera al presidente Donald Trump chiedendogli di aiutarlo: “Prego che lei abbia un piano per me”. Nella missiva, Kassem informò il presidente americano che soffriva di diabete e che avrebbe iniziato uno sciopero della fame “sapendo molto bene che potrei non sopravvivere”. Ci sono almeno altri sei cittadini americani detenuti in Egitto, secondo quanto riferito alla Cnn da un ex prigioniero politico egiziano. Messico. 60mila desaparecidos per la guerra al narcotraffico. E l’effetto Amlo è nullo di Claudia Fanti Il Manifesto, 15 gennaio 2020 Nel “regno dell’impunità”. Le nuove stime al rialzo della Comisión nacional de búsqueda. Neppure il governo di Andrés Manuel López Obrador (Amlo) è finora riuscito a contrastare il cancro che divora il tessuto sociale messicano, uccidendo, occultando, facendo scomparire. In un paese devastato dalla criminalità organizzata, dal connubio tra narcos e potere politico, dalla corruzione dilagante - il Tribunale permanente dei popoli lo descriveva, nel 2014, come il “regno dell’impunità in cui vi sono omicidi senza assassini, torture senza torturatori e violenza sessuale senza stupratori” - i desaparecidos risultano 61.637, di cui la quasi totalità, 60.053, tra il 2006 e il 2019. Cioè da quando l’ex presidente Felipe Calderón scatenò la guerra contro il narcotraffico, portata poi avanti con eguale energia dal suo successore Enrique Peña Nieto, al ritmo di oltre 50 persone uccise ogni giorno. Una cifra, quella resa nota dalla Comisión nacional de búsqueda, che appare più alta del 54% rispetto a quella riportata nel 2018, grazie alla revisione dei rapporti trasmessi dalle procure dei singoli stati, con conseguente inclusione dei casi di scomparsa prima diversamente classificati. “Bisogna dirlo: si è voluto per molto tempo minimizzare il problema e renderlo invisibile”, ha dichiarato il sottosegretario per i Diritti umani della Segreteria di governo Alejandro Encinas, diffondendo anche i dati relativi alle fosse clandestine: 873 quelle scoperte negli ultimi 13 mesi, per un totale di 1.124 cadaveri, di cui solo 395 identificati e appena 243 consegnati ai familiari. Nessuna svolta si è finora registrata con l’attuale governo: se il numero di persone scomparse è passato dalle 5.976 del 2018 alle 5.184 dell’anno successivo, si tratta di un passo avanti davvero troppo piccolo considerando la promessa di López Obrador ai familiari dei desaparecidos di fare tutto il necessario per trovarli, senza “limiti di bilancio e tetto di spesa”. Ed è stato lo stesso presidente ad ammetterlo, definendo i risultati “ancora inferiori alle aspettative”, pur evidenziando l’impegno a non “occultare assolutamente alcuna informazione”. “Continueremo a lavorare perché non ci siano più desaparecidos e si riduca il numero dei reati in generale”, ha dichiarato, ponendo l’accento, tra l’altro, sulla necessità di consolidare la Guardia nacional, di migliorare il sistema di intelligence e di rivolgere l’attenzione ai giovani, soprattutto riguardo al diritto allo studio. Ma proprio la creazione di una Guardia nazionale militarizzata con compiti di sicurezza pubblica è stata oggetto di critiche assai aspre da parte dei movimenti sociali, tanto più perché in contrasto con l’impegno, affermato da López Obrador in campagna elettorale, ad allontanare l’esercito dalle strade in quanto “impreparato per tale funzione”. Haiti. 10 anni dal terremoto, ma è come se fosse accaduto ieri di Antonella Napoli Il Dubbio, 15 gennaio 2020 La rassegnazione degli abitanti, l’incuria del mondo. Maele, pesa poco più di due chili. È nata venerdì scorso ad Haiti, alla vigilia dell’anniversario di uno dei più devastanti terremoti dell’ultimo secolo, quello che il 12 gennaio del 2010 polverizzò Port-au-Prince, la capitale, e devastò gran parte dell’isola. La sua nascita è un piccolo miracolo in un paese con la mortalità materna e infantile più alto della regione. Circa 500 donne muoiono di parto ogni 100mila bambini nati, come ricorda la presidente di Medici senza Frontiere Claudia Lodesani che dieci anni fa era ad Haiti a prestare i primi soccorsi alla popolazione. Venerdì scorso Maele è venuta alla luce proprio in un’ambulanza di Msf dopo che sua madre era stata rifiutata da tre ospedali. Gli operatori che l’avevano soccorsa si sono fermati in un parcheggio. Ed è li che la giovane, in pieno travaglio, ha partorito. Il Sistema Sanitario haitiano è al collasso. La scossa di 7 gradi Richter, oltre a causare la morte di 230mila persone che lungo una diagonale di 25 chilometri in direzione ovest- sud- ovest non ebbero scampo, distrusse il 60% delle strutture ospedaliere. Da allora, nonostante la corsa agli aiuti umanitari dei primi mesi, poco è stato fatto per la ricostruzione materiale e sociale dell’isola caraibica. Gli annunci del post-terremoto, su tutti il “built back better” promesso in prima persona da Bill Clinton, nominato dalle Nazioni Unite commissario speciale per la ricostruzione, organismo che aveva quali principali Stati donatori gli Usa, si sono ben presto affievoliti. Un decennio dopo il sisma, l’unico dato tangibile è l’imbarazzante e pressoché totale disinteresse della comunità internazionale verso il destino di milioni di sfollati. Nella tragedia della devastazione ciò che più colpisce, passeggiando lungo le strade ancora piene di crepe e di buche di Port-au-Prince, è la mancanza di speranza tra la gente. La rassegnazione, impastata con la rabbia e la disperazione, è palpabile. Lontana dai riflettori, che restano spenti anche nell’anniversario di uno dei disastri naturali più gravi della storia, Haiti è segnata da una forte ondata di violenza dovuta a fattori politici e socioeconomici che hanno acuito la già grave crisi nel Paese che nel 2018 aveva portato al rincaro dei prezzi del carburante. In migliaia da mesi scendono in piazza per chiedere le dimissioni del presidente Jovenel Moise. A conferma della gravità della situazione la preoccupazione espressa dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per l’impasse politica in cui si trova Haiti. L’Onu ha chiesto con decisione alle autorità haitiane di avviare un dialogo inclusivo e aperto per formare un nuovo governo che “risponda ai bisogni del popolo che non può più attendere”. I ripetuti scontri e l’insicurezza crescente hanno determinato la chiusura di scuole e università. Stessa sorte per gli ospedali, quelli attivi operano al minimo. Al moltiplicarsi delle manifestazioni di massa sono seguite repressioni brutali da parte delle forze di sicurezza con centinaia di morti. Non c’è forma di dissenso che si manifesti senza violenza. Il tutto ha portato a un aumento significativo dell’uso delle armi. Nell’ultimo anno Medici Senza Frontiere, tra le poche organizzazioni che continuano a operare sul campo e che il 12 gennaio del 2010 ha perso 12 operatori, ha trattato migliaia di pazienti con ferite da arma da fuoco. arrivati nel centro per le cure d’emergenza nella baraccopoli di Martissant. Numeri impressionati, il doppio rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Le tensioni sono in crescendo e quasi ogni giorno si susseguono violenze non solo nella capitale ma anche in altre grandi città, come Les Cayes e Gonaïves. Il declino costante del potere d’acquisto degli haitiani causato dalla svalutazione della moneta, in un contesto di stallo delle istituzioni e di una corruzione dilagante, ha ridotto alla totale povertà la maggioranza della popolazione. “I manifestanti hanno eretto barricate nelle strade principali. racconta Lindis Hurum, capomissione di Msf a Haiti - Rabbia, paura e disperazione sono palpabili ovunque. Le strade di Port-au-Prince, normalmente trafficatissime, adesso sono vuote perché gli abitanti hanno paura di improvvise esplosioni di violenza. Nessuno si sente al sicuro, incluse le nostre équipe mediche, che hanno affrontato gravi incidenti di sicurezza”. L’organizzazione, nonostante il clima sempre più violento renda difficile l’azione di sostegno al sistema sanitario pubblico, fornisce assistenza con i pochi fondi, lo staff e il materiale a disposizione. La mancanza di sicurezza limita i movimenti del personale medico e il trasporto di attrezzature, sangue e medicinali. “Questa crisi ha ulteriormente indebolito una situazione sanitaria già fragile, aumentando potenzialmente il tasso di mortalità - sostiene Hurum. Da un lato, non ci sono abbastanza medici, farmaci e forniture essenziali come ossigeno ed elettricità. Dall’altro aumentano i pazienti che non possono permettersi di andare in strutture private. Ci sono tutti gli elementi per un disastro umanitario irreversibile”. Gli operatori lavorano giorno e notte per salvare vite in un contesto molto teso che mette a repentaglio la loro stessa incolumità “Quando arrivano i pazienti, li stabilizziamo e forniamo le prime cure, ma non siamo un ospedale e abbiamo bisogno di un’organizzazione efficace di trasferimenti per assicurare assistenza medica più avanzata a pazienti con traumi multipli” conclude il coordinatore del centro di Martissant, uno dei pochi pronto soccorso aperti 24 ore su 24. La grave crisi politica ed economica ad Haiti ha messo a dura prova l’intero sistema sociale sanitario del Paese, già ridotto ai minimi termini. Senza le ong internazionali che operano sul campo l’isola sarebbe totalmente abbandonata a se stessa.