Leda Colombini, la mondina rivoluzionaria che lottava contro il carcere di Monica Fantauzzi Il Dubbio, 14 gennaio 2020 Era il 1994, quando, per la prima volta, cinque bambini uscirono dal carcere romano di Rebibbia femminile per vedere il mare. Alcuni di loro non volevano scendere dal pullman, altri, i due più temerari, si fiondarono sulla sabbia cercando di raccoglierne il più possibile. Lí, accovacciata sul bagnasciuga, c’era una donna. La sua storia iniziava molti anni prima, ma quel giorno avrebbe incrociato quella di altre donne, alcune delle quali oggi sono libere, altre ancora recluse. Leda Colombini fondò “A Roma Insieme” nel 1992, con l’obiettivo di trovare un’alternativa al carcere per madri e bambini. “Leda ricordava le battaglie in carcere con estrema commozione. Forse in quei bambini, e nelle loro madri, rivedeva parte della sua storia personale”, ricorda Francesco Piva, professore di Storia Contemporanea per oltre quarant’anni e autore nel 2009 di La storia di Leda, da bracciante a dirigente di partito; un libro che nei traccia il percorso formativo alla militanza politica e sindacale. Oggi, a dieci anni da quella pubblicazione, Piva sfoglia quelle pagine con delicatezza: “Gli do un’occhiata nel caso mi dovessero sfuggire delle date, sai, è stata una vita intensa quella di Leda”. Leda Colombini nacque a Fabbrico di Reggio Emilia il 10 Gennaio del 1929 in una famiglia estremamente povera. Il nonno era mezzadro e la madre, dopo esser rimasta incinta dal figlio del padrone, partorì tre figlie. Il padre non le riconobbe mai, e la madre le allevò da sola, aiutata dal suo vecchio genitore. Fin da bambina comprese che la madre soffriva per quella condizione; una condizione che, di fatto, le impediva di mandare la figlia a scuola oltre la primaria. Finita la quinta elementare infatti, Leda va subito a lavorare come “mondina” nelle risaie vicine a Fabbrico. “Quando non lavora si chiude nella biblioteca del Comune. Legge qualunque cosa, anche se, in pratica, trova quasi tutti libri rosa. Quando torna dalle sue compagne, nelle risaie, le donne si affrettano a metterla al centro. Così tutte in fila, possono ascoltare Leda che narra le storie imparate anche per loro”. La storia di Leda inizia a essere “rivoluzionaria” a partire da quegli anni. Nessuno nella sua famiglia era politicizzato; conobbe l’esistenza dei partigiani durante i “filò”, vale a dire le serate in cui famiglie contadine si riunivano nella stalla per riscaldarsi; si mangiava, si raccontavano storie e nascevano amori. Fu lì che sentì parlare per la prima volta della Resistenza e della possibilità di parteciparvi attivamente, cucendo maglioni, calze e vestiti per i partigiani. Alla fine della guerra si iscrive giovanissima al Partito Comunista Italiano ed entra nelle file dell’Udi dove conosce Nilde Iotti. Il partito la manda alla scuola centrale per quadri dirigenti, dislocata allora a Milano. Furono sei mesi che Leda ha ricordato come “difficilissimi” ma anche fondamentali. Prima di allora parlava solo il dialetto e - come lei stessa ha raccontato - in quei mesi imparò l’italiano, un po’ di storia, di economia e di geografia. In effetti, subito dopo la guerra, il Pci si ritrovò con masse di iscritti per la maggior parte analfabete, per questo fu allestito un vero e proprio sistema scolastico- educativo che, partendo dalle sezioni, passava per le province, le regioni e arrivava fino alle scuole nazionali, come quella di Milano dove approdò Leda. Dopo quel periodo ritornò a Fabbrico ma, nell’estate del 1949, il giovane segretario nazionale della Federbraccianti, Romagnoli, la chiamò a collaborare nella gestione del grande sciopero nazionale dei braccianti - lo sciopero dei 40 giorni - che ovviamente coinvolgeva anche le mondine. Ogni anno, la stagione della “monda” richiamava nelle risaie del Piemonte decine di migliaia di braccianti soprattutto dell’Emilia Romagna che il sindacato assisteva a diversi livelli, dalla all’allestimento di iniziative culturali e ludiche per il tempo libero. Sempre nel 1949, al congresso nazionale della Federbraccianti entrò nella segreteria nazionale che le affidò la guida delle braccianti (su un milione di iscritti, costituivano quasi la metà). In questa nuova veste, Leda - poco più che ventenne - affrontò le fragili condizioni lavorative delle donne in diversi comparti agricoli: oltre all’annuale campagna per le mondine, diede innovativo impulso all’azione sindacale tra le braccianti più sfruttate e meno riconosciute, quelle del Sud (raccoglitrici di olive di castagne, di gelsomini); “Furono gli anni in cui si mise alla testa dei cortei, accanto agli uomini, occupando le terre. La notte le capitava di dormire nelle stalle, insieme agli asini”. “Quando pubblicammo il libro - ricorda ancora Piva - Leda volle presentarlo a Fabbrico, da dove era partita, più di ottant’anni prima”. La sala era gremita di facce che non esistono più, facce di contadine che, silenziosamente, portavano sulla pelle i segni di quelle lotte. Se iniziò a varcare la soglia del carcere, fino a morirci, era perché vedeva nelle donne recluse la tragica eredità di una battaglia mai vinta. “Se si concedessero gli arresti domiciliari alle donne condannate per reati che prevedono soluzioni alternative alla detenzione, il 97% delle donne non varcherebbe la soglia dei penitenziari, e con esse neanche i bambini”. Diceva Leda, vent’anni fa. Oggi a Leda Colombini è dedicata la prima e, praticamente unica casa famiglia per madri detenute, non è una sezione “carina” all’interno di un carcere, né un istituto di custodia attenuata, è una casa. Con delle finestre e non delle sbarre. Sono 2.713 le donne recluse ora in Italia, ossia appena il 5% dell’intera popolazione detenuta (61.174, per una capienza regolamentare di 50.476). Nonostante la legge imponga una serie di situazioni ritenute incompatibili con il regime carcerario, e nonostante tra queste vi sia appunto quella di “madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente”, le madri oggi in carcere sono 52, con 56 figli al seguito. Nel sud del Malawi, c’è una prigione di massima sicurezza, Zomba Prison. Venne costruita durante la colonizzazione inglese, con una capienza di 340 persone massimo. Oggi ospita più di 2.000 detenuti, tra cui decine di madri con bambini. Nell’angolo di terra rossa recintato dove vivono quelle detenute, è stata composta una canzone. Se il grado di civilizzazione di un paese si misura dalle sue prigioni, come scrisse Dostoevskij dopo aver trascorso quattro anni di reclusione in Siberia, quella canzone sarebbe potuta essere stata scritta anche in Italia. “Tu uomo, non hai pietà, cosa stai facendo a mio figlio ma, fratello, cosa ha fatto lui di male? Io l’ho cresciuto da sola. E da sola sto soffrendo”. Leda morì all’età di 82 anni, nel carcere di Regina Coeli. Dove tutto è cemento ma lei vedeva sabbia. Prescrizione, ipotesi sospensione di due anni per gli assolti in primo grado di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2020 Tra i punti chiave dell’intesa nella maggioranza anche controlli sui tempi dei giudizi. Possibile l’azione disciplinare contro i magistrati negligenti. Sospensione temporanea (e non blocco definitivo) dei termini per gli imputati assolti in primo grado. Meccanismo di controllo sul rispetto dei tempi che può condurre all’azione disciplinare contro il magistrato negligente. Monitoraggio stingente dei tempi di durata dei giudizi. Inserimento nel disegno di legge di riforma del processo penale da presentare entro pochi giorni in Consiglio dei ministri. Sono questi i punti chiave dell’accordo raggiunto tra le forze di maggioranza nella tarda serata di giovedì sulla giustizia penale. Determinante la mediazione del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. L’intervento di Bonafede - A valorizzarne l’intervento è stato lo stesso ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che, nel dichiarare di essere pronto a presentare il disegno di legge di riforma del processo penale a breve, ha sottolineato l’importanza dell’indicazione del premier per un intervento di modifica alla disciplina della prescrizione in vigore da pochi giorni per introdurre una “sospensione lunga”, con l’obiettivo di differenziare la posizione di chi in primo grado è stato assolto da chi invece è stato condannato. I sommersi e i salvati - Il blocco dei termini riguarderebbe cioè solo chi ha già visto accertato almeno in un grado di giudizio la propria colpevolezza. Per i prosciolti, invece, scatterebbe un congelamento solo temporaneo, rendendo possibile che la prescrizione torni a decorrere in caso di mancata pronuncia in appello entro la scadenza individuata. Dove il punto di riferimento potrebbe essere quanto previsto nel disegno di legge Pd, depositato subito dopo Natale a Camera e Senato, che stabilisce uno stop temporaneo di 2 anni. I problemi costituzionali - Sulla tenuta costituzionale della distinzione tra assolti e condannati è subito montata la polemica, anche all’interno della magistratura, con Piercamillo Davigo, consigliere del Csm, che, dopo avere ricordato precedenti della Consulta come la sentenza che nel 2007 bocciò la legge Pecorella sull’inappellabilità delle assoluzioni, ha messo in evidenza come “per la Costituzione la presunzione di innocenza resta tale fino al giudizio definitivo”. Quando invece per il neo-procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, in audizione alla Camera, la distinzione, ai fini della prescrizione, “non è affatto irragionevole”. D’accordo sulla distinzione è poi l’Anm, per bocca del segretario Giuliano Caputo. Per il capogruppo Pd in commissione Giustizia alla Camera Alfredo Bazoli, peraltro “la stessa riforma Orlando del 2017 prevedeva la distinzione tra condannati e assolti per quanto riguarda la sospensione e censure di costituzionalità non ne sono arrivate”. Responsabilizzare i giudici - La previsione della sospensione, secondo quello che ormai passa per il “lodo Conte”, dovrà poi essere accompagnata da una forma stringente di responsabilizzazione del giudice che potrà condurre a una sanzione disciplinare, non più in caso di mancato rispetto dei termini per una quota significativa dei fascicoli a lui assegnati come previsto dalla bozza di disegno di legge sul processo penale, ma secondo un percorso inedito che, una volta decorsi i termini di fase che saranno individuati dal disegno di legge, prevede un intervento da parte dell’imputato o della parte civile per “mettere in mora” il magistrato. A quel punto partirebbe un ulteriore e più limitato periodo di tempo (da 6 a 8 mesi a seconda della gravità del reato) entro il quale arrivare a sentenza. In caso di mancato rispetto anche di questo nuovo termine, scatterebbe la segnalazione al Csm per la sanzione, insieme all’avocazione del procedimento da parte della Procura generale. “Naturalmente bisognerà leggere le norme - avverte il sottosegretario Pd alla Giustizia Andrea Giorgis -, ma il clima si è senz’altro rasserenato”. Giorgis poi chiarisce un altro punto delle proposte di Conte: un monitoraggio stringente dei tempi dei processi, i cui risultati potrebbero condurre anche a una riforma della Bonafede in caso di dati preoccupanti sull’allungamento dei tempi. Tutto confluirà nel disegno di legge di riforma che verrà presentato forse già la prossima settimana in Consiglio dei ministri. Dove, a fronte delle critiche delle Camere penali sui tempi di approvazione, Bazoli mette in evidenza il senso di un intervento complessivo con misure, per esempio, sui riti alternativi, sull’appello, sulle indagini preliminari, ma anche, nella parte ordinamentale, sulle priorità di esercizio dell’azione penale. Via libera al processo eterno. Il Pd cede, vince Grillo di Aldo Torchiaro Il Riformista, 14 gennaio 2020 Prescrizione, sfuma l’ultima chance di abolire la riforma. Patto con gli alleati: modifiche al decreto sicurezza in cambio del voto contrario dei dem al ddl Costa in Commissione Giustizia. Dal conclave di Contigliano si solleva una fumata bianca. È sulla prescrizione: un argomento caldissimo, a dispetto del gelido convento reatino in cui sono chiusi ministri, parlamentari e dirigenti Pd. Nelle segrete stanze dell’abbazia circola, come nella suggestione di Umberto Eco, il nome della rosa: un patto segreto cui tutti i convenuti giurano fedeltà. Il codice miniato da tutelare a costo della vita qui assume le prosaiche fattezze del testo della riforma Bonafede. E Lucia Annunziata, rimasta fuori dalle porte del conclave, a rivelare i dettagli della riunione dem: “Don Dario Franceschini in chiesa ha chiesto a una coppia di conviventi un po’ riottosi di sposarsi”. In sostanza la strategia politica espressa durante l’incontro in questo “freddissimo e austerissimo convento”, continua la Annunziata è che “l’alleanza tra il Pd e M5s si rinsaldi, diventi strategica” legandosi al progetto, tratteggiato dal segretario Zingaretti, di un partito che cambia nome e simbolo, magari proprio in asse con lo sparring partner a Cinque Stelle. Vittima sacrificale e primo banco di prova di questa unione è la prescrizione, che i Dem sono pronti a mandare in soffitta, con il rischio di trasformare il sistema giustizia nel girone dei dannati in cui la pena accessoria diventa di fatto, già a monte, l’incertezza più assoluta sulla durata del procedimento. Si introdurrebbe, se la prescrizione saltasse senza correttivi, la “fine pena mai” per milioni di processi consegnati allo strazio infinito. Se il Pd voterà insieme con il M5S in Commissione Giustizia, il loro emendamento anti-Costa ha ottime probabilità di successo. Dei 45 componenti della Commissione giustizia, 25 sono di maggioranza e 20 di opposizione. Se i due di Italia Viva si sfilano, confermando il voto della proposta di legge a firma Costa, finirà comunque 23 a 22. La presidente della Commissione, la giovane avvocata padovana Francesca Businarolo, dei Cinque Stelle, con ogni probabilità non rispetterà la prassi per cui il presidente si astiene e farà convergere il suo voto su quello di maggioranza. Ieri ha perfino reso noto che il voto previsto oggi viene spostato alla seduta pomeridiana di mercoledì prossimo. Un rinvio chiesto dal gruppo del Pd proprio per gli impegni a porte chiuse di queste ore, ma anche dal rappresentante del governo che segue il provvedimento, ed è stato accolto da tutti i gruppi con la sola esclusione di Fi e Lega. Palazzo Chigi in effetti non è rimasto a guardare. Il premier Conte ha provato a mediare con una misura giudicata ancora inadeguata dai renziani: “Non siamo ancora soddisfatti - dice Davide Faraone - e ci riserviamo di valutare”. Per Maria Elena Boschi “resta migliore l’ipotesi dì tornare alla disciplina precedente votando la proposta di Costa”. Conte aveva promesso un impegno da parte sua per un disegno di legge delega sul processo penale che dovrebbe accelerare i tempi dei tre gradi di giudizio con una sanzione disciplinare prevista per i giudici che li sforano in appello. L’unica modifica vera strappata alla riforma Bonafede che dal primo gennaio ha stappato la prescrizione dopo il primo grado è la distinzione tra condannati e assolti: per i primi la prescrizione resterebbe bloccata, gli assolti invece beneficerebbero della decorrenza dei termini nei successivi gradi di giudizio. Un lodo promosso da un altro Conte, Federico, di Leu, che punta a fermare la prescrizione dopo il primo grado di giudizio solo per chi viene condannato. “A noi appare una proposta significativa, anche perché dimostra la non intoccabilità della legge”, dichiara Walter Verini, responsabile giustizia del Pd, al Riformista. Prosegue Verini: “Mi permetto di far rilevare che la parte davvero importante dell’intesa che si è trovata riguarda le ipotesi concrete di norme e provvedimenti in grado di portare a tempi certi delle fasi processuali, coerenti con la durata ragionevole dei processi”. Solo ipotesi, appunto. Ma pacta sunt servanda. Secondo Forza Italia, patti satanici. “Il Pd sta vendendo la sua anima al diavolo pentastellato e, cosa molto più importante, sta svendendo il Paese all’ideologia giustizialista e pauperista dei 5 Stelle”, arringa un altro avvocato della politica, il deputato azzurro Francesco Paolo Sisto. Alle trattative tra Pd e Cinque Stelle non è estraneo l’altro dossier caldo, quello sul Dl Sicurezza. “Non c’è dubbio che ogni momento è buono per lavorare alla revisione. soprattutto depurandoli di alcune previsioni aggiuntive che non hanno nulla a che vedere con l’impianto inizialmente previsto”, ha assicurato Giuseppe Conte ieri. I maligni parlano di una intesa mediata da Conte tra Zingaretti e Di Maio, Franceschini e Bonafede: via la prescrizione, via il Decreto Sicurezza. E rimane, corretto, il Reddito di Cittadinanza. “Noi confermiamo le nostre posizioni”. attesta Ettore Rosato, Italia Viva. “Se poi altri hanno trovato un’intesa senza di noi”. In effetti l’intesa c’è e a Contigliano sembrano pronti a sottoscrivere più di un accordo concessivo: un contratto pre-matrimoniale, per rifarci alla metafora nuziale, pur di fermare l’avanzata di Salvini. Gli ultimi sondaggi sull’Emilia-Romagna preludono a una stagione di cambiamenti radicali in casa Dem. Nome e simbolo finiranno in quel camino da cui ieri è esalata, trasformata in fumo, la prescrizione. Fine processo mai. La barbarie della riforma Bonafede di Ermes Antonucci Tempi, 14 gennaio 2020 Intervista a Gian Domenico Caiazza (Ucpi): “L’abolizione della prescrizione è controproducente e dannosa. E colpirà i cittadini anonimi”. “Con la riforma della prescrizione si sancisce in modo formale un principio barbarico, cioè che il cittadino debba rimanere in balìa della giustizia penale, sia come imputato che come persona offesa del reato, fino a quando e se lo Stato avrà modo di definire la sua posizione processuale. Il processo in Italia ha già una durata irragionevole, quasi il doppio dei tempi medi europei. Intervenire sulla prescrizione piuttosto che sulle cause della durata dei processi è qualcosa di strabiliante che solo in un paese impazzito può accadere”. Intervistato da Tempi, Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali italiane (Ucpi), l’organizzazione che rappresenta gli avvocati penalisti, non usa mezzi termini nel denunciare le conseguenze della riforma della prescrizione, entrata in vigore il 1° gennaio 2020. La norma, voluta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (e approvata da M5s e Lega nel dicembre 2018), prevede l’abolizione di fatto della prescrizione dopo una sentenza di primo grado, sia essa di condanna o di assoluzione. In altre parole, una volta superato il primo grado di giudizio, i processi in Italia potranno durare anche 50 anni, costringendo i cittadini a rimanere impigliati nelle maglie della giustizia per tutta la vita. Il ministro Bonafede ha affermato più volte che la riforma della prescrizione, applicandosi ai reati commessi dopo la sua entrata in vigore, produrrà i suoi effetti solo tra tre o quattro anni, permettendo quindi di approvare nel frattempo una legge che possa velocizzare i tempi del processo. È così? “Non è così, perché basterà un rito direttissimo e una sentenza emessa per un reato commesso dopo l’entrata in vigore della legge per averne immediata vigenza. Ad ogni modo, mi sembra veramente singolare questo modo di ragionare: si introduce una riforma, se ne riconosco gli effetti deleteri (perché si afferma che bisogna intervenire sui tempi del processo), ma si rassicura sostenendo che gli effetti si vedranno tra diversi anni. Questa cosa non ha nessun senso, se non quello di fissare una bandierina giustizialista: “Abbiamo sconfitto i furbi della prescrizione”. Il diritto è un complesso sofisticato di regole e di princìpi. Se si spazzano via regole e princìpi, i danni sono enormi, a prescindere dalla tempistica”. Secondo le statistiche fornite dal ministero, circa il 75 per cento delle prescrizioni matura prima di una sentenza di primo grado. Di conseguenza la riforma avrà un impatto minimo, solo sul 25 per cento dei procedimenti che finiscono con la prescrizione dei reati... “Questo dimostra l’irrazionalità dell’intervento. I numeri si commentano da soli e soprattutto sbugiardano la vulgata che giustifica la riforma, e cioè che la prescrizione sia lo strumento dei potenti e dei furbi, che si possono permettere i grandi avvocati per guadagnare tempo e salvarsi la pelle. Non c’è un istituto più interclassista e popolare della prescrizione. Se si prendono in considerazione solo quaranta casi, come fanno Marco Travaglio e Peter Gomez nel loro libro La Repubblica degli impuniti, citando ad esempio Carlo De Benedetti, Silvio Berlusconi o altri, e non si dice che ad aver usufruito della prescrizione sono stati centinaia e centinaia di migliaia di cittadini, si stravolge il senso delle cose”. La riforma è in contrasto con il principio costituzionale di ragionevole durata dei processi? “C’è sicuramente un profilo di incostituzionalità. Lo hanno confermato centocinquanta docenti di diritto penale, procedura penale e costituzionale che hanno sottoscritto un nostro appello al capo dello Stato già in sede di promulgazione della legge. Si tratta di un fatto eccezionale, se si considera che l’accademia difficilmente si sbilancia. Il profilo di incostituzionalità fu urlato da coloro che questa materia la studiano e la insegnano. Ma è il paradosso di questo paese: la conoscenza e la competenza sono un demerito e vanno ignorate”. Negli ultimi anni si è assistito a un costante allungamento, per via legislativa, dei termini di prescrizione, tanto che ormai i reati più gravi e di maggiore allarme sociale vanno in prescrizione dopo 15, 20 o persino 50 anni (senza tener conto di quelli imprescrittibili, perché puniti con l’ergastolo). Come è possibile che sia passata l’immagine della prescrizione come strumento in mano ai furbetti? “Questa è una risposta che dovrebbero dare i giornalisti e i responsabili dell’informazione. Circa il 95 per cento delle prescrizioni riguarda reati bagatellari e di scarso allarme sociale, puniti con pene massime di 4, 5 o 6 anni, e quindi con una prescrizione che arriva fino a 7 anni e mezzo. Una volta questa mole di procedimenti, che soffoca le procure e i tribunali, era smaltita con le amnistie. L’amnistia costituiva un modo limpido e democratico per risolvere il problema, perché implicava un’assunzione esplicita di responsabilità politica. Da quando è stata cambiata la norma sull’amnistia, questa funzione è passata alla prescrizione. Il procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, al congresso straordinario dell’Ucpi a Taormina ha detto che la prescrizione è il nostro “quantitative easing”. È la salvezza, perché ci consente di smaltire i procedimenti basati, lo ripeto, su reati di natura bagatellare. I beneficiari sono i cittadini anonimi, di ogni appartenenza sociale, economica e politica. Quello degli impuniti è un discorso che solo degli analfabeti possono sostenere nei talk show, intervistati senza possibilità di contraddittorio”. Lei è stato l’avvocato di Enzo Tortora nella causa per responsabilità dei magistrati che lo avevano ingiustamente arrestato e condannato. Cosa significa essere coinvolti in una vicenda giudiziaria per anni, se non decenni? “Il protrarsi di una vicenda giudiziaria, già solo per 4 o 5 anni, ha un impatto devastante sulla vita delle persone, perché essere indagati o imputati significa subire conseguenze pesanti sulle possibilità lavorative, sulle proprie relazioni sociali e spesso sulla vita affettiva e familiare. Potrei raccontarle centinaia di storie. Gliene racconto solo una recente, che riguarda un imprenditore del settore alimentare. Da cinque mesi è indagato e posto agli arresti domiciliari. Era il fornitore di circuiti commerciali all’ingrosso molto importanti, ma da quando la notizia dell’indagine è stata resa nota gli sono stati revocati tutti i contratti. E parliamo di una vicenda iniziata solo un anno fa, figuriamoci se questa condizione si dovesse prolungare per 10 o 15 anni”. Negli ultimi mesi avete portato avanti diverse iniziative, tra cui due astensioni dalle udienze e una maratona oratoria a Roma che per giorni ha visto alternarsi centinaia di avvocati da tutta Italia. Quali segnali avete avvertito dal pubblico e dalle istituzioni? “La maratona oratoria è stata straordinaria, anche sotto il profilo della ricaduta mediatica. Abbiamo registrato un’attenzione importante non solo dall’opposizione (tra cui anche la Lega, che però quella legge l’ha votata), ma anche da componenti della maggioranza, come Italia viva. Il Pd ha due anime e una di esse è molto vicina alle nostre posizioni. Siamo certi di aver mosso le acque e per noi la partita rimane aperta anche dopo l’entrata in vigore della riforma”. La riforma Bonafede, oltre che dannosa, è inutile. Resta, però, il problema rappresentato dall’alto numero di procedimenti penali (circa 130 mila) che ogni anno finiscono in prescrizione. Come si dovrebbe intervenire? “Si dovrebbe intervenire riportando il nostro sistema accusatorio alla normalità. Non possiamo avere il 90 per cento dei dibattimenti, non esiste in nessun sistema accusatorio. Negli altri paesi si privilegiano soluzioni negoziali del processo penale, come patteggiamenti o giudizi abbreviati condizionati. Bisognerebbe quindi potenziare la capacità di filtro dell’udienza preliminare, perché non si possono mandare avanti i processi che poi si dimostreranno inutili, come ora è confermato dal 50 per cento delle assoluzioni in primo grado. Poi bisognerebbe potenziare i riti alternativi e depenalizzare. Se si interviene in questo modo, riducendo il numero di procedimenti che finiscono in dibattimento dal 90 al 30 per cento, vedrete come si accorceranno i tempi del processo”. Blocco della prescrizione, il mondo alla rovescia chiesadimilano.it, 14 gennaio 2020 La cosiddetta “riforma” Bonafede dimentica secoli di storia e di riflessione culturale. “È noto che nel Paese di Acchiappacitrulli per svuotare le carceri si facevano le amnistie, cioè si cancellavano i carcerati e si rilasciavano i malandrini” (Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, capitolo 19, in fine). In un’Italia in cui molti, molti citrulli non sono stati ancora acchiappati (ma, d’altra parte, tanti altri sembrano soltanto pronti e vogliosi di farsi acchiappare…), con l’apparente motivazione di far sì che le lungaggini della Giustizia penale non provochino più la prescrizione dei reati, lasciando i colpevoli impuniti, invece che intervenire per ridurre, guarire, evitare le lungaggini della Giustizia penale (per non parlare di quelle della Giustizia civile) si abolisce la prescrizione. Come se, per far passare la febbre ai malati, si vietasse la vendita dei termometri. Questa vicenda della cosiddetta “riforma” Bonafede (in realtà una deformazione del sistema giuridico penale che lo rimanda indietro più o meno di trecento anni) è un bell’episodio e un drammatico esempio di quella infinita storia del mondo alla rovescia (tema che vanta una cospicua e composita letteratura), storia che si va intensificando e accelerando ai tempi nostri, dimenticando secoli di storia “altra”, e di riflessione culturale. In realtà già nel 1764 il ventiseienne Cesare Beccaria scriveva (Dei delitti e delle pene, capitolo 30): “È necessario concedere al reo il tempo e i mezzi opportuni per giustificarsi; ma tempo così breve che non pregiudichi alla prontezza della pena, che abbiamo veduto essere uno dè principali freni dè delitti. Un mal inteso amore della umanità sembra contrario a questa brevità di tempo, ma svanirà ogni dubbio se si rifletta che i pericoli dell’innocenza crescono coi difetti della legislazione. Ma le leggi devono fissare un certo spazio di tempo, sì alla difesa del reo che alla prova dè delitti, e il giudice diverrebbe legislatore se egli dovesse decidere del tempo necessario per provare un delitto”. L’Illuminismo - anche quello lombardo, temperato dal buon senso, e rivestito di economia - già allora, reagendo alle durezze dell’assolutismo e richiamandosi alla ragione come caratteristica naturale dell’uomo e della sua civiltà, aveva introdotto anche nella riflessione sopra il diritto l’idea che un Paese democratico, per potersi dire tale, non avrebbe potuto arrogarsi il diritto di tenere sotto processo e di poter punire all’infinito i suoi cittadini, per quanto fossero colpevoli. E infatti, più avanti nello stesso capitolo 30, confermava la necessità che, per ciascun delitto, si fissasse l’adeguato “tempo della prescrizione”: “Tale è almeno il temperamento che sembrami opportuno per difendere e la sicurezza e la libertà dei sudditi, essendo troppo facile che l’una non sia favorita a spese dell’altra, cosicché questi due beni, che formano l’inalienabile e ugual patrimonio di ogni cittadino, non siano protetti e custoditi l’uno dall’aperto o mascherato dispotismo, l’altro dalla turbolenta popolare anarchia”. Parole prima di tutto di buon senso, oltre che di libertà, e idea volta prima di tutto ad assicurare la “prontezza della pena” (capitolo 19), e con essa la sua certezza e la sua efficacia. E aggiungeva, come se fosse conclusione normale e ragionevole, prima ancora che razionale, che “il processo medesimo dev’essere finito nel più breve tempo possibile”. Trecento anni sono passati invano? Abbiamo un sistema penale (anzi: un sistema giudiziario nel suo complesso) ferito gravemente e, ormai, gravemente ammalato non già per l’esistenza delle norme sulla prescrizione, che non sono il vero problema del nostro sistema penale, ma a causa della sua quasi insopportabile (c’è chi ha scritto: “scandalosa”) lentezza e farraginosità: il gran numero di dichiarazioni di intervenuta prescrizione (per altro con gravi, colpevoli differenze da distretto a distretto, da regione a regione) non è la causa (né potrebbe esserlo) della crisi della Giustizia penale in Italia, ma soltanto la conseguenza, l’effetto della cosiddetta “mala giustizia”, della giustizia in perenne ritardo, della giustizia troppo spesso negata. Se la Giustizia funzionasse, non sarebbe necessario cadere sotto la scure della prescrizione: é il ritardo che è sanzionato dalla prescrizione, e senza prescrizione il ritardo rimarrebbe intatto. Anzi, si consoliderebbe e, senza la sanzione della prescrizione, rimarrebbe del tutto impunito e ricadrebbe esclusivamente sulle spalle del cittadino, senza sfiorare le vere cause del malfunzionamento. Questa normativa introdurrà altresì, invece che maggior giustizia, maggior disuguaglianza: fra il ricco, che potrà diluire a suo piacimento con mille espedienti la durata del processo (d’altro canto la legislazione ad personam del primo decennio di questo secolo aveva intaccato - prolungandola a dismisura ed estendendola a ben determinati reati - proprio la prescrizione), allontanando sine die la sentenza, e il povero, che non disporrà dei mezzi necessari, e resterà nell’infinita attesa della sentenza che - prima o poi - comunque arriverà; fra il colpevole, che sarà ben felice dell’allontanarsi senza limite di tempo della (giusta) pena che sa di meritare, e l’innocente, che non potrà fare altro che aspettare - alla mercé dei tempi del giudice, o della macchina della Giustizia - in uno stato di sospensione impotente, e gravato di quel “carico pendente” e delle sue molteplici conseguenze negative (potrà fare concorsi? Partecipare a gare pubbliche d’appalto? Potrà godere di tutti e tutt’interi i suoi diritti?) a tempo sostanzialmente infinito. Ad onta della certezza del diritto. Molteplici profili di incostituzionalità si affacciano: violazione dell’articolo 3 (principio di uguaglianza); violazione dell’articolo 27 (che fine fa la cosiddetta “presunzione d’innocenza”, se il “sistema” - che finora prevede tre gradi di giudizio - passato il primo si arroga il potere di non dirti più niente? E in che cosa si trasforma la pena, che interviene magari anni e anni dopo, per uno che - condannato in primo grado e, forse, assolto in secondo e in terzo - l’ha già scontata tutta, pur innocente?); violazione dell’articolo 111 (quale “ragionevole durata”? Quale ricorribilità “sempre assicurata” per la cassazione della decisione? Quale “giusto” processo, se potrà non essere mai archiviato, e se potrà sempre essere riaperto?). Sono, come si vede, solo spunti, ma sufficienti per delineare una seria, secca, plurima incostituzionalità in radice di questa “riforma” che le Camere penali (gli avvocati penalisti) hanno definito “una delle più sgangherate e pericolose riforme della storia repubblicana” (non solo: sarebbe d’accordo anche Cesare Beccaria, dall’antro dei secoli). E non solo profili di incostituzionalità, ma altresì profili di buon senso, di logica, di cultura giuridica, sociale, politica si affacciano: abbiamo una Giustizia inefficiente, per tante ragioni funzionali, strutturali, organizzative. Una Giustizia in crisi. Ma per rendere la Giustizia efficiente e farla uscire dalla crisi, invece che agire sulla “macchina” della Giustizia, sul suo corpo, sulla sua organizzazione, sui suoi mezzi, sui suoi tempi procedurali, si comprimono i diritti dei cittadini, che sono le vittime della malagiustizia e sarebbero i destinatari della buona Giustizia: qualcosa non va, nel Paese di Acchiappacitrulli. Intercettazioni senza silenziatore di Bruno Tinti Italia Oggi, 14 gennaio 2020 Si applicherebbe la sostanza di sentenze della Consulta. Non solo quando sono relative a reati gravi ma anche quando riguardano pubblici ufficiali. Certe volte i casi più miserabili inducono a riflessioni di maggiore levatura. È il caso di alcune intercettazioni del noto Luca Palamara, già sostituto procuratore della Repubblica, già Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm), già componente del Csm, recentemente sospeso dalla magistratura per una serie di sconcezze. Le malefatte del Palamara sono venute alla luce grazie a intercettazioni telefoniche che hanno permesso di individuare altri suoi degni compari. Da ultimo tale Marco Mancinetti, giudice anche lui e anche lui, al momento, componente del Csm. Si lamenta, il Palamara, di scarsa riconoscenza (cosa si aspettasse non so) da parte di Mancinetti, essendosi egli adoperato nell’interesse del figlio di lui, desideroso di intraprendere studi di medicina presso l’Università Tor Vergata di Roma e tuttavia respinto con perdite essendo giunto 3.820tesimo ai test di ammissione. Motivo per il quale la famiglia Mancinetti pensò di aggirare il problema, facendolo iscrivere all’Università Cattolica del Buon Consiglio di Tirana (Albania, già meta di altri illustri rampolli, tipo il Trota Bossi, peraltro laureatosi in diversa e privata università albanese). Anche qui tuttavia era richiesto il superamento di un test di ammissione. Intervenne dunque il Palamara, sfruttando la sua conoscenza con Giuseppe Novelli, rettore dell’Università romana di Tor Vergata con la quale quella albanese era convenzionata. Ottenne un appuntamento al quale si presentò in compagnia della madre del Trota bis, Annamaria Soldi, che (per non farci mancare niente) è sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Dopodiché il ragazzo superò il test, se per merito suo o dell’intreccio di relazioni su descritte non è dato sapere. Tanto risulta dalle intercettate affermazioni di Palamara. Come ho detto, un ordinario miserabile caso di raccomandazioni. Forse un po’ meno ordinario perché attivamente partecipato da magistrati che (si ritiene) dovrebbero essere adusi a respingere sdegnosamente iniziative del genere se loro rivolte a causa e nell’esercizio delle loro funzioni. Insomma, vi piacerebbe un giudice che, avvicinato da un amico di un amico che gli proponesse di assolvere questo o quel delinquente, rispondesse “Vedemo che se po’ fa”? Ma non è di questo che voglio scrivere. L’importante è che qui, come altrove, si pone il problema della utilizzabilità delle intercettazioni. E sarebbe bello, per una volta, avere le idee chiare: poi ognuno potrebbe trarre consapevoli conclusioni. Sulla utilità in funzione anti criminale delle intercettazioni nessuno può obbiettare alcunché. Le intercettazioni incastrano, c’è poco da dire. E, come spiegato dalla Corte costituzionale (366/1991), l’esigenza di repressione dei reati corrisponde “a un interesse pubblico primario, costituzionalmente rilevante, il cui soddisfacimento è assolutamente inderogabile”, interesse che giustifica “anche il ricorso a un mezzo dotato di formidabile capacità intrusiva, quale l’intercettazione telefonica”. E però c’è un però. Sempre la Corte, nella stessa sentenza, ricorda che, ex articolo 2 della Costituzione, “il diritto a una comunicazione libera e segreta è inviolabile” e che, ex art. 15, “non può subire restrizioni o limitazioni se non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante”. Si tratta del ben noto problema del contemperamento di due principi costituzionali, l’applicazione di uno dei quali inevitabilmente travolge il secondo. Come è noto, la questione è stata risolta in modo, tutto sommato, logico: quando i fatti criminali sono di rilevante gravità, si sacrifica il principio della riservatezza; quando sono di minore gravità, si sacrifica l’interesse alla repressione della criminalità. Naturalmente la battaglia si è spostata sulla identificazione dei criteri che conducono a definire di maggiore o minore gravità i fatti criminali in questione; e qui mi pare si sia trascurato un punto fondamentale della questione. Il fatto è che la maggiore o minore gravità di un reato non dipende solo dall’aspetto oggettivo del fatto ma anche dalle qualità personali dell’autore di questo. Lo si capisce bene se si ricorda che il codice penale prevede alcune aggravanti di natura soggettiva, cioè attinenti alla persona del reo (articolo 61). Sicché sarebbe ragionevole che le intercettazioni fossero consentite anche in funzione delle qualità personali di chi ha commesso un reato che, in astratto, non le consentirebbe: no per il comune cittadino, sì per chi riveste particolari funzioni. Il che del resto trova un puntuale aggancio costituzionale nell’articolo 54 della Costituzione (I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore), ragione per la quale quel bilanciamento tra principi costituzionali, così ben descritto dalla Corte nella sentenza 336/91, dovrebbe essere applicato anche quando entrasse in gioco quest’ultimo principio. Le conseguenze sarebbero devastanti per i pubblici ufficiali di tipo palamaresco. Bisogna sapere che, a norma dell’articolo 270 codice di procedura penale, “I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza”; quelli più gravi insomma, quelli per cui il bilanciamento si sposta sulla repressione invece che sulla tutela della privacy. Una recentissima sentenza della Cassazione a Sezioni unite (51/2020), ne ha però estesa l’utilizzabilità ai casi di cui all’articolo 12 del codice di procedura (se dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri); sempre che questi reati rientrino tra quelli per cui le intercettazioni sarebbero ammesse. Ebbene, cosa osterebbe a ritenere ammissibili le intercettazioni nei casi in cui questi reati, ancorché non gravissimi per i cittadini ordinari, fossero commessi da persone che si sono assunti il compito di svolgere funzioni pubbliche nell’interesse della collettività? Quale tradimento dei principi costituzionali potrebbe essere più grave di questo? E perché dunque non garantirsi una repressione penale più efficace in questi casi? Alla fine, il comportamento di Palamara, Mancinetti e soci non è soltanto miserabile come lo sarebbe per ognuno di noi. È gravissimo perché commesso da persone che hanno scelto, pensate in po’, di amministrare giustizia, di imporre ai cittadini le loro scelte tra ciò che è giusto e ciò che non lo è; e che - verosimilmente - svolgono le loro funzioni con lo stesso disgustoso opportunismo proprio della loro vita privata. E dovrebbero restare impuniti per un presunto rispetto della loro squallida privacy? Toc toc, è qui il Csm? No, ci dispiace, non c’è nessuno... di Giovanni Altoprati Il Riformista, 14 gennaio 2020 Il Consiglio Superiore della Magistratura, “la casa di vetro” delle toghe italiane come disse molti anni fa il costituzionalista Carlo Esposito, è impermeabile a tutto. Può accadere qualsiasi cosa, come ad esempio che si dimettano cinque consiglieri togati su sedici, senza che nessuno si ponga il benché minimo interrogativo. L’attività prosegue come se non fosse successo nulla. I problemi, infatti, non vengono affrontati ma molto più semplicemente rimossi. Partiamo proprio dalle dimissioni dei cinque togati coinvolti negli incontri di maggio con i parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti per discutere di nomine di alcune Procure. Quando vennero resi noti i loro colloqui intercettati con il telefono di Luca Palamara ci fu chi paragonò l’accaduto allo scandalo della loggia P2. Vennero chiesti provvedimenti feroci nei loro confronti, essendo stati accusati di essere “indegni” di vestire la toga. Poi, però, passata qualche settimana, la vicenda è finita nel dimenticatoio e del procedimento disciplinare si sono perse le tracce. Anzi, pare non sia mai iniziato. E cosa dire della Banca popolare di Bari? Il Csm decise di affidare nel 2015, con un bando pubblicato a Ferragosto, le proprie ingenti risorse economiche alla disastrata banca pugliese. Bpb, presente nel Lazio con solo cinque sportelli, scalzò Banca Intesa San Paolo, il primo gruppo bancario italiano, fra i primi dieci in Europa, diventando il tesoriere di Palazzo dei Marescialli. Già nel 2010, però, erano note le difficoltà dell’istituto di credito pugliese, come certificato dalle numerose ispezioni della Banca d’Italia. Sono stati presi provvedimenti? Non risulta. Anzi, Bpb continua ad avere uno sportello all’interno del Csm, erogando mutui e prestiti molto vantaggiosi a tutto il personale del Csm. Capitolo nomine. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che del Csm è il capo, si è raccomandato spesso, l’ultima volta a giugno, di procedere in tempi rapidi per evitare che gli uffici restino scoperti a lungo. Bene, è dallo scorso maggio che la Procura di Roma è vacante. Marcello Viola, il procuratore generale di Firenze che era stato inizialmente scelto per essere il successore di Giuseppe Pignatone, è stato fatto fuori dopo lo scandalo di maggio. La Commissione per gli incarichi direttivi azzerò tutto. Ad ottobre venne deciso di procedere con le audizioni di tutti i candidati. La nomina era attesa entro il 2019. Poi questa settimana quando all’ultimo momento, per motivi non noti, è sfumata ancora. Discorso a parte meritano le continue esternazioni del consigliere Piercamillo Davigo. A memoria non si ricorda un componente dell’organo di autogoverno della magistratura che punti a sostituirsi al legislatore dettando quelle che dovrebbero essere, secondo lui, le riforma in materia di giustizia. Al massimo il Csm può dare dei pareri, non vincolanti, all’inquilino di via Arenula. La sintesi di quanto accade a pizza Indipendenza può essere lasciata ad Andrea Mirenda, giudice di sorveglianza a Verona, da sempre critico con la deriva torrentizia della magistratura e con le disfunzioni del Csm. Scrive Mirenda sulla sua pagina Fb: “Passano i giorni e nessuno parla. Tace la nobilissima Anm, e con essa il suo illuminato presidente, ancorché sempre pronta ad intervenire sui massimi sistemi copernicani; tace il vice presidente del Csm, quello per intenderci che esaltava il rinnovamento del lauto governo dopo l’ignobile traffico notturno per pilotare le principali nomine delle Procure italiane; tacciono i capi e capetti delle correnti, e tace addirittura il presidente della Repubblica a cui solo dobbiamo la simpatica scelta di far eleggere in tre rate quell’organo anziché scioglierlo per ridare ai magistrati il diritto di pronunciarsi fino in fondo sui miasmi emersi. A questo punto ogni cittadino ha il diritto di pensare ciò che vuole di un sistema siffatto, di certi modi di intendere la magistratura e la toga ed infine di invitare ciascuno dei sunnominati a darsi l’insulto che preferisce”. La lotta in carcere di Nicoletta Dosio di Giorgio Cremaschi* La Repubblica, 14 gennaio 2020 “Salumi e formaggi tagliati a fettine sottili dello spessore massimo di due millimetri confezionate in fettine non sovrapposte… fettine di carne cotta sottili massimo 0,5 cm non panate… niente banane e arance… frutta secca solo sgusciata e confezionata ma solo noci nocciole e mandorle”. Sono alcune delle tante prescrizioni in vigore nelle carceri italiane, in questo caso per chi vuol far avere cibo a detenuti che non possano mangiare quello fornito dallo stato. Nicoletta Dosio ha 73 anni ed è vegetariana, dal 31 dicembre è reclusa alle Vallette di Torino e tra tutte le difficoltà e i problemi di un carcerato ha dovuto anche affrontare quello di come nutrirsi rispettando i propri principi e la propria salute. Nicoletta stessa sarebbe la prima a dire che c’è ben altro di cui discutere sulle carceri italiane, tuttavia a volte sono le privazioni più piccole che ci fanno capire quanto siano pesanti le più grandi. In Italia ci sono 60.000 carcerati per 47.000 posti carcere, questo vuol dire che 13.000 reclusi non hanno luogo dove stare e devono occupare ed affollare spazi e servizi fondamentali di altri. I detenuti negli ultimi due anni hanno ripreso a crescere, mentre i delitti più gravi sono tutti diminuiti, tranne gli omicidi sul lavoro, per i quali nessuno è in carcere oggi, e la violenza familiare sulle donne, che però non ha un corrispondente incremento di reclusioni. Questo vuol dire semplicemente che la “giustizia” è più dura con chi venne condannato, ma chi viene condannato? Soprattutto i poveri. Tutto questo lo dicono le statistiche ufficiali, che aggiungono che un terzo dei detenuti sono migranti Questo non vuol dire affatto che abbia ragione Salvini, ma al contrario che c’è una vasta persecuzione repressiva e giudiziaria per chi non sia tutelato dalla cittadinanza. Negli USA gli afroamericani affollano le carceri in misura ben maggiore di quanto compongano la popolazione libera; ma solo razzisti e reazionari affermano che sia colpa della maggiore propensione a delinquere di chi ha la pelle nera. Se una minoranza è sovra rappresentata in carcere, vuol dire che il sistema la perseguita e le leggi di Minniti e Salvini sono lì a spiegarlo. Il carcere non dovrebbe essere una vendetta, ma una punizione scontata la quale si dovrebbe avere il diritto e le possibilità di tornare a pieno titolo nella società. Invece sempre le statistiche ci dicono che il 97% di coloro che entrano in carcere ci sono già stati, cioè il carcere in Italia non ha educato e redento nessuno. Il circuito del carcere è come la trappola della precarietà sul lavoro, se ci si entra è difficilissimo uscirne. Più di 1000 reclusi ogni anno cercano di uscire da questo circuito tentando il suicidio, più di 50 ci riescono. Oltre 10000 recluse e reclusi, uno su sei, si infliggono ferite perché non reggono le condizioni delle nostre carceri. La popolazione carceraria italiana è oggi fatta di poveri, emarginati, esclusi e di ribelli all’ordine esistente, come in una prigione del 1800. E anche le condizioni carcerarie sono sempre più quelle di un’altra epoca. Qualche giovane ingenuo e generoso compagno, dopo l’arresto di Nicoletta Dosio mi ha chiesto quale indirizzo email e quali social avesse in carcere per scriverle. Siamo così abituati ad avere internet nelle nostre vite che non riusciamo a concepire più una relazione sociale senza di essa. In carcere internet in tutte le sue forme non è permessa e neppure telefonare si può. Si scrivono e si ricevono lettere di carta sottoposte a controllo. Insomma il carcere è il carcere e quello italiano è al di sotto dei livelli di giustizia e civiltà che normalmente si proclamano. La civiltà di un paese si misura dalle sue carceri, disse per primo Voltaire, oggi possiamo dire che da noi il degrado del sistema pubblico e quello delle carceri vanno di pari passo. Così come si distruggono servizi e diritti sociali, così la prigione torna ad essere il luogo ove la società cancella la questione sociale e la trasforma in ordine pubblico e detenzione. Non vorrete che si spendano soldi per le carceri quando non li abbiamo per gli ospedali, urlano reazionari. Noi vorremmo spendere più soldi per carceri ed ospedali ma i conti pubblici non lo permettono, affermano liberali. E alla fine con entrambi in galera c’è sempre più gente, in condizioni sempre peggiori. Nicoletta Dosio era consapevole di tutto questo quando ha deciso di rifiutare le misure alternative e di affrontare il carcere. Perché un sistema che condanna lei e altri undici No-Tav a complessivi diciotto anni di reclusione per aver tenuto 30 minuti le sbarre alzate dell’autostrada, facendo passare gratis gli automobilisti. Un sistema, che con un danno complessivo accertato di 700 euro, commina un anno di pena ogni 37 euro di mancati incassi autostradali, è un sistema che sempre più scivola verso lo stato di polizia. E gli stati di polizia sono ingiusti e feroci non solo nelle condanne, ma anche nelle condizioni nelle quali i condannati devono espiarle. Per questo Nicoletta Dosio ha detto no agli appelli, pur in ottima fede, affinché le sia concessa la grazia. Perché non considera il suo un caso individuale, ma la punta ed il risultato di un processo politico contro tutto il movimento No-Tav. E perché c’è troppa gente condannata per reati che in fondo sono solo un aspetto della questione sociale. E infine perché tutto il sistema carcerario italiano oggi sta sprofondando nell’inciviltà. Mentre c’è già chi propone come soluzione conclusiva la privatizzazione delle carceri, come è già avvenuto per i servizi sociali e le autostrade; e come e già negli Stati Uniti. Nicoletta ha invece proposto che ci si mobiliti per una amnistia sociale che liberi dalla reclusione chi è stato condannato per aver lottato o anche solo per aver reagito illegalmente a povertà ed emarginazione. Bisogna costruire una grande mobilitazione democratica, che chieda l’abrogazione dei decreti e delle leggi liberticide assieme alla ricostruzione di un sistema carcerario civile, corrispondente alla ricchezza reale del paese. Ma questa ricchezza è in poche mani si dirà, appunto, una ragione ed uno scopo in più per redistribuirla. La lotta di libertà di Nicoletta Dosio va avanti in carcere. *Potere al Popolo Genitori in carcere, figlio adottabile dirittoegiustizia.it, 14 gennaio 2020 Corte di Cassazione, sez. VI Civile - 1, ordinanza n. 319/20; depositata il 10 gennaio. Respinta l’opposizione del padre. Evidente lo stato di abbandono del minore. A inchiodare l’uomo non solo la detenzione ma anche il provvedimento di decadenza dalla responsabilità sul figlio, provvedimento da lui non impugnato. Impossibile anche ipotizzare un suo recupero della capacità genitoriale in tempi rapidi. Lo stato di detenzione - con fine pena nel 2021 - dei due genitori è sufficiente per dedurre lo stato di abbandono del figlio minorenne e dichiararne di conseguenza l’adottabilità. Non è retroattiva la riforma Orlando sui motivi di appello di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2020 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 13 gennaio 2020 n. 843. La riforma delle impugnazioni dettata dalla legge Orlando sul processo penale, datata 2017, non ha portata retroattiva. Manca infatti una puntuale disciplina della fase transitoria e, quindi, bisogna fare riferimento, quanto a individuazione delle norme applicabili, alla data di presentazione dell’appello. Lo chiarisce il principio di diritto messo a punto dalla Cassazione con la sentenza n. 843 della Terza sezione penale depositata ieri. La pronuncia ha accolto il ricorso presentato dalla difesa di un imputato che, in secondo grado, si era visto respingere come inammissibile l’impugnazione per difetto di specificità. La Corte considera un errore di diritto commesso dalla Corte d’appello l’avere ritenuto che la riforma Orlando sia applicabile anche per il passato. In questo senso, se non esiste un precedente specifico in materia, a fare da riferimento ci sono le sentenze di Cassazione con le quali è stato preso in esame un caso simile, quello delle modifiche processuali ai poteri di impugnazione del pubblico ministero, limitati in caso di doppio verdetto di assoluzione. In quel caso, la Cassazione (sentenza n. 4398 del 2018, per esempio) stabilì che il riferimento doveva essere fissato alla data di presentazione del ricorso, momento in cui matura l’aspettativa del ricorrente alla valutazione sull’ammissibilità dell’impugnazione. Si tratta, scrive oggi la Corte, di un “principio condivisibile”, che trova applicazione anche per quella parte dell’intervento del 2017 che ha interessato la modifica della disciplina delle impugnazioni e, in particolare, i presupposti per la dichiarazione di inammissibilità che colpisce gli atti privi di un’enunciazione specifica dei motivi, con l’indicazione degli elementi di diritto e di quelli di fatto che sono a fondamento di ciascuna richiesta avanzata. E allora, nella vicenda approdata in Cassazione, l’appello meritava un esame più attento, soprattutto sotto il profilo della diversa qualificazione giuridica del fatto. Su questo punto i giudici di secondo grado si sarebbero dovuti esprimere, tanto più che in primo grado era stata assente una considerazione proprio della qualificazione giuridica. Criteri di valutazione della richiesta di rimpatrio di minore sottratto illecitamente Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2020 Famiglia - Potestà dei genitori - Illecita sottrazione minore - Richiesta rimpatrio - Provvedimento -Valutazione del giudice - Criteri. In tema di sottrazione internazionale del minore, il giudice, cui sia stato richiesto di emettere un provvedimento di rientro nello Stato di residenza del minore illecitamente sottratto, nell’accertare se sussista il fondato rischio, per il minore, di essere esposto, per il fatto del suo rientro, a pericoli psichici, o comunque di trovarsi in una situazione intollerabile (ai sensi dell’art. 13, primo comma, lettera b, della Convenzione de L’Aja 25 ottobre 1980, resa esecutiva con la legge di autorizzazione alla ratifica 15 gennaio 1994, n. 64), deve attenersi ad un criterio di rigorosa interpretazione della portata della condizione ostativa al rientro, sicché egli non può dar peso al mero trauma psicologico o alla semplice sofferenza morale per il distacco dal genitore autore della sottrazione abusiva, a meno che tali inconvenienti non raggiungano il grado - richiesto dalla citata norma convenzionale - del pericolo psichico o della effettiva intollerabilità da parte del minore. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 11 dicembre 2019 n. 32411. Famiglia e minori - Rimpatrio minore illecitamente trattenuto da un genitore - Inidoneità genitore affidatario - Tutela del minore. Il giudice, cui sia richiesto di emettere un provvedimento di rientro nello Stato di residenza del minore illecitamente trattenuto da un genitore, può tener conto delle attitudini educative del genitore affidatario, in quanto l’inidoneità a garantire adeguate condizioni, anche materiali, di accudimento dei minori è circostanza che li espone a rischi fisici o psichici, tanto più quando il padre si disinteressa della figlia come nel caso in esame. • Corte di Cassazione, sezione VI, ordinanza 5 ottobre 2011 n. 20365. Famiglia - Potestà dei genitori - Illecita sottrazione internazionale di minori - Convenzione de l’aja 25 ottobre 1980 - Domanda di rientro - Indagine sulla possibile migliore sistemazione del minore presso il familiare “abductor” - Ammissibilità - Esclusione - Conseguenze. In tema di illecita sottrazione internazionale di minori, ai sensi della Convenzione de L’Aja 25 ottobre 1980, il giudizio sulla domanda di rimpatrio non investe il merito della controversia relativa alla migliore sistemazione possibile del minore; cosicché tale domanda può essere respinta, nel superiore interesse del minore, solo in presenza di una delle circostanze ostative indicate dagli artt. 12, 13 e 20 della Convenzione, fra le quali non è compresa alcuna controindicazione di carattere comparativo che non assurga - nella valutazione di esclusiva competenza del giudice di merito - al rango di vero e proprio rischio, derivante dal rientro, di esposizione a pericoli fisici e psichici o ad una situazione intollerabile. • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 7 marzo 2007 n. 5236. Famiglia - Potestà dei genitori - Illecita sottrazione internazionale di minore - Convenzione de l’Aja 25 ottobre 1980 - Opposizione del minore al ritorno - Carattere vincolante ai fini delle determinazioni dell’autorità giudiziaria - Esclusione - Fattispecie. In tema di illecita sottrazione internazionale del minore da parte di un genitore, a norma dell’art. 13, secondo comma, della Convenzione de L’Aja 25 ottobre 1980 (resa esecutiva con la legge 15 gennaio 1994, n. 64), ai fini della pronuncia di rifiuto di ordine di ritorno del minore, l’autorità giudiziaria, pur considerando il minore sufficientemente maturo, non è vincolata dalla volontà del minore stesso che abbia espresso un parere contrario al ritorno, ma conserva al riguardo un potere discrezionale di valutazione, che esclude qualsiasi automatismo. (Enunciando il principio di cui in massima, la S.C. ha confermato il decreto del tribunale per i minorenni che, in accoglimento del ricorso proposto dal pubblico ministero, aveva ordinato il ritorno del minore in Argentina, con ripristino della situazione di affidamento congiunto ad entrambi i genitori; e ciò, avendo i giudici di merito accertato che il bambino aveva espresso sì il desiderio di rimanere in Italia, dove il padre si era nel frattempo trasferito con la nuova consorte, ma che tale desiderio non si traduceva in una opposizione o rifiuto al ritorno in Argentina, rimanendo quindi a livello di un semplice orientamento; e avendo gli stessi giudice ritenuto, in questo quadro, non superabile l’illegittimità dell’azione di trattenimento posta in essere dal padre). • Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 27 aprile 2004 n. 8000. Piacenza. Lavori di pubblica utilità, rinnovata convenzione tra Comune e Tribunale piacenzasera.it, 14 gennaio 2020 È stato siglato ieri, lunedì 13 gennaio, il rinnovo della convenzione triennale tra l’Amministrazione comunale e il Tribunale di Piacenza - su delega del Ministero della Giustizia - per la regolamentazione del lavoro di pubblica utilità. L’accordo, firmato presso la sede di vicolo del Consiglio dal presidente Stefano Brusati e dal sindaco Patrizia Barbieri, prevede l’inserimento negli uffici comunali di 35 persone ogni anno, per lo svolgimento di un servizio non retribuito a favore della collettività. Come stabilito dal decreto legislativo 274/2000 e dalle successive integrazioni, tale opportunità può essere richiesta dall’imputato come pena alternativa per alcune tipologie di reati (tra cui le violazioni agli articoli 186 e 187 del Codice della Strada) o configurarsi, in base alla legge 67 del 2014, come parte integrante del periodo di “messa alla prova” con sospensione del procedimento giudiziario, in caso di reati che comportino la sola pena pecuniaria o pena detentiva non superiore ai 4 anni, nonché per gli illeciti individuati dall’articolo 550, comma 2, del Codice Penale. Negli otto anni trascorsi dall’attivazione del progetto, avviato nel 2011, sono state destinate al lavoro di pubblica utilità o alla messa in prova presso il Comune di Piacenza 265 persone, che senza percepire alcun compenso hanno prestato servizio - chi per alcune decine di ore, chi per diversi mesi - in via prioritaria, come prevede la convenzione, nei settori afferenti alla sicurezza e all’educazione stradale, nonché in attività di manutenzione stradale, tutela del patrimonio ambientale e verde pubblico, beni culturali, musei, turismo e biblioteche, tutela dei beni comunali, servizi alla persona e al cittadino. Nell’affidamento della mansione, si prendono in considerazione anche le esperienze professionali e le attitudini lavorative, verificate nel corso di un colloquio conoscitivo preliminare. “Grazie alla consolidata collaborazione tra l’Amministrazione comunale e il Tribunale di Piacenza - sottolineano il sindaco Patrizia Barbieri e il presidente Stefano Brusati - si dà continuità a un progetto di forte valenza sociale, improntato a promuovere la cultura della legalità e del rispetto delle regole di convivenza civile. Attraverso l’impegno in attività a beneficio della comunità locale, si valorizza la consapevolezza e l’assunzione di responsabilità, nei confronti della collettività, da parte dei cittadini coinvolti. Nel contempo, si concretezza un costruttivo percorso di riabilitazione e recupero che può contribuire a prevenire situazioni di disagio e conseguenti difficoltà di reintegrazione, sia sotto il profilo occupazionale, sia nelle relazioni interpersonali”. Verbania. Quando la periferia rinasce con l’aiuto dei detenuti di Beatrice Archesso La Stampa, 14 gennaio 2020 A metà tra atelier, caffè e circolo culturale, Verbania ha aperto la “Caffetteria di quartiere”, con un’impronta sociale. Alla base c’è un progetto di riqualificazione di un rione di Intra - la Sassonia - che nonostante non sia lontano dal centro ha sempre vissuto ai margini, circondato da case popolari. La Caffetteria, allestita in una delle sedi del museo civico, chiamato “del Paesaggio”, mira a ridare colore al quartiere facendo lavorare chi non ha avuto troppa fortuna: ragazzi con disabilità al bancone, ma anche emarginati ed ex detenuti. Per i prodotti si punta al biologico e in particolare al commercio equo solidale. Insomma, scelte forse poco azzeccate dal punto di vista economico ma redditizie sul piano sociale. Dietro le quinte ci sono due cooperative: Divieto di sosta (forte di una precedente esperienza di successo, la “Banda biscotti”, con l’impiego di detenuti) e Il Sogno. La “Caffetteria di quartiere” ha a lato un centro espositivo, per eventi e residenze artistiche. L’allestimento è costato 200 mila euro. È però il contenuto immateriale che valorizza il progetto. “Faremo - conferma Carlo Rocchietti, direttore del Sogno - inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati. Di quattro dipendenti, due sono di profilo “fragile”“. Aggiunge il sindaco di Verbania Silvia Marchionini: “Portare in un quartiere con serie problematiche sociali creatività e vicinanza alle persone va nell’ottica del “vivere bene”. Roma. “Vale La Pena”, un progetto che fa bene alla società e alle imprese pmi.it, 14 gennaio 2020 Economia carceraria: quando il reinserimento nel mondo lavorativo produce ricchezza per il Paese e per le persone. L’esempio del Pub& Shop “Vale la Pena”. Quanto costa ai contribuenti il sistema carcerario italiano? Soprattutto, quanto aumenta la spesa di tutto l’apparato redentivo nel caso in cui il detenuto, tornato in libertà, ricominci a commettere illeciti? Quanto ciascuno di noi crede fermamente e ha fiducia in un percorso di riabilitazione di chi si è macchiato di un crimine e, più di tutto, quanto ne sappiamo in proposito? Il comune sentire è portato a pensare che non serva a nulla “il periodo di riflessione” all’interno delle case circondariali, un po’ per un atteggiamento prevenuto e conservativo verso chi commette illeciti e un po’ per le condizioni di vita tristemente note alla cronaca in cui versano i carcerati. La maggior parte può asserire che, una volta fuori dalle “sbarre”, l’ex detenuto si riappropri della propria vita “garantita” a spese dei contribuenti e, nella maggior parte dei casi, riprenda vecchie e rovinose abitudini per sé e per la società. Purtroppo, i dati in nostro possesso confermano proprio tale triste realtà attraverso un tasso di recidiva pari al 70% (fonte Dap- Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e costi sempre più onerosi che gravano sulle tasche dei cittadini, confermando sfiducia nel sistema e prestando inconsapevolmente il fianco a facili e pericolosi appelli politici alla “pancia” invece che alla testa delle persone. Quasi nessuno, però, si domanda perché tale numero sia così elevato e come funzioni la vita in carcere; o meglio perché tutto il processo detentivo e di riabilitazione non funzioni e si arrivi a trend così negativi e scoraggianti. Ce lo chiariscono Oscar La Rosa, ex direttore di Semi di Libertà Onlus - associazione fondata da Paolo Strano e votata al reinserimento nel mondo lavorativo degli ex detenuti o ancora in libertà vigilata - Veronica e Massimo, gli attuali gestori di Vale La Pena Pub & Shop, primo esercizio fisico in Italia, completamente basato sull’Economia Carceraria, brand fondato da La Rosa che, già nel nome, racchiude la propria mission. Il costo sostenuto dalla popolazione italiana per le carceri è di 3 miliardi di euro all’anno e circa il 90% si riferisce solo allo stabile e al personale in servizio, mentre le spese di mantenimento per la permanenza in galera dovrebbero essere a carico di ciascun detenuto che, scontata la pena, dovrebbe onorare il debito accantonato in carcere. Cosa succede, però, se durante il periodo detentivo non si lavora? Difficoltà in un reinserimento totale nella società, nella ricerca di un lavoro regolare su cui sono applicate immediatamente le trattenute sullo stipendio e un automatismo quasi sconcertante al ritorno di vecchi schemi mentali o a modelli economici insani: ossia lavoro nero e una probabilità molto elevata di ritorno al crimine. Anche in questo caso i dati sono allarmanti e il progetto di Oscar La Rosa assume connotazioni sociali ed economiche ancora più importanti: su 60.000 carcerati, 17.500 sono impiegati direttamente nelle carceri per mestieri quali lo scopino, il porta vitto, lo spesino, e solamente 2.500 sono i dipendenti delle cooperative o delle realtà aziendali che hanno deciso di assumere persone detenute e avviare un’attività produttiva in carcere. Proprio da questi ultimi numeri, seppur ancora molto bassi, arrivano le notizie migliori. Il tasso di recidiva è totalmente capovolto, riducendosi del 70%, a significare che chi impara l’etica e l’impegno di un mestiere tende a replicare tale modello anche al di fuori del carcere. Chiaramente non vale per tutti ed è bandito ogni buonismo di sorta ma è necessario l’apporto del privato affinché tale sistema virtuoso funzioni e si immetta sul mercato forza lavoro fresca, pulita e in grado di pagare le tasse. Inoltre, le imprese che decidono di assumere persone detenute possono beneficiare di tutta una serie di sgravi fiscali grazie alla legge Smuraglia del 2000 in base alla quale il costo del lavoro è nettamente inferiore rispetto al mercato libero. L’indotto generato dall’economia carceraria, in sintesi, porta innumerevoli vantaggi a tutta la società, non solo per l’abbattimento della recidiva ma anche in termini economici: per ogni euro investito in tale sistema virtuoso, lo Stato ne risparmia otto. È indubbio, come ci spiega Oscar La Rosa, che “il pregiudizio gioca un ruolo molto forte specie se pensiamo alla fiducia e all’affidabilità che un imprenditore deve riporre verso i propri dipendenti”. Sentimento facilmente obiettabile se riflettiamo sul fatto che il carcere “è il posto più controllato d’Italia per cui la produzione segue determinati passaggi, tutti eseguiti alla perfezione”. Non può essere altrimenti dal momento che le produzioni a cui si fa riferimento riguardano nella maggior parte dei casi prodotti alimentari, quali pasta, taralli, biscotti, caffè e tisane oltre alla birra; tutti lavorati secondo rigidi criteri artigianali e basati su materie prime eccellenti, provenienti dal territorio di appartenenza e disponibili nello shop del Pub Vale La Pena. Si tratta del solo Pub & Shop di Economia Carceraria. Ubicato a Roma in via Eurialo 22 nel cuore dell’Alberone, uno dei quartieri più densi della Capitale, nasce due anni fa per volere di Paolo Strano e sin da subito ha goduto di un’accoglienza straordinaria da parte dei residenti e dei suoi avventori. Gli attuali gestori riferiscono che Vale La Pena non è solo una birreria che prende vita la sera ma una sorta di casa dove le persone si ritrovano anche per lavorare e trascorrere la propria giornata. Aperto tutto il giorno, con wi-fi gratuito, attira frequentatori abituali che lo hanno eletto come spazio di co-working e proprio smart office. Molte istituzioni, tra cui l’Università Unint (Università degli Studi Internazionali di Roma), ha deciso di organizzare lì alcuni dei propri consigli di Istituto e di portare nelle proprie lezioni la case history della birreria e dell’Economia Carceraria, a riprova della bontà e della solidità di questo progetto dalle importanti connotazioni sociali ed economiche. Civitavecchia (Rm). I detenuti e le competenze per avere futuro con il lavoro di Fausta Chiesa Corriere della Sera, 14 gennaio 2020 Parte alla fine del mese nel carcere di Civitavecchia il progetto di formazione professionale “Mi riscatto per il futuro”, frutto di un protocollo d’intesa che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e l’amministratore delegato di Enel Francesco Starace hanno firmato il 18 dicembre nella sede del ministero. Il progetto punta a realizzare programmi formativi qualificanti per far acquisire competenze spendibili nel mondo del lavoro. “In particolare - spiega Vincenzo Lo Coscio, responsabile dell’Ufficio centrale per il lavoro dei detenuti, istituito nel novembre scorso dal ministero - saranno organizzati corsi di specializzazione per avviare i detenuti ad attività di lavoro nel mondo dell’elettricità: per esempio, saranno formati per diventare elettricisti. Un lavoro spendibile, dove è richiesta una formazione particolare”. li tavolo operativo si riunirà a breve e il progetto entrerà nel vivo a fine gennaio con la selezione dei detenuti e poi a febbraio con il corso. Dopo il carcere di Civitavecchia, sarà esteso ad altri istituti penitenziari del Lazio e poi alle altre regioni. “Con il progetto - ha commentato l’amministratore delegato di Enel Francesco Starace - proponiamo una formazione professionale in linea con la rapida evoluzione del mondo del lavoro. E questo per favorire un’uscita più rapida dalla “zona grigia”, quella tra l’uscita dal carcere e il reinserimento nella società civile”. Terminato il corso, i detenuti potranno cominciare a lavorare già all’interno delle carceri. “Ricordo che le luci nelle carceri sono accese giorno e notte - spiega Lo Cascio. Intendiamo tra l’altro lavorare con Enel per rendere più efficiente l’illuminazione”. L’interesse del ministero e del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è quello di ridurre il rischio di recidiva e favorire il reinserimento dei detenuti nella società. “Il nostro impegno - ha dichiarato Bonafede - non mira solo alla rieducazione del detenuto ma comprende anche la sicurezza della collettività perché, quando un detenuto esce dal carcere, grazie a progetti come questo difficilmente torna a delinquere”. Reggio Calabria. Solo 4 infermieri per 350 detenuti nel carcere di Arghillà infermieristicamente.it, 14 gennaio 2020 La denuncia del NurSind. Un altro nuovo record negativo per l’Asp n° 5 di Reggio Calabria. Il quasi totale azzeramento del personale infermieristico dedicato all’ assistenza all’ interno del penitenziario di Arghillà. Una situazione più volte denunciata dal NurSind, che da sempre si schiera a tutela degli infermieri di tutta Italia. Ci viene riferito dai nostri iscritti che, oltre alla storica carenza cronica di personale infermieristico da quando il penitenziario fu aperto nel 2013, attualmente, vi è una situazione di emergenza per la mancata sostituzione di n° 3 unità cessate per varie motivazioni. Si continua a garantire un livello di assistenza accettabile, non di livello, si opera con dei contingenti miseri a fronte di un utenza composta da circa 350 detenuti. Il personale attivo (solo 4 infermieri) è spesso chiamato a saltare i riposi, perché se cosi non fosse, si fermerebbe ogni attività. Tutto questo è causa certamente di stress psicofisico e continuo avvicinamento al limite orario settimanale, e, il burn-out, ci risulta fra l’altro una delle recenti cause che ha portato alcune colleghe ad astensione dall’attività lavorativa da alcuni mesi, e mai più sostituite anch’esse. Il paradosso. Alla metà del 2019 gli sforzi di Dirigenti e Coordinatori avevano consentito un integrazione di personale quasi sufficiente ad iniziare una turnazione H 24 per gli infermieri, ma, progressivamente con il tempo, le mancate sostituzioni di personale assente legittimamente per varie motivazioni (gravidanza, inidoneità, L. 104) ci portano ad oggi, dove, la sola presenza di 3 - 4 infermieri non riesce nemmeno a garantire la copertura di assistenza per le 12 ore giornaliere. Appare assai difficile continuare a garantire le cure necessarie alla popolazione detenuta, in un contesto che, di fatto, per varie problematiche è già “pesante” laddove si uniscono anche le carenze di personale di polizia penitenziaria ed il sovraffollamento di detenuti a fronte della regolare capienza di circa 300 utenti. Una situazione infernale insomma. Chi pensa che l’attività degli infermieri nel penitenziario sia solo quella di preparare e consegnare terapia si sbaglia di grosso. I nostri infermieri si sostituiscono al personale amministrativo (anch’esso da sempre assente) per la parte burocratica, svolgono le attività del Ser.T. per la somministrazione di terapia sostitutiva poiché lo stesso non ha il personale dedicato, coadiuvano con gli specialisti ambulatoriali, e, non da meno sono in prima linea sempre a sostenere con parole di conforto chi ha commesso errori nella propria vita. Non dimentichiamo - dice Errante Filippo dirigente Sindacale Nursind - che, il penitenziario di Arghillà rimane fra i pochi se non l’unico delle carceri italiane in cui la presenza di personale infermieristico non vi è per 24 ore al giorno. Questo nostro monito al fine di sensibilizzare le istituzioni poiché, probabilmente, la commissione straordinaria, che non ci ascolta, è solo impegnata a fare quadrare i conti forse dimenticando che la sanità deve erogare salute, in questo caso, anche alle persone ristrette. Avellino. “La sicurezza dentro”, prevenzione degli infortuni per i detenuti-lavoranti di Anna Guerriero primativvu.it, 14 gennaio 2020 Sottoscritto un accordo di collaborazione per il progetto “La sicurezza dentro” tra Luca Ponticelli, Comandante Provinciale dei Vigili del Fuoco di Avellino, Marianna Adanti, Direttrice della Casa di Reclusione “Bartolo, Famiglietti e Forgetta” di Sant’Angelo dei Lombardi, Grazia Memmolo, Direttrice della Direzione territoriale Inail di Avellino e Carmine Piccolo, Direttore della Uot di Certificazione Verifica e Ricerca di Avellino. Il progetto, giunto alla seconda edizione, prevede una serie di incontri informativi-formativi rivolti ai detenuti “lavoratori” della Casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, finalizzati a promuovere e rafforzare la cultura della prevenzione degli infortuni e la tutela della persona negli ambienti di vita e di lavoro. La casa di reclusione di Sant’Angelo di Lombardi è da anni un esempio di casa di reclusione completamente autosufficiente. I detenuti sono tutti assunti dall’amministrazione penitenziaria che, oltre a valorizzare le competenze dei singoli porta avanti un progetto di rieducazione e reinserimento lavorativo globale. In tale contesto si inserisce l’Inail che, in collaborazione con il Comando dei Vigili del Fuoco di Avellino, coinvolgerà circa 200 detenuti e 10 agenti di Polizia Penitenziaria in un percorso didattico che prevede moduli formativi che vanno dalla classificazione di rischi negli ambienti di lavoro, al primo soccorso, alla sicurezza antincendio per affiancare la casa Circondariale in questo percorso globale di acquisizione di competenze professionali di alta specializzazione spendibili sia all’interno della struttura che alla fine del periodo di detenzione. Sette gli incontri in calendario con inizio il prossimo 16 gennaio 2020 Padova. Progetto per far conoscere il carcere e la giustizia riparativa ai giovani di Tatiana Mario Difesa del Popolo, 14 gennaio 2020 È in partenza un nuovo progetto di sensibilizzazione sociale e umana promosso dalla cappellania della Casa circondariale di Padova, in stretta collaborazione con la direzione del carcere e il comandante di polizia penitenziaria, per avvicinarsi a un luogo spesso dimenticato dalla società. La Cappellania della Casa Circondariale di Padova, unitamente alla Direzione dell’Istituto e sostenuta dalla Diocesi di Padova, promuove un progetto di incontro con le persone detenute all’interno del carcere coinvolgendo i Trienni delle scuole superiori, i gruppi parrocchiali, le varie realtà associative e i Collegi Universitari del territorio che ne facessero richiesta. Questo progetto che vede una stretta collaborazione tra la Direzione del Carcere, il Comandante di Reparto e il Cappellano, sarà finalizzato alla prevenzione della devianza minorile e del disagio sociale (in particolare per i studenti che arriveranno nell’Istituto), all’informazione sui temi della legalità e del carcere per accrescere la capacità di essere attenti a tali temi e scardinare quindi eventuali preconcetti e in fine per capire le difficoltà che possono incontrare le persone in un percorso di reinserimento successivo alla reclusione. Quali risposte la società dovrebbe o potrebbe dare a queste persone. Le attività proposte in questo progetto Pre-carcere (facoltativa) - In questa prima fase, il Cappellano dell’Istituto si rende disponibile ad incontrare studenti, gruppi parrocchiali, realtà associative, studenti Universitari presso le loro sedi. Si tratta di un incontro introduttivo di circa 2 ore in cui si verrà introdotti anche grazie ad uno stile dialogico alla realtà del carcere e del perché esistono queste strutture. Per le scuole sarebbe importante prevedere un lavoro interdisciplinare per favorire questa prima fase o per acceder direttamente alla seconda (Storia, Diritto, Filosofia, Religione, Scienze Umane ecc..) In-carcere - Dal lunedì al venerdì (preferibilmente al mattino o nelle primissime ore del pomeriggio). Questa seconda fase prevede un primo momento introduttivo con il Cappellano, la Direzione dell’Istituto, gli Educatori, il Comandante del Corpo di Polizia penitenziaria e operatori volontari (a seconda della disponibilità). Un secondo momento prevede un incontro-testimonianza con le persone detenute. Dopo l’ascolto delle testimonianze è possibile soffermarsi su domande da parte dei presenti. Un terzo momento conclude l’incontro portando a raccogliere i frutti dei passaggi precedenti. Post-carcere - I singoli gruppi sono invitati a seguito degli incontri vissuti (le fasi 1 e 2) a stillare una sorta di “carta dei valori” in cui indicare le possibili strade per migliorare la nostra società, rispondere ai disagi sociali più urgenti specie in ambito giovanile ed eventualmente indicare quali impegni concreti poter adottare per un reinserimento adeguato delle persone detenute nel nostro territorio padovano. Bologna. Piccoli in carcere e ora cuochi di Paolo Foschini Corriere della Sera, 14 gennaio 2020 Apre al pubblico a Bologna l’Osteria “Brigata del Pratello”. Primo ristorante in Europa realizzato in un istituto minorile. Otto ragazzi tra cucina e tavoli, li guida lo chef della Fortitudo La prima serata aperta al pubblico sarà tra dieci giorni, il 24 gennaio, e i posti sono già esauriti da tempo. Esauriti anche quelli per la seconda e la terza: per chiedere un tavolo bisogna cliccare su “prima data utile”. Del resto anche l’inaugurazione-anteprima riservata qualche settimana fa a cinquanta invitati, tra i quali il ministro della giustizia Alfonso Bonafede e il cardinale Matteo Maria Zuppi, era stata un successo. È l’Osteria Brigata del Pratello. Ristorante realizzato nel carcere minorile di Bologna, appunto nella centrale via del Pratello che per chi è bolognese rappresenta non solo un monito tradizionale delle famiglie (“Guarda che se non ti metti a rigar dritto finisci in via del Portello!”) ma anche una delle più note strade di osterie della città: una dopo l’altra. Adesso, al numero civico 34, ci sarà anche questa. Un po’particolare perché il suo portone, di solito, è comunque chiuso. Non il primo ristorante carcerario in assoluto, stante la precedenza dell’ormai famoso “InGalera” attivo da anni nell’istituto milanese di Bollate e recensito persino dal New York Times. Ma il primo avviato in un carcere per minorenni, questo sì. Primo in Italia e in Europa. Con l’obiettivo di costruire una formazione professionale e dare prospettive di una vita diritta a ragazzi che pur avendo imboccato una strada storta sono comunque ancora giovani: la ricetta sta nell’intervenire prima che il trascorrere degli anni renda sempre più complicato il proposito di raddrizzarla. Il progetto è sostenuto dalla Fondazione del Monte. La sua realizzazione è stata possibile grazie alla collaborazione tra Istituto minorile e Fomal, la Fondazione Madonna del Lavoro nata come Opera religiosa nel 1949 a San Giovanni in Persiceto per l’intuizione di una suora, Nazarena Vecchi, che a quell’epoca voleva soprattutto dare un mestiere alle tante vedove e madri e figlie disoccupate del dopoguerra. Oggi la Fondazione è diventata un punto di riferimento formativo nel campo della ristorazione. E per il progetto legato ai ragazzi del Pratello si vale (anche) della disponibilità dello chef Mirko Gadignani, cuoco del Bologna calcio e della Fortitudo basket. “Ci stavamo pensando e lavorando da dieci anni - ha detto all’inaugurazione - e finalmente adesso è una realtà”. Con lui un altro chef, Alberto Di Pasqua, e Fabrizio Calati come maître. Il carcere in questione dipende dal Centro giustizia minorile per l’Emilia Romagna, che ha sede nello stesso complesso e nel suo insieme si occupa non solo di minori a partire dai 14 anni ma anche di “giovani adulti” (così tecnicamente chiamati) fino a 21 anni che abbiano commesso reati prima dei 18. A lavorare per l’Osteria sono fino a otto, a rotazione: metà come aiuto cuochi e metà in sala. D direttore dell’istituto Alfonso Paggiarino ha riportato alcuni dei pensieri che hanno scritto dopo l’inaugurazione: “Ho scoperto una passione che pensavo di non avere”; “finalmente ho la possibilità di imparare un mestiere e di trovarne uno quando uscirò”, “non è solo cucina ma anche sapersi relazionare con i compagni di lavoro”. Ma quello del reinserimento lavorativo è solo uno dei due obiettivi del progetto. L’altro lo ricorda Giusella Finocchiaro, presidente della Fondazione del Monte: “Si tratta di creare una occasione di contatto affinché anche i cittadini possano rendersi consapevoli di realtà che riguardano tutti”. Di qui l’importanza delle cene “aperte” che inizieranno tra dieci giorni. “Chi viene a cena - sottolinea Beatrice Draghetti, presidente di Fornai - contribuisce alla formazione personale e professionale dei ragazzi al pari dei loro maestri in cucina. Ma anche perla città di Bologna la nostra Osteria sarà un luogo denso di significato, da frequentare per sostenere la sfida educativa dei giovani, nella convinzione che ogni persona può sempre ripartire per realizzare il personale progetto di crescita e autonomia. Le cene saranno occasione anche per conoscere da vicino le varie attività che Istituzioni, associazioni e realtà di volontariato promuovono all’interno del carcere”. La sala è stata ricavata in un corridoio dell’antico chiostro del monastero quattrocentesco che oggi ospita l’Istituto. Le cene aperte al pubblico iniziano alle 20 e si concludono entro le 22,30. Per prenotare bisogna andare sul sito brigatadelpratello.it e cuccare su “prenotazioni”, muovendosi con un certo anticipo perché ovviamente si tratta di un ingresso in carcere che richiede una procedura: e l’iter ha bisogno dei suoi tempi. Napoli. I pranzi di Natale della Comunità di Sant’Egidio nelle carceri della Campania di Antonio Mattone Ristretti Orizzonti, 14 gennaio 2020 1.017 detenuti, circa 500 volontari, più di 100 esponenti della società civile, 7 vescovi in 12 pranzi e due eventi minori. Sono questi alcuni numeri dei pranzi di Natale organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio nelle carceri della Campania durante le ultime feste del periodo natalizio. Ma oltre i numeri, queste cifre sono il segno che le carceri si possono trasformare in luoghi di rinascita e di riscatto. Da sottolineare la fattiva ed empatica collaborazione con le direzioni degli istituti e con la polizia penitenziaria, oltre all’importante contributo che hanno dato alcuni sponsor. Gino Sorbillo, Sal De Riso, Vitigno Italia, Marco Infante, i ristoranti La Bersagliera, Baccalaria, l’Europeo e Amico Bio Spartacus Arena dell’anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere, la Coldiretti di Benevento, l’Ordine degli Psicologi di Napoli, solo per citarne alcuni, hanno voluto contribuire concretamente alla realizzazione del pranzo, e qualcuno di loro ha voluto partecipare direttamente all’evento promosso. Il pizzaiolo Sorbillo ha affermato che per lui venire a Poggioreale “è stata una grande emozione”, ed ha auspicato che “tante cose a Napoli possono cambiare se c’è l’impegno di molti a fare cose buone”. Di grande rilievo il pranzo gourmet preparato da Peppe Daddio nel carcere di Arienzo. Lo chef, che già aveva cucinato per papa Francesco nella sua visita al carcere di Poggioreale, ha saputo coinvolgere i produttori del territorio, realizzando un menù di tutto rispetto che ha riscosso un grande successo. Questi eventi hanno avvicinato la società esterna al mondo del carcere. Professori universitari, ristoratori, imprenditori, avvocati, presidenti di importanti fondazioni si sono seduti a tavola accanto ai detenuti, condividendo emozioni forti, storie di galera, saluti e convivio con gli ultimi tra gli ultimi. Perché i carcerati che hanno partecipato ai pranzi sono quelli più poveri, che non fanno colloqui o che hanno i familiari lontani. Sono quelli che durante l’anno incontrano i volontari di Sant’Egidio. I due momenti conviviali nei centri clinici di Secondigliano e Poggioreale hanno invece visto a tavola i malati ed è stata molto importante la presenza del direttore generale dell’Asl Napoli 1 Ciro Verdoliva con cui si è potuto parlare dei problemi più urgenti della sanità penitenziaria. L’Amministrazione penitenziaria ha dimostrato grande attenzione con il provveditore Antonio Fullone che ha partecipato a quattro pranzi, mentre non è mancata anche quest’anno la visita del presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli Adriana Pangia. I volontari erano molto colpiti, alcuni di loro non avevano mai messo piede in un carcere. Alcuni incontri preparatori hanno preceduto gli eventi: c’era bisogno di spiegare e far comprendere un contesto così complesso e difficile. Tutto è andato per il meglio e per qualcuno di loro questi incontri hanno suscitato il desiderio di avvicinarsi al mondo del carcere. Tanti i sacerdoti e ben sette vescovi, a cominciare dal cardinale Crescenzio Sepe e al vescovo di Sant’Angelo dei Lombardi, Pasquale Cascio, delegato dei vescovi campani per la pastorale carceraria. Un presenza folta e significativa nell’anno che la diocesi di Napoli ha voluto dedicare alla settima opera di misericordia: “visitare i carcerati”. Di rilievo anche la partecipazione di molti artisti: Francesco Cicchella, Rosalia Porcaro, Ida Rendano, Marino Bruno, Giuseppe Di Capua, Franco Ponzo, Emiddio Ausiello, Gaetano Amato, Marco Critelli, Argia di Donato, Paolo Neroni, Franco Mayer, Pasquale Rea, Rosa Chiodo e Andrea Sensale hanno saputo rallegrare con il loro talento queste feste. Il comico-attore Cicchella ha addirittura raddoppiato, organizzando qualche giorno dopo uno spettacolo tutto suo nel carcere di Poggioreale. Forse la testimonianza più significativa e toccante è stata quella di Giuseppina Troianiello, la moglie di Giuseppe Salvia, il vicedirettore ucciso dalla camorra il 14 aprile 1981. Anche quest’anno ha voluto pranzare con i detenuti. E anche quest’anno con lei c’era il figlio Claudio nei panni di Babbo Natale. Stupore e commozione si sono stampati sui volti dei detenuti che stavano al suo tavolo appena hanno compreso chi fosse la signora che mangiava amabilmente accanto a loro. All’uscita uno degli ospiti che ha partecipato al pranzo è visibilmente commosso, e salutando i volontari prima di tornare a casa, ha esclamato: “Chi cercasse un senso al Natale, si affacci qui dentro per favore”. Roma. Naufraghi… in cerca di una stella di Francesca de Carolis remocontro.it, 14 gennaio 2020 Un sorprendente esperimento di pratica filosofica, dal carcere di Rebibbia. E una cella diventa “spazio di libertà dove è stata pensata la vita e messo in scena il mondo”. Ne nasce un libro, autori dodici persone detenute: “Naufraghi… in cerca di una stella”. Scritti che si aprono come una vertigine sull’esistenza, e che ci invitano ad aprirci alla conoscenza, al riconoscimento dell’altro. “Il Bene e il Male sono due realtà infinitamente lontane collegate tra loro da un filo sottile… Una corda tesa sull’abisso del nulla unisce le due contrapposte estremità, e noi uomini, come funamboli, su quella corda tesa siamo costretti a camminare per poter arrivare da qualche parte”. Funamboli. Un’immagine che dà le vertigini. E ancor più stordisce quando, più avanti… “Sulla corda tesa fra il Bene e il Male io ho trascorso quasi la mia intera esistenza”. Parole di Juan Dario Bonetti, che è persona detenuta. Ha partecipato, insieme a un gruppo di altri detenuti, al Laboratorio di Pratica filosofica della sezione Alta Sicurezza nella casa circondariale di Rebibbia. Un sorprendente esperimento di pratica filosofica, dal fondo di quel luogo, il carcere, che è caverna, ma è anche antro dentro ciascuno di noi. “Nell’immaginario di ogni filosofo, almeno nella tradizione occidentale che inizia dalla Grecia, c’è un carcere che fa da sfondo o scena almeno a due dialoghi di Platone, l’Apologia di Socrate e il Fedone” spiega Emilio Baccarini, che insieme a Fernanda Francesca Aversa ha guidato gli incontri. Così “la modalità dell’esercizio della pratica filosofica è stato proprio il dialogo socratico come ricerca di una verità condivisa e da nessuno preliminarmente posseduta”. E immaginiamo con lui lo spazio di una cella che diventa “uno spazio di libertà dove è stata pensata la vita e messo in scena il mondo”. “Abbiamo esplorato il significato delle emozioni attraverso il racconto delle esperienze vissute, lasciandoci ispirare dalla letteratura e dall’arte” racconta Francesca Aversa. E si ragiona, sul bene, sul male, sul giudizio, la paura, l’amicizia, l’amore, il viaggio, lo spazio, la libertà, cosa significa scegliere… “perché ogni argomento può essere trattato filosoficamente”. E in maniera quanto mai concreta, partendo da esperienze personali. “Per alcuni di loro si è trattato di un viaggio di scoperta e trasformazione di sé, un conoscersi che non è più soltanto specularità, ma avventurosa navigazione… la dura prova di un processo faticoso, la ‘seconda navigazionè a remi di platonica memoria”. Il risultato è condensato negli scritti di dodici autori, raccolti in un libro: “Naufraghi… in cerca di una stella” (edito da UniversItalia). Scritti che, tutti, si aprono come una vertigine sull’esistenza. Sul senso del rapporto con sé e con gli altri. E si fanno leggere, vi assicuro, tutto d’un fiato. Fabio Falbo, “resiliente nella caverna”, con tutto il peso dell’”eccesso di dolore” della propria condizione (“esagerato” è aggettivo che ritorna spesso nelle lettere che ricevo dal carcere), si immagina gladiatore che dalle sofferenze, dal dolore, dalle tragedie… deve far uscire il meglio di sé, e “non si può osservare alcuna cosa bella, se non si intende la schifezza dell’esistenza e il dolore più ripugnante e deturpante”. Pietro Lo Faro dialoga con se stesso attraverso il mito di Sisifo di Camus… si interroga e ci interroga sul realissimo vivere inautentico cui costringe il carcere e poi: “è stato molto più semplice per me scegliere la via del crimine… è anche vero che ora, è altrettanto vero che trovare un lavoro onesto quando hai diverse condanne alle spalle, e l’interdizione perpetua, è compito piuttosto arduo… come potrei reinserirmi nella società civile se il legislatore stesso, per tutelare la società, mi esclude da essa a priori?”. Si avverte davvero invalicabile quel muro che la società tutta ha costruito intorno alla “colpa”, come fosse sempre e solo affare d’altri, “eppure continuo a studiare e a coltivare in me il pensiero che potrei un giorno essere considerato altro che non un delinquente”. Perché “riconoscermi negli altri è un’esigenza di cui ancora oggi ho bisogno”. E quanto è vero, se noi tutti siamo l’immagine che ci restituisce lo sguardo dell’altro. Giuseppe Perrone, ancora, sa che farsi conoscere rende l’altro tranquillo, e chiede di essere conosciuti e riconosciuti per quello che si è diventati. Chiede: “Vi prego di rispondere a queste domande: immaginate i lineamenti del mio volto simili a quelli del mostro o vicini ai vostri? Ritenete che il mio nome sia impronunciabile?” E mi è sembrato riecheggiare, nel ritmo delle sue domande, l’accorato domandare della poesia di Auden, “La verità, vi prego, sull’amore”… Giuseppe che chiede, a noi tutti, di esercitare il dubbio, uscire dalle prigioni delle nostre certezze. Ritorna (ne avevamo parlato, come premessa della rivoluzione del “filosofo” Basaglia) la necessità della sospensione del giudizio. Per aprirsi alla conoscenza, alla conversazione, al riconoscimento dell’altro… E sarebbero da citare uno per uno ciascuno dei dodici autori del libro, dodici “naufraghi” che non cercano terra, ma la luce di una stella… ognuno capace di parole profonde e dense, a offrirci il racconto del proprio faticoso remare su un mare senza vento. Poco prima di Natale c’è stata a Rebibbia la presentazione del libro (una seconda ci sarà questa settimana, mercoledì pomeriggio a Roma se, di Roma, foste interessati, a Moby Dick a Garbatella). Valeva la pena di essere lì anche solo per assistere all’incontro fra Filippo Rigano (“Si può davvero parlare di libertà di parola, se le parole di alcuni restano inascoltate?”, esordisce il suo scritto) e Giulio Toscano, il giudice che lo aveva condannato e poi qualche anno fa reincontrato, per sentire le parole dell’ex magistrato che in Filippo ha saputo riconoscere l’uomo nuovo che è oggi, e ha detto fra l’altro una cosa bellissima: dare a coloro che sono in carcere la possibilità di studiare è restituzione di quello che in passato la società, le condizioni della vita avevano loro sottratto: il tempo dello studio. Sulla copia del libro che al termine dell’incontro mi è stato regalato, una dedica: “nella speranza che questa lettura accresca la sua conoscenza dell’Uomo”. Certo, molto sto imparando. E rileggerò e rileggerò, per provare a rispondere almeno a qualcuno degli infiniti interrogativi che si aprono quando si mette piede in un carcere, e si fa fatica a non restarne travolti. “Naufraghi in cerca di una stella”. Quella che ne nasce è anche voce corale. Che è invito, preghiera, urlo sommesso, rivolto a tutti noi. Che ci dice che non possiamo continuare a voltarci dall’altra parte, che anche se ci riteniamo assolti, come cantava de André, siamo per sempre coinvolti… Roma. Inaugurazione della Sala “Enrico Maria Salerno” a Rebibbia Nuovo Complesso garantedetenutilazio.it, 14 gennaio 2020 Venerdì 17 gennaio, inaugurazione della Sala “Enrico Maria Salerno” presso il reparto G8 dell’istituto Rebibbia Nuovo Complesso. Il grande Maestro della scena teatrale, cinematografica e televisiva - scomparso il 28 febbraio 1994 - viene ricordato con la dedica di una Sala allestita presso il Reparto G8 del carcere romano di Rebibbia N.C. Il restauro della Sala è stato fortemente voluto dalla vedova di Salerno, Laura Andreini, che dal 2003 promuove le attività culturali e di spettacolo nell’Auditorium del carcere, coinvolgendo centinaia di detenuti. Salerno è stato artista completo, impegnato nel mondo sociale, convinto che il ruolo di chi crea immagini e guida la comunicazione, sia quello di favorire la relazione umana, la generazione di una comunità fondata sull’armonia. Il tema è affrontato da Salerno in una bellissima intervista televisiva sul ruolo dell’artista, che verrà riproposta in occasione dell’inaugurazione della Sala a lui dedicata. Il Centro Studi - Archivio Storico Enrico Maria Salerno custodisce la memoria del Maestro e la trasforma in concreti progetti di condivisione e riscatto sociale e culturale rivolti alla popolazione detenuta. Il nuovo spazio, che accoglie attualmente i partecipanti al Progetto Prexit per l’inclusione sociale (Regione Lazio), sarà presentato al pubblico il 17 gennaio, alle ore 16,00. Fa gli onori di casa la Direttrice di Rebibbia N.C. Rosella Santoro. Interviene il Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti Stefano Anastasia. Accanto a Laura Andreini Salerno, il Provveditore alle Carceri di Lazio, Abruzzo e Molise Carmelo Cantone accoglie il pubblico di liberi e detenuti. Cantone è stato fra i protagonisti della nascita delle esperienze teatrali di Rebibbia, creando le condizioni per la realizzazione di Cesare deve morire dei fratelli Taviani, film Orso d’Oro al Festival di Berlino 2012. L’organizzazione dell’evento è curata da Fabio Cavalli. Trieste. Spazi più confortevoli per i bambini alla Casa circondariale di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti, 14 gennaio 2020 Raccolta fondi, in forma privata, dei Consiglieri comunali di Trieste a favore dei bambini per l’acquisto di un fasciatoio da donare alla Casa Circondariale. L’iniziativa trae origine dalla richiesta avanzata dal Garante comunale dei diritti dei detenuti. Il componente d’arredo sarà destinato, non già alla sezione detentiva, che generalmente non ospita mamme e figli, ma alle famiglie che si recano e si recheranno presso l’Istituto per effettuare il colloquio con il proprio congiunto ristretto rendendo più confortevole e funzionale lo spazio d’attesa. La raccolta è stata effettuata in occasione della celebrazione della giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e in questi giorni prenatalizi il fasciatoio è stato consegnato alla Casa Circondariale di Trieste. Un dono che sottolinea l’attenzione e la sensibilità dei rappresentanti istituzionali del Comune di Trieste - nella loro collegialità - nella tutela dei minori e, in particolare, dei bambini in tenera età. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Modena. Presentazione del libro “Un universo di acciaio e cemento” modenatoday.it, 14 gennaio 2020 La vita in carcere di William Frediani nel suo nuovo libro. È William Frediani Piccancino con il suo libro “Un universo di acciaio e cemento. Vita quotidiana nell’istituzione totale carceraria” ad aprire la rassegna 2020 dei mercoledì a Lo Spazio Nuovo di Modena (via IV novembre 40), il 15 gennaio alle 18.30, ad ingresso libero e gratuito. L’evento, promosso in collaborazione con l’Associazione Idee in circolo, Aliante Coopsociale e l’Associazione Carcere Città, propone una un’osservazione partecipante che permette di penetrare attraverso le sbarre e le porte blindate dell’istituzione totale carceraria. L’autore, studi classici, laurea con lode in Conservazione dei Beni Culturali, ex prigioniero, arrestato per “propaganda sovversiva” nel 2004 e condannato per “associazione eversiva” nel 2009, dialogherà con Sara Manzoli, di Aliante Cooperativa Sociale e Paola Cigarini dell’Associazione Carcere e Città di Modena. Dalle 17.00 classico appuntamento con il “Magico Mundo free” laboratori gratuiti per bambini: “Logiche, giochi e rompicapi”. Foggia. “Un’ora d’aria colorata”, continua il tour di Luca Pugliese nelle carceri ottopagine.it, 14 gennaio 2020 Mercoledì 15 gennaio la casa circondariale di Foggia ospiterà per la seconda volta tra le sue mura, dopo il concerto dello scorso 30 ottobre, la musica di Luca Pugliese, ventiduesima tappa della sua tournée musicale per le carceri. S’intitola “Un’ora d’aria colorata” la missione artistico-culturale che dal gennaio 2013 vede impegnato il poli-disciplinare artista campano (musi-cantautore, pittore, architetto) a far dono gratuito della sua musica alla popolazione detenuta di numerosi istituti di penitenziari del paese. Un’iniziativa solidale che, oltre a richiamare l’attenzione sullo stato delle nostre carceri, chiama in gioco il ruolo sociale dell’arte e dell’essere artisti. “La dignità dell’uomo” afferma l’artista “è un diritto universale che non ammette deroghe e l’arte è un diritto di tutti. La musica è aria dipinta. Portare un po’ di musica in luoghi dove tutto è troppo poco e troppo stretto, mi rende vivo e mi fa sentire utile al mondo. La magia di questo tour è quella di aver scoperto e toccato con mano il potere aggregativo della musica, la capacità della musica, in luoghi come il carcere, di farsi vero e proprio focolaio di libertà. Le emozioni che questa esperienza mi ha finora restituito sono veramente rare, le mie canzoni e la mia musica godono di un’energia totalmente diversa da quando ho deciso di regalarle a chi ne ha veramente bisogno. Sono inoltre più che mai convinto che, se vogliamo migliorare il nostro paese, dobbiamo cominciare dal basso, recuperando e riabilitando chi ha sbagliato, e che ciò non è solo doveroso, ma è anche possibile. Io metto gratuitamente a disposizione una mia competenza; se tutti dessero qualcosa gratis per alleviare la sofferenza altrui, sicuramente il mondo starebbe più in armonia con se stesso”. Il concerto bis al carcere di Foggia, fortemente voluto, su espressa richiesta dei detenuti ad alta sicurezza, dalla direttrice dell’istituto dott.ssa Giulia Magliulo, dal comandante del corpo di polizia penitenziaria Luca Massimiliano Di Mola e dal capo area trattamentale Giovanna Valentini, vedrà Luca Pugliese esibirsi nella veste live che, proprio a partire dalla tournée carceraria, si è consolidata come quella da lui preferita: la versione one man band. Da diversi anni or sono, infatti, si esibisce così: cassa al piede destro, charleston al piede sinistro, chitarra, voce, a volte anche armonica a bocca. Strabiliante “uomo orchestra” e cantautore e interprete raffinato, nelle sue esibizioni Luca Pugliese porta in scena il background più profondo della sua esperienza musicale, aperta alla contaminazione e costantemente alla ricerca di nuove suggestioni. Ultime, ma solo in ordine di tempo, le suggestioni musicali tratte dal repertorio classico napoletano - che della tournée nelle carceri sono la colonna portante - e da quello latinoamericano, che, assieme a brani propri e a grandi classici del cantautorato italiano, offrono un viaggio musicale unico nel suo genere, in cui epoche, stili e tradizioni differenti trovano un epicentro comune grazie a un grintoso talento interpretativo e a una rara capacità di farli propri. Roma. A Rebibbia la mostra “Essere madre, oltre la pena” di Francesco Spagnolo romasette.it, 14 gennaio 2020 In mostra gli scatti delle detenute, frutto di un laboratorio di tre mesi con Natascia Aquilano. Le donne della sezione nido davanti e dietro all’obiettivo. “Andare oltre le sbarre, il pregiudizio, lo stereotipo e vedere piuttosto l’umanità di madri e di figli”. La fotografa Natascia Aquilano spiega così il senso della Mostra “Essere madre, oltre la pena”, presentata oggi, 13 gennaio, nella Casetta Koinè della Casa circondariale femminile di Rebibbia. Il progetto è il risultato finale di un laboratorio fotografico educativo, formativo ed emotivo, ideato e portato avanti per tre mesi da Aquilano insieme all’educatrice Luciana Mascia, in collaborazione con la onlus ProPositivi, appositamente dedicato alle madri detenute della sezione nido di Rebibbia e ai loro bambini. “L’idea del laboratorio fotografico - spiega Aquilano - nasce dal desiderio di andare oltre la realtà del carcere e cercare innanzitutto le relazioni tra le persone. Sia le donne detenute, in quanto prima e soprattutto madri, che i loro bambini sono stati non solo i soggetti delle foto ma anche in molti casi gli autori. Le abbiamo infatti aiutate a realizzarle, eseguendo una serie di scatti a tema, e attraverso questo a lavorare sulla relazione con i loro bimbi”. Infatti, prosegue la fotografa, “in un posto come il nido del carcere sembra prevalere il loro ruolo di madri, quasi fosse un’etichetta, più che la relazione con i loro bambini. A questo si aggiunge un ulteriore stigma che è quello di essere delle recluse, anche se nel mio lavoro con loro non ho voluto conoscere i motivi della loro pena. Non è stato semplice ma come fotografa ho puntato innanzitutto a rappresentare delle persone”. La mostra comprende sia gli scatti realizzati e scelti dalle detenute che le foto scattate durante il laboratorio da Aquilano, “così da avere una doppia inquadratura sulla nuova relazione”, spiegano le curatrici del progetto. “Con delicatezza e determinazione - aggiungono - la mostra fotografica vuole invitare tutti a oltrepassare la cinta muraria e ad avvicinarsi a una realtà troppo spesso ignorata. Queste immagini non spiegano cosa avviene nella sezione nido del carcere di Rebibbia ma sollecitano profonde riflessioni sulla condizione anche dei 56 bambini sotto ai 3 anni attualmente presenti nelle carceri italiane insieme alle loro madri. Un bambino è erede del contesto in cui nasce e cresce, non lo sceglie - chiariscono ancora le curatrici - pertanto ha il diritto di essere felice ovunque si trovi. Questo, nel caso specifico, succede solo se si cambia il modo di intendere e vivere la pena, che è non solo possibile ma sempre più necessario”. Alla fine di questa esperienza, “che vorrei potesse andare anche oltre le mura di Rebibbia, mi porto dietro le tante esperienze e conoscenze fatte con le madri e i loro bimbi - è il bilancio della fotografa. Le foto, che dopo la presentazione del 13 andranno ad abbellire gli spazi del carcere, non spiegano tutto, a partire dal perché quelle donne sono lì, e nelle foto quasi mai si rappresenta in maniera esplicita il carcere, ma volevo raccontare la loro realtà che è fatta dei sapori di un buon caffè, di un abito tagliato ad arte o del profumo della loro cucina, perché quella è la loro vita di tutti i giorni”. La trappola dei lavori che rubano il tempo, promettono libertà ma divorano le famiglie di Antonio Polito Corriere della Sera, 14 gennaio 2020 Dal film “Sorry we missed you” di Ken Loach al caso di Cédric Chouviat, i nuovi precari: sono autisti, motociclisti, ciclisti, che affollano le nostre metropoli portando pasti, pacchi e lettere. La notizia era a una colonna sul Corriere, in una pagina interna. Se non avessi visto la sera prima l’ultimo film di Ken Loach, “Sorry we missed you”, forse non l’avrei neanche letta: “Fattorino morto per un controllo”, diceva il titolo. Cédric Chouviat, 42 anni, padre di cinque bambini, viene fermato dalla polizia a Parigi mentre guida lo scooter che gli serve per fare consegne, ogni giorno dalle sei del mattino: si innervosisce, gli agenti anche, partono insulti e spintoni. La situazione degenera, i poliziotti lo buttano giù, ventre a terra, per mettergli le manette. Gli si ferma il cuore, gli agenti stessi gli praticano il massaggio cardiaco, muore dopo tre giorni di coma. Frattura della laringe, pare che sia un pericoloso effetto collaterale della tecnica del “placcaggio ventrale”. La polizia parigina è sotto accusa. Ma fermiamoci prima: un uomo di 42 anni, cinque figli, che per vivere fa consegne con lo scooter, dalle sei del mattino. Se qualcuno ha visto come me il film di Ken Loach riconoscerà nella povera vittima di Parigi la sindrome - fatta di spossatezza, alienazione e rabbia - che accompagna le giornate dei “nuovi proletari”, autisti, motociclisti, ciclisti, che affollano le nostre metropoli portando pacchi e lettere e pasti, nuovi schiavi della “società signorile di massa”, per usare il titolo di un fortunato libro di Luca Ricolfi. Persone spesso non più giovani, neanche povere in senso tradizionale. Working poor, si dice in inglese. Gente cioè con un lavoro ma senza una vita, perché il lavoro si mangia la vita. Persone che accettano un impiego così perché hanno famiglia, ma che spesso perdono la famiglia perché fanno un lavoro così. I nuovi negrieri - I nuovi negrieri li attraggono con la più moderna delle seduzioni: un lavoro autonomo, in cui sono padroni del mezzo, e non hanno il limite di un orario o di un salario, possono guadagnare bene se corrono molto, se consegnano in tempo, se il cliente è soddisfatto. Un’apparente libertà rispetto al posto fisso, o al lavoro manuale di un tempo, che può anche giustificare sogni di ascesa sociale, di un decoro piccolo-borghese, comprare un giorno una casa col mutuo, dare una scuola migliore ai figli. Ma è una finzione. La trappola sta proprio in quel rapporto di lavoro non dipendente, che libera il datore di lavoro da ogni responsabilità e vincola invece il lavoratore a ritmi da schiavo, segnati da penali, multe, mancati guadagni, rate del mezzo da pagare. L’operaio della società industriale, nella fabbrica o nel cantiere, vendeva la sua forza-lavoro. I nuovi proletari vendono il loro tempo, ed è peggio. Non per caso la prima battaglia del movimento operaio fu sul tempo di lavoro: il primo maggio del 1886 fu indetto uno sciopero generale in tutti gli Stati Uniti per la giornata di otto ore. Finì con il massacro di Haymarket, a Chicago. Tre anni dopo la Seconda Internazionale fece di quella data, il Primo Maggio, la festa dei lavoratori. I vecchi proletari si ribellavano perché non avevano da perdere che le loro catene; i nuovi non hanno da perdere che il loro tempo di vita, e con esso le famiglie, gli affetti, ogni gioia. Il film - Nel film di Loach, ambientato nel nord dell’Inghilterra, anche la moglie del protagonista lavora così: fa la badante, assiste anziani e malati a domicilio, viene pagata a visita da una società di servizi, più ne fa più guadagna. Una delle sue assistite, un’anziana sindacalista che era stata con i minatori negli anni 70, allibisce quando scopre che non ha un orario fissato per contratto. Il marito, invece, ha comprato un furgone bianco, diecimila sterline a rate, per poter andare in giro a consegnare pacchi senza fermarsi mai, sotto il controllo di uno scanner satellitare - “la pistola” lo chiamano - che registra tutto, e se tarda a ripartire dopo una consegna comincia a fare bip bip, portandosi appresso nel bagagliaio una bottiglia di plastica vuota per fare la pipì quando gli scappa senza perdere tempo. Lo ha fatto per i figli, e invece è proprio questa scelta che lo rende assente, stanco, nervoso, un padre peggiore, e fa saltare gli equilibri di una famiglia fin lì unita, forte, bella. Alla fine del film i figli glielo rimproverano: we missed you, ci sei mancato. Il ragazzo adolescente è sull’orlo del comportamento antisociale, la bambina, undicenne, sull’orlo di una crisi di nervi. La moglie esaurisce le sue riserve di affetto e pazienza. E lui a pezzi, ferito, pesto, assonnato, con una costola rotta, si rimette all’alba alla guida del van cui disperatamente ha affidato la sua vita, ma che gliela sta strappando. Fasi così il capitalismo ne ha già conosciute nella sua storia, quando un salto tecnologico gli consente nuove condizioni di sfruttamento, e le usa tutte perché il profitto è la sua legge. Ma sempre la civiltà, la filantropia, la lotta di classe, la politica democratica, hanno di volta in volta trovato il modo di mitigare queste condizioni e di rimettere al centro l’uomo e la sua dignità. Questo è uno di quei momenti, ma i nuovi proletari non hanno ancora trovato il modo, l’organizzazione, i sindacati, i partiti, la cultura che possa impedirne la trasformazione in merce, per costruire un nuovo umanesimo anche nel mondo dei satellitari e del controllo da remoto. Il film di Ken Loach ha il merito di ricordare a tutti noi che nessuno è davvero libero, se intorno a lui lavorano degli schiavi. Migranti. Nel 2019 quarantamila irregolari senza la protezione umanitaria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 gennaio 2020 Rapporto “La sicurezza dell’esclusione”, realizzato da Action Aid e Openpolis. Esplosione dell’emergenza degli irregolari e difficoltà del nuovo schema di capitolato di gara per i centri di accoglienza, con bandi andati deserti e ricorsi presentati da alcuni candidati. È ciò che emerge dal rapporto “La sicurezza dell’esclusione - Centri d’Italia 2019”, realizzato da Action Aid e Openpolis che offre una prima valutazione dell’impatto delle politiche migratorie del primo governo Conte. Gran parte del lavoro di analisi, suddiviso in due parti, si sofferma sulle conseguenze che la legge sicurezza immigrazione sta producendo sul sistema d’accoglienza nel suo complesso, denunciando nel contempo quanto sia difficile raccogliere le informazioni necessarie per monitorare il sistema dell’accoglienza e le sue evoluzioni per un’assenza quasi totale di trasparenza. Indicazioni sul disfacimento complessivo di un sistema e delle tutele dei richiedenti asilo che già molti attivisti, enti del terzo settore e operatori coinvolti nel sistema d’accoglienza avevano ampiamente previsto e che i movimenti avevano cercato di contrastare con mobilitazioni territoriali e di carattere nazionale. Ma nonostante un ampio fermento sociale, la legge Salvini è ancora lì, e, a oggi, la sua abrogazione pare che non sia tra le priorità del governo 5stelle-Pd. Secondo le stime del rapporto sono 40.000 le persone che si sono ritrovate irregolari nel 2019 a causa della soppressione della protezione umanitaria. E queste cifre sono inevitabilmente destinate ad aumentare nel 2020 poiché la legge ha generato una stretta anche nelle procedure e nei responsi delle Commissioni territoriali, sempre più restìe a concedere una forma di protezione. Del resto i rimpatri, che sembrerebbe un altro strumento di propaganda politica, sono stati nel 2018 circa 5.615. A questo ritmo si stima che per rimpatriare i 680mila cittadini stranieri irregolari servirebbero oltre 100 anni, senza contare il costo economico di una tale opinabile operazione. Il rapporto si sofferma ampiamente anche sulle conseguenze delle nuove regole delle gare di appalto per la gestione dei centri. Regole “volute per razionalizzare il sistema e tagliare i costi e i servizi di inclusione, si scontrano con la difficoltà, anche di natura politica, dei gestori di farvi fronte e delle prefetture di applicarle. Diversi i bandi deserti, quelli ripetuti o che non riescono a coprire il fabbisogno dei posti nei centri”. Sempre secondo il rapporto è “un affare che attrae i gestori a carattere industriale, grandi soggetti privati anche esteri in grado di realizzare economie di scala, e allontana i piccoli con vocazione sociale e personale qualificato”. La seconda parte del rapporto, invece, approfondisce l’impatto del nuovo capitolato di gara (collegato al Decreto sicurezza) sul funzionamento della macchina dell’accoglienza. “Un provvedimento - si legge nel rapporto - che snatura il senso e il ruolo del sistema trasformando i Centri di accoglienza straordinaria (Cas) in luoghi di desolata attesa e sospensione esistenziale piuttosto che di avvio all’integrazione”. Migranti. Rosarno, a dieci anni dalla rivolta non è cambiato nulla di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 gennaio 2020 La denuncia dell’organizzazione Medici per i Diritti Umani (Medu). Sovraffollamento, assenza di servizi ed estrema precarietà delle condizioni igienico-sanitarie per le oltre mille persone migranti che popolano i casali abbandonati. A distanza di dieci anni dalla rivolta dei braccianti, non è cambiato ancora nulla nel ghetto di Rosarno, piccolo centro della Piana di Gioia Tauro fino ad allora conosciuto solo per gli agrumeti e per la presenza capillare della ‘ndrangheta. A denunciare la situazione è l’organizzazione Medici per i diritti umani (Medu), la quale sottolinea che gli oltre 400 braccianti lavorano ancora in condizioni di sfruttamento come nel 2010, quando solo allora l’opinione pubblica scoprì che i migranti sono costretti a vivere in edifici abbandonati, casolari diroccati o baraccopoli improvvisate in condizioni drammatiche e umilianti. Quell’anno erano circa 1500 i lavoratori stranieri, per lo più giovani uomini provenienti dai Paesi dell’Africa subsahariana occidentale e regolarmente soggiornanti, presenti nella Piana. Oggi, a dieci anni di distanza, Medu denuncia che il numero resta pressoché invariato - dopo aver raggiunto picchi di oltre 3000 presenze negli anni passati - e altrettanto sconcertanti restano le condizioni di vita e di lavoro. “D’altra parte - denuncia sempre Medu-, ieri come oggi, le istituzioni locali - spesso commissariate per infiltrazioni mafiose - e quelle nazionali appaiono incapaci di qualsivoglia pianificazione politica efficace, coraggiosa e lungimirante, limitandosi invece a riproporre il circolo vizioso sgombero- tendopoli- baraccopoli, che da dieci anni lascia invariate le piaghe dello sfruttamento lavorativo, del degrado abitativo e dell’abbandono dei territori”. Se infatti nel 2010 i lavoratori impiegati nella raccolta trovavano rifugio in una ex fabbrica in disuso - una delle tante costruite con i finanziamenti della legge 488 del 1992 e poi abbandonate - e in un’altra struttura abbandonata nella zona industriale di San Ferdinando, oltre che nei numerosi casolari diroccati sparsi nelle campagne dei Comuni limitrofi, in assenza di qualsivoglia servizio di base, oggi il sovraffollamento, l’assenza di servizi e l’estrema precarietà delle condizioni igienico- sanitarie restano invariati per le oltre mille persone che popolano i casali abbandonati. I medici per i diritti umani denunciano che poco è cambiato anche per le oltre 400 persone che affollano l’ennesima tendopoli ministeriale - sorta in seguito allo sgombero della baraccopoli abitata da circa 2500 migranti avvenuto a marzo 2019 - e che versa in condizioni di sovraffollamento e degrado. La carenza di soluzioni abitative adeguate rende i lavoratori sempre più invisibili, poiché costretti a disperdersi in abitazioni di fortuna nelle campagne, e sempre più esposti allo sfruttamento e al caporalato. Dal 2014 Medu opera nella Piana con una clinica mobile, per garantire la tutela della salute e dei diritti fondamentali e l’accesso alle cure e ai servizi socio-sanitari da parte della popolazione degli insediamenti precari del territorio. Da dicembre 2019 la clinica mobile è di nuovo attiva nella Piana di Gioia Tauro e fornisce assistenza sanitaria e socio-legale alla popolazione degli insediamenti precari, in particolare presso la tendopoli ufficiale sita nella zona industriale di San Ferdinando, il campo container di contrada Testa dell’Acqua e i casolari abbandonati nelle campagne di Drosi e Rizziconi. Un clima di assurda disperazione come fosse un girone dantesco, nel quale è emerso che un migrante può arrivare a lavorare anche dodici ore al giorno, con una paga di appena un euro per ogni cassetta di agrumi raccolta. Davanti agli sfruttamenti, Medu ha chiesto l’introduzione di efficaci meccanismi di incontro legale tra la domanda e l’offerta di lavoro e il potenziamento di quelli esistenti e l’adozione di un piano graduale e strutturato di inclusione socio- abitativa dei lavoratori agricoli nei Comuni in via di spopolamento della Piana, anche attraverso pratiche di intermediazione abitativa già dimostratesi efficaci nel territorio della Piana e in altri territori. Per l’associazione occorre anche il riconoscimento della residenza presso gli insediamenti informali, condizione imprescindibile per consentire l’accesso ai diritti fondamentali; la sensibilizzazione e il sostegno alle aziende che rispettino i diritti dei lavoratori, quindi l’attivazione di politiche che favoriscano la regolarità del soggiorno dei migranti, requisito indispensabile per poter accedere a un lavoro con diritti e dignità. Libia. Sarraj firma la tregua, ma Haftar strappa e lascia Mosca: “Accordo inaccettabile” di Francesco Semprini La Stampa, 14 gennaio 2020 Niente intesa per il cessate il fuoco. Il generale irritato dal ruolo della Turchia e dal riconoscimento del Parlamento di Tripoli. “Così come è l’accordo non lo firmiamo”. Khalifa Haftar riparte da Mosca a tarda notte a bordo del suo Falcon 900 lasciando aperta la questione del cessate il fuoco in Libia a cui aveva aderito ieri pomeriggio il Governo di accordo nazionale in base all’intesa patrocinata da Turchia e Russia. Il Generale aveva preso tempo sino a stamane per valutare e meglio comprendere le condizioni, poi il silenzio e la partenza improvvisa. L’adesione di principio giunta nel fine settimana dalle forze di Tripoli e dall’autoproclamato Esercito nazionale libico di Bengasi aveva spianato la strada verso la capitale russa dove erano giunti ieri il capo del Consiglio presidenziale del Gna, Fayez al Sarraj, il generale Haftar, il presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk, Aguila Saleh, e il presidente dell’Alto consiglio di Stato con sede nella capitale, Khaled al Mishri, espressione queste ultime degli organi legislativi della dicotomia politica e territoriale libica. Il documento è passato all’esame delle parti: Sarraj e Al Mishri hanno firmato l’accordo, Haftar e Saleh no. Il generale “giudica positivamente la bozza di accordo ma vuole più tempo per esaminarla, sino a domani mattina” (stamane), aveva spiegato il ministro degli Esteri Serghei Lavrov. Lo strappo - Attorno la mezzanotte italiana è poi giunta la decisione di non aderire. “Non ci sarà alcuna firma sull’accordo di Mosca per diversi motivi, il più importante dei quali è l’intenzione della Turchia di sfruttarlo imponendosi attraverso esso come attore di riferimento in Libia per legittimare i due memorandum d’intesa firmati con il Presidente del Gna. Al contempo non è accettabile il riconoscimento implicito del parlamento parallelo di Tripoli (Consiglio di Stato) come nuovo organo in conflitto con il parlamento legittimo di Tobruk, oltre alla frammentazione delle forze armate”, recita una nota confidenziale fatta circolare da funzionari vicini al generale. Da Bengasi tuttavia avvertono che la vicenda non è chiusa e nella giornata di oggi potrebbero giungere sviluppi al riguardo. Il diniego del generale - avvertono fonti del Palazzo di Vetro - è frutto anche dalla pressione degli Emirati che più di altri hanno investito sulla campagna militare di Bengasi per assicurarsi una “silver share” anche sulle attività economiche ed energetiche della Tripolitania. Le 7 condizioni - Alle parti è stato sottoposto un accordo in sette punti. Ovvero osservare incondizionatamente il cessate il fuoco; normalizzare la vita a Tripoli e nelle altre città libiche e procedere a una de-escalation militare; assicurare l’accesso e la distribuzione di aiuti umanitari; formare una commissione militare 5+5 come previsto dal piano d’azione della missione delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil); designare rappresentanti che partecipino al dialogo economico, militare e politico promosso dall’inviato Onu Ghassan Salamé; formare gruppi di lavoro per individuare soluzioni politiche intra-libica; tenere il primo incontro dei gruppi entro gennaio 2020. Fonti vicine alla trattativa spiegano che, al di là dei sette punti “elevati”, ci sono nodi da sciogliere sul terreno come la liquidazione dei mercenari, lo scioglimento delle milizie e il loro assorbimento in forze di sicurezza istituzionali e il ritiro di Haftar con la conseguente ridefinizione di territori e competenze. Le imposizioni di Haftar - Ipotesi a cui l’armata della Cirenaica, in una nota, oppone un perentorio diniego affermando di voler mantenere le posizioni conquistate vicino a Tripoli: “Abbiamo intenzione di liberare tutta la Libia da milizie e gruppi terroristici. Non arretriamo di un passo”. Posizione incompatibile con quella individuata dai due “broker” ovvero Turchia e Russia, e secondo cui ad Haftar e al suo esercito dovrebbero competere la sicurezza dei pozzi petroliferi, la cui competenza gestionale rimane però affidata all’autorità Noc allineata con Tripoli. E le attività di antiterrorismo, una delega che andrebbe incontro alle rivendicazioni dell’Egitto il quale vede nel generale Haftar il vero bastione contro il terrore sulla sponda sudorientale del Mediterraneo. Un quadro che di fatto ridimensionerebbe molto la figura del generale il quale non solo non incasserebbe incarichi politici ma neanche la titolarità dell’intero apparato militare libico. Evidentemente troppo poco per il generale che alza così la posta approfittando di “un cessate il fuoco che - sottolinea Salamé - è più fragile che mai”, come dimostrano le violazioni avvenute nella notte alla periferia della tormentata capitale libica. Libia. Aumentano i timori per gli italiani sul campo di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 14 gennaio 2020 L’ospedale di Misurata rischia il trasferimento, ma Roma non vuole dare segni di arretramento. L’ultima disposizione vieta le uscite dei militari e blinda gli edifici che ospitano il contingente e i medici in servizio all’ospedale di Misurata. Perché la difficoltà di raggiungere una tregua tra il generale Khalifa Haftar e il presidente Fayez al Sarraj aumenta il livello di minaccia per gli italiani in Libia. E anche l’eventuale firma all’accordo, che potrebbe arrivare oggi, non fuga affatto i timori per la sorte dei 300 soldati e degli specialisti che si trovano in quell’area della Libia entrata proprio nelle mire di Haftar. Gli sforzi diplomatici e il lavoro dell’intelligence continuano ad essere concentrati su una mediazione tra le parti, ma a Roma si lavora anche per mantenere un ruolo di primo piano rispetto agli altri Paesi che stanno cercando di sponsorizzare l’intesa. Ecco perché - esclusa la possibilità di inviare subito altri uomini sul campo - il premier Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio continuano nelle missioni in tutti quegli Stati che possano fare pressioni su Haftar e Al Sarraj. E dunque Ankara, ma anche Mosca con il titolare della Farnesina che preme sul collega Sergei Lavrov. I contatti di ieri non sembrano aver sortito gli effetti sperati, ma oggi ci saranno nuovi tentativi nella speranza che si riesca comunque a far svolgere la conferenza di Berlino. E nello stesso tempo provando a tenere a bada i francesi, sempre più presenti e influenti in questa partita diplomatica che con il trascorrere dei giorni continua ad essere estremamente complicata. Un quadro in continua evoluzione di cui si dovrà tenere conto nei prossimi giorni, al momento di rifinanziare le missioni all’estero. La Difesa spinge per un aumento delle risorse con una linea fin troppo esplicita: in un momento di crisi internazionale così grave non possiamo indebolirci in nessuna altra parte del Medio Oriente. E quindi - questo è stato ribadito nelle ultime ore - non ci potrà essere una diminuzione dei numeri del contingente in Afghanistan e tantomeno in Iraq, a meno di non voler mettere ulteriormente a rischio la sicurezza dei reparti. Un discorso che tanto più vale per la Libia in conflitto e con le truppe di Haftar che una settimana fa erano pronte a lanciare l’offensiva proprio in Tripolitania. Ecco perché al momento non è escluso che l’ospedale di Misurata possa essere costretto alla chiusura e dislocato in un’altra zona. Eventualità che si cerca in tutti i modi di scongiurare consapevoli che un arretramento sul campo si manifesterebbe come un segnale di debolezza, mentre l’Italia ha interesse a rimanere in prima linea nel ruolo di Paese mediatore. E dunque prende tempo anche rispetto all’indicazione di un “inviato” dell’Unione Europea che potrebbe essere scelto nei prossimi giorni e che, secondo l’indicazione dei giorni scorsi del vicepresidente della Commissione Ue Frans Timmermans, potrebbe essere Marco Minniti. Human Rights Watch respinta da Hong Kong: un segnale negativo di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 14 gennaio 2020 Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch, è stato respinto dalle autorità di frontiera all’aeroporto di Hong Kong. Il capo americano della organizzazione non governativa avrebbe dovuto presentare domani il rapporto annuale World Report 2020, sullo stato delle libertà in cento Paesi. In primo piano un dossier su quello che secondo i ricercatori della ong è “l’assalto cinese ai diritti umani”. Il documento sarà diffuso oggi a New York. Roth era stato diverse volte a Hong Kong, senza problemi, oggi si dice rattristato dalla svolta. L’ultima visita nel 21918 quando presentò un rapporto sulle discriminazioni nel mercato del lavoro cinese. Ma allora Hong Kong era ancora calma, ora è sprofondata da sette mesi in una crisi politica e sociale di rigetto della crescente omologazione e subordinazione alla politica dettata dal Partito-Stato di Pechino. All’aeroporto della City i funzionari hanno detto solo che c’erano “problemi di immigrazione”. A Pechino il portavoce degli Esteri è stato meno diplomatico: “E nella scelta discrezionale della Cina sovrana consentire o negare l’ingresso a un individuo nel suo territorio”, ha detto il rigoroso Geng Shuang. Tecnicamente ha ragione, perché Hong Kong fa parte della Cina, anche se è una “regione ad amministrazione speciale” fino al 21947, in base agli accordi sulla restituzione dell’ex colonia da parte britannica nel 1997. Fino agli ultimi mesi però Hong Kong era anche stata un’isola di liberalismo politico. Oggi l’impalcatura si sta sgretolando. Ora nemmeno nella Hong Kong retta dal principio “Un Paese due sistemi” chi è sgradito al governo di Pechino può muoversi tranquillamente: la polizia ha usato lacrimogeni e pallottole di gomma anche contro i reporter che in strada seguivano gli eventi da giugno. Il sistema ormai è lo stesso: porte chiuse a chi critica o si oppone. Pechino ordina e le autorità del territorio speciale eseguono. G20 in Arabia Saudita: la farsa del forum della società civile di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 gennaio 2020 “Un farsesco tentativo di far dimenticare le violazioni dei diritti umani”: così Amnesty International, Transparency International e Civicus hanno definito, in una nota congiunta, il cosiddetto C20, un ciclo di incontri preparatori della società civile in vista del summit del G20, di cui quest’anno l’Arabia Saudita ha la presidenza. Il C20 è presieduto dalla Fondazione re Khalid, ovviamente legata alla famiglia reale. Nelle intenzioni delle autorità saudite, il C20 dovrebbe costituire una piattaforma della società civile mondiale che potrebbe suggerire temi da inserire nell’agenda del summit del G20. È un peccato, hanno commentato ironicamente le tre organizzazioni, che l’unica “società civile” locale cui sarà consentito di partecipare al C20 è una creazione del governo mentre la maggior parte delle voci indipendenti dell’Arabia Saudita languono da tempo dietro le sbarre: come i fondatori dell’Associazione saudita per i diritti civili e politici o le attiviste per i diritti delle donne. In un paese nel quale i partiti politici, i sindacati e le organizzazioni per i diritti umani sono messi al bando e i giornalisti indipendenti sono assassinati all’estero, quale processo di consultazione della società civile può mai aver luogo? Siamo di fronte, dunque all’ennesima campagna di pubbliche relazioni per migliorare la reputazione internazionale dell’Arabia Saudita. Come nel caso dello sport-washing, ci sarà certamente qualcuno che considererà il C20 l’ennesima conferma che il paese ha intrapreso la strada delle riforme.