Nei nostri penitenziari aumentano i suicidi di Emilia Urso Anfuso Libero, 13 gennaio 2020 Fino alla fine del XVIII secolo, il sistema carcerario in Europa prevedeva la tortura e anche le pene corporali. Questo tipo di punizioni furono concepite dopo l’istituzione della Santa Inquisizione, che introdusse anche il carcere a vita oltre a torture che al solo leggerne la descrizione si rischia di star male. Le cose migliorarono un poco con l’avvento del movimento illuminista che, grazie a Cesare Beccaria e a Immanuel Kant, diffuse il criterio d’integrità morale e fisica dei detenuti. Ciò corrispose a un’altra riforma di pensiero: si doveva condannare maggiormente l’azione, e non esclusivamente chi l’aveva compiuta. Col passare del tempo, ci si sarebbe attesi che la modernità portasse anche una nuova mentalità riferita alle pene detentive per chi si macchia di reati che prevedono la carcerazione, ma nel nostro paese le cose sono andate al contrario, involvendo invece di avanzare. Chi oggi si ritrova dietro le sbarre, alla condizione di privazione della libertà deve aggiungere, in molti casi, l’arrivo di varie forme di disagio psicologico. Esse derivano anche dalle poche opportunità lavorative, rieducative e scolastiche offerte dal nostro circuito carcerario. Come si può non cadere almeno in stato depressivo campando senza far nulla tutto il giorno, chiusi in ambienti angusti e spesso in condizioni igieniche precarie? Altro che illuminismo, questo è oscurantismo bello e buono! Una recente ricerca, realizzata dall’associazione Antigone che ha analizzato la situazione di 60 istituti di detenzione su 190, mette a nudo questo tipo di situazione che è oltre il limite dell’accettazione. Aumentano i suicidi, che nel 2018 sono stati 67. Corrisponde a un aumento del 33% rispetto al 2015, quando a togliersi la vita in cella furono in 39, e dal 2000 il dato è davvero allarmante: mille persone hanno scelto di smettere di vivere. Tra le persone libere la percentuale di chi muore volontariamente è meno dell’1%, mentre tra i detenuti il valore sale al 10,4%. Un altro aspetto critico è rappresentato dalle patologie psichiche contratte dopo la condanna. L’uso di benzodiazepine crea dipendenza, ma sono somministrate come la panacea ai mali della mente, e a causa degli effetti della Legge 81/2014 in materia di ospedali giudiziari psichiatrici, non è possibile trasferire i carcerati presso le R.E.M.S. (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), perché è stato stabilito che il trattamento sanitario per chi si ammala psichicamente debba essere erogato all’interno dell’istituto penitenziario. Superando, di fatto, gli Opg - Ospedali Psichiatrici Giudiziari - dedicati ormai ai casi più gravi, non è stato risolto il problema. Un po’ come accadde dopo la legge Basaglia: chiusero i manicomi lasciando a se stessi i malati. Tipica riforma all’italiana. Ogni recluso ha diritto a 4 minuti a settimana di terapia con lo specialista. Nemmeno il tempo di dirsi “Buongiorno”, e ciò a causa della carenza del personale sanitario messo a disposizione dal sistema sanitario nazionale, e 1 su 4 assume psicofarmaci. Una situazione umanamente insostenibile e che meriterebbe di essere inserita tra le priorità nell’agenda di governo, per non far si che il verbo “perseguitare” diventi l’apostrofo nero tra le parole: “condanna” e “espiazione”. Troppi episodi di violenza nelle carceri di Tommaso Montesano Libero, 13 gennaio 2020 Capece (Sappe): “Siamo tornati indietro di trent’anni”. I detenuti stranieri sono il 32 per cento, ma la maggior parte di aggressioni, danneggiamenti e ferimenti è opera loro. Solo nella prima settimana di gennaio, si sono contati tre episodi: l’aggressione di un agente penitenziario da parte di un detenuto nigeriano a Forlì; le molestie - continue e ripetute - del boss del narcotraffico messicano Ramòn Cristobal Santoyo, detto il “dottor Wagner”, ai danni degli altri reclusi a Regine Coeli; e infine il fatto più grave: altri tre uomini della Polizia penitenziaria sotto attacco, con calci e pugni, a Ravenna. Autore della violenza: un detenuto nigeriano ristretto per rapina, lesioni e resistenza a pubblico ufficiale. Gli uomini in divisa era intervenuti per sedare una rissa tra lui e un altro recluso: hanno avuto la peggio loro, con prognosi che oscillano tra i dieci e i trenta giorni. Il sindacato autonomo dei baschi azzurri, il Sappe, ogni giorno aggiorna la contabilità degli “eventi critici” che si svolgono dietro le sbarre ai danni degli agenti della Polizia penitenziaria. Ormai è un bollettino di guerra. In media ogni ventiquattr’ore, denuncia il segretario generale, Donato Capece, i baschi azzurri devono fare i conti con almeno un paio di feriti: “Siamo tornati indietro di trent’anni. A quando i colleghi si facevano il segno della croce prima di andare al lavoro”. Altro che emergenza superata. Le carceri italiane restano una polveriera, anche perché il numero dei ristretti è tornato a crescere: secondo gli ultimi dati diffusi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), e relativi al 31 dicembre 2019, i detenuti sono tornati a essere più di 60mila (60.769, per la precisione). Alla fine dell’anno erano 59.655. Si tratta del dato più alto - al 31 dicembre - degli ultimi sei anni. E nonostante l’aumento della capienza regolamentare, i posti disponibili sono sempre meno rispetto al fabbisogno. Oggi sono poco più di 50mila, ovvero 10mila in meno rispetto alle necessità. E meno male che il numero dei detenuti stranieri non è cresciuto ancora: adesso sono poco meno di 20mila - 19.888 - leggermente in calo rispetto a dodici mesi fa, quando erano oltre 200 in più. La comunità più numerosa è quella marocchina, poi seguono romeni, albanesi, tunisini e nigeriani. Le proporzioni cambiano quando si passa a parlare delle violenze che si verificano negli istituti. In questo settore i detenuti stranieri - il 32,7% del totale - delinquono più degli italiani. Lo testimoniano i dati contenuti nel rapporto del Dap - aggiornato al primo semestre del 2019 - relativo agli “eventi critici negli istituti penitenziari”. Nelle carceri italiane al 30 giugno scorso si erano verificati 5.205 atti di autolesionismo. Di questi, 2.985 portano la fuma degli stranieri, 2.220 di ristretti italiani. I penitenziari più a rischio sono quelli di Campania, Lombardia ed Emilia Romagna. La musica non cambia per gli episodi di colluttazione, quelli potenzialmente più pericolosi perché in grado di provocare situazioni più gravi: su 4.389 casi, 2.475 sono stati provocati da ristretti di nazionalità non italiana. Anche i ferimenti sono stati per la maggior parte causati dagli stranieri, autori di 320 aggressioni su 569. Sono quattro le Regioni dove l’allarme è più alto: Lombardia, Campania, Sicilia ed Emilia Romagna. I reclusi nati all’estero sono in testa pure nei casi di “danneggiamento dei beni dell’amministrazione” penitenziaria. Nei primi sei mesi del 2019, nel corso delle varie manifestazioni di protesta nelle carceri, sono verificati 1.652 episodi. In 866 casi, l’autore era straniero. Per Capece, quanto sta accadendo nelle carceri è colpa del regime della “vigilanza dinamica” introdotto nel 2013. “Da quando sono state aperte le sezioni, le aggressioni ai danni dei colleghi e i “casi critici” sono aumentati”. Nelle prigioni, in pratica, “dalla mattina alle 7 i detenuti possono uscire dalle celle e passeggiare liberamente. Non c’è più il poliziotto a controllare, la sorveglianza statica è finita”. Un errore, attacca il segretario generale del Sappe: “Un conto è un presidio fisso, altro è lasciare liberi i reclusi di camminare e litigare. Questo sistema va cambiato”. Il timore è che il bilancio delle aggressioni sia addirittura sottostimato. “Molti episodi non arrivano neanche a nostra conoscenza. Del resto il Dipartimento, e i singoli istituti, non hanno alcun interesse affinché questi fatti siano resi pubblici. Perché gettano discredito sul Dipartimento. Noi, tuttavia, chiediamo alle segreterie regionali di comunicare ogni caso”. Capece poi punta l’indice sulle carenze d’organico del personale dei baschi azzurri. Il personale della Polizia penitenziaria, prima della riforma Madia, contava 45mila unità. Il ministro del Pd ha tagliato circa 5mila agenti. Risultato: “Oggi sono circa 36.500 i colleghi che prestano servizio. Ma di questi, solo 15mila sono operativi, attivi nelle sezioni carcerarie. E devono controllare oltre 60mila detenuti”. Il Sappe da tempo propone una soluzione per i detenuti stranieri: “Devono scontare la loro pena nei Paesi d’origine. Oggi un recluso costa in media 160-170 euro al giorno: diamoli ai Paesi di provenienza affinché siano loro a prendersi in carico i ristretti”. Se l’abolizione dei termini di prescrizione allontana i cittadini dall’impegno in politica di Umberto de Gregorio Il Mattino, 13 gennaio 2020 Si è detto di tutto sull’abolizione del termine di prescrizione dopo il primo grado, in vigore dal primo giorno del nuovo anno; sul perché rappresenti la negazione del “diritto” e sia in contrasto con la nostra Costituzione abolire ogni termine alla durata del processo, che potrà quindi essere, in teoria ed in pratica, anche eterno. Siamo fiduciosi che intervenga presto il Parlamento o la Consulta. Ma il tema non è soltanto di puro diritto. Il tema è anche profondamente culturale e politico. Perché oggi è prevalsa la massima affermazione della cultura giustizialista? Perché proprio oggi? E quali effetti avrà questa norma e questa cultura, questa tirannia del sospetto e del principio di colpevolezza, sul tessuto del nostro convivere civile? In fondo la morale che traspare è questa: se sei indagato probabilmente sei colpevole, quindi aspetta e non rompere, anche tutta la vita. Il tema non è banale. Perché non riguarda solo i ladri e gli assassini. Interessa tutti quei cittadini che in buona fede pensano ancora di impegnarsi in politica o nell’amministrazione della cosa pubblica e che con questa norma saranno, ancora una volta, disincentivati a farlo. Chi ha esperienza della cosa pubblica in questo mondo fatto di una giungla di norme e di una giurisprudenza oscillante e disorientante, sa che il rischio di subire un processo è molto alto per chi si cimenta nell’assunzione di responsabilità. Sa anche che avere un giudizio in corso determina conseguenze penalizzanti e talvolta paralizzanti sotto diversi punti di vista, anche per la semplice partecipazione a concorsi e a gare o a incarichi pubblici e privati. Insomma le norme attuali e la cultura dominante, di fatto, assimilano un giudizio in corso a una condanna probabile. La cultura giustizialista aveva già prodotto da tempo questo risultato. Lo sa bene chi ha una carriera alle spalle, chi ha esperienza e cultura. Lo ignora chi invece non ha esperienza e non ha cultura. E da chi è formata oggi, proprio oggi, la classe politica che ha fortissimamente voluto questa norma? Da chi non ha esperienza e cultura. La conseguenza di questa norma - che nasce in un Parlamento dominato dall’ignoranza e dall’inesperienza, supportato da una ideologia catto-comunista che ancora prevale in una parte della sinistra - sarà quella di tenere, ancora più di quanto non avvenga già oggi, lontano dall’impegno civico e politico i cittadini migliori, quelli dotati di cultura ed esperienza, che trovano sbocchi occupazionali anche fuori dal pubblico, a compensi maggiori ed a rischi minori. Il rischio di impegnarsi nel pubblico oggi, con l’abolizione della prescrizione, aumenta enormemente. Per ridurre questo rischio, per incentivare la parte migliore della società civile all’impegno politico e civico, la direzione da prendere sarebbe esattamente l’opposta. Dare tempi certi del processo a chi si ritrova indagato. Oggi invece si materializza il ragionevole dubbio che i processi dureranno molto più di ieri. Lo sostiene Cantone e tantissimi magistrati e professori. Ma a cosa serve il loro parere nel tempo in cui “uno vale uno”? In cui il giudizio della massa di like di Facebook vale come quello di professori illuminati e magistrati impegnati? Nel tempo in cui molti parlamentari sono disoccupati sino al giorno prima di essere eletti? Se si vogliono dare tempi certi alla giustizia, evitando che troppi processi terminino con la prescrizione, occorre preliminarmente porsi la domanda: quante inchieste e processi terminano con un risultato pari al nulla? La soluzione al tema allora appare diversa. Da un lato dotare di più risorse la macchina giustizia. Dall’altro ridurre il numero dei fascicoli aperti e concentrarsi su un numero di processi inferiore, sui casi più significativi e probabili di avere esito positivo, senza rinvii di udienza da un anno ad un altro, ma possibilmente da un mese ad un altro. Ustica più segreta di Teheran di Pino Corrias La Repubblica, 13 gennaio 2020 Dopo 40 anni nessuna verità sul volo Itavia. È la cattiva sorte - e la crudele memoria - ad affiancare due tragedie così distanti tra loro. Ma andrà pure riconosciuto che i generali iraniani - brutti, sporchi, cattivi e con le spalle al muro - hanno impiegato 72 ore a confessare davanti al mondo di avere abbattuto, per “imperdonabile errore”, il Boeing di linea ucraino con i suoi 176 passeggeri a bordo. Mentre noi italiani brava gente, custodi dei diritti umani, della libera informazione, di una opinione pubblica abilitata a tutti gli standard delle democrazie occidentali, stiamo per celebrare i 40 anni della strage di Ustica senza sapere ancora la verità - vera, univoca, accertata - su quello che accadde alle 20,59 del 27 giugno 1980, quando il volo di linea Dc-9 Itavia, sulla rotta Bologna-Palermo, scomparve dal cielo dei radar, per posarsi sulla palude nera dei misteri italiani con i suoi duemila frammenti recuperati in mare, le infinite indagini, gli infiniti depistaggi, le immancabili commissioni di inchiesta, e i suoi 81 passeggeri morti, da allora insepolti. Troppe prove documentali inchiodavano i generali di Teheran, si è detto: impossibile smentire le immagini, i satelliti, i tracciati radar. Di minuto in minuto la verità dei fatti si era mangiata le menzogne pronunciate, nelle prime ore dopo l’esplosione, dai militari iraniani e dal presidente Hassan Rouhani. Tutto vero. Ma è altrettanto vero che anche nella tragedia italiana di quarant’anni fa c’erano prove documentali a disposizione della verità: c’erano i tracciati radar, le registrazioni radio, le registrazioni telefoniche, le identificazioni dei transponder, i registri degli aeroporti militari, gli occhi elettronici di tutti i Servizi segreti addestrati a farsi la guerra nel Mediterraneo. Solo che da noi sono state le menzogne a mangiarsi la verità. E a digerirla con tecniche da manuale della disinformazione. Per prima cosa la strage è stata suddivisa in tante versioni possibili: il missile, la collisione, la bomba interna, persino il “cedimento strutturale”. Ogni ipotesi moltiplicata da testimoni e indizi favorevoli e contrari, dunque equivalenti. Per poi essere complicate da indagini malfatte, omissioni, dimenticanze, lentezze. Il tutto perfezionato dall’implacabile silenzio dei vertici dell’Aeronautica militare. Dalla pavidità dei governi italiani. Dall’omertà che gli alleati militari si sentono onorati di rispettare. Erano gli anni della Guerra fredda. E della massima tensione con la Libia di Gheddafi. Portaerei americane e francesi incrociavano nel Golfo di Napoli e al largo della Corsica. Pattuglie aeree italiane monitoravano i confini. Probabile che il volo Itavia sia finito dentro “uno scenario di guerra aerea”: due Mig libici inseguiti dagli F 104 americani o dai Mirage francesi, che si rifugiano sotto la traccia radar del DC-9 che viaggia lento, velocissimi missili aria-aria che volano a intercettare i mig, l’impatto che fa esplodere l’aereo sbagliato. Da allora: 2 milioni di pagine di indagini al primo (unico e mai concluso) processo, 4 mila testimoni, 300 miliardi di lire spese nell’inchiesta, una scia di 14 morti sospette legate ai misteri della strage, a cominciare dal pilota libico schiantatosi sui monti della Sila e dal radarista Mario Alberto Dettori, primo testimone di quella notte, trovato impiccato a un albero, un suicidio ancora senza spiegazioni. Tutto archiviato nel grande buio del Museo della Memoria di Bologna, dove i tecnici con infinita pazienza hanno ricostruito il 96 per cento del relitto. Che aspetta da 40 anni, in quella sospensione di tempo e di significato, un gesto di coraggio che ancora nessuno, dopo trenta governi che hanno sorvolato la nostra Repubblica, ha avuto il coraggio di compiere. Basterebbe una parola di verità, anzi due: “imperdonabile errore”. Stalking, escluse le condotte precedenti la legge che ha previsto il reato di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2020 Cassazione - Sezione V penale - Sentenza 20 novembre 2019 n. 47038. Integrano il delitto di atti persecutori anche due sole condotte di minacce, molestie o lesioni, pur se commesse in un breve arco di tempo, idonee a costituire la “reiterazione” richiesta dalla norma incriminatrice, non essendo invece necessario che gli atti persecutori si manifestino in una prolungata sequenza temporale. Lo sostiene la Cassazione con la sentenza 20 novembre 2019 n. 47038. Tuttavia, precisa la Corte, è pur sempre necessario che si tratti di atti autonomi, il cui insieme sia stato causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice, mentre, un solo episodio, per quanto grave, non assumerebbe rilievo. Inoltre, con riguardo all’apprezzamento della rilevanza delle condotte reiterate, va comunque tenuto conto che gli atti antecedenti all’entrata in vigore dell’articolo 612-bis del Cp (avvenuta con il decreto legge 23 febbraio 2009 n. 11, convertito dalla legge 23 aprile 2009 n. 38) non possono essere considerati agli effetti della responsabilità del reato di atti persecutori. I precedenti giurisprudenziali - La giurisprudenza è costante nel ritenere che integrano il reato di atti persecutori, che costituisce reato abituale, anche due sole condotte tra quelle descritte dall’articolo 612-bis del Cp, anche laddove reiterate in un arco di tempo molto ristretto, purché si tratti di atti autonomi; mentre, invece, un solo episodio, per quanto grave e da solo anche capace, in linea teorica, di determinare il grave e persistente stato di ansia e di paura o altro degli eventi naturalistici del reato, non è sufficiente a determinare la lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice de qua, potendolo essere, semmai, alla stregua di precetti diversi (di recente, sezione V, 11 febbraio 2019, C. e altro; sezione V, 3 aprile 2017, parte civile C. in proc. P. e altro; sezione V, 3 luglio 2015, M.). In termini, cfr. anche sezione V, 16 dicembre 2015, M., secondo cui il delitto di atti persecutori è reato abituale che differisce dai reati di molestie e di minacce, che pure ne possono rappresentare un elemento costitutivo, per la produzione di un evento di “danno” consistente nell’alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, o, in alternativa, di un evento di “pericolo”, consistente nel fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva: la caratteristica dell’incriminazione è, quindi, la reiterazione (anche solo per due volte) delle condotte, le quali possono essere o no autonomamente perseguibili come reati, potendo infatti rilevare anche comportamenti non specificamente oggetto di norme incriminatrici di parte speciale - quali appostamenti, pedinamenti, ecc. - purché l’abitualità - e, quindi, la ripetizione - degli stessi si traduca nella percezione di atti persecutori idonei a cagionare uno degli eventi previsti dalla norma incriminatrice. Immigrati e stranieri: le condotte incriminate nel reato di clandestinità Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2020 Immigrazione e stranieri - Condizione di clandestino - Rilevanza penale della condotta - Ingresso illecito - Permanenza illecita - Bene giuridico tutelato. La clandestinità è sanzionata dall’art. 10-bis T.U. immigrazione quale conseguenza di una condotta illecita e non già per effetto di una condizione preesistente ed estranea al comportamento dello straniero. Ne consegue che la rilevanza penale di tale condotta deriva dalla lesione del bene giuridico individuabile nell’interesse dello Stato al controllo e alla gestione dei flussi migratori che consiste sia nell’impedire l’ingresso illegale sia nel vietare la permanenza illegale sul territorio qualunque sia stata la modalità di ingresso. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 13 dicembre 2019 n. 50461. Sicurezza pubblica - Stranieri - In genere - Contravvenzione - Permanenza illegale nel territorio dello Stato - Rilievo delle modalità d’ingresso - Esclusione - Fattispecie. La contravvenzione prevista dall’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 tutela l’interesse statale al controllo e alla gestione dei flussi migratori secondo un determinato assetto normativo e, a tal fine, incrimina sia l’ingresso illegale nel territorio dello Stato, sia la permanenza illegale in detto territorio e tale ultima condotta prescinde dalle modalità d’ingresso nello Stato italiano. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza di assoluzione dell’imputato nato in Italia da genitori tunisini). • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 18 agosto 2017 n. 39211. Sicurezza pubblica - Stranieri - Contravvenzione di cui all’art. 10-bis, d.lgs. n. 286 del 1998 - Condotte punibili - Individuazione. La contravvenzione prevista dall’art. 10-bis del D.Lgs. n. 286 del 1998 non punisce la mera condizione di straniero irregolare, ma incrimina due specifici comportamenti, lesivi dell’interesse statale al controllo e alla gestione dei flussi migratori secondo un determinato assetto normativo e cioè, il “fare ingresso nel territorio dello Stato” (condotta attiva istantanea) e il “trattenersi” nel territorio medesimo (condotta omissiva permanente) in violazione del predetto. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 4 dicembre 2013 n. 44453. Sicurezza pubblica - Stranieri - Contravvenzione - Ingresso o soggiorno illegale - Natura permanente - Sussistenza. La contravvenzione prevista dall’art. 10-bis del D.Lgs. n. 286 del 1998, che incrimina la condotta dello straniero che si trattiene illegalmente nel territorio dello Stato, ha natura permanente. (Fattispecie in cui l’ingresso illegale era avvenuto prima della entrata in vigore dell’art. 10 bis della legge n. 286 del 1998, ma la condotta di permanenza era proseguita anche dopo l’entrata in vigore della norma indicata). • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 24 ottobre 2013 n. 43472. Sicurezza pubblica - Stranieri - Reati - Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato - Contrasto con la direttiva europea sui rimpatri - Esclusione - Ragioni. La contravvenzione prevista dall’art. 10 bis, D.Lgs. n. 286 del 1998, che punisce con una sanzione pecuniaria l’ingresso e il soggiorno illegale nel territorio dello Stato, non viola la direttiva della Commissione Cee 16 dicembre 2008 n. 115 sui rimpatri, in quanto non è accompagnata da misure di rimpatrio forzato incompatibili con la direttiva indicata. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 26 settembre 2013 n. 39998. Sicurezza pubblica - Stranieri - Permanenza nel territorio dello stato dopo l’ingresso illegale - Configurabilità della contravvenzione. Integra la fattispecie contravvenzionale prevista dall’art. 10-bis d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, l’ulteriore protrazione della permanenza dello straniero nel territorio dello Stato dopo la consumazione del reato istantaneo di ingresso illegale, non occorrendo attendere, in tal caso, la scadenza del termine per la richiesta del permesso di soggiorno, previsto a favore di chi faccia legalmente ingresso nel territorio dello Stato. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 18 ottobre 2010 n. 37051. Campania. Roberti: “No discriminazione sanitaria tra i minori detenuti e quelli affidati” di Maria Lombardi medianews24.it, 13 gennaio 2020 Samuele Ciambriello, Garante campano per i detenuti, assieme a molte organizzazioni sociali che collaborano con la giustizia minorile, ha lanciato nei giorni scorsi un appello ai vertici della Regione per rimediare a quella che è una palese ingiustizia: mentre agli 80 adolescenti e giovani adulti, in custodia cautelare nelle carceri minorili di Nisida e Airola, vengono assicurate tutte le prestazioni sanitarie necessarie in maniera gratuita, i 150 affidati alle comunità si vedono riconoscere dai presidi sanitari territoriali soltanto gli esami di primo ingresso e quelli tossicologici con esclusione delle visite specialistiche, il cui onere economico grava sulle strutture di accoglienza e sulle famiglie. Sulla vicenda interviene Franco Roberti, ex Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, oggi parlamentare europeo in quota Pd: “I minori dell’area penale collocati in comunità devono poter usufruire dell’accesso gratuito al servizio sanitario pubblico così come viene garantito ai loro coetanei ospiti degli istituti penali minorili di Nisida ed Airola”. “In questo modo - prosegue l’europarlamentare - si viene a determinare una disparità di trattamento assolutamente intollerabile, in quanto investe il fondamentale diritto alla salute di soggetti che vivono in una situazione già difficile di limitazione della propria libertà personale”. “Auspico - conclude il magistrato - che i rappresentanti delle istituzioni coinvolte raccolgano il grido di aiuto che arriva da più parti. Un intervento del genere, peraltro, sarebbe, in perfetta sintonia con le finalità rieducative e di recupero sancite dalla Costituzione. Discriminare sulle cure non aiuta a creare quel clima di speranza che è presupposto indispensabile per un ritorno dei giovani in questione alla vita normale”. Napoli. Detenuti al lavoro in Procura, il Provveditore: “Giusto reinserire chi ha sbagliato” di Claudia Procentese fanpage.it, 13 gennaio 2020 La firma del protocollo tra il Provveditorato campano dell’amministrazione penitenziaria e la Procura di Napoli, grazie al quale 15 detenuti di Poggioreale e Secondigliano lavoreranno negli uffici giudiziari, ha alzato un polverone di critiche. Sotto accusa la mancata competenza dei reclusi e la misura tampone che non risolve la carenza di personale Ma il provveditore campano dell’amministrazione penitenziaria Antonio Fullone ribatte: “I detenuti non vanno a occupare posti nell’organico e quindi a sottrarre lavoro. Sono persone che hanno sbagliato e, invece di stare a oziare in cella, fanno riparazione gratuita del reato commesso”. E spiega: “Svolgeranno lavori essenziali e di basso profilo tecnico. Esclusi i condannati per reati ostativi, di criminalità organizzata e di allarme sociale”. Ha destato polemiche il protocollo d’intesa tra la Procura partenopea e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria campana che recluterà detenuti come ausiliari a causa della carenza d’organico negli uffici giudiziari. Al centro del dibattito c’è la critica mossa da comitati e sindacati del settore giustizia secondo i quali le misure emergenziali da un alto tamponano e non risolvono i deficit cronici, dall’altro sviliscono la professionalità degli operatori giudiziari. A preoccupare è anche la questione sicurezza riguardante il delicato compito di trasportare fascicoli processuali cartacei. Con Fanpage.it il provveditore dell’amministrazione penitenziaria campana Antonio Fullone spiega il protocollo e risponde alle critiche. Dottor Fullone, in cosa consiste questo protocollo? È un accordo siglato per la promozione di progetti di lavoro di pubblica utilità. Trova il suo riferimento normativo nell’articolo 20 ter dell’ordinamento penitenziario, rinnovato dalle novità introdotte nel 2018 e che stimola l’amministrazione penitenziaria a sottoscrivere una serie di atti, di intese con enti statali, regioni, province, aziende sanitarie locali, organizzazioni di assistenza sociale, affinché le persone ristrette possano prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito. Tutto ciò rientra nel concetto di riparazione, di restituzione sociale. Cioè? Il reato è la violazione delle regole di un patto sociale, la condanna deve essere un’occasione di recupero e non semplicemente punitiva. Il concetto di pena riparativo ricuce lo strappo che il singolo ha causato alla collettività. Il protocollo contribuisce a una riparazione in questo senso. Non si tratta in Campania del primo protocollo di pubblica utilità e in Italia esistono altre esperienze di questo tipo negli uffici giudiziari, ma è una novità per la Procura di Napoli. Da chi è partita l’iniziativa? Partiamo dalla premessa che la valorizzazione della finalità rieducativa della pena è anche nelle linee guida del ministro della Giustizia per il 2020. Il procuratore capo Giovanni Melillo mi ha chiesto se si poteva ipotizzare questo tipo di attività per l’ufficio della Procura, coerentemente con l’idea di reinserimento e riparazione sociale. Io ho dato piena disponibilità e insieme abbiamo costruito e sottoscritto il protocollo. Quanti detenuti verranno coinvolti nel progetto e per quanto tempo? La convenzione ha una durata di due anni e prevede l’istituzione di una cabina di regia Procura-Provveditorato che seguirà l’evolversi del progetto e ne monitorerà l’andamento. Al momento sono previsti non più di 15 detenuti, cioè un numero massimo stabilito in base alle esigenze funzionali della Procura perché ovviamente i ristretti coinvolti non saranno lasciati soli, ma verranno coordinati da personale della Procura che ne guiderà le attività di ausiliari. Comunque cominceremo in via sperimentale con 4-5 unità, abbiamo necessità di partire con un numero più ridotto di persone che ci consenta una migliore gestione del programma. Come avverranno le selezioni? A regolamentare l’iter ci pensa l’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, cioè sul lavoro all’esterno del carcere. È un po’ come la semilibertà, il detenuto esce la mattina e rientra il pomeriggio o alla fine delle attività nelle quali è impegnato. La selezione è ad opera esclusiva degli istituti in base al percorso trattamentale. Per adesso abbiamo preso in considerazione solo il carcere di Poggioreale e quello di Secondigliano, per una questione di prossimità all’ufficio giudiziario. Gli idonei saranno scelti tra i condannati a titolo definitivo che abbiano fine pena piuttosto brevi, intorno ai due anni, e che abbiano già fatto un percorso interno di una certa consistenza, quindi sperimentato i permessi premio e dato prova di affidabilità sul campo. Insomma il lavoro fuori da carcere sarà una misura ultima, prima della libertà, e perciò funzionale alla risocializzazione della persona ristretta. Saranno scartati, ovviamente, i reclusi per reati ostativi, di criminalità organizzata e di allarme sociale. Ha detto che i detenuti lavoreranno a titolo volontario e gratuito... Sì, la partecipazione è su base volontaria ed è previsto da parte dell’ufficio del Garante regionale dei detenuti un rimborso spese per assicurazione e buoni pasto. Il protocollo ha provocato pesanti polemiche secondo le quali si continua a fronteggiare la carenza di personale giudiziario con interventi emergenziali e temporanei, come i progetti di lavoro di pubblica utilità per i detenuti, non ricorrendo a nuove assunzioni e svilendo la professionalità degli operatori giudiziari. Lei come risponde? È vero nel protocollo c’è il riferimento della carenza di organico in Procura, ma proprio per sottolineare l’utilità della collaborazione dei detenuti. Non comprendo la presa di posizione di comitati e organizzazioni sindacali. L’impostazione della polemica è errata, perché l’iniziativa viene vista come una sorta di concorrenza al dipendente pubblico. Ma questi detenuti non vanno ad occupare posti nell’organico e quindi a sottrarre lavoro. È scritto chiaramente in un passo del protocollo: dall’attività prestata non potrà derivare la costituzione di alcun rapporto di lavoro né di natura subordinata né di carattere autonomo con l’amministrazione giustizia. Si è parlato di due pesi e due misure, cioè da una parte si affidano fascicoli a detenuti, dall’altra un lavoratore giudiziario non può avere precedenti penali e se indagato viene sospeso dal servizio... Ripeto, non c’è concorrenza con il dipendente pubblico, quindi anche il discorso dei requisiti di accesso viene a cadere perché sarebbero rivendicabili laddove si dovesse sostenere l’equiparazione. Non è questa la logica. I detenuti andranno ad occupare un settore privo di unità lavorative e saranno utili temporaneamente allo Stato. Si tratta di una detenzione utile. Che significa detenzione utile? Chi sta espiando la pena presterà un’attività a favore della collettività acquisendo responsabilità e potrà così avvicinarsi al mondo libero e alla sue regole. Sono persone che hanno sbagliato, invece di stare ad oziare in cella, fanno riparazione gratuita. Ma questa presenza non andrà a inficiare i già provati equilibri interni di uffici che negli passati, per colmare i vuoti, hanno subìto l’ingresso di personale in esubero da altri enti come le Province e la Croce Rossa? La carenza d’organico negli uffici giudiziari non sparisce, c’era prima, c’è ora, ci sarà anche dopo finita la collaborazione di questi detenuti che, quindi, non andrà a pregiudicare le procedure di ingaggio del personale. Le carenze nell’amministrazione pubblica vengono sanate con i concorsi che hanno i loro tempi. Nel frattempo, invece di rendere il servizio più inefficiente, invece di gravare sugli attuali dipendenti chiedendo loro di svolgere mansioni non coerenti con il proprio profilo professionale, ci si può avvalere dell’ausilio di manodopera esterna, svolgendo contemporaneamente un’azione di recupero sociale. Chi contesta non mette in dubbio la legittimità e la validità sociale del protocollo, ma rivendica fortemente le proprie competenze: il detenuto è qualificato per fare l’ausiliario? Se non lo è, chi lo formerà, sarà un aggravio di lavoro sulle spalle dei lavoratori giudiziari? Il protocollo prevede espressamente lo svolgimento di “lavori essenziali e di basso profilo tecnico”. Quindi ci sarà coordinamento, non formazione. Le critiche riguardano anche il problema sicurezza. Può un detenuto essere addetto al delicato compito di trasportare fascicoli processuali cartacei? Ho già spiegato le modalità di selezione dei detenuti. Mi sembra superfluo rispondere. È chiaro che la Procura saprà quale tipo di fascicoli è da affidare in questo caso alla movimentazione. Soprattutto questa Procura non si esporrà di certo ad una possibilità seppur minima di rischio. Pontremoli (Ms). Dall’istituto penale minorile femminile un ponte per la vita di Natalino Benacci La Nazione, 13 gennaio 2020 Il ministro per la Famiglia Bonetti ha visitato il carcere di Pontremoli: un luogo dove le donne possono conquistare la libertà. Ci sono famiglie che vivono il disagio di una pena carceraria tra sanzione e recupero a cui deve sottoporsi un figlio per episodi di devianza minorile. Spesso sono persone che hanno bisogno di sentire vicina la presenza dello Stato e delle comunità. Anche questo aspetto fa parte delle politiche familiari. Ecco perché il ministro per le Pari Opportunità Elena Bonetti a Pontremoli per il convegno su “Il ruolo della famiglia nella società del terzo millennio”, ha voluto visitare l’Istituto penale minorile. Una struttura unica in ltalia e in Europa, inaugurata nel 2010, nella vecchia sede del carcere, dove sono ospitate ragazze in espiazione di pena per la formazione al reinserimento esterno. Qui grazie anche al prezioso contributo fornito dai volontari e da tutto il personale che si impegnano ogni giorno con dedizione e professionalità le giovani donne possono cambiare e conquistare la libertà attraverso il lavoro e un percorso rieducativo. Ad accompagnare il ministro, il deputato Cosimo Maria Ferri e il sindaco Lucia Baracchini. All’interno della struttura la Bonetti ha stretto le mani alle ragazze e ha rivolto qualche domanda sulla loro quotidianità e sulle attività svolte. Ferri, che si è sempre occupato dell’istituto, ha spiegato tutte le iniziative che nel corso degli anni sono state organizzate per rendere efficace l’accoglienza. Numerosi i progetti per allargare le opportunità di formazione, fra tutti quello legato al teatro considerato non solo un’azione ricreativa, ma mezzo di formazione che si svolge attraverso il coinvolgimento del mondo dell’associazionismo e delle scuole operanti nel territorio. Sono stati già sei gli spettacoli prodotti dal regista Paolo Billi del Teatro del Pratello di Bologna che ha diretto in questi anni la sperimentazione con la collaborazione del Centro Giovanile Monsignor Sismondo, del Comune di Pontremoli, delle scuole e di altre associazioni di volontariato. “L’Ipm di Pontremoli - ha detto il sindaco Baracchini - è un esempio da seguire anche per altre strutture in modo da favorire la diffusione di spazi di condivisione e aree di trattamento fondamentali per la rieducazione”. Ferri ha ringraziato il ministro Bonetti per la visita : “ Questa è una realtà importante nel circuito penitenziario, anche qui il tema della famiglia è centrale perché si interseca con la giustizia e i ministeri competenti possono lavorare insieme per migliorare le condizioni dell’Istituto”. Il capo del dicastero ha espresso soddisfazione per l’opportunità: “È stata un’occasione straordinaria e una positiva esperienza visitare questo istituto e incontrare le ragazze che qui ora vivono facendo un percorso di cambiamento in una piccola comunità di vita per rinnovare il loro futuro consentendo di riflettere sulle condizioni che le hanno portate qui. Questa è una evidente eccellenza della capacità di sapersi rivolgere alle donne che spesso sono soggetti dimenticati e lasciati soli nella fragilità delle loro esperienze di vita, quando hanno bisogno di attenzione nella crescita. Sensibilità, linguaggi e dinamiche relazionali che vanno curati e mi sembra che questi aspetti qui vengano sottolineati. Oggi c’è un tema di fugacità educativa che porta a colpire in particolare le giovani generazioni e lo Stato deve far sentire la sua voce. Sto parlando del volto comunitario del nostro essere società. Dobbiamo saper accompagnare le giovani generazioni in un compito di prevenzione e di rinforzo dei legami sociali come la famiglia e le istituzioni. Un errore può essere accolto non condannandolo in modo definitivo e dicendo che esiste un percorso di speranza e di reinserimento”. Milano. Eliana Gagliardoni e il “Mondo dentro”, tra clausura e carcere di Carlo Franza Il Giornale, 13 gennaio 2020 La mostra fotografica all’Antico Oratorio della Passione della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano. Un viaggio fotografico per documentare due mondi apparentemente lontani fra loro, ma per tanti aspetti invece molto simili e complementari: quello delle monache di clausura e quello delle detenute, il convento e il carcere. Il tutto senza alcuna morbosa curiosità e senza pregiudizi, ma anzi con grande sensibilità e attenzione. Monasteri e carceri sono dunque il focus della mostra “Un mondo dentro - Clausura e carcere”, a cura di Eliana Gagliardoni, inaugurata giovedì 9 gennaio, alle ore 13.00, nella Sala dell’Antico Oratorio della Passione della Basilica di Sant’Ambrogio, a Milano. Per la realizzazione di questo progetto, che ha richiesto oltre quattro mesi di lavoro, Eliana Gagliardoni ha fotografato le monache di clausura di tre monasteri - due dell’ordine delle Benedettine e uno dell’ordine delle Carmelitane - per la precisione il Monastero di San Benedetto di Via Bellotti, a Milano, la comunità monastica delle Benedettine dell’abbazia di Viboldone, frazione di San Giuliano Milanese, e il Monastero di Santa Maria del Monte Carmelo di Concenedo, in provincia di Lecco. Pochissimi fotografi hanno avuto il permesso di entrare in un monastero per fotografare la clausura e, in questo senso, Eliana Gagliardoni è stata forse l’unica ad aver ottenuto questo privilegio grazie alla speciale concessione fattale dal Vicario Episcopale della Diocesi di Milano. Dopo aver ricevuto l’autorizzazione da parte del Ministero di Grazia e Giustizia di Roma, la Gagliardoni è entrata infine anche nel carcere di Bollate, all’interno del quale ha ritratto donne detenute. Dall’accostamento inedito tra queste due realtà nasce quindi l’idea di dar vita a “Un mondo ‘dentro’”. “Al di là di alte mura e finestre con sbarre che lo sguardo non può oltrepassare - spiega Eliana Gagliardoni - esistono vite, realtà nascoste. Sono vite che incuriosiscono, talvolta insospettiscono o generano opinioni pregiudizievoli. Quante persone, come me, si sono chieste quale sia il senso di una vita da recluse? Monache di clausura e donne detenute: l’accostamento potrebbe sembrare una forzatura, ma la possibilità di una crescita interiore, sebbene parta e progredisca in contesti diversissimi e contrapposti, si rivela una grande occasione per entrambe. Si tratta di due mondi apparentemente distinti e lontani, ma invisibilmente connessi da un potente strumento: la Preghiera. Le monache di clausura pregano, non solo per sé stesse, ma anche per chi chiede un aiuto e, in tal senso, pregano soprattutto per chi vive un regime detentivo, mantenendo spesso relazioni epistolari con uomini e donne recluse”. A Eliana Gagliardoni è stata concessa l’opportunità di conoscere tutte queste donne, di varcare le porte dei loro mondi” e di condividere per qualche ora la loro esperienza. Attraverso questo progetto, reso possibile grazie al prezioso contributo, al supporto e alla collaborazione della Caritas Ambrosiana e di Don Marco Recalcati, cappellano del carcere milanese di San Vittore, la fotografa ha potuto conoscere persone di grande levatura spirituale e persone che hanno sbagliato e stanno consapevolmente pagando per i propri errori. “Le une e le altre - conclude - mi hanno accolto con gentilezza, benevolenza e amicizia e a tutte loro, indistintamente, riservo la mia gratitudine”. Per tutta la durata della mostra fotografica saranno in vendita sia le opere esposte sia dei cofanetti contenenti le fotografie più significative, intervallate da veline trasparenti con frasi di alto valore spirituale scritte dalle monache di clausura, che hanno partecipato e dato il loro personalissimo contributo alla realizzazione del progetto. Non manca un risvolto solidale. Al termine dell’esposizione, infatti, il ricavato di tale vendita verrà interamente devoluto a Don Marco Recalcati in favore di detenuti della casa circondariale di San Vittore particolarmente bisognosi e delle loro famiglie che, a causa della reclusione del proprio congiunto, versano in condizioni di grave disagio e difficoltà. Il ponte fragile del diritto di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 13 gennaio 2020 Il richiamo di Glauco Giostra nella “Prima lezione sulla giustizia penale” (Laterza). Attenti a mostrare insofferenza verso le garanzie processuali. Non sono formalismi, ma i pilastri su cui si fonda la libertà. Tra tante ludopatie che affliggono le persone, ce n’è al contrario una - verrebbe quasi da pensare a leggere la “Prima lezione sulla giustizia penale” del professor Glauco Giostra - di cui ciascun cittadino sarebbe bene soffrisse, e dalla quale invece spesso neppure si avvede di essere purtroppo immune: la consapevolezza di quale “azzardo necessario”, benché insopprimibile nella fallibilità e imperfetto nelle regole e costoso nel metodo del contraddittorio, sia l’affidare a un soggetto “terzo” e indipendente (il giudice) quell’itinerario conoscitivo chiamato processo, che dal fatto in discussione consente di passare alla decisione sulla sua esistenza e sul rilievo penale, e così di approdare a una conclusione che la comunità sia disposta socialmente ad accettare come vera. Una scommessa non soltanto eticamente, ma pure politicamente irrinunciabile, rimarca il professore di Procedura penale alla Sapienza di Roma, perché le norme che governano l’amministrazione della giustizia sono “argini contro la ricorrente tentazione del potere di denunciarne le indiscutibili carenze per sostituirvi il proprio arbitrio, invocando una male intesa investitura del popolo”: tanto più in “una china quanto mai democraticamente scivolosa per uno Stivale come il nostro, ciclicamente pronto a calzare il piede dell’uomo della Provvidenza”. Viste da questa angolazione, le regole processuali, e in particolare tutte quelle invalidità processuali (nullità, inutilizzabilità, inammissibilità) troppo spesso liquidate come cavilli da azzeccagarbugli, recuperano il proprio significato di reazione dell’ordinamento agli scostamenti dall’itinerario cognitivo adottato: sono “il guardrail metodologico” entro il quale il giudice deve guidare il volante del proprio statuto epistemologico nel cercare e valutare le prove, sono il bisturi che asporta la parte malata prima che contagi l’intero organismo processuale. E la formazione della prova nel contraddittorio tra le parti - compreso il fatto che il risultato della prova possa risentire di chi e di come lo “estragga”, e che il metodo impiegato per “partorire” la verità debba badare a neutralizzare gli irreversibili danni da “forcipe” - non è una perdita di tempo o persino un ostacolo sulla strada della verità, come spesso viene spacciata, ma è il miglior strumento per accertarla, certo imperfetto ma pur sempre il meno imperfetto per ridurre il più possibile lo scarto tra verità giudiziale e verità storica. Perché l’applicazione della legge - si sforza di far comprendere l’ex membro laico del Csm dal 2010 al 2014 - non è un’operazione meccanica, ma nemmeno una pittura libera su fondo intonso: da un lato il giudice “non solo può, ma deve” cercare all’interno delle interpretazioni sintatticamente possibili della norma quella più in linea con la Costituzione e con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma dall’altro lato “ogni volta che esonda dagli argini dell’alveo semantico tracciato dalla legge compie scelte politiche, prestando il fianco alla corrosiva opera di studiato discredito che sempre precede l’eclissi dello Stato di diritto”. Molte delle 200 pagine edite da Laterza - coltivando la metafora del processo come stretto “ponte tibetano malfermo, fragile, dal costrutto contorto, insopportabilmente lungo ma da tenersi caro”, e delle sue “funi portanti” (quali l’inviolabilità di libertà personale e domicilio e riservatezza delle comunicazioni, il diritto di difesa, l’obbligatorietà dell’azione penale, il giudice naturale precostituito e soggetto soltanto alla legge, la presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva, la dipendenza della polizia giudiziaria dal pm) - si propongono di mostrare quanto l’ordinamento curi delicati bilanciamenti quando la natura dello strumento investigativo o la fonte delle informazioni entrino in attrito con diritti fondamentali della persona. Tanto che non è un caso “la naturale ripulsa dei sistemi assolutistici” verso modelli processuali che ammettano un dialettico confronto tra Autorità (inquirente) e Individuo (inquisito), e nei quali anzi “il principio di Autorità possa risultare, almeno in via tendenziale, recessivo nei confronti dei diritti fondamentali dell’Individuo”. E proprio perché il convinto affidamento dei cittadini nell’amministrazione della giustizia svolge una importantissima funzione di coesione sociale, disinnescando il ricorso alla vendetta privata e alla corsa alla legge del più forte, Giostra (che fu tra i padri del codice di procedura penale del 1989) si dedica a trasmettere al lettore il proprio autentico terrore per la crisi di credibilità del “collante” sociale della giurisdizione. Pesa la sfasatura di tempi e di contenuti che la collettività registra tra le proprie aspettative e la risposta giurisdizionale, e che “la induce a coltivare la fallace e pericolosa idea di poter meglio conoscere la verità prescindendo dal troppo impegnativo e troppo lungo percorso imposto dal “ponte tibetano” del processo. Ma Giostra si spende molto anche per additare quanto esasperi questa sfiducia nella giustizia la postura sensazionalista e approssimativa con la quale larga parte dell’informazione giudiziaria, ridotta a passivo megafono di interessi di bottega, funziona da specchio che non si limita a riflettere le vicende processuali raccontate, ma spesso ne rimanda un’immagine distorta e distorcente le esigenze dell’informazione, della giustizia e della riservatezza individuale, le quali alla disamina delle norme e delle prassi appaiono a Giostra “mal tutelate le prime, iper-protette le seconde, sostanzialmente ignorate le ultime”. Con il risultato non soltanto che la sentenza che si discosta dal verdetto mediatico viene guardata con diffidenza, come discutibile frutto di formalismi e regole che hanno finito per allontanare dalla verità”, ma anche e soprattutto che l’irrisolto rapporto tra racconto del procedimento penale e tutela della riservatezza “incide in modo rilevante sulla qualità democratica e civile di un Paese”. Dimitrj, Mohamed, Ivan, Georgj, Fausto: storie di vita che assomigliano a tronchi bruciati di Eraldo Affinati Il Riformista, 13 gennaio 2020 Un esercito di ragazzi che serve pasti caldi, preparati dalle famiglie, ai senzatetto e agli immigrati ospitandoli a scuola. Nelle stesse aule dove durante l’anno si spiegano le formule chimiche e si traducono le versioni di latino, arrivano pentole, tovaglioli e bicchieri di carta. Non è una favoletta edificante per bambini buoni, ma quello che succede ormai da molti anni a Roma, durante il periodo natalizio, presso la succursale del liceo scientifico Isacco Newton, in via dell’Olmata 4, accanto alla storica Basilica di Santa Maggiore, nel quartiere dell’Esquilino. È in posti come questo che misuriamo lo scarto lancinante fra le istituzioni e la realtà, le idee teoriche e la vita vera, i linguaggi spesso astrusi e autoreferenziali della politica e ciò che abbiamo sotto gli occhi e non vogliamo vedere. Già dalla mattina la gente s’accalca di fronte al portone d’entrata. Stiamo parlando di un centinaio di persone che sono abituate a dormire là dove capita, alcuni ospiti di centri d’accoglienza, altri dentro baracche di fortuna. L’afflusso viene regolato dagli studenti, responsabili dell’organizzazione. Per molti di loro questa esperienza rappresenta una tappa significativa in quella che un tempo definivamo l’educazione sentimentale. Certo, ci sono le professoresse e le famiglie che preparano i cibi da distribuire. Ma se non ci fossero gli adolescenti disposti a farsi in quattro, questo evento sarebbe impossibile soltanto pensarlo. La dirigente scolastica, Cristina Costarelli, in piedi davanti al finestrone del terzo piano, accanto alla tavolata con le pietanze succulente che stanno per venir portate giù ai commensali schierati, mi confessa che a volte le capita di chiudere gli occhi affidandosi alla Provvidenza nella speranza che non succeda niente di spiacevole. La cosa sorprendente, ma soltanto per chi concepisce la scuola secondo criteri obsoleti, è vedere fra i più attivi degli studenti quelli che di norma in classe sono distratti e svogliati. Qui, al contrario, negli stessi ambienti che di solito li fanno sbadigliare, scoprono risorse forse a loro stessi ignote. Anch’io, nel mio piccolo, ho contribuito alla festa perché mi sono portato dietro una mamma bengalese coi suoi due figli che frequentano le elementari, un giovane siriano appena arrivato in Italia grazie ai corridoi umanitari della comunità di Sant’Egidio e un senegalese profugo politico. Ho ancora davanti agli occhi tutta la scena. Ci siamo seduti uno accanto all’altro: Dimitrj, rumeno che abita in una catapecchia all’Anagnina; Mohamed, tunisino da tanti anni nel nostro Paese che s’arrabbatta come operaio tuttofare; Ivan, moldavo triste e silenzioso; Georgj, ucraino dal sorriso malinconico e Fausto, d’origine pugliese, senza arte né parte. Le loro vite assomigliano a tronchi bruciati, ancora incandescenti. Abbiamo parlato con una frontalità, una franchezza, una disinvoltura, difficili da trovare altrove. Bastano pochi minuti per superare timidezze e imbarazzi e subito vengono alla luce storie di famiglie distrutte, obiettivi falliti, progetti andati a monte, malattie e povertà mischiate una all’altra come gemelli siamesi. A intervallare le nostre confidenze ci sono i sedicenni che fanno presto a portare i piatti vuoti sostituendoli con altri pieni. Non mancano le battute, le barzellette, gli aneddoti scherzosi. Dimitrj avrà già mangiato due lasagne e quattro cotolette e aspetta fiducioso il dolce sorseggiando l’aranciata: sta facendo la scorta non sapendo di cosa potrà disporre nei prossimi giorni. Molti di questi vagabondi, barboni, homeless, come li vogliamo chiamare, appena fuori di qui, si mettono agli angoli delle strade simili a fantasmi: non chiedono neppure l’elemosina, si limitano a sonnecchiare dentro la giacca a vento. La gente che passa finge di non vederli. Nessuno parla con loro. Adesso invece sembrano membri di famiglia coi quali scambiare quattro chiacchiere. Ma appena si alzano e prendono il carrello degli stracci lasciato da parte, d’improvviso li riconosci. Fai appena in tempo a salutarli e non li vedi più. Migranti, bocciato l’asilo scattano i ricorsi infiniti di Bianca Luca Mazzei e Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2020 Tempi di definizione dei tribunali sempre più lunghi e numeri in crescita per i ricorsi dei migranti contro i “no” alle richieste di asilo. L’obiettivo di quattro mesi fissato dal decreto legge 13, in vigore dall’agosto 2017 e voluto dall’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti, per sveltire le procedure, è rimasto sulla carta. Di più: in base ai dati forniti al Sole 24 Ore del Lunedì dalle sezioni specializzate in materia di immigrazione istituite proprio dal decreto del 2017 emerge che il periodo necessario per definire i ricorsi invece di ridursi si è allungato, raggiungendo picchi di 35 mesi a Catania e di 24 a Brescia e Venezia. Due le ragioni della dilatazione dei tempi: da una parte, il giro di vite sulle richieste di asilo effettuato dal primo decreto sicurezza (Dl 113/2018), che ha cancellato il permesso di soggiorno per motivi umanitari; dall’altra, l’assenza di risorse, visto che la riforma è stata fatta senza aumentare gli organici. Una crescita che pesa sul lavoro dei tribunali e che sembra non in linea rispetto al forte calo degli arrivi negli ultimi due anni. Ma nei fatti la diminuzione degli sbarchi non ha ancora avuto effetti nelle aule giudiziarie, poiché i ricorsi in tribunale riguardano le bocciature delle domande di asilo da parte delle commissioni territoriali del ministero dell’Interno, alle quali spetta il primo esame delle richieste. La riforma del 2017 ha giocato la carta delle sezioni specializzate - istituite nei 26 tribunali che si trovano nelle città sede anche di Corte d’appello - per tentare di razionalizzare e velocizzare l’esame dei ricorsi dei migranti contro i dinieghi alla protezione internazionale. Ha inoltre dato ai tribunali la possibilità di saltare l’udienza e basare la decisione sulla videoregistrazione dell’audizione del migrante in commissione. La riforma ha anche previsto che i ricorsi fossero decisi da un collegio di tre giudici (mentre in precedenza si applicava il rito monocratico) entro quattro mesi (prima erano sei). Ma “il passaggio alla decisione collegiale ha determinato un allungamento dei tempi, anche perché non ne possono più far parte i giudici onorari - dice il presidente del Tribunale di Bologna, Francesco Caruso. Sarebbe invece necessario poterli inserire”. “La possibilità di utilizzare le videoregistrazioni non ha portato grandi benefici - continua - perché i giudici ripetono sempre le audizioni. Senza potenti iniezioni di organico rischiamo che nel 2022 questi procedimenti diventino ultra-triennali. A Bologna, se permane l’attuale divaricazione fra definizioni e iscrizioni, la durata potrebbe arrivare a 1.589 giorni”. Per snellire l’iter, inoltre, la riforma ha abolito la possibilità di ricorrere in Corte d’appello: le decisioni dei tribunali possono essere impugnate in Cassazione. Il risultato è stato però che anche la Suprema corte è stata inondata dai ricorsi: i fascicoli in materia di immigrazione sono passati da 374 nel 2016 a 6.026 nel 2018; e nel primo semestre del 2019 sono già 4.929. A più di due anni dal debutto, sembra quindi che l’obiettivo di sveltire le procedure non sia stato centrato anche perché le nuove sezioni sono state create contando sui magistrati e personale amministrativo già disponibile. Non solo dai tribunali arriva chiara l’indicazione che rispettare il termine di quattro mesi sia “impossibile”. Ma in molti casi i tempi di definizione sono addirittura aumentati rispetto a quelli precedenti. A pesare, in alcune sedi, è anche l’arretrato. Come a Catania, dove “sull’allungamento dei tempi sta influendo molto lo smaltimento dei fascicoli iscritti prima dell’entrata in vigore della riforma”, come spiega il presidente di sezione Massimo Escher. Nonostante il drastico calo degli arrivi dei migranti degli ultimi due anni (da 119.369 nel 2017 si è scesi a 23.370 nel 2018 e a 11.471 nel 2019), i ricorsi contro i dinieghi delle richieste di asilo sono in aumento. Se proiettiamo i dati del primo semestre (33. 232 nuove iscrizioni) su tutto i12019 si arriva a 66.464 procedimenti, con un incremento del 38% rispetto al 2018 (48.175). Ma è probabile che la crescita sia ancora maggiore: a Torino, ad esempio, in cinque mesi (da luglio a novembre 2019) sono stati presentati più ricorsi (2.388) di quelli arrivati nel primo semestre dell’anno. Quali sono le ragioni dell’aumento dei ricorsi dei migranti? A giocare un ruolo determinante è stata la stretta voluta dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini con il primo decreto sicurezza. Il Dl 113 in vigore dal 5 ottobre 2018 ha infatti abrogato la protezione umanitaria, uno dei tre canali di rilascio del permesso di soggiorno, sostituendola con i permessi concessi per motivi speciali: gravi condizioni di salute, violenza o sfruttamento, calamità naturali e affidi valor civile. Questo ha fatto aumentare le bocciature delle richieste di asilo da parte delle commissioni territoriali: la percentuale di no è salita all’80% rispetto al 60% precedente. Ma a incidere è stato anche l’aumento delle decisioni delle commissioni dopo i rinforzi dati da Salvini: le domande esaminate sono state 81.527 nel 2017, mentre nel 2019,proiettando i dati dei primi dieci mesi a fine anno, sarebbero 97.676. Migranti. Decreti Salvini, cambierà poco e solo dopo il voto in Emilia di Alessandra Ziniti La Repubblica, 13 gennaio 2020 Restano le multe record per chi salva i migranti. Non tornerà il permesso umanitario ma servono garanzie a chi già lo possiede. Irritazione del ministro Lamorgese: riforma pronta da 2 mesi. Il Quirinale: le correzioni vanno fatte al più presto. Il leader delle sardine: “Così l’esecutivo non è credibile”. È passato dicembre. E passerà anche gennaio perché prima delle elezioni in Emilia Romagna il governo non affronterà il nodo dei decreti sicurezza. E al Viminale, non senza una irritazione strisciante, non resta che mettere pezze. Come quella che, in extremis, ha evitato - ma solo per i prossimi sei mesi - che al 31 dicembre migliaia di titolari di protezione umanitaria venissero cacciati via dalle strutture di seconda accoglienza e messi in strada. E tuttavia l’ambizione della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese è quella di arrivare a un intervento legislativo che ripensi profondamente anche i tagli all’accoglienza voluti da Salvini pur senza arrivare ad un ripristino totale della protezione umanitaria abolita dal primo decreto sicurezza. Ma per il momento l’impasse politica della maggioranza sulla questione immigrazione obbliga il Viminale a limitarsi a mettere pezze solo quando e dove si può. Non firmare più i divieti di ingresso in acque territoriali per le navi umanitarie si può, impedire a un prefetto di applicare una legge dello Stato che si dice di voler cambiare ma che è però pienamente in vigore non si può. E così, al Viminale, la Lamorgese è alle prese con gli effetti indesiderati di quei decreti sicurezza, ultimo la maximulta da 300 mila euro al comandante Claus Peter Reisch che, con la sua Marie Eleonor, il primo settembre scorso è stato l’ultimo capitano di Ong che si è visto sequestrare la nave in un porto italiano. “Vorrei incontrare Lamorgese e chiederle di battersi per abrogare questa legge. Di certo non pagherò una multa per aver salvato vite umane”, dice Claus Peter Reisch, forte anche delle generose donazioni che hanno già consentito alla Ong tedesca Mission Lifeline di trovare i tre quarti della cifra richiesta. Il testo delle modifiche ai decreti sicurezza è pronto ormai da due mesi - dicono fonti del Viminale - ma il necessario incontro politico tra i capi delle delegazioni di governo che dovrà portare ad un accordo e decidere il punto di caduta delle modifiche annunciate non si è mai svolto. A dicembre la finanziaria, a gennaio le regionali in Emilia Romagna e in Calabria e il caso Gregoretti di mezzo. Troppo scivoloso il tema delle modifiche al decreto sicurezza per affrontarlo in momenti in cui la tenuta della maggioranza giallo-rossa è considerata prioritaria. Anche se, almeno a parole, sul procedere secondo la strada indicata dal presidente della Repubblica Mattarella, e dunque innanzitutto riportando le multe per le Ong disobbedienti alle cifre originarie (da 1.000 a 10.000 euro), inserendo una chiara indicazione sulle tipologie delle navi e ripristinando il requisito della recidiva per la confisca, si dicono tutti d’accordo. Così come sulla reintroduzione della particolare tenuità del fatto e della distinzione delle categorie nelle norme che puniscono l’oltraggio e la resistenza al pubblico ufficiale. Il punto di caduta, pero, potrebbe anche essere più ambizioso. Perché ai quattro nodi già individuati da Lamorgese potrebbe aggiungersi una novità sostanziale. Gli uffici tecnici del ministero dell’Interno stanno già lavorando a un intervento legislativo per rivedere quelle norme sull’accoglienza dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione umanitaria che, così come sono state definite dal decreto sicurezza, rischiano nei prossimi mesi di veder finire per strada migliaia di migranti. L’escamotage per prorogare grazie a fondi europei i progetti che riguardano i titolari di questo tipo di permesso ospitati in strutture di accoglienza del sistema Siproimi gestiti dai Comuni ha solo allontanato il problema di sei mesi ma l’intenzione di Lamorgese è quella di integrare la bozza del suo testo di un’ulteriore modifica che offra una soluzione normativa. Che non arriverà certo a ripristinare il permesso umanitario, come era prima dell’era Salvini al Viminale, ma che dovrà garantire delle tutele alle migliaia di persone che, già titolari di questa forma di protezione, al momento non hanno altro destino che andare ad ingrossare le fila dell’esercito dei 600.000 irregolari in Italia. Migranti. La prova del nove del Pd si chiama “Decreti sicurezza” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 13 gennaio 2020 Aprire a nuovi mondi come le Sardine, l’associazionismo, l’area cattolica del terzo settore significa fare un intervento serio sulle leggi bandiera di Matteo Salvini. Abrogarle sarebbe il segno della vera discontinuità con il precedente governo giallo-verde. E anche un messaggio verso quegli interlocutori esterni che cerca Nicola Zingaretti. Le piazze dei giovani hanno pochi punti programmatici ma uno di questi è certamente una diversa politica dell’accoglienza. La Chiesa si aspetta una correzione di rotta decisa. E poi c’è il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ha promulgato i decreti ma il secondo è stato accompagnato da una serie di rilievi che il Quirinale si aspetta di vedere applicati al più presto. Anche perché, spiegano al Colle, “quando si scrivono delle note a corredo della firma il pensiero sottostante è che potrebbero esserci dei problemi con la Corte Costituzionale”. Ovvero, un pezzo dei decreti Salvini è contro la nostra Carta. Un allarme abbastanza esplicito e grave. Nel Pd c’è il fronte dell’abrogazione, già messa nero su bianco in un provvedimento di legge, ed è guidato da Matteo Orfini, anche avversario delle misure adottate da Marco Minniti sul fenomeno migratorio. Matteo Mauri, viceministro dell’Interno, considera il recepimento dei rilievi del capo dello Stato “il minimo sindacale”. Come dire: non basta, è troppo poco. Sulla stessa linea, da sempre, si trova il capogruppo del Pd alla Camera Graziano Delrio. Le osservazioni del Quirinale toccano una parte del sicurezza bis: sulla sproporzione delle multe per le navi che soccorrono le persone in mare e sulle aggravanti per l’aggressione a pubblici ufficiali. Ma Delrio considera altrettanto pericoloso il primo decreto. “Smontando il sistema degli Sprar e dell’accoglienza diffusa è aumentato il numero degli irregolari. E non sappiamo dove sono andati a finire”. Dunque l’intervento deve essere massiccio, incisivo. Una rottura netta col passato. Delrio sta lavorando a una mediazione nei suoi rapporti parlamentari. Con difficoltà perché il M5S frena parecchio. “Vanno adottati subito i rilievi del presidente della Repubblica. Ma è arrivato anche il momento di una riforma organica per una nuova legge sull’immigrazione”, dice il capogruppo. E su questo sta cercando di costruire un arduo compromesso. Così i tempi non sono brevissimi. “Mi aspetto il coraggio - dice Orfini - Zingaretti e il capodelegazione Franceschini diano seguito alle loro parole. Perché dal Viminale filtra la volontà di una modifica soft. Non va bene”. Il punto è come conciliare la discontinuità dell’esecutivo giallo-rosso con la presenza dei 5 stelle e di Conte, gli stessi che hanno votato e approvato i decreti sicurezza. “Noi abbiamo accettato il taglio dei parlamentari - sottolinea Orfini loro accettino le modifiche alle leggi sull’immigrazione”. L’ala “sinistra” del Movimento per il momento è silente. Non si è alzata una voce né da Roberto Fico, né da chi ha espresso dubbi e mal di pancia a suo tempo come i deputati Sarti e Sportiello. “Non c’è una sensibilità simile alla nostra”, ammette Delrio. Luigi Di Maio è per il “minimo sindacale”, cioè si accolgono le osservazioni del Quirinale e stop. Ma questa posizione, se accettata dal Pd, può spegnere all’origine l’allargamento immaginato dal suo segretario. Mattia Santori, leader delle Sardine, ieri ha criticato l’immobilismo: “Manca discontinuità, è come quando la sinistra ai tempi di Berlusconi non faceva la legge sul conflitto di interessi”. L’equilibrio del governo, già molto fragile, rischia di spezzarsi su questo terreno incandescente. Lo ha capito bene Matteo Renzi che infatti rinuncia ad aprire un altro fronte dopo la prescrizione. “Bisogna avere almeno la decenza di ascoltare il capo dello Stato. Poi aspettiamo le valutazioni del governo”. La partita, prima ancora che in Parlamento, si gioca in Consiglio dei ministri dove il titolare dell’Interno Luciana Lamorgese deve portare la sua proposta di revisione. E dove i 5 stelle sarebbero chiamati a cambiare la loro posizione sui migranti in maniera radicale. Migranti. Il Pd apre alle sardine: via i decreti sicurezza di Carlo Bertini La Stampa, 13 gennaio 2020 L’esigenza di trainare il voto delle regionali con proposte forti che abbiano appeal per gli elettori sicuramente c’è. Il Pd, che va in “conclave” due giorni in vista della verifica di governo, in un’abbazia vicino Rieti, è in una strettoia, tra l’incudine e il martello. Da una parte ci sono le sardine: il Pd vuole aprire porte e finestre per dare una casa anche a loro, come chiarito su queste colonne dal tesoriere del partito Luigi Zanda, dopo l’annuncio di Zingaretti di voler ricostruire dal basso il partito. Ma le sardine chiedono cose concrete subito, come l’abrogazione dei decreti sicurezza di Salvini. Proprio ieri dalla Annunziata su Rai Tre, il loro leader Mattia Santori faceva notare che “sembra di essere ai tempi in cui la sinistra era al governo e non ha fatto la legge sul conflitto di interessi: ai tempi di Berlusconi l’elettorato di sinistra era spiazzato, non capiva quale fosse la posizione”. Dall’altra parte però ci sono le esigenze di realpolitik: le regionali a fine mese in Emilia e Calabria potrebbero pure sconsigliare prese di posizione su temi scottanti come ius soli o decreti sicurezza proprio in una fase delicata. Ma Zingaretti ha deciso di battere due colpi a sinistra guardando alle sardine anche per dare il messaggio che il Pd non sta nel governo a tutti i costi: nella due giorni di seminario con ministri e gruppi parlamentari, i temi della cittadinanza e della sicurezza non verranno certo elusi, anzi. “Il problema di come superare i decreti Salvini, anche su input delle sardine e di come ritoccarli, su input di Mattarella, sarà affrontato”, assicura un dirigente Dem, anche perché il ministro Lamorgese aveva annunciato entro gennaio una proposta. Così come si rilancerà lo ius culturae rimasto in soffitta. Sul piatto finirà anche una pietanza di forte appeal elettorale, la riforma del fisco, annunciata nei mesi scorsi da Gualtieri: che porterà non solo all’ampliamento dei fondi e della platea per il taglio del cuneo fiscale, con un aumento delle buste paga per i lavoratori; ma anche ad un abbassamento delle aliquote Irpef per le fasce medio-basse, insieme a una rivisitazione della giungla di detrazioni fiscali. “Eurostat ci dice che, tra i grandi Paesi europei, l’Italia è quello con il divario più alto tra ricchi e poveri. Con buona pace di quelli che dicono che le politiche di redistribuzione sono un relitto del secolo scorso”, mette il dito nella piaga il numero due del partito, Andrea Orlando. I cinque tavoli previsti nel “conclave” di oggi saranno sui nodi della crescita, lavoro e sostenibilità; Nuovo Welfare; Italia semplice; Conoscenza; Cittadinanza. Saranno lanciate proposte che i gruppi parlamentari presenteranno a Conte per la verifica di maggioranza; ma senza l’intento di logorare gli equilibri politici piantando bandierine. Per intenderci, non ci sarà nulla su jobs act o Quota 100. Ma il segnale di apertura alle sardine non mancherà: “Il Pd si è messo in discussione e gli va dato atto - ha ammesso Santori - È il partito che ci ha dato più ascolto e mostra un’apertura vera verso di noi”. La Polonia imbavaglia i giudici di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 13 gennaio 2020 Da tempo il governo polacco introduce o tenta di introdurre nel sistema costituzionale norme dirette a limitare l’indipendenza dei giudici, impedendo che essi applichino le leggi in linea con la Costituzione e con il diritto dell’Unione Europea, quando ciò sia contro l’orientamento preferito dal governo. La Corte costituzionale, la Corte suprema, il Consiglio superiore della Magistratura sono stati oggetto di riforme con misure di epurazione e di espansione dell’influenza del governo nella amministrazione della giustizia. Poiché la Polonia è Stato membro dell’Unione Europea e quindi è vincolato ai principi dello Stato di diritto, di cui l’indipendenza della magistratura è condizione ineludibile, vi sono state reazioni da parte degli organi dell’Unione. E alle manifestazioni di protesta dei giudici polacchi hanno aderito molte associazioni di magistrati di altri Paesi europei. Il Consiglio della Magistratura polacco, poi, dopo la riforma che ha subìto, è stato sospeso dalla rete europea dei Consigli, perché privato della necessaria indipendenza. Anche se alcune iniziative del governo sono state ritoccate o rallentate, nella sostanza la Polonia non si adegua alle indicazioni europee e perfino a sentenze della Corte di giustizia dell’Unione. Il quadro è più che preoccupante per l’Unione Europea, che, tutta insieme, è tenuta ad assicurare ciò che dettano la Convenzione europea dei diritti umani e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. Si tratta naturalmente dell’indipendenza della magistratura, ma anche del complesso dei diritti e libertà che le due Carte prevedono. Ora si è aggiunta un’altra iniziativa, particolarmente originale. Ai giudici si vorrebbe vietare di esprimersi criticamente nei confronti delle riforme in materia di giustizia e del quadro istituzionale che ne deriva, sia con dichiarazioni, sia in negli atti giudiziari. Severe sanzioni disciplinari sono previste in caso di violazione; esse saranno irrogate da un organo non indipendente. Simili norme, già approvate dalla Camera, attendono ora l’esame del Senato. Il governo polacco non ascolta ciò che vien detto dagli organismi europei di cui è parte. Sembra addirittura che non sarà ricevuta a Varsavia una delegazione del Consiglio d’Europa che intende illustrare gli obblighi cui tutti gli Stati europei sono tenuti. Negli Stati costituzionali le leggi approvate dai Parlamenti (dalla maggioranza dei loro membri) sono soggette alla Costituzione. Nell’Unione Europea, le leggi statali devono essere anche conformi alle norme europee, secondo quanto stabiliscono i Trattati. Il controllo spetta anche ai giudici e particolarmente alle Corti costituzionali. Se il controllo porta a esito negativo, necessariamente sarà negativa la valutazione manifestata dai giudici. Impedir loro di esprimersi in modo critico significa annullare la possibilità del controllo della “legalità” delle leggi. Il divieto poi di esprimersi liberamente fuori dell’esercizio delle loro funzioni giudiziarie mette in discussione la libertà di manifestazione del pensiero, che appartiene anche ai magistrati. Essa riguarda naturalmente sia le opinioni critiche, che quelle adesive. Sembra che la legge polacca voglia vietare solo quelle critiche. La legge polacca si inserisce in uno specifico e complesso attacco alla indipendenza della magistratura e allo Stato di diritto, ma non riflette un atteggiamento isolato. La Corte europea dei diritti umani ha dovuto occuparsi di sanzioni disciplinari anche gravi inflitte in Ungheria e Turchia a magistrati che avevano osato esprimersi negativamente su vicende e provvedimenti governativi. L’indicazione che è venuta dalla Corte è complessa. Ovvia è la titolarità anche dei magistrati della libertà di espressione. Ma la loro speciale posizione professionale, che comporta l’obbligo di assicurare l’imparzialità nell’esercizio dei loro poteri, implica particolare prudenza, sia nei confronti dei casi di cui devono occuparsi o si sono occupati, sia in ordine ai temi oggetto di contrasto politico. Ognuno ha in mente i tanti casi in cui, in Italia particolarmente, i limiti sembrano superati, giustificando forti dubbi di opportunità, se non anche di compatibilità con la deontologia professionale dei magistrati. Ma nessun limite esiste quando i magistrati, liberamente con dichiarazioni o pubblicazioni oppure con l’espressione di pareri formali degli organi giudiziari, intervengono su problemi legislativi o istituzionali o su riforme del sistema giudiziario. La Corte europea ha anzi indicato che in tali casi, per la particolare competenza professionale, la partecipazione della magistratura al dibattito è fonte di arricchimento del dibattito, in funzione della qualità della legislazione e della difesa del carattere democratico delle istituzioni dello Stato. È proprio questo il tipo di intervento della magistratura che il governo polacco vuole impedire. Iraq. Cantare “Bella ciao” a Bagdad: la protesta di Fatima, Hussein e gli altri di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 13 gennaio 2020 “Qui sta nascendo un nuovo Iraq laico, con noi ci sono le nostre famiglie”. Da ottobre si protesta in tutto il paese e tra le canzoni dei ragazzi c’è quella dei nostri partigiani. Le parole del loro “Bella ciao” sono “noi siamo qui, restiamo qui, resteremo sempre qui”. Diverse dal motivo dei partigiani italiani, ma cantate battendo le mani allo stesso ritmo. Semplici e pregnanti, come del resto è lo slogan madre delle proteste: “arida watan”, voglio un Paese, che spesso è seguito da “nazel achuf aqqi”, “vengo a prendere i miei diritti”. Li ripetono di continuo Fatima Ramadan, 23enne studentessa di Farmacia, e Rua Zeidi, tre anni più anziana e laureata in Economia alla ricerca del primo impiego. “Sono le canzoni, i motti della nostra giornata. In questi giorni dormiamo a casa e non più qui nelle tende di piazza Tahrir, perché ora fa freddo e girano i cecchini delle milizie pagate da Teheran. È pericoloso la notte. Ma dalle 10 alle 19 siamo presenti. Non abbiamo alternative, non si torna indietro. L’Iraq deve cambiare”, spiegano felici. Le abbiamo incontrate ieri pomeriggio di fronte alla “Casa degli artisti”, una delle centinaia di tende che costellano il paesaggio della rivoluzione irachena nel centro di Bagdad. La chiamano proprio così, “thaura”, rivoluzione, molto più profonda e importante di una semplice “intifada” (rivolta). Sono serissime e allo stesso tempo allegre. “I nostri genitori sono con noi. Mio papà, professore di giornalismo qui all’università, dice che dobbiamo stare in piazza e farci sentire. Mia mamma aggiunge solo che devo scappare se sento sparare. Quasi tutti i giovani che conosco fanno lo stesso, partecipano con il sostegno delle famiglie. Così, per sapere quanti siamo, non dovete contare solo chi protesta in pubblico. Dietro di noi c’è gran parte degli iracheni”, dice Rua. Il suo programma preferito alla televisione è il talk show al venerdì sera di Ahmad Bashir, un giovane giornalista minacciato di morte che adesso parla dagli studi dell’emittente Dijla Tv in Germania: i loro uffici a Bagdad e quelli della popolare emittente Al-Hurra sono stati di recente attaccati dalle milizie. Dalla tenda emerge incuriosito “Gibuti”, un 21enne studente alla scuola d’arte, che gira e musica brevi filmati della rivolta. “Non rivelo il mio nome vero. Appena uno di noi diventa noto viene eliminato”, spiega. Ma intanto mostra un suo video che sta andando forte: un appello alla gente, perché torni a manifestare. Il ritmo ricorda quelli del Sessantotto europeo: stessi slogan, come “continuare uniti la lotta”. Ama declinare “Bella ciao” in arabo. “Mi sono messo a fare canzoni dopo i nostri primi morti. Molti erano scappati per paura. E noi abbiamo contribuito al loro ritorno”, aggiunge. Più avanti due ambulanzieri, Ala Karim di trent’anni e Ali Mohammad, 26, si sono offerti volontari per intere giornate. “Dal primo ottobre ci sono stati almeno 600 morti e oltre 22.500 feriti. I danni più gravi li causano i cecchini che sparano dai tetti. Ma ci sono anche sicari delle milizie che accoltellano di nascosto per le strade. I punti più pericolosi sono le periferie della piazza. E c’è anche un largo numero di rapiti di cui non si sa nulla”, raccontano mostrando la carrozzeria dell’ambulanza, danneggiata dai candelotti. Sicuri che siano le milizie sciite? “Certo, qui tanti dicono che Qassem Soleimani era venuto a Bagdad per organizzare la repressione totale delle nostre rivolte. Ma ovvio che nessuno lo dirà mai a Teheran e neppure tra i loro alleati iracheni. Non volevano ammettere le loro responsabilità nell’abbattimento dell’aereo ucraino neppure di fronte alle prove schiaccianti presentati da Nato e canadesi, come possiamo credere che confessino le loro colpe qui in Iraq?” Dove vogliono arrivare questi ragazzi? “Qui sta nascendo un nuovo Iraq laico, senza differenze tra sciiti, sunniti, cristiani, ebrei, yazidi o atei. Una società civile che rispetta i diritti del cittadino a prescindere da etnia, fede o appartenenza tribale. I nostri riferimenti devono essere Voltaire e Montesquieu, non il Corano”, risponde netto Hussein Basem, 22enne studente di Legge. Concorda senza riserve il 23enne Abdel Rachman, che abbassa la voce quando si dice “ateo” e alterna la mobilitazione politica con la pratica da violoncellista in una scuola di musica lungo l’Eufrate. Per la prima volta dall’invasione americana e la caduta della dittatura di Saddam Hussein nel 2003 sono queste migliaia di manifestanti a marcare un vero salto di qualità. Chiedono lavoro, fine della corruzione, politici nuovi. “Continuerete a sentire le nostre parole come raffiche di mitragliatrice”, dice una loro canzone, che esalta la povertà dei tuc tuc. E la ricchezza generosa di chi per la causa è pronto a morire. Iran. Il carnefice è Teheran, non solo Soleimani di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 13 gennaio 2020 Il 1° gennaio scorso l’Iran ha impiccato 8 uomini nel carcere di Rajai-Shahr della città di Karaj. Si è lasciato alle spalle almeno 285 esecuzioni nell’anno appena passato, il che, secondo i dati di Nessuno tocchi Caino, porta ad oltre 3.882 i giustiziati sotto la presidenza Rouhani, in carica dal 1° luglio 2013. Il 1° gennaio era anche il 48° giorno in cui cittadini iraniani in massa scendevano in piazza contro il regime, nonostante la repressione di quelle manifestazioni avesse provocato almeno 1.500 morti tra uomini, donne e bambini, freddati per lo più da proiettili sparati a bruciapelo dai Pasdaran, e almeno 12.000 arresti. Di loro oggi non si sa più nulla e nessuno se ne interessa, nonostante penda la minaccia di finire con un cappio intorno al collo. Poi è accaduto che il 2 gennaio un iraniano, tra i più feroci tra i generali in circolazione, Qassem Soleimani, capo delle forze Quds, corpo speciale dei Pasdaran, fosse ucciso da un drone americano e diventando perciò, da carnefice, un martire e un eroe. Questo ha acceso i riflettori sull’Iran, ma di una luce che non dirada le tenebre perché non fa conoscere la vera natura del regime di Teheran e i crimini di cui costantemente si rende responsabile. Soleimani era disprezzato dalla stragrande maggioranza degli iraniani. Durante le rivolte, nel 2018 e nel 2019, i dimostranti hanno strappato i suoi manifesti in diverse città. E in Iraq, dove i manifestanti ne chiedevano da tempo l’espulsione, hanno accolto la sua morte con favore, come un segno della fine del controllo del regime dei mullah sul loro Paese. Soleimani è stato descritto come uno stratega a capo di milizie implicate in vari scenari funzionali a un disegno espansionista iraniano, ma non è stata comunicata con altrettanta enfasi la natura sanguinaria delle sue milizie. Alcuni magari le ricordano per l’assedio di Aleppo in Siria. Io le ricordo per il massacro di 141 oppositori al regime iraniano, membri dell’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo Iraniano, che godevano dello status di rifugiati in Iraq, dove, inermi, sono stati attaccati a più riprese tra il 2009 ed il 2016. Ricordo in particolare l’attacco del 1° settembre 2013 a Campo Ashraf, quando in 52 furono freddati dai miliziani di Soleimani. Il tentativo di una soluzione finale degna di un regime nazista. E non uso questo termine a sproposito, perché l’Iran proclama la cancellazione di Israele dalla carta geografica. Lo stesso successore di Soleimani, quell’Esmail Ghaani che per vent’anni è stato suo vice e il cui curriculum nulla ha da invidiare al suo defunto capo, sembra oggi assai più incline a un approccio violento contro Israele. D’altro canto parliamo di uno Stato in cui componenti della “commissione della morte”, che nel 1988 si rese responsabile del massacro di 30.000 prigionieri politici, ricoprono tutt’ora posti apicali, a partire dall’attuale Ministro della Giustizia Ebrahim Raisi. Di fronte a questo, non sono risposte adeguate gli appelli alla moderazione rivolti alle parti in causa da chi non distingue le responsabilità, non fa differenza tra aggressori e aggrediti e non pone il rispetto dei diritti umani quale unico indice, serio ed universalmente riconosciuto, per valutare se un Paese rappresenta una minaccia alla pace e alla sicurezza. L’Italia questa moderazione l’ha invocata in nome di una normalizzazione e di una stabilità necessarie a evitare che dalla tensione traggano vantaggio l’estremismo violento e il terrorismo. Come se il detonatore dell’estremismo violento e del terrorismo non fosse l’Iran stesso. Né la soluzione può essere quella dei droni, non solo perché il loro uso avviene al di fuori di ogni norma e disciplina previste dal diritto internazionale, ma anche perché questo metodo mascherato, sbrigativo e segreto di esecuzione capitale avviene nei confronti di acerrimi nemici dell’America, come Soleimani, e anche di cittadini americani all’estero sospettati di attività anti-americane: cittadini stranieri e americani uccisi sommariamente con i droni, che in America avrebbero avuto un processo con tutte le garanzie possibili, anche quelle previste dal sistema arcaico della pena capitale. Vale dunque anche per Qassem Soleimani il nostro “Nessuno tocchi Caino”, motto che Pannella applicò anche per Saddam Hussein, non per difendere il carnefice, ma per denunciare l’aberrazione di uno Stato che nel nome di Abele diventa esso stesso Caino. Malta. Clone di Muscat alla guida del Paese. Giustizia per Daphne non sarà una priorità di Manuel Delia articolo21.org, 13 gennaio 2020 Joseph Muscat ha fatto in modo che un suo clone gli succedesse. I dubbi iniziali tra i ranghi del Partito Laburista quando Joseph Muscat fu costretto a dimettersi sono stati annullati da una campagna di propaganda agiografica che ha glorificato Joseph Muscat e sollecitato i membri del partito a cercare un sostituto che non facesse rimpiangere di aver sostenuto Joseph Muscat in precedenza. La scelta è ricaduta su Robert Abela. Durante la campagna per la leadership ha rifiutato tutte le richieste di interviste dei giornalisti ed ha evitato qualsiasi evento pubblico. In questo periodo ha evitato di riconoscere la crisi in atto a Malta, la corruzione nel precedente governo e la necessità di indagare sul coinvolgimento dello stato nell’assassinio di Daphne Caruana Galizia. E così ha sconfitto il suo avversario che aveva riconosciuto pubblicamente la necessità del dialogo con la società civile per ripristinare lo stato di diritto a Malta. Questa è una situazione molto preoccupante per Malta. Joseph Muscat ha annunciato la scorsa settimana che intende rimanere un personaggio pubblico e ora sembra voler intraprendere il ruolo di attivista per i diritti civili. Dice che vuole fare una campagna per introdurre l’aborto a Malta (c’è un divieto assoluto) un problema che sa essere controverso e che spera dividerà il movimento della società civile che si è unito per rimuoverlo. Nel frattempo, a meno che non sorprenda tutti, in particolare Joseph Muscat, il governo di Robert Abela sembra destinato a garantire l’impunità per qualsiasi leader o ex leader del Partito laburista coinvolto in casi di corruzione e forse persino nell’omicidio di Daphne.