Basentini: “Rischio radicalizzazione, nelle carceri innalzato il livello di allerta” di Marisa Ingrosso Gazzetta del Mezzogiorno, 12 gennaio 2020 Intervista al responsabile del Dap: “Quando ci sono momenti di squilibrio internazionale è facile immaginare dei riverberi anche all’interno degli istituti penitenziari”. Il fragore dell’assassinio del gen. Qasem Soleimani in Iraq da parte delle Forze armate Usa è stato udito nitidamente in tutto il mondo islamico (e non solo), schiantandosi nel petto anche delle migliaia di detenuti presenti in Italia. Un rombo di morte, indignazione e rabbia che, a sentire il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) Francesco Basentini, non avrebbe dato la stura a reazioni violente o, al contrario, di giubilo (cosa che fu registrata, si ricorderà, in occasione dell’abbattimento delle Torri Gemelle). Tutt’altro, la reazione sarebbe stata uno spesso, cupo, silenzio. “Ma - spiega l’altissimo dirigente lucano - il silenzio, anziché una marcata protesta, può non dire nulla però, alle volte, preoccupa di più”. Così, prima ancora che Teheran sganciasse i missili contro le basi americane in Iraq, il Capo del Dap ha provveduto a inviare una nota ai direttori e ai comandanti degli istituti penitenziari per “elevare il livello di allerta e di sensibilità nei confronti di un possibile innalzamento della minaccia terroristica”. Un provvedimento che dimostra quanto sia connesso, quanto sia parte della società quel mondo carcerario, spesso avvertito come molto lontano dalla popolazione, e quanto, in un mondo globale, non esistano confini per dei problemi, dei rischi, che sono di carattere transnazionale. “Nell’ambito della popolazione detentiva che oggi conta 61mila detenuti - afferma Basentini - un terzo degli stessi sono stranieri, cioè circa 20mila. E, in questo ambito, una buona parte è costituita da detenuti che professano la religione musulmana. Questi dati, di per sé, ovviamente non sono indicativi di nulla, sia chiaro, ma essendo il carcere un luogo che crea disagio, dove il detenuto molte volte “porta” o, al tempo stesso, diventa protagonista di un certo disagio psichico, questo disagio psichico e, in generale, le condizioni di malessere di vita che si crea all’interno del carcere, possono per i detenuti musulmani innanzitutto, ma in realtà per chiunque altro, possono essere compensati, possono trovare uno sbocco, anche ideologico, in forme di affiliazione. Possono trovare uno sfogo in forme di affiliazione, di sostegno, anche ideologico. Quindi, da parete del Dipartimento c’è una particolare attenzione e sensibilità anche nei confronti di questi possibili rischi. Consideri, inoltre, che nei vari circuiti penitenziari uno di essi si chiama As2 - alta sicurezza di secondo livello (abbiamo tre circuiti di alla sicurezza: Asl, As2 e As3) e comprende detenuti, circa 70, condannati o arrestati per reati a matrice terroristica. La stragrande maggioranza di questa settantina lo è per reati di terrorismo internazionale”. “Nell’ambito delle carceri - chiarisce - viene riconosciuto il diritto di professare qualsiasi forma religiosa, compresa quella musulmana. Ci sono degli imam autorizzati a entrare in carcere per permettere ai detenuti musulmani di svolgere le loro pratiche religiose. Detto questo, le condizioni di disagio, malessere, ovviamente potrebbero in teoria agevolare qualsiasi forma di aggregazione illecita, indebita, e addirittura, in astratto, portare a operazioni di proselitismo tant’è che in carcere il rischio di radicalismo islamico c’è, se c’è “fuori” nella società libera, a maggior ragione ci può essere in un istituto penitenziario. Rispetto a questo tema, l’Amministrazione penitenziaria è dotata di protocolli di monitoraggio di questi fenomeni di eventuali rischi di radicalismo islamico e mettiamo anche in atto protocolli di deradicalizzazione (ci sono unità preparate oltre a osservare eventuali sintomi di radicalismo anche ad attivare processi deradicalizzazione)”. E le tensioni internazionali hanno un peso? “Ovviamente, quando ci sono momenti di squilibrio internazionale, come quello che si sta vivendo in questi giorni, è facile immaginare dei riverberi, delle conseguenze, anche all’interno degli istituti penitenziari. Stiamo parlando solo di probabilità, di possibilità, che ci auguriamo non troveranno concretezza ma, nell’ambito della buona amministrazione, è da ricomprendere anche una forma di sensibilizzazione che andava fatta attraverso questo provvedimento questa comunicazione che ho fatto. Si tenga anche conto che oggi abbiamo nelle carceri italiane circa 20 detenuti iraniani e 61 iracheni”. Ma detenuti per reati che possono essere i più vari? “Sì, di qualsiasi tipo. Reati che non c’entrano con attentati terroristici. Parlo della semplice provenienza geografica dei detenuti e ciò non vuol dire assolutamente che possono essere o possibili affiliati a organizzazioni terroristiche o hanno in animo... sono proprio solo cittadini iraniani e iracheni che sono in carcere, per reati di altro genere, di altro tipo. Il provvedimento ha avuto il senso di sensibilizzare e determinare la massima attenzione rispetto alle condizioni sociopolitiche che ci sono fuori dagli istituti penitenziari, nella prospettiva che ciò che accade sicuramente si riverbera negli istituti”. Il livello di As2 non c’è in Puglia e Basilicata giusto? “No no, non c’è un circuito di As2. Il più vicino è a Rossano in Calabria, è l’unico al Sud Italia. Poi c’è a Milano, Alessandria, Roma Rebibbia, Torino, Sassari, Nuoro”. La sua nota fa riferimento sia alla vigilanza e sicurezza interna alle carceri, sia esterna. In che senso? Cosa si vuole affrontare e prevenire? “Consideri che una parte del mondo penitenziario riguarda anche l’esecuzione esterna, forme di esecuzione della pena che si fanno al di fuori del carcere, in cui sono coinvolti altrettanti soggetti che scontano una misura diversa dalla pena in carcere. Al mondo dell’esecuzione esterna, in linea generale, e che è di competenza di un altro Dipartimento, bisogna guardare con altrettanta attenzione. La Polizia penitenziaria si occupa, per sua parte, anche dell’esecuzione esterna. Quindi il messaggio era rivolto a ciò. Inoltre, il mondo penitenziario ha continue possibilità, concrete, quotidiane, di contatto con l’esterno. Ad esempio, ci sono autorizzati a uscire dal carcere per svolgere attività lavorative, incluse persone di ogni professione religiose. A quella parte del mondo penitenziario che ha contatti con l’esterno bisogna dare quindi la stessa attenzione che si presta all’interno del carcere”. Cosa è accaduto nelle nostre carceri con l’attacco a Soleimani? Ci sono state sollevazioni? “Non è stato registrato alcun sintomo di questo tipo. Ma l’esperienza del passato dimostra che dei riverberi delle tensioni internazionali, un certo fermento, c’è in alcuni soggetti, con maggiore proselitismo nell’ambito del radicalismo islamico. Perché quegli atti vengono visti come atti di forza da parte per esempio di Daesh”. Atti di forza da parte Usa? “In questo caso sì”. Cosa è accaduto nell’immediatezza del raid americano in Iraq? “Non è stato ancora rilevato alcunché. Ma il silenzio, anziché una marcata protesta, può non dire nulla però, alle volte, preoccupa di più”. Detenuti al lavoro: capo Dap, via maestra per recupero ansa.it, 12 gennaio 2020 Operativo nuovo Ufficio centrale, modello esportato all’estero. Il lavoro in carcere costituisce “la via maestra” per il recupero e il reinserimento sociale dei detenuti. Ne è convinto il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini, che di recente, d’intesa con il ministro della giustizia Alfonso Bonafede, ha costituito e reso operativa presso il Dap una nuova unità, l’Ufficio centrale per il lavoro dei detenuti. “Si tratta - spiega Basentini - di una struttura pensata per coordinare in modo strutturale i servizi già avviati, che coinvolgono migliaia di reclusi, e allargare il programma volto al reinserimento socio-lavorativo dei soggetti in espiazione di pena. Il Dap, con l’indispensabile collaborazione della magistratura di sorveglianza, si è messo in gioco al di là dei protocolli - dice Basentini - e dalle singole convenzioni si è passati a un’architettura di sistema, perché siamo convinti che per i detenuti non ci possa essere una reale prospettiva di recupero senza il lavoro”. Il modello è ritenuto attraente anche all’estero, “tanto che - conclude il capo del Dap - il delegato messicano alle Nazioni Unite ha voluto mutuarlo in patria attuando un organico programma di cooperazione tra Italia e Messico nell’area del reinserimento sociale per le persone private della libertà”. Se il “carcere duro” è solo ipocrisia di Lirio Abbate L’Espresso, 12 gennaio 2020 Il 41bis, come dimostrano i fatti degli ultimi dieci anni, non serve a far collaborare i boss con la giustizia, perché la decisione di “pentirsi” arriva subito dopo l’arresto. Quando il fascista Roberto Fiore era un parlamentare europeo, riuscì a far violare il regime di carcere impermeabile del 41bis a uno dei capi della camorra, Antonio Varriale. Si presentò alle dieci di sera all’ingresso del carcere di massima sicurezza di Viterbo accompagnato da due collaboratori e chiese e ottenne di parlare con un solo detenuto. Nonostante l’ora tarda per un carcere, a Fiore vennero aperti cancelli e porte blindate e fu accompagnato - in virtù del suo ruolo di deputato europeo - davanti alla cella del boss Varriale con il quale l’europarlamentare e i due suoi collaboratori iniziarono a conversare. Il dialogo però venne interrotto quando uno degli agenti della polizia penitenziaria si rese conto, controllando i documenti dei visitatori, che una delle persone che accompagnava Fiore era il fratello del capomafia. La porta blindata della cella venne richiusa e il parlamentare con i suoi amici furono accompagnati all’uscita. Fiore non profferì parola. Il responsabile degli agenti di Viterbo ammise che vi era stato “qualche errore nell’esecuzione della visita: primo perché uno degli accompagnatori del politico era il fratello del detenuto sottoposto al regime speciale del 41bis e secondo perché dando l’autorizzazione ad aprire il blindo è stato permesso in un certo qual modo un colloquio di famiglia, eludendo le regole che vigono per l’effettuazione dei colloqui dei detenuti sottoposti al 41bis”. Chissà quali interessi aveva Fiore a far incontrare a tarda sera il capo di un clan camorristico detenuto con suo fratello. Questa storia non è mai emersa agli onori della cronaca, ma è documentata, e dimostra come Fiore, oggi membro di Forza Nuova e fondatore del movimento della Terza posizione europea, ha avuto contatti con persone legate alla camorra. Il 41bis viene violato anche così. Un sistema temuto dai mafiosi, tanto che Riina ha trattato con uomini dello Stato per farlo ammorbidire, oggi è diventato permeabile. Perché questo sistema soffre di ipocrisia e tutte le cose che soffrono di ipocrisia tendono a morire. Altra stranezza delle ultime settimane nel popolo dei 41bis è il comportamento del boss della camorra Francesco Schiavone detto “Sandokan”. Con dodici ergastoli sulle spalle è rinchiuso nella sezione di massima sicurezza di Parma, ma da qualche settimana ha avanzato una strana richiesta alla direzione del carcere, quella di poter fare lo scopino. Una scelta che non si addice al rango di un capomafia come Sandokan, dal momento che questa attività di solito è ambita dai detenuti meno abbienti perché consente di guadagnare qualcosa. Ma Schiavone non ha certo bisogno di arrotondare con mestieri umili. E allora? Tutto ciò ricorda quello che è avvenuto in passato quando uno dei capi di Cosa nostra, Salvatore Biondino, chiese di poter fare lo scopino. Anche Biondino non aveva bisogno di arrotondare. Voleva fare lo scopino perché quell’attività gli consentiva di muoversi più liberamente e soprattutto di contattare detenuti chiusi lontano dalla sua cella. In sostanza, lo scopino può aggirare i rigori del 41bis. Questa strategia all’epoca in cui stava prendendo piede la dissociazione in alcuni capimafia venne intuita dall’allora capo dell’ispettorato del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il magistrato Alfonso Sabella, che bloccò la richiesta di Biondino. Lo stesso giorno Sabella venne destituito dal ministro Roberto Castelli. Sulla gestione dei detenuti al 41bis e delle strutture in cui si trovano, è stata dedicata prima di Natale una riunione alla Procura nazionale antimafia (Pna) alla quale hanno partecipato tutti i procuratori distrettuali e i vertici del Dap. Ne è venuto fuori un quadro devastante nella gestione delle carceri e l’assenza di qualunque linea guida su questo regime da parte dei vertici dell’amministrazione. Il capo dei pm di Messina, Maurizio de Lucia, ha evidenziato la carenza di strutture adeguate e di risorse specializzate. Non c’è un numero sufficiente di celle per tutti i detenuti sottoposti al 41bis, che non è una ulteriore pena afflittiva, ma uno strumento di tutela della collettività che evita ai boss di continuare a comandare. Oggi sono 753 i detenuti al carcere impermeabile, fra cui dieci donne, e di questi 598 sono condannati definitivamente. Vi sono una trentina di richieste di nuove applicazioni del regime, a cui non viene data esecuzione perché i reparti sono saturi. Rispetto al 41bis del dopo stragi, oggi questo regime si è svuotato e ammorbidito. Il 41bis, come dimostrano i fatti degli ultimi dieci anni, non serve a far collaborare i boss con la giustizia, perché la decisione di “pentirsi” arriva subito dopo l’arresto. È accaduto ancora di recente a Palermo nella serie di inchieste coordinate dal procuratore Francesco Lo Voi che ha portato in cella per mafia decine di persone e svelando gli assetti di Cosa nostra. I nuovi mafiosi appena vedono il carcere iniziano a “cantare”. E come ha evidenziato il procuratore di Napoli, Gianni Melillo, durante la riunione alla Pna, se il Dap può realisticamente sopportare appena la metà degli attuali detenuti al 41bis, è del tutto evidente che rinuncia all’effettività dei controlli e all’effettività di “impermeabilizzare” i detenuti sottoposti a questo regime carcerario. Per Melillo “i controlli sono assolutamente saltuari e non vi è alcuna seria aspettativa dei limiti del 41bis”. In precedenza Melillo, sentito in Commissione antimafia presieduta da Nicola Morra, aveva tuonato sulla gestione degli istituti di pena, sostenendo che il carcere è un colabrodo, “governato non dallo Stato ma dalle organizzazioni mafiose”. Basta pensare che nelle sezioni dell’alta sicurezza sono tantissimi i telefoni cellulari che si continuano a trovare a disposizione dei detenuti, che hanno pure il controllo delle sezioni. L’ultima inchiesta della procura di Catanzaro offre uno spaccato su questo punto, denunciando che era stata addirittura formata una “Locale” (gruppo organizzato) di ‘ndrangheta all’interno del carcere di Vibo Valentia ad opera di un boss, Giuseppe Accorinti, che agiva in carcere come se governasse il clan sul territorio. Ad occuparsi dei 41bis sono gli agenti specializzati del Gom della polizia penitenziaria, i quali devono fronteggiare l’aumento dei detenuti sottoposti a questo regime con un sempre più ridotto numero di personale. Riescono ad ottenere grandi risultati grazie alla loro professionalità, riconosciuta dai magistrati. Ma sono pochi rispetto al lavoro che devono affrontare. Gli ultimi festeggiamenti nelle sezioni dei 41bis sono stati registrati nei mesi scorsi dopo la sentenza della Grande Chambre e della Consulta, che hanno dichiarato incostituzionale l’ergastolo ostativo. Le reazioni sono state di euforia e di vittoria. Chi diceva che finalmente avevano trovato ascolto le proprie preghiere, chi sospirava di sollievo all’idea di poter accedere ai benefici, comprese le misure alternative alla detenzione e chi, in un modo o nell’altro immagina di ritornare in libertà. In questo clima quasi da stadio, si respirava aria di vittoria, come se tutto ciò fosse da sempre dovuto. I boss Filippo e Giuseppe Graviano, condannati a più ergastoli in via definitiva, hanno concepito i loro figli in carcere nonostante il 41bis, e hanno sempre detto ai propri familiari che prima o poi sarebbero tornati insieme, fuori. E non certo da collaboratori di giustizia. Chissà cosa gli è stato promesso. Vita da detenuti: Stasi al centralino, le Misseri sarte di Enzo Quaratino ansa.it, 12 gennaio 2020 Bossetti ripara macchine da caffè, Olindo ai fornelli, Rosa al cuoio. C’è chi studia, chi sta ai fornelli, chi risponde al centralino del call center, chi rigenera macchine per caffè: dopo aver diviso più volte l’Italia tra innocentisti e colpevolisti, quei detenuti che per settimane o mesi, fino alla condanna definitiva, hanno “resistito” sulle prime pagine dei quotidiani vivono ora la reclusione impegnandosi in attività lavorative che consentono loro di mantenere un ponte con la società. Sono retribuiti con la mercede (così si chiama lo stipendio dei reclusi), da poche centinaia di euro e in qualche caso fino a mille euro: denaro che alcuni riservano per sé, altri destinano alle loro famiglie. Alberto Stasi, condannato a 16 anni per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi (Garlasco, 13 agosto 2007), è impegnato nella casa di reclusione di Bollate (Milano), modello avanzato di struttura penitenziaria, come centralinista: opera al call center di una nota compagnia telefonica, che ha stipulato una convenzione con la “Bee4 altre menti”, impresa sociale fondata nel 2013, che offre opportunità di riscatto a persone che hanno incontrato il carcere. Allo stesso call center aspira Salvatore Parolisi, che ha scontato quasi metà della pena a 20 anni di reclusione inflittagli per l’omicidio della moglie Melania Rea (Civitella del Tronto, 18 aprile 2011). L’ex caporalmaggiore sta frequentando, sempre a Bollate, uno stage di formazione e presto siederà accanto agli altri centralinisti. A Bollate è detenuto pure Massimo Bossetti, “fine pena mai” per l’omicidio di Yara Gambirasio (Brembate di Sopra, 26 novembre 2010). L’ex muratore di Mapello lavora per conto di un’azienda che, insieme a Bee4, ha creato il progetto Second Chance (seconda possibilità): rimettere a nuovo macchine per caffè espresso ormai rovinate, in fase di demolizione, che vengono rigenerate dai detenuti, i quali così, a loro volta, hanno una “seconda chance” di vita. Anche i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi, condannati all’ergastolo per la strage di Erba (11 dicembre 2006) sono detenuti lavoratori: il primo è ai fornelli nel centro clinico del carcere di Milano-Opera, la seconda è inserviente nella casa di reclusione di Bollate, ma è impegnata anche nella creazione di borse e accessori di cuoio per una cooperativa che sostiene progetti in favore dei bambini in Africa. Taglio e cucito, invece, per Cosima Serrano Misseri e la figlia Sabrina Misseri, ergastolane anche loro, recluse nella casa circondariale di Taranto per l’omicidio di Sarah Scazzi (Avetrana, 26 agosto 2010): entrambe svolgono attività di volontariato per la sartoria istituita nella sezione femminile. Un altro ergastolano, Angelo Izzo, condannato per la strage del Circeo (29 settembre 1975) fa saltuari lavori nel carcere di Velletri. Veronica Panarello, 30 anni di reclusione per l’omicidio del figlio Lorys (Santa Croce Camerina, 29 novembre 2014) frequenta nel carcere di Torino un corso per operatore dei servizi sociali. Agli studi ha deciso di dedicarsi anche Michele Buoninconti, condannato a 20 anni per l’omicidio della moglie Elena Ceste, la donna di Costigliole d’Asti scomparsa da casa il 24 gennaio 2014 e trovata morta il successivo 18 ottobre. L’ex vigile del fuoco fa il tutor universitario: studente accademico, mette la sua esperienza al servizio di altri detenuti-studenti che hanno bisogno di sostegno. Non lavorano, invece, due detenuti eccellenti, entrambi condannati all’ergastolo: Renato Vallanzasca, il bel René, super boss della mala milanese negli anni settanta-ottanta, recluso a Bollate; e Cesare Battisti, l’ex terrorista rosso trasferito lo scorso anno nel carcere di Oristano dopo una lunga latitanza all’estero. Sono temporaneamente “disoccupati” anche Antonio Logli, condannato a 20 anni per l’omicidio della moglie, Roberta Ragusa, sparita nel nulla nella notte tra il 13 e il 14 gennaio 2012, che sta scontando la pena nel carcere di Massa; e Manuel Foffo, detenuto nel carcere di Rebibbia, a Roma, 30 anni di reclusione per l’omicidio di Luca Varani (Roma, 4 marzo 2016). I due hanno svolto per un periodo lavoro a rotazione con altri detenuti e sono in attesa di “nuova occupazione”. In Italia il diritto è sempre in minoranza di Alessio Lo Giudice Left, 12 gennaio 2020 A trent’anni dalla morte di Leonardo Sciascia ho riletto alcuni suoi scritti tornando ad apprezzare, tra l’altro, l’ossessione - come egli stesso la definiva - per il diritto e la giustizia. In altre parole, l’ossessione per il valore culturale dello Stato di diritto. Una tale tensione era sicuramente dovuta alla sua adesione alla tradizione illuministica, ma scaturiva, in ogni caso, da una profonda comprensione filosofica della portata morale dello Stato di diritto. Lo Stato di diritto è infatti quella forma di organizzazione istituzionale nella quale l’esercizio del potere è sottoposto al primato, e dunque al controllo, della legge. In particolare, della legge che incorpora i diritti inalienabili dell’uomo rendendoli fondamentali e indiscutibili nell’ambito degli ordinamenti costituzionali. Da questa definizione elementare si capisce come lo Stato di diritto rappresenti un limite nei confronti del potere. Tanto nei confronti dei poteri “politici” (legislativo ed esecutivo), anche quando essi siano legittimati democraticamente, tanto nei confronti del potere giudiziario, al fine di evitare che i poteri dello Stato, con l’esercizio arbitrario delle loro funzioni, violino i diritti degli individui. L’ossessione di Sciascia, la fede nel valore dello Stato di diritto, era e resta, nel nostro Paese, una credenza isolata. Una convinzione che, nei fatti, non ha intercettato il senso comune. E questo vale tanto per la classe dirigente quanto per l’opinione pubblica in generale. Il nostro Paese, infatti, ha spesso affrontato problemi storici, radicati profondamente nel terreno storico-culturale della società, attraverso strumenti legislativi incompatibili con i principi dello Stato di diritto. Basti pensare alla legislazione antiterrorismo degli anni Settanta, alla successiva legislazione antimafia, alla prassi giudiziaria nell’epoca di Mani pulite, per giungere, oggi, alla scelta di affrontare il problema dell’inefficienza del sistema giudiziario attraverso il blocco della prescrizione. Siamo chiaramente di fronte alla tendenza strutturale a mettere in discussione i diritti e le garanzie individuali in nome di beni che sono stati, ed evidentemente sono ancora oggi, posti sopra i diritti: sicurezza, moralità pubblica, efficienza amministrativa… Le patologie endemiche dello Stato di diritto in Italia si riscontrano costantemente nell’esercizio del potere politico, che spesso, forte del consenso elettorale ricevuto, ha mal tollerato i limiti posti dal sistema istituzionale. Basti pensare all’insofferenza diffusa nei confronti del ruolo e delle prerogative di organi che non godono di una legittimazione democratica diretta, come nel caso del Presidente della Repubblica o della Corte Costituzionale. Se poi si riflette sulle critiche sistematicamente rivolte nei confronti di uomini e istituzioni che, in solitudine, fanno appello alla necessità di garantire i principi dello Stato di diritto sempre e comunque, il quadro tratteggiato, volto a descrivere l’impopolarità di tale concezione, è forse ancora più intenso. Come interpretare altrimenti le recenti invettive nei confronti di Armando Spataro, reo di avere censurato la spettacolarizzazione dell’attività giudiziaria da parte della magistratura inquirente, la quale si auto attribuisce un dovere di moralizzazione della società? Come leggere la rivolta mediatica nei confronti della sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo contro la norma sull’ergastolo ostativo che viola apertamente il diritto a non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti? E cosa si dovrebbe dire dell’offensiva reale e virtuale nei confronti del Presidente Mattarella, poco prima della nascita del primo governo Conte, a causa della sua strenua difesa dei principi della democrazia parlamentare contro gli attacchi del populismo demagogico? Infine, come dovremmo considerare gli argomenti di chi, oggi, considera le opinioni contrarie al blocco della prescrizione come favorevoli a chi delinque? D’altronde proprio Sciascia era stato a suo tempo accusato di collateralismo con il potere mafioso poiché si era permesso di criticare la decisione del Csm di procedere alla nomina a procuratore capo in base a criteri non previsti dall’ordinamento, e cioè in base all’impegno antimafia. A ben vedere, siamo sempre di fronte al medesimo deficit, che tale è destinato a rimanere perché per colmarlo sarebbe necessaria una cultura politica di fondo adeguata. Una cultura che, purtroppo, è storicamente assente. La concezione dello Stato di diritto non fa parte, al di là del dettato costituzionale e di una certa retorica, del patrimonio culturale del nostro Paese. Non fa parte della classe dirigente, sia essa di sinistra, di destra, di centro, movimentista o pseudo tale. E non fa parte dell’opinione pubblica, strutturalmente animata da una miscela demagogica fatta di istinto di vendetta, astio nei confronti di coloro che rivestono posizioni di rilievo pubblico, morbosa curiosità che porta all’invasione della sfera privata. Siamo sì la patria di Beccaria, ma siamo diventati soprattutto la culla del populismo penale. A monte, a essere sempre stata minoritaria nel nostro Paese è un’autentica cultura liberale. È sempre mancato, in particolare, quel liberalismo sociale che coniuga, nella cornice dello Stato di diritto, il rispetto dei diritti individuali con il necessario intervento dello Stato per rimuovere le disuguaglianze materiali. Non a caso, il liberalismo di cui parlo non ha trovato cittadinanza né (ovviamente) nel fascismo, né nell’antifascismo (tranne che per alcune nobili eccezioni, quali il Partito d’Azione). Anzi per molto, troppo tempo, la sinistra italiana ha associato all’ideale della libertà individuale il rischio dell’ingiustizia. All’aspirazione ad essere liberi, l’esito della disuguaglianza. Alla protezione dei diritti individuali più in generale, la mal celata pretesa della borghesia di conservare ed estendere il proprio potere economico. Tutto questo ha contribuito al ritardo culturale del nostro Paese. Un ritardo che oggi diventa sempre più evidente e pericoloso di fronte all’ondata populista che, in nome di un popolo presunto, immaginario e arbitrariamente descritto, può travolgere le più basilari garanzie individuali. Essere consapevoli di questo ritardo condurrebbe già a compiere un passo in avanti. È una consapevolezza che soprattutto la sinistra deve acquisire. Se così non fosse, oltre a dubitare dell’esistenza in questo Paese di forze progressiste, bisognerebbe rassegnarsi all’abituale isolamento di chi si schiera a difesa dello Stato di diritto. L’ossessione di Sciascia rimarrebbe tale e a poco servirebbe constatare che chi, come lo scrittore siciliano a suo tempo, intende coniugare diritto e giustizia in verità ha ragione. Consulta, la Cartabia annuncia: “La Corte si apre alla società civile” di Liana Milella La Repubblica, 12 gennaio 2020 A cominciare dagli “amici curiae” si potrà entrare nei giudizi, sarà possibile raccogliere ufficialmente pareri al di fuori del perimetro della Corte. E infine nei giudizi sollevati da un giudice potranno partecipare soggetti interessati che avranno accesso agli atti. La Consulta “ascolta le voci di fuori”. Detto altrimenti “le voci di fuori entrano alla Corte”. È questo il primo passo che compie la nuova presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia, la giurista milanese votata all’unanimità dai colleghi giudici l’11 dicembre. In quei giorni, a far notizia, sembrava soprattutto il fatto che a presiedere il “giudice delle leggi” fosse, per la prima volta in Italia, una donna. Quasi oscurando l’identità giuridica di Cartabia, docente di diritto costituzionale che da anni lavora con i colleghi esteri, pronta a portare anche in Italia tutto quello che c’è di giuridicamente e proceduralmente utile in quelle esperienze. Eccola, allora, mettere a segno la prima scommessa. Le “voci di fuori”, ad esempio quelle degli “amici curiae”, entrano alla Corte dalla porta principale. Dopo la pausa di Natale, Cartabia appone la sua prima firma su una rivoluzione, neppure tanto piccola, nei giudizi della Corte. Un’apertura all’esterno - appunto a cominciare dai cosiddetti “amici curiae” - che potranno entrare nei giudizi dai quali finora sono stati tenuti fuori, alla possibilità di raccogliere ufficialmente pareri al di fuori del perimetro della Corte, infine al fatto che nei giudizi sollevati da un giudice entrino anche in questo caso soggetti interessati che avranno accesso agli atti. Si tratta di cambiamenti destinati a trasformare, nel tempo, il meccanismo del giudizio costituzionale. Le modifiche al regolamento, decise l’8 gennaio, saranno operative non appena verranno pubblicate sulla Gazzetta ufficiale. È una questione di giorni. Ovviamente riguarderanno i “giudizi futuri”, certo non ancora la decisione del 15 gennaio sul referendum leghista, ma sortiranno l’effetto di aprire il palazzo, rendere le decisioni più partecipi rispetto a opinioni differenti, che fino a oggi avevano spazio soltanto sui giornali. Pensiamo a tutti i temi etici, dal fine vita, alla fecondazione, alle coppie gay, all’ergastolo. In futuro invece, come accade nelle Corti europee, in quella dei diritti umani di Strasburgo ad esempio, gli “amici curiae” assumeranno un ruolo ufficiale. Scrive la Corte nella nota che ha reso pubbliche le novità: “Qualsiasi formazione sociale senza scopo di lucro e qualunque soggetto istituzionale, se portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione in discussione, potranno presentare brevi opinioni scritte per offrire alla Corte elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso sottoposto al suo giudizio”. Finora si trattava solo di memorie scritte, che per lo più restavano fuori dai giudizi. Come nel caso Cappato, quando la Corte a novembre ha deciso sull’aiuto al suicidio (che ha poi portato alla piena assoluzione di Marco Cappato). Un esperto come Massimo Donini aveva inviato dei pareri. Che però sono stati acquisiti solo in modo informale. In futuro quel contributo potrà entrare a pieno titolo nel giudizio e potrà assumere un peso nella decisione finale, dall’interno della Corte, e non solo come una qualsiasi opinione esterna. Degli esempi? I sindacati, la Confindustria, l’Anci o l’Ance, associazioni come la Coscioni, Antigone, Scienza e vita, il Garante dei detenuti, tant’è che Mauro Palma, che oggi riveste quel ruolo, già promuove il passo della Corte. Nel novero rientrano tutti quei soggetti che fino a oggi hanno cercato di partecipare alle decisioni, ma sono stati respinti perché la Corte era chiusa all’esterno. Oggi, in linea con la lunga tradizione Usa, la stessa Corte si apre alle associazioni senza scopo di lucro. Vedremo se soggetti istituzionali come le authority potranno entrare nei giudizi. Anche gli “esperti di chiara fama” potranno diventare interlocutori ufficiali della Corte, qualora essa “ritenga necessario acquisire informazioni su specifiche discipline”. Un confronto che si svolgerà in camera di consiglio, alla presenza delle parti del giudizio. E proprio sulle parti del giudizio arriva l’ultima novità, sicuramente quella che farà più discutere, perché “nei giudizi in via incidentale, proposti da un giudice nel corso di un giudizio civile, penale o amministrativo, potranno intervenire anche altri soggetti, sempre che siano titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato a quel giudizio”. Oltre ai 15 giudici, all’Avvocatura dello Stato per conto del governo o delle Regioni, agli avvocati delle parti coinvolte, diventerà ufficiale la presenza di chi, a prescindere dal caso specifico trattato, avrà un interesse all’esito della decisione. Per la Costituzione difendersi è un diritto inviolabile, ma ad alcuni non importa di Iuri Maria Prado Il Riformista, 12 gennaio 2020 Dunque la giustizia non funziona perché c’è troppa gente che fa appello. Non tutti lo dicono proprio apertamente (alcuni, i più disinibiti, sì): ma la teoria è appunto che la giustizia sarebbe affaticata per colpa dei troppi che impugnano le decisioni di cui sono insoddisfatti. E di qui il vagheggiamento, ma spesso proprio la proposta, di ridurre ulteriormente la possibilità che il cittadino chieda la riforma di un provvedimento ritenuto ingiusto. È pur vero che i processi sono tanti (ma sono tanti anche perché c’è una selva di leggi che incriminano tutto), ed è vero che gestirli efficacemente è difficile. Ma dietro lo schermo tecnico di queste rappresentazioni lavora oscuramente una concezione speciale e inconfessabilmente incivile della giustizia, e cioè l’idea che la difesa non costituisca un diritto da proteggere ma una specie di riprovevole insubordinazione che bisogna reprimere: l’atto di rivolta compiuto da chi osa non piegare la testa davanti alla celebrazione di un rito che si pretende impassibile. Chi chiede un secondo giudizio è dunque responsabile di una duplice colpa: quella di non accettare l’esito del processo, e quella di contribuire in tal modo ad aggravare il lavoro dei magistrati impedendogli di fare giustizia come si deve. Naturalmente, si spiega, con pregiudizio dei cittadini onesti, chiamati a pagare per l’intasamento provocato dai malvissuti che depositano ricorsi per conseguire impunità. Il fatto che la Costituzione della Repubblica dica che la difesa è un diritto inviolabile importa abbastanza poco. Così come è trascurabile la precisazione che quel diritto è inviolabile “in ogni stato e grado del procedimento”. Eliminiamolo, il diritto di ricorrere, di fare appello; e pace, poi, se a quel punto la nostra legge suprema proteggerà un diritto ridotto a un simulacro, perché non ha più nessuna sede di esercizio. Hai il diritto di pregare, ma ti smantello le chiese. La verità è che l’esistenza di quel diritto è assai mal sopportata, e quel che si suggerisce è che ad esercitarlo possa essere a tutto concedere l’innocente, così trascurando di considerare che innocenti, sempre per Costituzione, devono essere ritenuti tutti almeno sino alla decisione definitiva. Un impiccio insopportabile, per alcuni, e infatti la loro pretesa è che diventi definitiva la decisione unica, un colpo e via. Il sospetto che il diritto di impugnare una sentenza protegga un bene più vasto e importante, e cioè che lo Stato non sia sfrenato e incontrollabile nel suo potere di infliggere la violenza del processo e della pena, è completamente estraneo agli intendimenti dell’apostolato giudiziario. Si preoccupano della possibilità che il colpevole la faccia franca, e sono indifferenti davanti alla certezza che con la preclusione del diritto di difesa è l’ingiustizia di Stato a farla franca. Inutile inasprire pene, dalla Germania la ricetta per ridurre i morti sulle strade di Ricarda Concia Il Riformista, 12 gennaio 2020 Mi permetto di intervenire nel dibattito sulle morti stradali, perché da 20 anni mi occupo in Germania di “reati stradali”, della loro prevenzione e ho scritto migliaia di perizie. Cinquanta anni fa, nel 1970, in Germania abbiamo avuto più di 21.000 morti stradali, con 20 milioni di mezzi come macchine, moto, camion in circolazione. Nel 2017, 47 anni dopo, abbiamo avuto 3.180 decessi per incidenti stradali, ma nello stesso tempo 58 milioni di mezzi in circolazione e 20 milioni di abitanti in più. Questo significa quasi il triplo dei mezzi stradali in circolazione e nello stesso tempo l’85% dei morti in meno. Come è potuto accadere tutto questo? La tecnologia, la maggiore sicurezza dei mezzi in circolazione? No, non solo. Abbiamo messo in piedi un sistema di prevenzione rivolto a coloro che hanno commesso infrazioni stradali legate all’abuso di alcool, droghe e infrazioni ripetute. Un sistema che guarda oltre la semplice sanzione amministrativa, abbiamo introdotto un percorso che prevede la sottrazione di alcuni diritti civili come la patente che per essere riacquistata necessita di un percorso terapeutico molto profondo. Alla fine di questo percorso terapeutico/psicologico chi vuole riacquistare la patente deve sottoporsi ad una perizia medico-psicologica non prima di un anno dal momento in cui gli viene ritirata la patente. Un anno è un tempo lungo, in cui la persona a cui è stata ritirata la patente si confronta con le problematiche legate al fatto che non può guidare la macchina, con tutte le implicazioni legate alla vita quotidiana (spostamenti, lavoro, mobilità, relazioni, doveri familiari). In questo anno il cliente si deve misurare con i suoi comportamenti “distruttivi” e dimostrare di aver compreso fino in fondo le ragioni delle sue azioni (guida in stato di ebbrezza, guida spericolata) e essere consapevole di dover avere un nuovo approccio alla vita e al rispetto delle regole. Attenzione, non si alimenta in nessun modo il senso di colpa o il rimorso, anzi, l’unico strumento è quello della consapevolezza. I periti come me, vengono accreditati da un ufficio pubblico legato al ministero dell’Interno. Sono nata nel 1966 e non ho conosciuto famiglia in Germania che non avesse un parente o un amico morto di incidente stradale. Pensando alle tragedie di Roma e dell’Alto Adige, la mia esperienza mi induce a pensare che queste erano morti evitabili. La soluzione non può essere aumentare le pene, né il reato di omicidio stradale, perché già esiste in Italia come in Germania un reato che si chiama omicidio o omicidio colposo. L’unico strumento è quello della prevenzione. Prevenire cosa? È molto triste per me sapere che i casi di Roma e dell’Alto Adige hanno a che fare con comportamenti recidivi. Cosa è stato fatto per aiutare i due ragazzi colpevoli a non ripetere un comportamento “distruttivo” per gli altri e per se stessi? Comportamento che li ha portati a uccidere degli innocenti e anche a distruggere le loro esistenze. Cari amici italiani è inutile girarci intorno, la maggior parte delle persone che provocano morti stradali per droga, alcool o eccesso di velocità hanno dei problemi. Si tratta di affrontare il problema da una ottica razionalistica: chi presenta i problemi di cui sopra è un pericolo per se stesso e per gli altri, si può affrontare solo collettivamente. Italia, le stragi sono rimaste cieche di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2020 L’implacabile calendario della Rete fissa con esattezza le ricorrenze e ti obbliga a celebrarle. Nei giorni scorsi sono cadute, e sono state ricordate di seguito, tre ricorrenze di grandi fatti che hanno segnato in modo aspro e profondo la vita italiana. Parlo della strage di Piazza Fontana, della strage di Bologna e della uccisione mafiosa di Piersanti Mattarella. Impossibile non notare subito che, nella lista celebrata in sequenza di tre gravi crimini, solo uno (Mattarella) può essere definito con una parola (mafia) che i fatti successivi hanno confermato, in un contesto storico su cui hanno potuto lavorare e allargare la conoscenza dei fatti, giornalisti, giudici, storici e politica. Piazza Fontana, mentre la racconti oggi per chi non sa o dimentica, era e resta un fatto misterioso che appare più grande col tempo, proprio perché non ha un contesto (chi c’era, chi voleva, perché?) e non ha colpevoli. Una fitta rete di depistaggi ha contagiato e squilibrato subito ogni possibile ricostruzione dell’evento, pattuglie diverse di imputati si sono susseguite, in inchieste e processi diversi, alla sbarra, e non ci sono mai stati eventi a cui si possano accostare le parole verità o certezza. C’è voluto del tempo per passare dagli anarchici ai fascisti come presunti colpevoli. Ma il tempo e lo spazio si erano intanto dilatati al punto da isolare i fatti e trasformare la tragedia in faldoni, mentre l’attenzione si è voltata altrove. Si è sentito, questo sì, l’odore del potere, cioè la presenza di gente adatta per lavorare a una strage, gente che, almeno nell’ultimo ciclo di processi, non sembrava essere - o essere stata-tanto lontano dai mandanti. L’odore veniva da destra, ma giornalismo, libri e giudici non hanno potuto approfondire o sapere di più. La roulette di quell’evento di morte gira ancora e la pallina non si è fermata. La strage di Bologna, un evento molto più grande in tanti sensi, si è diretta verso un esito strano: personaggi sproporzionatamente piccoli della brutta vita italiana di quegli anni, rivengono presentati con sicurezza come gli autori di un evento grandissimo, che avrebbe dovuto avere per forza (salvo disgrazia) mandanti capaci di pensare e ordinare un cambiamento brutale della storia italiana. Invece ritroviamo di fronte al fatto più grave e arrischiato dello stragismo mai accaduto in Italia, affidato, come per caso, a dei giovani di passaggio, esperti solo in lotte fra bande armate, omicidi secondo decisioni personali o a scontri a fuoco con la polizia che li conosceva e li braccava. Viene in mente la domanda chiave: chi li ha mandati, considerata l’ampia scelta che gli organizzatori di un simile piano avrebbero avuto nel inondo febbrile e affollato de i tecnici dell’esplosivo, nei Paesi industriali e in Medio-Oriente in quegli anni? È utile ricordare una vicenda americana (terrorismo interno) paragonabile a Bologna per assurdità della strage e numero delle vittime (168 morti, tra cui 20 bambini): l’esplosione che ha distrutto l’edificio federale di Oklahoma City, funzionari e pubblico, il 29 aprile 1995.Anche in quel caso la polizia federale si è orientata subito a destra, in questo caso nel mondo religioso-fondamentalista che due decenni dopo avrebbe votato Trump. E ha puntato sul soldato McWeight, militante del culto, esperto di esplosivi, sulla base di una evidenza non smentibile. È stato lui a portare il furgone con l’esplosivo nel garage dell’edificio saltato in aria. E lo ha fatto nel “giorno della vendetta”. Infatti il 29 aprile di due anni prima la polizia federale, nel tentativo di indurre alla resa il predicatore fondamentalista David Koresh che distribuiva armi ai suo i fedeli, aveva provocato l’esplosione dell’edificio e la morte di sessanta militanti (20 bambini). Colpisce la differenza. Nella vicenda americana tutto è collegato e tragicamente ragionevole. La vicenda italiana ci presenta personaggi solitari e isolati che hanno compiuto una strage immensa senza che nessuno glielo abbia chiesto. Colpisce il fatto che l’ultimo processo di questi giorni, e l’ultima condanna all’ergastolo, tanti anni dopo i fatti che stiamo narrando, ci presenti un co-responsabile ancora più piccolo, ancora senza mandanti, spiegandoci che adesso la tragica storia ha avuto il suo sigillo finale. Invece la storia resta intatta con i suoi personaggi di sempre: il bisogno legittimo e appassionato di verità delle vittime e per le vittime; la proclamazione dei colpevoli, personaggi senza potere, senza know how e senza legami conosciuti o almeno intravisti con gli ideatori di un delitto che poteva cambiare la storia. E un vuoto che fa paura e che oltrepassale risposte date finora, persino se fossero vere: che cosa c’era (e forse che cosa c’è) dietro questa tragica scena che forse non è finita? Strage di Bologna, il fascista Cavallini non si pente e accusa i giornalisti di Lirio Abbate L’Espresso, 12 gennaio 2020 L’ex Nar ribadisce la sua estraneità all’attentato del 2 agosto 1980 e in aula, prima della sentenza che lo ha condannato all’ergastolo, punta il dito contro Espresso e Repubblica: “È tattica della diffamazione”. L’ex terrorista nero dei Nar, Gilberto Cavallini, condannato all’ergastolo per la strage della stazione di Bologna, prima di assistere alla lettura del dispositivo di sentenza della Corte di Assise, ha rivendicato in aula, con spontanee dichiarazioni, sue responsabilità passate, ma ha respinto ogni coinvolgimento in questo attentato del 2 agosto 1985 che provocò 85 morti e 200 feriti. Ha rivendicato il suo ruolo violento per altri episodi, per i quali dice di stare pagando, e ha puntato il dito contro l’informazione, con i giornali del gruppo L’Espresso e Repubblica. Il pensiero del Nar Cavallini è quello di accusare platealmente l’informazione per le inchieste giornalistiche che sono state pubblicate e per le notizie che sono state raccolte sul coinvolgimento del gruppo dei neri in questa strage. Cavallini ha sostenuto in aula che “è tutta strumentalizzazione che parte sempre da quei gruppi editoriali tristemente noti nel nostro Paese per la tattica della diffamazione, come il gruppo editoriale L’Espresso e Repubblica, che, non a caso, sono i referenti anche di molte persone qua dentro quando vogliono far sentire la loro voce”. Non si pente e accusa Espresso e Repubblica di “tattica della diffamazione”. Le dichiarazioni in Aula del fascista condannato all’ergastolo per l’attentato del 2 agosto 1980Radio Radicale Ecco, ancora una volta le nostre notizie vere e documentate fanno male ai protagonisti di queste storie che il giornalismo ha contribuito a far conoscere. E per questo motivo che continuano a diffondere pubblicamente il loro malessere per le nostre inchieste. È l’effetto del dito puntato. Se il giornalista colpisce con un sasso lo stagno immoto, il punto da cui partono i cerchi concentrici diventa l’obiettivo da colpire. Vuole questo Cavallini? Basta puntare il dito. Se un giornalista scrive certe cose in un clima stagnante, con una parte della categoria che rinuncia a un’autonomia di pensiero e la stampa che è ferma a guardare, quel giornalista o quella testata si espone. È una vecchia storia. Una storia che l’Italia conosce bene, si ripete ogni volta che il lavoro del giornalista, spesso lasciato da solo a raccontare fatti scomodi, si scontra con gruppi di potere e vuole fare luce sulle zone d’ombra dove questi gruppi conducono i loro affari e le loro relazioni. Nelle sue dichiarazioni Cavallini ha detto: “Se voi credete che dei ragazzini di poco più di 20, addirittura dei minorenni siano stati o siano la lotta armata o gli esecutori da parte di organi o gruppi di potere come la P2 o criminali come la mafia, come si sta cercando di far vedere in questi giorni a mio carico, fate un grosso errore e non fate un grosso servizio né alla verità, né al Paese”. Ed ha aggiunto: “Poi io sono pronto a subirne tutte le conseguenze perché mi sono imposto di accettare tutto quello che mi viene e di offrire la mia sofferenza a Nostro Signore, quindi non mi lamenterò neanche di questo. Però non accetto che tutto questo venga spacciato, presentato come una verità alla quale sia doveroso credere. Di quello che non ho fatto non mi posso pentire. Dico anche a nome dei miei compagni di gruppo che non abbiamo da chiedere perdono a nessuno per quanto successo il 2 agosto 1980. Non siamo noi che dobbiamo abbassare gli occhi a Bologna”. Cavallini è il quarto uomo della Strage della stazione come stabilito dalla Corte di assise. A questa decisione si è arrivati dopo sei ore e mezza di camera di consiglio, al termine di un processo durato quasi due anni, 40 udienze e una cinquantina di testimoni ascoltati. Già condannato a otto ergastoli per vari delitti, Cavallini è ora in semilibertà a Terni. Difficilmente sconterà la nuova pena inflitta che prevede il carcere a vita, quando e se sarà definitiva, visti i 37 anni in detenzione. Ma la sentenza è comunque un tassello in continuità con la verità giudiziaria che vede come responsabili gli altri tre Nar Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, compagni d’armi di Cavallini detto “il negro”, il meno giovane della banda. Il prossimo passo è verso i mandanti della strage. Strage di Bologna, con l’ergastolo a Cavallini seppellita la verità di Paolo Comi Il Riformista, 12 gennaio 2020 La sentenza che condanna all’ergastolo Gilberto Cavallini, ex esponente dei Nar (il gruppo armato neofascista guidato da Giusva Fioravanti e Francesca Mambro) per la strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, è allo stesso tempo scontata e scandalosa. Scontata prima di tutto perché senza mettere in discussione l’intero impianto che aveva portato, dopo cinque processi, alla condanna dei Nar (e di Fioravanti e Mambro che si sono sempre disperatamente dichiarati innocenti), era prevedibile che un processo celebrato a Bologna, dove il pregiudizio ha sempre avuto in materia la meglio sul giudizio, estendesse la responsabilità a Cavallini. Scandalosa perché proprio nel corso di questo processo sono emersi elementi che imporrebbero a qualsiasi giustizia degna del nome di rimettere in discussione quell’impalcatura, che era già fragilissima. Conviene ricordare alcuni fatti. In un albergo di fronte alla stazione di Bologna albergavano nei giorni della strage una o più probabilmente due donne che adoperavano falsi passaporti cileni. Detti documenti falsi provenivano da una partita adoperata dal gruppo del terrorista venezuelano, ma già interno al Fronte popolare per la liberazione della Palestina, Carlos. Quel giorno, alla stazione di Bologna, era certamente presente un terrorista tedesco delle cellule rivoluzionarie legato allo stesso Carlos. A farlo sapere, pur negando ogni responsabilità nella strage, era stato lo stesso Carlos, una decina di anni fa. È opportuno ricordare anche che la commissione parlamentare che si è occupata nella scorsa legislatura del caso Moro ha nel cassetto alcune informative del capoposto del Sismi a Beirut, colonnello Stefano Giovannone, ancora secretate, ma il cui contenuto è noto. Giovannone, nella primavera del 1980, preannunciava un imminente attentato in Italia, organizzato da una fazione dissidente del Fplp finanziata dalla Libia. Alcune settimane dopo, il principale agente italiano nel Medio Oriente, già uomo di fiducia di Moro, proseguiva informando della decisione di affidare l’attentato proprio a Carlos, che era per questo stato chiamato a Beirut e che si sarebbe avvalso però per l’esecuzione materiale di terroristi europei. In questa cornice, il ritrovamento dei passaporti falsi provenienti da una partita di documenti adoperati appunto da Carlos acquista un significato preciso. Poi c’è la questione di Maria Fresu. Le perizie tecniche hanno fugato ogni dubbio sul caso della salma di Maria Fresu. La donna era nella sala d’aspetto della stazione dove esplose la bomba, con la figlia piccola e due amiche, una delle quali sopravvissuta. L’amica e la figlia erano state uccise non dall’esplosione ma dal crollo del soffitto. La sopravvissuta ha sempre ripetuto che Maria Fresu era vicina a loro. Tuttavia la salma indicata come quella della donna era stata invece fatta a brandelli, come se si trovasse invece vicinissima alla bomba. Per decenni, di conseguenza, sono stati avanzati dubbi su quell’identificazione, senza trovare risposta. Stavolta, invece, è stato disposto l’esame del dna, che ha chiarito senza dubbi che quella salma non è di Maria Fresu. Si pongono così due interrogativi: chi sia la sconosciuta letteralmente polverizzata dall’esplosione e che fine abbia fatto Maria Fresu. Per chiarire l’ipotesi che quei resti appartengano a un’altra vittima, col che troverebbe risposta almeno il primo interrogativo, sarebbero bastati cinque esami del dna. Tante sono infatti le salme compatibili con quei resti sin qui attribuiti erroneamente alla giovane mamma sarda. La corte, con l’equanimità e l’ansia di arrivare a una verità non predeterminata che ha sempre caratterizzato l’atteggiamento della procura e del tribunale di Bologna, ha deciso di non disporre quegli accertamenti. In fondo, è stata la spiegazione, qui si giudica solo il ruolo di Cavallini. Verificare se alla marea di dubbi da sempre e da innumerevoli fonti avanzati sulla responsabilità dei Nar se ne dovessero aggiungere altri, ancora più corposi e forse decisivi, non rientrava nei compiti di quella corte. Ci penserà qualcun altro. Forse. Un giorno o a l’altro. Nel prossimo decennio o magari in quello dopo ancora. La condanna di Cavallini è ingiusta ma non sorprendente. La sorpresa, peraltro insperata, sarebbe arrivata se una corte di giustizia avesse deciso di infrangere la menzogna di Stato che sin dalle prime ore dopo la strage, in assenza di qualsiasi indizio, aveva deciso che mettere la bomba dovessero essere stati per forza i fascisti. Napoli. Radicali in visita alle carceri di Poggioreale e Secondigliano: il dossier di Fabrizio Ferrante ottopagine.it, 12 gennaio 2020 Giovedì 9 gennaio una delegazione dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo si è recata in visita nelle carceri napoletane di Poggioreale e Secondigliano. Presenti anche il deputato di Radicali Italiani, Riccardo Magi (a Poggioreale) e il garante dei detenuti della città di Napoli, Pietro Ioia, alle sue prime visite in carcere dopo la recente nomina. Le due strutture presentano condizioni profondamente diverse e nel caso di Poggioreale sono apparsi evidenti i problemi legati al sovraffollamento, alla pulizia degli spazi e alla sanità erogata con tempi lunghissimi, un problema questo riscontrato anche a Secondigliano. Poggioreale ospita al momento 2080 detenuti laddove la capienza è di 1682 posti mentre gli agenti penitenziari sono 748. La visita ha evidenziato profonde differenze anche fra i singoli padiglioni del maggior carcere napoletano: se le condizioni del padiglione Firenze (quello dei nuovi arrivi) e del nuovo padiglione Genova sono apparse incoraggianti, ben diverso è stato l’impatto coi padiglioni Livorno e Milano. Qui infatti si trovano celle con finanche nove detenuti stipati in spazi angusti con letti a castello a tre piani; riscaldamenti non sempre funzionanti e acqua calda disponibile solo poche ore al mattino, fino alle 10 circa. Nel padiglione Milano appaiono gravissime le condizioni della struttura, delle celle e delle docce in comune, quasi completamente ammuffite e mal funzionanti. I detenuti hanno inoltre lamentato la presenza di topi e insetti negli ambienti. Situazione migliore a Secondigliano, una struttura più nuova che ospita 1422 detenuti in 1080 posti. Qui il sovraffollamento è mitigato dalla presenza di 180 semiliberi. Le stanze sono quasi tutte da due con in più la presenza di alcuni cameroncini che ospitano tre detenuti. La delegazione ha visitato anche il polo universitario presente nella struttura, dove i detenuti hanno la possibilità di studiare e di laurearsi. Attive, grazie alla collaborazione con la Federico II, otto facoltà. A Secondigliano vi sono 1.100 agenti su 1.080 di pianta organica ma a causa di mansioni diverse a cui molti sono destinati, ne sono presenti effettivamente appena 575. Al termine delle visite ispettive hanno rilasciato alcune dichiarazioni l’avvocato Raffaele Minieri, segretario dei Radicali per il Mezzogiorno Europeo e l’onorevole Riccardo Magi. Questa la loro dichiarazione congiunta: “Il Governo e il Parlamento dovrebbero essere capaci di prendersi carico di un problema effettivo, gravissimo, che lede la dignità delle persone detenute. Questo populismo spinto impedisce di rendersi conto che esiste un problema vero che tocca da un lato la carne viva delle persone detenute e dei loro familiari e dall’altro lato la polizia penitenziaria e l’amministrazione. Infatti la situazione di Poggioreale è disperata e richiede un interesse effettivo e non di mera propaganda nell’interesse di tutti. A Secondigliano la situazione è migliore, ma è evidente la difficoltà del personale che è di fatto inferiore a quello previsto dalla pianta organica perché impegnato in ulteriori incombenze. Siamo convinti che se l’opinione pubblica sapesse quali sono le reali condizioni del carcere si renderebbe conto che lì non si sta scontando una pena ma si sta ledendo la dignità dei detenuti e degli operatori. In ogni caso il principale obiettivo è ridurre il numero delle presenze. In tal senso intendiamo impegnare la magistratura di sorveglianza, anche con il supporto della Corte Costituzionale, affinché faccia ciò che il legislatore per il momento non riesce a fare: dichiarare che la pena o è umana o non è”. Anche Pietro Ioia, garante dei detenuti della città di Napoli, è intervenuto al termine delle ispezioni rilevando che la struttura di Poggioreale è obsoleta e ha ribadito che andrebbe chiusa in quanto fatiscente e con enormi problemi legati alla sanità e al sovraffollamento, situazioni critiche che generano condizioni di ingiusta detenzione. Con l’occasione è stata anche annunciata la pubblicazione di report aggiornati su entrambe le strutture. Terni. Dalla cella ai fornelli, i detenuti diventano chef e pizzaioli ternitoday.it, 12 gennaio 2020 Al via il progetto Filar che prevede corsi di formazione per 48 reclusi di massima e media sicurezza nella casa circondariale di vocabolo Sabbione. Il sovraffollamento è solo uno dei male endemici che affliggono le carceri italiane. Al 31 dicembre 2019 (fonte, Associazione Antigone) nella casa circondariale di Terni erano reclusi 511 detenuti (di cui 111 stranieri) a fronte di una capienza massima di 411 posti. Nell’elenco dei mali da curare, il tema della recidiva assume contorni inquietanti se si considera che circa sette volte su dieci chi esce dal carcere, poi ci torna. E chi resta fuori, difficilmente trova lavoro, mandando in frantumi l’obiettivo “riabilitativo” della pena. Chi ce la fa, riesce a rioccuparsi solo dopo avere vinto una sfida spesso proibitiva, resa più complicata dai pregiudizi sociali verso gli ex detenuti, ma anche dal basso livello di educazione/istruzione ed ovviamente di esperienze lavorative pregresse. Questo il quadro generale in cui si inserisce il progetto Filar - Formazione per l’inclusione socio lavorativa nel settore della ristorazione - che prenderà il via lunedì 13 gennaio e sarà riservato a 48 detenuti in regime di massima e media sicurezza. L’iniziativa, unica nel suo genere, prevede il coinvolgimento diretto dei detenuti in due percorsi formativi nel settore della ristorazione commerciale/collettiva, uno in ambito culinario, “Preparazioni gastronomiche - Addetto alla cucina” che si svilupperà in due edizioni della durata di 120 ore ciascuna, ed uno riservato alla “Pizzeria”, sempre in due edizioni della medesima durata. Filar è stato finanziato dalla Regione Umbria - Servizio programmazione socio sanitaria dell’assistenza distrettuale-inclusione sociale, economia sociale e terzo settore - nell’ambito dell’avviso pubblico per la presentazione di proposte progettuali per l’inclusione socio lavorativa di persone in esecuzione penale - Por Fse 2014-2020 Regione Umbria-Asse 2. Vede come soggetto attuatore l’Ats tra Università dei Sapori (soggetto capofila), l’associazione di volontariato San Martino ed Iter Impresa Sociale. I detenuti avranno dunque l’opportunità di prepararsi ad un progetto di vita futuro capace di coniugare sapere e saper fare verso l’acquisizione di competenze coerenti con le esigenze del mercato del lavoro. Alla base del progetto Filar ci sono poi anche altre valutazioni: ad oggi i ristretti sono infatti occupati, quando possibile, soprattutto nelle attività correlate alla gestione quotidiana degli istituti penitenziari stessi (servizi di pulizia, cucina, manutenzione ordinaria del fabbricato ecc.), ma il sovraffollamento, la turnazione continua e la riduzione dell’orario di lavoro pro capite, necessarie per garantire un minimo livello occupazionale e una fonte di sostentamento, non consentono lo sviluppo di competenze professionali spendibili nel mondo del lavoro (inframurario e/o extra murario) né tanto meno possibilità formative. Ciò porta, come rilevato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ad un incremento esponenziale del tasso di recidiva, pari al 68%. All’uscita dal carcere, poi, riuscire a lavorare è, per gli ex detenuti, una sfida spesso proibitiva resa più complicata dai pregiudizi sociali verso gli ex detenuti, ma anche dal basso livello di educazione/istruzione ed ovviamente di esperienze lavorative pregresse. La formazione, posta al centro del progetto, ed il lavoro, come alternativa concreta alla recidiva ed al reato, sono i due obiettivi principali di Filar che tiene conto, nel suo sviluppo, sia delle prospettive occupazionali offerte dal settore, secondo l’ultimo rapporto Fipe, sono infatti oltre 1.252.260 gli occupati, sia di nuove attività ristorative inframurarie sorte in tempi recenti anche a livello nazionale: iniziative di ristorazione, attività di catering, pizzerie aperte al pubblico pagante o gestite interamente da detenuti. Napoli. Papà in carcere, madre e figlia dormono in auto da due mesi: “Cerchiamo dignità” di Ciro Cuozzo Il Riformista, 12 gennaio 2020 Da due mesi dormono in una Fiat Punto, l’unico bene in loro possesso. La signora Tonia, 54 anni, e sua figlia di 32 si ritrovano ogni sera nell’auto parcheggiata non molto distante da dove vivevano e dai cumuli di spazzatura che in queste settimane hanno invaso la città di Napoli e in particolare la sua periferia, quartiere di Pianura compreso. Sedute entrambe davanti, abbassano il sedile e provano a chiudere gli occhi per qualche ora, difendendosi anche dalle fredde temperature della notte. È dall’8 novembre che questo triste rituale si ripete quotidianamente, salvo rare eccezioni. “Tutto è nato quando hanno arrestato mio marito” racconta la signora Tonia. “Era maggio scorso e una mattina le forze dell’ordine sono venute a prenderselo dopo una condanna definitiva a 11 mesi per un episodio risalente a ben 10 anni fa”. L’uomo, che lavorava come parcheggiatore abusivo all’esterno di un cinema multisala della città, venne denunciato da un carabiniere in borghese che si rifiutò di pagare “l’offerta a piacere”. Dopo un decennio la giustizia ha presentato il conto e lo scorso maggio è finito nel carcere di Poggioreale. “Uscirà ad aprile - spiega la 54enne -, però nel frattempo noi abbiamo avuto difficoltà economiche sempre più grandi e a settembre scorso siamo state costrette a lasciare la casa perché non eravamo in grado di pagare l’affitto. Lui gli ultimi mesi potrebbe scontarli ai domiciliari ma - sottolinea - non abbiamo un domicilio”. Per circa due mesi sia la signora Tonia che la figlia sono riuscite a trovare ospitalità in una casa di riposo dove accudivano anziani e la notte restavano a dormire. “Poi il lavoro non è proseguito e ci siamo ritrovate in mezzo a una strada, senza soldi. Tra l’altro - racconta -mia figlia sta attraversando un periodo ancora più difficile a causa della scomparsa del marito”. Tonia invece da mesi non va a trovare il marito perché ha la carta d’identità scaduta e incontra difficoltà nel rinnovo. “Quando vado negli uffici comunali qui a Pianura mi creano sempre problemi” spiega rammaricata “eppure so che è possibile averla anche per chi non ha una dimora fissa”. La loro condizione precaria è stata segnalata da una cittadina alla pagina Facebook “Pianura e dintorni” che ha prontamente condiviso la denuncia raccogliendo centinaia di commenti di solidarietà in pochissime ore. In tanti si sono offerti di aiutare le due donne. Chi ospitandole a pranzo o a cena, chi mettendo a disposizione abiti, coperte o alimenti. Una signora si è detta pronta ad accoglierle in casa per i prossimi giorni. Ma Tonia e la figlia non se la sentono. “Abbiamo vergogna, non vogliamo invadere spazi non nostri. Vorremmo solo avere l’opportunità di lavorare e piano piano riprenderci uno spazio nostro, dove possiamo vivere senza problemi pagando l’affitto. Per il momento -aggiunge - preferiamo dormire in auto. Ringraziamo tutti per la solidarietà e la disponibilità mostrata, soprattutto quelle persone che in queste settimane ci ospitano durante la giornata a pranzo o a cena, consentendoci di farci una doccia e lavare lo stretto necessario. La notte però preferiamo non recare disturbo e torniamo in auto”. Intanto nel quartiere di Pianura c’è chi ha lanciato l’idea di fare una colletta per aiutarle a pagarsi almeno una piccolo monolocale per un paio di mesi. Locri (Rc). Avvocati e magistrati insieme per parlare di diritti e giustizia Corriere della Calabria, 12 gennaio 2020 Al centro del convegno, organizzato dall’Ordine locrese con la presenza di autorevoli relatori, i temi della tutela dei diritti e delle derive giustizialiste dell’opinione pubblica. Si è svolto il Convegno dal titolo “I diritti fondamentali e la loro tutela - Il ruolo di magistrati e avvocati in tempi di crisi della Giustizia” organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Locri. I lavori introdotti e coordinati dall’avvocato Nicola Enzo Crimeni (vicepresidente dell’Ordine) hanno avuto ad oggetto l’attuale crisi della normazione penale disarticolata dalle premesse fondative liberali e che risponde a alla domanda di giustizialismo populista, con una compressione dei diritti fondamentali sacrificati in ragione delle richieste di vendetta sociale e di accanimento punitivo che mal si conciliano con la nostra Costituzione e con gli altri principi generali dell’ordinamento. Ai saluti istituzionali dell’assessore comunale di Locri Anna Sofia, del presidente del Tribunale di Locri Rodolfo Palermo e del presidente dell’Ordine degli Avvocati di Locri Emma Maio, sono seguiti gli interventi dei relatori Vincenzo Ferrari (Ordinario di diritto privato dell’Unical), di Giovanni Bombardieri, procuratore della Repubblica Dda presso il Tribunale di Reggio Calabria, di Margherita Saccà, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cosenza e segretaria della sottosezione di Anm, e di Vincenzo Comi, vicepresidente della Camera Penale di Roma) i quali hanno delineato i vari aspetti della crisi del sistema in cui il legislatore demanda al ruolo interpretativo agli operatori del diritto, che nella diversità delle funzioni tra avvocatura e magistratura devono svolgere il compito arduo in un territorio come quello calabrese, dove spesso il cittadino ha un ruolo rinunciatario e rassegnato di partecipazione alla tutela della legalità. Dalla discussione è emerso comunque una sinergica visione di denuncia della normazione penale non corretta nei vari settori così come di un necessario ed efficace sistema di tutela del cittadino che non deve aspettare anni per conoscere l’esito del giudizio che lo veda imputato o parte offesa. Lo Stato deve garantire l’efficienza del processo che passa attraverso l’assunzione di giudici e operatori da destinare agli uffici giudiziari calabresi, ma soprattutto che completi e renda fruibili il nuovo edificio del Tribunale di Locri che come quello di Reggio Calabria delineano il fumoso e atavico impegno delle istituzioni per risolvere i basilari problemi del territorio, anche in raffronto al Nord dell’Italia dove si impegnano le risorse necessarie. Verona. Il Film Festival della Lessinia arriva nel carcere di Montorio veronanetwork.it, 12 gennaio 2020 Per il primo anno il Film Festival della Lessinia organizza, nella Casa Circondariale di Verona, “La montagna dentro”: una serie di incontri destinati a tutti i cittadini in esecuzione di pena. Il primo appuntamento è il 16 gennaio. Realizzata con la collaborazione della direzione del Carcere di Montorio, del corpo di Polizia Penitenziaria e dell’associazione MicroCosmo Onlus grazie al sostegno 8×1000 della Chiesa Valdese, la manifestazione prevede appuntamenti con i registi e i protagonisti del cinema della rassegna internazionale dedicata a vita, storia, tradizioni in montagna che si svolge ogni anno a Bosco Chiesanuova (Verona). L’iniziativa nasce per condividere spunti di discussione sulla realtà sociale e ambientale, aprendo simbolicamente le porte delle celle a un confronto che offra, oltre all’intrattenimento, la possibilità di una crescita culturale e un momento di riflessione dei detenuti con autori e protagonisti delle opere selezionate, giornalisti, operatori culturali e sociali sia interni che esterni alla struttura penitenziaria. Dal 2011 il Film Festival della Lessinia lavora con la direzione della Casa Circondariale e l’associazione MicroCosmo onlus - realtà nata 20 anni fa come laboratorio per la valorizzazione della partecipazione attiva delle persone detenute - al progetto “La montagna dentro”. La collaborazione si è sviluppata attorno alla formazione e al coordinamento delle attività della Giuria dei detenuti del Carcere di Verona che assegna il “Premio della giuria MicroCosmo dei detenuti del Carcere di Verona” per il miglior film presentato in concorso al Festival oltre alla possibilità, per alcune persone detenute in regime di articolo 21, di prestare servizio di volontariato durante lo svolgimento della manifestazione. Il ciclo di proiezioni si sviluppa, quindi, all’interno di un progetto pluriennale di percorsi di formazione, integrazione e riabilitazione, in cui l’audiovisivo è il mediatore culturale tra la struttura penitenziaria e il territorio. L’audiovisivo diventa il veicolo di riflessioni e approfondimenti a fini didattici e pedagogici nonché strumento di sensibilizzazione sulle tematiche socio-ambientali. La montagna e l’ambiente naturale si pongono come anello di congiunzione fra il dentro e il fuori dal carcere e fra un prima e un dopo nell’esperienza della detenzione. La manifestazione prenderà il via il 16 gennaio con la proiezione di “Honeyland” (film che ha ricevuto le nomination per miglior film straniero e per miglior documentario agli Oscar 2020) e terminerà il 2 aprile. Cagliari. La musica classica tra i detenuti del carcere di Uta La Nuova Sardegna, 12 gennaio 2020 Il ViolaFest, rassegna organizzata dal Conservatorio per ricordare il musicista Pietro Farulli. Il suo nome è legato a quello del Quartetto italiano, celebre ensemble di cui la Nasa volle una registrazione da inserire in un disco da inviare nello spazio per far conoscere i suoni della Terra. In realtà il violista Piero Farulli, classe 1920 (morto nel 2012) fu molto di più, con quella sua idea della musica non solo come strumento d’elevazione dell’essere umano, ma anche di integrazione sociale. È nel suo nome che, a cento anni dalla nascita, il Conservatorio di Cagliari, in collaborazione con l’associazione italiana della Viola, propone il ViolaFest, iniziativa ideata e organizzata dal docente di viola del “Da Palestrina”, Dimitri Mattu. Da lunedì 13 a mercoledì 15 gennaio saranno tre giornate scandite da masterclass, concerti, conferenze e momenti di approfondimento. Senza dimenticare, come sarebbe piaciuto a Farulli, l’impegno sociale, con un concerto la mattina del 15 nel carcere di Uta. In occasione del festival è previsto l’arrivo di musicisti con solide esperienze internazionali alle spalle come Naomi Barlow, fondatrice e presidente del Centro sperimentale di musica per l’infanzia, il cagliaritano Giovanni Pasini, che dopo numerose esperienze in giro per il mondo è ora prima viola della Qatar simphony orchestra, sino a Dorotea Vismara, presidente dell’associazione italiana della viola. “Proporre questa manifestazione è per noi motivo di immenso orgoglio- dice il direttore del “Da Palestrina”, Giorgio Sanna- Nel centenario della nascita di un grande maestro che credeva nella diffusione della musica e della didattica proponiamo un calendario di iniziative che prevedono anche momenti di specializzazione gratuiti aperti a tutti”. “Questo festival ha un significato culturale e sociale di forte impatto - sottolinea invece il presidente del “Da Palestrina” Gianluca Floris. Il Conservatorio è un presidio democratico e sociale”. Durante la tre giorni sono in programma masterclass gratuite con Dorotea Vismara, Naomi Barlow e Giovanni Pasini. I tre artisti nei giorni del festival saliranno anche sul palco con i professionisti sardi, ma anche con gli allievi di viola che si esibiranno nel concerto finale del 15. Si comincia lunedì alle 10,30 con il primo dei quattro concerti in programma: protagonisti saranno i violinisti Maria Elena Runza e Lucio Casti, il violista Dimitri Mattu, il violoncellista Vladimiro Atzeni, la pianista Angela Oliviero: proporranno musiche di Nino Rota e Anton Webern. In serata si prosegue con un nuovo concerto alle 19, mentre il giorno dopo, alle 18 recital di Giovanni Pasini e Angela Oliviero. Il violinista Attilio Motzo e il violista Gioele Lumbau saranno protagonisti il 15 mattina del concerto per i detenuti del carcere di Uta mentre in serata, alle 20,30, gran finale con il l’esibizione delle orchestre del ViolaFest dirette da Giacomo Medas. Ancora: la mattina del 14 è in programma una tavola rotonda tra dirigenti e docenti dei Conservatori e dei licei musicali e delle scuole civiche di musica della Sardegna, con l’obiettivo di rafforzare la loro collaborazione. Danno il loro contributo all’evento anche l’Ente concerti Marialisa De Carolis e l’associazione Incontri Musicali. Le chat dei genitori. Pericolo pubblico? di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 12 gennaio 2020 Quello che scriviamo e non dovremmo. Potrebbe essere un buon titolo per un film, ma per adesso è solo un consiglio. Attenzione, le conseguenze non sono soltanto personali, professionali, sociali, sentimentali. Possono esserci anche conseguenze giudiziarie. Quello che scriviamo in chat e non dovremmo. Potrebbe essere un buon titolo per un film, ma per adesso è solo un consiglio. Attenzione, le conseguenze non sono soltanto personali, professionali, sociali, sentimentali. Possono esserci anche conseguenze giudiziarie. Un gruppo WhatsApp è entrato, per la prima volta, in un’aula di tribunale. Se ne sono accorti alcuni genitori di Ferrara: convinti che un’educatrice dell’asilo-nido fosse responsabile di maltrattamenti - una sculacciata a una bimba di due anni - hanno creato un gruppo per cercare altre testimonianze. Da quel momento, ogni episodio di irascibilità, incubi o piccole regressioni dei figli veniva ricondotto alla maestra, subito licenziata. Durante l’istruttoria, in sede penale, è emerso però che, nel gruppo dei genitori, “qualcuno aveva la tendenza a drammatizzare o esagerare le dinamiche che avrebbero potuto essere anche nella normalità di un asilo”. Per il giudice, le chat hanno creato un allarme crescente, creando fenomeni di suggestione. La maestra è stata assolta con formula piena (sentenza 161 del 30 dicembre). Ora potrà chiedere un risarcimento. Apprendo questo da un commento sul Sole 24 Ore di Marisa Marraffino, brillante avvocata toscana. Ci siamo conosciuti tramite il forum Italians nel 2010, in occasione del suo pirotecnico arrivo a Milano. È stata tra i primi a capire che i comportamenti in rete non sono irrilevanti, dal punto di vista giudiziario; e nuovi strumenti - i social e le chat, soprattutto - avrebbero introdotto questioni nuove, in materia di privacy, reputazione e diffamazione. Non sono altrettanto perspicaci altre persone che conosco. Spesso persone con esperienza e responsabilità. Per loro, i social sono un parco-giochi. I gruppi WhatsApp, una sorta di zona franca, dove tutto è consentito. Sghignazzare e fare battutacce come adolescenti in libera uscita, o peggio: insultare questo e quello, bestemmiare, sparare battute razziste, trattare le donne come oggetti (con tanto di foto). Una volta si diceva: linguaggio da caserma. Nelle caserme, oggi, dicono: linguaggio da chat. Che può finire in tribunale: imbarazzando anche coloro che, su quella chat, si sono comportati con buon senso. Suggerisco un doppio esame: di coscienza, e dei nostri gruppi WhatsApp. Ricordando una regola (che ho trasformato nel mio motto professionale): meno è meglio. Quanti diritti violati anche in Europa di Marco Cappato Il Riformista, 12 gennaio 2020 Se la legalità dell’uccisione del generale iraniano Soleimani da parte degli Usa ha aperto un dibattito sul diritto umanitario internazionale, il rispetto dello Stato di Diritto internamente all’Europa resta un argomento tabù. Si stigmatizzano giustamente i vari Orbán o Kaczynski senza però entrare nel merito della negazione dei principi fondamentali dell’Unione europea. La Polonia, in particolare, rappresenta uno dei casi più emblematici ed eclatanti di erosione dello Stato di Diritto: attacchi che ruotano principalmente attorno al controllo governativo del sistema giudiziario nazionale attraverso pre-pensionamenti di giudici, il loro differente trattamento a seconda del genere, frequenti azioni disciplinari e intimidazioni pubbliche nei confronti della magistratura con il fine di favorire nomine di figure filo-governative. Azioni strategicamente organizzate e culminate con la recente approvazione da parte della Camera bassa polacca della legge contro l’autonomia dei giudici che, tra le altre cose, fissa pesanti sanzioni per “chi critica nomine e fa attività politica” arrivando a prevedere “l’esclusione dei magistrati che nuocciono al funzionamento del sistema di giustizia”. Il messaggio è chiaro: l’amministrazione della giustizia in Polonia la controlla il potere esecutivo e non quello giudiziario. Anche di fronte alle decisioni della Corte europea di giustizia, come quella che ha stabilito che la norma polacca sulle pensioni è contraria al diritto europeo, o le iniziative intraprese dal Parlamento europeo sulla Polonia, il Governo di Varsavia non sembra intenzionato a deflettere dalle sue azioni reazionarie. E siccome oltre ai principi universali a far le spese di queste politiche autoritarie sono tutti i cittadini, la società civile polacca continua a mobilitarsi. Oggi si tiene a Varsavia una marcia promossa da un’ampia fetta della magistratura polacca alla quale ho deciso di partecipare perché, assieme a varie organizzazioni in giro per l’Europa, ho co-promosso un’iniziativa dei cittadini europei per il rispetto dello Stato di Diritto nell’UE preparata dal Movimento europeo di Piervirgilio Dastoli, ma soprattutto perché la tanto proclamata “cittadinanza europea” implica l’essere presenti e attivi là dove la Legge viene violata: calpestare i diritti dei polacchi vuol dire calpestare i diritti di chi vive in Europa - indipendentemente dalla nazionalità. La manifestazione, convocata dall’organizzazione Iustitia democracja, partirà dalla Corte Suprema e arriverà al Parlamento per denunciare l’attacco sistematico di cui lo Stato di Diritto è vittima in Polonia. Si tratta del primo caso in cui il potere che dovrebbe essere “terzo” per antonomasia si è pubblicamente appellato ai propri colleghi di tutta Europa, ma anche agli avvocati, per denunciare questo gravissimo attacco a uno dei principi cardine della civiltà giuridica occidentale - se questo termine ha ancora un senso visto quel che accade dalle nostre parti. Una quindicina di anni fa furono gli eurodeputati radicali ad attivarsi a Bruxelles perché l’Italia venisse messa in mora per la violazione dello Stato di Diritto. Il casus partiva dal ritardo nell’elezione di un paio di giudici della Consulta per arrivare alla mancata proclamazione di una dozzina di seggi della Camera dei Deputati, elencando altre “sacche di illegalità costituzionale” rappresentate da quello che Pannella chiamava il “caso Italia”. Non si arrivò a una presa di posizione nel merito, ma fu pur sempre una prima volta, anche se in Italia non se ne parlò. A maggior ragione oggi, che l’UE s’è dotata di uno strumento per la partecipazione diretta dei cittadini, specie in casi in cui le violazioni sono macroscopiche e note all’opinione pubblica continentale, occorre che le denunce siano portate avanti nei “palazzi” e nelle “piazze” con sinergie pan-europee. La manifestazione non prevede adesioni di partiti, ormai una costante conferma di come la politica tradizionale non sia più ritenuta portatrice di interessi pubblici o dotata della reputazione necessaria per promuovere riforme di libertà o giustizia giusta. Tra i convocatori, oltre a Iustitia Polska, Themis Judges Association, Defensor Iuris, Pro Familia, Free Courts, Lex Super Omnia, Family Judges Association. Gruppi di varia provenienza e orientamento uniti nel pretendere che i trattati internazionali, nella fattispecie quello sul funzionamento dell’Unione europea, vengano rispettati in tutte le loro parti e, se negati, vengano attivati i meccanismi previsti per sanzionare violazioni strutturali della legalità costituzionale e degli obblighi internazionali di uno Stato membro. In quell’occasione rilanceremo anche l’Iniziativa formyrights.eu che chiede un rafforzamento del ruolo istituzionale dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali e la creazione di un meccanismo imparziale di valutazione e verifica dell’applicazione del diritto europeo da parte degli Stati membri. Polonia. Giudici di tutta Europa in piazza contro la riforma della giustizia di Andrea Tarquini La Repubblica, 12 gennaio 2020 Migliaia di persone con loro per dire “no” alla legge che sottopone la magistratura al controllo del governo. Almeno un migliaio di giudici polacchi hanno aperto il corteo sfilando in toga. Al loro fianco, magistrati italiani, tedeschi, francesi, spagnoli, venuti in tutto da una ventina di Paesi dell’Unione europea. La “marcia delle mille toghe” ha percorso in silenzio oggi pomeriggio il centro di Varsavia. Con almeno 25mila partecipanti. È stata la più importante manifestazione a livello europeo per difendere l’indipendenza della magistratura, gravemente minacciata dalle nuove leggi del governo di maggioranza sovranista al potere dall’autunno 2015 nel più grande paese orientale membro di Ue e Nato. La legge approntata dal partito di governo PiS (nazionalpopulista, sovranista ed euroscettico) e approvata lo scorso mese dalla Camera polacca istituisce un forte controllo politico sulla magistratura e secondo la Ue non rispetta i Trattati europei. Potrebbe ancora essere bocciata al Senato, dove l’opposizione ha una debole maggioranza. “Diritto alla nostra indipendenza”, “Diritto all’Europa”, si leggeva negli striscioni tenuti dai giudici. Il presidente di Iustitia, l’associazione dei magistrati polacchi che ha promosso la marcia, Krystian Markiewicy ha detto all’agenzia Reuters: “Non siamo abituati a scendere in piazza in toga per difendere il diritto di ognuno ad avere la garanzia di una giustizia indipendente, ma abbiamo deciso di organizzare la manifestazione per proteggere i cittadini”. Presenti anche molti magistrati italiani della Anm, e di Magistratura democratica e di altre organizzazioni. “Chiediamo la creazione di un sistema di monitoraggio del rispetto dei valori dello Stato di diritto”, ha dichiarato Marco Cappato, presidente dell’Associazione Luca Coscioni, aggiungendo: “Le aggressioni contro i magistrati polacchi non sono solo un problema interno del Paese, ma un attacco alla libertà di tutti i cittadini europei”. Dunja Mijatovic, commissario ai diritti Umani del Consiglio d’Europa, denuncia la legge come “strumento per far tacere ogni voce critica dei giudici”. La Corte suprema polacca ha ammonito che “se entrerà in vigore, ci farà uscire dalla Ue”. L’esecutivo ha detto che “la riforma mira solo a rendere la giustizia più efficiente”, accusando i giudici, “cui non spetta far politica e marciare in piazza”. Dura risposta del giudice irlandese John McMenamin al corteo delle mille toghe: “Non ci schieriamo in politica, difendiamo lo Stato di diritto”. Perché l’indipendenza dei giudici polacchi riguarda tutti i cittadini europei di Elisa Chiari Famiglia Cristiana, 12 gennaio 2020 Se un Governo limita l’indipendenza della giurisdizione nel cuore dell’Europa, il tema non è “interno”, interessa i cittadini di tutta l’Unione, perché c’è di mezzo la democrazia e l’uguaglianza delle persone davanti alla legge. L’11 gennaio 2020 i giudici polacchi si sono dati appuntamento in piazza per una marcia silenziosa a Varsavia. Denunciano, in mezzo all’Europa, un’involuzione riguardo al tema, cruciale per ogni sistema che voglia definirsi democratico, dell’indipendenza della magistratura. “Assistiamo”, scrivono nell’appello che convoca la manifestazione, “ad un’ulteriore involuzione della crisi sistemica dello stato di diritto in Polonia, innescata da riforme che hanno gravemente compromesso l’indipendenza del sistema giudiziario e del suo sistema di governo autonomo. Dopo la pronuncia della Corte di Giustizia dell’ UE del 19 novembre 2019 e quella della Corte Suprema di Polonia del 5 dicembre, che ha ritenuto il Consiglio di Giustizia (Krs) organo non indipendente, il Governo polacco ha presentato un progetto di legge che limita gravemente la libertà dei giudici, sia nell’attività giurisdizionale che in quella associativa: sono previste gravi sanzioni disciplinari (fino alla destituzione) per i giudici che daranno attuazione ai principi della sentenza della Corte di Giustizia e in relazione agli obblighi di dichiarare l’appartenenza ad associazioni o a valutazioni critiche espresse sull’operato di altre Istituzioni. Inoltre, le decisioni che riguardano i tribunali e i giudici sono trasferite ai Presidenti di tribunale direttamente nominati dal Ministro della giustizia”. Sembra tutto molto lontano, ma nel momento in cui tutto questo avviene e non è la prima volta - anche in Ungheria ci sono state spinte nella stessa direzione - nel cuore dell’Unione europea ci riguarda tutti. Lo stesso tema dell’indipendenza della magistratura che ci può sembrare astratto ci riguarda come cittadini europei e dunque anche italiani. Si tende forse distrattamente a pensare all’indipendenza della magistratura come a un privilegio di categoria, in realtà quell’indipendenza - interna del singolo giudice riguardo ai rapporti gerarchici all’interno della sua istituzione, ed esterna del terzo potere rispetto agli altri due e soprattutto ai Governi - è ciò che più ci garantisce come cittadini uguali davanti alla legge. L’indipendenza, formale e sostanziale, dell’organo chiamato a giudicare e a giudicarci, il fatto che non possa essere condizionato dall’esterno, spostato a piacimento di qualcuno, ricattato in termini di carriera, è ciò che ci consente di non essere, citando Orwell, “meno uguali degli altri” in giudizio quando a ledere i nostri diritti è un potente, un ente economicamente più grande di noi. E tanto più deboli siamo singolarmente, tanto più dobbiamo difendere quell’istituto dell’indipendenza della giurisdizione, che sempre, nel civile e nel penale, agisce a garanzia della parte più debole. La storia dei sistemi democratici, e segnatamente delle democrazie pluraliste occidentali, anche in linea teorica procede in direzione del rafforzamento dell’indipendenza della giurisdizione. In quella direzione vanno i principi base delle Nazioni unite del 1985, ribaditi ed esplicitati nella Carta Europea sullo Statuto del Giudice del Consiglio d’Europa del 1998. È del 2000 la raccomandazione del Consiglio d’Europa che pone il problema di garantire l’indipendenza effettiva del Pubblico Ministero, indicando di fatto il modello italiano dell’indipendenza dell’Ufficio di procura, come un ideale cui tendere nell’ottica di una sempre maggiore armonizzazione dei sistemi giudiziari dell’Unione. Nella Rome Charter, approvata dal Consiglio consultivo dei Pubblici ministeri europei nel 2014, si afferma che: “L’indipendenza e l’autonomia dell’ufficio di Procura costituisce un corollario indispensabile dell’indipendenza della giurisdizione”. Se la teoria della separazione dei poteri è nota fin dal Settecento, teorizzata da Montesquieu, la sua attuazione subisce continue spinte controspinte, nella tentazione mai sopita dei poteri esecutivi di rivendicare una libertà governare svincolata da lacci e lacciuoli, che quasi sempre si accompagna all’accusa di “supplenza” (volendo dire “sconfinamento”) da parte terzo potere e che nella sua versione estrema porta alla pretesa di Governi con pieni poteri, al di sopra di ogni legge. Di solito sono i Governi sotto cui i cittadini non vivono liberi, che l’Europa ha conosciuto e che farebbe bene a non dimenticare, se vuole restare un’istituzione - con una storia di diritti e di libertà da preservare e in cui riconoscersi - capace di garantire i suoi cittadini. Grecia. Moria, filo spinato e droga: inferno greco per migranti di Angela Ricci Il Manifesto, 12 gennaio 2020 Nei container-prigione dell’isola di Lesbo, tra psicofarmaci e muri, vivono 21 mila persone che chiedono di entrare in Europa. La maggior parte è afghana. Ieri l’ultimo tentativo di approdo finito in naufragio ha causato almeno 12 vittime. Ancora una tragedia dei migranti ieri nel mar Egeo, con il naufragio di un’imbarcazione che ha causato la morte di almeno 12 migranti, tra cui alcuni bambini. Ci sono 21 superstiti, salvati dalla Guardia Costiera che precisa che le operazioni di salvataggio continuavano a sud est dell’isola greca di Paxi, ma ci sarebbero anche molti dispersi, pochissime le speranze di trarli in salvo, perché a bordo dell’imbarcazione ci sarebbero stati almeno 50 migranti, alcuni dei quali pare fossero afghani. Secondo Unhcr, l’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati, nel 2019 sono stati 74.500 i migranti passati dalla Turchia alla Grecia, molti finiti sulle isole, in particolare a Lesbo. E infatti a Lesbo c’è una giungla, la stessa di Calais. Umanità alla deriva, come nel Mediterraneo. Un vero inferno, a 2.000 chilometri da Bruxelles. “Non abbiamo acqua, non abbiamo elettricità. Moria problem!”. Così i ragazzini dell’enorme campo profughi, nell’isola greca di fronte alla Turchia, che hanno guidato la protesta nei giorni scorsi mentre gli adulti andavano a recuperare legna fra gli ulivi per garantirsi, almeno, il minimo di calore e luce durante la lunga notte che non passa mai. Gli attivisti del Nord Est e i volontari di Lesvos Calling (fra cui Stefano Ferro, consigliere comunale di Coalizione Civica a Padova) sono tornati a Moria all’insegna della solidarietà espressa anche riempiendo furgoni con i generi di prima necessità. Alle donne e alle ragazze è stato consegnato il “kit” con assorbenti biodegradabili, detergente e abbigliamento intimo: la campagna di finanziamento dal basso a sostegno dell’iniziativa, gestita da Banca Etica, aveva superato i 4 mila euro. La situazione a Moria sta continuando a deteriorarsi, giorno dopo giorno. È entrata in vigore la nuova legge del governo di Atene e si ripetono, soprattutto all’alba, i rastrellamenti della polizia greca “a caccia” di chi non ha documenti o è stato “bocciato” (spesso senza nemmeno saperlo) nella richiesta di asilo. I container-prigione all’interno della “zona rossa” - protetta da muri e filo spinato - sembrano ormai più che sovraffollati. E gira la voce incontrollabile di un suicidio e di episodi di autolesionismo fra chi rischia il rimpatrio o, peggio, il respingimento in Turchia. “Rispetto alla mega-tendopoli di Idomeni nel 2016, nelle isole dell’Egeo le condizioni sono vieppiù peggiorate”, sottolinea Marco Sirotti di Melting Pot Europa, “È impossibile non vedere quanta droga gira nel campo, insieme agli psicofarmaci prescritti con ricetta dagli operatori della zona controllata istituzionalmente. E se al confine fra Grecia e Macedonia i migranti erano bloccati sul binario ferroviario da un confine presidiato, a Moria la loro prospettiva è solo l’isolamento in una sorta di lager dove si aspetta da anni un destino che lascia indifferente l’Europa”. In poche settimane, le tensioni si sono moltiplicate. Dietro i “mercatini” di una città straniera a pochi chilometri da Mitilene, la capitale dell’isola, c’è il racket che controlla la vendita dei bancali come la prostituzione minorile. E se le Ong di mezzo mondo si sforzano di offrire sopravvivenza in una gigantesca catastrofe umanitaria, i pasti “ufficiali” vengono distribuiti in vere e proprie gabbie oppure mancano le cure mediche più elementari specialmente ai neonati. “The jungle is for animals, not for humans”, ripetono gli abitanti del campo di Moria. Aegean Boat Report (fondata nell’estate 2015 dal norvegese Tommy Olsen) contabilizza nelle statistiche di fine anno 26.974 arrivi a Lesbo, a bordo di 726 imbarcazioni: nel 2018 i migranti approdati erano stati 14.969 con 371 fra gommoni e piccole barche. La guardia costiera turca nel 2019 - in base all’accordo con l’Unione europea - ha bloccato nel Mar Egeo altri 3.140 migranti all’inizio della traversata, su 973 imbarcazioni. In totale sono 21mila i migranti nel campo di Moria che chiedono - molti da più di due anni - di entrare in Europa. La costa di Skala Sikamineas è un paesaggio eloquente: bottigliette di plastica, relitti dei gommoni, giocattoli, indumenti, giubbotti di salvataggio. E il mare quotidianamente restituisce pezzi del puzzle di storie, vite, identità che hanno sfidato le onde nell’ultima tappa della lunga fuga. Sulla cima del monte, un ex caseificio abbandonato è stato trasformato in centro di prima accoglienza: aree protette, un piccolo ambulatorio, il magazzino di vestiario. Nei giorni scorsi l’associazione Lighthouse Relief ha potuto contare sull’aiuto della delegazione italiana per poter rimettere in funzione la warehouse che era stata bersaglio di una serie di vandalismi. Il bollettino di dicembre pubblicato da Lighthouse Relief (che garantisce soccorso e assistenza durante gli approdi dei gommoni lungo la costa nord di Lesbo) parla di 2.034 persone, di cui 525 bambini e 210 minori non accompagnati. Fino a Moria, è arrivato anche un ex soldato iraniano. Ha disertato dopo aver combattuto le truppe di Daesh. Si ritrova la cicatrice nel ventre squarciato da una lama. E con mille peripezie alle spalle nella lunga Odissea comune a chi fugge dal Medio Oriente fatica a capire com’è la sua nuova vita in quest’angolo di Europa. Deve soprattutto nascondersi, più invisibile degli altri invisibili del campo che dall’autunno si è allargato a dismisura. La netta maggioranza dei migranti riproduce in terra greca le diverse etnie dell’Afghanistan. Gli ultimi arrivati hanno “colonizzato” un’intera collina di ulivi, dove si accumulano montagne di rifiuti che per altro contrappuntano l’intero campo di Moria. Paradossalmente, proprio gli afgani rischiano di essere rimpatriati in quello che è definito come “Paese sicuro”. Alcune famiglie occupano i container Unhcr, ma molti uomini e ragazzi sono costretti in tenda con l’inverno che avanza. Curdi, siriani, iracheni cercano di riprodurre le rispettive comunità. Non mancano gli africani che si riuniscono anche in preghiera, ma che a volte innescano scintille di risse. Si ritrovano tutti insieme in fila davanti al compound della burocrazia biblica, cui sono affidate le pratiche di asilo sempre più spesso sprovviste di un’effettiva assistenza legale (in particolare nel caso dell’unico ricorso possibile). “Noi continuiamo a lavorare con i migranti, anche nelle assemblee e nei luoghi in cui sono loro i veri protagonisti: corsi di ogni genere, laboratori creativi, ristorazione, spazi di inclusione”, racconta una giovane turca che ha dovuto (e scelto) di vivere a Lesbo, “Mosaik, Medici senza frontiere o Hope Project lo dimostrano. I migranti qui non sono soltanto individui invisibili che hanno accettato il loro destino tragico e aspettano l’aiuto degli occidentali. Fra Natale e Capodanno, non sono mancati momenti di festa con tavole aperte offerte dai greci”. E a Moria torneranno presto gli attivisti e i volontari del Nord Est, che a febbraio saranno anche lungo la rotta balcanica di quest’esodo biblico verso l’Europa. Quei corridoi umanitari che salvano le vite in mare di Elisabetta Rosaspina Corriere della Sera, 12 gennaio 2020 In aereo invece che in barca, subito accolti come rifugiati. Un modello di immigrazione gestito da Sant’Egidio (a costo zero per lo Stato). Escono dal corridoio, entrano in una normalità che avevano dimenticato o che non hanno mai conosciuto. Sono 2.482, in Italia, e non sono più soltanto dei numeri. Sono una donna del Sud Sudan e i suoi 8 figli, di cui la primogenita incinta. È il bebè siriano di undici mesi al quale i chirurghi dell’ospedale Bambin Gesù di Roma hanno trapiantato il fegato appena in tempo prima che morisse. È la coppia di studenti universitari, lei biologa lui architetto, che stanno mettendo i loro cervelli al servizio del Paese che li ha accolti. Anzi, del Paese che è andato a cercarli nel tugurio dove sopravvivevano in Libano, un giorno dopo l’altro in attesa di nulla o, peggio, di un gommone sul quale attraversare il Mediterraneo e forse morire. Noor, siriana, adesso fa ricerca sulla fibrosi cistica in un ospedale romano. Ad Assan, suo marito, mancano tre esami per la laurea italiana in architettura. Poco tempo dopo l’hanno raggiunto in Italia il padre e la sorella, Kamila, archeologa, che ora ha finito gli esami all’Università Federico II di Napoli e sta preparando la sua tesi. Non hanno più la mamma, ma a Roma c’è qualcuno orgoglioso dei loro progressi come se lo fosse: Daniela Pompei, responsabile del servizio migranti e integrazione della Comunità di Sant’Egidio, vive ogni successo dei suoi beniamini con l’emozione e il compiacimento di un parente stretto. Le vacanze di Daniela - Quando nell’estate del 2014, dopo mesi di esplorazione con un gruppo di esperti giuridici nei meandri della legislazione europea, ha scovato l’articolo 25 del Regolamento (CE) n. 810/2009, una clausola trascurata che autorizza i paesi dell’Unione a rilasciare visti umanitari “a territorialità limitata” (validi soltanto per il paese che li emette), Daniela ha capito di non aver sprecato le sue vacanze. E per migliaia di ancora inconsapevoli profughi siriani, afghani, somali, eritrei, yemeniti, sud sudanesi si è profilata l’unica rotta legittima e sicura per lasciare tende e scantinati in Libano, in Etiopia o a Lesbo, in Grecia, capolinea della loro fuga da guerre e massacri. I corridoi umanitari. Una migrazione a norma di legge. Mutuata recentemente anche da Belgio, Francia e Andorra. Per ottenere ciò che spetterebbe loro comunque, i profughi non devono passare attraverso i taglieggiamenti e le violenze di scafisti e trafficanti, nè rischiare di affogare nel Mediterraneo: “Arrivano in aereo a Fiumicino con un visto regolare per l’Italia rilasciato prima della partenza - puntualizza Daniela Pompei -. Appena atterrati chiedono asilo politico alla polizia di frontiera e in pochi mesi la situazione viene definita. Nel 98,8% dei casi lo status di rifugiati è stato riconosciuto dalle commissioni territoriali”. Le cifre - Ancora qualche cifra. Secondo i dati di Sant’Egidio, il 92% dei profughi è costituito da famiglie, e i bambini rappresentano il 40%. Il 64% è di religione musulmana, il 33% cristiana. Il 25% era in condizioni di salute molto critiche, tre persone erano così malate da non riuscire a sopravvivere, ma in compenso ci sono state 15 nascite e vari matrimoni. Ad accoglierli sono stati 94 comuni di 17 regioni italiane, con in testa rispettivamente Roma e il Piemonte. Costo per le casse dello Stato: zero. I corridoi umanitari dall’Etiopia, comprese accoglienza e integrazione, sono finanziati, oltre che dai benefattori di Sant’Egidio, da una parte dell’8 per mille incassato ogni anno dalla Conferenza Episcopale Italiana; e, quelli dal Libano, da parte dell’8 per mille della Tavola Valdese. Il primo - “È stato il Papa ad aprire il primo corridoio umanitario da Lesbo” ricorda Daniela Pompei. Era la primavera del 2016 e, dopo essersi congratulato durante l’Angelus con Sant’Egidio per l’iniziativa, il Pontefice aveva contattato la Comunità: era in partenza per visitare il campo profughi dell’isola greca e intendeva portare in Italia qualche famiglia. Daniela lo precedette e individuò tre famiglie, in tutto 21 siriani, nove dei quali sono saliti sull’aereo papale di ritorno a Roma il 12 aprile. Gli altri li hanno raggiunti poche settimane dopo. “Tutto ciò è stato reso possibile dal protocollo d’intesa firmato nel dicembre 2015, e rinnovabile ogni due anni, con il ministero degli Interni e quello degli Esteri, dopo un anno di laboriose trattative”. L’accordo raggiunto prevede che i promotori dei corridoi umanitari siano “sponsor” o garanti dell’accoglienza dei profughi almeno fino al riconoscimento del loro diritto d’asilo. Il benestare del governo - “I tecnici dei ministeri si erano opposti all’inizio, ma il presidente di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, il moderatore della Tavola Valdese, Eugenio Bernardini, e il presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche hanno scritto all’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e il negoziato è proseguito”, fino al benestare di Gentiloni e di Angelino Alfano, allora ministro degli Interni nel governo di Matteo Renzi. “Siamo partiti con la richiesta di duemila visti, abbiamo chiuso a mille - rammenta Daniela Pompei -. Il primo volo verso l’Italia è partito nel febbraio 2016”. Se già salire su quell’aereo era una vincita alla lotteria per quanti lasciavano l’affollato campo di Tel Abbas nel nord del Libano, il dispiegamento di energie per ospitarli assomiglia a un miracolo: “Non soltanto strutture, associazioni e parrocchie. Si sono mobilitati famiglie e privati - racconta Daniela -. Una maestra elementare in pensione, che vive al sud ma insegnava in Toscana, ha messo a disposizione l’appartamento acquistato a Lucca con i suoi risparmi. E non è la sola. Molti connazionali hanno chiamato da tutta Italia offrendoci in comodato gratuito la loro seconda casa”. Li ripagherà sapere che i loro sforzi producono risultati al di sopra delle aspettative. Quasi 400 dei loro ospiti già lavorano stabilmente e gli altri studiano o prestano servizio civile. Quei bambini smarriti, rifugiati per sempre di Floriana Bulfon L’Espresso, 12 gennaio 2020 “Per noi è come stare in prigione”. Nei campi profughi continuano gli arrivi. Mentre la guerra in Siria continua e si dimentica la speranza di tornare a casa. Marea ha nove anni ed è barricata in tre metri per due di plastica bianca. Fuori una distesa di vite incagliate in un mare di fango. Marea però non le vede. Chiude gli occhi e trema ogni volta che il vento scuote la tenda aprendo uno squarcio luce. È così da quando lo scorso ottobre nel suo giardino ha visto “il cielo piangere”. Lo chiama così l’attacco turco che ha distrutto la sua casa a Qamishli in Siria. Da allora il suo mondo s’è chiuso in questa monade, d’unità assoluta e minimale. Settore D, n° 24 del campo rifugiati di Bardarash, nel nord est del Kurdistan iracheno. È qui insieme a 10mila persone, in una terra dove i profughi si stratificano. L’ondata di curdi siriani cacciati da Recep Tayyip Erdogan e abbandonati dagli americani, si aggiunge a quella dei compatrioti iracheni scampati dalla furia di Daesh. Solo in questa provincia i campi che ospitano il popolo in fuga sono una ventina. E ogni volta che la situazione sembra assestarsi, una nuova emergenza mette a dura prova il paese. A Bardarash avevano già iniziato a smontare, convinti che tutto fosse finito e invece si ricomincia e c’è persino chi come Ahmed vive un eterno ritorno: “Ho quindici anni ed è già la seconda volta che faccio avanti e indietro dalla Siria”. L’Organizzazione internazionale delle migrazioni nel 2008 parlava di un numero di sfollati interni “senza precedenti”. Erano oltre 2 milioni. Oggi è ancora peggio: si sono aggiunti altri 230mila rifugiati come Ahmed e Marea. Sovrapposti l’uno sull’altro, mutano l’essere e lo stare mentre niente attorno sembra cambiare. Si muovono a tentoni cercando di inventare una quotidianità. C’è chi vende banane e sigarette portando le ceste di plastica al collo e chi come Ibrahim difende i libri dalla pioggia. “Avevo appena superato il test per accedere alla scuola di inglese. Mi ero impegnato tanto, invece ora non potrò inscrivermi”, spiega. Una donna gira tra le pozzanghere con una cartellina piena di fogli. “Non riesco a fargli usare altri colori. Solo il rosso e il nero. Questi bambini hanno paura delle luci e dei rumori perché pensano ai bombardamenti, vivono un senso di smarrimento”. Anna Pelamatti è una psicologa e lavora per l’ong italiana Aispo, legata all’ospedale San Raffaele di Milano che qui gestisce un centro di salute mentale e sostegno per minori. Fuad urla e se la prende con tutti: a sei anni disegna sempre la stessa casa con dentro un uomo. Gli cadono i fulmini in testa. È suo padre, rimasto in Siria per difendere le poche cose rimaste. Haia invece colora di nero una guerriera che difende i bambini. In realtà è sua zia Sena. Ha quarant’anni e l’ha adottata. Sena cerca il cherosene che è già finito e guarda sempre in basso “perché ho vergogna di stare qui”. Arriva da Afrin, il cantone più a est del Rojava, il primo occupato dai turchi: “da lì siamo andate a Kobane, scappiamo da due anni. Da Daesh e da Erdogan che vuole terrorizzarci per far lasciare l’area libera così da ripopolarla. È un progetto di sostituzione etnica. Ma io voglio tornare per riprenderci la nostra vita”. La mamma di Marea invece vuole tirare fuori dall’inferno sua madre e sua sorella. I trafficanti per portarle fino al confine chiedono 400 dollari. “Per scappare ho venduto gli orecchini d’oro, loro non li hanno”. Altri pensano di scavare un buco sotto alla recinzione, vogliono raggiungere le case dei parenti. “Qui è come stare in prigione”, dicono. Le forze di sicurezza pattugliano e concedono il permesso solo dopo accurati controlli, perché tra le tende potrebbero essere nascosti i terroristi del sedicente Stato Islamico, scappati dopo il collasso dei centri di detenzione siriani. La rete dell’Isis è già dispersa sui monti, nelle zone contese tra Baghdad ed il Kurdistan, e ha dimostrato di saper sopravvivere alle peggiori disfatte, adattandosi in fretta alle nuove condizioni sul campo per mettere a segno altri massacri. Fuori dalla cinta del campo un signore cammina stretto nel suo completo blu. È elegantissimo, le scarpe lucide. Si chiama Samman el Daniel e ha un bel negozio di tende. È uno sfollato da Mosul, scappato proprio da quel Califfato “che non è un’organizzazione terroristica ma un’ideologia: se non viene combattuta su questo piano non verrà mai cancellata”. È qui da tre anni. Guarda dentro Samman e si augura che “escano da lì e si rimettano in piedi”. Ritrovare la normalità e dover accettare che la normalità siano cimiteri e cemento spezzato di case distrutte in ondate di battaglie combattute fino alla morte. Ferite sempre aperte e tentativi di cancellare un mosaico di identità diverse per imporre un’unica etnia e una sola religione. È la “terra adorata separata da un tratto sottile chiamato confine” evocata dal poeta Hemin Mukriyani. Oggi il Kurdistan iracheno è una regione indipendente e abbastanza stabile, ma segnata da anni di crisi finanziaria, stipendi del personale pubblico in ritardo e poche possibilità di lavoro. Una sessantina di chilometri a sud-ovest di Arbil, il campo di Makhmour ospita ancora 12mila curdi turchi fuggiti nel 1994 durante l’offensiva contro con il Pkk, il partito dei lavoratori di Ocalan considerato da alcuni paesi un’organizzazione terroristica. Meno di duecento chilometri più a sud, a Barika, i rifugiati curdi scappati dall’Iran in un paio di decenni hanno trasformato una situazione precaria in permanente e hanno di fatto costruito una città. Accanto altri curdi fuggiti dalla guerra iniziata in Siria nel 2012. E poi arabi e yazidi iracheni: ad Asthi sono oltre 10mila. Rasha Ahmed è arrivata qui nel 2015, ha ventisei anni ed è separata. Era un’estetista prima che le bandiere nere negassero ogni possibilità di bellezza femminile. E allora si è data da fare. In una tenda ha aperto il salone di cosmetica dove accorrono decine di donne. “Si chiacchiera e ci si trucca. Bastano due euro, vanno per la maggiore sopracciglia folte e mèche bionde. Ma per le grandi occasioni il make-up richiede ore”. Accanto, tra bandoni di latta e insegne di organizzazioni umanitarie che nel tempo sono passate qui, si apre la magia. Una tenda atelier dove sono esposti abiti da sposa. Rasha compra stoffe in conto vendita e le confeziona. Prezzo medio 300 euro. “Perché qui ci si sposa, si fa anche festa ed è un diritto di tutte noi farci belle per vivere”. In fila ci sono una ragazza araba e una yazida. “Abitiamo insieme, ci stiamo riuscendo anche se Daesh ce lo voleva impedire, nonostante tutto non gliel’abbiamo permesso”, spiega Murad Salih. Arriva dal Sinjar ed è un sopravvissuto, la gente è stata sterminata. Anche Murad si è inventato un lavoro perché “tutti vorrebbero tornare a casa, ma non possiamo. È pericoloso, i terroristi di Daesh stanno attaccando di nuovo, c’è il rischio che risorgano. E allora ho pensato di mettermi a disposizione, di aiutare a salvare esseri umani”. Murad ogni mattina apre le porte della clinica che fornisce assistenza medica, ginecologica e vaccinazioni di Emergency. È il loro logista: accoglie i pazienti, controlla il generatore di corrente, la presenza dell’acqua, ripara i piccoli e grandi problemi. Qui vicino a Sulimani, città verso il confine della frontiera iraniana, Gino Strada ha aperto anche un centro di riabilitazione. Era il 1998. I pazienti vengono sottoposti a trattamenti di fisioterapia, all’applicazione di protesi e possono frequentare corsi di formazione professionale per imparare un lavoro compatibile con la disabilità. Uno dei primi a ricevere aiuto è stato Muhamed Saied Dilashad, colpito da un razzo iraniano a inizio degli anni Ottanta. Da allora non ha più il braccio sinistro. Se ne sta seduto accanto a un ragazzino che indossa con orgoglio la maglietta del Napoli. “Ciao, italiano?”, gli sorride. Nulla da fare, tiene la testa bassa e trema. Muhamed lo consola: “Vedrai che potrai giocare a pallone”. Daud è arrivato stamattina da un villaggio vicino a Mosul. Era in giro a portare le pecore ed ha appoggiato un piede su una mina. Ha perso la gamba sinistra e la mano. A quattordici anni. In questo centro di Emergency artigiani modellano sogni, fogli materici che diventano arti. Sono ortopedici come Shadman Murad-khan Shakaram. Quando aveva diciassette anni viveva ad Halabja, non lontano da qui. “Era guerra da giorni, ma quando abbiamo visto gli aerei sembrava bello, perché non c’è stato un rumore forte. Abbiamo pensato “siamo fortunati, le bombe non sono esplose”. E invece erano armi chimiche di Saddam Hussein. Ci siamo salvati solo perché eravamo poveri, vivevamo in periferia e il vento si è messo a soffiare dall’altra parte”. Un’uccisione pianificata, nei villaggi sparsi tra le montagne al confine con Iran gli abitanti portano ancora i segni. Shadman aiuta tutti perché si sente fortunato. E non importa che entrino anche iracheni che in quegli anni facevano parte dell’esercito oppressore. Qui si realizzano gratuitamente protesi per arti per riprendere la vita. Daud a fine giornata sorride. Il padre gli ha portato un pallone e lui tira un calcio forte contro il muro. Oltre duecento chilometri più in su Marea stringe con una mano la mamma e con l’altra la dottoressa Pelamatti. Un passo alla volta affonda nelle pozzanghere anche se fuori piove ancora. Iran. Zone di guerra di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 12 gennaio 2020 Ora l’Iran ammette l’abbattimento del Boeing che ha provocato la morte di 176 civili anch’essi iraniani, molti con doppia nazionalità. Dopo l’intervento della guida suprema Khamenei che aveva chiesto “una indagine onesta e la verità” erano state consegnate a Kiev le scatole nere, e ora l’ammissione: “È stato un errore”. Rialzano la voce sui duri del regime sotto tiro per l’assassinio di Soleimani, i moderati come il ministro degli esteri Zarif e e il premier Rohani che accusano: “I colpevoli pagheranno” e definiscono “imperdonabile” l’abbattimento. È quasi una resa dei conti. Anche perché è una specie di auto-bombardamento, per ora molto più pesante in termini di sangue di ogni ritorsione possibile che poteva arrivare da Trump. Così, mentre il potere a Teheran anche per effetto dell’abbattimento del Boeing è sotto accusa e torna in piazza la protesta studentesca perfino al grido “Khamenei vattene”, a Washington lo psycho presidente canta vittoria su tutti i fronti e mette in un angolo la timida protesta dei democratici, quasi archiviando il voto sul veto ai poteri di guerra presidenziali. È lo stesso Trump del quale non riusciamo a dimenticare il ghigno furbastro, quando dopo avere annunciato dure risposte all’attacco pur “telefonato” dei missili iraniani contro la base in Iraq, ha detto con smorfia malcelata: “Qualcuno si è sbagliato”, parlando del disastro del Boeing. Era quasi sorridente lo staff militare che gli stava intorno Casa bianca. In un colpo solo, dopo l’uccisione di Soleimani, la risposta di Teheran - con tanto di informazione a Iraq e Usa del lancio dei missili - era senza vittime americane e allo stesso tempo gli iraniani si sono colpiti da soli “per errore”. Poi ieri la verità e la sequela di orrore mediatico, non bastasse quello vero, che mette sotto accusa la sola “barbarie” iraniana che abbatte un aereo civile. Quasi a voler dimenticare che la gerarchia della guerra, nella fattispecie americana, ha passate e presenti responsabilità - anche perché uccidere Soleimani, il numero 2 iraniano e leader in pectore del Paese, vuol dire dichiarare guerra all’Iran e di fatto dichiararla “zona di guerra”. E poi come si può dimenticare l’abbattimento di un aereo civile iraniano con 290 persone a bordo (66 erano bambini) sui cieli dello stretto di Hormuz da parte di due missili della nave Vincennes nel 1988 contro quello che “per errore” l’aviazione Usa definiva un aereo militare. Nelle parole del presidente Ronald Reagan era stato “un atto di autodifesa verso quello che si credeva fosse un aereo militare iraniano”, anche allora in una zona di guerra, dichiarata tale da Washington che contro lo “Stato canaglia” avevano armato l’allora “nostro” Saddam Hussein. Uno stile, non dell’errore ma dell’”orrore umano” per il quale non c’è giustificazione che tenga, ma che a quanto pare viene fatto proprio anche dai militari e dai pasdaran di Teheran. Perché quell’aereo o è stato scambiato per un inizio di raid aerei Usa contro obiettivi nella capitale iraniana; oppure - peggio e davvero sarebbe molto più criminale - è stato abbattuto perché tornando in difficoltà di volo all’aeroporto di partenza, rischiava di precipitare mettendo a repentaglio obiettivi militari sensibili. Ecco che si riaprono troppe “zone di guerra” nella crisi iniziata con la scellerata eliminazione di Soleimani, l’uomo che ha guidato la campagna contro l’Isis in Siria e già interlocutore per gli stessi Stati uniti in molte aree di conflitto come l’Afghanistan. Senza dimenticare l’Iraq e la Siria dove non è ancora finita: ora a Baghdad manifestano perché vogliono un Paese non più sotto il gioco di Stati uniti e Iran; a Idlib invece Stato islamico e al-Qaeda festeggiano l’uccisione di Soleimani. Non esistono più, se mai sono esistiti, obiettivi solo militari nella guerra. Nella modernità, almeno a partire dalla guerra civile americana, il poeta e scrittore Herman Melville testimoniò l’invenzione di cannoni e bombe al solo scopo di incendiare le città. Tanto più con la nuova guerra hi-tech con protagonisti computer e droni. Del resto le guerre “umanitarie” occidentali hanno avuto come scopo non dichiarato - è bastato chiamare le vittime civili “effetti collaterali” - di terrorizzare le popolazioni, trasformarle in fuggiaschi, spingerle a rivoltarsi e così isolare politicamente i governi nemici. La “zona di guerra” nella globalizzazione dei conflitti trova una sanguinosa legittimità. Le consuetudini civili, la vita di tutti i giorni, le vie sotto casa e perfino il divertimento - a Teheran così si devono sentirsi anche grazie a Trump - in città, paesi e coste dove brulicano micidiali basi militari nascoste da parchi e boschi, sono a nostra insaputa da tempo diventate zone di guerra. Varrebbe la pena o no lavorare per la costruzione di “zone di pace”? Iran. Più delle bombe fa paura la povertà di Mahya Karbalaii L’Espresso, 12 gennaio 2020 Da quando sono cominciate le sanzioni i prezzi sono folli. A causa dell’aumento dei costi crollano i matrimoni, le cure dentistiche, gli sport. Lo scontro aperto coinvolge un Paese già stremato dalle sanzioni. E anche in questi giorni drammatici sembrano essere le preoccupazioni economiche in cima ai pensieri degli iraniani. In Fadak Boulder Hall, Shiva inizia ad arrampicarsi su una via. Prima sistema le dita della mano destra su un appiglio e poi quella di sinistra. Avvicina il suo corpo al muro, premendo le dita dei piedi su due mini-appoggi. In una frazione di secondo, lancia il suo corpo magro ma muscoloso verso l’alto e afferra un appiglio. “Brava! Sei un mostro!”, gridano le altre ragazze nella sala per incoraggiamento. Tre giorni alla settimana la Fadak Boulder Hall in Piazza di Tajrish, a nord di Teheran, è riservata esclusivamente alle donne. Negli altri giorni della settimana, tranne il venerdì che è festivo, possono allenarsi gli uomini. Con la separazione dei sessi, le ragazze possono esercitarsi in top e pantaloncini. Arrampicarsi è diventato molto popolare negli ultimi anni, anche perché Teheran è circondata da montagne che offrono luoghi meravigliosi per scalare. Per la preparazione o durante l’inverno, tanti però si arrampicano nelle palestre. “Da quando che le sanzioni sono tornate, le attrezzature per l’arrampicata sono diventate talmente costose che quasi nessuno può più iniziare”, spiega Nasreen Abdolrahimi, 34enne, Campionessa asiatica di Ice e Dry Tooling. “Mentre un anno fa un paio di scarpe da arrampicata straniere costava 7 milioni di Rial (150 euro) oggi ne costa 40 milioni (circa 850 euro). Ora per 7 milioni di Rial puoi trovare solo un marchio iraniano. Ho acquistato la mia ascia per l’arrampicata su ghiaccio nel 2017 per 15 milioni di Rial. La stessa ascia oggi costa 180 milioni di Rial. I prezzi sono così folli, che cominciare questo sport oggi è assolutamente impossibile”. Nasreen, che si arrampica sin dalla bambina, lavora come allenatrice da 15 anni. “Nella nostra sala boulder, abbiamo avuto un’idea per far praticare più possibile questo sport: quando i ragazzi acquistano un nuovo paio di scarpe, chiediamo loro di donare le loro vecchie scarpe alla palestra. In questo modo, i nuovi arrivati possono iniziare l’allenamento senza i costi iniziali dell’attrezzatura”. Sebbene questa geniale idea abbia aiutato molti giovani a provare il Boulder, meno persone possono permettersi l’ingresso alla palestra, visto che la situazione sta diventando più dura in Iran. “Abbiamo sicuramente meno di metà delle iscrizioni rispetto a un anno fa”, continua Nasreen, “Diverse persone hanno perso il lavoro e quindi non possono permettersi di pagare per lo sport o molti di loro lavorano su due turni o più ore e non hanno tempo di venire in sala”. Shiva, che ha già fatto Top sulla via, si toglie le sue scarpe di marca La Sportiva. È un dentista e lavora in due ambulatori; uno nel centro della città e l’altro nel nord, il quartiere dei benestanti. Nei giorni in cui lavora al nord, viene ad arrampicarsi prima o dopo il lavoro, a seconda dei suoi turni. Con 18 anni di esperienza, guadagna molto più della media in Iran, ma anche il suo settore è influenzato dalle sanzioni, così come le sue entrate. “I prezzi dei materiali per l’odontoiatria aumentano di settimana in settimana”, spiega Shiva, “fino a due anni fa potevamo effettuare grandi ordini di materiale, oggi a causa dell’inflazione, i fornitori non lo accettano. Ad esempio, la scatola per l’anestesia del carpool costava 750 mila rial; oggi costa 4,5 milioni di rial. Il dental bonding ora costa 8 milioni di rial, mentre prima ne costava 3. I prezzi dei compositi si sono quadruplicati”. Sebbene Shiva e il suo partner provino a mantenere le loro tariffe più basse possibile per non perdere molti clienti, non c’è quasi nessuna richiesta di cure non essenziali come lo sbiancamento dei denti o l’ortodonzia. “Le persone ora vengono solo per problemi urgenti. Per adulti e bambini la situazione è diversa: mentre a volte gli adulti cercano di usare antidolorifici per un po’, non esitano a portare i loro figli non appena hanno dolore a un dente. Tuttavia, anche qui vedi un cambiamento: oggi, si limitano solo a dove c’è un dolore e pospongono il fissaggio di un altro dente a quando c’è un vero problema”. Effettivamente le sanzioni stanno cambiando i modelli di consumo in vari settori. L’Iran è il secondo mercato più grande di cosmetici in Medio Oriente, dopo l’Arabia Saudita. Ma adesso i saloni di bellezza sono frequentati solo dalle famiglie ad alto reddito e per servizi che non possono fare da soli, come il taglio dei capelli. Le cerimonie nuziali in Iran sono normalmente grandi feste in cui gli sposi spendono molti soldi per la preparazione in cosmetici e in abiti. “Anche in questo settore abbiamo meno clienti”, si lamenta Fariba. “Se un anno fa, in un mese avevamo in media 15 spose, adesso abbiamo a malapena una sposa al mese”. In realtà con la situazione che peggiora, tanti cercano di emigrare dal paese. Ma ci sono anche alcuni che cercano di sfruttare la mancanza di concorrenti e la crescente domanda per i prodotti che ora non entrano dall’estero. “Le sanzioni hanno diversi effetti negativi nel breve periodo”, spiega Ahmad Sadeghian, fondatore e membro del consiglio di amministrazione della società Tak Makaron, uno dei maggiori produttori di pasta in Iran, “Ma hanno anche buoni effetti a lungo termine. Se non abbiamo accesso ai mercati esteri per acquistare determinati beni, alla fine impareremo a produrli”. La carenza di materie prime straniere e anche i loro prezzi più elevati ha portato diversi produttori a sostituire le loro esigenze con la produzione locale. Questa nuova tendenza incoraggia i produttori locali a migliorare la loro qualità al fine di costruire un rapporto più forte con i loro nuovi clienti. “Il mercato dei prodotti iraniani è diventato abbastanza competitivo ora”, continua Sadeghian, “inoltre, per far fronte alla nuova situazione economica, molte aziende iraniane hanno capito che se vogliono sopravvivere, devono gestire i propri costi. Alcuni anni fa, le persone potevano gestire la propria attività con minore attenzione alle spese. Tuttavia le recenti difficoltà li spingono a diventare più efficienti. Ciò spiega anche in parte perché alcune aziende hanno licenziato la forza lavoro in esubero”. La necessità di modernizzare i metodi di gestione attira alcuni consulenti dai paesi sviluppati da parte di tante aziende iraniane. Tak Makaron è un esempio che ha assunto degli esperti dal Belgio per poter produrre una farina di migliore qualità. “Attualmente i nostri consulenti vivono nella città di Yazd”, afferma Sadeghian, “e trovano l’Iran pieno di potenzialità. Conosco altri consulenti stranieri in altre società. Puoi sempre trovare alcune persone nel mondo, che la pensano diversamente. Se dobbiamo imparare e migliorare, perché non dovremmo usare questi esperti?”. Ma, naturalmente, non è facile trovare quei manager che sono disposti a vedere il lato dinamico dell’Iran. “Durante l’ultimo periodo delle sanzioni, molti paesi partecipanti hanno perso un mercato considerevole”, dice Alireza Kolahi Samadi, membro del Board of Representatives della Camera di commercio di Teheran. “Ad esempio la produzione dei pezzi d’auto: per decenni, i produttori iraniani sono stati affezionati ai prodotti tedeschi, ma durante le ultime sanzioni, siamo stati costretti a trovare queste parti altrove. Anche se inizialmente avevamo paura del mercato cinese, gradualmente lo abbiamo capito sempre meglio. Alla fine abbiamo identificato i produttori di qualità e stabilito una solida relazione con loro. Con la revoca delle sanzioni nel 2015 in alcuni settori non avevamo più bisogno di prodotti europei. Lo stesso scenario può ripresentarsi. Le collaborazioni con gli indiani si stanno sviluppando molto bene ora. Se sostituiamo i produttori europei, perché dovremmo cambiare in seguito?”. “Ogni paese desidera vivere in pace”, continua Kolahi, “Ma ciò che in realtà gli Stati Uniti stanno imponendo a tutto il mondo, si basa solo sul loro potere economico. Bisogna chiedersi quanti dei movimenti statunitensi e le loro politiche estere sono legali a livello internazionale”. Le industrie iraniane hanno imparato diverse lezioni dalla guerra di otto anni contro l’Iraq e dall’ultimo periodo di sanzioni nel 2012. L’Iran è un paese giovane con il 60% della popolazione di età inferiore ai 35 anni. Molti di questi giovani hanno un titolo universitario. Nel 2016, quasi cinque milioni sono stati scritti nelle università. Ma oggi c’è la possibilità che l’Iran perda questi giovani. Non ci sono statistiche ufficiali su quanti iraniani lascino definitivamente il paese ogni anno. Ma secondo Hossein Abdoh Tabrizi, l’economista ed ex-Segretario Generale della Security and Exchange Organization of Iran, già nel 2018 1,5 milioni degli iraniani stavano aspettando il loro visto di emigrazione solo per il Canada e l’Australia. Questa cifra equivale al 2% della popolazione totale e al 4 per cento di quelli di età inferiore ai 30 anni. Resta ancora sconosciuto quanti iraniani abbiano chiesto di emigrare in altri paesi e quanti richiedano asilo. Tuttavia, l’amarezza di questo movimento può essere sentita in uno scherzo che gli iraniani si raccontano: “La situazione nel paese è diventata tale che tranne Reza Pahlavi, il figlio dello Scià, che vive in America ma vorrebbe ritornare, tutti gli altri cercano di andarsene via”. Lettera dalla Libia: “Ci stiamo consumando come candele” Il Manifesto, 12 gennaio 2020 Testimonianza da un campo di prigionia per migranti in Libia, ricevuta e diffusa da don Mussie Zerai, presidente dell’Agenzia di cooperazione per lo sviluppo Habeshia. “Ci sentiamo abbandonati, molti di noi sono caduti in depressione, altri tentano la fuga per prendere la via del mare. Abbiamo casi di tentato suicidio, tra chi è qui da un anno e più”. Circa 650 persone, donne e uomini di diverse nazionalità di cui 400 eritrei ed etiopi, viviamo costantemente nella paura, perché sentiamo continuamente spari nelle vicinanze, noi chiusi qui, senza protezione, senza vie di fuga in caso di attacco, rischiamo la vita. Il nostro lager è usato anche come deposito di armi, questo fatto aumenta il rischio che diventiamo probabile obiettivo militare. Tra il 27 e il 28 dicembre 2019 hanno bombardato alcune strutture molte vicine al nostro, questo fatto aumenta il terrore che pervade tutti noi. Dal punto di vista interno a questo lager, si può dire che viviamo in un porcile. Sono mesi che non riceviamo nulla per l’igiene personale, siamo costretti a bere acqua salata di cui non sappiamo la provenienza, problemi di salute sono all’ordine del giorno, i più gravi sono le persone colpite da Tbc, circa 40 persone, di cui dieci non hanno mai avuto nessuna assistenza, tre sono in condizione gravissime, di cui nessuno si sta prendendo cura, con il grave rischio di trasmettere a tutti noi la malattia. Si erano affacciati per un attimo medici, circa un mese fa, poi non li abbiamo più visti. Noi abbiamo bisogno urgente di controlli medici, tutti, soprattutto che si prendano cura delle persone già in evidente stato di necessità, che li vediamo davanti a noi consumarsi, come se fossero delle candele arse dalla malattia, che li sta consumando da dentro. Ora ci sentiamo abbandonati, molti di noi sono caduti in depressione, altri tentano la fuga per prendere la via del mare, tutto questo dalla disperazione in cui siamo lasciati a sopravvivere. Abbiamo casi di tentato suicidio, tra coloro che sono qui da un anno e più, costretti a spostarsi da un lager a un altro, senza vedere uno spiraglio per il loro futuro. Poche settimane fa una donna malata che non ha trovato le cure è morta qui, anche una bambina di tre anni ha perso la vita dopo una caduta, per il mancato tempestivo soccorso è morta. Ecco da ogni punto di vista viviamo in pericolo costante, per non parlare delle privazioni, il degrado e le condizioni degradanti per la nostra dignità umana in cui siamo costretti a sopravvivere. Chiediamo l’aiuto di tutte le istituzioni europee e delle agenzie umanitarie di mobilitarsi per trovare e mettere in atto un piano straordinario di evacuazione di queste persone vulnerabili che oggi si trovano nelle condizioni descritte dalle testimonianze che abbiamo raccolto. Ogni tentennamento e rinvio mette in pericolo la vita di centinaia di vite umane.