“L’unica funzione della pena è la rieducazione” di Giulia Merlo Il Dubbio, 11 gennaio 2020 “È offensivo porre il fine rieducativo della pena in contrasto col diritto degli innocenti ad appellare la sentenza”. Riccardo De Vito, presidente di Magistratura Democratica e giudice di sorveglianza a Sassari, dissente criticamente dalle tesi prospettate dal consigliere del Csm, Piercamillo Davigo in particolare su quell’”anche” utilizzato per indicare la funzione rieducativa della pena. L’utilizzo di “anche” cosa mette in discussione? La funzione rieducativa della pena. Pur rispettandola, credo che la posizione del consigliere Davigo sia contrassegnata da una significativa arretratezza: parlare di funzione “anche rieducativa” è in contrasto con gli approdi giurisprudenziali della Corte costituzionale addirittura risalenti alla sentenza 313 del 1990 e con il testo stesso della Carta. La funzione rieducativa, infatti, è l’unica esplicitata dall’articolo 27, comma 3. Nell’intervista, la funzione rieducativa è messa in contrasto con il diritto all’impugnazione... Mi sembra un ragionamento mutuato dall’ultimo Carnelutti il quale, molto criticato sul punto, sosteneva che la pena è medicina e il processo terapia. Ecco, ritenere che un avvocato faccia male al proprio assistito se ne ritarda la pena con l’appello significa avallare una visione etica del processo, dalla quale invece bisognerebbe uscire in favore della Costituzione. Non esiste conflitto tra funzione rieducativa della pena e il sacrosanto diritto di chi si ritiene innocente ad impugnare la sentenza. Il riferimento sembra anche a pene esemplari, come strumento di politica criminale... Proprio questa visione - acriticamente traslata dall’esperienza Usa - si scontra con la funzione rieducativa della pena. Nella sentenza 313 del 1990 la Corte costituzionale ha voluto sottolineare come la strumentalizzazione dell’individuo a fini di politica criminale debba essere esclusa dall’orizzonte costituzionale. Lo dico in modo ancora più chiaro: è offensivo porre il fine rieducativo della pena in contrasto col diritto degli innocenti ad appellare la sentenza. La rieducazione deve operare solo nei confronti di coloro che hanno riportato condanna nel rispetto di tutte le garanzie processuali. Lei quale ruolo riconosce alla difesa? L’avvocato non è un orpello del processo, ma svolge un ruolo fondamentale in un sistema nel quale la verità deve essere pazientemente ricercata attraverso il dispiegamento pieno di tutte le garanzie costituzionali, soprattutto quella del diritto di difesa. Il contraddittorio non è un arnese, ma il metodo essenziale perché il risultato conoscitivo del processo sia attendibile. Nel dibattito pubblico spesso ci si riferisce alle garanzie come elementi dilatori... Il potere giudiziario non è intrinsecamente onnisciente e buono, ma lo è solo se disciplinato con le regole e le garanzie del giusto processo. Casistiche di abuso non possono indurre a rinunciare al principio. Davigo sembra prediligere il processo americano, lei cosa ne pensa? Condivido ciò che scrive una attenta comparatista come Elisabetta Grande: il modello americano va recepito con visione critica, separandolo dall’immagine ideale che troppo spesso viene descritta. Le racconto la storia di un ragazzo americano di nome Kalief Browder: a 16 anni venne accusato ingiustamente di aver rubato uno zaino, per questo rifiutò di chiedere il patteggiamento ma subì 4 anni di carcerazione preventiva perché non aveva soldi per pagare la cauzione. Alla fine le accuse caddero, ma lui si suicidò poco dopo l’uscita dal carcere. è questo il modello di processo veloce che vogliamo importare? Questo cosa dimostra? Che questo sistema tanto invocato, in cui l’imputato povero non ha le stesse armi dell’accusa perché non può permettersi di pagare la cauzione, di assumere un perito o un avvocato importante, non garantisce un sistema giusto. Inoltre, mi sembra che il sistema decantato da Davigo non sia proprio quello americano, ma una sorta di puzzle. Vorrei ricordare, infatti, che il sesto emendamento prevede sì che la prescrizione sostanziale si interrompa dopo l’esercizio dell’azione penale, ma anche che decorre invece una prescrizione processuale rapida: se il processo non si fa entro un certo tempo si viene prosciolti. Si chiama speedy trial e andrebbe ricordato, così come andrebbe ricordato che in America il pm non può impugnare la sentenza di assoluzione. Mi sembra che Davigo colga solo alcuni aspetti del sistema. Il presidente del Cnf, Mascherin, si interroga sulla fallibilità del giudice e sostiene che il giusto processo serva proprio a evitare errori giudiziari... È vero, ed è anche la ragione per cui l’appello è un principio fondamentale dell’ordinamento. Il doppio grado di giudizio serve ad evitare l’errore giudiziario e a permettere che la sentenza raggiunga il maggior grado di approssimazione possibile alla verità. Non sarebbe un fuor d’opera una sua rimodulazione, ma all’abolizione non pensò neppure Rocco. Un ultimo riferimento di Davigo è alla categoria “fantasiosa” dei non abbienti, che accedono al patrocinio a spese dello Stato... Ecco un’altra differenza tra il nostro sistema e quello americano. Il patrocinio a spese dello Stato concretizza il principio costituzionale del diritto di difesa, garantendola a chi non se la può permettere. Da magistrato di sorveglianza, inoltre, aggiungo che la non abbienza è una categoria facilmente verificabile, mettendo piede in carcere. Di più, la composizione delle nostre galere testimonia come il processo penale funzioni poco, ma molto per chi viene dai margini del perimetro sociale. Per questo dico: il patrocinio a spese dello Stato va reso più efficiente, per permettere agli imputati di difendersi, a prescindere dal censo. Un giusto equilibrio dei tempi, sfida per la nuova prescrizione di Glauco Giostra Avvenire, 11 gennaio 2020 Legare la ragionevole durata del processo alla gravità del reato non è convincente. Necessario trovare una via di mediazione e affrontare il nodo delle responsabilità. Secondo l’italico costume, anche in tema di prescrizione del reato si è discusso con la stessa disponibilità al dialogo costruttivo che si manifesta tra opposte tifo serie allo stadio: interromperne il corso (come prevede, dopo la sentenza di primo grado, la norma ormai in vigore dal primo gennaio) sarebbe una dannazione secondo alcuni; una panacea, secondo altri. Se non si vuole, neppure di fronte a temi complessi come questo, abbandonare l’approccio ciecamente manicheo, almeno si rispettino i termini oggettivi del problema. Tra le ragioni che vengono spesso addotte contro l’interruzione del corso della prescrizione, una - se fosse fondata - sarebbe decisiva: la prescrizione servirebbe a garantire il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Argomentazione che gode di immeritata fortuna, ma che non per questo cessa di essere ciò che è: una “giuridicolaggine”. Il procedimento penale ha una ragionevole durata quando perviene al suo epilogo fisiologico nel tempo necessario e sufficiente: sostenere che la saracinesca della prescrizione cali su di esso per garantirla è affermazione “in difficoltà di senso”. Non si vuole usare l’argomento troppo facile, ma inespugnabile, dei reati imprescrittibili e, quindi dei processi che, nella prospettiva criticata, potrebbero essere legittimamente “eterni”; oppure dei processi che risponderebbero a criteri di ragionevole durata se conclusi entro i trenta anni previsti per la prescrizione. E sufficiente notare che è operazione priva di plausibilità collegare la ragionevole durata del processo alla gravità del reato, come fa l’attuale meccanismo della prescrizione: un reato di agevole accertamento, anche se molto grave, non può giustificare un processo lunghissimo (pur se consentito dai termini di prescrizione); per contro, uno di estrema complessità probatoria, ancorché di modesta entità, potrebbe giustificare un processo non breve (pur se non consentito dai termini di prescrizione). L’ha chiarito benissimo - da ormai mezzo secolo - la Corte europea dei diritti dell’uomo: la ragionevolezza della durata di un processo non può coincidere con l’enunciazione ex ante di un termine “in giorni, settimane, mesi, anni o periodi variabili a seconda della gravità del reato” (Corte europea, 10 novembre 1969, Stogmuller c. Austria). Dipendendo, infatti, dalle circostanze concrete della vicenda processuale, essa si esprime soprattutto con valutazioni ex post, che debbono anche tener conto di diverse variabili: dalla complessità del caso alla condotta dell’autorità giudiziaria o delle parti private. J4a prescrizione, insomma, non garantisce la ragionevole durata del processo, come dimostra la circostanza che l’Italia “vanta” in ambito europeo, a un tempo, il primato di proscioglimenti per prescrizione e il maggior numero di condanne per irragionevole durata dei processi. Trattiamo, dunque, la prescrizione che interviene nel corso del processo per quello che è: una sorta di amnistia random. Che spesso non riesce a scongiurare processi intollerabilmente lunghi e che sempre, quando interviene, costituisce una grave sconfitta del sistema e ingenera una pericolosa sfiducia nella giustizia. La verità è che oggi il nostro sistema mette insensatamente sotto un unico compasso temporale due sacrosante esigenze: quella che il reato possa prescriversi quando sia decorso un tempo proporzionato alla sua gravità senza che ne sia stata addebitata ad alcuno la responsabilità; quella che il processo, una volta iniziato, pervenga a conclusione senza ingiustificati ritardi. Le cose non possono restare nei termini attuali; la soluzione non può essere soltanto uno stop alla prescrizione del reato. Il processo è di per sé una pena e a un processo inutilmente lungo non si può rispondere soltanto, come avviene oggi, con un indennizzo economico; vanno individuate responsabilità, previsti meccanismi dissuasivi e “scomputata” la pena-processo. Per farlo è necessario innanzitutto rifondere l’istituto della prescrizione. La ferita sociale del delitto può essere sanata in due modi: con la cicatrizzazione del tempo o con la sutura operata da un giudice. La prima evenienza ricorre quando l’apparato giudiziario non sa, non vuole o non riesce a intervenire: dopo un certo numero di anni la società valuta più funzionale alla stabilità sociale l’oblio, piuttosto che la riesumazione dell’evento (prescrizione del reato). Quando, invece, prima che maturi la prescrizione del reato, gli organi giudiziari deputati promuovono l’accertamento della responsabilità, imputandola ad un soggetto determinato, non vi è più il decorso inerte del tempo, l’azione silente di Cronos: la collettività non vuole dimenticare. Vi sono indizi di reità e se ne vuole verificare il fondamento. Il decorso del termine di prescrizione del reato si ferma per sempre. La domanda di giustizia non può più essere tacitata dal tempo, deve trovare una risposta nella sentenza del giudice. Ma ciò non può avvenire in un tempo indefinito: l’accusato ha diritto di conoscere il responso giudiziario in un tempo congruo, decorso il quale, il giudice deve emettere un provvedimento di non doversi procedere (prescrizione del processo). C’è la sentenza di primo grado, invece, viene pronunciata entro il termine previsto per la prescrizione del processo, si possono prefigurare due situazioni: 1) il pubblico ministero impugna, restando irrilevante che impugni anche l’imputato o altra parte privata. L’ordinamento ammette - per il suo tramite - che non ha ancora fornito la giusta risposta giudiziaria in ordine all’accusa mossa: i termini di prescrizione del processo continuano a decorrere anche nel grado successivo di giudizio; 2) impugna il solo imputato per chiedere un controllo sul fondamento della sentenza, che il pm e, per il suo tramite, l’ordinamento, ritengono invece giusta. La posizione soggettiva dell’imputato muta: da diritto a essere giudicato entro un determinato tempo a diritto a un controllo della correttezza del giudizio subìto. I termini della prescrizione processuale non decorrono. Resta all’interessato il diritto, comunque, di lamentare l’eventuale irragionevole durata del processo, che, accertata da parte di autorità nazionale o sovranazionale, potrebbe dar luogo a esiti che vanno dall’equo indennizzo alla ineseguibilità della pena. Una interessante soluzione intermedia è quella, adottata in Germania, di concedere riduzioni di pena in considerazione dell’entità del pregiudizio subito dall’imputato per l’irragionevole protrarsi del processo. Il sistema così congegnato disincentiverebbe fortemente l’impugnazione del pubblico ministero (specie quella diretta a ottenere soltanto un inasprimento sanzionatorio), ben consapevole che coltivare un gravame significherebbe esporre il processo al rischio prescrizione. Ma disincentiverebbe, altresì, l’impugnazione strumentale dell’imputato, che non potrebbe più puntare a un esito abortivo del procedimento. crebbe bene, poi, imporre che nei casi di prescrizione del processo o di sua verificata, irragionevole durata, siano sempre comunicati a un’apposita autorità di controllo (il Consiglio superiore della magistratura, ad esempio) perché accerti eventuali responsabilità. È pur vero che potrà essere difficile appurare nel singolo caso negligenze aventi adeguata efficienza causale, ma è altrettanto vero che un costante monito - raggio degli uffici giudiziari fotograferebbe i maggiori punti di sofferenza del sistema, consentendo di assumere provvedimenti mirati, riguardanti le risorse e gli organici degli uffici, se la causa dovesse risultare di carattere oggettivo, oppure i singoli magistrati, se dovesse invece ravvisarsi in negligenze, incapacità o accidia professionale. Nessuna pretesa, naturalmente, di aver trovato la quadratura del cerchio, ma semmai di aver indicato una possibile direzione di marcia. Prescrizione: il lodo Conte resiste, ma è a rischio Consulta di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2020 La mediazione al vertice dell’altra notte: il doppio binario per condannati e assolti che piace ai dem. Non solo Piercamillo Davigo, consigliere del Csm, ma anche l’ex Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso ha espresso dubbi di costituzionalità sul cosiddetto lodo Conte sulla prescrizione, che ha evitato giovedì sera, al fotofinish, la fumata nera per la maggioranza dopo un vertice tormentatissimo. Il doppio binario della prescrizione per condannati e assolti ha soddisfatto il Pd e ha fatto masticare amaro i pentastellati. Grasso, di LeU, era l’unico a essere d’accordo con il ministro M5S Bonafede che con la sua legge ha introdotto il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado senza se e senza ma. Invece, con il lodo Conte il blocco definitivo sarebbe solo per i condannati di primo grado mentre per gli assolti ci sarebbe la prescrizione processuale: se non si conclude l’appello in 2 anni (02 e mezzo in certi casi) torna a correre la prescrizione, dopo un anno in Cassazione. È quindi la proposta Pd, al netto dei condannati. “Per la nostra Costituzione siamo tutti non colpevoli fino al terzo grado di giudizio”, aveva subito fatto notare Grasso. Poi, però, da ormai esponente politico, ha fatto i conti con la realtà e di fronte al muro di gomma di P d e Italia Viva si è “riservato” di vedere come sarà scritta la norma, perché la cosa più importante sono “le riforme sostanziali che riducono drasticamente il numero e la durata dei processi”. Riforme che il ministro Bonafede ha messo sul tavolo da mesi. Grasso aveva anche fatto un tentativo “disperato”, visto i protagonisti del vertice. Se introduciamo il doppio binario per assolti e condannati, aveva suggerito, facciamo almeno partire il calcolo della prescrizione non da quando è stato commesso il reato (come avviene anche oggi) ma da quando viene scoperto. Neanche a dirlo, c’è stato un coro di no partito dalle poltrone occupate da Pd e Italia Viva. Ieri, di un possibile intervento della Corte costituzionale ne ha parlato Davigo: “Possono esserci dubbi sotto il profilo di precedenti pronunce della Consulta”. Il riferimento è alla bocciatura della Corte Costituzionale della legge Pecorella, governo Berlusconi: negava il diritto al pm di ricorrere in appello se un imputato veniva assolto. Ma Davigo comprende la scelta del lodo Conte: “Dal punto di vista politico è un compromesso facilmente spendibile perché se si usa l’argomento del `fine pena mai’ può avere senso per chi è stato assolto mentre non ha alcun senso per l’imputato condannato che sta impugnando. Di che si lamenta se è lui che chiede un altro giudizio?”. Il doppio binario piace all’Anm: “La distinzione tra condannati e assolti - dice il segretario Giuliano Caputo - ci vede concordi”. Nella maggioranza, a gongolare più di Italia Viva è il Pd mentre M5S tace. Che il compromesso abbia pienamente soddisfatto i dem lo dimostra il fatto che martedì, in Commissione Giustizia, voterà con M5S contro il ddl Costa, che abolisce la legge Bonafede. Il lodo Conte giovedì è arrivato a fine vertice dopo che era naufragata la prima proposta del premier: blocco della prescrizione per tutti in cambio di più stringenti sanzioni per i magistrati in caso di mancato rispetto di tempi prestabiliti per appello e Cassazione. Ma Pd e Italia Viva volevano a tutti i costi la prescrizione processuale, altrimenti non avrebbero neppure discusso delle proposte di Bonafede per accelerare i processi. A quel punto Conte ha preso da parte il ministro della Giustizia e l’ha convinto che l’unica via d’uscita fosse la prescrizione processuale per gli assolti in primo grado in cambio di un’accelerata sulle modifiche al processo penale. E, infatti, Bonafede all’uscita di Palazzo Chigi ha puntato tutto sulla riforma che - a suo avviso - non renderà più un problema la prescrizione perché velocizzerà i processi: dalle notifiche elettroniche solo ai difensori, ai processi d’appello con il giudice monocratico, come nei tribunali, per triplicare, è convinto il ministro, la produttività (nei primi 6 mesi del 2019 le prescrizioni in appello sono state del 25%) alla fine dell’obbligo, se lo chiede la difesa, di far ricominciare da zero un processo anche se cambia uno solo dei componenti del collegio giudicante. Le proposte saranno contenute nella legge delega ferma da mesi proprio per il nodo prescrizione e che dovrà andare al Parlamento. Davigo gela l’accordo sulla prescrizione: “È incostituzionale” di Errico Novi Il Dubbio, 11 gennaio 2020 L’idea di eliminare l’istituto solo per chi è condannato bocciata persino dall’ex pm. La cosa buffa dell’ennesimo day after sulla prescrizione è che la sospirata intesa non piace a nessuno. O quasi. Piace di certo a Giuseppe Conte che l’ha proposta, va bene tutto sommato al Pd che non era strafelice di mettersi all’opposizione di Salvini per una questione di principio sulla giustizia. Ma l’idea di ritoccare la riforma Bonafede nel senso di limitarla solo alle sentenze di condanna rischia di diventare problematica persino per il Movimento 5 Stelle. Ebbene sì, perché con un colpo di scena beffardo, poche ore dopo il sospiro tirato alla fine del vertice di giovedì sera, Piercamillo Davigo, ascoltatissimo dai grillini, regala con assoluta nonchalance il seguente epitaffio: “Limitare lo stop a chi in primo grado è condannato? Possono esserci dubbi sotto il profilo di precedenti pronunce della Consulta”. Gelo. Non solo nel senso che il togato del Csm, dopo aver liquidato il lodo Conte, sistema così l’imputato impertinente che ricorre in appello: “Nel suo caso, l’argomento per cui senza prescrizione c’è il fine processo mai non ha senso: di che si lamenta se è lui che chiede un altro giudizio?” (il diritto di difesa per Davigo è sempre come la bicicletta, l’hai voluto e pedala). No, il gelo paralizza per ore i 5 Stelle, che non diffondono alcun attestato di giubilo sullo sblocco del dossier giustizia. Fioccano le dichiarazioni delle opposizioni, in particolare di Forza Italia, che parla di “bestialità giuridica” (Francesco Paolo Sisto) e di “obbrobrio” (Enrico Costa). Fino a Renato Schifani, che preferisce optare per il “mostro giuridico di lapalissiana incostituzionalità” e aggiunge: “Il M5S materializza le sue suggestioni colpevolistiche, con il Pd che alla fine subisce e avalla il giustizialismo grillino”. Probabile che l’ex presidente del Senato colga nel segno. La quasi totalità dei giuristi vede nel lodo Conte sulla prescrizione un vizio di legittimità forse ancora più grave di quanto non fosse già nella norma Bonafede originale. Tanto è vero che l’Unione Camere penali continua a tenere sul tavolo l’ipotesi del referendum abrogativo, come l’Ocf, il cui coordinatore Giovanni Malinconico teme anche “una corsia preferenziale per gli appelli dei pm, con un’ulteriore disparità di trattamento”. Si potrebbe citare persino il vero autore della proposta, Conte, ma non Giuseppe: si tratta di Federico, l’ingegnoso deputato- avvocato di Leu che in realtà aveva sguainato l’idea della prescrizione limitata alle condanne molto tempo addietro. Addirittura nella prima riunione di maggioranza sulla giustizia, a settembre. Ebbene, proprio lui, intervistato qualche giorno fa dal Dubbio sul rischio di violare la presunzione di non colpevolezza, aveva risposto “con un paradosso” che è comunque “meglio dimezzare lo spazio di probabile incostituzionalità”. A essere davvero d’accordo con il lodo c’è forse solo l’Anm: lo propone da sempre e al recente congresso di Genova, in una mozione, ha ribadito di essere per rendere potenzialmente eterni solo i processi a chi in primo grado è condannato. Ora, proprio l’Anm sarà riascoltata dal guardasigilli Bonafede per gli ultimi dettagli sulla riforma penale, in particolare sul coté ordinamentale. A via Arenula si ipotizza di riallungare l’età pensionabile dei magistrati a 72 anni, ma già dal “sindacato” delle toghe filtra scetticismo sull’ennesima oscillazione della soglia. Certo è che il ministro si dice “pronto” ad arrivare con il corposo ddl penale, comprensivo anche delle riforme per il Csm, già al Consiglio dei ministri di martedì prossimo. Dovrà però fare in tempo a cucirci dentro la norma che sopprime la nuova prescrizione nei casi in cui in primo grado si è assolti. La sua idea, definita nel colloquio con il premier giovedì sera, è di aggravare comunque un po’ la sorte di questi ultimi, con il recepimento della proposta Pd: allungare di 6 mesi (più altri 6 in caso di rinnovazione del dibattimento) la sospensione della prescrizione se il pm fa appello. Si vedrà. Certo entreranno nella legge delega altre varie misure acceleratorie. Alcune ben note, come la digitalizzazione delle notifiche successive alla prima. Altre molto interessanti, di marca dem, come il controllo giurisdizionale del gip sull’effettiva tempestività con cui il pm iscrive l’indagato nel registro, in modo che la Procura non guadagni tempo indebito per le indagini con la scusa che non ha ancora ben individuato il responsabile dell’illecito. Antica richiesta dell’avvocatura. Che potrebbe vedere dei passi avanti anche su un altro, inatteso fronte, quello delle depenalizzazioni. Ma prima di verificare quanto misurerà il campo da gioco della riforma penale, bisognerà capire meglio se si è chiuso davvero il match sulla prescrizione. O se il fallo da dietro di Davigo rischia di riaprirlo. Cesare Mirabelli: “Un condannato non può restare in ostaggio” di Simona Musco Il Dubbio, 11 gennaio 2020 Differenziare tra condanna e assoluzione in primo grado, anziché risolvere un dubbio rischia di accrescerlo”, spiega il presidente emerito della Consulta Cesare Mirabelli. “Differenziare tra condanna e assoluzione in primo grado, anziché risolvere un dubbio di legittimità costituzionale, rischia di accrescerlo, perché introduce un altro tema: la fine non solo della presunzione di innocenza ma anche dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge”, spiega il presidente emerito della Consulta Cesare Mirabelli. Per il quale l’esercizio indefinito nel tempo della potestà punitiva dello Stato è e deve rimanere “impossibile”, a garanzia “della posizione del cittadino” ma anche “di un giusto processo”. Presidente, l’accordo raggiunto al vertice di maggioranza sulla prescrizione presenta profili di incostituzionalità? Rispetto al tema generale dell’abolizione della prescrizione, una legge in questo senso non è conforme alla Costituzione, perché violerebbe quantomeno due principi: da un lato quello della presunzione di innocenza e della finalità rieducativa della pena e dall’altro quello della ragionevole durata del processo. Mi chiedo se la proposta di bloccare la decorrenza della prescrizione, in caso di condanna in primo grado, non introduca un nuovo, ulteriore elemento di incostituzionalità, di discriminazione tra chi è condannato in primo grado e chi, invece, viene assolto. E il problema della ragionevole durata del processo rimane in ogni caso... Assolutamente. Ragionevole durata del processo non significa ragionevole durata di un grado di giudizio, ma ragionevole durata ai fini della decisione complessiva. È un principio così forte da essere assicurato dall’articolo 111 della Costituzione. È un dovere definire la situazione in cui si trova chi è sottoposto ad un giudizio. Inoltre, eliminare la prescrizione dopo la condanna in primo grado sembra abbia come giustificazione una sorta di superamento della presunzione di innocenza. Significa che essendo stato condannato in primo grado, il potere di giudicarti e punirti indefinitamente nel tempo c’è perché è superata la presunzione di innocenza. Ovvero si instaura una presunzione di colpevolezza. Qual è la ragione profonda della prescrizione? Che non si può essere sottoposti indefinitamente nel tempo ad un giudizio. Non solo: a distanza di tempo la potestà punitiva dello Stato si esprimerebbe con difficoltà anche in ordine alla genuinità e alla raccolta corretta delle prove, alla garanzia stessa del diritto di difesa, che ha una sua radice anche temporale. Posso difendermi per cose commesse 20 anni fa? È un giusto processo? Il giusto processo è formazione della prova nel giudizio, ma anche possibilità di acquisire prove che non siano storia remota. E la finalità rieducativa della pena si combina con questi elementi, perché significa che la condanna interviene in un tempo ragionevole dopo la commissione di un fatto che costituisce reato. Sullo sfondo deve rimanere la garanzia, per i cittadini, di non essere eternamente giudicabili. Altra cosa è sterilizzare nel calcolo dei tempi di prescrizione tutti quei momenti nei quali la durata del procedimento dipende da atti o comportamenti dilatori, determinando una sospensione dei tempi della prescrizione. Ma eliminarla totalmente significa che è all’arbitrio - cioè atto non controllabile - di chi procede ad esprimere la potestà punitiva dello Stato stabilire se, quando e come arrivare ad una decisione. La questione può arrivare alla Consulta? Le questioni dinanzi alla Corte costituzionale non possono essere astratte e perciò devono esser poste quando il giudice deve far uso di quella disposizione e dubita della legittimità costituzionale di quella disposizione. Questo si porrebbe come problema solo quando, in ipotesi, un processo in concreto venisse a essere celebrato dopo un tempo lunghissimo rispetto alla commissione del reato del tutto irragionevole e venisse eccepita la carenza di una garanzia costituita, appunto, dalla prescrizione. Ma determinare i tempi della prescrizione per ciascun reato rientra in un ambito di discrezionalità politica nei limiti della ragionevolezza. Per cui occorre verificare se è ragionevole o meno questo, e la ragionevolezza può essere collegata in qualche modo alla gravità dei reati. Eliminarla completamente non rafforza le garanzie per il cittadino ma le indebolisce, ed è anche contraddittorio con la volontà che si esprime di stabilire una durata certa dei processi e di abbreviarli. Se fosse così non ci sarebbe bisogno affatto di toccare la prescrizione. In che direzione dovrebbe muoversi la politica? Gli sforzi dovrebbero essere diretti ad assicurare una ragionevole durata dei processi e non ad eliminare un istituto che blocca la possibilità di sanzionare comportamenti remoti rispetto a quando il processo viene celebrato. Mi pare che il problema sia largamente determinato dall’intasamento che c’è nelle Corti d’appello e nelle fasi delle indagini preliminari. Gli effetti negativi per la persona si producono già per la stessa pendenza del processo, per tutta una serie di incompatibilità che ne sono conseguenza. C’è un diritto e un interesse ad un giudizio sollecito e ragionevole. Si potrebbe lavorare sugli ambiti di discrezionalità ragionevole, cioè la sterilizzazione della sospensione del calcolo dei tempi di prescrizione in presenza di alcune vicende o per un tempo stabilito di celebrazione per ogni grado di giudizio, il tempo che decorre per la proposizione delle impugnazioni e molto altro. Quali sono i rischi connessi a questa disposizione? Non vi è possibilità di esercizio indefinito nel tempo della potestà punitiva dello Stato, questo sia a garanzia della posizione del cittadino sia della sua libertà. Non dobbiamo pensare che tutti coloro che sono sottoposti a giudizio siano per ciò solo colpevoli. Ma è anche una garanzia di giusto processo, in modo che rispetto alle dimensioni del fatto la potestà punitiva si eserciti in un arco di tempo che consenta l’acquisizione delle prove e anche la possibilità di difesa. Immaginiamo che venga imputato al cittadino la violazione di regole della circolazione stradale sanzionate, in ipotesi, penalmente 25 anni prima: ho la possibilità di difendermi? Sfido chiunque a ricordarsi dove fosse 20 anni prima in un determinato giorno. Com’è anche impossibile per lo Stato raccogliere genuinamente le prove. Si dirà che in questi casi ci sarà un’assoluzione, ma la stessa possibilità che ci sia un processo non va bene. Poi è da sperare che si mantenga un sistema sostanzialmente democratico e non autoritario. L’assenza di prescrizione rischia di creare la possibilità di intervenire nei confronti di minoranze o di chi politicamente non è allineato rispetto a vicende temporali remote. Una norma da abrogare, dunque? Mi pare si giri intorno al problema reale, far funzionare la giustizia. E la soluzione non è l’abolizione della prescrizione ma l’organizzazione della giurisdizione. Le modifiche sulla prescrizione sono una toppa peggiore del buco di Ermes Antonucci Il Foglio, 11 gennaio 2020 Nessun passo indietro sulla riforma che abolisce la prescrizione, ma al massimo una sua applicazione soltanto nei confronti dei condannati in primo grado; una legge che velocizzi i tempi dei processi; una norma con cui “poter chiedere conto del suo operato al magistrato che sfora i tempi in appello”. Sono queste le controproposte sulla prescrizione e sulla giustizia avanzate dal Guardasigilli Alfonso Bonafede agli alleati di governo (Pd, Italia viva, Leu) al termine del vertice di maggioranza di giovedì sera, che ha visto anche la partecipazione del premier Giuseppe Conte. Una partecipazione che sarebbe risultata decisiva a sbloccare l’impasse in cui erano di nuovo finiti i negoziati, ma che non ha evitato che alla fine i grillini elaborassero proposte dal carattere assolutamente generico, se non a tratti addirittura incostituzionale. Pd e Italia viva esultano per la “caduta del totem della prescrizione”, ma nessuno in fondo sa ancora quali sarebbero le misure ideate dal Guardasigilli per velocizzare la giustizia e garantire tempi certi, né tantomeno le norme che dovrebbero permettere un controllo disciplinare (con eventuali sanzioni) sull’operato dei magistrati ritardatari (e Dio solo sa quanto sia difficile in questo paese introdurre meccanismi effettivi di valutazione dell’attività delle toghe). Quello che rappresenterebbe il principale cedimento di Bonafede e Conte, cioè l’ipotesi di distinguere fra sentenze di assoluzione e di condanna, confermando lo stop alla prescrizione solo nel secondo caso, in realtà rischia di configurarsi come una palese violazione del principio di presunzione di non colpevolezza stabilito dall’articolo 27 della nostra Costituzione: se si è considerati innocenti fino a sentenza definitiva, perché penalizzare i cittadini condannati solo in primo grado (e quindi formalmente ancora innocenti), gettandoli in pasto a processi molto più lunghi di quelli riservati agli “innocenti”? La partita, dunque, resta ancora aperta, ma ciò che è certo è che il “cedimento”, evidenziato con enfasi da una certa stampa e che ci sarebbe stato da parte dei grillini attorno alla riforma della prescrizione da loro approvata (con la Lega), in realtà si è tradotto finora nell’elaborazione di minime e vaghe proposte di modifica e nell’ideazione di una toppa peggiore del buco. Al contrario, è evidente che l’eventuale adesione del Pd a queste proposte sarebbe un cedimento, in questo caso sì, di portata epocale rispetto ad alcuni princìpi costituzionali fondamentali e ai propri valori identitari di difesa dei diritti dei cittadini comuni. Sempre che, come notato ieri sul Foglio da Giovanni Fiandaca, i dem siano davvero culturalmente diversi dai pentastellati sul terreno penale. L’intervista rilasciata ieri al Dubbio da Franco Roberti, ex procuratore nazionale antimafia, oggi eurodeputato Pd (“Lo stop alla prescrizione non serve a nulla, bisogna eliminare l’appello”), rafforza questa triste sensazione. A partire dalla prossima settimana, tuttavia, i dem saranno chiamati a prendere finalmente una posizione chiara. Da martedì in commissione Giustizia alla Camera si terrà la votazione sugli emendamenti e poi sul testo della proposta di legge del deputato di Forza Italia, Enrico Costa, che cancella la riforma Bonafede. Un testo divenuto ancora più attuale dopo l’ipotesi avanzata da Conte e Bonafede di fermare la prescrizione solo per i condannati in primo grado: “Oggi il 48 per cento delle sentenze di appello riforma, in tutto o in parte, le sentenze di primo grado - ha ricordato Costa - Significa che l’appello ha una sua funzione ben specifica di controllo delle sentenze di primo grado che, una su due, vengono ribaltate o rimodulate. E cosa propone l’avvocato del popolo? Di fatto, di cancellare la celebrazione tempestiva del grado di appello e forse non celebrarlo mai. Inoltre si tenga conto che se c’è un condannato, di norma c’è una vittima del reato che non otterrebbe giustizia. Un obbrobrio incostituzionale”. Italia viva si è detta pronta a votare la proposta Costa. Il Pd non si sbilancia. Eppure, dopo essersi visti bocciare dai grillini l’ipotesi di introdurre una “prescrizione processuale” (cioè l’estinzione dell’azione penale qualora i processi durassero oltre il dovuto), i dem si sono visti rifiutare anche la proposta più morbida di sospendere il decorso della prescrizione dopo le sentenze di condanna in primo grado e in appello, per un periodo massimo di tre anni e sei mesi. Ora di fronte c’è un bivio: tocca scegliere. La nuova legge sulla class action dà speranza per un sistema efficiente di Bruno Sassani* Il Dubbio, 11 gennaio 2020 Nel corso del 2019 ci sono stati moltissimi convegni e lavori sul tema della nuova Azione di classe e l’attenzione è ben motivata dalle numerose e importanti novità contenute nel testo di legge, anche se non tutte positive. L’azione di classe risarcitoria si inserisce nel codice di procedura civile, ed arriva salutata da un malcelato orgoglio, dopo la prima, raffazzonata legge (mai entrata in vigore), e quella attualmente in vigore (art. 140bis cod. cons.). La legge non è perfetta, ma critiche radicali sarebbero ingenerose. Si tratta di una miscela di spunti positivi e negativi; le lacune e contraddizioni non sono più di quelle riscontrabili abitualmente nei nuovi prodotti normativi ma questo non impedisce che le aspettative restino alte. L’aspettativa principale è legata all’idea che finalmente l’Italia si sarebbe dotata di un collaudato sistema giudiziale di regolamentazione del mercato. Si suole ripetere che l’azione di classe è una modalità efficiente e sperimentata per risolvere controversie su larga scala, ma non è sempre chiaro se il problema sia evitare un effettivo spreco di risorse ovvero creare, attraverso l’offerta, una domanda altrimenti inesistente. Ci si muove per sgravare il sistema giudiziario da un eccesso di cause individuali, ovvero per aprire le aule di giustizia alle tante cause che (per le loro dimensioni minute) non ne solcherebbero mai la soglia? Questa irresoluzione aleggia su una legge pur rispettabilmente impegnata a trovare ragionevoli compromessi tra i tanti problemi che si pongono. A cominciare dal peccato originale del c. d. opt- in che la condiziona rendendola una ibridazione. La struttura dell’adesione mal si presta, come sostanzialmente riconoscono tutti gli esperti, a gestire efficientemente l’apparato del risarcimento collettivo ma è evidentemente difficile superare il tabù della estraneità dell’opt- out al sistema italiano. Remore dovute all’idea di incostituzionalità del vincolo automatico e alla sotterranea paura dell’abuso di massa. L’incostituzionalità forse è immaginaria e la giustificazione antropologica non è del tutto infondata, ma manca la volontà di superarle. L’esperienza delle decisioni giurisprudenziali non è peraltro incoraggiante. La Corte di cassazione si è più volte distinta per l’incomprensione dei problemi che le si ponevano: esemplari in tal senso le S.U. n. 2610/ 2017 che negano il ricorso per cassazione contro l’ordinanza di inammissibilità dell’azione collettiva sull’equivoco della permanenza dell’azione individuale (e la nuova disciplina dell’impugnazione dell’ordinanza su reclamo resta ambigua ed inadeguata). Parimenti Cass. n. 14486/ 2019, coeva alla nuova legge (anche se assunta nella vigenza della precedente), finisce per trasporre meccanicamente soluzioni proprie del danno individuale al danno nella dimensione dell’azione di classe con gli ovvi problemi di rigetto nel trapianto. Il riepilogo del caso dice tutto: disservizio ferroviario comprovato; azione di classe a favore degli utenti del servizio vittime del disservizio; accoglimento in appello con fissazione del risarcimento in € 100 pro capite; ricorso dell’azienda per non omogeneità del danno non patrimoniale sofferto dagli utenti; accoglimento del ricorso perché il danno è o futile o non è omogeneo. Se ne deduce che soffrire un disservizio non dà alcun diritto e, quindi, diecimila situazioni di eguale sofferenza di disservizio non danno parimenti alcun diritto (10.000 moltiplicato 0 uguale 0), che ogni pregiudizio che superi la soglia della sofferenza da disservizio è pregiudizio individualizzato e che il diritto scaturente dalla sofferenza di tale pregiudizio non presenta l’omogeneità che giustifica l’azione di classe. Questo modello di ragionamento non tiene conto che la stessa distinzione tra danno materiale e danno morale assume una valenza sui generis una volta calata nella dimensione collettiva. Una dimensione in cui l’aderente può evidentemente scegliere (e di fatto qui aveva scelto) la risarcibilità al minimo riducendo la sua pretesa al ristoro di una sofferenza de- individualizzata, cioè equalizzata ad un minimo comune denominatore. Richiedere l’elemento della gravità della lesione individuale e la sua apprezzabilità seriale (parole della Suprema) è contraddittorio. Non il migliore benvenuto alla nuova legge e alla sua decantata funzione regolatrice del mercato. *Professore ordinario di Diritto processuale civile all’Università di Tor Vergata Perché è necessario che il 2020 sia l’anno che scioglie i nodi della magistratura di Salvatore Scuto e Giulio Enea Vigevani Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2020 È tempo di affrontare l’intreccio tra le dinamiche correntizie in seno all’Associazione Nazionale Magistrati e la composizione e le funzioni del Consiglio superiore della magistratura. Il 2019 è stato amaro per la magistratura italiana, investita dalla constatazione di una seria patologia nel sistema di selezione dei capi degli uffici e, più in generale, di una pericolosa degenerazione del sistema di autogoverno del Consiglio superiore della magistratura. L’indagine dell’autorità giudiziaria di Perugia nel “caso Palamara” ha disvelato, con le parole del Presidente Mattarella, “un quadro sconcertante e inaccettabile”. È emersa l’esistenza di meccanismi a dir poco opachi nelle nomine a incarichi direttivi, ove l’appartenenza a una corrente giudiziaria o i desiderata politici facevano premio sulla competenza. E ha condotto al pensionamento anticipato del procuratore generale della Corte di cassazione e alle dimissioni di cinque consiglieri togati del Csm, alcuni dei quali sebbene non fossero indagati. Si è trattato di un vero e proprio sommovimento tellurico, che ha posto seriamente a rischio la tenuta dell’organo, rimasto in piedi grazie all’argine responsabilmente eretto dal Capo dello Stato. Un sommovimento che ha anche inciso in profondità sull’equilibrio su cui, sino a quel momento, si era retto l’assetto della magistratura, con la crisi delle correnti maggiormente coinvolte nell’inchiesta, Magistratura Indipendente e Unità per la Costituzione, e la “presa del potere” di Area- Democrazia per la Giustizia, la corrente più orientata a sinistra, e Autonomia e Indipendenza, guidata da Piercamillo Davigo, sorta di recente dopo una scissione da Magistratura Indipendente. In poche parole, il trojan che ha squarciato il velo sulle notturne frequentazioni di membri del Csm con politici e dirigenti di alcune correnti della magistratura e le fluviali rivelazioni degli atti di indagine emerse sui media hanno per ora determinato solo un cambio di maggioranze nel Csm, ad onta delle migliori intenzioni dichiarate da tutti i protagonisti con toni stentorei ed ottimistici. Lo stesso esito dell’elezioni suppletive, che ha visto penalizzati i candidati più lontani dalla vita delle correnti, costituisce la riprova che nulla di fatto è cambiato. Ora, nel 2020, sembra giunto il tempo di affrontare l’intreccio tra le dinamiche correntizie in seno all’Associazione Nazionale Magistrati e la composizione e le funzioni del Consiglio superiore della magistratura. Il disegno tratteggiato dall’Assemblea Costituente per garantire l’autonomia della magistratura dagli altri poteri fu originale e raffinato: fu creato un Csm formato in prevalenza da magistrati ordinari eletti dai loro colleghi ma con la presenza di membri di diritto o di nomina parlamentare (tra cui individuare il vicepresidente), proprio per superare i rischi di corporativismo. Del resto, la stessa Costituente era consapevole che non stava dando vita a un organo meramente amministrativo ma a un soggetto dotato, con le parole di Paolo Barile, di una “politicità intrinseca”. In questa logica, è coerente con il progetto costituzionale un Csm espressione del pluralismo culturale presente nella società e nella stessa magistratura e in più di un momento le correnti hanno svolto una importante funzione di tutela dell’indipendenza della magistratura nel rapporto tra società, giustizia e politica. I nostri Padri fondatori non avrebbero invece certo apprezzato un organo corporativo, pervaso dall’influenza di correnti attente soprattutto a logiche distributive, come il Csm sembra oggi, a seguito di un lungo e complesso processo involutivo. Due esempi poco noti aiutano a comprendere il livello di autoreferenzialità in cui oggi si muove tale organo, ben al di là della nozione costituzionale di autonomia. La legge 12 aprile 1990 n. 74 introduceva all’art. 2 comma 3, la regola secondo cui i dirigenti di segreteria del Csm fossero nominati a seguito di concorso pubblico cui potevano partecipare i possessori del titolo di laurea in giurisprudenza. Non solo tale norma non ha mai avuto attuazione ma è stata nel 2012 dichiarata dallo stesso Csm implicitamente abrogata... dalla voluta omissione proprio da parte dell’organo cui si riferiva. Ne deriva a che ancor oggi tali dirigenti sono magistrati, spesso selezionati in base al solo principio di appartenenza e che dunque confezionano pareri ed atti non sempre al riparo delle esigenze della corrente che li ha designati. Significativo è anche quanto accaduto in seno al Plenum del Csm il 6 novembre scorso, in relazione all’applicazione delle regole introdotte nel 2007 sul passaggio di un magistrato dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa. La normativa prevede l’istituzione di un corso di qualificazione professionale organizzato presso la Scuola della Magistratura, cui sarebbero stati destinati tutti i magistrati intenzionati a tramutare la loro funzione. La questione della mancata applicazione di tale norma, posta da un membro laico del Consiglio, ha prodotto una levata di scudi da parte di molti membri “togati”, a difesa di una prassi volta a salvaguardare il diritto del singolo magistrato di spostarsi da una funzione all’altra. In entrambi i casi sembra emergere una tendenza del Csm a esercitare le proprie prerogative non sempre in aderenza ai limiti che la legge stessa impone e, dunque, un rischio di una degenerazione della funzione verso un autoreferenziale esercizio del potere. Ma come si è giunti a tale questo “quadro sconcertante e inaccettabile”? E che fare per frenare almeno le patologie più evidenti? Le ragioni di questo progressivo degrado dell’organo costituzionale sono molte: prime fra tutte, l’affievolimento dei legami culturali e ideologici all’interno delle correnti e il ruolo sempre più invadente dell’Anm. La leva che si è invocata per superare questa situazione è stata ancora una volta la riforma del sistema di nomina della componente togata, già modificato ben sette volte in età repubblicana. Significativa la proposta del ministro Bonafede di introdurre il sistema del sorteggio, non solo incostituzionale ma anche poco originale solo se si pensa che una simile proposta fu avanzata dall’On. Almirante nel 1970. La proposta è stata abbandonata dopo che il ministro ha incassato una sorta di consenso dell’Anm, nel corso del recente Congresso di Genova, alla abrogazione dell’istituto della prescrizione, riforma anch’essa di assai dubbia costituzionalità. Certo, il tema di un diverso sistema elettorale appare urgente e alcune ipotesi sembrano andare in una direzione condivisibile: ad esempio, con collegi di piccole dimensioni o con sistemi che consentono di esprimere preferenze a candidati di liste diverse, il prestigio dei candidati potrebbe prevalere sulla mera appartenenza correntizia. Resta che la storia italiana ci ha insegnato che l’utilizzo della leva elettorale difficilmente sarà in grado di scardinare il potere delle correnti. Ben più accidentata ci pare la via di una riforma costituzionale, con il pericolo che l’equilibrio trovato dai Padri costituenti possa essere sacrificato, con danno della tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Sarebbe, invece, auspicabile l’esercizio di un forte self restraint da parte della magistratura, almeno nel tentativo di tornare a dar voce alla nobile radice culturale che nel passato l’ha caratterizzata, incarnando i valori della Costituzione e facendola essere custode delle garanzie dei cittadini. Nulla di più lontano dalla deriva autoreferenziale, chiusa ed asfittica, che oggi purtroppo si vede sempre più spesso rappresentata. Strage di Bologna. Liberi o semiliberi, vite da condannati quarant’anni dopo di Gianluca Rotondi Corriere di Bologna, 11 gennaio 2020 Quando, giovedì pomeriggio, il presidente della Corte d’Assise Michele Leoni ha letto il dispositivo della sentenza che l’ha condannato all’ergastolo per concorso nella strage del 2 Agosto, Gilberto Cavallini era a bordo di un treno che lo riportava a Terni, dove sta scontando gli altri otto ergastoli che ha accumulato nella sua lunga e sanguinosa carriera di terrorista nero. Il “Negro”, responsabile di omicidi efferati e a sangue freddo di magistrati, carabinieri, poliziotti e camerati considerati delatori, è in carcere dal settembre del 1983 e fu l’ultimo dei Nar a finire dietro le sbarre. Ed è ancora l’ultimo di quella generazione di neofascisti eversivi a non avere saldato il suo debito con la giustizia, sebbene abbia scontato finora 37 anni di carcere. I suoi ex compagni d’armi, e dall’altro giorno complici dell’eccidio alla stazione, sono liberi da un pezzo e si sono rifatti una vita. Cavallini, 68 anni, un figlio di 40 nato nell’anno della strage, cresciuto in una famiglia di destra, con uno zio fascista ucciso dai partigiani e fin da giovanissimo picchiatore della Milano anni 70, è stato detenuto ininterrottamente fino al 2000, anno in cui ha iniziato a beneficiare di misure alternative. Ma è stata solo una parentesi. Nel 2002 torna l’attrazione fatale per il crimine e le armi: lo trovano con una automatica col colpo in canna in uno zaino, 50 proiettili e un motorino intestato a pregiudicati. Fine dei benefici. Dopo anni è di nuovo libero di lasciare il carcere di Terni per andare a lavorare come contabile in una cooperativa e farvi rientro la sera. I tempi sono ormai maturi per la liberazione condizionale, su cui si esprimerà ad aprile il Tribunale di Sorveglianza. Difficilmente il nuovo ergastolo per la strage allungherà la sua detenzione. Il reato per il quale è stato condannato in primo grado è stato commesso prima del suo ingresso in carcere e degli altri che gli sono costati gli ergastoli. E il cumulo delle pene non può superare i 33 anni. Lo prevede la legge, così come prevede che si possa tornare liberi anche con più ergastoli alle spalle. È quel che è successo agli ex compagni d’armi Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, arresati nel 1981 e nel 1982, che liberi lo sono ormai da un pezzo. La semilibertà è arrivata per loro tra il 98 e il 99. Rispettivamente 3 e 4 anni dopo che la Cassazione renderà definitivo l’ergastolo per il 2 Agosto. I rapporti con Cavallini, capo anziano dei Nar, si sono interrotti da anni dopo le accuse adombrate circa i suoi legami con Zio Otto, cioè Carlo Digilio, l’armiere di Ordine Nuovo. Mambro e Fioravanti, una figlia 18enne e una vita ormai ruotinaria a Roma, si sono sempre proclamati innocenti, come del resto tutti i Nar. Lavorano da tempo alle dipendenze del partito Radicale per l’associazione Nessuno tocchi Caino, possono contare su uno stipendio di poco superiore ai mille euro, partecipano a dibattiti sulla terribile stagione di piombo e sangue di cui sono stati protagonisti. Hanno alle spalle rapine e omicidi brutali. Si sono lasciati dietro morti in divisa, giovani di sinistra, camerati “infami” e altre pagine inquietanti. Delitti che hanno rivendicato e ammesso, così come in alcuni casi hanno ottenuto un confronto con i familiari delle persone che hanno giustiziato. Mai con i parenti delle vittime della strage, un’enormità che hanno sempre allontanato da sé. I conti con la giustizia li hanno pagati da tempo, non quelli economici che lo Stato ha chiesto loro di rifondere: 2 miliardi di euro. Così dai loro stipendi da impiegati ogni mese viene prelevato un quinto, non basterebbero altre dieci vite per saldare il conto. La Mambro, che per l’associazione dei radicali si occupa di campagne contro la pena di morte, ha testimoniato, come Giusva, al processo contro Cavallini. Hanno ripetuto che sono stati sacrificati per coprire altri scenari e che con i servizi non hanno mai avuto a che fare. Ma sui rapporti di Cavallini Fioravanti ha detto di non potere mettere la mano sul fuoco. Un altro ex compagno di quella sanguinaria formazione terroristica, Luigi Ciavardini, appena 17enne quel 2 Agosto, lavora da tempo nel volontariato in una cooperativa che si occupa del reinserimento dei detenuti. Condannato come gli altri per aver partecipato agli omicidi del giudice Mario Amato e del poliziotto Franco “Serpico” Evangelista, Ciavardini ha una storia molto diversa dai suoi più anziani camerati. La sua militanza nei Nar si riduce a una manciata di mesi, quelli che dal gennaio all’ottobre del 1980 segneranno per sempre la sua vita. Figlio di un agente di polizia, entra giovanissimo nei movimenti studenteschi romani di destra per poi confluire in Terza Posizione e infine abbracciare i Nar di Mambro, Fioravanti e Cavallini. La sua storia giudiziaria (da minorenne) è un unicum. Viene scarcerato nel 1985 ma 4 anni dopo viene di nuovo arrestato per una rapina milionaria a una gioielleria di Pescara: condannato in primo grado è assolto in appello, quando si scoprirà il vero autore, l’anarchico bolognese Horst Fantazzini. Torna libero, ma dura poco. Nel 91 arriva la condanna per l’omicidio Amato che lo terrà dietro le sbarre fino al 2000, l’anno in cui finisce sotto processo per l’eccidio. Il Tribunale dei minori lo assolve ma l’appello ribalta il verdetto: 30 anni per la bomba (l’ergastolo per i minori non esiste). Nel 2006 quando la Cassazione conferma la condanna, è in carcere a Poggio Reale per una rapina dalla quale viene assolto con formula piena. Sconta meno di 20 anni, prima di tornare libero. Insieme ai Nar, gli unici altri condannati (ma per aver depistato le indagini) sono Licio Gelli, il faccendiere Francesco Pazienza e gli ufficiali del Sismi Giuseppe Belmonte e Pietro Musumeci. Di carcere, tra sconti e condoni, ne hanno fatto poco. Il capo della P2, burattinaio delle vicende più oscure del Paese e sospettato d’aver finanziato gli esecutori dell’eccidio, per Bologna non ha mai pagato e se n’è andato da tempo con i suoi inconfessabili segreti, così come Belmonte. L’ex generale Musumeci compirà 100 anni a maggio e si è eclissato nella sua Sicilia. Pazienza, il direttore ombra del super Sismi che invece la pena l’ha scontata, è tornato a vivere nella sua villa ligure. Parla ancora della strage, che attribuisce al colonnello Gheddafi, e ha chiesto senza successo di poter testimoniare nel processo Cavallini. Campania. Minori reclusi, Regione ingiusta La Repubblica, 11 gennaio 2020 Comunicato di Comunità Jonathan, Oliver, Il germoglio, Betana, Francesco d’Assisi, Padre Arturo - Napoli. L’importante che la grave vertenza aperta dalla Nuova Cucina Organizzata ha ricevuto dal vertice politico della Regione ed in particolare dal presidente Vincenzo De Luca, ci riempie di gioia e di speranza. Una battaglia scaturita da un approccio burocratico ad un problema politico, approccio che impediva il riconoscimento dei sacrosanti diritti degli utenti e degli operatori che in questi anni, con enormi difficoltà, sono riusciti a creare un modello operativo di gestione e utilizzo dei beni confiscati alla criminalità organizzata capace di creare opportunità di riqualificazione del territorio e di inclusione socio-lavorativa per soggetti deboli. Un esito che ci lascia fiduciosi per un’altra vertenza che vede su posizioni contrapposte la Regione, con il suo assessorato alla Sanità, e le comunità che accolgono minori dell’area penale. Quei minori, per capirci, che fanno notizia solo nella cronaca cittadina perché protagonisti di violenza agita e subita. Nello specifico parliamo di un problema che vede la Regione tagliare i fondi alla sanità per i minori in conflitto con la giustizia e le comunità che difendono il diritto alla salute con l’accesso gratuito al servizio sanitario pubblico per i minori dell’area penale che accolgono. La vertenza nasce da un approccio discriminatorio della Regione, che riconosce ai circa 80 minori e giovani adulti in custodia cautelare negli Ipm di Nisida e Airola l’accesso gratuito al servizio sanitario pubblico per gli interventi di prevenzione e cura e lo nega ai circa 150 minori e giovani adulti collocati in misura cautelare in comunità (che come i ragazzi ristretti negli Ipm sono in regime di limitazione della libertà personale). Questa divisione crea delle vere e proprie gabbie di utenti ed operatori, di serie A e serie B. Una discriminante inaccettabile che divide i minori dell’area penale ed esclude la maggior parte di loro dal diritto alla salute. Chiaramente i ragazzi che sono in comunità pagano anche il prezzo della debolezza delle comunità stesse, soffocate dalle cronica precarietà di un sistema che non funziona e dove gli stessi operatori hanno difficoltà a vedersi riconosciuti diritti e competenze professionali nonostante continuino a svolgere ruolo di supplenza delle istituzioni. Questa debolezza, tuttavia, non ci impedisce di denunciare lo scempio di una soluzione che taglia i diritti inalienabili, come quello alla salute, ai minori che accogliamo. Quegli stessi minori a cui dedichiamo il nostro impegno nella direzione dell’integrazione attraverso la cultura della responsabilità sociale. Una contraddizione forte e difficile da spiegare ai nostri ragazzi, anche perché attorno al mondo dell’infanzia negata dei minori che delinquono, della criminalità minorile, c’è tanta ipocrisia e la conseguenza è che invece di mettere mano alle disuguaglianze si preferisce tagliare i servizi per le fasce più deboli. La tensione nelle comunità è forte perché anche la comunicazione della dottoressa Gemmabella, dirigente della Giustizia minorile della Campania, e l’appello di Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, che denunciano l’illegittimità del provvedimento della Regione, a tutt’oggi sono rimasti inascoltati, caduti nel vuoto, nessuna risposta sia a livello politico che tecnico. Un silenzio assordante, in particolare quello del direttore dell’Asl NA3 Sud distretto di Nola, il quale, dopo una prima comunicazione, non ha più risposto. Silenzio che testimonia una miopia culturale e politica, le cui conseguenze le pagano i ragazzi. Foggia. La marcia coraggiosa dei 20mila contro la mafia di Gianmario Leone Il Manifesto, 11 gennaio 2020 In tanti alla manifestazione di Libera. Il 2020 è iniziato con l’omicidio di un commerciante e diversi attentati. 58 morti in due anni. Un esercito pacifico di oltre 20mila persone, di mani che si stringono, di abbracci, sorrisi, di ricordi dei tanti che non ci sono più ma che rivivono ancora nei racconti di chi è rimasto e ancora oggi chiede verità e giustizia. C’era tutto questo e tanto altro ieri a Foggia, in quella che è stata definita una passeggiata per le strade del capoluogo dauno, che ha visto una partecipazione di massa da parte dei cittadini foggiani, pugliesi e di tante altre regioni italiane, nella mobilitazione #foggialiberafoggia promossa da Libera per rispondere alla violenza mafiosa dopo l’escalation registrata in questi primi giorni del 2020. Un susseguirsi di eventi che hanno colpito la città foggiana: il primo gennaio l’incendio dei bar “Veronik” e “New Generation Cafe”, il 2 gennaio l’omicidio del commerciante d’auto Roberto D’Angelo sotto la sua abitazione da dove ha preso il via il corteo, il giorno seguente la bomba sotto l’auto del manager della sanità, Cristian Vigilante presente al corteo, e infine, il 7 gennaio, l’incendio alla macelleria Chiappinelli. Negli ultimi due anni si contano 58 omicidi e 67 tentati omicidi. Senza dimenticare le decine di vittime registrate negli ultimi tra i migranti che lavorano come braccianti agricoli nelle campagne della Capitanta. E ancora oggi sono confinati nei ghetti. Quasi 400 le associazioni che hanno aderito e partecipato alla manifestazione. Il corteo si è snodato lungo le strade cittadine ed arrivato in piazza Cavour dove hanno preso la parola alcuni familiari delle vittime di mafia, prima della chiusura affidata a Don Luigi Ciotti. Presenti tante scolaresche accompagnate dai docenti, magistrati familiari di vittime innocenti delle mafie sacerdoti, vescovi, commercianti, rappresentanti di associazioni, sindacalisti, tantissimi politici, semplici cittadini: tutta la società era dunque presente e rappresentata a dovere. Al di là dei meri numeri, un fiume di persone ha sfilato urlando slogan come “I familiari non vogliono pietà, vogliono solo giustizia e verità”, “i familiari insieme alla città chiedono solo giustizia e verità”. Tante le scritte sugli striscioni tra cui: “La paura si vince con il coraggio e la legalità”. Dal palco sono intervenuti gli organizzatori della rete provinciale di Libera, le vittime innocenti di mafia: da Nicola Ciuffreda a Giovanni Panunzio da Francesco Marcone (la figlia Daniela è la vicepresidente nazionale di Libera) a Luigi e Aurelio Luciani. E infine l’arcivescovo del capoluogo dauno, monsignor Luigi Pelvi e il presidente di Libera, don Luigi Ciotti. Erano presenti al corteo anche la ministra delle Politiche Agricole Teresa Bellanova, oltre al presidente della Regione Puglia Michele Emiliano e il sindaco di Foggia Franco Landella. “Hanno scelto di essere al nostro fianco - ha commentato Daniela Marcone, foggiana vicepresidente nazionale di Libera - per far sentire con forza il nostro ‘no’ alla violenza criminale mafiosa, per non lasciare sole le vittime di questa violenza, per non lasciare soli i rappresentati dello Stato, le forze dell’ordine, la magistratura impegnati quotidianamente in operazioni importanti ed efficaci, per valorizzare il lavoro di resistenza delle tante realtà di questo territorio che provano a costruire percorsi di bellezza e di cambiamento. Un ‘esplosione di umanità in risposte alle bombe. Un grazie sentito a ciascuno di voi”. “Siamo qui per disinnescare la miccia della paura e della rassegnazione. Siamo qui - ha detto Luigi Ciotti dal palco - per fare emergente i tanti valori della nostra terra affinché ci sia un passaggio, un cambiamento. È importante che ci sia continuità. Noi non possiamo lasciare solo sulle spalle della magistratura e delle forze di polizia perché c’è una responsabilità di noi cittadini. Guai se non fosse così, guai se viene meno questo. Sono 165 anni che parliamo di mafia. Aveva ragione Giovanni Falcone quando diceva che era una lotta di civiltà e legalità. Tutti devono metterci la faccia - ha concluso il fondatore di Libera - polizia e magistratura non bastano. Serve tutta la società. Oggi non c’è regione d’Italia esente dalla mafia, ma qui c’è tanta gente in piazza che manifesta. Siate orgogliosi di essere pugliesi e foggiani”. Torino. Con Dosio e con gli altri arrestati, oggi i No Tav in corteo a di Maurizio Pagliassotti Il Manifesto, 11 gennaio 2020 “Fuori mi aspettano in molti e sento il loro affetto: la mia famiglia, i compagni, gli amici. Ma qui dentro ci sono esseri umani, tanti, che fuori non hanno nessuno e questo mi dà il tormento più della mia detenzione”: queste le parole che Nicoletta Dosio ha affidato ieri al senatore Tommaso Cerno, Pd, primo parlamentare che si è recato presso il carcere torinese Lorusso Cutugno dove da undici giorni è detenuta l’ex docente di greco e latino. Parole che raccontano l’essenza di questa donna di 73 anni. “Nicoletta Dosio - ha detto Cerno uscendo dal penitenziario - è una donna energica, profondamente umana, che ha deciso di spendersi anche dentro il carcere in favore degli ultimi e delle ultime di questo mondo. Io, per quanto mi riguarda, mi farò portavoce della richiesta di amnistia per i No Tav perché le inchieste e i processi sono stati usati per reprimere un dissenso legittimo. Penso che sia il minimo, visto che hanno ragione”. Come era prevedibile la carcerazione di Nicoletta Dosio esce dalla cronaca ed entra in una dimensione politica dalle conseguenze imprevedibili. Intorno a lei, come agli altri incarcerati del Movimento No Tav, si stringe un mondo di solidarietà e affetto; oggi è il giorno della manifestazione No Tav a Torino, idea nata dopo che Dosio è finita dietro le sbarre volontariamente, per riportare al centro del dibattito politico l’infinita vicenda della Torino-Lione, derubricata a “capitolo chiuso” dal governo precedente e da quello attuale. Ma la val Susa non è d’accordo, anche perché in Francia aumentano i pareri contrari ed è polemica su un presunto conflitto di interessi della ministra Borne. Il corteo partirà da piazza Statuto alle 14 e si annuncia come uno dei più partecipati di sempre: sono attesi decine di autobus in arrivo da tutta Italia. Manifestazione che si annuncia pacifica, come sono sempre stati i cortei che da quasi venti anni attraversano Torino per dire “no” al tunnel di base della Torino-Lione. Il primo fu nel 2001, al tempo della conferenza intergovernativa italo francese, una delle molte che hanno ribadito l’assoluta irrinunciabilità dell’opera, che però mai si è concretizzata. Venti anni fa marciarono in duecento: oggi saranno almeno 30mila. Il Procuratore generale Francesco Saluzzo ha decretato una sorta di coprifuoco sul Tribunale di Torino: resterà chiuso e presidiato dalle forze dell’ordine, anche se non si trova lungo il percorso del corteo ed è lontano oltre un chilometro dal punto di partenza. Intanto le manifestazioni di solidarietà ai No Tav incarcerati si ripetono da dieci giorni in tutta Italia e non solo. Sulla pagina social di Nicoletta Dosio sono pubblicate quotidianamente le foto di manifestazioni piccole e grandi: sono nati gruppi di solidarietà a San Francisco, Gaza, Buenos Aires, nonché in una miriade di comuni italiani. Ieri la Rete No Tav Roma ha manifestato con un blitz davanti al ministero della Giustizia aprendo uno striscione con scritto “Nicoletta libera tutti”, distribuendo volantini e parlando con i passanti. “Siamo davanti a questo ministero che dovrebbe garantire la giustizia nel nostro paese e invece garantisce il privilegio di pochi e la repressione per chi resiste ai soprusi. Chiediamo libertà immediata per tutti gli arrestati nella lotta popolare contro il raddoppio della Torino-Lione” hanno dichiarato alcuni di loro. Napoli. Il Garante comunale dei detenuti: “Il carcere di Poggioreale va chiuso” di Marco Ciotola vesuviolive.it, 11 gennaio 2020 Criticità e sovraffollamento. Nella giornata di ieri Pietro Ioia, il neo garante dei detenuti del Comune di Napoli, ha realizzato la sua prima ispezione nelle carceri partenopee. Ad accompagnarlo alcuni membri dei Radicali Italiani, da sempre sensibili alle criticità delle strutture penitenziari italiane. Il Garante ha visitato prima il carcere di Poggioreale e poi la Casa Circondariale di Secondigliano. A proposito della prima, InterNapoli.it ha riportato la seguente dichiarazione di Ioia: “La mia ultima visita a Poggioreale risale a 2 anni fa, quando non ero ancora garante. Due anni dopo devo constatare che nulla è cambiato, le condizioni restano purtroppo le stesse”. “I padiglioni - conferma Ioia - continuano ad essere fatiscenti, cosa che già si sapeva e le celle sono super affollate. Il carcere di Poggioreale è obsoleto, ha un secolo di vita”. Cosa fare, allora, per migliorare le condizioni del carcere di Poggioreale? Per Ioia c’è una sola soluzione: “Chiuderlo, non è possibile tenere lì così i detenuti. Molti di loro dovrebbero sottolineare la malasanità, l’ingiusta detenzione perché quel carcere di segna. I detenuti con i quali ho parlato continuano a dire che vivono in celle puzzolenti, con mura pericolanti, docce senza acqua calda. Ho avuto molte richieste di colloqui privati con chi è in carcere a Poggioreale e presto li accontenteremo tutti”. Diverse, invece, sono le condizioni della Casa Circondariale di Secondigliano. “La situazione - ha dichiarato Pietro Ioia - è migliore, ma anche su quel carcere sarò attento come garante”. A proposito di Poggioreale ha parlato anche Raffaele Minieri dei Radicali Italiani. “Ci sono problemi che toccano la carne viva delle persone detenute e delle famiglie che soffrono”, riporta ancora InterNapoli.it. La struttura di Secondigliano, invece “è migliore, la nuova direttrice si sta impegnando tanto ma come Poggioreale l’area sanitaria va attenzionata e chiederemo al consiglio regionale della Campania di farsene carico”. Sassari. Innalzato livello di allerta nel carcere di Bancali di Elia Sanna La Nuova Sardegna, 11 gennaio 2020 Applicate le disposizioni del capo del Dipartimento Francesco Basentini. La decisione per lo scenario internazionale e la possibile minaccia terroristica. Livello di attenzione elevato anche nel carcere di Bancali dove sono rinchiusi i detenuti accusati di terrorismo internazionale e compresi nel regime di Alta sorveglianza 2. Quello di Sassari è ritenuto uno dei pochi penitenziari in Italia (insieme a quello di Nuoro) idonei per accogliere reclusi che vengono monitorati per una possibile minaccia terroristica. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini ha appena inviato una nota ai direttori e ai comandanti degli istituti penitenziari per aumentare il livello di allerta e di sensibilità nei confronti di un possibile innalzamento della minaccia terroristica. L’iniziativa è stata presa proprio in considerazione dell’attuale scenario internazionale e della recente crisi dei rapporti fra Stati Uniti e Iran dopo l’uccisione del generale Soleimani. In particolare il capo del Dap ha chiesto di “intensificare l’attività di osservazione volta all’individuazione di eventuali segnali di criticità in ordine a tali fatti”. Le disposizioni impartite sono chiare quindi: massima attenzione dovrà essere riservata a “possibili esternazioni, da parte della popolazione detenuta, di sentimenti anti-occidentali o comunque anti-americani”, che dovranno essere subito segnalate alle competenti articolazioni centrali e territoriali dell’amministrazione”. I primi accorgimenti ci sono già stati, con l’innalzamento dei livelli di vigilanza e il potenziamento della sicurezza interna ed esterna degli istituti, e nuove disposizioni sono state impartite anche per quanto riguarda i servizi di traduzione e di piantonamento dei detenuti all’esterno delle carceri. Il carcere di Bancali è ormai da tempo inserito nella lista degli istituti dove è necessaria una attenzione particolare, perché la minaccia terroristica internazionale viene accostata al fatto che le carceri possano costituire un bacino di reclutamento importante attraverso la propaganda Jihadista. C’è da dire che il carcere sassarese di Bancali continua a essere al centro delle proteste dei sindacati per l’inadeguatezza degli organici e per la mancanza di un comandante della polizia penitenziaria e di un direttore di ruolo: “Un fatto grave se si considera la rilevanza che viene attribuita a livello nazionale alla struttura carceraria”. Rovigo. Soluzioni per l’emergenza abitativa degli ex detenuti Il Gazzettino, 11 gennaio 2020 Prosegue il lavoro del Tavolo di coordinamento Grave marginalità e carcere, avviato a settembre dal Comune di Rovigo con 20 associazioni, il Centro di salute mentale, il Servizio per le dipendenze di Rovigo, l’Uepe di Padova e Rovigo e con il Garante dei diritti delle persone private della libertà. Dopo la prima riunione di avvio, alla quale ha partecipato anche il direttore del carcere rodigino Romina Taiani, l’altro ieri a palazzo Nodari si è tenuto il secondo incontro. Durante la prima riunione, come spiega l’assessore al Welfare Mirella Zambello, è emersa la necessità di una sinergia per attivare iniziative interne al carcere con scopo riabilitativo e altre iniziative di supporto al reinserimento lavorativo di chi esce dal carcere dopo aver scontato la pena. L’incontro di giovedì era invece mirato alle realtà che si occupano di accoglienza residenziale e ha visto la partecipazione della direttrice del carcere Taiani con l’equipe che segue la gestione delle attività interne al carcere. L’obiettivo è trovare delle opportune soluzioni per chi esce dal carcere e non ha una residenza o un luogo dove andare. Si consolideranno inoltre, come ha spiegato Zambello, i rapporti per le accoglienze delle persone che possono svolgere misure esterne alternative alla detenzione. Al tavolo erano presenti le associazioni: Comunità Emmaus, Portaverta, Messaggeri di speranza, Arci Solidarietà, Il Manto di Martino, le Cooperative Sociali Porto Alegre, Di Tutti i colori, Alzati e vola, il Centro francescano di ascolto, la Caritas diocesana. Presenti anche l’Uepe, il Centro salute mentale e il Servizio per le dipendenze di Rovigo ed il Garante dei diritti alle persone. Favignana (Tp). Detenuti impegnati in attività lavorative per l’Area Marina Protetta itacanotizie.it, 11 gennaio 2020 Detenuti al lavoro nella più grande riserva marina d’Europa. I reclusi del carcere di Favignana nel 2020 avranno l’opportunità di essere impiegati per la prima volta in diverse attività ricadenti nell’ambito dell’Area Marina Protetta del territorio egadino. Va detto, comunque, che da anni sono coinvolti in occupazioni temporanee retribuite sull’isola. Il lavoro è, infatti, uno dei principali strumenti, previsti dalla Costituzione e dall’ordinamento penitenziario, per la risocializzazione e il trattamento rieducativo del condannato. Martedì 14 gennaio, in occasione della tradizionale conferenza di servizio per la programmazione delle attività, che si svolgerà presso la Casa di Reclusione di Favignana, alla presenza del magistrato di sorveglianza di Trapani Chiara Vicini, del direttore dell’Ufficio Detenuti e Trattamento del Provveditorato di Palermo, Settimio Monetini, del sindaco di Favignana-Isole Egadi e Presidente dell’Area Marina Protetta, Giuseppe Pagoto, del direttore dell’Area Marina Protetta, Salvatore Livreri Console e del direttore della Casa di Reclusione, Nunziante Rosania, sarà firmato un protocollo d’Intesa fra la casa di Reclusione, l’Area Marina Protetta e l’Uepe di Trapani, rappresentato da Maria Rosaria Asta, che consentirà l’impiego di una decina di detenuti per lo svolgimento di lavori sul territorio egadino nell’ambito delle attività e dei beni che ricadono sotto l’egida della riserva naturale. Il documento prevede la corretta applicazione della Legge 6.12.91 la quale configura le Aree Naturali Protette quali “luogo di sperimentazione e conduzione di modelli sociali consapevoli ed orientati allo sviluppo economico sostenibile dei territori anche attraverso progetti d’inclusione sociale” e della Legge Penitenziaria che prevede l’inserimento socio lavorativo dei soggetti sottoposti a detenzione. Il protocollo si sostanzierà in progetti da realizzarsi nel breve periodo e che prevedranno l’intervento dei detenuti in tutti gli ambiti territoriali e operativi dell’Area Marina Protetta “Isole Egadi”, compresi gli aspetti formativi. Velletri (Rm). Premiati i detenuti vincitori del concorso “Camera con vista” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 gennaio 2020 “La scrittura è un modo possibile di comprensione non solo di ciò che si è fatto ma anche di quello che si sarebbe voluto fare e di ciò che si vuole fare. La scrittura non è soltanto memoria, non è soltanto un ricordo, non è soltanto ricapitolazione della propria vita ma è anche apertura verso altre vite”. Con queste parole lo scrittore Edoardo Albinati, premio Strega 2016, ha introdotto la premiazione, in qualità di presidente della giuria, della prima edizione del premio letterario “Camera con vista” in favore dei detenuti della Casa circondariale di Velletri. L’evento si è tenuto nel teatro del carcere, dedicato ad Enzo Tortora, ed è stato condotto dall’avvocato Sabrina Lucantoni, presidente della Camera penale di Velletri, e ideatrice del progetto: “Con i membri del direttivo abbiamo ritenuto necessario creare un collegamento concreto tra la società civile e la popolazione carceraria. A noi operatori del diritto, a chi rifugge una idea moralizzatrice della giustizia, tocca promuovere queste iniziative culturali. I detenuti ci hanno donato i propri sentimenti, il dolore, il rammarico, la vergogna ma anche la speranza”. E di speranza ha parlato l’esponente radicale Rita Bernardini: “Pannella diceva che non bisogna solo avere speranza ma anche essere speranza. Se tu la incarni ti rendi conto che cambi la realtà intorno a te. Fra questi elaborati c’è questo concetto, alcuni detenuti hanno scritto di volere speranza per se stessi ed esserlo per gli altri. E questo è molto bello perché significa voler costruire qualcosa e dare qualcosa agli altri”. Un intervento molto profondo, che ha buttato giù il muro che divide i giusti dagli ingiusti, è stato quello di Maria Antonia Vertaldi, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma: “Posso dire con certezza, alla fine della mia carriera, che forse i migliori giorni della mia vita sono quelli che ho trascorso all’interno del carcere dove ho avuto modo di capire e principalmente conoscere me stessa, i miei limiti, le mie paure, i miei timori, le mie speranze che sono gli stessi sentimenti di coloro che nel carcere vivono in espiazione di una pena. Noi tutti vorremmo, io voglio e molti come me, che la pena si espiata in condizioni umane, rispettando la dignità”. Per Lia Simonetti, presidente dell’ordine avvocati di Velletri, “ai detenuti, secondo il dettato costituzionale, va data una possibilità concreta di risocializzazione, hanno diritto non soltanto a belle parole ma anche al rispetto sociale, alla possibilità di essere utili, al lavoro e a nuove spinte rigenerative, ad una vita vera futura”. L’avvocato Francesco Lodise ha denunciato come “oggi non si tiene la barra dritta sull’articolo 27 della Costituzione, un faro che dobbiamo tenere sempre presente anche nella notte buia di un carcere”. Anche il Dubbio era tra i giurati: “Noi giornalisti siamo abituati a sbattere in prima pagina i mostri, che siano semplicemente indagati o colpevoli. Appena entrano in carcere ci dimentichiamo di loro e decidiamo irresponsabilmente di non raccontare il loro cambiamento”. Al termine degli interventi, sulle note del cantautore Stefano Pavan, e con la lettura di alcuni brani del doppiatore Mino Caprio, sono stati premiati i migliori racconti “Talento sprecato”, “La vita in carcer”‘, “Cosa mi ha portato qui” - e il miglior disegno. Una casa editrice si è già fatta avanti per pubblicare tutti i racconti ma intanto per chi volesse acquistare le prime copie autoprodotte, i cui proventi andranno ai detenuti vincitori, può scrivere a: s.lucantoni@ gmail. com. Senigallia (An). Incontro sul tema “un modo nuovo di recuperare l’uomo che sbaglia” viveresenigallia.it, 11 gennaio 2020 “L’uomo non è il suo errore”. È una frase molto efficace, che interpella la nostra coscienza civile. Descrive in modo sintetico l’idea di base su cui è fondata l’esperienza del progetto CEC, Comunità Educante con i Carcerati. Se ne discuterà mercoledì prossimo, 15 gennaio, al Teatro Portone, alle ore 21, in un incontro promosso dalla Scuola di Pace del Comune di Senigallia e dalla Diocesi di Senigallia. È il secondo incontro che la Scuola di Pace propone a tutta la città, inserito nel programma biennale “Risoluzioni. Contare i conflitti, raccontare la Pace”. Le CEC sono delle comunità alternative al carcere, promosse dalla Comunità papa Giovanni XXIII, presenti soprattutto nella provincia di Rimini. Accolgono detenuti a cui mancano non più di quattro anni di carcere prima di ottenere di nuovo la libertà. Le strutture non prevedono celle di isolamento, non ci sono guardie carcerarie, non c’è un clima punitivo. Sono comunità in cui a tutti è richiesto un servizio a favore degli altri. Alle persone che vivono in una comunità CEC vengono proposti dei percorsi educativi, che aiutano a misurarsi con il proprio passato, a recuperare la propria autostima e a prepararsi per un autentico reinserimento nella società. Si guarda, dunque, all’uomo, non al suo errore, in un’ottica che, a partire da una proposta di fede cristiana, punta a recuperare la propria dignità umana e il senso di solidarietà con le altre persone. Ogni detenuto ha vissuto sulla propria pelle un conflitto che lo ha portato a compiere azioni sbagliate. Superare questi conflitti, nell’ottica della giustizia riparativa, significa fare Pace con il proprio passato e porre le basi per un futuro di Pace con se stessi, con il proprio contesto familiare e sociale. Da ormai diversi mesi, un gruppo di giovani di Senigallia, a cui si sono affiancate anche delle persone adulte, sta svolgendo un’attività di volontariato recandosi presso alcune comunità CEC. È un’attenzione che sta crescendo e che interpella la coscienza di ogni autentico costruttore di Pace. Si sta pensando di aprire anche a Senigallia una comunità CEC, coinvolgendo le tante associazioni presenti in città che sono attente al mondo dei carcerati. Ospite della serata del 15 gennaio sarà Giorgio Pieri, uno dei fondatori del progetto CEC, insieme ad alcuni detenuti che, attraverso il racconto della loro storia, faranno capire l’importanza dei percorsi alternativi al carcere per dare nuova vita e speranza a chi ha un debito con la società. Il razzismo e i suoi confini di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 11 gennaio 2020 Le culture sono una cosa complicata e da maneggiare con cura. Per una ragione evidente: perché contribuiscono in misura decisiva a costituire l’identità di ognuno di noi, a farci essere e a farci sentire ciò che siamo, spesso al di là della nostra stessa consapevolezza. L’alternativa non è tra il razzismo e l’accoglienza. Quando si tratta di rapporti con l’”altro”, con chi percepiamo come diverso perché estraneo alla collettività umana cui noi apparteniamo, l’alternativa non è tra il rifiuto aggressivo intessuto di uno sprezzante senso di superiorità da un lato, e dall’altro la disponibilità più aperta, amichevole e ospitale. C’è una terza posizione, che è poi quella istintivamente adottata dalla grande maggioranza degli esseri umani. Ce la indica un grande antropologo, forse il più grande del Novecento, Claude Lévi-Strauss - è necessario aggiungere che difficilmente lo si sarebbe potuto definire un conservatore? - in un suo testo poco noto (De près et de loin, Odile Jacob, 1988) contenente parole di straordinaria attualità che meritano di essere conosciute e meditate. Specialmente in un momento come l’attuale in cui nella società italiana le tensioni di vario genere causate dall’immigrazione stanno accendendo intorno a questi temi un aspro dibattito pubblico nel quale si sprecano le accuse e le strumentalizzazioni politiche. Per Lévi-Strauss il razzismo è “l’ostilità attiva” di una cultura verso un’altra, volta a “distruggerla o semplicemente ad opprimerla” sulla base di una presunta gerarchia qualitativa dei rispettivi patrimoni genetici. Questo è il razzismo: che, come è ovvio, si accompagna inevitabilmente alla negazione all’altro degli stessi diritti di cui godiamo noi. Invece, aggiunge subito dopo Lévi-Strauss, “che delle culture, pur rispettandosi possano sentire maggiori o minori affinità le une per le altre, questa è una situazione di fatto che è sempre esistita. È un dato normale dei comportamenti umani”. E fa un esempio che lo riguarda personalmente: se in metropolitana gli capita d’incontrare dei giapponesi, verso la cui cultura egli è attratto, gli viene naturale un moto di simpatia e d’interesse, e il fatto si produce, ammette senza problemi, sulla base della loro semplice apparenza fisica, del loro puro modo di comportarsi nonché della conoscenza della loro lingua. “Nella vita quotidiana, conclude, tutti ci comportiamo così per situare uno sconosciuto sulla carta geografica. (.…) Sarebbe davvero il culmine dell’ipocrisia pretendere di vietare questo genere di approssimazione”:(...) “denunciarla come razzista rischia solo di fare il gioco del nemico dal momento che molte persone ingenue si diranno: se questo è razzismo, ebbene io allora sono razzista”. Dunque non volere avere troppo a che fare con i nigeriani, dico per dire, a causa del loro modo di fare, o sentirsi infastiditi dall’odore del cibo cucinato dai bengalesi, o trovare sgradevole l’idea di avere dei vicini di casa rom, non ha niente a che fare con il razzismo. È un’altra cosa. Così come è un’altra cosa preoccuparsi del fatto che la presenza di una cultura diversa dalla propria raggiunga proporzioni tali da rendere la nostra minoritaria. Una tale preoccupazione diventa razzismo non già quando in base ad essa si chiedono all’autorità misure per evitare che si crei la condizione suddetta (chiedendo di porre dei limiti all’immigrazione, ad esempio), bensì quando s’invocano misure a qualunque titolo discriminatorie nei confronti di chi è già tra di noi. O, come accade più spesso, quando con atti o con parole ci si comporta verso chi non condivide la nostra cultura in un modo che ci guarderemmo bene da adoperare con coloro che invece la condividono. Le culture sono una cosa complicata e da maneggiare con cura. Per una ragione evidente: perché contribuiscono in misura decisiva a costituire l’identità di ognuno di noi, a farci essere e a farci sentire ciò che siamo, spesso al di là della nostra stessa consapevolezza. Se si è nati in questa parte del mondo, ad esempio, può capitare di essere un ateo a diciotto carati, infatti, perfino un mangiapreti, ma nel momento in cui si vede la cattedrale di Notre-Dame andare a fuoco, avvertire comunque un sentimento misterioso di tristezza e di angoscia, di perdita di qualcosa che ci riguarda profondamente. Proprio per questo la politica è sempre tentata di sfruttare, esasperandolo, il dato culturale-identitario, dal momento che essa vede in ciò la possibilità di fare appello alla nostra parte meno razionale, di sollecitare le nostre reazioni più immediate e magari sconsiderate. È questa la strada che in Italia troppo spesso imbocca una parte della destra quando esaspera gli animi e più o meno intenzionalmente favorisce comportamenti che mirano a negare o violare i diritti altrui, siano questi emigrati, rom, o chiunque altro. Al che però si risponde spesso dall’altra parte, dalla sinistra, in modo altrettanto esasperato e contrario, opponendo ai “bassi istinti” gli “alti principi”, alla febbre identitaria un algido idealismo che affida tutta la sua capacità di convinzione alla forza del tabù che per ogni persona civilizzata rappresenta l’accusa di razzismo. Ma applicare sconsideratamente il termine razzismo, come non manca di sottolineare esplicitamente Lévi-Strauss, significa solo banalizzare il concetto, svuotarlo del suo contenuto. E così rischiare di condurre alla fine a un risultato opposto a quello desiderato. Populisti, sovranisti e giustizialisti: fake news e consenso degli analfabeti funzionali di Gilberto Corbellini Il Riformista, 11 gennaio 2020 La cultura liberale e quella progressista oggi maledicono la post-verità, che è il massimo comune denominatore di populismo, sovranismo e giustizialismo. Ma come è stato possibile che un’idea così bislacca come quella delle “verità alternative”, dell’uso diverso degli stessi fatti a seconda delle convenienze, abbia avvelenato cognitivamente il mondo occidentale, dove grazie ad alcuni secoli di alleanza storica tra verità e libertà, resa possibile dalla scienza, oggi si sta meglio di sempre. Per Karl Popper i principi e valori liberali, cioè stato di diritto, eguaglianza di fronte alla legge e libertà personale, possono sopravvivere alla constatazione che i giudici fanno errori, la giustizia reale è imperfetta e non viviamo nel migliore dei mondi possibile, ma non all’accettazione dell’idea che “non esistono fatti oggettivi”. Nell’ultimo mezzo secolo la cultura umanistica e le scienze sociali in occidente hanno contratto una malattia cronica, il cui nome generico è relativismo. Il relativismo, cioè la credenza che possiamo parlare solo di opinioni personali, tutte con la stessa dignità epistemologica e morale, è un’antica presenza nella cultura umana. Ed è anche una predisposizione psicologica, dato che gli studi che tracciano la maturazione dell’epistemologia nei giovani mostrano che essi arrivano (o noi arriviamo) spontaneamente a essere o dogmatici o relativisti, ma non a essere pluralisti, cioè a pensare in modo indipendente, a rispettare le prove, etc. Per questo serve dotarsi di una seconda natura, cioè apprendere alcune idee contro-intuitive, tra cui quelle scientifiche. Il ceppo di relativismo che ha scavato culturalmente la fossa ai valori liberali è il postmodernismo o costruttivismo sociale o teoria critica, nato negli anni Sessanta-Settanta dall’insano matrimonio avvenuto in Francia fra marxismo, strutturalismo, fenomenologia e psicoanalisi. Il relativismo postmoderno si diffondeva come una infezione nel mondo intellettuale di sinistra, mentre declinava e si estingueva lo storicismo socialcomunista. Le parole d’ordine erano che la verità non esiste, ogni forma di pensiero è debole e l’oggettività sarebbe un miraggio generato dalle strutture e dai rapporti di forza sociali. Tutto è narrazione, la realtà è un testo, etc. come poi qualcuno avrebbe scritto. La diffusione del postmodernismo relativista nei dipartimenti umanistici nordamericani si realizzava con il sostegno degli intellettuali social-costruttivisti e di sinistra e nell’alleanza nelle battaglie contro l’apocalisse ambientale, il dominio umano sugli altri animali, la cultura maschilista, la scienza riduzionista, il potere medico-farmaceutico, etc. Si combatterono le culture wars: da una parte scienziati sociali e umanisti e dall’altra gli scienziati sperimentali. Questi ultimi ridicolizzarono le fumosità e vuotezze linguistico-teoriche degli argomenti postmoderni, talvolta impedendo anche che professori costruttivisti entrassero a insegnare nei templi delle scienze dure. Tra gli episodi più significativi, articoli inventati e pubblicati su riviste umanistiche, ma anche scientifiche, per dimostrare da un lato che i postmoderni scrivevano insalate di parole senza senso, e dell’altro che gli scienziati potevano essere altrettanto ingannati malgrado il loro culto dell’oggettività. Oggi qualcuno di quegli intellettuali relativisti, un po’ più intelligente come Bruno Latour, riconosce che la sfiducia nella scienza, generata anche da quelle polemiche che entravano nelle scuole e nei media, è la principale minaccia per i valori liberali dell’occidente. Perché, nel frattempo, il relativismo è stato fatto proprio, in una forma diversa, dai conservatori populisti. Negli anni Ottanta alcuni intellettuali conservatori e tradizionalisti come Allan Bloom, che in The Closing of the American Mind (1987) scriveva che il relativismo e la teoria critica chiudono invece di aprire le menti dei giovani, riportavano il fenomeno della perdita di presa della verità o della saggezza a cause socioeconomiche. Bloom lamentava il lassismo dei genitori nell’educazione morale dei loro figli e denunciava l’industria della musica rock. La maggior parte degli intellettuali di destra ha però negato che il postmodernismo fosse conseguenza del consumismo e di altri sviluppi sociali e tecnologici su larga scala, ma fosse dovuto principalmente agli insegnamenti di pericolosi accademici di sinistra (“professori radicali a tempo indeterminato”). Oggi, intellettuali sia di destra sia di sinistra incolpano la teoria postmoderna per il disprezzo senza precedenti per la verità da parte di Trump e dai suoi collaboratori che diffondono “fake news” in modo sistematico, invocano “fatti alternativi”, affermano che “la verità non è la verità” (Rudolph Giuliani), etc. Liberal o conservatori anti-relativisti denunciano, per esempio scrivendo sulla rivista libertaria Quillette in modi quasi ossessivi, la “teoria critica” e il postmodernismo, e sostengono che “Trump è stato il primo presidente a rivolgere il postmodernismo contro se stesso”. Gli intellettuali di sinistra, si pensi ai “biopolitici”, avevano difeso la ridicola idea che non esistono verità universali, ma solo percezioni soggettive plasmate dalle forze culturali e sociali dei tempi nei quali si vive. Oggi questa filosofia è usata spietatamente nella comunicazione da parte della destra populista: basta guardare mezz’ora Fox News. Peraltro i progressisti non hanno abbandonato le tradizionali faziosità e pregiudizi, per cui il caos culturale ormai dilaga e la politica è una questione di bande che si fanno, si disfano e si rifanno nel nome qualche obiettivo giustizialista. Gli intellettuali populisti o sovranisti quasi di sicuro non hanno letto Foucault, Baudrillard o Derrida, ma il precipitato di quel messaggio illiberale è facile da capire e sfruttare per intercettare i tanti analfabeti funzionali, che non devono più chiedersi se qualcosa sia falso o vero, o chi odiare ma solo farselo dire dal pifferaio manipolatore di turno. L’appello Onu. Cavalieri: “Aiutateci a salvare i rifugiati in Libia” di Paolo Lambruschi Avvenire, 11 gennaio 2020 Fuoco incrociato sull’Alto commissariato Onu per i rifugiati in Libia. Da una parte la protesta dei rifugiati detenuti nei centri governativi in condizioni inumane e le conseguenti critiche dei media e degli attivisti all’Agenzia delle Nazioni Unite per il mancato intervento e la mancata protezione ai detenuti. Dall’altra la situazione sempre più drammatica per il conflitto in corso e per l’indisponibilità dei Paesi occidentali ad accettare i ricollocamenti dei rifugiati e le evacuazioni, bloccando i profughi nei centri in un Paese con un governo sostenuto dall’Onu, ma che non ha firmato la Convenzione di Ginevra per i rifugiati. Un circolo vizioso drammatico con un’emergenza umanitaria in corso che ha messo sulla graticola lo staff guidato dal capo missione Jean Paul Cavalieri, in Italia in questi giorni in Italia per un’audizione alla Camera. Cavalieri ha accettato di parlare con Avvenire. Qual è la situazione dei richiedenti asilo nei centri di detenzione sotto il controllo di Tripoli? Dei 43mila richiedenti asilo in Libia, circa 2mila sono trattenuti arbitrariamente in detenzione. In tutto, sono 3mila i rifugiati di cui abbiamo conoscenza. Un numero in calo. Dal settembre 2017 sono state oltre 4mila le persone evacuate dalla Libia, di cui circa 3mila in Niger nel transito d’emergenza finanziato dall’Ue. L’anno scorso sono state evacuate 2.500 persone, oltre 800 in Italia. Rimane allarmante la situazione dei rifugiati nelle zone urbane, con persone che pagano le guardie per accedere ai centri di detenzione sperando che l’Alto commissariato Onu per i rifugiati possa identificarli e ricollocarli in altri Paesi. Nel 2019 abbiamo trattato con le autorità libiche per entrare in 15 centri e preparare le evacuazioni. E fatto rilasciare un terzo dei detenuti registrati, circa 1.780 persone. Per il conflitto in corso c’è una totale disconnessione tra Guardia costiera e Dcim (l’unità che risponde al ministro dell’Interno per il contrasto all’immigrazione clandestina in mano alle milizie) per cui il numero non viene comunicato. Stimiamo che un terzo sia stato lasciato andare una volta a terra. I migranti imprigionati vi accusano di non fornire assistenza. Ci sono malati di Tbc e si registrano decessi di soggetti vulnerabili e persone torturate. Perché non intervenite? Da due mesi non riusciamo più a raggiungere i centri a causa del conflitto. E i direttori sono in realtà miliziani integrati nel ministero degli Interni e combattono. Questa è la realtà. Non ci lasciano entrare. Occorre poi chiarire alcune cose. I centri di detenzione sono del governo, che li gestisce. A causa della guerra il supporto del ministero delle Finanze ai servizi come il catering, molto costoso e appaltato a società private, è venuto a mancare. Noi non abbiamo il compito di nutrire le persone nei centri di detenzione, è compito dello Stato libico. Che non è in grado di farlo, tanto che le autorità in alcuni casi hanno deciso di aprire le porte dei centri di detenzione. In altre situazioni i centri sono stati utilizzati dalle milizie come basi militari. I richiedenti asilo fuori dai centri di detenzione, ovvero la maggioranza, cercano il supporto della nostra organizzazione, ma non sempre il Centro comunitario diurno a Gurji, nel distretto di Tripoli, riesce a fornire assistenza umanitaria. Il pacchetto di assistenza monetaria urbana dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati in Libia ha raggiunto solo il 5% della popolazione. L’anno scorso infine abbiamo effettuato oltre 30mila visite mediche, 42.500 tra rifugiati e sfollati hanno ricevuto aiuti e 1.800 famiglie hanno incassato aiuti economici in contanti perché non riusciamo ad accoglierli. Conosciamo la situazione, sappiamo che ci sono abusi nei centri e la situazione dei diritti umani è preoccupante. Noi facciamo pressioni per le evacuazioni, ma non possiamo garantirle. Quali criteri di scelta utilizzate per tirare fuori la gente dai centri? Prima le donne con bambini, minori non accompagnati e malati. Purtroppo siamo fermi e il centro Gdf di Tripoli per le persone da ricollocare è sovraffollato. Non abbiamo Paesi dove collocarli. Ce ne sono più di 700 fuori dal centro. Offriamo loro alternative, diamo loro quattrini e assistenza. Veniamo criticati per questo, ma in tutto il mondo ci sono stati solo 55mila ricollocamenti di rifugiati l’anno scorso, su 1.250.000 richieste: meno dell’1%. In Libia, nel 2019, abbiamo ricollocato il 5% dell’intera popolazione dei rifugiati. Non basta, certo, eppure siamo sopra la media. Le critiche sono il prezzo per lavorare in Libia. Social media e attivisti per i diritti umani ci attaccano anche perché non entrano più migranti nel Gdf. Che è di proprietà del ministero degli Interni. Non possiamo garantire a nessuno l’evacuazione dalla Libia. Non bisogna illudere nessuno. Per accelerare le evacuazioni non si può chiedere ad altri Paesi africani di diventare Paesi di transito come Ruanda e Niger? Intanto i meccanismi di transito in Ruanda e Niger andrebbero estesi. È positivo che la Norvegia abbia detto che nel 2020 accoglierà 600 rifugiati che abbiamo trasferito in Ruanda. E i Paesi di destinazione finale come Svezia, Germania, Francia devono aumentare. Abbiamo bisogno di più meccanismi di ricollocamento e più corridoi umanitari, come ha fatto l’Italia. Che ha indicato la volontà e l’interesse di continuare nel 2020. Per quanto riguarda paesi di transito come l’Etiopia, Sudan e Ciad, i migranti in Libia sono stati per anni nei campi, senza trovare sostentamento. Per prevenire viaggi molto pericolosi e trasferirvi chi sta nei centri libici, occorre potenziare questi strumenti. Però dobbiamo convincere chi sta in Libia a muoversi, perché lì sono vicini all’Europa e considerano una sconfitta tornare indietro. Un’inchiesta dell’Ap a fine dicembre ha denunciato la corruzione nei centri, dove le milizie intascherebbero i fondi Ue. Come potete lavorare con miliziani che sono anche trafficanti sulla lista nera stilata dal Consiglio di sicurezza? Dobbiamo stare ovunque ci siano rifugiati anche in situazioni complicate e lavorare per proteggerli e farli rilasciare. Questo è il nostro compito e perciò trattiamo con chi abbiamo davanti. I responsabili dei centri sono sì miliziani, ma anche funzionari di un governo riconosciuto. Noi seguiamo protocolli e linee guida e cerchiamo di no trattare con trafficanti. Ma forse tocca alla comunità internazionale essere più presente in Libia. Se uno Stato abbatte un aereo civile chi lo giudica? di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 11 gennaio 2020 Uno Stato (Iran per il Canada) che abbatta per calcolo o errore un aereo di linea, da chi può essere processato? Se uno Stato (come l’Iran secondo le accuse del Canada per i 176 morti a bordo del Boeing dell’Ukraine International Airline precipitato a Teheran l’8 gennaio) risulta storicamente responsabile di aver abbattuto - per strategia o per errore - un aereo di linea civile, quella responsabilità storica può diventare anche giuridica? Dove e da chi può cioè essere processato per cosa? Una prima possibile risposta, almeno sulla giurisdizione, può arrivare da una incidentale recentissima decisione della Corte internazionale di giustizia dell’Aja che lo scorso 8 novembre, respingendo le obiezioni di Mosca, si è ritenuta competente a esaminare il ricorso presentato dall’Ucraina contro la Federazione Russa (sotto forma di perimetro di applicazione della Convenzione sulla repressione del finanziamento del terrorismo) per l’abbattimento dell’aereo Boeing MH17 della Malesia Airlines, decollato il 17 luglio 2014 da Amsterdam ma mai atterrato a Kuala Lumpur perché colpito dai ribelli filo-russi con un missile russo terra-aria in territorio ucraino orientale al confine russo. Sulla medesima vicenda, costata la vita a 298 passeggeri di 14 nazioni, i familiari delle vittime hanno pendente un procedimento anche a Strasburgo davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, e lì chiedono che la Russia sia ritenuta, in maniera diretta o indiretta, responsabile di aver violato l’articolo 2 della Convenzione europea sul diritto alla vita, l’8 sul diritto alla vita privata e familiare, il 3 sul divieto di trattamenti inumani, il 6 sull’equo processo e il 13 sul diritto a una tutela giurisdizionale effettiva per non aver svolto alcuna effettiva indagine. La Corte internazionale di giustizia dell’Aja avrebbe peraltro potuto esprimersi già una ventina d’anni fa in un caso rovesciato rispetto a quello odierno, cioè il caso di un aereo iraniano abbattuto da un missile americano. L’Iran, infatti, aveva presentato un ricorso contro gli Stati Uniti dopo che l’incrociatore americano “Vincennes” il 3 luglio 1988, alle prese con gli iraniani in schermaglie militari nello stretto di Hormuz, per errore scambiò un Airbus civile della Iran Air per un caccia F 14 iraniano, e lo abbatté con i suoi 290 passeggeri. Per anni gli Stati Uniti negarono la propria responsabilità, dipendente dall’errore di valutazione del comandante della nave, fin quando invece nel 1996 sotto la presidenza Clinton risarcirono 62 milioni di dollari alle famiglie dei morti e altri 70 al governo di Teheran, che a fronte di questo gesto ritirò le accuse agli Usa davanti alla Corte internazionale di giustizia. Risarcimenti, del resto, hanno spesso chiuso in qualche modo vicende pur costate molto sangue. Come quella del 4 ottobre 2001 durante una esercitazione militare dell’Ucraina nella quale i missili avrebbero dovuto centrare dei droni-bersaglio: un missile a guida radar, di fabbricazione russa, fallì invece il proprio drone, fu attirato per errore verso un aereo di linea e gli esplose sopra, distruggendolo e facendo 76 morti: la ricorrente diatriba di accuse e contro accuse (in questo caso con gli ucraini che negavano la propria responsabilità e i russi che accusavano i ceceni) si concluse con il pagamento di 10 milioni ai familiari e le dimissioni del ministro della Difesa di Kiev. Un po’ come era avvenuto nel 1963, quando la Bulgaria accettò di risarcire le famiglie dei 58 morti sul volo israeliano El Al 402 Tel Aviv-Vienna, abbattuto da Sofia il 27 luglio 1955 perché per sbaglio era entrato nello spazio aereo bulgaro. Giuridicamente più peculiare il travagliato iter delle indagini sulla bomba che il 21 dicembre 1988 esplose sopra i cieli scozzesi di Lockerbie a bordo del Boeing 747 della Pan Am in volo tra Londra e New York. Per l’attentato, nel quale morirono non solo tutti i 259 passeggeri ma anche 11 abitanti della cittadina scozzese colpiti dai rottami, dopo anni di pressioni internazionali e sanzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu la Libia di Gheddafi accettò che i due sospettati uomini della propria intelligence, Abdel-Basset Ali al-Megrahi e Lamin Khalifah Fhimah, fossero consegnati agli scozzesi ma venissero processati in campo semi-neutro, cioè in Olanda a Camp Zeist ma da una Corte di giudici scozzesi e in base al diritto scozzese: Fhimah fu assolto, mentre Megrahi, condannato all’ergastolo nel 2001, fu però poi liberato nel 2009 dal governo inglese con il pretesto di una malattia ma in realtà per diplomazia sotterranea con Gheddafi. Dall’altra parte del mondo, la Commissione Interamericana dei Diritti dell’Uomo, nel caso “Alejandreat contro Cuba” originato dall’abbattimento di due piccoli aerei privati da parte di caccia cubano in spazio aereo internazionale, ha ritenuto che Cuba era vincolata al rispetto del diritto alla vita delle persone interessate dal suo uso di forza militare anche se al momento dell’attacco esse non erano all’interno del proprio controllo territoriale e neanche in un ambiente fisico di propria custodia. Un capitolo a parte, infine, è quello delle misure antiterrorismo dopo lo choc dell’attacco sferrato alle Torri Gemelle di New York l’11 settembre 2011 con aerei di linea dirottati da kamikaze. La Germania, ad esempio, nel 2005 approvò una legge che consentiva al governo di ordinare all’Aereonautica militare di abbattere un aereo civile nel caso stesse per “essere impiegato contro esseri umani”, ma nel 2006 la Corte Costituzionale tedesca ha bocciato questa legge con l’argomento che il valore della dignità della persona fa sì che nessun bilanciamento possa giustificare il sacrificio della vita dei passeggeri a favore della vita parimenti innocente di possibili future vittime di un volo kamikaze. Putin ed Erdogan pronti a spartirsi la Libia di Leo Lancari Il Manifesto, 11 gennaio 2020 Arrivare a un cessate il fuoco e far rispettare l’embargo di armi alla Libia. Al termine del vertice straordinario dei ministri degli Esteri dei 28, convocato per parlare delle crisi libica ma anche di Iran e Iraq, l’impressione che si ha è che l’Europa sia sempre un passo indietro rispetto a quanto accade nel paese nordafricano. Ora Bruxelles chiede di fermare le forniture di armamenti dopo che da tempo la Turchia per una parte (Serraj) e la Russia per l’altra (Haftar) riforniscono non solo di armi, ma anche di droni e blindati entrambi i contendenti. Senza contare i mercenari russi che agiscono per il generale della Cirenaica e il piccolo contingente di 35 soldati turchi, probabile avanguardia di un movimento di truppe più ampio, da qualche giorno impegnati nella difesa di Tripoli e che si sono aggiunti alle milizie turcomanne già presenti. Invocare poi il rispetto dell’embargo dopo aver privato delle navi la missione europea Sophia, che tra i suoi compiti aveva anche quello, evidenzia ancora di più la miopia dell’azione diplomatica europea. Anche perché mentre a Bruxelles si cerca di parlare “con una voce sola”, come anche ieri ha chiesto il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio, a ulteriore dimostrazione del ritardo con cui ci si muove c’è il fatto che Erdogan e Putin, dopo aver praticamente ordinato ai contendenti il cessate il fuoco, continuano invece a muoversi come gli unici che sembrano in grado di trovare una soluzione alla crisi. Lunedì i ministri degli Esteri e della Difesa turchi, Cavusoglu e Akar, si recheranno a Mosca con il capo dei servizi segreti Fidan per discutere di Libia e Siria con le controparti russe. Se non sarà l’avvio di una spartizione del paese nordafricano sulla traccia di quanto già accaduto in Siria, ci assomiglia molto. Per capirsi, il vertice di ieri non è servito neanche a decidere la data di quando dovrebbe tenersi la più volte annunciata conferenza di pace di Berlino. “Al più presto”, ha invocato al termine dell’incontro Di Maio, per il quale non deve essere stato semplice far dimenticare agli alleati gli errori compiuti dall’Italia negli ultimi giorni. Di certo la conferenza non si terrà prima del 24 gennaio, giorno in cui la cancelliera tedesca Merkel incontrerà Erdogan ad Ankara proprio per provare a convincerlo a partecipare. Secondo il settimanale Spiegel l’incontro dovrebbe servire anche per ricordare al presidente turco che deve rispettare l’accordo sui migranti firmato nel 2016 con l’Unione europea, viste le continue minacce turche di farlo saltare. E di profughi, ancora una volta visti come un potenziale pericolo e non come ulteriori vittime ella guerra, ha parlato ieri anche Josep Borrell. “Ci sono almeno 700 mila persone che vengono dai paesi del sub-Sahara”, ha detto il capo della diplomazia Ue. “Molti lavorano in Libia e non tutti vogliono venire in Europa, ma a seconda della situazione possono andarsene perché potrebbero perdere il lavoro”. Borrell ha indicato anche altri due potenziali pericoli: il primo riguarda il terrorismo (“sempre più viene individuata la presenza di combattenti che vengono dalla Siria e dal Sudan”) e il secondo i “rischio di destabilizzazione della regione”. Escluso invece che soldati europei possano intervenire in “quello di cui la Libia ha urgente bisogno è una de-escalation, non di truppe”, ha spiegato il ministro degli estero olandese Stef Blok. E l’Italia? Terminato il viaggio diplomatico del ministro Di Maio, a partire è il premier Conte che lunedì sarà in Turchia per incontrare Erdogan per poi recarsi in Egitto (da confermare) e successivamente in Arabia Saudita. Tutti attori decisivi nel determinare i futuro della Libia. Guantánamo, 18 anni di scempio dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 gennaio 2020 L’11 gennaio 2002 venne trasferito il primo detenuto nel centro di detenzione di Guantánamo Bay. Ne seguirono, fino al 14 marzo 2008, altri 779. Ora, nel buco nero dei diritti umani, nel diciottesimo anno dalla sua apertura, rimangono ancora 40 detenuti. Sono a Guantánamo da almeno 10 anni, trattenuti a tempo indeterminato, ritenuti troppo pericolosi per essere rilasciati ma tuttora senza processo (in realtà per cinque di loro è stato da tempo risposto il rilascio ma non si sa dove mandarli). Alcuni di loro, soprattutto all’inizio del periodo di detenzione, sono stati sottoposti a feroci torture, molti altri hanno sviluppato gravi problemi di salute mentale. Su 780 prigionieri entrati a Guantánamo ne sono stati rilasciati più di 700, sparpagliati in 59 paesi: oltre 500 sotto Bush, 197 sotto Obama (che, ricordiamo, si era impegnato a chiudere il centro di detenzione entro un anno dalla sua prima elezione) e uno sotto Trump. Le commissioni militari incaricate di processare i sospetti terroristi detenuti a Guantánamo hanno prodotto la miseria di otto condanne, due delle quali vengono attualmente scontate all’interno del centro di detenzione. Altri sette processi sono in corso. Nel frattempo i tribunali federali ordinari hanno condannato per terrorismo oltre 660 persone. Oltre a essere l’esempio supremo del fallimento dello slogan “meno diritti = più sicurezza, Guantánamo costituisce anche un enorme sperpero di denaro pubblico per violare i diritti umani: ogni anno il suo funzionamento è costato circa 445 milioni di dollari, attualmente oltre 10 milioni per detenuto. Di chiuderlo, non se ne parla più. Iraq. Bagdad grida: truppe straniere via. Gli Usa: restiamo perché c’è l’Isis di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 11 gennaio 2020 Per le strade della capitale con i manifestanti pro-democrazia. Anche il premier iracheno insiste, secco no di Pompeo. Quasi tutti i soldati italiani a Erbil. “Via, via, via l’America e via l’Iran dall’Iraq”, scandiscono a migliaia battendo le mani: “Non siamo il campo di battaglia della guerra tra Washington e Teheran”. Uno slogan che è anche una richiesta di legittimazione ai governanti: “L’Iraq agli iracheni, fuori tutte le truppe straniere”. Il grido echeggiava ieri da piazza Tahrir all’antica Rasheed Street, sino alle stradine del “mercato dei libri” di Muthanabbi e lungo i quartieri di casupole in mattoni rossi sul Tigri, di fronte alla Zona Verde, la cittadella del potere dove c’è l’ambasciata Usa (più blindata che mai). A una settimana dal blitz Usa contro Qassem Soleimani (“Voleva colpire quattro ambasciate americane”, ha detto ieri Donald Trump), i giovani delle rivolte rilanciano la mobilitazione per abbattere il governo, porre fine alla corruzione, ottenere “lavoro e dignità”. Dai primi di ottobre la polizia e le milizie hanno ucciso quasi 600 dei loro, e i feriti sono oltre 22.500. Lungo la strada ecco i memoriali dei “martiri”, candele, libri del Corano e foto, tanti ripresi moribondi sul selciato insanguinato. Barricate, auto bruciate e tanti sogni. Temevano che il raid Usa, seguito dal lancio di missili iraniani, offuscasse le loro voci. Ma oggi gli slogan invadono i siti, i social, la stampa locale. Cercando una nuova legittimità politica, che proprio questi giovani avevano indebolito sino a costringerlo alle dimissioni in dicembre e a guidare ora un governo transitorio, anche il premier Adel Abdul Mahdi si riferisce a loro nel chiedere agli americani di organizzare il ritiro delle truppe. Mahdi l’ha fatto con una telefonata diretta giovedì sera al Segretario di Stato Usa, Mark Pompeo. “Ho chiesto a Pompeo di inviare una delegazione e preparare il ritiro delle truppe straniere”, spiega in un comunicato. Un passo che segue la decisione (non vincolante) di domenica scorsa, quando il parlamento di Bagdad ha votato a risicata maggioranza (tutti deputati sciiti, assenti sunniti e curdi) “l’espulsione del contingente internazionale”. Nel Paese si dibatte sulla validità del voto. In ogni caso, Mahdi ripete che il blitz Usa “costituisce una violazione dello spazio aereo iracheno”, un’offesa della sua sovranità e degli accordi militari con Washington. Muro contro muro. “Le truppe non se ne vanno”, replica secco Pompeo. Ieri il Dipartimento di Stato ha ribadito che la presenza americana resta fondamentale per sconfiggere l’Isis e impedirne la rinascita. “Qualsiasi delegazione inviata in Iraq servirà per ricostruire la nostra collaborazione strategica, non per discutere il ritiro delle truppe”. Intanto l’Isis stesso in un comunicato plaude alla morte di Soleimani, mentre una fonte del Washington Post ha rivelato che l’operazione approvata dalla Casa Bianca era più vasta di quanto si pensasse: Il giorno prima che il drone uccidesse il generale iraniano e il numero due delle milizie sciite irachene, gli Usa hanno cercato di uccidere un altro comandante dei pasdaran, in missione nello Yemen (ma l’attacco contro Abdul Reza Shahlai è fallito). A Washington si pensa a un ruolo più rilevante della Nato per l’addestramento delle forze di sicurezza irachene. Il tema è scottante e confuso. Per il momento le attività di addestramento degli iracheni da parte della settantina di contingenti della coalizione internazionale a guida Usa (10.000 soldati in tutto) sono congelate. Gran parte dei 926 soldati della missione italiana sono dall’altro ieri concentrati a Erbil con il comandante, generale Paolo Fortezza. A Camp Dublin, presso l’aeroporto di Bagdad, restano circa 120 carabinieri. La violenza di genere in Portogallo di Federica Delogu Il Manifesto, 11 gennaio 2020 Il governo attuale ha inserito la violenza domestica tra i temi da affrontare nella legislatura appena avviata, inserendo tra le misure da adottare lo sviluppo di un sistema integrato di segnalazione di potenziali vittime e aggressori. “In Portogallo la violenza domestica è il crimine che fa più vittime e uno dei principali problemi del paese”: queste le parole pronunciate nel primo giorno della nuova legislatura dal leader parlamentare del Bloco de Esquerda, Pedro Filipe Soares, che ha presentato due proposte di legge per intervenire su quello che ha definito “un autentico flagello”. Dal 2004 l’Osservatorio sulle donne assassinate, nato nell’ambito dell’Umar, União de Mulheres Alternativa e Resposta, storica associazione femminista portoghese, analizza i casi di violenza sulle donne riportati dalla stampa e registra età delle vittime, luogo e tipologia delle violenze. Da quando ha iniziato la sua analisi l’Osservatorio ha registrato 531 femminicidi e 618 tentativi di femminicidio (i dati più recenti sono aggiornati al 12 novembre 2019 e presentati a fine novembre in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne). Ogni mese cinque donne in Portogallo sono vittime della violenza maschile più estrema, e ogni mese due di loro muoiono a causa di questa violenza. Il bilancio provvisorio del 2019, secondo l’Osservatorio, era di 28 donne uccise nell’ambito di relazioni sentimentali o familiari, due assassinate da sconosciuti, 27 tentati femminicidi e 45 orfani. Da allora altre due donne sono state uccise dai propri compagni negli ultimi giorni dell’anno. Un numero altissimo, per un paese che ha poco più di dieci milioni di abitanti. Delle 28 vittime registrate fino a novembre 2019, il 53% sono state uccise dall’uomo con cui avevano una relazione in corso al momento dell’assassinio e il 21% dall’ex marito o compagno (mentre nel resto dei casi da familiari diretti o indiretti). Il 71% delle donne uccise aveva già subito violenza durante la relazione, e nella maggior parte dei casi denunciato. Secondo i dati pubblicati dal governo, invece, le vittime di violenza domestica fino a novembre sarebbero 33: 25 donne, un bambino e 7 uomini. Il panorama che ne emerge non solo conferma che il femminicidio è l’epilogo di violenze perpetrate per anni da compagni e mariti ma ci dice anche che in molti casi altre persone, o addirittura istituzioni, erano a conoscenza delle violenze. Oltre ai casi di violenze in ambito familiare, nel 2019 due donne sono state uccise da sconosciuti. A gennaio una prostituta è stata accoltellata a morte da un cliente durante un incontro mentre il figlio della donna, un ventenne affetto da sindrome di down, aspettava la madre in macchina, e a settembre una suora di 61 anni è stata uccisa e violentata da un quarantenne. Secondo Joana Grilo, attivista della rete 8 marzo, “il Portogallo ha delle leggi molto più avanzate della sua società e la violenza di genere ne è un esempio. C’è una grande disparità tra le grandi città e i piccoli paesi dal punto di vista della cultura di genere e in questo contesto si inserisce il grande lavoro portato avanti dai movimenti femministi”. Nel 2019 per lo sciopero femminista internazionale dell’8 marzo sono scese in piazza 30mila persone, “ma la grande vittoria - prosegue Grilo - non è stata tanto vederne 20mila a Lisbona, quanto portarne cinquecento a Braga, coinvolgere piccole realtà, dare forza alle donne che non hanno mai raccontato le loro storie”. Il femminismo portoghese ha una storia antica e intensa, che nel periodo repubblicano che ha preceduto la dittatura di Salazar ha visto lotte e rivendicazioni di pensatrici femministe. “Quelle rivendicazioni furono rese invisibili durante la lunga notte del fascismo, e noi che crescemmo durante la dittatura non avevamo coscienza di quelle lotte - spiega Manuela Tavares, una delle fondatrici dell’Umar - All’indomani della rivoluzione dei garofani del 1974 il femminismo portoghese è dovuto rinascere, ma aveva completamente perso la memoria storica e questa fragilità ha tutt’ora conseguenze evidenti”. La legge che depenalizza l’aborto, ad esempio, è arrivata solo nel 2007 dopo anni di lotte femministe. “Concentrando l’attenzione su quel tema abbiamo dovuto lasciarne indietro altri e siamo arrivate a far entrare i discorsi di violenza domestica e di genere nel dibattito pubblico con vent’anni di ritardo rispetto ad altri paesi europei” prosegue Tavares - Mentre i primi centri antiviolenza in Inghilterra sono degli anni 70 noi ci siamo arrivate solo negli anni 90”. Se però molti passi avanti sono stati fatti da allora la violenza domestica resta un problema culturale che affligge non solo la società ma anche i tribunali. “Mia figlia Carla ha vissuto per sei anni con un compagno violento che la maltrattava. - racconta Amélia Santos, che ha perso entrambi i figli per mano dello stesso uomo - Quando nel 2010 ha deciso di separarsi, lui ha minacciato di uccidere tutta la sua famiglia. Quello stesso anno l’ha sequestrata, torturata e violentata davanti al figlio di 22 mesi. Le ha fatto tutta la violenza possibile”. Il giorno dopo il sequestro l’uomo, Moisés Fonseca, fu arrestato, processato e condannato a un anno e mezzo con sospensione della pena. “La giudice disse a mia figlia che lui aveva agito per amore” prosegue Amélia Santos, e in seguito, “come la maggior parte delle donne di questo paese, è stata obbligata all’affidamento congiunto del figlio con l’uomo che l’aveva sequestrata e violentata”. Tre anni dopo l’uomo sequestrò il fratello di Carla, lo uccise e ne nascose il corpo, prima di uccidere anche lei. “La mentalità esistente nei tribunali è quella della colpevolizzazione delle donne - spiega Manuela Tavares - Sono stati istituiti dei corsi di formazione sul tema ma sono rivolti ai giovani mentre sono proprio i giudici più anziani quelli che hanno più potere”. Quello del giudice Neto de Moura ne è l’esempio più evidente: in una sentenza del 2015 il magistrato giustificò la violenza a una donna da parte del compagno e dell’ex marito sostenendo che “l’adulterio è una condotta che la società ha sempre condannato, e le donne oneste sono le prime a stigmatizzare le adultere”. Nella sentenza citò la Bibbia e una legge penale del 1886 che di fatto prevedeva il delitto d’onore. In seguito, in un processo d’appello a un uomo che aveva rotto il timpano alla compagna con un pugno, attenuò la pena decisa in primo grado e ritirò il braccialetto elettronico. Dopo le denunce e le proteste delle femministe e dell’opinione pubblica il giudice aveva chiesto di essere dispensato dai processi di violenza domestica ma la decisione era stata rigettata dal Tribunale Supremo. A marzo di quest’anno è stato rimosso dal suo ruolo e assegnato a un tribunale civile. Oggi, grazie al lavoro dell’Umar e dei movimenti femministi, il tema sulla violenza ha trovato uno spazio nel dibattito pubblico e nel parlamento portoghese. Il governo socialista di António Costa, confermato nella tornata elettorale dello scorso 6 ottobre, aveva proclamato per il 7 marzo una giornata di lutto nazionale per le donne vittime di femminicidio e istituito una commissione tecnica multidisciplinare per migliorare la prevenzione e combattere la violenza domestica. La relazione presentata a fine giugno dalla commissione chiedeva al governo di intervenire su tre ambiti principali: una raccolta dei dati dettagliata, modalità e protocolli d’intervento nelle 72 ore successive alla denuncia per garantire la protezione adeguata, e infine una formazione specifica delle figure professionali a vario titolo coinvolte. Il governo attuale ha inserito la violenza domestica tra i temi da affrontare nella legislatura appena avviata, inserendo tra le misure da adottare lo sviluppo di un sistema integrato di segnalazione di potenziali vittime e aggressori, investimenti nell’educazione e l’allargamento della Rete nazionale di appoggio alle vittime di violenza domestica. Inoltre da tempo il primo ministro Costa valuta una riforma costituzionale per la creazione di tribunali specializzati in violenza domestica, per permettere un approccio giudiziario integrato. Il Partito Ecologista dei Verdi (Pev) in occasione della giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne ha proposto un sussidio statale alle vittime di violenza e a ottobre il Bloco de Esquerda ha riproposto i due progetti di legge a cui lavora dalla scorsa legislatura, ma che non erano stati approvati dal parlamento. Il primo prevede che le testimonianze delle vittime di violenza domestica nelle 72 ore successive alla denuncia possano essere usate come prova durante il processo, sia perché raccolte in un momento immediatamente successivo ai fatti e quindi più precise e ricche di dettagli, sia per evitare alle donne di ripetere l’audizione. Il secondo progetto di legge prevede invece il conferimento dello status di vittima ai minori che assistono o testimoniano nei casi di violenza domestica, come previsto dall’articolo 26 della Convenzione di Istanbul. All’indomani della giornata contro la violenza sulle donne il gruppo delle Mulheres de Braga, costituitosi dopo il femminicidio di Gabriela Monteiro a settembre, ha consegnato al presidente dell’Assemblea della Repubblica una petizione firmata da ottomila persone per chiedere al Parlamento di intervenire con misure efficaci sulla violenza, e in particolare nella tutela dei figli delle vittime. Per questo si batte anche Amélia Santos, che ha dovuto lottare per ottenere la custodia del nipote contro la famiglia dell’assassino dei suoi figli. “I bambini che vivono in contesti di violenza di genere subiscono enormi traumi - sostiene - e devono essere considerati vittime, perché è questo che sono. Finora siamo stati vittime prima dell’aggressore e poi della giustizia di questo paese”.