Dei diritti e delle pene di Luigi Manconi La Repubblica, 10 gennaio 2020 Davvero il carcere, previsto dal diritto penale, è compatibile con il principio di umanità? Forse è ora di trovare soluzioni alternative. Si è appena concluso un anno che ha visto approfondirsi, come mai in passato, il solco tra le scelte della politica e quelle delle istituzioni di garanzia su una materia, quale quella penale, che proprio perché incide su questioni estremamente sensibili (la libertà e la sicurezza), dovrebbe invece sottrarsi da ogni possibile uso di parte. Da un lato, infatti, posizioni lungimiranti sono state assunte tanto dalla Corte costituzionale quanto dal Presidente della Repubblica, che nel promulgare la legge di conversione del decreto sicurezza-bis ha richiamato il Parlamento al rispetto del principio di proporzionalità in materia penale. Per altro verso, la maggioranza di governo del Conte 1, ha utilizzato il penale per fini propagandistici, con una riforma della legittima difesa che sovverte la gerarchia dei valori costituzionali, una disciplina della prescrizione che sancisce un processo-ergastolo (“fine processo mai”) e l’introduzione di ulteriori fattispecie di reato o inasprimenti di pena (come documenta benissimo il saggio di Stefano Anastasia “L’uso populista del diritto e della giustizia penale”, pubblicato in Ragion pratica, n. 1/2019). Quel divario tra gran parte della classe politica e istituzioni di garanzia non è, d’altra parte, nuovo: basti pensare a quanto poco seguito abbia incontrato l’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, quando, nel 2013 ha qualificato come “imperativo morale” la risoluzione della questione penitenziaria, ritenendo le condizioni delle carceri non giustificabili neppure “in nome della sicurezza, che ne viene più insidiata che garantita”. Del resto, negli ultimi anni, la Corte costituzionale (a proposito del numero “chiuso” nelle carceri) e la Corte europea dei diritti umani, hanno rilevato come una realtà che priva i detenuti anche solo dello “spazio vitale” minimo, impedisce quel percorso rieducativo che, solo, giustifica la pena. Il carcere si conferma così strutturalmente incapace di produrre reinserimento sociale del detenuto, adesione ai principi della convivenza civile e, quindi, di garantire la sicurezza collettiva limitando la recidiva (assai più alta tra chi sconta la pena in carcere rispetto a chi usufruisce di alternative). Il diritto penale, esteso a dismisura nel nostro ordinamento (vedi l’importante libro di Filippo Sgubbi, “Il diritto penale totale”, edito dal Mulino) è così diventato, da Magna Charta del reo, risorsa politica straordinaria, alimentando quell’ipertrofia sanzionatoria di cui il sovraffollamento penitenziario è una delle implicazioni forse più tragiche. Fin quando si caricherà il diritto penale di aspettative che non gli sono proprie, ne deriverà fatalmente una lacerazione insanabile tra giustizia attesa e giustizia amministrata, tale da rovesciare la simmetria dei rapporti sui quali si regge la democrazia: quella tra autorità e individuo, libertà e sicurezza, colpa e perdono. Sulle distorsioni prodotte da un sistema penale così caricato di aspettative quasi escatologiche si interroga Umberto Curi nel suo “Il colore dell’inferno”, (Bollati Boringhieri, 2019). Il libro, che riprende nel titolo una frase di Simone Weil, ripercorre anche storicamente le intrinseche contraddizioni di un diritto che deve distinguersi dalla vendetta per interromperne il ciclo e superare l’ordalia, ma che finisce poi tragicamente per simularne i paradossi. Il risultato è, per una singolare eterogenesi dei fini, un prodotto inutile tanto per il reo quanto per la vittima. E sul confine che separa il diritto (penale in particolare) dalla violenza si interroga Eligio Resta, che in “La violenza (e i suoi inganni)”, Sossella editore, 2019, mette a nudo tutta l’ambivalenza di un diritto costretto a infliggere male per riparare il male commesso. Il diritto penale si rivela, così, un pericolosissimo, ma ineludibile pharmakon, espresso dall’idea di Walter Benjamin di un giudice che non condanna per la colpa ma “infligge ciecamente destino”, colpendo tuttavia non l’uomo, ma “la nuda vita in lui”. E se di quest’arma così ambivalente non riusciamo a fare a meno, per distinguersi dalla violenza essa dovrà, nota Resta, valorizzare la sua funzione di limite del potere e il suo fondamento etico, rischiando altrimenti un convenzionalismo al servizio dei più forti, espresso dalle parole di Goethe: “Voi fate diventare il povero colpevole”. Qui riecheggiano le parole di uno scritto giovanile di Aldo Moro (che riprende Gustav Radbruch): “abbiamo bisogno non tanto di un diritto penale migliore, ma di qualcosa di meglio del diritto penale”. In virtù di un’associazione che può apparire spericolata, penso si possa rintracciare un filo comune tra quell’affermazione di Moro e quanto ha recentemente ribadito papa Francesco a proposito dell’impotenza del diritto penale a realizzare una qualche utilità sociale. Non è, insomma, attraverso la pena pubblica che si possono risolvere le tensioni all’interno della comunità. Ma dove tracciare il limite, oltrepassato il quale il diritto penale diviene violenza perché incompatibile con quel principio di umanità che, solo, lo giustifica? Le Corti hanno più volte sottolineato come nessuna pena possa prescindere da alcune minime garanzie indispensabili per consentire al detenuto di portare con sé quel “bagaglio degli inviolabili diritti dell’uomo” che neppure il carcere può negare. Se la detenzione è essenzialmente spoliazione (di libertà, di affetti, di relazioni, di possibilità), essa non può infatti degenerare in un processo di reificazione, contrario a quella tensione rieducativa che rifiuta ogni visione deterministica, in favore di un’irrinunciabile scommessa razionale sull’uomo. Al contrario, risulta costituzionalmente imposta la residualità del carcere, ammissibile solo laddove ogni altra misura risulti inadeguata. Ed è forse anche il caso di chiedersi, come fa Curi, se non sia strutturalmente incompatibile con la finalità rieducativa una misura, come il carcere, che si svolge deresponsabilizzando il condannato, separandolo da quel contesto sociale in cui dovrebbe reinserirsi e degradando quella soggettività che dovrebbe evolvere, tanto da condividere principi opposti rispetto a quelli sottesi al reato. La reclusione in luoghi separati dal resto del mondo, oltre che sottratti a ogni tipo di tutela e controllo esterno non è, forse, l’esatto opposto della risocializzazione? Non solo: così come appare oggi, come un contenitore della marginalità sociale e del disagio psichico, il carcere non garantisce nessuno. Le vittime restano sempre più sullo sfondo (dal processo all’esecuzione); la sicurezza collettiva non ne trae vantaggio; il condannato, quand’anche in quello stato di degrado non acuisca la sua irresponsabilità, ne esce incapace di intraprendere un sia pur minimo percorso di reinserimento sociale. Per questo il carcere va sostituito, investendo soprattutto - come propone Umberto Curi - su forme di giustizia riparativa, che responsabilizzino il condannato consentendogli di rimediare alle conseguenze del reato, così soddisfacendo anche le esigenze della vittima. Insomma “qualcosa di meglio del diritto penale”. “Torniamo in pista”, per rieducare i detenuti fidal.it, 10 gennaio 2020 Iniziativa Fidal e Dap-Fiamme Azzurre: i carcerati idonei a misure alternative diventano giudici di atletica leggera. Dal carcere ai campi di atletica diventando giudici di gara. “Torniamo in pista” è il progetto ideato dalla Fidal e dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria-gruppo sportivo Fiamme Azzurre, che ha l’obiettivo di agevolare il recupero dei detenuti attraverso lo sport e la socializzazione. La Federazione Italiana di Atletica Leggera, mediante il proprio Gruppo Giudici Gare, svolgerà un’attività di formazione dei detenuti che sono ritenuti idonei a ottenere misure alternative, perché possano essere responsabilizzati con la partecipazione a manifestazioni promozionali o agonistiche di atletica leggera, provinciali o regionali, in modo da creare momenti di aggregazione e promuovere il recupero dell’autostima e il miglioramento dello stato di salute dei detenuti. Teoria e pratica - Per l’avvio del progetto sono stati individuati gli istituti penitenziari di Roma, Napoli e Torino: i partecipanti saranno formati per due mesi mediante corsi teorici sull’attività caratteristica dei giudici di atletica leggera (tre lezioni da 2 ore) e con prove pratiche sul campo. Chi verrà considerato adatto, diventerà giudice a tutti gli effetti - tesserato Ggg - e potrà essere convocato per l’intera stagione agonistica, tra marzo e ottobre. Il progetto risponde alle esigenze espresse dall’ordinamento penitenziario italiano, secondo cui negli istituti devono essere favorite e organizzate attività culturali, sportive e ricreative, nella consapevolezza che lo sport, anche se non svolto in maniera diretta, rappresenti un’occasione per la socializzazione, il divertimento e il confronto con gli altri. Prescrizione, ipotesi blocco soltanto per le condanne di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2020 La riforma Bonafede verrebbe rivista invece per i casi di assoluzione. Situazione ancora in bilico sulla giustizia penale. Ma con buone possibilità di una soluzione che, secondo le ultime indiscrezioni filtrate dal summit di maggioranza, ancora in corso nella tarda serata di ieri, potrebbe passare per la distinzione tra sentenze di condanna e di assoluzione. Dove, se la riforma Bonafede in vigore da pochi giorni non fa alcuna distinzione, congelando il decorso dei termini in entrambi i casi, l’idea che ha preso forma è quella di confermare lo stop solo per le condanne e di procedere invece a meccanismi processuali che diano certezza ai tempi in caso di assoluzione. In ogni caso, alle 22 di ieri sera, la maggioranza riunita a Palazzo Chigi ancora lavorava alla ricerca di un compromesso che potesse tenere in equilibrio, con la mediazione del premier Giuseppe Conte, quella prescrizione versione Bonafede e soluzioni che diano certezza alla durata dei processi. Dove il nodo è soprattutto quello dell’appello, visto che i termini attuali, tarati su una lunghezza pari a quella del massimo di pena, nel primo grado di giudizio continuano a decorrere. Sul tavolo le diverse ipotesi che in queste settimane si sono rincorse, ma soprattutto un dato politico di rilievo: delle 4 forze che sostengono il Conte 2, sono 3 quelle a contestare il blocco dei termini dopo il verdetto di primo grado. Almeno in assenza di opportuni correttivi che escludano il rischio di una prosecuzione a oltranza del procedimento penale. Dato che sinora non ha avuto significative conseguenze in Parlamento, ma che, se fossero confermate le distanze, condurrebbe nei prossimi giorni, Pd, Italia Viva e Leu a dovere fare scelte dense di conseguenze. Da martedì, infatti, alla Camera, andranno al voto, in commissione Giustizia, gli emendamenti prima e il testo poi del disegno di legge presentato dal forzista Enrico Costa che abroga tout court da Bonafede, facendo di fatto rivivere la Orlando. Difficilmente il Pd potrà votare la proposta Costa oppure l’emendamento depositato che riproduce nei contenuti il disegno di legge dem presentato il 27 dicembre a Camera e Senato che agisce sui termini di sospensione dopo il primo grado per un complessivo periodo, tra Appello e Cassazione, di 3 anni e 6 mesi nel massimo, trascorsi i quali però la prescrizione riprende a correre. È chiaro però che quando la proposta di legge dem arriverà al voto allora potrà saldarsi un fronte inedito con le opposizioni su un tema comunque di assoluto rilievo. Sul piano tecnico, a confrontarsi è una pluralità di soluzioni. Dal Pd è stata avanzata l’ipotesi di una prescrizione processuale che conduca alla decadenza dell’azione penale quando in appello e Cassazione non sono rispettati i termini predeterminati. Una via che già Bonafede ha considerato impercorribile, visto che avrebbe condotto al medesimo risultato della prescrizione sostanziale. Che si estingua il reato oppure il processo, nei fatti non farebbe una grande differenza. Il ministro ha rilanciato con l’utilizzo della leva disciplinare per sanzionare il magistrato che si rende responsabile di uno sforamento dei tempi in una quota significativa dei fascicoli a lui assegnati. Accompagnando questa proposta con una via preferenziale per lo svolgimento degli appelli, in maniera tale da condurli a sentenza in tempi più rapidi, e una accesso velocizzato ai risarcimenti già oggi previsti dalla legge Pinto in caso di eccessiva durata. Prescrizione, intesa al ribasso: norma valida solo per le condanne di Errico Novi Il Dubbio, 10 gennaio 2020 In extremis il premier Conte impone il compromesso al vertice di maggioranza sulla giustizia: lo stop ai termini di estinzione dei reati non ci sarà per chi in primo grado è assolto. Bonafede: “Importante passo avanti”. Verini (Pd) dice sì anche alla riforma complessiva del processo penale: “In Consiglio dei ministri già la settimana prossima”. Si comincia quasi in orario, alle 7 di sera. E all’inizio pare che non basti. Perché al vertice di maggioranza sulla prescrizione sembra levarsi puntuale anche la fumata nera. Bonafede si presenta come al solito irremovibile. Nonostante gli auspici del segretario dem Zingaretti, che ventiquattr’ore prima aveva chiesto almeno un “compromesso”, sicuro che Giuseppe Conte lo avrebbe confezionato. E invece nel finale di partita arriva l’apertura sulla proposta di retroguardia, ma politicamente astuta, avanzata da uno dei partecipanti tecnicamente più preparati presenti alla riunione di Palazzo Chigi, il deputato di Leu Federico Conte: è sua l’ipotesi, pur subordinata ad altre più congrue, di limitare il blocca-prescrizione in vigore da Capodanno alle sole sentenze di condanna. Inizialmente il guardasigilli non lascia intravedere neppure tale minimo spiraglio. Resta irremovibile sull’intangibilità della norma che elimina la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, anche per chi è assolto. Respinge l’ennesima richiesta avanzata da Pd e Italia viva di introdurre una “norma di chiusura”, per dirla con il sottosegretario dem Andrea Giorgis, che assicuri “comunque tempi certi ai processi”. Neppure si affaccia, tra le carte di Bonafede, la possibilità di un’altra pur residuale contromisura sollecitata dal Pd: prevedere progressivi sconti di pena a chi fosse condannato in via definitiva dopo il trascorrere di un tempo eccessivo. Niente da fare. Invece, dopo che si è già consumata una prima ampia frazione del summit, è il presidente del Consiglio a dire che “tutti devono fare un sacrificio” e che è lui a mettere sul tavolo il lodo: “Limitiamo l’efficacia della nuova prescrizione alle sentenze di condanna, in modo che, se si è assolti in primo grado, i termini continuino a decorrere. Una rettifica che però dovrà essere accompagnata da due pilastri”, prosegue Giuseppe Conte, “il primo riguarda la tutela degli interessi civili, per la parte lesa, qualora intervenga la prescrizione, il secondo è l’implementazione della riforma del processo penale, con tutti i meccanismi acceleratori che in parte abbiamo già condiviso”. Ci si guarda negli occhi e si dice sì. Tutti d’accordo, a cominciare da Bonafede che parla di “maggioranza compatta” e del Pd, che già prefigura “il possibile arrivo della riforma penale in Consiglio dei ministri la prossima settimana”, come anticipa Walter Verini. Tutti con due eccezioni: Pietro Grasso, che fa parte di Leu come Federico Conte ma che considera inopportuno il pur lieve cedimento del ministro, e dall’altro lato Italia viva, che parla di “tabù abbattuto” ma di passo avanti “non ancora sufficiente”. In parte le discussioni a cui il presidente del Consiglio interviene con un successo diplomatico in extremis si consumano nell’orgogliosa maginot costruita dal guardasigilli con le statistiche: il numero dei processi prescritti dopo la sentenza di primo grado, insiste, è relativamente basso, riducibile addirittura ad appena il 3,5 per cento rispetto al totale dei giudizi penali. Ma è proprio sulla lente con cui guardare a un simile dato che il Partito democratico è in totale disaccordo con Bonafede. La delegazione del Nazareno, composta, oltre che da Giorgis e Verini, anche da Alfredo Bazoli e Franco Mirabelli, mette sul tavolo la seguente obiezione: “Premesso che con la riforma penale siamo pronti a condividere misure davvero acceleratorie dei procedimenti, il punto è che non è accettabile lasciare al loro destino di sventurati i magari rarissimi imputati tenuti per troppi anni sotto processo: è proprio per quei remoti casi che va assicurata una norma di civiltà”. Niente. Fino all’over rule del premier che forse mette fine, una volta per tutte, alla telenovela. Si tratta, è evidente, di un compromesso al ribasso. Dal valore politico notevole, per la tenuta della maggioranza, ma assai problematico sul piano della legittimità costituzionale. Prevedere una conseguenza così aggravata, per il semplice fatto di aver riportato una condanna in primo grado, qual è l’inefficacia della prescrizione, viola con una certa evidenza la presunzione di non colpevolezza prevista all’articolo 27. Non a caso, persino Federico Conte, primo ad avanzare l’ipotesi già alla riunione del 19 dicembre, in un’intervista al Dubbio, aveva riconosciuto che con quella soluzione i profili di incostituzionalità si sarebbero solo “ridotti della metà”, non certo annullati. Era evidentemente impossibile però che Bonafede e in generale i 5 Stelle, ieri rappresentati anche dal sottosegretario Ferraresi e dai capigruppo delle commissioni Giustizia, potessero concedere qualcosa di più di quanto emerso al vertice. Restano a questo punto lo spazio e la ragione per la battaglia referendaria prefigurata dall’avvocatura, e in particolare dall’Unione Camere penali. Si tratterà solo di capire se il compromesso di ieri sera basterà a dissuadere qualche partito, come Italia viva, dal sostenere anche organizzativamente la raccolta delle firme per i quesiti abrogativi. Prescrizione, il Pd prova a forzare l’accordo e Bonafede apre uno spiraglio di Andrea Colombo Il Manifesto, 10 gennaio 2020 Si fa strada la proposta di Federico Conte, Leu: prescrizione cancellata, ma solo per i condannati in primo grado. Tempo quasi scaduto. Il vertice di maggioranza convocato per sciogliere il nodo della prescrizione parte in contemporanea con il conto alla rovescia. Dopo quattro riunioni andate a vuoto il Pd ha deciso di forzare i tempi. Nessuna dichiarazione ufficiale ma l’ultimatum viene fatto filtrare proprio alla vigilia dell’incontro: o si trova un punto di mediazione oppure il Pd chiederà entro 24 ore di abbinare la sua proposta di legge, che cancella la riforma della prescrizione di Alfonso Bonafede e ripristina quella dell’ex guardasigilli Andrea Orlando, al testo presentato dal forzista Costa, già in commissione alla Camera. Anche Leu chiede l’abbinamento della sua formula di mediazione, presentata a Federico Conte. La prescrizione, in questa formula, verrebbe bloccata dopo il primo grado, ma solo nei casi di assoluzione. Non è affatto detto che il Pd intenda dar seguito alla minaccia, che serve comunque a comunicare il senso dell’urgenza e della drammaticità del momento. Intorno al tavolo ci sono il premier Conte e Bonafede, una nutrita pattuglia del Pd guidata dal sottosegretario alla Giustizia Giorgis e da Verini, l’ex presidente del Senato Grasso e Conte per Leu, Cucca e Lucia Annibali per Iv, due parlamentari e il sottosegretario alla Giustizia Ferraresi per i 5S. L’inizio è pessimo. Bonafede si barrica. Boccia la proposta di Leu. Si oppone anche all’ipotesi di “prescrizione processuale”, quella norma per cui la prescrizione si interromperebbe dopo il primo grado ma se i due gradi successivi dovessero prolungarsi oltre un certo tempo, ancora da definirsi, l’intero processo si considererebbe estinto. I 5S sembrano però attestati su una linea del Piave. La cancellazione della prescrizione non si tocca. Si lavorerà poi sui tempi del processo per evitare che diventino eterni. Sembra che non siano serviti a niente i consigli arrivati dallo stesso Colle, che aveva fatto pervenire ai 5S un messaggio semplice: il processo, a norma di Costituzione oltre che di buon senso, non può essere eterno. Poi però la rigidità del ministro Bonafede un po’ si stempera e si riaffaccia proprio quella proposta Conte (Federico, non Giuseppe) che il guardasigilli aveva affondato all’inizio del vertice: prescrizione cancellata, ma solo per i condannati in primo grado. Più di questo i 5 Stelle non sono disposti a concedere, tanto più che la lobby giustizialista soffia sul fuoco. Ieri Piercamillo Davigo, in un’intervista al Fatto, si è scagliato non solo contro la prescrizione ma anche contro l’appello troppo facile, dal momento che non prevede sentenze più pesanti e dunque chi ricorre non corre rischi, e persino contro la difesa d’ufficio per i non abbienti, che invoglierebbe gli avvocati ad allungare i tempi per rimpinguare il rimborso. Lo stesso sindaco di Napoli Luigi De Magistris dimentica di aver superato, a parole, il passato giustizialista e si schiera con la cancellazione della prescrizione. La reazione degli avvocati all’affondo di Davigo è furibonda, ma quella è una campana alla quale i 5 Stelle non prestano mai orecchio, a differenza di quelle che fa suonare a distesa il potere togato. È presto per parlare di problema risolto. Senza accordo il Pd eviterà di votare l’emendamento soppressivo dell’intera legge Costa proposto dai 5 Stelle, per rendere inevitabile l’approdo in aula della stessa intorno al 16 gennaio e tenere Bonafede sulla corda fino all’ultimo. Sarebbe un gioco rischioso, anche perché la partita della prescrizione corre parallela a quella, altrettanto difficile, della revoca delle concessioni autostradali ad Aspi. Ieri il Pd ha provato a far circolare, come ballon d’essai, l’ipotesi di sostituire la revoca con una maximulta. I 5S l’hanno affondata seduta stante anche se il Pd ancora spera in un ripensamento che non arriverà. La revoca è nelle mani di Conte, ma lo scontro si sposterà sull’art.33 del Mille proroghe, fondamentale per provare a evitare di dover pagare penali da usura. E lì Matteo Renzi, agguerrito anche sul fronte della prescrizione, è deciso ad arrivare, se necessario, anche alla bocciatura della norma in aula. I prossimi giorni, per la maggioranza, non saranno facili. Abrogare la legge sulla prescrizione di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 10 gennaio 2020 È in gioco lo stato di diritto: il Pd non può arrendersi al panpenalismo grillino. Ritengo che valga la pena insistere nel sollevare il problema del rapporto tra la cultura politica di questo governo e la giustizia penale (cfr. il mio precedente intervento su queste colonne del 2 gennaio). Che lo stesso Pd, quale attuale partner governativo, non sia in grado di contrastare la deriva punitivista sempre più incombente, o non voglia neppure farlo diventando addirittura complice del panpenalismo grillino, può sembrare comprovato da indicatori sintomatici che vanno al di là della ancora irrisolta questione prescrizione. Leggendo un’intervista rilasciata pochi giorni fa dal ministro della Salute Roberto Speranza, apprendiamo infatti che per contrastare l’aumento delle aggressioni violente ai medici ospedalieri è quasi in dirittura di arrivo una nuova legge che inasprisce le pene per il reato di lesioni: legge che il ministro considera utilissima (anche se, beninteso, da sola insufficiente come rimedio) “perché dà un segnale di attenzione da parte dello Stato”, e che è stata non a caso già approvata in Senato “all’unanimità”. A testimonianza del fatto - sempre secondo Speranza - che la condivisione dell’esigenza di salvaguardare gli operatori del Servizio sanitario nazionale consente di mettere da parte le divisioni politiche (cfr. l’intervista a Repubblica del 4 gennaio scorso). Una unanimità politica raggiunta nel punire più severamente, dunque. Orbene, se è vero questo orientamento unanime, ne deriva allora che anche il Pd concorda sull’opportunità di utilizzare per l’ennesima volta il rigore punitivo come un medium comunicativo. Cioè appunto allo scopo di certificare con la scelta repressiva che la politica prende sul serio il fenomeno negativo emergente, e di rivolgere perciò, sfruttando la valenza anche simbolica della sanzione punitiva, un segnale di attenzione e un messaggio rassicurante a quanti ne sono vittime reali o potenziali. Solo che ad assecondare ripetutamente questo uso simbolico-espressivo della legislazione penale, se domani dovessero affiorare ulteriori pulsioni aggressive ai danni ad esempio dei netturbini o di altra categoria, una aspettativa di eguale trattamento imporrebbe nuovi provvedimenti di inasprimento punitivo differenziati di volta in volta per tipi di professioni o mestieri. E così, potenzialmente, all’infinito! Purtroppo, è superfluo aggiungere che questo uso politico distorto del penale è tutt’altro che una novità dei nostri giorni, e da questo punto di vista lo stesso fronte progressista ha non pochi peccati risalenti nel tempo di cui dovrebbe una buona volta pentirsi e fare ammenda. Tanto più che è fondato il sospetto che l’abusato ricorso alla legge penale serva, soprattutto, a coprire l’incapacità politica di affrontare i problemi con strumenti di intervento più appropriati e risorse adeguate. E torniamo, a questo punto, al tema della prescrizione. Rinviando per alcuni aspetti tecnici a un mio precedente articolo (sul Foglio del 12 dicembre 2019), qui mi limito a rimarcare il punto decisivo in termini di cultura politica. Si tratta di questo. La prescrizione, quale istituto di grande civiltà giuridica che coinvolge i fondamenti non solo del diritto penale ma più in generale dello stato di diritto, non dovrebbe essere trattata come una semplice questione politica fra le tante, come un tema che per quanto importante non riveste però una importanza maggiore rispetto agli altri di cui questo governo è tenuto a farsi carico, per cui sarebbe ingiustificato drammatizzarlo sino a pregiudicare l’alleanza rossogialla. Proprio riflettendo sui riflessi che la sua disciplina produce sui diritti fondamentali e sui destini esistenziali delle persone (non solo di quelle che delinquono effettivamente, ma anche se non soprattutto dei presunti colpevoli), ne emerge con chiarezza la intrinseca e molteplice rilevanza costituzionale, che in quanto tale trascende il piano della ordinaria agenda di governo e la stessa distinzione tra maggioranza e opposizione. Se è così, la decisione politica su come modificare la prescrizione implicherebbe, già in linea di principio, un consenso il più ampio possibile quale può derivare anche dal concorso delle forze di minoranza. Tesi stravagante di un anziano professore di diritto penale come chi scrive? In realtà, è il caso di rendere edotti i nostri politici - di destra o di sinistra - che nell’ambito della più aggiornata riflessione penalistica è andata prendendo piede l’idea che le leggi penali (in particolare, quelle che configurano reati punibili con pene detentive) hanno una sostanziale natura di leggi costituzionali, dal momento che incidono pesantemente sulla libertà personale e su altri diritti; da qui, la conseguente proposta - finora affacciata a livello teorico - di prevedere in futuro, nei testi costituzionali, maggioranze qualificate per le decisioni parlamentari in materia di delitti e pene detentive. Ecco che, in un simile orizzonte di pensiero costituzionalmente orientato, risulterebbe tutt’altro che inconcepibile o scandalosa una eventuale convergenza pure in punto di voto tra Pd e gruppi di opposizione nettamente contrari (ad esempio come Forza Italia) alla riforma Bonafede e intenzionati, pertanto, a cancellarla. Hanno dunque nella sostanza buone ragioni, ad esempio, Giuliano Pisapia o Emanuele Macaluso nel contestare ai dem di essere stati finora troppo remissivi o prudenti nel contrastare l’oltranzismo punitivista pentastellato. Il Pd, se fosse davvero interessato a rivendicare una identità più liberaldemocratica che giustizialista, dovrebbe avere la capacità e il coraggio politico di considerare la prescrizione non come un argomento di stretta maggioranza governativa, bensì appunto come una decisiva questione politico-costituzionale che attiene alla qualità della nostra democrazia, e quindi chiama in causa la responsabilità di tutte le forze in campo, al di là della logica di schieramento. Di conseguenza, un Pd davvero consapevole della posta in gioco, e politicamente coraggioso, non si dovrebbe limitare a tentare di controbilanciare la sciagurata riforma grillina (già peraltro entrata in vigore dal 1° gennaio) con modifiche volte ad accelerare i processi: dovrebbe puntare, innanzitutto, ad abrogarla del tutto eventualmente votando insieme a quanti vogliono eliminarla. Il rischio di una possibile (peraltro non certa) rottura dell’alleanza di governo impone di rinunciare a una battaglia di principio molto importante anche sotto il profilo dei valori identitari? Ma poi fino a che punto, sul terreno specifico del penale, i dem sono davvero culturalmente diversi dai pentastellati? Franco Roberti: “Lo stop alla prescrizione non risolve nulla, eliminiamo l’appello” di Giulia Merlo Il Dubbio, 10 gennaio 2020 Intervista all’ex procuratore nazionale antimafia. “Lo stop della prescrizione fatta in questo modo non serve a nulla”. Abituato a giudizi trancianti, l’ex procuratore nazionale antimafia e oggi eurodeputato del Pd, Franco Roberti, indica una priorità impellente: “La riforma coraggiosa del processo penale”. Lo stop entra in vigore dal 1 gennaio. Lei è contrario? “La riforma Bonafede non mi piace e non mi è mai piaciuta. La sospensione della prescrizione potrebbe essere accettabile ma solo per chi è stato condannato in primo grado, mentre certamente non per gli assolti, che hanno diritto a vedersi subito fissato l’appello. Il punto vero, però, è un altro: in assenza di una vera riforma del processo penale, lo stop alla prescrizione non farà altro che dilatare la durata dei giudizi, in barba al principio della ragionevole durata del processo prevista dalla Costituzione”. La prescrizione, dunque, dovrebbe continuare ad essere prevista come valvola del processo penale? “Partiamo da un dato: se la giustizia funzionasse, la prescrizione non sarebbe affatto un problema e, anzi, non dovrebbe mai scattare. La norma nasce come presunzione: che il decorso del tempo e l’inerzia dello Stato facciano comportino il disinteresse del sistema a perseguire quel reato, che dunque muore. Oggi, però, rappresenta anche una garanzia per gli imputati, che hanno diritto a una celebrazione rapida dei processi. Il problema, però, sta qui: fatta eccezione per il doppio binario previsto per i reati di mafia, il processo penale non funziona e la prescrizione è il segnale di questa inefficienza”. Perché il processo non funziona? “Perché mancano strutture e regole organizzative. Servirebbero interventi drastici, ma anche controlli efficaci sulla professionalità dei magistrati: per il ritardo nel deposito delle sentenze, per esempio, ma anche sui dirigenti degli uffici. In una parola, servono investimenti, perché solo così si consente alla magistratura di esercitare in pieno la sua indipendenza”. In che senso? “In un sistema giudiziario inefficiente, i magistrati esercitano meno la loro indipendenza, che è presidio e garanzia dell’uguaglianza dei cittadini. Io credo però che proprio questa indipendenza, in Italia, piaccia a pochi e, anzi, in molti temano questa prospettiva: pensi a che cosa potrebbe fare, in un paese come il nostro, una magistratura efficiente e indipendente. Per questo non sono mai stati dati alla magistratura gli strumenti organizzativi e normativi per esercitare l’autonomia e l’indipendenza sancite dalla Costituzione”. E come si rende efficiente il processo penale? “Io penso a una riforma radicale: abolizione totale dell’appello per i processi definiti in primo grado in dibattimento. In questo caso, infatti, la prova si forma nel dibattimento e con tutte le garanzie per la difesa, dunque non ha senso replicare lo stesso processo in appello. L’appello, invece, rimarrebbe solo per i processi svolti con riti alternativi e in particolare nel caso di giudizio abbreviato, in cui la prova si forma sugli atti di indagine. In questo modo, inoltre, ci sarebbe un incentivo per i difensori al ricorso ai riti alternativi e al dibattimento arriverebbe al massimo il 10% dei processi. Non solo, per evitare l’imbuto del secondo grado il giudice monocratico andrebbe previsto anche in appello, eliminando dunque il collegio. Da ultimo, per deflazionare anche la Cassazione, il giudizio cassatorio a metà tra il merito e la legittimità andrebbe riservato alla Corte d’Appello”. Ma così non si riducono le garanzie? “No, perché l’imputato è perfettamente garantito dal processo dibattimentale di primo grado. Ma non si può pensare di deflazionare il sistema, se si duplica il giudizio di merito”. Invece di eliminare l’appello, si potrebbe abolire l’obbligatorietà dell’azione penale... “No, perché l’obbligatorietà dell’azione penale è presidio del principio di uguaglianza e i costituenti l’hanno prevista perché temevano la discrezionalità del pm. Se la si eliminasse, si attribuirebbe al pm la funzione politica di scegliere quali reati perseguire, dunque dovrebbe essere dipendente dall’esecutivo. Ecco, io preferisco conservare l’indipendenza della magistratura ed inserire un filtro di ammissibilità dell’appello, proprio perché l’obbligatorietà dell’azione penale immette nel sistema un numero di processi esorbitante”. Come giudica, oggi, il rapporto così teso tra politica e magistratura? “Andrebbe trovato un equilibrio. Per molto tempo, la politica ha delegato alla magistratura le scelte, assegnandole di fatto maggiori spazi di intervento discrezionale, salvo poi attaccare la categoria. Questo ha prodotto la tensione, che non si risolve certo con un passo indietro di tutti ma con il reciproco rispetto nell’esercizio dei rispettivi ruoli”. Lei è favorevole alla depenalizzazione di alcuni reati? “Sì, è un’altra delle riforme necessarie, insieme alla riforma del sistema delle notificazioni. È impensabile nel 2020 che si continuino a mandare in giro gli ufficiali giudiziari”. Ha parlato più volte anche di depenalizzazione delle droghe leggere... “Sì, ma continua a incontrare pregiudiziali ideologiche. Invece, bisogna accettare che il contrasto alle droghe non funziona e anzi il consumo è in aumento. Per questo, il mercato dovrebbe essere nelle mani pubbliche: questo renderebbe il prodotto più controllato, toglierebbe ampi spazi di mercato alla criminalità organizzata e darebbe profitto allo Stato”. Giorgio Spangher: “L’appello non si tocca, nemmeno il fascismo riuscì a cancellarlo” di Giulia Merlo Il Dubbio, 10 gennaio 2020 “La prescrizione così congegnata è oggettivamente sbagliata”, è il lapidario commento del professore emerito di Diritto processuale penale, Giorgio Spangher, che però mette in guardia da facili scorciatoie per ridurre la lentezza dei processi: “Eliminare l’appello significa mettere in discussione le garanzie dei cittadini, i loro diritti e libertà”. Professore, perché lo stop alla prescrizione dopo il primo grado è un meccanismo sbagliato? “Perché in questo modo non si determinano tempi certi per la celebrazione dei giudizi di impugnazione. La riforma Bonafede, di fatto, fornisce una nuova scadenza per i pm”. Cosa intende? “Oggi il pm decide quali reati lasciar prescrivere nella fase delle indagini preliminari e lo dicono le statistiche, che mostrano come moltissimi reati si prescrivano esattamente in questa fase. Il pericolo ora è che il pm parta dal presupposto di portare a processo più reati possibili, perché tanto dopo il primo grado non si prescriveranno più, sia che l’imputato sia condannato, sia che venga assolto. Questo cambierà l’atteggiamento del pm ed è molto pericoloso, perché sarà di fatto un nuovo termine del processo, oltre il quale non ci sarà più prescrizione”. Quale correttivo propone? “Io avevo suggerito di eliminare la sospensione della prescrizione in caso di sentenza di proscioglimento. Il presupposto è che per il condannato la presunzione di innocenza sia più affievolita rispetto a quella del prosciolto, che invece è piena. Si tratta certamente di un compromesso, ma può essere che la politica possa accettarlo, dovendo trovare la quadratura del cerchio tra posizioni distanti”. La prescrizione si inserisce nel quadro della riforma del sistema penale e l’ex procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, ha ipotizzato di eliminare l’appello per rendere più il processo più efficiente... “Con tutto il rispetto che ho per Roberti, penso che non si possa trattare il processo in questo modo, perché significa annullare garanzie, diritti e libertà. Nemmeno il fascismo riuscì a eliminare il divieto di reformatio in peius e l’appello, che sono alla base della nostra cultura giuridica”. La sua tesi è di eliminare l’appello nel caso in cui il primo grado si sia svolto con rito ordinario, mentre di mantenerlo nel caso di riti speciali... “Ragionando in termini giuridici, mi sembra un paradosso. Le faccio un esempio: chi sceglie il patteggiamento accetta gli esiti del processo cui si giunge attraverso un accordo. Proprio in questo caso si rinuncia a una parte delle garanzie, tra le quali l’appello. Non solo, che fine farebbero senza il grado d’appello tutti i casi in cui si verificano nullità o invalidità nei giudizi, oppure di prove sopravvenute? Pensiamo, inoltre, a quanti proscioglimenti pieni vengono pronunciati in secondo grado, che sono frutto di una diversa valutazione dei fatti da parte di un collegio”. L’appello non va toccato, dunque? “A me pare che il giudizio d’appello già si sia ridotto, grazie all’introduzione della specificità dei motivi di appello. Proprio questo obbligo così stringente nell’indicare le ragioni dell’appello avverso la sentenza di primo grado giustifica l’appello come un giudizio di controllo, non come un nuovo giudizio. Questo meccanismo può rallentare i tempi, ma fortifica il valore e l’affidabilità della sentenza”. Cosa andrebbe modificato, allora, dell’impianto del processo penale? “Non voglio certo tornare al codice Rocco e al giudice istruttore, ma io credo che vada rafforzato il giudice delle indagini preliminari. Prima della riforma Vassalli, il processo era incardinato sulle indagini, con un giudice istruttore forte affiancato da un giudice debole e senza poteri, che fungeva solo da controllore delle garanzie costituzionali. Con il cambio di rito, il pm è diventato fortissimo ma il giudice delle indagini preliminari è rimasto debole. Ecco, il suo ruolo va riformato e rafforzato, per esempio con maggiori poteri di controllo sui tempi delle indagini”. Ritiene che questo possa velocizzare i processi? “Io credo che per ottenere questo risultato sia innanzitutto necessario risolvere i problemi dell’organizzazione degli uffici, procedendo poi a una seria opera di depenalizzazione. Così si inizia a risolvere il congestionamento della giustizia, non certo eliminando l’appello”. Manterrebbe invece l’obbligatorietà dell’azione penale? “Mi sembra un falso problema, perché già ora di fatto l’obbligatorietà non esiste. Il pm iscrive le notizie di reato ed esercita l’azione penale quando vuole ed è ovvio che sia così e che qualcosa si perda, quando un sostituto procuratore si ritrova sulla scrivania più di cinquecento fascicoli”. Memorabile intervista di Travaglio a Davigo: per salvare la giustizia aboliamo la difesa di Piero Sansonetti Il Riformista, 10 gennaio 2020 La giustizia è una macchina per condannare, non per giudicare. Tante più condanne ottiene nei tempi più brevi, tanto più è efficiente. E a questo principio devono ispirarsi le riforme. C’era una volta Oriana Fallaci. Lei era considerata la regina delle interviste. Ne fece decine, e le sue interviste erano spettacoli di lotta greco-romana. Prendeva l’intervistatore per il collo e non gliene passava una. Mise alle corde Gheddafi, ma anche Fellini e Bob Kennedy. Sapete che anche i miti, col tempo, appassiscono. vengono superati. È successo così. Oggi il mito di Oriana è di gran lunga superato da quello di Marco Travaglio. Ieri, sul Fatto Quotidiano, Travaglio ha intervistato Piercamillo Davigo (ex Pm, ex capo dell’Anm, attualmente consigliere del Csm) e lo ha letteralmente messo alle strette: non gliene ha passata una. Lui - Davigo - si è difeso bene, certo, perché lo cose le sa. Ma ha traballato. Ogni domanda una mazzata. Ne ricopio qui le più importanti, anche per dare ai miei più giovani colleghi un’idea di come si fa un’intervista vera. Le ricopio integrali, senza cambiare una virgola e senza ridurle, per evitare che si perda la complessità della domanda. 1) “Lei che farebbe per bloccare i processi?” 2) “Non ci sono già?” 3) “Quindi che fare?” 4) “L’avvocatura non ci sente” 5) “Altre soluzioni?”. E poi la sesta domanda che davvero è il colpo del kappaò: “Basta così?”. Sull’ultima domanda Davigo ha tremato davvero. E ha dovuto confessare che no, non bastava così. Che alle idee che aveva offerto fino a quel momento, rispondendo con sagacia agli affondi del giornalista, doveva aggiungerne un’ultima che può essere riassunta con queste poche parole: aboliamo il gratuito patrocinio per gli imputati, che tanto sono tutti evasori fiscali sennò non sarebbero imputati, e usiamo quei soldi per finanziare le parti civili. Reso il giusto omaggio alla aggressività di Travaglio, forse un po’ troppo rude (specie in quel perfido “Non ci sono già?”), passiamo a esaminare le idee di Davigo. La prima si fonda su questa affermazione singolare sulla prescrizione in Europa. Davigo, come già nei giorni scorsi più volte scritto da Travaglio (chissà chi dei due è il creatore di questa fake) sostiene che solo in Grecia esiste la prescrizione. Negli altri Paesi l’azione penale, una volta iniziata, non finisce più. Difficile discutere, su questo tema, perché l’affermazione non è discutibile: è assolutamente falsa. La prescrizione esiste in quasi tutti i Paesi europei (Germania Spagna, Francia, per citarne alcuni) e in molti di questi Paesi è molto più breve che da noi. Per esempio, in Francia i processi che prevedono pene sotto i 15 anni si prescrivono in tre anni (da noi fino a 15 anni, e in alcuni casi oltre) e l’eventuale interruzione della prescrizione non può comunque durare più di tre anni. A questo si aggiunge la prescrizione delle pene, che in Francia e in altri Paesi europei si conta dal momento del delitto, mentre da noi si conta dal momento della sentenza di terzo grado. Pensa un po’. Tanto che oggi i francesi dicono di non potere dare l’estradizione agli esuli italiani della lotta armata, perché da loro quei reati sono prescritti, da noi no. In Spagna e Germania le cose sono molto simili. Davigo parte da qui per sostenere la sua idea di fondo. Che è questa. Per rendere più veloci i processi c’è un solo modo: ridurre i diritti della difesa. In varie forme. Abolizione della prescrizione, comunque dopo il primo grado, riduzione del diritto all’appello e introduzione della possibilità di reformatio in peius al secondo grado di giudizio (che vuol dire possibilità di aumentare le pene ricevute in primo grado, anche se l’appello è presentato dalla difesa), cancellazione o riduzione del gratuito patrocinio, obbligo per gli avvocati di pagare una multa per le impugnazioni che portano alla condanna. Davigo dice che in questo modo si sconsiglierebbe agli imputati e agli avvocati di ricorrere in appello, per evitare rischi. Travaglio purtroppo non chiede a Davigo se è giusto ridurre le possibilità di appello in presenza di dati molto allarmanti. Per esempio questo: il 40 per cento delle sentenze di appello rovescia o comunque attenua le sentenze di primo grado. L’appello non è una formalità o una perdita di tempo: è la possibilità di correggere un numero gigantesco di clamorosi errori giudiziari. Pensate che tra tutti coloro che finiscono indagati, la maggioranza risulta innocente: in Italia ogni 100 indagati, 75 sono scagionati nelle indagini preliminari o in processo; la percentuale è leggermente più bassa in caso di arresto: circa il 40 per cento degli arrestati risulta innocente, il che significa che probabilmente, oggi, nelle prigioni italiane ci sono solo 10 mila persone che vedranno la loro innocenza riconosciuta nei prossimi anni dopo aver trascorso in cella una piccola parte della propria vita. Questi dati sono utili anche per giudicare la proposta di Davigo di rendere più dura la condanna in processo, e poi in appello, per spingere gran parte degli imputati ad accettare il patteggiamento. Dice Davigo: se rendiamo conveniente il patteggiamento ridurremo i processi e finalmente i tempi della giustizia si abbrevieranno. Il problema è che per patteggiare devo accettare una condanna e se sono innocente (cioè nel 75 per cento almeno dei casi, secondo i dati che vi abbiamo appena fornito)? Mi conviene lo stesso accettare una condanna perché - sapendo che gran parte dei diritti della difesa sono sospesi - so di rischiare di essere condannato anche da innocente? Questa è l’idea di fondo della giustizia? La giustizia - diciamo - è una macchina per condannare, non per giudicare. Tante più condanne ottiene nei tempi più brevi, tanto più è efficiente. E a questo principio devono ispirarsi le riforme. Del resto su questa idea, Davigo trova il plauso di quasi tutta la stampa. Quante volte avete letto questo titolo: “Assolti: la giustizia ha perso”. Ma perché ha perso? Perché sono stati assolti degli innocenti? E avrebbe vinto invece se fossero stati condannati? Bah. Davigo su questo punto è convintissimo. Tanto che spiega come rinunciare all’appello sia un vantaggio per l’imputato. Perché? Perché di sicuro è colpevole, c’è poco da discutere. E dunque ricorrere in appello serve solo a rinviare la prigione. Se invece andasse subito in prigione potrebbe iniziare la rieducazione e riscattarsi prima. Non è così? Mandarlo in prigione prima è una cosa che si fa per il suo bene. Va’ in cella ragazzo, lo faccio perché ti voglio bene! Poi ci sono gli ultimi due affondi di Davigo. Il primo è una vera e propria gaffe. Davigo si scaglia contro i ricorsi in Cassazione presentati solo per guadagnare tempo e far scattare la prescrizione. Davigo dice che in questi casi, quando la Cassazione stabilisce che i ricorsi erano infondati e inammissibili, dovrebbe essere automatico l’aumento della pena. Travaglio qui tace. Perché tace (e probabilmente arrossisce)? Perché è esattamente quello che fece lui, quando ricorse contro una sentenza di condanna e chiese la prescrizione, e la Cassazione gliela negò perché giudicò strumentale il suo ricorso. Ma questo magari Davigo non lo sapeva, sennò sarebbe stato più delicato. L’ultimo affondo - ne abbiamo accennato - è sugli avvocati. Davigo propone che gli avvocati paghino insieme ai loro clienti per le impugnazioni inammissibili. Una specie di intimidazione per ridurre l’autonomia dell’avvocatura. Gli ha risposto ieri sera Gian Domenico Caiazza, il presidente delle Camere penali: “Volgarità per volgarità, parliamone quando parleremo anche della responsabilità dei magistrati, patrimoniale e disciplinare, per le indagini poi smentite da sentenze assolutorie e da appelli contro sentenze assolutorie poi confermate. Converrà con me, caro Davigo, che i danni (sociali, morali, ed erariali) che procurate con indagini e sentenze squinternate o grossolanamente persecutorie sono sideralmente imparagonabili coi danni che lei ritiene causati dalle nostre impugnazioni”. Ha attaccato Gratteri in tv, il pg Lupacchini rischia il trasferimento di Federica Olivo huffingtonpost.it, 10 gennaio 2020 Il Consiglio superiore della magistratura ha aperto un procedimento a tutela del pm antimafia di Catanzaro, per le dichiarazioni del procuratore generale e per le critiche di una parlamentare Pd. Rischia di dover lasciare il suo posto il procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini. Il motivo? Le dichiarazioni su Nicola Gratteri. La prima commissione del Csm ha deciso all’unanimità di aprire una pratica di incompatibilità ambientale nei suoi confronti. Tra i provvedimenti che potrebbe adottare, il trasferimento in un’altra sede. Alla base della vicenda l’intervento del pg del capoluogo calabrese a TgCom24. Una settimana dopo l’operazione anti ‘ndrangheta “Rinascita-Scott” - che aveva portato all’arresto di 330 persone - Lupacchini aveva definito le inchieste di Gratteri “evanescenti”. Non solo. Aveva poi fatto allusione a un presunto mancato coordinamento tra le procure. “I nomi degli arrestati e le ragioni degli arresti li abbiamo conosciuti soltanto a seguito della pubblicazione sulla stampa che evidentemente è molto più importante della procura generale contattare e informare”, sono alcune delle sue parole. Poche ore dopo Area, l’associazione delle toghe progressiste, e Magistratura Indipendente, che raggruppa i giudici moderati, avevano chiesto di aprire un procedimento per valutare i trasferimento di Lupacchini. E per proteggere Gratteri. Anche l’Anm aveva mostrato disappunto nei confronti del pg di Catanzaro, definendo le sue dichiarazioni “sconcertanti in sé e ancor più perché provenienti dal vertice della magistratura requirente del distretto”. Lupacchini sarà ascoltato dalla commissione lunedì 13, e dovrà rispondere all’accusa che gli ha mosso il Csm: aver delegittimato il magistrato antimafia e la sua procura. Le due toghe non sono nuove a scontri a distanza. Già in estate, spiega il Fatto Quotidiano, la questione era finita davanti al Csm per iniziativa di Gratteri. Anche in quel caso Lupacchini lamentava il mancato coordinamento. La vicenda si era poi risolta. È stata riaperta poche settimane fa, dopo quella che è stata definita, numericamente, “la più grande operazione dopo il maxi processo di Palermo”. Quanto a Gratteri, il Csm ha aperto una pratica in sua tutela non solo per le dichiarazioni di Lupacchini, ma anche per l’attacco social che aveva subito da parte della deputata dem Enza Bruno Bossi. In un post del 19 dicembre la parlamentare - moglie di dell’ex consigliere regionale Nicola Adamo, colpito da un divieto di dimora nell’ambito dell’inchiesta - aveva scritto: “La lotta alla mafia è una cosa seria non uno spettacolo da prima pagina, né un libro venduto nelle scuole, e mi auguro che davvero Gratteri riesca a smantellare la mafia più pericolosa che ci sia. Ma mi auguro anche che si arrivi a processo e non finisca, come il 90% delle indagini di Gratteri, in una bolla di sapone che non pulisce nulla ma cancella nel frattempo la dignità di chi ne viene toccato”. Parole che non sono passate inosservate. E che hanno suscitato indignazione. Anche all’interno del suo partito. Strage di Bologna, ergastolo per Cavallini di Andreina Baccaro Corriere della Sera, 10 gennaio 2020 La condanna dell’ex Nar dopo sei ore e mezza di camera di consiglio della Corte d’Assise. I familiari: sentenza che rende giustizia. Condanna all’ergastolo per l’ex terrorista dei Nar Gilberto Cavallini, nel processo sulla Strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980. La sentenza è stata letta dalla Corte di assise, dopo sei ore e mezza di camera di consiglio. In mattinata l’imputato aveva reso dichiarazioni spontanee e parlato con la stampa dicendosi “pentito per le cose fatte e per le persone ammazzate” ma, aveva aggiunto, “non posso pentirmi per le cose che non ho fatto”. “Noi Nar non c’entriamo con la strage - aveva ribadito prima della condanna Cavallini - e qui a Bologna non abbiamo da chiedere perdono a nessuno. Alla lettura della sentenza l’imputato, in semilibertà nel carcere di Terni, non era più presente in aula. Era presente alla lettura della sentenza anche la presidente dei familiari delle vittime della Banda della Uno Bianca, Rosanna Zecchi. Quarant’anni dopo arriva così un’altra sentenza dopo l’esplosione della bomba che scoppiò nella sala d’aspetto della stazione di Bologna il 2 agosto 1980. Quel giorno era sabato e lo scalo era affollato di turisti che si spostavano per le ferie estive. Morirono 85 persone, 200 rimasero ferite. Per la strage sono già stati condannati nel 1995 in via definitiva Francesca Mambro, il marito Giuseppe Valerio (“Giusva”) Fioravanti e Luigi Ciavardini, tutti appartenenti, come Cavallini, ai Nar, i Nuclei Armati Rivoluzionari, un’organizzazione di ispirazione fascista nata nella capitale e attiva fra gli anni Settanta e Ottanta. La corte d’assise che ha condannato Cavallini all’ergastolo ha stabilito anche una provvisionale di centomila euro per ogni persona che nella Strage ha perso un parente di primo grado o il coniuge, 50mila per chi ha perso un parente di secondo grado o un affine di primo o secondo grado, 30mila per chi ha perso un parente o un affine di grado ulteriore, 15mila per ogni ferito, 10mila per chi ha un parente ferito. Sono le provvisionali immediatamente esecutive per le parti civili, decise dalla Corte di assise di Bologna nella sentenza di condanna all’ergastolo per Gilberto Cavallini. L’imputato è stato condannato anche a risarcire i danni, da liquidare nella competente sede civile. “Faremo appello”, ha detto l’avvocato difensore. I familiari: sentenza che rende giustizia - “La sentenza non cancella gli 85 morti e i 200 feriti, ma rende giustizia a noi familiari delle vittime che abbiamo sempre avuto la costanza di insistere su questi processi”. È il primo commento dei familiari delle vittime della Strage di Bologna, per voce della vicepresidente Anna Pizzirana. La difesa Cavallini aveva detto che 40 anni dopo è inumano condannare una persona: “No, non è inumano, perché hanno condannato anche quelli della Shoah dopo 70 anni, non vedo perché debba essere inumano. È una giustizia che viene fatta ai familiari delle vittime, per la nostra perseveranza. E, se le carte processuali lette, rilette esaminate da questa Corte hanno stabilito così è una sentenza corretta”, ha detto Pizzirani. Reati di market abuse, sanzioni penali e amministrative da riequilibrare di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2020 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 9 gennaio 2020 n. 397. Il cumulo di sanzioni penali e amministrative in caso di reati di market abuse non è affatto illegittimo, ma non può eccedere, tra gli altri, il canone della proporzionalità. Così la Corte di cassazione penale con la sentenza n. 397 di ieri ha accolto il ricorso di un manager chief investiment officier, annullando la sentenza della Corte di appello di Milano di condanna per il reato di abuso di informazioni privilegiate, limitatamente al trattamento sanzionatorio e alla misura del risarcimento del danno riconosciuto alla Consob, come parte civile. Infatti, dicono i giudici che se è vero che non scatta il divieto di bis in idem per la duplicazione degli strumenti repressivi - uno affidato al giudice penale e uno all’autorità amministrativa competente - è pur vero che il risultato del trattamento sanzionatorio concreto non può essere frutto di una pura duplicazione di strumenti repressivi sul medesimo fatto. Perciò se ad esempio - come nel caso concreto - il procedimento Consob si è concluso per la mancata impugnazione della delibera il giudice penale non può non tener conto di quanto già comminato al responsabile del reato finanziario nel procedimento amministrativo. La Corte di appello nel confermare la condanna di primo grado a un anno di reclusione e al pagamento di 20mila euro di multa aveva in più riconosciuto 25mila euro di risarcimento danni alla Consob, costituitasi parte civile nel processo penale. Il ricorso per cassazione lamenta però che la somma delle sanzioni pecuniarie amministrative derivanti dal giudizio penale e dal procedimento guidato dalla Consob, comprensive della confisca del profitto del reato e degli strumenti atti a commetterlo, aveva raggiunto la somma di 300mila euro a fronte di un illecito profitto di 50mila. La Cassazione rinvia al giudice di secondo grado la commisurazione tra le multe in sede penale e le sanzioni Consob che solo formalmente sono amministrative, ma di fatto penali per la loro funzione fondamentalmente sanzionatorio-repressiva. Stesso discorso vale per la riparazione economica accordata dal giudice penale all’ente amministrativo di controllo dei mercati finanziari, che va fissata tenendo conto che la facoltà di Consob di avere accesso al processo penale, come previsto dall’articolo 187 undicies del Tuf, è una facoltà scissa in due componenti. Quella ordinaria di costituirsi come parte civile in quanto portatrice di interessi e quella specifica di vedere riparati i danni conseguenti ad abusi di mercato. Di conseguenza il giudice nell’esaminare il quantum della riparazione ex articolo 187 undicies deve fissare l’importo in modo che la parte Ne bis in idem - La sentenza di legittimità è imperniata sulla recente evoluzione della giurisprudenza sovranazionale europea della Corte di giustizia Ue della Corte dei diritti dell’uomo, che attualmente adottano un’interpretazione meno rigida del divieto di bis in idem non escludendo la possibilità di una duplicazione di procedimenti penale e amministrativo, a patto che vi sia tra questi un contemperamento. Ma c’è un limite che non può essere travalicato nella previsione di diverse conseguenze “repressive”: a chi, colpevole o sospettato di aver commesso un reato, si trovi sotto la lente di un “meccanismo integrato” (in sé non illecito) non deve risultare impossibile, ma neanche eccessivamente gravoso l’esercizio di una concreta difesa. Proporzionalità delle sanzioni - data la possibilità che per il medesimo fatto si attivino tanto il processo penale Non basta a sgombrare il campo da dubbi l’affermazione della memoria depositata da Consob che fa rilevare la mancata impugnazione della delibera sanzionatoria. Comunque - come spiega la Cassazione - nella repressione di un reato attraverso strumenti diversi indipendenti va affermata la necessità di un nesso materiale e di un nesso temporale, che impongono la presa in considerazione delle risultanze dei diversi procedimenti e la loro più possibile contiguità nel tempo. Due binari separati che non possono però ignorarsi a meno di incorrere nel rischio di duplicare sanzioni raggiungendo un’entità sproporzionata rispetto al fatto criminoso. Reato paesaggistico anche se l’illecito è all’interno dell’immobile di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2020 Sussiste reato paesaggistico anche quando il bene non ha subito modifiche estetiche ma interventi sulla cubatura. La Cassazione penale, infatti, con la sentenza n. 370 depositata il 9 gennaio ha precisato che rientrano nella nozione di abuso al paesaggio anche tutte quelle opere non autorizzate eseguite all’interno dell’edificio, in quanto anche in questo caso si determina un’alterazione dell’originario assetto dei luoghi di valutazione in sede penale. L’autorità comunale - Pertanto, per i giudici della Suprema corte, è necessario ottenere il permesso a costruire anche per realizzare immobili in tutto o in parte interrati, trattandosi di lavori per i quali l’autorità comunale deve svolgere il suo controllo diretto ad assicurare sia l’ordinato sviluppo dell’aggregato urbano, sia il rispetto delle norme urbanistiche e anche l’osservanza delle regole tecniche di costruzione prescritte dalla legge. È interessante la precisazione della sentenza che esamina la serie di lavori di diversa entità eseguiti sull’immobile. E quindi i singoli lavori effettuati e per i quali si incorrerebbe in una sanzione meno grave devono essere considerati nel loro insieme, quindi senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti e ciò ancor più nel caso di interventi su preesistente opera abusiva. Conclusioni - Per concludere - si legge nella sentenza - il Legislatore, anche per allargare i confini degli illeciti contro il paesaggio, ha esteso nel tempo la nozione di reato paesistico fino ad arrivare all’articolo 131 del Dlgs 63/2008 secondo cui per paesaggio si deve intendere il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro destinazioni. Toscana. Salute in carcere, due psicologi per affrontare il disagio del personale met.provincia.fi.it, 10 gennaio 2020 La vita in carcere è certamente dura per i detenuti. Ma anche il lavoro del personale sanitario e penitenziario è fonte di criticità e disagio. Per questo il Centro di riferimento regionale sulle criticità relazionali (Crrcr), in collaboratone con l’Ordine degli psicologi, ha presentato un progetto, “La salute in carcere: accoglienza, analisi ed orientamento rispetto al disagio del personale che opera negli istituti penitenziari”, approvato dalla giunta in una delle ultime sedute, su proposta dell’assessore al diritto alla salute Stefania Saccardi, e finanziato con 24.000 euro. Il progetto è stato presentato stamani nel corso di una conferenza stampa dall’assessore al diritto alla salute e al sociale Stefania Saccardi, assieme al provveditore dell’Amministrazione penitenziaria Gianfranco De Gesu, al direttore dell’Aou Careggi Rocco Damone, alla responsabile del Centro regionale criticità relazionali Laura Belloni. Il progetto prevede la presenza, nei principali istituti penitenziari della Toscana, che saranno definiti in accordo con l’amministrazione penitenziaria, di due psicologi psicoterapeuti, con la funzione di ascolto, supporto e orientamento, rispetto alle difficoltà percepite e riferite dal personale che lavora negli istituti di pena toscani (in tutto 18: 16 per adulti e 2 per minori; il personale di polizia penitenziaria è in tutto di 2.900 persone). I due professionisti saranno presenti 2 volte al mese in ciascun istituto, sia per la realizzazione di colloqui individuali che per l’osservazione di alcuni contesti specifici. La richiesta di fornire un supporto professionale è stata avanzata alla Regione dal provveditore regionale all’amministrazione penitenziaria, e la Regione ha individuato il Crrcr come centro idoneo per questa attività. “Dal 2012 ad oggi l’Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria istituito dalla Regione Toscana - spiega l’assessore Stefania Saccardi - ha evidenziato temi importanti, a seguito dei quali il Servizio sanitario, in stretta collaborazione con l’amministrazione penitenziaria, ha attivato iniziative e azioni congiunte, per il contenimento dei problemi emersi e l’integrazione dei gruppi multi-professionali coinvolti nei percorsi sanitari e penitenziari dei detenuti”. “Il progetto si pone nel solco del rinnovato impegno dell’amministrazione per il benessere del personale - è il commento del provveditore Gianfranco De Gesu - ed è espressione della positiva sinergia che da anni caratterizza i rapporti tra questo Provveditorato e la Regione Toscana. In questo caso la Regione, a richiesta del Provveditorato, si fa carico dell’onere di offrire proprie risorse a favore della tutela della salute degli operatori penitenziari, come riconoscimento del gravoso impegno che essi svolgono all’interno degli istituti e per l’importanza della funzione sociale dell’opera di rieducazione dei detenuti a favore della comunità. Si tratta di un’iniziativa che non ha precedenti nelle modalità individuate per il supporto e l’orientamento del personale penitenziario e che si pone senz’altro come buona prassi”. “Con soddisfazione ho partecipato al percorso che ha portato all’approvazione di questo progetto sperimentale - fa sapere per conto dell’Ordine degli psicologi Ilaria Garosi, impossibilitata a partecipare alla conferenza stampa -, raccogliendo fin da subito la sollecitazione fatta al nostro Ordine dall’allora provveditorato Fullone in seguito al suicidio di un agente di polizia penitenziaria in servizio al carcere di San Gimignano. Il tema della prevenzione del disagio del personale dell’amministrazione penitenziaria, che si trova a svolgere un lavoro con molti componenti stressogeni, è stato approfondito insieme all’ormai precedente Consiglio dell’Ordine degli Psicologi della Toscana ed in particolare al Gruppo di lavoro di psicologia penitenziaria”. “Col nostro lavoro vogliamo costruire una rete e mettere in atto un’integrazione interdisciplinare - informa Luca Amoroso, del Crrcr - Obiettivi: fornire ascolto e aiuto e fare un’analisi approfondita, per individuare poi i percorsi da seguire”. Nel 2018 sono iniziate negli istituti penitenziari toscani visite sistematiche effettuate con la collaborazione del Centro Gestione Rischio Clinico e Crrcr, per far nascere iniziative specifiche per le singole realtà; sono stati messi a punto e condivisi protocolli regionali, per esempio per la prevenzione del rischio suicidario e di gesti autolesivi, sia negli istituti per adulti che in quelli per minori; monitorate specifiche attività a cura dell’Ars, l’Agenzia regionale di sanità; istituiti percorsi formativi specifici, relativi sia al contesto della salute in carcere che al percorso di superamento dell’Ospedale psichiatrico giudiziario; attivati gruppi di lavoro su tematiche particolari (episodi di violenza nelle carceri); e condivise tematiche particolarmente importanti con la Magistratura. Tra le criticità emerse in seguito a questo lavoro congiunto, rilevante quella del disagio del personale che lavora all’interno degli istituti penitenziari: un disagio derivante sia da determinanti ambientali che da aspetti di natura socio-culturale e organizzativa. Da qui il progetto messo a punto dal Crrcr, che si propone di creare uno spazio dedicato all’ascolto e all’analisi delle problematiche vissute dal personale e offrire supporto e orientamento rispetto ai percorsi più appropriati; e anche fornire un feedback al sistema per eventuali interventi migliorativi. Foggia. “Insieme batteremo la mafia” di Giuseppe Conte Corriere del Mezzogiorno, 10 gennaio 2020 Il premier Giuseppe Conte scrive al Corriere: “Giustizia sociale e lavoro per il Sud”. Gentile direttore, ho deciso di intervenire sulle pagine di questo quotidiano per esprimere il mio pieno sostegno alla manifestazione contro la mafia che si svolge oggi a Foggia e a chi ha deciso di esserci: associazioni, studenti, sindacati, amministratori, società civile. La lotta alle mafie non deve avere bandiere né colori politici. È una lotta che deve vederci tutti uniti nella stessa direzione a difesa di libertà, legalità e giustizia. La manifestazione di Libera è un segnale incoraggiante. Per sconfiggere le mafie la risposta deve arrivare netta e chiara anche da parte dei cittadini, che devono farsi comunità, perché solo insieme si può sconfiggere il malaffare. I foggiani non devono sentirsi soli, perché lo Stato c’è ed è con loro. Non abbandoniamo Foggia così come non abbandoneremo nessun altro territorio, dal Sud al Nord. La risposta dello Stato agli attentati che si sono verificati a inizio anno è stata immediata, forte e tempestiva, a dimostrazione dell’attenzione che il Governo riserva al contrasto alla criminalità organizzata: le imponenti operazioni che sono state portate a termine dalle Forze di Polizia, a poche ore da quei gravi episodi, a Foggia e nel barese, hanno visto un dispiegamento massiccio di uomini e donne e una piena sinergia tra forze dell’ordine, prefetture e magistratura. Ciò dimostra che, quando si fa squadra, si ottengono sempre i risultati. Positivo è anche l’impegno annunciato dal ministro Lamorgese di istituire una sezione della Dia a Foggia: un ulteriore segno della vicinanza dello Stato e delle Istituzioni al territorio. Questo Esecutivo è dalla parte di chi reagisce, di chi decide di non restare indifferente di fronte ai soprusi e alle violenze della criminalità organizzata. Penso ai tanti magistrati che ogni giorno combattono la propria battaglia silenziosa, ma anche ai comuni cittadini che quotidianamente lottano per difendere la libertà di ciascuno di noi. Anche recenti fatti di cronaca, proprio qui in Puglia, dimostrano che ad accendere la scintilla della legalità è spesso il coraggio di chi decide di denunciare abbattendo il muro dell’omertà. Tra i punti programmatici del Governo abbiamo inserito il potenziamento della lotta contro le organizzazioni mafiose e siamo al lavoro tutti i giorni per dare concretezza a questo obiettivo prioritario. Abbiamo sbloccato il piano assunzioni delle forze dell’ordine per quasi 12mila unità e previsto 175 milioni di euro in più per gli straordinari arretrati. Se da un lato dichiariamo guerra alla malavita, dall’altro dobbiamo fare in modo che possano trovare spazio le tante energie positive e propulsive del territorio. Dobbiamo fare terra bruciata intorno alla mafia, dobbiamo rendere il terreno fertile per i sogni e le ambizioni dei giovani che vogliono restare al Sud e in Italia. Per questo dobbiamo mettere in campo il massimo sforzo per garantire maggiore giustizia sociale. Le mafie trovano spazio d’azione proprio laddove mancano diritti, occasioni e opportunità per i cittadini. Per questo giustizia sociale, opportunità di crescita e lavoro sono i binari ad alta velocità con cui vogliamo allontanare il Sud da quei sentimenti di rassegnazione di cui si nutre la criminalità. Strumenti come il reddito di cittadinanza sono un tassello nel percorso per la giustizia sociale. Il Contratto istituzionale di sviluppo della Capitanata si muove in questa direzione: rilancio dei cantieri, dell’occupazione e degli investimenti. In questo senso si muove anche la scelta di destinare a priori il 34% della spesa pubblica al Sud. La fiducia marcia sulle gambe di chi oggi manifesta. Io sono al vostro fianco. Napoli. Mini-telefoni nelle celle dei detenuti: ancora sequestri, ma non c’è reato di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 10 gennaio 2020 Dodici ore di perquisizioni nelle celle, detenuti sottoposti ad esami radiografici e quattro cellulari sequestrati. Sono i risultati di una lunga operazione portata a termine dalla Polizia penitenziaria nel carcere di Secondigliano, che ospita detenuti “definitivi” e condannati per reati di mafia. E scoppia la polemica, perché - oltre alla lunga serie di casi inquietanti che dimostrano come le carceri napoletane (e italiane, giacché si tratta di un fenomeno diffuso a livello nazionale) siano dei colabrodo - alla fine l’introduzione vietata di telefonini non configura alcuna fattispecie di reato. Partiamo dall’ultima operazione della Polpen a Napoli. Una perquisizione straordinaria eseguita anche con l’ausilio delle unità cinofile e di metal detector, che ha interessato tutti i reparti detentivi e l’intera popolazione detenuta ristretta, terminata solo nella tarda nottata. Alla fine dalle celle sono spuntati altri quattro telefonini: circostanza assai inquietante se si pensa che tra i 1.400 detenuti che affollano la struttura la maggior parte è composta da appartenenti al circuito Alta Sicurezza, e sono affiliati alla camorra. Ma come fanno ad entrare in carcere i cellulari? E com’è possibile, ancora, che negli istituti carcerari si riesca persino a far passare cocaina, hashish e altri tipi di sostanze stupefacenti? La situazione viene costantemente denunciata dai Sindacati della Polizia penitenziaria, che evidenzia come ogni giorno in strutture come quella di Poggioreale il personale in divisa sia costretto a dover controllare - nell’ambito dei circa 400 colloqui tra detenuti e parenti che si succedono quasi tutti i giorni - qualcosa come 1.500-200 persone. Nelle sale colloqui, inoltre, non ci sono vetri divisori e ciò agevola sicuramente il passaggio di sostanze o oggetti. Due esempi recenti: in una struttura carceraria della nostra regione (non la citiamo, essendo in corso un’indagine della magistratura inquirente) una telecamera nascosta nella sala colloqui ha registrato il passaggio di un micro-telefonino ad un recluso: le immagini hanno registrato quel passaggio - che una donna ha estratto dalla vagina trasferendolo al marito detenuto, il quale a sua volta è riuscito ad inserirlo nell’ano - in soli sette secondi: gli investigatori hanno dovuto vedere e rivedere più volte quelle immagini prima di accorgersi dell’incredibile “consegna”. Altro caso: qualche giorno fa la Polizia penitenziaria è riuscita a sequestrare sette cellulari e 100 grammi di hashish che un detenuto affetto da una patologia certificata e portatore di pannolone era riuscito ad infilarsi proprio nell’assorbente. I sindacati di Polizia penitenziaria denunciano questo incredibile stato di cose. Aggravato - come già spiegato in premessa - dalla impossibilità di contestare, almeno nel caso della consegna di cellulari ai reclusi, alcun reato (nel caso della droga il comportamento integra invece la fattispecie di cessione di sostanza stupefacente). Roma. Perché è importante che un parroco vada a Rebibbia di Mauro Leonardi farodiroma.it, 10 gennaio 2020 Don Marco Fibbi, il coordinatore dei Cappellani di Rebibbia, mi chiede luogo e data di nascita per rinnovare il mio permesso come volontario ex art. 17. Il tempo che passa si misura così. Ti crescono i capelli, le scarpe si logorano, indossi il cappotto che non usavi da un anno e dici: è già passato un mese, una stagione, un anno. È passato un anno da quando sono “prete a Rebibbia” come dico sinteticamente a chi me lo chiede e non mi è facile dire come questa esperienza mi stia segnando. Sono costretto a parlarne con una certa frequenza negli incontri in cui do ragione delle richieste che, attraverso il web, rivolgo a tutti per bagnoschiuma, dentifrici, spazzolini, biancheria, panettoni, e così via. Vivere alla lettera quanto chiede il Vangelo, cambia. Cambia fuori e cambia anche dentro. Cambia fuori per la necessaria risistemazione di tempi, e cambia dentro anche se il come non lo sai. “Ero carcerato e mi hai fatto visita” (Mt 25,36) è una sfida e un mistero. È una sfida perché, moltissime volte, ti accorgi che quell’incontro è proprio solo “una visita”. Io poi, meno di molti altri cappellani, posso davvero fare poco o nulla. Conosci e accosti tragedie infinite per le quali c’è solo da chiedere a Dio il dono di saper piangere. Il vangelo racconta spesso che Gesù si commosse e io sto imparando che dovrei chiedere il dono delle lacrime: perché non è vero che piangere non serve. Piangere serve, è utilissimo, e quando è piangere con qualcuno, è fare compagnia. Che è l’unico rimedio efficace al più grande male al mondo: la solitudine. È poi un mistero. È un mistero quando il detenuto che hai davanti non è, come verrebbe da pensare quando lo si accosta a Cristo, un innocente, uno finito lì per sbaglio, un pentito. In carcere c’è chi ne ha combinate di davvero grosse e non ha nessuna idea di ravvedersi, c’è anche chi peggiora, c’è chi non ne vuole sapere di non fare più ciò che ha fatto, eppure Cristo è anche lì. Lì dentro, lì dentro di lui. Come? Perché? In che modo? È davvero un mistero che mi sfida. Ecco, la differenza. Da quando vado in carcere ho accettato di farmi ferire da questo mistero. E questo vorrei consigliarlo ai miei cari amici preti. Soprattutto ai miei amici parroci. Andate a trovare i vostri parrocchiani che sono in carcere. Se dite di non averne è molto probabile che ci sia qualcuno che vi nasconde qualcosa. Quello col prete in carcere è l’unico rapporto non strumentalizzabile e fa sempre bene. E fa bene anche al parroco un incontro non strumentalizzabile. Quando un prete viene rifiutato da un detenuto, non importa, va bene così. È un modo di relazionarsi, forse è il modo di relazionarsi di chi sta dicendo che, secondo l’interessato, è ancora troppo presto per essere trattato con dignità, e invece no: quel momento è venuto. È importante che i parroci vadano a trovare in carcere i propri parrocchiani. È importante proprio per i parroci. È importante che lo facciano senza pensare alla Caritas, al gruppo parrocchiale e a tutto quello che verrà in vista del reinserimento e dopo il reinserimento. È importante per loro, per i parroci. Per il loro scontro con la burocrazia lentissima del carcere, lo scontro con la fotocopia della carta d’identità, il permesso che non arriva e l’incontro che quando arriva poi non c’è nulla da raccontare perché si sta solo in silenzio: è importante per il parroco che magari, poi, neppure lo può dire alla famiglia perché la famiglia ha rinnegato “quel delinquente”: anche quello è importante. È importante per un parroco, che bene o male ha sempre a che fare con il tema del successo, andare a trovare il proprio parrocchiano in carcere. Anche se è in un’altra città e lontano. È importante. Il mio è un consiglio che vale quel che vale. Ma un po’ vale. Sant’Angelo dei Lombardi (Av). Seconda edizione del progetto “La sicurezza dentro” inail.it, 10 gennaio 2020 L’Inail ha sottoscritto un accordo per diffondere la cultura della prevenzione degli infortuni e la tutela della persona nella casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino) che coinvolge sia i detenuti, sia gli agenti di polizia penitenziaria. Il progetto “La sicurezza dentro”, alla sua seconda edizione, è finalizzato a promuovere e rafforzare la cultura della prevenzione degli infortuni e la tutela della persona negli ambienti di vita e di lavoro. Un percorso che prevede una serie di incontri informativi e formativi rivolti ai detenuti “lavoratori” della casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi. L’amministrazione penitenziaria valorizza le competenze dei singoli. Questo progetto nasce da un accordo di collaborazione sottoscritto tra Luca Ponticello, comandante provinciale dei Vigili del fuoco di Avellino, Marianna Adanti, direttrice della casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi, Grazia Memmolo, direttrice reggente della Direzione territoriale Inail di Avellino e Carmine Piccolo, direttore della Unità operativa territoriale di Certificazione verifica e ricerca di Avellino. Il penitenziario di Sant’Angelo di Lombardi è da anni un esempio di casa di reclusione completamente autosufficiente in cui i detenuti, oltre ad essere assunti dall’amministrazione penitenziaria, vengono valorizzati nelle loro competenze e inseriti in un progetto di rieducazione e di reinserimento lavorativo globale. Un percorso didattico per acquisire esperienze professionali. L’Inail, in collaborazione con il Comando dei Vigili del fuoco di Avellino, coinvolge circa 200 detenuti e 10 agenti di Polizia penitenziaria in un percorso didattico i cui moduli formativi vanno dalla classificazione dei rischi negli ambienti di lavoro, al primo soccorso fino alla sicurezza antincendio. L’Istituto affianca la casa circondariale in questo progetto di acquisizione di competenze professionali di alta specializzazione che sono spendibili sia all’interno della struttura, sia al termine del periodo di detenzione. Sono previsti sette incontri a partire dal 16 gennaio 2020. Bologna. Gli agenti penitenziari entrano in classe redattoresociale.it, 10 gennaio 2020 Un’ora con due agenti penitenziari e 20 studenti di una quinta di un liceo classico dell’hinterland bolognese. Nicola D’Amore lavora in Dozza, Anna La Marca nella sezione femminile del carcere di Reggio: “L’istituto replica le dinamiche del mondo libero. Il carcere è più duro per chi lo vive nella marginalità”. Chi vive in regime di 41 bis? Qual è il rapporto tra detenuti e agenti penitenziari? È capitato che i detenuti pagassero per gli errori commessi dagli agenti? Esistono, all’interno delle case circondariali, figure di supporto psicologico? Sono queste alcune delle domande che i ragazzi di una V del Liceo Classico Leonardo Da Vinci di Casalecchio, primo hinterland bolognese, hanno posto a Nicola D’Amore, agente penitenziario del carcere di Bologna e Anna La Marca, agente penitenziaria della sezione femminile del carcere di Reggio Emilia, entrambi sindacalisti del Sinappe, il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria. Venti ragazzi sui banchi, 17 ragazze e 3 ragazzi: la falce e il martello sui muri, la lezione di francese alla lavagna. Quaderni aperti, matita in mano. Dalla finestra, il sole gelido di gennaio illumina i banchi. Alla cattedra esordisce La Marca: racconta della sua esperienza con le detenute, le donne dei collaboratori di giustizia del carcere reggiano. Sono familiari di mafiosi, camorristi, ‘ndranghetisti, vivono in un regime penitenziario differenziato dalle detenute comuni. Parlando di mafie, si arriva diretti al 41 bis: quand’è nato? Perché? L’agente snocciola risposte e cita la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, la recente storia italiana. I ragazzi vogliono sapere cosa significa vivere con il 41bis: “I mafiosi in carcere mantengono comportamenti correttissimi, mai una volta un atteggiamento sopra le righe o una parola fuori posto - spiega D’Amore -. Ma anche all’interno della struttura conservano il loro potere d’acquisto, possono permettersi avvocati famosi, riescono a ottenere le prime pagine dei giornali. Ai colloqui, a dividerli dai visitatori c’è sempre il vetro, in ogni spostamento sono accompagnati da almeno due di noi”. È il professore a chiedere se, all’interno delle carceri, si riproponga la stessa divisione per classi che vediamo tra le persone libere: “Sì, è esattamente così - concordano gli agenti. Il carcere replica le dinamiche esterne. Il carcere è duro anche - se non soprattutto - per chi lo vive nella marginalità. Persone di origine straniera senza documenti che non hanno nulla con sé, uomini e donne che sconteranno sino all’ultimo giorno della pena e che, quando usciranno, saranno ancora più arrabbiati con il mondo”. La Marca e D’Amore parlano delle difficoltà del loro lavoro, della difficile convivenza con colleghi che, nel carcere, vedono solo un ruolo punitivo e mai rieducativo: “Persone che si lasciano affascinare dal potente di turno che, con slogan urlati e spesso offensivi, alimenta il clima d’odio nel paese. Ma c’è anche chi, da agente penitenziario, vuole lavorare per assolvere i doveri sanciti dalla Costituzione: garantire il rispetto dei diritti umani, prestare servizio allo Stato perché la pena sia davvero educativa. Con la sempre più grave carenza di educatori, nessuno può più sottrarsi ai propri doveri. È necessario che gli agenti siano adeguatamente formati. La formazione di oggi deve per forza essere diversa da quella del passato”. È a questo punto che arriva la domanda da una ragazza in terza fila: “Come convivono la necessità di fare rispettare le regole con il lato umano di una persona?”. A rispondere è Anna La Marca, che ricorda di quando, una sera, entrò in carcere una mamma con un bambino di 8 mesi. La donna aveva fatto un viaggio dalla Puglia all’Emilia, aveva necessità di farsi una doccia. Non sapeva dove mettere il piccolo, non aveva né ovetti né carrozzine: “Mentre si faceva la doccia, ho tenuto io in braccio suo figlio. Non potevo farlo, ma chiamai il mio superiore e glielo comunicai. Non gli chiesi il permesso, gli dissi che l’avrei fatto. Non è possibile irrigidirsi sulle regole. La norma va fatta rispettare, poi gli angoli vanno smussati”. C’è ancora qualche dito alzato, ma suona la campanella. Sono le 13 e la giornata scolastica è finita: i ragazzi salutano con un arrivederci, il prossimo appuntamento è per la settimana prossima, quando studenti e professore entreranno in Dozza per provare a dare corpo a tutte le parole appuntate su diari e quaderni. Roma. Quando una birra ha il sapore della libertà di Camillo Barone reporternuovo.it, 10 gennaio 2020 Un pub diverso dagli altri nel cuore del quartiere Appio-Tuscolano a Roma: “Vale la Pena” è il simbolo dell’integrazione sociale dei detenuti in Italia. Luci calde e accoglienti, reti metalliche che delimitano i tavolini, il bancone del bar nascosto da sbarre in ferro. Nel cuore del quartiere Appio-Tuscolano a Roma si trova un pub aperto da oltre due anni che colpisce subito all’occhio per l’arredamento alternativo: alla vista tutto sembra rievocare un carcere, eppure si tratta di un luogo che trasuda rinascita e solidarietà in ogni angolo. Il nome del pub è già un programma, “Vale la Pena”. Si tratta di un progetto sociale nato grazie a un’idea di un fisioterapista del Servizio sanitario nazionale, Paolo Strano, che per lavoro frequenta i detenuti delle carceri di Roma. Col tempo Paolo scopre la realtà del mondo carcerario, imparando ciò che quasi nessuno immagina, ovvero che il reinserimento sociale e lavorativo per un detenuto in Italia è molto difficile, se non impossibile, a causa dei costi di mantenimento e delle spese processuali che è chiamato a pagare una volta scontata la pena. In media infatti in Italia ogni carcerato, una volta uscito dalla prigione, deve pagare una somma pari a circa 90 euro mensili per ciascun mese speso in carcere. In alcuni casi i detenuti pagano queste somme lavorando per il carcere già durante lo sconto della pena, in altri casi invece vengono assunti da imprese sociali di economia carceraria, mentre molti, non lavorando in alcun modo, si ritrovano somme di denaro ingenti da pagare allo stato una volta scontata la pena. Di fronte a queste somme, il 68% dei detenuti in Italia (dati ministero della Giustizia) torna a delinquere per potersi permettere una vita dignitosa, rendendo inutile il periodo di espiazione trascorso in carcere, e quindi arrecando un doppio danno a tutto il sistema nazionale. È il problema della cosiddetta “recidiva”, che da anni in Italia resta una questione aperta. Inoltre, alla fine della pena ogni detenuto non riacquista automaticamente tutti i diritti persi una volta entrato in carcere: servono infatti numerosi permessi costosi per rifare una semplice patente, una carta d’identità per l’espatrio e un passaporto, insomma tutto l’occorrente necessario per tornare a lavorare come qualsiasi cittadino libero. Di fronte a queste scoperte, Paolo Strano decide di lasciare il suo lavoro sicuro da fisioterapista e fonda la Onlus “Semi di Libertà”, aprendo un birrificio artigianale nel carcere di Rebibbia e offrendo un posto di lavoro a numerosi detenuti che si alternano nei mesi. Dopo poco tempo nasce il pub “Vale la Pena” nel quartiere Appio, in cui i detenuti in stato di libertà vigilata vengono regolarmente assunti con stipendio e contributi. Grazie ad uno studente dell’università Luiss, Oscar La Rosa, il pub ha appena vissuto un’evoluzione importante: da pochi mesi infatti dentro il locale sono in vendita prodotti interamente “made in carcere”. Dalla pasta fatta a mano dai detenuti dell’Ucciardone di Palermo ai taralli delle carceri di Siracusa e Ragusa, dal miele prodotto dai carcerati di Vasto al caffè macinato della casa circondariale femminile di Pozzuoli: tutto ormai nel pub “Vale la Pena” parla di reinserimento lavorativo e quindi di giustizia sociale, compreso le persone che ci lavorano ogni giorno. Simone, 39 anni, è infatti un ex detenuto che ha appena finito di scontare una pena di 10 anni, e da ottobre è ormai parte integrante del pub tuscolano. “Se è vero che tu vai in galera per espiare la tua colpa, quando esci non sei più nessuno, devi ricominciare tutto da capo. I detenuti non sono aiutati in nessun modo dallo stato, per questo molti ricorrono alla via più facile, e l’unico modo per poter campare è tornare a fare reati” dice con tono pacato ma deciso. Grazie a “Semi di Libertà” Onlus oggi Simone ha ricominciato a lavorare da cittadino in piena regola, ma il suo percorso non è stato semplice, così come non lo è per migliaia di detenuti che ogni giorno in Italia finiscono di scontare una pena senza sapere dove andare, cosa fare e con quali mezzi cercare un lavoro per sopravvivere. “Sogniamo che questo pub possa diventare luogo di ritrovo, di studio e di relazioni per tutti gli abitanti della comunità, dove liberamente si possano condividere storie e legami” esclama convinta Veronica, che da volontaria nel pub ha sposato la causa del reinserimento lavorativo dei detenuti da anni. “Perché senza la cultura delle relazioni non possiamo andare da nessuna parte”, compresa la direzione della giustizia e della piena integrazione sociale. Catanzaro. Esecuzione della pena e principio rieducativo, esperti a confronto calabriaeconomia.it, 10 gennaio 2020 Oggi 10 gennaio, il Consiglio Direttivo della Camera Penale A. Cantafora di Catanzaro unitamente ad alcuni soci parteciperà presso la Casa Circondariale Ugo Caridi di Catanzaro alla presentazione del libro “Dolci C(reati)” scritto dal detenuto Fabio Valente ed edito dalla casa editrice Città del Sole di Reggio Calabria. Nel corso della presentazione, coordinata dalla direttrice dell’istituto penitenziario, dott.ssa Angela Paravati, porgeranno il loro saluto il Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, dott. Liberato Guerriero, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza, dott.ssa Laura Antonini, il Garante nazionale delle persone private della libertà, dott. Palma, ed il Presidente della Camera Penale A. Cantafora, Avv. Ermenegildo Massimo Scuteri. La mattina vedrà poi la delegazione della Camera penale effettuare una visita al carcere unitamente al dott. Palma. La presentazione del libro del detenuto Valente, rientrante nell’ambito di un più ampio progetto di rieducazione fortemente voluto dalla direttrice dell’istituto penitenziario è stata, sin da subito, sostenuta dalla Camera Penale, la quale ha fatto coincidere la stessa con il convegno dal tema “Lo stato delle carceri fra politiche securitarie e condanne internazionali” che avrà luogo nel prosieguo della giornata presso la Sala delle Culture del palazzo della Provincia. Quello che ne viene fuori è una giornata di studio, approfondimento e dibattito sul carcere, sull’esecuzione della pena e sul principio rieducativo sulla scorta dell’esperienza di Catanzaro ed alla luce dei recenti interventi giurisprudenziali nazionali e sovranazionali. Roma. Presentazione del libro “Naufraghi... in cerca di una stella” Ristretti Orizzonti, 10 gennaio 2020 Mercoledì 15 gennaio alle ore 18 presso Moby Dick Biblioteca Hub culturale, in via Edgardo Ferrati 3a, Roma, presentazione del libro “Naufraghi... in cerca di una stella” un esperimento di pratica filosofica in carcere, a cura di Fernanda Francesca Aversa e Emilio Baccarini. Nell’immaginario di ogni filosofo, almeno nella tradizione occidentale che inizia dalla Grecia, c’è un carcere che fa da sfondo o scena almeno a due dialoghi di Platone, l’Apologia di Socrate e il Fedone. Ciò che viene rappresentato nel primo dialogo è la difesa che Socrate propone per sé di fronte alle accuse che gli vengono mosse. Nell’apologia di Socrate sembra di essere nel pieno di un dibattimento in cui vengono presentati gli argomenti pro e contro. La rivendicazione dell’innocenza in nome della giustizia e della verità, ma anche l’esigenza di non tradire mai la passione per la ricerca che rende pienamente sensata l’esistenza, sono le coordinate a cui mantiene fede Socrate. Nel secondo, invece, siamo di fronte a uno dei dialoghi teoretici più suggestivi scritti da Platone. Insieme ai curatori interverranno alcuni degli autori, Eligio Resta e Filippo La Porta, modera Stefano Anastasìa, saluti della Presidente del Tribunale di sorveglianza Maria Antonia Vertaldi. Roma. “Fortezza”, il deserto del carcere in scena a Civitavecchia di Giulia Mattera zai.net, 10 gennaio 2020 Ludovica Andò è una regista ed educatrice che da anni lavora nelle carceri e che recentemente ha realizzato con Emiliano Aiello il film “Fortezza” presentato al museo Maxxi all’interno della sezione Festa per il sociale e per l’ambiente del Festival del Cinema di Roma. “Fortezza” prende spunto dal libro di Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, un capolavoro assoluto, forse uno dei libri più belli del secolo scorso. Molto in breve Il deserto dei Tartari è la storia di un ufficiale, Giovanni Drovok, che viene spedito in questa fortezza. Il suo piano iniziale è quello di rimanere poco tempo ma, vittima degli eventi, rimane bloccato in un incubo quasi kafkiano in cui non riesce più ad uscire dalla fortezza. Sicuramente il romanzo di Buzzati è molto complesso e tocca moltissimi nuclei tematici. Qual è il tema di “Fortezza” o meglio il racconto che fate in questo film? “In fondo è la stessa cosa. Il film è interamente girato all’interno della Casa di reclusione di Civitavecchia (Roma, ndr). Racconta di come un luogo possa agire sulla propria vita e sulla condizione delle persone. Il nostro obiettivo era quello di raccontare attraverso la metafora della fortezza di Buzzati, la reclusione come condizione umana e sociale. Non volevamo solto mostrarla come reclusione fisica, ma portare a riflettere su ciò che comporta vivere in uno spazio ridotto”. Cosa hanno provato i detenuti interpretando i personaggi? “Inizialmente, quando abbiamo portato i temi del Il deserto dei Tartari, eravamo molto curiosi, perché ovviamente si tratta di un testo non proprio facile, ci chiedevamo quindi che ritorno potesse avere. Quando abbiamo cominciato a parlare del tempo, dell’abitudine, della routine, della prospettiva del nemico che ci si deve costruire, loro hanno dato il loro feedback, molte delle parti del testo sono nate dalle loro osservazioni. È stato un processo di personalizzazione degli studi e dei testi scritti da loro. Tra i personaggi quindi non c’è più Giovanni Drovok ma ci sono tanti personaggi che prendono vita attraverso la trama del libro”. Sembra che il carcere oggi abbia un po’ perso la sua funzione di riabilitazione, in che modo si può tornare alle origini? “Il carcere in cui abbiamo lavorato noi è una casa di reclusione “sperimentale”, c’è una particolare attenzione alla formazione lavorativa, all’avvicinamento alla famiglia, ai rapporti, al lavoro psicologico sulle persone. È chiaro che se non ci si pone il problema del dopo carcere si producono solo persone più arrabbiate che vivono un senso di frustrazione e di ingiustizia all’interno del carcere. Il tempo passato in carcere, ed è quello che proviamo anche a raccontare nel film, diventa un tempo utile se le persone hanno la possibilità di lavorare su sé stesse, sulle proprie ferite. Nella mia esperienza la maggior parte delle persone che incontro si portano dentro dei disturbi che non hanno saputo elaborare e che quindi portano anche a delle scelte difficili”. Come possiamo vedere il film? “Ci stiamo lavorando, per fortuna ha avuto un ottimo successo la proiezione al Maxxi (Museo nazionale delle arti del XXI secolo, ndr), e quindi stiamo lavorando sulla possibilità di avere una distribuzione”. Milano. Un mondo “dentro”: la vita delle monache di clausura e delle detenute, a confronto iodonna.it, 10 gennaio 2020 L’esposizione si tiene dal 9 al 19 gennaio nella Basilica di Sant’Ambrogio. Il ricavato della vendita degli scatti sarà devoluto in favore dei detenuti bisognosi del carcere di San Vittore. Un viaggio fotografico per documentare due mondi apparentemente lontani fra loro, ma per tanti aspetti invece molto simili e complementari: quello delle monache di clausura e quello delle detenute. È questo il tema di “Un mondo dentro - Clausura e carcere”, la mostra di Eliana Gagliardoni che sarà inaugurata oggi, giovedì 9 gennaio, nella Sala dell’Antico Oratorio della Passione della Basilica di Sant’Ambrogio, a Milano. Clausura e detenzione - Monasteri e carceri sono dunque il focus dell’esposizione che viene trattata senza morbosa curiosità e senza pregiudizi, ma con sensibilità e attenzione. Per realizzare il suo progetto fotografico, Gagliardoni ha ottenuto il difficile permesso di fotografare la clausura dal Vicario Episcopale della Diocesi di Milano. E dopo aver ricevuto l’autorizzazione da parte del Ministero di Grazia e Giustizia di Roma, è entrata infine anche nel carcere di Bollate, all’interno del quale ha ritratto donne detenute. Mondi diversi, ma non lontani - “Al di là di alte mura e finestre con sbarre che lo sguardo non può oltrepassare - spiega Eliana Gagliardoni - esistono vite, realtà nascoste. Sono vite che incuriosiscono, talvolta insospettiscono o generano opinioni pregiudizievoli. Quante persone, come me, si sono chieste quale sia il senso di una vita da recluse? Monache di clausura e donne detenute: l’accostamento potrebbe sembrare una forzatura, ma la possibilità di una crescita interiore, sebbene parta e progredisca in contesti diversissimi e contrapposti, si rivela una grande occasione per entrambe. Si tratta di due mondi apparentemente distinti e lontani, ma invisibilmente connessi da un potente strumento: la Preghiera”. Chi è l’artista - Eliana (Lilly) Gagliardoni è nata a Milano, ma si sente cittadina del mondo. La sua curiosità, infatti, la porta a visitare gran parte del globo e a conoscere in ogni Paese luoghi e persone. Fotografa autodidatta, a ispirarla per i suoi lavori è sempre e solo la sua grande passione. Tre anni fa, ha realizzato la sua prima grande mostra fotografica dal titolo “CuorinVolo”, in cui ha documentato l’operato che i tanti volontari sciolgono per esseri umani in condizioni di disagio, malattia e solitudine. È autrice di calendari per associazioni come “Alfabeti”, formata da volontari che insegnano l’italiano a persone extra comunitarie, o come “Fondazione Manuli”, che si occupa di anziani malati di Alzheimer. Il risvolto solidale - Al termine dell’esposizione, il ricavato di tale vendita verrà interamente devoluto a Don Marco Recalcati in favore di detenuti della casa circondariale di San Vittore particolarmente bisognosi e delle loro famiglie che, a causa della reclusione del proprio congiunto, versano in condizioni di grave disagio e difficoltà. Quando e dove - La mostra fotografica sarà visitabile nella Sala dell’Antico Oratorio della Passione della Basilica di Sant’Ambrogio, a Milano, fino al 19 gennaio dal lunedì al sabato, dalle ore 13.00 alle 19.00, e la domenica, dalle 10.00 alle 20.00. L’ingresso è libero. Per maggiori informazioni: eliana.gagliardoni@gmail.com. “Atonement. Storia di un prigioniero e di altri”, di Salvatore Torre linkiesta.it, 10 gennaio 2020 Il mondo è quello del carcere. Un mondo di uomini e donne che hanno varcato la soglia della legalità per precipitare, a volte adolescenti, nel circuito della criminalità, che non ti lascia scampo. I brani raccolti in questo libro raccontano storie di miseria, abbandono, solitudine, storie di devianza, anche spietate, spesso nate in ambienti malavitosi, in cui un destino segnato sembra prevalere sul libero arbitrio di ogni individuo. È stato uno di loro, Salvatore Torre, ergastolano detenuto da quasi trent’anni in carceri di massima sicurezza, a selezionarli fra le centinaia di racconti che hanno partecipato al Premio Goliarda Sapienza. In questi brani - scrive egli stesso - emergono in larga parte le ragioni di queste vite, come la mia, rovinate e rovinose. Torre, che in carcere è diventato uno scrittore, nell’introdurre alla lettura storie di altri, ha compiuto un lavoro introspettivo su sé stesso, che mette il lettore di fronte all’uomo, non solo all’ergastolano, e alla sua coscienza. La Prefazione è a firma di mons. Dario Edoardo Viganò, Assessore del Dicastero della Comunicazione della Santa Sede. Quando si parla di carcere è, credo, naturale immaginare quanto ci viene comunicato dai media, dai film, è tutto un “per sentito dire” e di certo la prima cosa che viene in mente è la drammaticità della libertà negata, cosa vuol dire non poter uscire mai più da un posto chiuso? Cosa si prova? Quali suoni devono diventare familiari di notte e di giorno? Mi viene in mente il suono metallico della cosiddetta “battitura dei ferri” (è la battitura delle sbarre delle celle che avviene più volte al giorno) E come si gestisce il tempo? Un recluso perde, ricordiamolo, ogni tipo di autonomia e dunque identità con una sorta di vera e propria depersonalizzazione. Questo libro, Atonement, è frutto del progetto Goliarda Sapienza che quest’anno ha visto emergere la storia di Salvatore Torre, ergastolano che ha preso in carico anche le storie raccontate da altri, le ha lette, comprese (chi meglio di lui) e dal patchwork di umanità e disperazione è nato il libro. La parola “Atonement” come altre parole di lingua inglese ha un significato in italiano che può essere doppio, mi spiego, atonement significa sia espiazione, quindi “riparazione di una colpa commessa” sia redenzione quindi salvezza o scampo dunque, in questo caso, i protagonisti di queste storie cosa chiedono al lettore? Comprensione? Perdono? Vogliono dirci che sono lì consapevoli del male fatto e dunque sereni d’animo perché stanno riparando? O è il grido disperato di chi spera di salvarsi dalla sua stessa colpa? Certo è, come precisa Mons. Dario E. Viganò nella introduzione, per quanto complicato, chi legge ha l’obbligo di provare a comprendere. Salvatore Torre è un ergastolano e lui le sue colpe le ha analizzate, le ha esposte al giudizio senza farsi sconti, ha ragionato su quel che è stato e quel che non è stato o che non ha potuto essere, chi nasce e cresce nel male quali speranze ha di sfuggirgli? Nella letteratura criminologica la famiglia e le devianze che si porta dietro è alla base di ogni ragionamento, vivere in condizioni di difficoltà non giustifica ma sicuramente rafforza il comportamento deviante e quel che mi è sembrato di capire dai pensieri di Torre è che riuscire a salvarsi è impresa ardua soprattutto perché un ragazzo è naturale che cerchi l’amore e l’approvazione di un padre fosse anche un criminale violento e privo di gesti d’amore. La vita è lotta, ognuno porta avanti questa lotta con gli strumenti e le energie che ha a disposizione, se Salvatore Torre oggi ha trovato nella scrittura un rifugio, molti altri non riusciranno a sfuggire al bisogno di appartenenza che nel carcere si concretizza nel rapporto con gli altri detenuti i quali probabilmente sono più propensi a giustificare quanto fatto che a condannarlo per cui come ci si salva? La vita in carcere è ciò che accomuna le storie di Atonement, l’inevitabile discesa agli inferi del detenuto e di chi è rimasto fuori : “La verità è che si è lasciati in balia di se stessi, a immiserire nella pigrizia e nell’abbandono”. Quello che viene da pensare leggendo queste pagine è che un carcere è una sorta di limbo popolato da persone invisibili e immensamente povere, appartengono ad una società di cui non si tiene conto ma che esiste. “Queste pagine toccano non solo per i contenuti che veicolano, ma per le parole, per le espressioni, spesso forti, a volte anche volgari, che dicono proprio quel mondo fangoso e martoriato da cui difficilmente si intravvede l’orizzonte di un’alba non solo rinnovata ma anche capace di essere, a propria volta, olio profumato sulle ferite profonde e spesso sanguinanti dell’umanità” leggiamo nell’introduzione Mons. Dario Edoardo Viganò. Io sono rimasta colpita anche dalla parole di Antonella Bolelli Ferrera nella presentazione quando fa riferimento al fatto che nessuno in carcere parla delle proprie vittime “Non ne parlano volentieri i carcerati della loro vittime. Nel loro vocabolario sembra non esistere questa parola” e se le carceri continueranno ad essere quello che sono oggi riesce difficile immaginare un percorso di “recupero” e di riavvicinamento alla legge e alla società civile. Ma l’argomento è spinoso e necessita di riflessioni e competenze, in ogni caso leggere queste storie è una esperienza che porta consapevolezza. Acquistare questo libro significa contribuire a realizzare progetti in favore della cultura della legalità. Atonement. Storia di un prigioniero e di altri - Salvatore Torre - Libreria editrice vaticana. Pagine 172, € 10. A cura di Antonella Bolelli Ferrera. Introduzione Mons. Dario Viganò. Libro progetto Goliarda Sapienza. Chi ha impiccato davvero la democrazia di Gad Lerner La Repubblica, 10 gennaio 2020 Da tempo, e con buoni argomenti, da par suo, Angelo Panebianco va denunciando sul Corriere della Sera l’involuzione della nostra democrazia rappresentativa in democrazia giudiziaria. Non senza qualche eccesso di foga - come quando sostiene che di fronte alla “penalizzazione integrale della nostra vita pubblica” dovremmo rimpiangere il Codice Rocco promulgato in era fascista quale “faro e testimonianza di civiltà giuridica” - lo scienziato politico bolognese di matrice radicale e garantista denuncia “un movimento pluridecennale di erosione costante delle garanzie individuali” che avrebbe sovvertito i rapporti di forza: assoggettando il potere politico-rappresentativo ai diktat della magistratura. Va riconosciuto a Panebianco di aver argomentato questa amara diagnosi in totale indipendenza, senza cioè arruolarsi tra i sostenitori di questo o quel politico inquisito dai giudici. Semmai, e anche qui mi sento di dargli ragione, egli inscrive questa deriva in una storica vocazione illiberale e liberticida, per non dire forcaiola, ben radicata nella società italiana già ben prima che i leghisti sventolassero il cappio a Montecitorio, Di Pietro pretendesse di trasmigrare Mani Pulite in politica, Grillo promettesse di aprire il Parlamento come una scatola di tonno. Leggi eccezionali furono varate con anni di anticipo sulla crisi della Prima Repubblica per reprimere il terrorismo politico di sinistra e nel tentativo di contrastare la presa di controllo delle mafie nelle istituzioni. Per quanto fosse necessario, ugualmente ne paghiamo un prezzo. Dove la teoria di Panebianco comincia a fare acqua, se posso permettermi, è nel sottostimare le responsabilità della presunta vittima: ovvero del potere politico. Non si può sostenere che la “democrazia giudiziaria” - come lui la chiama - abbia la nefasta tendenza a travolgere le leadership politiche forti, da Craxi a Berlusconi a Renzi, fino al prossimo secondo lui destinato a cadere in disgrazia, cioè Salvini, senza indicarne il vizio d’origine. E cioè la mancata applicazione dell’articolo 49 della Costituzione, che vincolerebbe i partiti politici al rispetto di un “metodo democratico” al loro interno. L’elusione di questa norma costituzionale, conveniente solo a ristretti gruppi dirigenti, ha contribuito a trasformare i partiti in meri conglomerati di clan e ha dato luogo a leggi elettorali sempre meno rispettose di una autentica democrazia rappresentativa. Panebianco non può non riconoscere che la fragilità della nostra democrazia è innanzitutto il prodotto di un drammatico scadimento di qualità della sua classe politica e dei metodi di selezione della medesima. Non sarà mai la leadership di un uomo forte a scongiurare la “democrazia giudiziaria”. Il governo sbanda sui migranti di Francesco Bei La Stampa, 10 gennaio 2020 Una rissa furibonda ha opposto ieri maggioranza e opposizione intorno alla data in cui il Senato dovrà “processare” Matteo Salvini. Con M5S, Pd e gli altri alleati compatti nel chiedere che la giunta per le autorizzazioni si esprima solo “dopo” il voto in Emilia-Romagna e il centrodestra a spingere per una pronuncia il 20 gennaio. Il non detto, la vera materia del contendere, è lampante sotto il sole: le forze di maggioranza temono che il leader della Lega sfrutti gli ultimi giorni di campagna elettorale giocando a “fare la vittima” di un sistema che vuole processarlo per aver difeso i confini d’Italia dalle orde dei migranti. La questione immigrazione, scomparsa dai radar per mancanza di materia prima (pochi sbarchi e nessuno più a soffiare sul fuoco della paura), tornerebbe prepotentemente sulla scena e non è un mistero chi se ne gioverebbe di più. Raccontano che sia stato il governatore Stefano Bonaccini in persona a supplicare Zingaretti di soprassedere ancora un po’ e, dal suo punto di vista, la cautela sarebbe anche comprensibile. Ma il problema più grande esula dall’eventuale processo a Salvini e riguarda cosa pensa di fare il governo sull’immigrazione. In altre parole, aldilà della generale volontà di non concedere un rigore a porta vuota al capo leghista, la domanda vera è questa: c’è una politica sui migranti condivisa tra Pd, Cinque stelle, Leu e Italia Viva? Perché, se alziamo la testa dalla cronaca del giorno, restano sul tavolo intatte due gigantesche questioni. Cosa pensa di fare il governo sui due decreti-bandiera di Salvini? E sullo ius culturae? La risposta a queste domande non c’è. O meglio, non si va oltre un pissi-pissi sottovoce, con i leader della maggioranza che si aggrappano alla famosa lettera del capo dello Stato come gli ubriachi al lampione. Ma ricordiamoci che lo scorso agosto Mattarella firmò il decreto sicurezza bis puntando il dito contro due “rilevanti criticità” (le multe abnormi a chi presta soccorso in mare e le sanzioni per l’oltraggio ai pubblici ufficiali) ma non disse nulla sul resto. Né era compito del Quirinale entrare nel merito politico dei provvedimenti securitari. E tuttavia quella assestata da Salvini fu una spallata mortale a tutto il sistema di accoglienza e integrazione italiano. Con i voti, oltretutto, dei Cinque Stelle. Il risultato sono le decine di migliaia di ragazzi che, usciti dai circuiti legali, impossibilitati a lavorare, sono ripiombati senza speranza sui nostri marciapiedi, quando va bene a chiedere l’elemosina. Su questo la ministra Lamorgese e il presidente Conte pensano di intervenire? È questa la vera emergenza politica, non le piccole furbizie sulla data del voto nella giunta del Senato. Il Pd, tra un conclave e l’altro, deve trovare il tempo di discutere di quale politica intende perseguire sull’immigrazione. E deve anche decidere se intende anche su questo tema cedere l’egemonia culturale a un M5S peraltro sempre più in difficoltà. Rosarno, ecco cosa (non) è cambiato a dieci anni dalla rivolta dei braccianti immigrati La Repubblica, 10 gennaio 2020 Si sfrutta il lavoro lasciando che le persone vivano in condizioni sconcertanti. Ieri come oggi, le istituzioni locali sono spesso commissariate per infiltrazioni mafiose, incapaci di coraggio lungimirante. Sono passati dieci anni da quando Rosarno, piccolo centro della Piana di Gioia Tauro, fino ad allora conosciuto solo per gli agrumeti e per la presenza capillare della ndrangheta, è divenuto noto per la cosiddetta “Rivolta di Rosarno” (Leggi anche il reportage dalla tendopoli-lager dei migranti del 13 dicembre 2008). Solo allora l’opinione pubblica scoprì che ogni anno, nei mesi di picco della raccolta agrumicola, oltre 2000 migranti raggiungono le campagne della Piana per lavorare come braccianti in condizioni di gravissimo sfruttamento, costretti a vivere in edifici abbandonati, casolari diroccati o baraccopoli improvvisate in condizioni drammatiche e umilianti. Ancora condizioni di vita sconcertanti. Quell’anno erano circa 1.500 i lavoratori stranieri, per lo più giovani uomini provenienti dai Paesi dell’Africa subsahariana occidentale e regolarmente soggiornanti, presenti nella Piana. Oggi, a dieci anni di distanza, il numero resta pressoché invariato - dopo aver raggiunto picchi di oltre 3.000 presenze negli anni passati - e altrettanto sconcertanti restano le condizioni di vita e di lavoro. E d’altra parte, ieri come oggi, le istituzioni locali - spesso commissariate per infiltrazioni mafiose - e quelle nazionali appaiono incapaci di qualsivoglia pianificazione politica efficace, coraggiosa e lungimirante, limitandosi invece a riproporre il circolo vizioso sgombero-tendopoli-baraccopoli, che da dieci anni lascia invariate le piaghe dello sfruttamento lavorativo, del degrado abitativo e dell’abbandono dei territori. Sovraffollamento e degrado. Se infatti nel 2010 i lavoratori impiegati nella raccolta trovavano rifugio in una ex fabbrica in disuso - una delle tante costruite con i finanziamenti della legge 488 del ‘92 e poi abbandonate - e in un’altra struttura abbandonata nella zona industriale di San Ferdinando, oltre che nei numerosi casolari diroccati sparsi nelle campagne dei Comuni limitrofi, in assenza di qualsivoglia servizio di base, oggi il sovraffollamento, l’assenza di servizi e l’estrema precarietà delle condizioni igienico-sanitarie restano invariati per le oltre mille persone che popolano i casali abbandonati. Poco è cambiato anche per le oltre 400 persone che affollano l’ennesima tendopoli ministeriale - sorta in seguito allo sgombero della baraccopoli abitata da circa 2500 migranti avvenuto a marzo 2019 - e che versa in condizioni di sovraffollamento e degrado. La carenza di soluzioni abitative adeguate rende i lavoratori sempre più invisibili, poiché costretti a disperdersi in abitazioni di fortuna nelle campagne, e sempre più esposti allo sfruttamento e al caporalato. La clinica mobile di Medu - Dal 2014 Medu (Medici per i Diritti Umani) opera nella Piana con una clinica mobile, per garantire la tutela della salute e dei diritti fondamentali e l’accesso alle cure e ai servizi socio-sanitari da parte della popolazione degli insediamenti precari del territorio. Da dicembre 2019 la clinica mobile è di nuovo attiva nella Piana di Gioia Tauro e fornisce assistenza sanitaria e socio-legale alla popolazione degli insediamenti precari, in particolare presso la tendopoli ufficiale sita nella zona industriale di San Ferdinando, il campo container di contrada Testa dell’Acqua e i casolari abbandonati nelle campagne di Drosi e Rizziconi. Nel 2014 il lavoro nero e il caporalato erano fenomeni pervasivi, rappresentando di fatto la normale modalità di organizzazione del lavoro: l’83% dei lavoratori visitati da Medu, nella quasi totalità dei casi regolarmente soggiornanti, non aveva un contratto e solo il 5% dei lavoratori non ricorreva ad un caporale. Solo 1/3 riceve la busta paga. La paga giornaliera si attestava tra i 20 e i 25 euro per 8-9 ore di lavoro. Negli anni successivi, l’aumento dei controlli da parte dell’Ispettorato del lavoro ha determinato un aumento dei contratti, ma nella stagione agrumicola del 2019 i dati raccolti dal team della clinica mobile rivelano che nella maggior parte dei casi il “lavoro grigio”, caratterizzato da gravi irregolarità salariali e contributive e da violazioni delle norme sulle condizioni di lavoro, ha preso il posto del lavoro nero. Anche in presenza di un contratto di lavoro - il 60% dei 438 lavoratori visitati era in possesso di un contratto di breve durata - permane infatti una condizione di sfruttamento diffusa su larga scala, con una retribuzione che resta intorno ai 25-30 euro giornalieri e in assenza di tutele e diritti. Lo stesso dato si riscontra tra i pazienti visitati da Medu nel mese di dicembre 2019: su 74 pazienti, di cui l’83% regolarmente soggiornanti, solo il 35% aveva un contratto di lavoro, ma solo un terzo di questi ha dichiarato di ricevere una busta paga. Molto spesso, una parte della retribuzione viene corrisposta in nero dal datore di lavoro, il quale dichiara in busta paga meno giornate di quelle effettivamente svolte dal bracciante. Le patologie più frequenti. Come nel 2014, le patologie riscontrate nella giovane popolazione degli insediamenti precari - principalmente infiammazioni delle vie respiratorie, patologie osteoarticolari e patologie dell’apparato digerente - sono attribuibili nella maggior parte dei casi alle pessime condizioni di vita e di lavoro. L’accesso alle cure d’altra parte era allora ed è ancora oggi ostacolato da numerosi fattori, tra i quali l’isolamento dei luoghi di vita in assenza di trasporti pubblici, la mancanza di informazioni sul diritto alla salute e le modalità di accesso ai servizi, le gravissime carenze strutturali dei servizi di salute pubblica locali, l’impossibilità di effettuare l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale in assenza di una residenza riconosciuta. È di fatto un’altra emergenza umanitaria. Quella dei braccianti e dei ghetti sembra ancora oggi un’emergenza umanitaria, nonostante si ripeta vergognosamente ogni anno. In presenza di una filiera produttiva iniqua e di adeguate politiche di settore, il comparto agrumicolo continua a richiedere ogni anno braccianti a basso costo e senza diritti per poter sopravvivere. I migranti rappresentano la manodopera ideale, ancor più negli ultimi anni, in virtù delle recenti politiche che hanno determinato una crescente precarietà giuridica, sociale e lavorativa dei migranti e dei titolari di protezione internazionale e umanitaria, che costituiscono la quasi totalità della popolazione dei ghetti. Gli odiosi episodi di violenze e aggressioni. Una terra ingiusta, è stata definita da Medu quella della Piana di Gioia Tauro, ma anche una terra bruciata, dove troppe persone hanno trovato la morte in evitabili incendi di baracche o in odiosi episodi di violenza criminale. Quattro sono state le persone morte carbonizzate in poco più di un anno, tra il 2018 e il 2019: Moussa Bà, nella baraccopoli, Sylla Naumè, nella tendopoli ministeriale e poi ancora Becky Moses e Suruwa Jaiteh. A queste si aggiungono Soumalia Sacko, ucciso da colpi di arma da fuoco di un civile mentre cercava delle lamiere per costruire una baracca e Sekine Traore, ucciso da un carabiniere durante un intervento delle forze dell’ordine presso la tendopoli. Gli arresti recenti. È di ieri la notizia di diversi arresti, frutto di un’inchiesta della procura di Palmi nata dalla denuncia di un bracciante agricolo sfruttato, che ha portato all’arresto di una rete di caporali responsabili, d’accordo con aziende agricole della Piana, di intermediazione illecita di manodopera e sfruttamento lavorativo. A dieci anni dalla rivolta di Rosarno e dopo i numerosi protocolli istituzionali rimasti lettera morta, appare quanto mai urgente, necessaria e indifferibile una condanna decisa della piaga dello sfruttamento lavorativo e un impegno concreto e coordinato da parte della politica e di tutte le istituzioni competenti nella direzione del suo superamento e dell’affermazione dei diritti fondamentali - in particolare i diritti sul lavoro -, della legalità, della solidarietà sociale e dello sviluppo del territorio. Le richieste di Medu: - l’introduzione di efficaci meccanismi di incontro legale tra la domanda e l’offerta di lavoro e il potenziamento di quelli esistenti; - l’adozione di un piano graduale e strutturato di inclusione socio-abitativa dei lavoratori agricoli nei Comuni in via di spopolamento della Piana, anche attraverso pratiche di intermediazione abitativa già dimostratesi efficaci nel territorio della Piana e in altri territori; - il riconoscimento della residenza presso gli insediamenti informali, condizione imprescindibile per consentire l’accesso ai diritti fondamentali; la sensibilizzazione e il sostegno alle aziende che rispettino i diritti dei lavoratori: - l’attivazione di politiche che favoriscano la regolarità del soggiorno dei migranti (quali il ripristino dei permessi di soggiorno per motivi umanitari, la possibilità di conversione in permesso di lavoro per tutte le tipologie di protezione, la regolarizzazione del sommerso, etc.), requisito indispensabile per poter accedere ad un lavoro con diritti e dignità. “Cannabis light legale”, l’emendamento 5Stelle dopo l’ok in Cassazione di Emilio Pucci Il Messaggero, 10 gennaio 2020 Via libera alla cannabis light, M5S ci riprova. Il Movimento 5Stelle prima di Natale lo aveva annunciato: “Abbiamo perso una battaglia ma non la guerra”. Ed ecco che le norme cassate dalla presidente del Senato Casellati durante l’approvazione della legge di bilancio a palazzo Madama, potrebbero rientrare a Montecitorio. La proposta prevede l’uso “in forma essiccata, fresca, trinciata o pellettizzata ai fini industriali, commerciali ed energetici” di cannabis in cui il contenuto di tetraidrocannabinolo (Thc) sia inferiore allo 0,5 per cento. Tremila aziende, tra produttori e distributori di cannabis light, sono rimaste in un limbo normativo dopo la sentenza della Cassazione di luglio che ha vietato la vendita di resine, olio e infiorescenze. L’idea grillina è ripresentare la stessa proposta come emendamento al Mille Proroghe che dovrà essere convertito in legge. Il dl, licenziato dal Cdm lo scorso 21 dicembre, è stato assegnato in sede referente alle commissioni Giustizia e Bilancio di Montecitorio. E i pentastellati sono pronti ad indossare di nuovo l’elmetto. Soprattutto ora che le sezioni unite penali della Cassazione si sono pronunciate con una sentenza storica a favore della auto coltivazione della marijuana. Anzi, la tentazione del Movimento è proprio quella di fare un riferimento esplicito alla pronuncia arrivata a fine anno per regolamentarla a livello legislativo. Stabilendo per esempio quante piantine possono essere coltivate e come poter rispettare i paletti posti anche dalla Corte Costituzionale. “Non si può lasciare ogni cosa allo stato brado e far sì che sia la giurisprudenza a dettare la linea”, osservano fonti pentastellate. Di qui la volontà di agire appunto nelle prossime ore con un emendamento di partito, su cui poi cercare i voti di una maggioranza trasversale attenta alle ragioni del mercato della cannabis light, che non sono necessariamente - spiegano i promotori pentastellati - coincidenti con il fronte antiproibizionista. Basti pensare che il giro d’affari è stato stimato in 150 milioni di euro nel 2018, e che per il 2021 il giro di affari previsto su scala europea è di 36 miliardi di euro, visto il crescente interesse da parte di vari settori tra cui farmaceutica, cosmesi, alimentare, packaging, edilizia e design. La Casellati in Senato aveva invitato Pd, M5s, Iv e Leu a presentare una proposta parlamentare. In effetti c’è il testo del senatore Mantero che non è stato ancora calendarizzato. È il piano’ B per la maggioranza ma il Movimento conta sull’appoggio del presidente della Camera, Fico. Fonti M5S riferiscono che si sta attendendo la relazione del ministero della Sanità e quella del dicastero dell’Interno. Ci sono delle resistenze ma - sottolineano le stesse fonti - c’è l’ok del ministero dell’Economia e “al Senato l’accordo nella maggioranza era totale”. “È una corsa contro il tempo. Marzo e aprile sono i mesi in cui si semina, altrimenti si perdono i raccolti e si mandano sul lastrico 12 mila famiglie”, osserva il senatore Mantero che insieme alla dem Cirinnà aveva firmato l’emendamento dichiarato inammissibile in Senato. “È assurdo - continua Mantero - che in Italia si stia parlando ancora di canapa industriale mentre nel resto del mondo legalizzano la marijuana. Chi parla di droga dimostra grande ignoranza sul tema”. “È arrivato il momento di accelerare. Non ci diamo per vinti”, sottolinea anche la dem Cirinnà. Anche in Danimarca le carceri sono sovraffollate di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 gennaio 2020 I dati contenuti nel rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura. Un vero e proprio colpo di scena. Anche in Danimarca le condizioni carcerarie sono in via di peggioramento, nonostante l’opinione diffusa che nei Paesi nordici la situazione della detenzione sia buona. Si evince dal rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) che ha invitato la Danimarca a far fronte al sovraffollamento delle carceri, senza costruirne delle nuove. Non solo. Il Cpt ha anche raccomandato al Paese nordico di migliorare le condizioni di trattenimento dei migranti in due centri. Ha inoltre raccomandato di apportare miglioramenti in due carceri, di riformare le procedure per la contenzione prolungata di pazienti psichiatrici e di migliorare l’accesso agli avvocati per le persone trattenute nei commissariati di polizia. A seguito delle sue visite in due centri di trattenimento per migranti, il Cpt ha ritenuto inaccettabile il fatto che le condizioni di vita e le regole per i migranti trattenuti in entrambi i centri fossero simili a quelle delle carceri, sottolineando che si tratta di persone che non sono generalmente né sospettate né condannate per avere commesso un reato. Ha chiesto importanti ristrutturazioni per entrambi i centri, con un accesso più libero ai telefoni cellulari per i migranti trattenuti. Per quanto riguarda le condizioni di detenzione nelle carceri, il Comitato ha rilevato che, nonostante le ripetute raccomandazioni, non è stato ancora istituito nelle carceri visitate uno screening medico sistematico e tempestivo all’arrivo dei detenuti, né un sistema adeguato per consentire ai medici di registrare e denunciare eventuali lesioni riscontrate. La carenza di personale è stata riconosciuta come uno dei principali problemi per il sistema carcerario danese, che opera leggermente al di sopra delle proprie capacità di capienza. Il Cpt ha raccomandato di incrementare il personale nelle carceri visitate. Entrando nello specifico, la delegazione ha visitato per la prima volta la prigione di Storstrøm. Ha anche effettuato visite di follow-up alla prigione di Odense Remand, alla prigione di Blegdamsvejens Remand e al quartier generale della polizia di Copenaghen. Il comitato è stato informato che il sistema carcerario danese stava affrontando livelli di sovraffollamento leggermente superiore al 100% della capacità. A questo proposito, il Cpt si è detto preoccupato circa l’intenzione delle autorità di aprire nuovi luoghi di detenzione per fare fronte all’incremento del numero dei detenuti. Il Comitato per la prevenzione della tortura raccomanda che le autorità danesi adottino le misure necessarie per garantire che la prigione sia l’ultima risorsa. Positivo che la maggior parte dei detenuti hanno parlato positivamente del personale. Tuttavia, il Cpt ha ricevuto alcune segnalazioni di uso eccessivo della forza e di violenza verbale da parte del personale carcerario. Le informazioni raccolte durante la visita nelle carceri, suggeriscono comunque che la violenza tra detenuti non costituisce un grave problema. Il Comitato si compiace molto per la continua tendenza al ridurre il regime di isolamento. Le condizioni materiali di detenzione nelle carceri visitate sono risultate generalmente soddisfacenti, in particolare eccellenti nella prigione di Storstrøm. Tuttavia, molti reclami sono stati ricevuti da detenuti riguardanti l’accesso al bagno (sia di giorno che di notte) nella prigione di Odense Remand. Per quanto riguarda le attività, il Comitato raccomanda che a al carcere di Storstrøm devono essere prese misure per offrire ai detenuti in regime di massima sicurezza programmi di attività costruttive, preferibilmente al di fuori delle celle, basati su progetti individuali. Per quanto riguarda i due centri di detenzione per migranti, come detto, il Cpt ritiene che siano inaccettabile che siano simili a una prigione, sottolineando che i migranti ospiti delle strutture non sono condannati per nessun reato. Il Comitato pertanto invita le autorità danesi ad avviare un importante programma di ristrutturazione in entrambi gli stabilimenti e sostituirli con strutture adeguate per la detenzione amministrativa dei migranti. Libia. Aumentano gli sfollati, lo staff internazionale diminuisce e lo Stato non esiste di Sara Creta La Repubblica, 10 gennaio 2020 La testimonianza del capo missione dell’Unhcr alla Commissione Esteri della Camera. Il costante aumento dei bisogni umanitari, con quasi un milione di persone bisognose di assistenza. Jean Paul Cavalieri, capo missione in Libia per l’Unhcr, durante una seduta alla Commissione Esteri della Camera dei deputati, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla politica estera dell’Italia per la pace e la stabilità nel Mediterraneo, sottolinea una situazione di costante aumento dei bisogni umanitari sul terreno, con centinaia di bambini, donne e uomini sfollati e tantissime sfide umanitarie, con quasi un milione di persone bisognose di assistenza umanitaria, secondo le stime dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha). Nel 2019, secondo le cifre dell’Onu sono stati almeno 284 i civili morti e altri 363 rimasti feriti a seguito del conflitto armato. A Tripoli aumentano gli sfollati. È in costante aumento il numero degli sfollati a Tripoli, che hanno bisogno di assistenza umanitaria sul terreno. Nonostante la crisi, il paese continua ad attirare manodopera straniera: si stima che 655.000 rifugiati e migranti siano in Libia anche per motivi di lavoro, inclusi 43.000 rifugiati e richiedenti asilo registrati dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Tuttavia, le condizioni di sicurezza nel Paese continuano ad esporre a rischi di protezione, violazioni dei diritti umani, sfruttamento e abusi centinaia di migliaia di migranti che rimangono intrappolati nei centri di detenzione”. Diminuiti i migranti in detenzione. Dei 43.000 richiedenti asilo registrati con l’Unhcr in Libia, circa 2000 sono trattenuti arbitrariamente in detenzione. Il numero, sottolinea Jean Paul Cavalieri, è diminuito. Se da una parte le evacuazioni dell’Agenzia continuano ad offrire soluzioni salvavita per i rifugiati più vulnerabili, dall’altra “le autorità del Ministero dell’Interno del Governo libico di Accordo Nazionale (Gna), a causa del conflitto, sono incapaci di assicurare cibo e decidono di aprire le porte dei centri di detenzione”, spiega Cavalieri. In altre situazioni i centri di detenzione, infatti, sono stati utilizzati dalle stesse milizie come basi militari; come quello di Tajoura, bombardato lo scorso luglio. Il centro di detenzione è vicino a un deposito di rifornimenti militari per la milizia che sostiene il Governo di Tripoli riconosciuto dalle Nazioni Unite. Le sfide sul terreno sono enormi. A seguito dei continui combattimenti e del conflitto in corso in tutto il Paese, con oltre 217.000 persone sfollate, l’Agenzia delle Nazioni Unite non ha accesso a tutte le persone bisognose di assistenza umanitaria in Libia. “E molto difficile raggiungere le persone nel sud della Libia, dove ci sono moltissimi sfollati, oppure nella zona di Bengasi”, continua Paul Cavalieri. La scorsa estate a Bengasi, tre funzionari delle Nazioni Unite e altre due persone erano stati uccisi in un attentato nella capitale della Libia orientale. “La presenza è molto limitata sul terreno e il personale insufficiente per gestire le sfide”, aggiunge Cavalieri. A causa del conflitto c’è stata una drastica riduzione dello staff dell’Unhcr nel Paese, con solo 7 operatori internazionali che lavorano per l’Agenzia delle Nazioni Unite. Milizie e debole struttura statale libica. Gli equilibri di potere e le alleanze hanno una geometria variabile in una Libia costantemente alla ricerca della stabilità e di un delicato processo politico, animato da simmetrie tribali che frammentano i confini dello stato libico. La rivalità locali, regionali e nazioni che esistono anche all’interno del governo di Tripoli, riconosciuto dalle Nazioni Unite, intricano le relazioni dell’Agenzia delle Nazioni Unite; “non è sempre chiaro capire qual è la catena di potere e di comando”, spiega Jean Paul Cavalieri, capo della missione in Libia dello United Nations High commissioner for Refugees (Unhcr). Esistono infatti diversi interlocutori all’interno del ministero degli interni e una struttura verticale, ma anche una orizzontale; “se parliamo con il ministro dell’Interno libico, e poi con il suo vice, con quest’ultimo comincia un nuovo negoziato. I funzionari sono fedeli ai loro superiori, ma anche alle tribù da cui provengono”, continua il capo della missione in Libia per l’Unhcr, e spiega alla commissione Esteri “le milizie sono, di fatto, i nostri interlocutori, ma anche i rappresentanti ufficiali designati del ministero dell’Interno”. Italia rimane in prima linea su evacuazioni. Dal settembre 2017 sono state oltre 4.000 le persone evacuate dalla Libia, di cui circa 3000 in Niger nel quadro del meccanismo di transito d’emergenza dell’Unhcr finanziato dall’UE. Nel 2019 sono state evacuate 2.500 persone, con il Massimo il supporto ricevuto dall’ambasciata italiana a Tripoli, e oltre 800 evacuazioni dirette in Italia. Rimane però allarmante la situazione dei rifugiati nelle zone urbane, con persone che pagano per accedere ai centri di detenzione nella speranza che l’Unhcr possa identificarli e ricollocarli in altri Paesi. Centinaia di migliaia di persone lottano per la loro sopravvivenza quotidiana, incluso lo staff dell’organizzazione “che si deve spostare ogni giorno attraversando dei checkpoint dove gli viene anche puntata una pistola alla tempia, spiega il capo dell’Unhcr in Libia, e conclude, “ci sono anche molti esempi di matrimoni precoci o di lavoro minorile”. Guardia costiera libica e sbarchi in Libia. Alla Commissione della Camera italiana, il rappresentante dell’Unhcr in Libia sottolinea come il 30-35% dei migranti intercettati in mare sia abbandonato “al loro destino” a terra, poiché “il conflitto ha interrotto il collegamento che esisteva tra la Guardia costiera libica e il ministero dell’Interno”, dichiara Cavalieri. I richiedenti asilo che vivono fuori dai centri di detenzione, ovvero la maggioranza, cercano il supporto dell’organizzazione, ma non sempre il Centro comunitario diurno (Community Day Centre/Cdc) dell’Unhcr attivo a Gurji, nel distretto di Tripoli, riesce a fornire assistenza umanitaria per rifugiati e richiedenti asilo. Il pacchetto di assistenza monetaria urbana dell’Unhcr in Libia ha raggiunto soltanto il 5% della popolazione, sottolinea il rappresentante dell’Unhcr e “cercheremo di aumentare il programma nel 2020”. Libia. Haftar rifiuta la tregua. Di Maio: “Embargo sulle armi” di Vincenzo Nigro La Repubblica, 10 gennaio 2020 Il leader della Cirenaica respinge la proposta di Erdogan e Putin: le sue milizie bombardano gli aeroporti di Tripoli e Misurata. Il ministro degli Esteri in missione ad Algeri: “Fermare tutte le interferenze straniere”. A Roma arriva l’uomo forte di Serraj. Il generale libico Khalifa Haftar non ha nessuna intenzione di rispettare la tregua che gli chiedono Russia e Turchia. Per ora continua a combattere. Ieri ha dato ordine di mettere a segno altri bombardamenti, e soprattutto ha dichiarato in più occasioni che per lui la guerra prosegue. È questo l’atteggiamento del capo-milizia della Cirenaica, che l’altro ieri era stato ricevuto a Palazzo Chigi con tutti gli onori. Il premier Giuseppe Conte gli aveva chiesto di interrompere l’assalto a Tripoli. E invece un portavoce di Haftar addirittura torna ad adoperare i toni sanguinari che spesso assumono gli ufficiali della Libyan National Army: “Non si può creare uno Stato civile senza l’annientamento totale di queste formazioni: questi gruppi si sono impadroniti della capitale e godono dell’appoggio di alcuni Stati e governi che forniscono loro droni”, dice Ahmed al Mismari. Le “formazioni” sarebbero le milizie di Tripoli, mentre parla di Turchia riferendosi ai governi che forniscono droni. È probabile che Haftar stia alzando ancora di più la posta, a poche ore da quella tregua che gli hanno chiesto sia la Turchia (suo nemico) che la Russia (suo sostenitore e foraggiatore). La tregua dovrebbe scattare da domenica. Da oggi sarà interessante capire quale sarà l’atteggiamento del generale della Cirenaica di fronte alla Russia. Così come bisognerebbe anche conoscere quali saranno le vere richieste che Putin farà alla Cirenaica. Tornando alle operazioni militari, ieri mattina prima dell’alba e poi di mattino, altre bombe sono state sganciate sull’aeroporto civile di Tripoli, che viene adoperato spesso anche per far partire i droni turchi. Più tardi i siti Internet vicini al generale hanno annunciato un nuovo attacco aereo anche allo scalo di Misurata. Parlavano di “6 attacchi aerei”, ma non è così. I lanci sono stati 3 e le bombe sono finite tutte fuori dal perimetro dell’aeroporto. I lanci su Mitiga hanno uno scopo più “politico” che militare, ma è un effetto pratico per Haftar molto importante: lo scalo rimane chiuso, l’accesso a Tripoli in questi giorni avviene tutto via terra. E perfino il tragitto Tripoli-Misurata è diventato insicuro: brigate vicine ad Haftar sono state segnalate non lontane dalla strada costiera. È importante considerare il fatto che da Est la città di Misurata si vede minacciata dalle milizie del generale Haftar che sono entrate a Sirte grazie al tradimento della “Brigata 604”. Gli haftariani si sarebbero spinti ancora più ad Ovest, verso Misurata, raggiungendo il check point di Abugrain che avevano già conquistato e poi perso il 7 gennaio. Sul fronte diplomatico il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha effettuato un’altra tappa nel viaggio che lo ha portato in quasi tutte le capitali del Nordafrica e in Turchia. Di Maio ieri era ad Algeri dopo aver visitato Il Cairo e Ankara. Ha visto il ministro degli Esteri Sabri Boukadoum, il primo ministro, Abdelaziz Djerad, ma anche il neo presidente Abdelmadjid Tebboune. Nella conferenza stampa finale con il suo collega Boukadoum, il ministro ha ripetuto un argomento su cui insiste ormai da giorni: “L’obiettivo principale è il cessate il fuoco, ma dobbiamo bloccare le interferenze esterne in Libia. Un embargo sulle armi deve essere fatto applicare in maniera molto più stringente”. Ieri sera a Roma è poi arrivato il ministro dell’Interno di Tripoli, Fathi Bishaga, per incontrare l’ambasciatore americano itinerante che segue la Libia, presto tornerà per incontrare il ministro degli esteri Di Maio e la sua collega all’Interno, Luciana Lamorgese, contatti con Tripoli che fino ad ora Mosca aveva trascurato. Egitto. Le carceri sono “cimiteri” dove un raffreddore può portare alla morte sicurezzainternazionale.luiss.it, 10 gennaio 2020 Manifestanti e attivisti egiziani hanno dato vita ad una nuova campagna contro le violazioni e gli abusi perpetrati a danno dei prigionieri reclusi nelle carceri egiziane, a seguito della morte di un attivista, Mahmoud Abdel-Majeed Saleh, il 4 gennaio scorso. Secondo quanto riferito dalla sorella del detenuto, questo è deceduto a causa della negligenza delle autorità di fronte alle cattive condizioni igienico-sanitarie e al freddo estremo in cui imperversa la prigione in cui si egli si trovava, la prigione di massima sicurezza di al-Aqrab, “lo scorpione”, situata nel complesso penitenziario di Tora. Alla morte di Abdel-Majeed ha fatto seguito un ennesimo sciopero dei prigionieri e l’avvio di una nuova campagna lanciata sui social, in cui si invita chi di competenza a chiudere tale prigione. L’hashtag di riferimento è proprio #closeScorpion ma si invita il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, a far fronte alle violazioni e agli abusi che interessano anche altre carceri egiziane. A tale hashtag hanno fatto seguito, su Twitter, diverse testimonianze. In una di queste, la prigione di al-Aqrab viene descritta come un luogo grande ma suddiviso in celle minuscole, dalle dimensioni pari a circa un metro e mezzo, senza alcuna apertura o ventilazione, ed in cui vengono riunite numerose persone di diversi ordini e categorie. In un’altra dichiarazione, il carcere viene definito un cimitero, in cui i detenuti muoiono per freddo, fame e torture sia di tipo psicologico sia fisico. “I detenuti muoiono lentamente a causa di una mancata assistenza medica e per mancanza di coperte” è stato altresì affermato, mettendo in luce la violazione dei diritti umani perpetrata in tale luogo. “Avere un raffreddore equivale a morire”, “Il freddo è un’arma nelle mani dei militari” sono altre dichiarazioni pubblicate sul social. Non vi sono cifre esatte sul numero di detenuti che muoiono nelle prigioni egiziane. Tuttavia, il centro Adalah per i Diritti e le Libertà ha documentato la morte di almeno 22 detenuti nei primi sette mesi del 2019, a causa di negligenza medica. Un altro rapporto è stato pubblicato dalla Arab Organisation for Human Rights, con sede nel Regno Unito, in cui viene affermato che, dal 2013, più di 600 persone sono morte a causa delle pessime condizioni igienico-sanitarie o per la mancanza delle cure mediche necessarie. Altri detenuti, invece, sono stati torturati a tal punto da causarne la morte. Secondo quanto riportato, 717 persone sono decedute nel 2018 in vari centri di detenzione. Tra queste, 122 a causa delle torture subite, 480 per negligenza medica e altre 32 per sovraffollamento e pessime condizioni. Il 17 giugno 2019, un altro sciopero della fame aveva coinvolto circa 130 detenuti della prigione di al-Aqrab. Molti dei prigionieri erano stati arrestati da almeno due anni, senza mai avere la possibilità di incontrare avvocati o familiari. Secondo quanto riportato da Amnesty International, in risposta allo sciopero, le autorità hanno reagito contro i detenuti picchiandoli, torturandoli anche con scosse e punendo alcuni di loro con misure disciplinari, nel tentativo di costringerli a porre fine allo sciopero. A detta di uno dei prigionieri, almeno dieci scioperanti furono bendati e trasferiti in celle speciali dalle quali non era permesso uscire. Amnesty aveva poi affermato che i detenuti erano raggruppati in celle sovraffollate, infestate da zanzare, mosche e altri insetti ed in cui, senza sistemi di ventilazione adeguati, si raggiungevano temperature pari a più di 40 gradi Celsius in estate. Secondo quanto riferito, le autorità penitenziarie negavano ai detenuti un’adeguata assistenza sanitaria, non consentivano loro di ricevere cibo o bevande dalle loro famiglie al di fuori del carcere e ponevano restrizioni alla quantità di vestiti e medicine. In tale quadro, il 20 giugno 2019, il Gruppo di Lavoro sull’Egitto, ovvero un gruppo di esperti di politica internazionale costituito nel 2010, aveva sottolineato, in una lettera, che la morte dell’ex presidente egiziano Mohammad Morsi, del 17 giugno dello stesso anno, avrebbe dovuto rappresentare una scintilla in grado di richiamare l’attenzione a livello internazionale sulla condizione dei prigionieri detenuti nelle carceri egiziane, i quali vivono in condizioni rischiose e dovrebbero essere salvati. Il Gruppo di Lavoro sull’Egitto ha parlato di condizioni terribili per i prigionieri detenuti in Egitto. La lista comprendeva violazioni dei diritti fondamentali, uso sistematico della scomparsa forzata, isolamento, mancata assistenza medica, detenzione arbitraria, processo ingiustificato, torture e abusi sessuali. Le autorità avrebbero altresì cacciato fuori i detenuti, uccidendoli a sangue freddo, e mostrando la loro uccisione come se si trattasse di raid contro cellule terroristiche. Questo è stato il destino di più di 450 uomini egiziani dal 2015, come sottolineato altresì da un rapporto di Reuters. Iraq. Il gioco pericoloso della guerra è sfuggito di mano a Trump di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 10 gennaio 2020 Ci eravamo sbagliati. Quando nel 2003 gli Stati Uniti utilizzando la fake news più clamorosa degli ultimi decenni - l’inesistente presenza di armi di distruzione di massa in Iraq - hanno scatenato una guerra di conquista che ha portato inevitabilmente alla sconfitta dell’esercito iracheno e alla conquista dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, pensavamo che questa fosse soprattutto un’azione volta alla conquista di aree energetiche strategiche, quindi una guerra per il petrolio. Se questo era un obiettivo è completamente fallito perché il primo partner commerciale dell’Iraq è la Cina che importa la metà della produzione petrolifera e ha importanti partecipazioni nelle società che estraggono l’oro nero a prezzi irrisori. Il costo per l’estrazione di un barile di petrolio in Iraq è infatti inferiore a 2 dollari. Prevedevamo anche che la guerra avrebbe portato degli sconvolgimenti nella regione e che una guerriglia irachena si sarebbe strenuamente opposta alla presenza militare degli Stati uniti. La realtà si è dimostrata molto più complessa e articolata e molto più grave di quanto ci eravamo immaginati, la presenza americana è scoppiata come una bomba a grappolo coinvolgendo anche aree molto lontane e per decenni. Innanzitutto gli sviluppi della situazione irachena sono apparsi incompatibili con l’occupazione americana, infatti l’Iraq è diventato uno stato vassallo dell’Iran, tanto che i giovani che manifestano per la democrazia in piazza Tahrir a Baghdad chiedono anche la partenza delle forze iraniane. L’occupazione degli Stati uniti ha favorito il peggior nemico di Washington, l’Iran. Ma quella che poteva essere la dimostrazione di un fallimento di Bush, oggi può persino tornare utile agli Usa se il vero obiettivo è quello di fare dell’Iraq il centro della destabilizzazione nell’area. Un gioco pericoloso. Infatti la divisione del paese - dividi et impera - è sfuggita di mano se i sunniti esautorati da un potere sciita-iraniano si sono estremizzati fino ad indurre ex-baathisti a rimpolpare le forze dello Stato islamico. Combattuto dagli sciiti e dalla coalizione - finalmente si è saputo che anche i militari italiani sono impegnati in operazioni anti-terrorismo -- ma evidentemente non ancora sconfitto. Tanto che Trump ha ritirato truppe dalla Siria lasciando le forze democratiche siriane in pasto a Erdogan, mentre ha dislocato altri 5000 uomini in Iraq, rendendo sempre più esplicito il ruolo attribuito al paese dei due fiumi. Tanto che il presidente iracheno Barham Saleh aveva reagito a questa notizia dichiarando che non avrebbe permesso che l’Iraq diventasse un trampolino di lancio per l’aggressione di paesi vicini. Gli Usa e Israele puntano soprattutto sul Kurdistan iracheno e le sue velleità indipendentiste, tanto che il lancio di missili iraniani sulla base americana di Erbil potrebbe essere una sorta di avvertimento ai curdi. Ma l’effetto più grave della guerra americana è stato quello di provocare l’acuirsi dello scontro tra sunniti e sciiti (rispettivamente 33 e 63% della popolazione irachena), che sta sconvolgendo anche tutta la regione dove la rivalità per un’egemonia - che evidentemente non è solo religiosa ma fa della religione il proprio vessillo - alimenta guerre dalla Siria allo Yemen. In questo quadro le vittime principali sono stati quei movimenti che dalle rivolte arabe (Siria, Libia, Libano) fino a questi giorni (Iraq e Iran) sono stati soffocati da ingerenze straniere, soprattutto, dall’invio di armi, “consiglieri militari”, finanziamenti destinati a destabilizzare la regione con la cacciata di Assad e le pressioni sull’Iran. L’assassinio di Soleimani non farà altro che mettere a tacere le rivolte in Iran, in nome della difesa del paese, come quella irachena sarà schiacciata dallo scontro tra americani e iraniani. Sullo sfondo resta il Kurdistan che potrebbe essere tentato dall’”alleato” americano ad approfittarne per allontanarsi sempre più da Baghdad. Sembra di essere tornati al 1991, quando gli americani appoggiati da Gran Bretagna e Francia - che poi si è ritirata - crearono le no-fly zone come incentivo alla rivolta contro Saddam di kurdi e sciiti che poi furono abbandonati alla loro sorte e massacrati dal raìs.