La Toscana rilancia il diritto all’affettività e alla sessualità per i detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 febbraio 2020 Proposta di legge approvata dalla commissione Affari istituzionali del Consiglio regionale toscano. Il diritto all’affettività e alla sessualità per i detenuti, una proposta di legge al parlamento proveniente dalla regione Toscana. In particolare è stata la Commissione Affari istituzionali del Consiglio regionale, presieduta da Giacomo Bugliani (Pd), a licenziare con parere favorevole a maggioranza la proposta di legge al Parlamento. Il primo firmatario è stato Leonardo Marras, capogruppo Pd, mentre i consiglieri di Forza Italia e Lega Nord hanno espresso parere contrario. Tale proposta di legge andrebbe a colmare il vuoto della riforma dell’ordinamento penitenziaria approvata a metà dallo scorso governo giallo verde. La proposta interviene appunto sulle norme che regolano l’ordinamento penitenziario. All’articolo 28, che regola i rapporti con la famiglia, si aggiunge il “diritto all’affettività” mettendo un comma che recita: “Particolare cura è altresì dedicata a coltivare i rapporti affettivi. A tal fine i detenuti e gli internati hanno diritto a una visita al mese della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore con le persone autorizzate ai colloqui. Le visite si svolgono in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari senza controlli visivi ed auditivi”. Come detto, tale norma in realtà era già previsto dai decreti attuativi della riforma dell’Ordinamento penitenziario, e già le polemiche non erano mancate, soprattutto da parte di alcuni sindacati della polizia penitenziaria. È il diritto alla sessualità in carcere, ma che poi è stato completamente oscurato e non più contemplato dal nuovo ordinamento penitenziario. Un tabù che in tutta Europa è già superato. C’è la Svizzera, dove in alcuni Cantoni i detenuti possono incontrarsi, senza sorveglianza, con i loro partner. In Francia è in corso una sperimentazione, previste visite senza sorveglianza in una “maison central”. In Germania poi viene garantito lo spazio agli incontri intimi e ai rapporti sessuali per chi deve scontare moltissimi anni di carcere. La norma è prevista in alcuni Lander e gli spazi riservati alle coppie sono degli appartamentini. Poi c’è la Spagna dove viene garantita una visita al mese, più una seconda per tutti coloro che hanno una relazione affettiva (moglie, fidanzate, mariti e fidanzati). Le visite vengono concesse come premio. In Svezia poi, sempre all’avanguardia, c’è il via libera a fidanzati e familiari in piccoli appartamenti all’interno degli istituti di pena. Non può mancare la Norvegia, dove è possibile avere rapporti sessuali senza sorveglianza per un’ora in stanze simili a quelle d’albergo. Un tema, quello dell’affettività, che era stato sviscerato durante gli Stati generali per l’esecuzione penale voluto dall’ex ministro della giustizia Andrea Orlando. Il gruppo di lavoro coordinato da Rita Bernardini del Partito Radicale aveva affrontato il problema di come assicurare all’interno del carcere uno spazio e un tempo in cui la persona detenuta possa vivere la propria sessualità. Ne è scaturita quindi la proposta di un nuovo istituto giuridico costituito dalla “visita”, che si distingue dal “colloquio”, già previsto dalla normativa, poiché garantirebbe al detenuto la possibilità di incontrarsi con chi è autorizzato ad effettuare i colloqui senza che vi sia un controllo visivo e/ o auditivo da parte del personale di sorveglianza. Tutto questo è stato poi affossato, ma la regione Toscana ha rilanciato. La lettera del boss al 41bis ad Agape: “Grazie per esservi presi cura di mia figlia” Corriere della Calabria, 9 febbraio 2020 Si è concluso il ciclo di iniziative “Uscire dalla ‘ndrangheta è possibile” promosse dal Centro Comunitario Agape e dall’associazione Libera in luoghi simbolici collegati percorso “Liberi di scegliere”. “Vi ringrazio perché vi siete presi cura di mia figlia”. A pronunciare queste parole un boss rinchiuso in regime di 41bis. Una frase che apre una breccia, la testimonianza viva di un padre, prima che boss, la cui figlia è stata inserita nel progetto “Liberi di scegliere” e portata lontano dal contesto di ‘ndrangheta. “Questa frase sintetizza meglio di ogni altra parola il senso del messaggio “Uscire dalla ndrangheta è possibile” che Centro Comunitario Agape e associazione Libera hanno voluto portare attraverso una serie di iniziative realizzate in luoghi simbolo del territorio reggino, oltre il carcere di Palmi, il quartiere di Archi, il carcere minorile, quattro scuole della città di Reggio aderenti alla rete delle Alleanze Educative, il Piria, il Volta, il Fermi Boccioni, il Panella. Sono stati circa 600 gli studenti coinvolti, una trentina i minori delle comunità incontrate, un centinaio gli educatori e le famiglie dell’Agesci di Archi carmine”, scrive Mario Nasone, presidente del centro Agape. L’evento realizzato nell’istituto penitenziario di Palmi era il quarto dopo quelli tenuti lo scorso anno nelle carceri di Reggio, Locri, Vibo e si è caratterizzato per la presenza di due significativi testimoni: Giosuè D’Agostino, seguito negli anni 80 da Don Italo Calabrò e da Agape nel percorso di riscatto che lo ha portato dal carcere minorile alla rottura con il clan di ‘ndrangheta a cui apparteneva a vivere una vita diversa nel segno della legalità. Rivolgendosi ai detenuti ha chiesto di abbandonare gli alibi sulle responsabilità dello Stato o di altri e di decidere come ha fatto lui di “scegliere una vita che ti dà dignità, che ti evita di passare la vita da una carcerazione all’altra o addirittura di perderla”. Insieme ad lui Vincenzo Chindamo, fratello di Maria sequestrata ed uccisa a Limbadi che ha detto che “questa è stata un’occasione per dare voce, davanti ai detenuti dell’alta sicurezza, alle tante vittime della ‘ndrangheta ma anche a chi è riuscito a uscirne facendo scelte coraggiose e a invertire un destino mafioso che sembrava inevitabile”. I detenuti che hanno preso parte all’incontro si erano preparati guardando film “Liberi di scegliere” - tratto dalla storia vera del giudice Roberto Di Bella, responsabile del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria e del suo progetto - e avevano anche avuto un incontro con Mimmo Nasone di Libera. “Hanno ascoltato con attenzione e rispetto ogni testimonianza e attraverso i loro interventi hanno dimostrato di essere disponibili ad avviare un dialogo con le istituzioni e con gli altri soggetti della società civile soprattutto per i riflessi che questo può avere sulla loro famiglia e sui figli”, spiega Nasone. I detenuti hanno dato atto al Tribunale per i minorenni della volontà di tutelare i loro figli, ma hanno anche chiesto un servizio giustizia e dei processi più veloci e, soprattutto, opportunità concrete per chi ha sincera volontà di cambiare vita e di inserirsi nella società. Il giudice minorile Sebastiano Finocchiaro - ribadita l’importanza del programma “Liberi di scegliere” - l’incontro è stata un’occasione di confronto e dialogo con soggetti direttamente coinvolti nelle peculiari vicende attenzionate dal Tribunale dei minori nell’ambito dei procedimenti civili afferenti la tutela di minori provenienti da contesti familiari di ‘ndrangheta. Oltre ad un momento di certo arricchimento umano e culturale, a suo parere tali occasioni possono offrire spunti per la personale revisione critica del pregresso operato da parte del condannato anche sotto il profilo del percorso genitoriale nell’ottica del perseguimento della risocializzazione e del proficuo reinserimento nella comunità civile. Anche per Vincenzo Chindamo “i detenuti hanno necessità di confronti qualificati, affinché dalle loro esperienze possa nascere la forza di conversione della nostra terra. I detenuti e le loro famiglie sono le prime vittime dei loro errori. È necessario accendere in loro la consapevolezza di chi e di cosa li ha resi vittime di un sistema e illuminare la strada di scelte coraggiose che li riscattino. Uscire dalla criminalità è prestigioso. Fa strada al cammino difficile ma possibile che i nostri territori stanno affrontando donando orgoglio e speranza alla nascita di una nuova Calabria. Una Calabria Libera”. Contributi importanti sono venuti dal provveditore regionale della amministrazione penitenziaria Liberato Guerriero che ritiene fondamentale la funzione educativa che il carcere deve svolgere attraverso anche queste iniziative. Agostino Siviglia, Garante regionale dei detenuti, si impegnerà anche per favorire esperienze di giustizia riparativa e di incontro con le vittime dei reati. Il procuratore aggiunto della Procura di palmi Giuseppe Casciaro ha chiesto ai detenuti di riflettere sul significato del “volere bene ai figli che è diverso dal volere il loro bene” ma ha anche espresso rammarico per tutti quei casi in cui la giustizia è lenta o peggio ancora quando lascia un innocente in carcere anche per un solo giorno. Il direttore del carcere Antonio Galati nelle conclusioni ha evidenziato in particolare la sofferenza che nota ogni volta che i bambini entrano in carcere per i colloqui e che interpella le coscienze di tutti, in primis dei loro genitori detenuti che hanno la maggiore responsabilità. Apprezzamenti anche della dirigente nazionale della Giustizia minorile Isabella Mastropasqua che ha sottolineato la grande valenza educativa di fare ascoltare ai ragazzi delle comunità l’esperienza di chi ce l’ha fatta ad uscire dalla ‘ndrangheta. Secondo Mario Nasone del centro Agape e Don Ennio Stamile, referente regionale di Libera, i tempi siano maturi per entrare come Magistratura e associazionismo in modo ancora più massiccio e costante nelle sezioni di alta sicurezza delle carceri per dialogare con i detenuti, per aiutarli a fare una revisione critica della loro vita dissociandosi dalle loro appartenenze criminali, per pensare assieme a loro come favorire l’attuazione del progetto “Liberi di scegliere” lasciando ai figli la possibilità di fare esperienze in contesti sociali diversi sia fuori della Calabria ma anche rimanendo nel territorio. Ricordando l’insegnamento di Don Italo Calabrò che chiedeva ai mafiosi “se non potete uscirne voi, fate almeno in modo che i vostri figli non vi entrino”. La giustizia minorile? In Italia è un modello di Giovanni Tizian L’Espresso, 9 febbraio 2020 Colloquio con Roberto Di Bella, presidente del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria. Anche a lui hanno dato del “ladro di bambini”. Ma Roberto Di Bella non ha mai mollato di un centimetro. E dalla sua trincea del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria ha continuato la sua guerra all’educazione mafiosa, alla pedagogia che la ‘ndrangheta insegna tra le mura domestiche. Di Bella è netto: “La giustizia minorile italiana è un modello in tutta Europa”. Il presidente del tribunale dei minorenni di Reggio Calabria che dal 2012 con il protocollo “Liberi di scegliere” sta aiutando i figli dei boss della ‘ndrangheta a uscire dal circuito criminale. Il suo metodo si ispira ai principi delle convenzioni internazionali sulla tutela dei minori. È il magistrato, insomma, che prospetta ai figli degli affiliati un’opportunità di vita diversa da quella che hanno scelto i loro padri. Nei casi in cui siano evidenti i segnali dell’indottrinamento mafioso, il tribunale firma un provvedimento di decadenza della responsabilità genitoriale. Ragazzi e ragazze spesso seguite dalle madri. A oggi più di venti nuclei sono andati via dalla Calabria con il nostro sostegno, più di 70 minori. I bambini e i ragazzi vengono così affidati a famiglie del circuito delle associazioni che hanno aderito al protocollo e lasciano il territorio di influenza del clan. Un’esperienza unica, l’ultima frontiera di lotta alle cosche, raccolta in un libro uscito di recente firmato dal giudice. “Liberi di scegliere”, appunto, è il titolo. “L’ho scritto con l’obiettivo di far conoscere storie dimenticate, storie terribili, perché alcune vicende non possono essere dimenticate”. Presidente Di Bella, dopo l’indagine su Bibbiano c’è stato un attacco generalizzato alla giustizia minorile. È necessaria davvero una riforma? “In realtà no, tanto che all’estero è molto apprezzata. Piuttosto credo vada potenziata: gli uffici giudiziari minorili sono un presidio strategico di legalità, fronte avanzato per governare i disagi delle fasce deboli. Spesso unico rimedio all’assenza dei servizi essenziali sul territorio. Il nostro tribunale dei minorenni è diventato un collante, abbiamo siglato protocolli con la prefettura, con la procura per la circolazione delle informazioni utili a capire se in una famiglia mafiosa sia in atto l’indottrinamento dei piccoli. Senza di noi il territorio sarebbe allo sfascio totale. Ma non basta potenziare il tribunale, servono politiche sociali, assistenti sociali formati. Per questo facciamo formazione”. Sull’allontanamento dei figli dei boss, all’inizio avete subito molte critiche. Vi hanno accusato di ogni nefandezza… “Attacchi pesanti anche da opinionisti importanti. Ci dipingevano come ladri di bambini, giudici che confiscano minori. Qualcuno si era spinto oltre paragonando la nostra “barbarie” a quella della ‘ndrangheta. L’obiettivo era solo aiutare i ragazzi. È questo che ha mosso tutto, l’istinto di sopravvivenza professionale e personale. Non potevamo più assistere inermi alla distruzione delle nuove generazioni, condannate alla ‘ndrangheta. Negli anni abbiamo visto sfilare tanti ragazzi che potevano avere un futuro diverso e invece sono stati inghiottiti nel buco nero della ‘ndrangheta. A poco a poco i risultati ci danno ragione. Abbiamo superato di tutto, critiche e anche le minacce ricevute dal carcere. Il 5 novembre 2019 abbiamo firmato un protocollo importante con il Miur, procura nazionale antimafia, ministero della Giustizia, procura di Reggio Calabria e Cei, che sta finanziando il progetto con 1’8 per mille. Il Miur sta diffondendo il protocollo tra i vari dirigenti scolastici per far conoscere ai ragazzi l’esperienza del tribunale dei minorenni che dirigo”. A Bibbiano sotto accusa c’è il sistema dei servizi sociali. Che in Emilia sono stati sempre considerati un modello. Dalla sua esperienza cosa ci può dire sul rapporto tra tribunali e assistenti sociali e psicologi? “Di Bibbiano non posso dire nulla perché non conosco i fatti. Più che relazioni false, a noi è capitato di ricevere relazioni “timide” nei contenuti, di assistenti sociali spaventati dai contesti in cui avevano messo le mani. Relazioni timide, ma non false. I tribunali dei minorenni non sono autonomi, ci awaliamo dei servizi sociosanitari del territorio. Per questo bisogna rinforzare le politiche sociali del territorio, formare assistenti sociali insieme ai magistrati minorili. È facile criticare, ma prendiamo la situazione qui in Calabria: è drammatica. Abbiamo paesi senza assistenti sociali. Così il disagio dei giovani sfugge ai radar. In ogni caso, l’allontanamento è solo l’extrema ratio di fronte a casi conclamati”. Sulla base di quali elementi vanno allontanati i figli dalle famiglie? “Posso parlare per il mio tribunale. Chiediamo sempre un’indagine psicosociale, lavoriamo con équipe di psichiatri infantili, psicologi e assistenti sociali. Chiediamo agli psicologi di comunicarci gli strumenti scientifici che utilizzano. E vogliamo che ci sia un avvocato curatore del minore. Questi avvocati devono poter presenziare a tutti gli atti del servizio sociale del territorio. Una serie di garanzie che mettono al riparo da provvedimenti sproporzionati. Chiediamo ai genitori di seguire le prescrizioni. Se questo non avviene c’è il secondo step: vediamo se c’è un parente idoneo e disponile. Se questo non è possibile, prevediamo l’entrata in struttura di semi convitto. Solo in situazioni estreme allontaniamo temporaneamente. La famiglia naturale va salvaguardata finché possibile, ma nel caso di abusi e maltrattamenti è necessario prevedere soluzioni alternative. Lo dicono le convenzioni internazionali: mettono al centro il/ la minore e a lui/lei vanno garantite condizioni ottimali per la crescita”. Prescrizione, Italia Viva ha deciso: dirà sì in aula. Ma prepara una legge a firma Renzi di Goffredo De Marchis La Repubblica, 9 febbraio 2020 L’ex premier resta contrario al provvedimento e promette battaglia. Un minuto dopo il via libera al lodo Conte lavorerà per spazzarlo via e tornare alla legge di Andrea Orlando sulla prescrizione. “Vediamo come si comporterà il Partito democratico e se al Senato hanno i numeri per bocciarla”, dice l’ex premier. Primo tempo: Renzi nell’angolo. Italia Viva voterà la fiducia al decreto Milleproroghe nel quale verrà inserita la nuova norma sulla prescrizione voluta da Pd, M5S e Leu. Se l’emendamento sarà tecnicamente impeccabile può anche annullare il lodo Annibali (deputata di Iv) e il disegno di legge del forzista Costa che va alla Camera il 24 febbraio. Sembra scacco matto. Accompagnato dalla ritirata renziana per evitare la caduta del governo. Secondo tempo: Renzi esce dall’angolo. Un minuto dopo l’entrata in vigore del compromesso firmato Conte, il senatore di Firenze presenterà una proposta di legge (di cui sarà il primo firmatario) per spazzarlo via e tornare alla legge di Andrea Orlando sulla prescrizione. “Vediamo come si comporterà il Partito democratico e se al Senato hanno i numeri per bocciarla”, dice l’ex premier ai fedelissimi annunciando dunque la riscossa dopo l’arretramento strategico. Il testo verrebbe discusso a marzo- aprile in piena campagna elettorale per le regionali. Può diventare potenzialmente dirompente per gli equilibri del centrosinistra. Il mantra di Renzi non cambia: “Stanno solo spostando il problema in avanti di qualche settimana. Ma prima o poi esplode”. Dario Franceschini annusa l’aria e con i colleghi dem ormai parla di navigazione a vista, di fibrillazione permanente legata a Renzi e al caos dei grillini. Superare il nodo della prescrizione sarà solo il primo di una serie di ostacoli. Si vive alla giornata. Un guaio alla volta. Gli uffici sono al lavoro per mettere nero su bianco la mediazione raggiunta dal governo con il dissenso di Italia Viva. Per fare in fretta si è scelta la strada dell’emendamento al Milleproroghe. Per entrare in questo decreto, lo dice il nome, dev’esserci la proroga quindi la riforma Bonafede viene spostata in avanti di qualche giorno. Ma nel testo sarà sancito il blocco della prescrizione dalla sentenza di secondo grado. Non basta. Solo “un capolavoro tecnico”, dicono nel gruppo di Italia Viva riuscirà a evitare che in commissione a Montecitorio si voti anche il lodo Annibali (che sancirebbe la spaccatura della maggioranza) e si annulli il pericolo del ddl Costa. Renzi non ha cambiato idea: considera comunque l’accordo incostituzionale, sottolinea le dichiarazioni del presidente emerito della Consulta Cesare Mirabelli che distrugge qualsiasi tentativo di fermare la prescrizione, continuerà il suo battage per smascherare le contraddizione del Pd sempre più schiacciato sulle posizioni dei 5 stelle. Ma al momento della fiducia, sia alla Camera sia al Senato dove il Milleproroghe arriverà a metà febbraio, Italia Viva rinuncerà alla guerra e voterà “sì” al governo. L’ex premier non vuole il voto. Non è pronto e non intende consegnare il Paese a Salvini. Italia Viva sta notando anche delle strane manovre in Parlamento, con una pattuglia di centristi, gente di diversa estrazione da Forza Italia a ex M5S, che si sta accreditando presso Palazzo Chigi come stampella sostitutiva dei renziani. Se nasce davvero un gruppo robusto di responsabili al Senato per Iv la notizia è pessima. Ma il capo di Italia Viva è convinto che il secondo tempo possa ribaltare il risultato del primo. Ha controllato i regolamenti: come forza di maggioranza il suo partito ha il diritto di presentare una proposta di legge, di metterla in discussione in tempi stretti e di arrivare a un voto. La “legge Renzi”, ricalcata sulla riforma Orlando per mettere in imbarazzo i dem. È persino meglio che votare la proposta Costa: così nessuno potrà dire che i renziani cavalcano le idee del centrodestra. Altri due mesi fanno gioco, dicono i fedelissimi dell’ex premier. Si batterà sul tasto del Pd schiavo dei grillini, si scaverà ancora nella sensibilità dell’elettorato di destra sul tema giustizia per alzare l’asticella dei sondaggi. Alla fine, ripete Renzi da giorni, “dovranno darci ragione come è successo sull’Iva, sugli 80 euro, sul Jobs Act. Non si scappa”. Bisogna scommettere anche sull’immobilismo del governo Conte. Dopo la fiducia sulla prescrizione solo se l’esecutivo cambierà passo, con qualche progetto di maggiore respiro, la battaglia sulla giustizia diventerà meno cruciale. E il secondo tempo renziano rischierà di non centrare il bersaglio. Prescrizione, i rosso-gialli vareranno un emendamento. E poi avanti con la fiducia di Alberto Gentili Il Messaggero, 9 febbraio 2020 Modifica al Milleproroghe con lo stop dopo il secondo grado. Domani al Cdm il processo penale. Tramonta il decreto per mettere nero su bianco l’accordo tra Pd, 5Stelle e Leu. A meno di sorprese dell’ultimo minuto, domani il Consiglio dei ministri si limiterà a varare la riforma del processo penale, rinviando a un emendamento parlamentare al Milleproroghe il compito di rendere operativa l’intesa che ha spinto Matteo Renzi sulle barricate. È l’Associazione nazionale dei magistrati a dare una mano al premier Giuseppe Conte e a chi, come Dario Franceschini, Roberto Speranza e (dopo molti tentennamenti) il grillino Alfonso Bonafede, ha lavorato con il premier per chiudere la lunga querelle sulla prescrizione. “Una diversa modulazione, con un trattamento differenziato per chi dopo una sentenza di condanna in primo grado viene assolto in appello, non ci sembra una soluzione irragionevole. Sugli eventuali profili di legittimità costituzionale sarà la Consulta a pronunciarsi. Ma deve subito riprendere il percorso di riforma del processo penale”, ha detto il segretario dell’Anm, Giuliano Caputo. Una palla che Walter Verini, responsabile Giustizia del Pd, si affretta a schiacciare: “Ora si lavori alla riforma del processo penale per garantire ai cittadini una durata ragionevole e certa. Con i cambiamenti introdotti alla riforma Bonafede gli effetti deleteri sulla prescrizione vengono fortemente ridimensionati”. Nella maggioranza sono ore frenetiche. Bonafede, assieme ai tecnici del ministero di via Arenula e della Camera, sta cercando una soluzione per far dichiarare ammissibile l’emendamento al Milleproroghe che conterrà l’intesa Pd-5Stelle-Leu che sposta lo stop della prescrizione dopo il secondo grado di giudizio per chi è giudicato colpevole. L’ipotesi che sta prendendo corpo è quella di inserire una sospensione riforma Bonafede, in modo da rendere “omogenea” la norma. “Sarà solo una proroga tecnica, il minimo indispensabile affinché l’emendamento venga ammesso”, spiega chi lavora al dossier, “probabilmente sarà di 45 giorni o al massimo di due mesi. E non lo facciamo di certo per fare un favore a Renzi”. Già, Italia Viva. Il nodo resta l’opposizione dei renziani, che hanno rigettato l’intesa Pd-5Stelle-Leu. Da ciò che filtra dall’entourage di Matteo Renzi, l’ex premier avrebbe però intenzione di sotterrare l’ascia di guerra. Se la sospensione “sarà congrua”, Italia Viva potrebbe votarla e dire: ci hanno dato ragione, di fatto passa il lodo Annibali (che però prevede una sospensione della prescrizione di un anno). Se invece lo stop alla riforma Bonafede sarà giudicato insufficiente, Italia Viva mercoledì in commissione Giustizia potrebbe non partecipare al voto. Ma poi, in Aula, voterebbe la fiducia al maxi-emendamento che conterrà l’intesa a tre. E darebbe il via libera anche in occasione del voto finale al Milleproroghe. Stesso schema al Senato. Insomma, come ha detto e ripetuto, Renzi non è intenzionato a innescare la crisi e a decretare la fine del governo Conte. Perché ha bisogno di tempo per radicare e organizzare il suo nuovo partito. E perché non vuole correre il rischio di precipitare verso le elezioni. Anche se il giudizio sul premier e sul suo esecutivo resta pessimo: “Conte è un incapace e il governo è del tutto immobile”, dice un renziano di alto rango. Di certo, c’è che il segretario dem Nicola Zingaretti è stufo della lunga querelle: “Da domani si apre il confronto per una fase nuova nel Governo. La priorità assoluta è riaccendere i motori dell’economia: scuola e conoscenza, investimenti verdi, digitale, semplificazione e lotta alla burocrazia per creare lavoro e benessere. Il Pd dice basta polemiche e picconi, è il tempo di costruire e dare certezze”. L’Anm dà l’ok: “La mediazione sulla prescrizione non è irragionevole” di Andrea Colombo Il Manifesto, 9 febbraio 2020 Il segretario dell’Associazione dei magistrati Giuliano Caputo promuove l’accordo 5Stelle-Pd-Leu, ma “l’emergenza è la durata dei processi”. L’Anm promuove la mediazione raggiunta da tre partiti su quattro della maggioranza in materia di prescrizione, ma senza scaldarsi troppo. “Non è una soluzione irragionevole”, dichiara il segretario dell’Associazione dei magistrati Giuliano Caputo, rispondendo così a Renzi che in un’intervista aveva invocato la bocciatura della legge, anche corretta, da parte dei togati. Caputo però aggiunge che, “sulla base di preoccupazioni catastrofiche che non condividiamo si è creato uno stallo. Si è parlato troppo di prescrizione e non si è parlato più della durata del processo, che invece era un’urgenza”. In realtà il segreto della crisi che è montata sul nodo della prescrizione e che non accenna a risolversi è proprio qui. Sulla carta la riforma della prescrizione e quella del processo avrebbero dovuto marciare di pari passo, e in questo modo si sarebbe sgombrata la strada da parecchi ostacoli. Non è andata così, ma non perché governo e maggioranza fossero troppo occupati ad azzuffarsi sulla prescrizione per ricordarsi del problema principale, la durata del processo. Il blocco è dovuto, tanto per cambiare, ai dissensi nella maggioranza sugli interventi necessari per accelerare i tempi biblici dei processi. La realtà è che la divisione nella maggioranza non è limitata a un “particolare” come la prescrizione ma attiene all’intera visione della riforma della giustizia. L’incidente, anche per questo motivo, non si chiuderà affatto tanto presto quanto il Pd e Conte si augurano. Renzi infatti insiste e non molla: “Decida Conte: se vuole cacciarci basta dirlo. Se vuole tenerci lavoriamo. Ma nell’uno e nell’alltro caso non votiamo il pasticcio prescrizione”. I tamburi di guerra di Italia viva continuano a rullare per tutto il giorno, da Maria Elena Boschi, la più agguerrita, alla ministra Bellanova, che in serata ribadisce: “Se si dovesse arrivare allo scontro non saremo stati noi a provocarlo. Avevamo detto molto chiaramente che sui valori non si transige”. Allo scontro si arriverà di certo, anzi a una serie di scontri: in sede di cdm quando si varerà il dl (sempre che Mattarella permetta di usare quella scorciatoia e non è certo), sul lodo Annibali e poi sul dl Costa alla Camera, infine in aula, al momento della conversione dell’eventuale dl. L’incognita è su quanto deflagrante e reale o invece mimato e di facciata sarà il conflitto. Dai piani alti di Iv tengono la bocca chiusa, giurano che al momento l’unica certezza è che non ci sarà il passaggio all’appoggio esterno. Gli estremi per un provvidenziale uscita dall’aula dei senatori di Iv, così da marcare la differenza, rispettare l’impegno a “non votare il pasticcio” e tuttavia evitare la crisi ci sono tutti: facile che finisca proprio così. Non è detto che basti. Alla Camera il dl Costa, che cancellerebbe la riforma Bonafede, non dovrebbe passare comunque, ma la lacerazione della maggioranza sarà traumatica. Se poi Fi ripresentasse lo stesso testo al Senato per Renzi limitarsi a uscire dall’aula non sarebbe facile. Si allungheranno i tempi dei procedimenti e la Cassazione rischierà il boom di ricorsi di Michela Allevi Il Messaggero, 9 febbraio 2020 Tempi più lunghi per i processi e il rischio di un boom di ricorsi in Cassazione. Nonostante il lodo Conte bis, con la riforma della prescrizione la Suprema corte rischia comunque di essere invasa da nuovi procedimenti. Non saranno i 25mila in più stimati dal primo presidente della Cassazione, Giovanni Manunone, secondo i dati divulgati in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, ma la cifra si dovrebbe discostare di poco. Per un motivo: la distinzione tra assolti e condannati in primo grado, con lo stop del decorrere della prescrizione solo per i secondi, non peserebbe sul bilancio. Per gli assolti in primo grado, infatti, la prescrizione continuerebbe a correre, mentre per i condannati si fermerebbe dopo il primo grado di giudizio, mentre il processo prosegue. Se il condannato subisse una nuova condanna, la prescrizione si bloccherebbe in maniera definitiva. Se venisse assolto, potrebbe recuperare i termini di prescrizione rimasti nel frattempo bloccati. Ed è questa la novità principale, che però non inciderebbe più di tanto sul volume dei procedimenti destinati ad approdare in Cassazione. Questo perché i ricorsi alla Suprema corte vengono presentati soprattutto dagli imputati. Mentre la percentuale di ricorsi presentati dalle procure generali è molto più bassa. E in caso di assoluzione, in assenza di ricorso della procura, il recupero dei termini di prescrizione non servirebbe a nulla. Lo spiega l’avvocato Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali: “Con il lodo Conte bis l’impatto deflattivo sui procedimenti destinati a sommergere la Cassazione è modesto. È necessario invece lavorare sulla riduzione dei tempi del processo, che in questo caso sono destinati a salire a dismisura”. Questo perché, non temendo più la scure della prescrizione, i procedimenti potrebbero essere fissati con molta più tranquillità: “Un imputato può vedersi fissato il suo ricorso in appello anche in 10 anni”. È critico anche il presidente delle Camere penali di Roma, Cesare Placanica: “Il ripensamento è segno evidente dell’insostenibilità dell’originario progetto, si tratta di un miglioramento che però non è decisivo. Il ministro dovrebbe seguire fino in fondo le indicazioni pervenute durante le cerimonie di inaugurazione da avvocati e magistrati”. Ed è proprio alla platea degli avvocati che si rivolge Italia Viva, fortemente contraria alla riforma. Un potenziale bacino da quasi 150mila voti che potrebbe aiutare il partito di Matteo Renzi a superare la soglia di sbarramento per entrare in Parlamento. Nella relazione, Mammone ha sottolineato che, in realtà, servirebbero “modifiche di carattere acceleratorio al processo penale”, soprattutto per le fasi dell’indagine e dell’udienza preliminare, nelle quali si registra la maggior parte dei casi di prescrizione. Problema che deriva dalla limitata possibilità di esercizio dell’azione penale e di celebrazione dei processi a causa della ridotta capacità di smaltimento del giudizio ordinario. Il primo presidente della Cassazione ha poi aggiunto che la sospensione del corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, una volta a regime (e perciò non prima di 5 anni, termine di prescrizione per i reati contrawenzionali puniti in modo meno grave), potrà determinare “un incremento del carico di lavoro della Cassazione pari a circa 25mila procedimenti l’anno, tale essendo il quantitativo medio dei procedimenti che negli ultimi anni si è estinto per prescrizione in secondo grado”. Un incremento insostenibile, pari a circa il 50 per cento. E con il lodo Conte bis la percentuale diminuirebbe, ma resterebbe comunque troppo elevata. Violenza sulle donne, si cambia: chi perseguita subito in carcere di Barbara Acquaviti Il Messaggero, 9 febbraio 2020 Senato, testo di tutta la maggioranza: la stretta con le modifiche al Codice rosso. Per ora sono quattro punti, sottoscritti da tutta la maggioranza. Ma potrebbero diventare di più. La legge sul Codice rosso contro il femminicidio è stata approvata lo scorso luglio, quando il governo era ancora grillo-leghista, ma è diventata legge con un largo consenso (si astennero solo Pd e Leu, perché contestavano le scarse risorse). Eppure, di fronte ai numeri statistiche che raccontano la vita spezzata di troppe donne i rosso-gialli hanno cominciato già a mettere in cantiere nuove modifiche. Nero su bianco, sono agli atti in una proposta di legge che ha come prima firma quella di Valeria Valente, senatrice del Pd e presidente della commissione sul femminicidio, ma è appoggiata anche dagli altri partiti della maggioranza, attraverso le firme di Alessandra Maiorino del M5S, Donatella Conzatti e Nadia Ginetti di Iv, Francesco Laforgia di Leu e Julia Unterberger delle Autonomie. La prima correzione è il cuore della proposta: prevedere l’arresto obbligatorio in flagranza nei casi di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare o del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona che è stata vittima di aggressioni. Il punto, spiega Valente, è che nonostante la presa in carico immediata da parte del sistema giudiziario il Codice rosso prevede l’obbligo entro i tre giorni le donne restano esposte al contatto dei loro persecutori. Attualmente, l’arresto in flagranza non è possibile, e questo si legge nella relazione che accompagna la proposta determina un vuoto che espone la vittima a un grave pericolo per la sua incolumità.Da qui, l’esigenza di ritoccare la legge, condivisa trasversalmente e riconosciuta durante la sua audizione proprio nella commissione Femminicidio anche dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Che però, ha chiesto di attendere almeno sei mesi per poter avere una casistica esaustiva sugli effetti che la legge ha avuto nella sua prima fase di attuazione. Attualmente, infatti, non esistono ancora dati significativi sull’applicazione del Codice rosso. Alcuni numeri, tuttavia, sono emersi durante le relazioni per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Come evidenziato dal pg della Cassazione Giovanni Salvi, pur in un “contesto positivo” del calo degli omicidi con uomini come vittime, risulta “ancora più drammatico” il fatto che permangano pressoché stabili i cosiddetti femminicidi. Inoltre, secondo i dati forniti dall’Istat alla commissione Femminicidi, l’80,5% delle donne uccise “è vittima di una persona che conosce: nel 43,9% dei casi è un partner (35,8% attuale, 8,1% precedente), nel 28,5% un parente (inclusi figli e genitori) e nell’8,1% un’altra persona conosciuta. La legge a prima firma Valente presenta anche altri tre punti di modifica. Si prevede, infatti, che si possa disporre il fermo della persona quando sussistano fondati motivi per ritenere che le condotte criminose possano essere reiterate ponendo in grave ed attuale pericolo la vita o l’integrità fisica o psichica della persona offesa. Viene poi estesa la possibilità di uso del braccialetto elettronico e, inoltre, si stabilisce che il pubblico ministero investito del caso, possa trasmettere gli atti al prefetto al fine di valutare l’adozione di eventuali misure di protezione. Grazie alle audizioni ancora in corso con le varie associazioni, tuttavia, la commissione Femminicidio sta prendendo in considerazione ulteriori proposte di modifica, come per esempio aumenti importanti di pena per recidive da tenere distinte da ipotesi di continuazione per alcuni reati, oppure l’obbligo di comunicazione alla persona offesa della carcerazione o scarcerazione dell’autore del reato anche per il tentato omicidio. Valente sottolinea come il Codice rosso “abbia generato un effetto di maggiore attenzione e consapevolezza” e, a suo giudizio, “anche il fatto che se ne stia parlando tanto ha aiutato, perché ci sono donne che magari non sanno quale sia il contenuto della legge ma hanno comunque percepito di avere una tutela in più”. Detto questo, “la vera scommessa è rendere più efficaci le misure di protezione, quindi l’intervento normativo è importante ma dobbiamo essere consapevoli che nemmeno la migliore norma possibile è sufficiente. La vera svolta la avremo quando tutti gli operatori della filiera, non solo saranno specializzati, ma anche formati e saranno in grado di leggere la violenza per quello che è e di credere alle donne”. Cocaina, milioni e segreti: una morte sospetta riapre il giallo sulla droga di Stato di Paolo Biondani e Andrea Tornago L’Espresso, 9 febbraio 2020 Centinaia di chili di stupefacenti rubati a Milano e a Padova nei caveau blindati dei laboratori di tossicologia. Colpi da professionisti rimasti impuniti da anni. E lo strano “suicidio” di un chimico che sapeva troppo. Eroina, cocaina, hashish con il marchio dello Stato. Carichi di droga imponenti, per milioni di euro, che vengono sottratti dai depositi blindati delle autorità pubbliche. Senza forzare porte o finestre, senza lasciare impronte e nessun’altra traccia. Colpi spettacolari, con bottini ricchissimi, rimasti totalmente impuniti. Con una scia di interrogativi irrisolti da anni. A cui ora si aggiungono nuovi misteri. Atti giudiziari scomparsi dai tribunali. Lettere anonime che insinuano complicità eccellenti. E una morte collegata, molto strana. Archiviata come un suicidio anomalo. Un giallo che i familiari ora chiedono di riaprire. Per svelare i retroscena di quella tragedia. E cercare finalmente di smascherare una banda criminale potente e sfrontata, capace di impadronirsi di decine di chili di stupefacenti sequestrati dalle forze di polizia. Una gang finora intoccabile. La banda della droga di Stato. Ci sono segreti che pesano più delle chiavi di una città. Possono aprire le porte del potere o chiudere carriere importanti. A Padova c’è un segreto che resiste da troppi anni. Riguarda un furto clamoroso, scoperto la mattina del 17 marzo 2004 nei laboratori di tossicologia forense della prestigiosa università cittadina. In quelle stanze blindate dell’istituto di medicina legale vengono conservati gli stupefacenti sequestrati da tutte le forze di polizia. Solo tecnici fidati sono autorizzati a prelevarne piccoli campioni, per il tempo necessario alle analisi: i risultati diventano prove nei processi contro spacciatori e narcotrafficanti. Poi la droga va trasferita nei caveau dei tribunali, tra i corpi di reato. E alla fine viene incenerita. Quel giorno a Padova, invece, spariscono almeno dieci carichi di stupefacenti, sequestrati nei mesi precedenti da varie forze di polizia, ma ancora stipati in “pacchi e scatoloni” nei laboratori statali. Un documento consegnato il 29 marzo dall’università al magistrato di turno elenca con precisione il bottino: 49 chili di eroina, 5,8 di cocaina, 1,8 di hashish, 64 grammi di marijuana. Più di mezzo quintale di stupefacenti. Per un valore al dettaglio di almeno cinque milioni di euro, secondo i dati di quell’anno del dipartimento nazionale antidroga. Le indagini della squadra mobile di Padova e del pm Emma Ferrero si scontrano con una specie di enigma della camera chiusa. Il caveau sotterraneo della medicina legale è protetto da porte blindate. E da un sistema d’allarme. Che risulta funzionante e regolarmente attivato fin dalla sera precedente. In tutto l’istituto, diretto da un luminare, il professor Santo Davide Ferrara, non si trova alcun segno di effrazione. E non ci sono telecamere che inquadrino le vie di fuga dei ladri. Che dovevano essere molto ben informati. Sapevano degli eccezionali quantitativi di droga accumulati in quei mesi nei laboratori di tossicologia. Conoscevano gli orari di attivazione e disattivazione dell’allarme, che veniva staccato di giorno, nelle ore di lavoro, e reinserito la sera. E possedevano anche altre notizie preziose. Nelle ore di servizio, i tecnici erano abituati a tenere accostata la porta blindata, senza chiuderla a chiave. E proprio la sera del 16 marzo era in programma un affollato seminario universitario, destinato a richiamare quasi tutto il personale interno, svuotando così il sotterraneo con la droga. All’inizio l’indagine si concentra su un singolare cambio di serratura della porta del caveau, avvenuto la settimana prima del furto: l’ipotesi è che un complice interno abbia fornito le chiavi alla banda. Ma la pista non porta lontano: con l’allarme disinserito e la porta accostata, bastava una tessera di plastica per far scattare la serratura. Quindi poteva farlo anche un estraneo, entrato approfittando del seminario. E così, nonostante il bottino milionario, il colpo della droga di Stato resta senza colpevoli. Da 15 anni. Senza alcun testimone, senza alcuna soffiata. Nei palazzi cittadini nessuno ha voglia di parlarne. Perfino i vertici della procura, dopo aver archiviato l’indagine, negano per anni la consultazione degli atti giudiziari a docenti e giornalisti, per “ragioni di riservatezza”. E all’università non c’è più nulla: oggi l’ateneo “non possiede atti che possano ricostruire le circostanze del fatto”, spiegano imbarazzate all’Espresso, “dopo un’attenta ricerca in archivio”, fonti vicine all’attuale rettore Rosario Rizzuto, in carica dal 2015. A Padova però c’è qualcuno che non può dimenticare. E ora chiede di riaprire le indagini su quel colpo così perfetto. E su una morte collegata. Per capire quei mesi drammatici del 2004 occorre spostarsi all’Arcella, il quartiere dietro la stazione ferroviaria. Qui vive la famiglia di Luciano Tedeschi, ex militare, tossicologo di fama internazionale: all’epoca del maxi-furto è il capo del laboratorio. All’alba del 22 aprile 2004, poco più di un mese dopo, una vicina di casa scopre che è precipitato nel cortile del suo palazzo dopo un volo di tre piani dal balcone di casa. La polizia passa al setaccio tutto, ma non trova alcun indizio, nemmeno un biglietto d’addio ai familiari. Il caso viene archiviato come suicidio, ma è tuttora inspiegabile. Chi gli stava vicino ricorda solo il grande dolore che provava per lo scandalo che stava screditando “il suo laboratorio”, che aveva contribuito a creare quando ancora era un chimico ufficiale dell’aeronautica. Il giorno successivo sarebbe dovuto partire con una collega della medicina legale: un pm antimafia di Venezia li aveva incaricati delle analisi dopo un grosso sequestro di cocaina. Nonostante il clamore del furto, la stima dei magistrati restava immutata. Mentre preparava la trasferta, però, il tossicologo era turbato da fatti a lui estranei. Pochi giorni prima un maresciallo dell’esercito era stato accusato di aver fatto sparire un miliardo di vecchie lire. “Non è che possono farmi comparire dei soldi sul conto corrente?”, aveva chiesto il chimico alla moglie, con angoscia, temendo di essere incastrato per colpe altrui. Era solo una delle tante preoccupazioni di quelle settimane passate a stilare l’elenco dei chili di droga sparita. E a sottolineare disperatamente, nelle relazioni depositate in procura, “l’inderogabile, urgente necessità di provvedere alla restituzione” all’ufficio corpi di reato degli altri carichi di stupefacenti ancora presenti nel laboratorio svaligiato. A casa, negli ultimi giorni, sembrava aver fretta di sistemare pratiche. Tutti lo ricordano come un uomo onesto, che all’improvviso appariva terrorizzato. Di cosa aveva paura? Resta un mistero. L’unico dato certo è che il responsabile del laboratorio dell’antidroga cade dal balcone tra le 6,30 e le 7 del mattino, senza nessun testimone. Con una mossa anomala: si sarebbe gettato nel vuoto di schiena. “È una modalità non impossibile, ma sicuramente inusuale per quel tipo di suicidio”, spiega oggi all’Espresso un autorevole medico legale, consulente di diversi tribunali: “Di certo non è la più frequente. E in questo caso specifico, la definirei un fatto strano”. Dubbi che si sarebbero potuti fugare con un’accurata autopsia. Il caso viene affidato a un collega della vittima, Massimo Montisci, poi diventato professore ordinario e tuttora direttore dell’istituto. L’esperto considera più che sufficienti le analisi chimiche e un esame esterno del corpo. E non ravvisa “elementi di carattere medico-legale che contrastino con una dinamica suicidaria”. La mancanza di autopsia oggi non aiuta a rasserenare i familiari della vittima. Anche perché si aggiunge a molte altre anomalie. “Le pagine del fascicolo giudiziario sul suicidio di mio padre non sono numerate e nel faldone mancano atti”, conferma all’Espresso una delle figlie del tossicologo, Lucia Tedeschi, avvocata penalista a Padova. Che precisa: “La polizia aveva chiesto e ottenuto un accertamento sul suo telefono, per controllare le ultime chiamate. C’è l’autorizzazione del pm e persino la fattura del gestore telefonico che ha fornito i dati. Ma i tabulati di mio padre non li abbiamo trovati”. Dopo una serie di richieste formali, la famiglia Tedeschi ha ottenuto dalla Procura tutti gli incartamenti. E ha scoperto che il fascicolo sul presunto suicidio è pieno di riferimenti al maxi-furto. Non solo. Risultano sparite carte giudiziarie anche dai faldoni dell’indagine sul colpo della droga di Stato. L’allora capo della squadra mobile, Alessandro Giuliano (figlio di Boris, l’eroico poliziotto ucciso dalla mafia nel 1979 a Palermo), aveva firmato un rapporto su quattro precedenti furti di cocaina, scoperti tra il 2000 e il 2003. Ma le informative allegate alla relazione di Giuliano sono scomparse. Nella richiesta di riaprire le indagini sul furto e sul presunto suicidio, la famiglia fa anche notare che l’istituto di medicina legale, oggi, non può considerarsi insospettabile. Lo stesso professor Montisci è infatti indagato dalla Procura di Padova per autopsie e analisi ritenute false, anche per favorire imprenditori con il vizio della cocaina. Accuse recenti, respinte con forza dall’interessato, non collegabili al furto di 15 anni fa, che però spingono la famiglia Tedeschi a invocare nuove indagini. “Gli ultimi scandali ci hanno fatto venire in mente tante cose”, racconta la vedova del tossicologo, Osvalda Minocchia, senza fornire dettagli. “Mio marito aveva seri dubbi che le responsabilità del furto potessero essere circoscritte all’interno dell’istituto. Era sconvolto per questo. Vorrei capire cosa è successo veramente e se i suoi timori, che mi confidò allora, erano fondati”. L’esposto dei familiari suggerisce piste precise, che vengono tenute riservate. Anche perché tornare a indagare su quel furto significa scandagliare gli ultimi vent’anni di misteri veneti. Lo scrittore padovano Massimo Carlotto si è ispirato a questa vicenda per un romanzo, “L’amore del bandito”, dove si ipotizza un furto su commissione, con la copertura di apparati dello Stato. Un’altra suggestiva ipotesi mette insieme l’azione clamorosa, il bottino milionario, la scelta di derubare e sfidare lo Stato, la probabile esistenza di complici insospettabili: ci sono tutti i crismi di tanti colpi spettacolari che resero famosa la mala del Brenta, la prima banda veneta condannata per mafia, fondata dal boss Felice Maniero, che però in quel periodo era da tempo agli arresti. Le cronache dei giornali segnalano anche un’altra pista, giudiziaria: per i carichi di droga non ancora analizzati, il furto cancella le prove. All’epoca una lettera anonima chiamò in causa addirittura uno degli ufficiali dei carabinieri che negli stessi mesi venivano colpiti dall’accusa-choc di aver organizzato traffici internazionali di droga di Stato. Cocaina acquistata all’estero da militari infiltrati del Ros, importata in Italia, addirittura raffinata in laboratori clandestini e poi venduta a spacciatori che a quel punto venivano arrestati. Un processo chiuso in Cassazione, dopo le condanne in primo e secondo grado, con un proscioglimento generale. Con una motivazione a suo modo stupefacente: la sentenza finale conferma che erano quei militari a gestire l’intero traffico di droga, ma solo per fare gli arresti, non per arricchirsi; e visto che i pochi spacciatori sfuggiti alla cattura hanno potuto smerciare solo “esigue quantità” di quella cocaina statale, anche le precedenti importazioni di grossi carichi vanno riqualificate come “reati di tenue entità”, ormai cancellati dalla prescrizione. L’anonimo fu spedito ai familiari di Tedeschi, che lo consegnarono personalmente a un alto magistrato della Procura. Ma anche questo documento è sparito. Una lettera anonima, beninteso, non vale niente in un processo. E il suo contenuto appare inverosimile: i militari erano sotto inchiesta a Brescia fin dal 1997 e non sono mai stati accusati di rubare droga in Italia. La lettera potrebbe invece nascondere un depistaggio proprio contro i carabinieri, per proteggere i veri ladri. Anche per questo sarebbe interessante scoprire chi sia l’anonimo, se la lettera non fosse scomparsa dagli atti del procedimento. Un’altra anomalia vistosa è l’assenza di indagini coordinate sui possibili legami con altri maxi-furti di droga statale commessi negli stessi anni. Negli atti di Padova, in particolare, non c’è alcun riferimento a un altro raid clamoroso, realizzato nel 2006 a Milano. Dove oggi i magistrati confermano di non essere mai stati informati della precedente razzia in Veneto. Anche il colpo di Milano è spettacolare ed è tuttora impunito. Il 27 giugno 2006 almeno quattro banditi a volto scoperto, senza armi, entrano nel deposito blindato dell’istituto di medicina legale, in via Mangiagalli, dove rubano almeno 100 chili di cocaina. Quel quintale di droga, all’epoca, vale sul mercato circa 12 milioni. Un blitz da “veri professionisti del crimine”, come li definiscono i magistrati, compiuto in meno di 15 minuti. I banditi entrano dal portone principale, mescolandosi a studenti e dipendenti che affollano l’istituto universitario in quel giorno di esami. Tre sono vestiti di nero, uno con jeans e maglietta. Hanno occhiali scuri e cappellino, parlano italiano senza inflessioni, solo uno ha un accento strano, forse slavo. Il caveau del dipartimento di tossicologia forense è al primo piano. I banditi salgono indisturbati e suonano il videocitofono: mostrano un falso tesserino dei carabinieri e si presentano come militari in borghese, mandati a ritirare un campione di droga per esigenze investigative. All’interno, bloccano una dipendente e la costringono ad aprire il cancello d’acciaio che protegge il caveau e a digitare la combinazione della porta blindata, che pesa otto tonnellate. Quindi sequestrano sei ostaggi, medici e tecnici di laboratorio: quattro uomini e due donne, terrorizzati, che vengono rinchiusi nella stanza blindata con la bocca tappata e le mani legate dietro la schiena con fascette di plastica. I banditi sanno cosa cercare: aprono diversi scatoloni, finché trovano i 100 chili di cocaina, con cui riempiono i loro borsoni. Pochi minuti dopo, se vanno a piedi, con calma. All’uscita, secondo alcuni testimoni, sono attesi da un complice, travestito da carabiniere. I pm Alberto Nobili e Gaetano Ruta aprono un’inchiesta per rapina, sequestro di persona, traffico di droga. E scoprono che le telecamere interne esistono, ma non funzionano: in quei giorni non registrano le immagini. I banditi non lasciano nessuna impronta, nessun’altra traccia. A Milano magistrati e carabinieri indagano a fondo sull’ipotesi di un basista interno, ma senza risultati. Nella conferenza stampa dopo il raid, nessuno menziona il maxi-furto di Padova, nonostante l’identità degli obiettivi: le due indagini restano scollegate, affidate a procure e forze di polizia diverse. A Milano gli inquirenti citano solo i precedenti che conoscono: altri furti organizzati tra il 1999 e il 2000 a Roma, nel caveau del tribunale, grazie a complici poi arrestati. Da Brescia a Sassari, Messina e altre città, è sempre l’ufficio corpi di reato a diventare bersaglio dei ladri. E nei casi risolti, le indagini portano all’arresto di almeno un dipendente interno. Come nei più ricchi furti di droga commessi all’estero, da Parigi a Bogotà, dal Messico al Guatemala, dove vengono accusati poliziotti, militari o altri basisti. A Milano e Padova invece tutti i banditi restano impuniti, liberi di arricchirsi con 17 milioni in eroina e cocaina rubata allo Stato. Bari. Un ex detenuto: “I miei mesi disumani, con altri otto nella cella per tre” di Isabella Maselli La Repubblica, 9 febbraio 2020 L’intervista a Oronzo De Marinis, 41 anni. Il procuratore generale Anna Maria Tosto aveva denunciato che le condizioni della casa circondariale “si avvicinano pericolosamente a quelle considerate “trattamento disumano” dalla Corte europea per i diritti dell’uomo”, con riferimento al sovraffollamento (460 detenuti a fronte di una capienza di 299 posti) e alla gestione del centro clinico penitenziario. “Eravamo in nove in una cella da tre. Se non stavo attento, la mattina sbattevo la testa al soffitto. Come leoni in gabbia”. Si potrebbe riassumere in queste poche parole la testimonianza di Oronzo De Marinis, 41enne di Acquaviva delle Fonti ed ex detenuto nel carcere di Bari, dove è rimasto per qualche mese nel 2004 prima di ottenere gli arresti domiciliari in una comunità per disabili di Spinazzola. La possibilità di scontare la sua pena fuori dalla cella, dopo una scelta di vita che ne aveva fatto uno spacciatore, gli ha permesso di diventare “Un uomo migliore”. Perché, come confermano le statistiche, il tasso di recidiva è più alto per coloro che scontano l’intera pena in carcere. Soprattutto in un carcere come quello di Bari, le cui condizioni, per usare le parole del procuratore generale Anna Maria Tosto, “Si avvicinano pericolosamente a quelle considerate “tratta· mento disumano” dalla COlte eu· ropea per i diritti dell’uomo”, con riferimento al sovraffollamento (460 detenuti a fronte di una ca· pienza di 299 posti) e alla gestione del centro clinico penitenziario. Oronzo, che dagli amici si fa chiamare Enzo, ci ha raccontato la sua esperienza - “drammatica”, l’ha defmita - nel carcere di Bari, dopo essere stato arrestato nel marzo 2004 con l’accusa associazione per delinquere finalizzata a traffico e spaccio di droga. Poi, una vol ta fuori, “il mondo è cambiato”. Oggi ha una famiglia e un’impresa di costruzioni in cui ha assunto un detenuto che sta scontando la pena agli arresti domiciliari e che grazie a lui ha ottenuto un permesso per andare a lavorare. Come definirebbe l’esperienza carceraria? “È un periodo della mia vita che mi fa male ricordare. Per me il carcere è stato un’esperienza drammatica. I detenuti lì, almeno quando ci sono stato io nel2004, vivevano come leoni in gabbia: tutto il giorno fra i quattro muri della cella senza fare niente, con due sole ore d’aria nel cortile del carcere, dove in quel momento ci si ritrova in centinaia. Non c’è niente che rieduca in carcere, è il contrario. Ho visto persone peggiorare”. La sua cella com’era organizzata? “Eravamo in nove in una cella da tre, con tre letti a castello a tre piani, un tavolino e un piccolissimo bagno dietro una tenda. Quando la mattina mi alzavo, se non stavo attento urtavo la testa contro il muro. In cella con noi c’era anche un detenuto in sedia a rotella che aveva difficoltà a muoversi a causa degli spazi stretti. Le docce, poi, erano in comune ed erano gli agenti a farci andare a tumo. In carcere nessuno è più padrone della sua vita, decidono anche quando ti devi lavare”. Ci racconti la sua giornata in carcere... “Sveglia all’alba, fùa al bagno, colazione con latte e caffè, poi quattro o cinque ore a fumare sigarette affacciato alla finestra da dove si vedevano soltanto muri e sbane. Finalmente arrivava l’ora d’aria. Al ritorno si aspettava il pranzo. Vi lascio immaginare cosa significava mangiare in nove attomo a un tavolino previsto per tre persone. Il pomeriggio a volte giocavamo a carte, guardavamo un po’ di televisione in attesa dell’altra ora d’aria. Quindi di nuovo in cella ad aspettare la cena. Ogni giomo così. Non vedevo l’ora che arrivasse la sera per andare a dormire, cofiniva quella tortura. Poi feci richiesta per andare nel cosiddetto cubicolo, la cella più piccola da tre metri per un metro e mezzo che dovrebbe essere singola ma ci stavamo in tre. Un incubo, non c’era spazio neanche per sgranchirsi le gambe. In carcere un mese ti sembra un anno. Il tempo non passa mai”. Dopo quattro mesi ha ottenuto i domiciliari. Cos’è cambiato? “Da quando sono uscito il mondo è cambiato e devo ringraziare il mio avvocato, Alessio Carlucci, e il diacono Pinuccio Angelillo, che ora non c’è più, che mi hanno dato fiducia e mi hanno aiutato a intraprendere un vero percorso di reinserimento sociale. Dopo la scarcerazione ho trascorso un anno e otto mesi agli anesti domiciliari in una struttura della Cmitas a Spinazzola, una vecchia comunità di recupero per tossicodipendenti adibita a centro per disabili. Era molto malandata e io mi offiii di ristrutturarla, visto il mio passato nell’azienda edile di mio padre. Oltre a rimettere a nuovo quella struttura, quando tre volte a settimane venivano le associazioni con i ragazzi disabili li aiutavo a montare i giochi e facevo attività con loro. Poi sono li uscito a tomare nella mia Acquaviva delle Fonti, dove ho trascorso altti 18 mesi ai domiciliari con permesso lavoro in un’impresa edile”. Così ha finito di scontare la pena. Cosa ha imparato? “Dopo la drammatica espelienza in carcere, per me la pena è stata davvero rieducativa. In carcere la tua vita è nelle mani di qualcun altro, non sei più padrone neanche di andare in bagno. In cella, senza fare attività, aspettando che passi il tempo fra una sigaretta e l’altra, il rischio è di rovinarsi di più. Una volta fuori, invece, ho riscopetto la bellezza di lavorare, di scegliere, di accudire la mia famiglia e anche di aiutare gli altri, come ho fatto in quella comunità. E per questo motivo ho voluto assumere nella mia impresa un ragazzo detenuto ai domiciliari, per dargli la stessa opportunità che anch’io aveva ricevuto nelle sue condizioni”. Como. Carcere del Bassone sovraffollato, chiesto un garante dei detenuti Corriere della Sera, 9 febbraio 2020 “La casa circondariale di Como è tra le peggiori d’Italia per i problemi strutturali e sovraffollamento. Ci sono 442 detenuti a fronte di una capienza di 231 e gli agenti della polizia penitenziaria sono pochi rispetto alle necessità”. Lo dice Giulia Crivellini, tesoriera dei Radicali Italiani, che oggi ha partecipato, con una delegazione di nove persone dell’osservatorio Lucio Berté, a un’ispezione al Bassone. “La nostra attenzione è rivolta sia ai detenuti sia al personale - spiega Giulia Crivellini, che ale ultime elezioni politiche ha corso alla Camera per Più Europa nella Circoscrizione di Como - Abbiamo trovato un direttore molto disponibile e attento, ma la situazione è grave. Ci sono ben 204 detenuti tossicodipendenti, che non hanno un’assistenza adeguata e non dovrebbero a nostro avviso stare in carcere. In queste situazioni - ha aggiunto Giulia Crivellini - il rischio di recidiva è praticamente certo una volta tornati in libertà”. I Radicali chiederanno l’istituzione del garante dei detenuti per il Bassone. “Esiste questa figura a livello regionale - dice Crivellini - ma crediamo che Como abbia bisogno di una persona dedicata”. La visita dei Radicali segue di alcune settimane l’azione del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, che ha richiamato proprio l’Italia per le condizioni delle carceri. Como. Il direttore del Bassone: “Lotta all’ozio. Aziende, cerchiamo lavoro” di Stephanie Barone comozero.it, 9 febbraio 2020 Dopo una lunga chiacchierata con Fabrizio Rinaldi, direttore della Casa Circondariale di Como da febbraio 2019, si ha l’impressione che il suo ruolo sia più quello di un tuttofare. Rinaldi, originario di Napoli ma adottato dal Nord Italia da 23 anni, quando ricevette il suo primo incarico come vicedirettore del San Vittore di Milano, era già stato direttore del Bassone tra il 2006 e il 2007. “È una sede che ho chiesto esplicitamente al Ministero, ci ero già stato, conoscevo l’istituto e volevo tornare. Così l’anno scorso ho ricevuto l’incarico”. Non che sia un ruolo semplice quello che si è scelto. “Ho avuto una formazione giuridica, poi ho ottenuto l’abilitazione da avvocato e ho anche praticato per qualche anno - spiega Rinaldi - ma il mio profilo mi ha aperto le porte a una serie di professioni possibili e alla fine ho scelto questa. Di certo mentre ero studente non mi prefiguravo questo lavoro, più che altro perché non è una figura molto conosciuta”. Essere direttore di un carcere non è solamente gestire i detenuti, far scontare la pena e proporre attività per un reintegro positivo nella società civile al termine della detenzione, ma anche gestione del personale (sempre in numero minore rispetto alle reali necessità), manutenzione di una struttura vetusta senza personale qualificato. “La struttura risale agli anni Ottanta e ha diversi problemi, soprattutto di infiltrazioni ma nella struttura non abbiamo personale tecnico che possa far fronte a queste situazioni. Abbiamo solo una squadra formata da alcuni agenti di Polizia Penitenziaria e detenuti che fa fronte alle piccole manutenzioni. In caso di emergenza possiamo rivolgersi a dei tecnici regionali ma nulla di più”. Poi ci sono le pubbliche relazioni per far dialogare la realtà del carcere con il territorio. “La difficoltà più grande di questo lavoro è senza dubbio la complessità gestionale - spiega il direttore Rinaldi - Si passa dall’esecuzione della pena, che richiede attenzione agli aspetti giuridici del mio lavoro, a tutta la parte azienda. Quindi il controllo della contabilità del carcere, la gestione delle esigenze dei detenuti, il rispetto della sicurezza sul lavoro degli agenti”. Tra le problematiche più rilevanti del carcere Bassone di Como - dove ci sono detenuti che devono scontare un massimo di 5 anni di pena, c’è senza dubbio quella del sovraffollamento. I dati di inizio 2020 parlano di 430 detenuti (di cui 222 stranieri e 50 donne) malgrado la capienza massima della struttura penitenziaria comasca sia 231. Meno della metà, 200, gli agenti di Polizia Penitenziaria in forze. “Un altro dato significativo è 300, ovvero il numero di definitivi, i detenuti che hanno già terminato l’iter processuale, sono stati ritenuti colpevoli e che quindi stanno effettivamente scontando la pena detentiva - aggiunge Rinaldi - Nel caso del Bassone, una casa circondariale, si tratta di detenuti che hanno compiuto reati per un massimo di 5 anni di pena. Con loro bisognerebbe lavorare di più in termini di trattamento, per un rientro positivo nella società a fine pena, ma per farlo ci servirebbero molti più funzionari giuridico-pedagogici, ovvero educatori, che purtroppo al momento sono inferiori alle nostre esigenze”. Il direttore aggiunge infatti: “Per me è importante offrire opportunità affinché il periodo che i detenuti trascorrono in carcere venga impegnato in qualcosa di utile. Attraverso il lavoro durante il periodo di detenzione si avvia infatti anche un percorso di responsabilizzazione, evitando una pericolosa tendenza all’ozio”. E proprio su questo tema il direttore sta lavorando da quando è tornato a Como: obiettivo far dialogare la struttura penitenziaria con il territorio. “In questi mesi mi sono confrontato con diverse realtà e ho cercato di testare le disponibilità che mi sono giunte per organizzare nuove attività all’interno del carcere ma anche di stimolarne di nuove. Ad esempio sto cercando di implementare il numero delle aziende che offrono lavoro ai detenuti (fuori o dentro il carcere, Ndr) e che possono godere della Legge Smuraglia che concede loro sgravi fiscali”. Diversi, ad ogni modo, sono i corsi attivi per i detenuti. Tra i più celebri sicuramente “Sperart”, un laboratorio artistico tenuto da Angiola Tremonti, ma anche “Cucinare al Fresco” di Arianna Augustoni in cui i detenuti organizzano delle ricette che poi vengono pubblicate nell’omonima rivista. Inoltre il Cpia 1 (Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti) di Como organizza corsi di formazione scolastica all’interno della struttura carceraria e non mancano letture condivise con autori di libri. Guardando invece ai laboratori, Ersaf (Ente Regionale per i Servizi all’Agricoltura e alle Foreste) tiene un corso di lavorazione e intaglio di bastoni da passeggio in legno mentre la cooperativa Omofaber affida piccoli lavori di grafica al computer ai detenuti che hanno seguito il corso. Molto però c’è ancora da fare calcolando che l’associazione Antigone, autorizzata dal Ministero della Giustizia a visitare i quasi 200 istituti penitenziari italiani per valutarne le condizioni, nel rapporto 2019 indicava che solo il 5,7% dei detenuti del Bassone frequenta un corso di formazione professionale (rispetto alla media nazionale del 64,3%), il 28,8% quelli scolastici (74,0% è il dato nazionale) e che il numero di detenuti per ogni educatore è 227,5 (contro la media del 77,8%). Il suo sogno? “Riuscire a creare migliori condizioni di vita per i detenuti ma anche di lavoro per il personale di guardia” ha concluso Rinaldi. L’Aquila. All’ospedale di Sulmona apre un reparto per i detenuti ilcapoluogo.it, 9 febbraio 2020 Lunedì 10 febbraio aprirà il reparto per detenuti dell’ospedale di Sulmona. Apre il reparto per detenuti nel nuovo ospedale di Sulmona. Da lunedì prossimo, 10 febbraio, saranno disponibili 2 camere di degenza, da utilizzare per il ricovero degli ospiti del carcere peligno. Il cosiddetto repartino per detenuti, situato al terzo piano del nuovo presidio ospedaliero di Sulmona, consentirà di offrire un’assistenza adeguata ed efficace alla popolazione carceraria e segnerà un vero e proprio salto di qualità. L’attivazione delle 2 camere di degenza permetterà al servizio di medicina penitenziaria della Asl di rispondere al meglio alle necessità di salute della popolazione carceraria che comprende numerosi detenuti anziani, affetti da malattie croniche, anche over 70. L’apertura del reparto detenuti a Sulmona, peraltro, porterà a un potenziamento dell’intero apparato di assistenza penitenziaria della Asl che ha una platea complessiva di popolazione carceraria, tra Valle peligna, Marsica e area aquilana, di circa 750 persone, una delle più vaste in Abruzzo. In questo senso sarà molto importante la realizzazione di un nuovo padiglione, già finanziato e in via di costruzione, accanto all’attuale penitenziario di Sulmona, destinato a ospitare altri 200 reclusi. Il carcere di Sulmona potrà contare così su ulteriori spazi che si riveleranno fondamentali per ridurre i problemi di sovraffollamento dovuti alla presenza dei suoi attuali 500 ospiti. Avellino. “Il carcere di chi è? Il carcere è un affare collettivo” di Giulia D’Argenio orticalab.it, 9 febbraio 2020 Carolina Maestro, dall’Italia alla Spagna per la ricerca di modelli di dignità. Incontro con l’autrice del libro “La bic nera”, attualmente impegnata in un dottorato di ricerca all’Università di Foggia sul tema dell’insegnamento ai detenuti. Un’esperienza che l’ha portata in Spagna, ad Almería, per un illuminante periodo di osservazione dell’organizzazione carceraria oltremare: “La differenza sostanziale sta nella concezione della persona e della pena come mera fase di passaggio”. Quel che sta accadendo nelle carceri italiane è sempre più convintamente considerato il rovescio esatto di una società segnata da violenza - più o meno latente - e marginalità crescenti. Sul punto, chiare furono le parole del Garante per i diritti dei Detenuti della provincia di Avellino, Carlo Mele, che volle sottolineare soprattutto l’abbassamento dell’età media dei detenuti e del loro livello di alfabetizzazione. Giovani, con poca istruzione, figli di una società che ha abdicato alle proprie responsabilità educative collettive, lasciando i ragazzi a cavarsela da soli alle prese con una vita di illusioni e falsi miti. E proprio per tutto questo l’istruzione in carcere finisce per assumere un valore ancor più rilevante, un ruolo centrale per qualsivoglia percorso detentivo che non sia solo espiazione ma anche preparazione ad un ritorno in società nella legalità ed in dignità. “Il mio attuale percorso di ricerca e formazione mi sta confortando non poco, confermando le convinzioni già maturate ai tempi del mio incarico come insegnante in una sede carceraria”. È ancora Carolina Maestro a parlare: l’autrice del libro “La bic nera”, una raccolta che racconta alcuni tra gli episodi più significativi del suo periodo di insegnamento proprio ad Ariano, presso la scuola della Casa Circondariale “Pasquale Campanello”. Da quell’esperienza, Carolina ha preso spunto per elaborare un progetto di ricerca che le ha aperto le porte del dottorato di ricerca in “Cultura, Educazione, Comunicazione” all’Università di Foggia e che l’ha recentemente portata fino in Andalusia, per visitare il carcere di Almería, nella Spagna meridionale. “Quel che mi ha maggiormente colpita è stata la concezione completamente diversa della pena e, dunque, dell’organizzazione stessa del carcere: una vera e propria casa all’interno della quale, fermo restando il regime di reclusione, si lavora per la responsabilizzazione e dunque il riscatto ed il pieno recupero della persona. Lì il carcere è organizzato in moduli - che corrispondono ai nostri padiglioni - dove i detenuti sono suddivisi in base al tipo di reato commesso ed ogni modulo ha le proprie infrastrutture: dalle aree comuni, alla cappella, passando per la palestra e l’infermeria. Le giornate sono organizzate in modo che siano gli stessi detenuti a prendersi cura degli spazi, assolvendo mansioni specifiche in un’ottica, per l’appunto, di responsabilizzazione. Proprio per questo i detenuti sono lasciati liberi di muoversi all’interno dei moduli, nel massimo rispetto della loro dignità: mi ha colpito molto il fatto che, durante un’intervista, una detenuta fosse stata chiamata in infermeria, dove erano arrivati i medicinali di cui aveva bisogno”. Un universo profondamente distante da quello italiano per motivi di ordine materiale ma anche di carattere culturale. “È pur vero che stiamo parlando di una popolazione carceraria meno numerosa di quella italiana, ma la distanza tra il sistema carcerario italiano e quello spagnolo si spiega con un principio molto semplice: lì la pena viene vista come una fase racchiusa in un tempo determinato, un passaggio, superato il quale la persona deve poter tornare in società. L’espiazione non è eterna. Ad Almería ho parlato con detenute che avevano le lacrime agli occhi mentre mi raccontavano dei loro insegnanti - maestri di scuola primaria, in accordo che l’idea che in carcere la ri-educazione della persona debba ricominciare praticamente daccapo - e della forza che questi avevano dato loro. Una in particolare mi ha fatto comprendere il concetto della pena come passaggio transitorio: una ex-poliziotta, grata alla sua maestra che le aveva fatto comprendere che, al di là del carcere, c’è ancora la vita”. La persona come bene comune, la persona che protagonista della società: una società che può essere migliore solo se migliori sono le persone che la compongono. A conferma della validità di questo principio, i dati sulla recidiva che, in Spagna, sono decisamente più bassi che in Italia dove il carcere, invece, è una gabbia che chiude bestie in cattività. “Un mio alunno ad Ariano mi disse una frase che non potrò mai dimenticare: “Professoré, noi usciamo da qua dentro con una violenza addosso che non potete avere idea”. Una frase, poche parole che riassumono l’essenza del problema: per noi in Italia il carcere è una gabbia dove vivono racchiuse persone private della loro umanità, in una cattività che ne accresce la frustrazione e la violenza. Ad Almería mi ha lasciata di stucco la scoperta dell’esistenza, all’interno dei moduli, di una stanza dove, una volta al mese per quattro ore, i detenuti possono ricongiungersi con i loro cari in totale privacy ed intimità, senza che nessuno li controlli. Che siano i genitori o i compagni, è un modo per salvaguardare la sfera affettiva ed il benessere fisico del detenuto. All’inverso da noi la sofferenza emotiva del carcerato, recluso in celle sempre troppo piccole e sovraffollate, con un’assistenza medico-sanitaria estremamente carente, è un’altra urgenza alla quale non si pone troppa attenzione. Questa scarsa sensibilità verso il detenuto in quanto essere umano con dei diritti ed una dignità al pari di qualsiasi altro cittadino, lascia trasparire quasi un senso di condanna permanente: come se chi avesse sbagliato fosse destinato a portare il marchio del carcere a vita, a vestire l’onta della vergogna in maniera permanente e a dover espiare senza possibilità di riscatto alcuna”. Questo sul piano generale: un quadro desolante all’interno del quale emergono con forza alcune esperienze particolarmente felici che rappresentano, tuttavia, dei casi isolati. “Il carcere di Volterra, con le sue iniziative di interazione ed apertura al territorio, è un’eccellenza indiscussa. Ma lì, come ad Ariano o altrove in Italia, stiamo parlando di sperimentazioni che nascono dalla buona volontà dei singoli. Non vi è alcun piano preordinato, organicamente definito dal livello nazionale e questo comprime l’efficacia anche delle esperienze più propositive perché l’ambiente generale resta in sostanza sfavorevole al reinserimento del detenuto. Lo stesso vale per la scuola o l’università: molte iniziative lodevoli sono riconducibili alla passione ideale dei docenti. A tal proposito mi torna in mente una domanda posta da uno dei relatori al convegno “Oltre il carcere”, recentemente promosso dalla piattaforma Epale all’Università di Bari, che si chiedeva: “Il carcere di chi è?” Detta altrimenti quella domanda potrebbe così esser rielaborata: siamo consapevoli che il carcere è un affare collettivo, che riguarda la società complessivamente intesa? La risposta temo sia, purtroppo, negativa. In Italia i temi che riguardano la detenzione e la pena quale percorso di rieducazione non suscitano grande interesse: né tra gli addetti ai lavori, né in ambito socio-culturale. Anche la scuola è disattenta, spesso dimenticando la propria missione di agente di cambiamento, riscatto ed emancipazione a servizio delle persone. Qualsiasi sia la loro età o la loro condizione. Il mio augurio, dopo la straordinaria esperienza spagnola, è che anche l’Italia, prima o poi, vada oltre lo studio delle buone prassi per importarne ed elaborarne proprie”. Salerno. Una margherita per la libertà, il riscatto è davanti ai forni La Città di Salerno, 9 febbraio 2020 Un progetto coraggioso e ambizioso che già guarda oltre la reclusione ed i pregiudizi. La pizzeria sociale nel carcere di Salerno è una realtà tutta salernitana che nasce dalle buone prassi, dall’incontro tra Istituzione e associazionismo locale. Lo scorso 5 febbraio le porte del carcere si sono nuovamente aperte per una iniziativa di raccolta fondi, 75 persone hanno varcato il “confine” ed hanno gustato un’ottima pizza preparata e servita dai detenuti impegnati nel progetto di formazione. In cucina, ai forni, Salvatore Di Tota, 47 enne di Scampia, recluso da 4 anni e con altri 12 anni di pena da scontare e Domenico Cocco, sotto la supervisione del tutor Gerardo Nappi, si apprestavano ad infornare le pizze, impasto con lievitazione di 48 ore e 70% di idratazione, in sala invece il 22 enne Amin, di origini marocchine e Carmine, 39 enne di Nocera Inferiore servivano, con cortesia e garbo, le pizze fumanti appena sfornate. In tutto sono 10 i detenuti che seguono un corso per pizzaioli, finanziato dalla Regione Campania ma l’obiettivo è quello di coinvolgerne in un prossimo futuro almeno altri 10. La mission è quella di dare una possibilità a chi esce dal carcere di avere un’opportunità di reinserimento lavorativo ma anche di creare occupazione all’interno del carcere, in modo che chi sconta la pena possa strutturare la fiducia in sé stesso, negli altri, nelle istituzioni e nello Stato. La pizzeria nata in un deposito inutilizzato al piano terra della struttura, è frutto di un protocollo di intesa siglato oltre un anno fa tra le istituzioni coinvolte dall’associazione Rete Solidale. Oristano. “Il carcere è un luogo per espiare la pena, non pena stessa” linkoristano.it, 9 febbraio 2020 Confronto tra i Garanti delle persone private della libertà personale della Sardegna. Il carcere deve essere il luogo dove la pena dei detenuti viene espiata e non la pena stessa. È quanto è emerso stamattina a Oristano, sede del primo incontro dei Garanti delle persone private della libertà personale organizzato in Sardegna dopo l’apertura dei nuovi istituti di detenzione per l’Alta Sicurezza. L’appuntamento è servito per un confronto sulle criticità registrate durante gli accessi da parte dei garanti stessi negli istituti penitenziari e in occasione dei colloqui con i detenuti ospiti. Al dibattito hanno preso parte il Garante di Oristano Paolo Mocci; il garante di Sassari, Antonello Unida; la garante di Tempio, Edvige Baldino e la garante di Nuoro, Giovanna Serra. Alla riunione è intervenuta anche Grazia Maria De Matteis, Garante dei diritti dell’infanzia della Regione Sardegna, presentando un progetto che punta a favorire il mantenimento dei rapporti tra genitori detenuti e figli, favorendo l’accesso negli istituti di detenzione dei figli minori dei reclusi secondo i dettami del Protocollo sottoscritto dal Ministero della Giustizia e l’Autorità Garante Nazionale per l’infanzia e l’adolescenza. Presenti anche l’assessore comunale Angelo Angioi e i consiglieri Carmen Murru, Lorenzo Pusceddu e Peppi Puddu e la presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, Maria Grazia Caligaris. “Da quando sono stati istituiti i carceri di alta sicurezza, ancora non si era riusciti a far una riunione, ma è grazie a questo incontro che sono emerse criticità che sono endemiche e fisiologiche di tutte le carceri”, ha commentato il garante di Oristano, Paolo Mocci, ringraziando l’amministrazione comunale per l’ospitalità. “Non siamo buoni, siamo giusti”: viaggio a Padova, capitale europea del volontariato di Francesca Sironi L’Espresso, 9 febbraio 2020 Sono tante le realtà attive che sostengono i disabili, integrano gli immigrati, lavorano nelle periferie. Ma con la stessa missione: superare l’assistenzialismo. Il volontariato “deve essere uno stimolo per costruire. Non un santo a cui affidare tutto”. Patrizia corre fra attrezzi di cantiere e pareti ancora da stuccare. A giugno queste stanze saranno un bed&breakfast: a Padova ne aprono in continuazione, per ospitare turisti attratti da Giotto o pellegrini di Sant’Antonio. Questo però sarà unico: verrà gestito da giovani down. La corsa di Patrizia è un biglietto da visita ideale del modello di solidarietà che ha trasformato la città veneta nella Capitale europea del volontariato per il 2020. Dal 7 febbraio comincia l’anno dedicato a “Ricucire insieme l’Italia”, ma il laboratorio civico che lo ha reso possibile è iniziato da tempo. Tante realtà attive e che sembrano condividere tutte, a prescindere dall’ideologia o dal settore, una stessa missione: superare l’assistenzialismo. Vogliono fondare esempi di solidarietà costruiti sull’autonomia dei più fragili, liberandoli dall’eterna dipendenza da un benefattore, da un patrono. O dallo Stato: le oltre 6mila associazioni della provincia di Padova hanno bilanci per 12 milioni di euro, mostra il rapporto annuale del Centro servizi per il volontariato (Csv). E solo il 22 per cento di questi fondi, nel 2019, erano contributi pubblici. Il no profit qui vuole farsi da sé. Patrizia Tolot cerca la chiave giusta in un mazzo che peserà un chilo, neanche San Pietro: “Scusa, è che avendo dodici sedi...”. I molti indirizzi non sono un caso. Ma un metodo. Insieme a un gruppo di genitori di Padova, Patrizia è l’anima di “Down Dadi”, un’associazione - ora anche cooperativa e fondazione - che conta trecento iscritti. Fra loro ci sono novanta ragazzi che partecipano ogni giorno alle attività: un negozio dove vendono oggetti costruiti da loro; appartamenti condivisi dove abitano; sale dove vanno a ballare. L’obiettivo è uno solo: “L’autonomia. Quando ho affrontato la disabilità di mio figlio, l’unica risposta delle strutture sanitarie era: il centro diurno. Lo accompagni lì, lui fa i “lavoretti”, mangia, e poi lo riporti a casa. È vita questa? Per me no. Ho tre figli maschi. Per tutti e tre ho sempre cercato il meglio”. Sfruttando ogni ora libera dal suo lavoro di insegnante, Patrizia ha avviato una rete che si impegna affinché le persone down possano lavorare, vivere da sole, prendere i mezzi, andare al bar con i colleghi, parlare di sessualità e di affetti. “Uno degli aspetti più difficili è convincere i genitori a credere nella possibilità che anche i figli disabili possano essere indipendenti; con un supporto esterno impegnativo, certo, ma indipendenti. L’altra sfida sono i conti: se volessimo ricevere finanziamenti pubblici dovremmo avere strutture solo con porte di tot centimetri, gestire i turni in modo rigido... Impossibile per i nostri progetti diffusi. Troviamo così fondi privati per pagare gli operatori”. La spinta ad arrangiarsi, anche nelle risorse, è una forza. Che rischia di diventare una condanna: per rispondere a bisogni che dovrebbero essere coperti dalle istituzioni, c’è il pericolo che le amministrazioni se ne approfittino. Delegando ad altri la responsabilità di garantire strumenti e mezzi a chi sta ai margini. “Sono un volontario, non uno stupido”, risponde a questo rischio Emanuele Alecci, presidente del Csv padovano e artefice della candidatura europea: “Solo nell’emergenza va bene operare per anticipare lo Stato. Ma il nostro compito è fare pressione alle istituzioni perché agiscano come e dove serve”. I volontari non devono essere supplenti delle burocrazie ma un’avanguardia, spiega, flessibile e libera. E un pungolo: “Io insisto sempre: se non è politico non è volontariato”. Una vita nel sociale (“ma lavoro alle Poste, dedico semplicemente il mio tempo”, sottolinea), per spiegare perché Padova sia diventata capitale del volontariato, Alecci ricorda le radici dell’esperienza di Monsignor Nervo, staffetta partigiana e fondatore, da qui, della Caritas; l’apertura di Banca Etica; la prima missione del Cuamm, medici con l’Africa, partita sempre qui nel 1950. Ma più che la storia è la spinta contemporanea a voler rinnovare una visione della pratica solidale, a cementare un anno di iniziative che vuole essere un manifesto: “dobbiamo riuscire a attrarre giovani e adulti con progetti concreti, e una proposta nuova”. Per entrare nel sociale Doc del Nord Est bisogna andare in via Tiziano Aspetti 23, al confine del quartiere popolare di Arcella. Don Luca Favarin indossa una giacca di velluto blu a coste e beve vino biologico “Rosso Arcaico” insieme ad alcuni operatori della cooperativa “Percorso Vita” che ha fondato con Irene Pavanello. Anche questo bar, “VersiRibelli”, è un nodo della loro impresa sociale: vini bio, cicchetti veneti, luci calde, barman richiedenti asilo. “Non voglio che la gente venga qui “perché ghe xe i moreti”, per sentirsi buona. I giovani lo frequentano perché è bello, punto”, inizia Favarin: “Io non sopporto il buonismo. Quello che cerchiamo di fare con la cooperativa è proprio superare l’atteggiamento buonista e assistenzialista tipico di un certo mondo cattolico”. Da prete con queste idee e queste pratiche, Favarin è scomodo a tutti, dice: non piace “alle parrocchie che parlano di “micro-accoglienza”, uno profugo per chiesa. Un sistema che trovo sbagliatissimo, perché crea solitudine e dipendenza”. Non va a genio a una certa sinistra “per la quale una cooperativa è bella solo se è in crisi. Mentre noi abbiamo un bar, un ristorante, un’azienda agricola, e fatturiamo”. Ed è ovviamente odiato dalla destra “perché quante volte mi son preso gli sputi addosso, gli insulti, le gomme bucate, i picchetti organizzati sotto le case dove portavamo accoglienza. Poi però quando le cose funzionano, guarda un po’, i picchetti si sciolgono”. Favarin è stato missionario in Africa. Quando è tornato, ha deciso che serviva una scossa. “Vengo dal volontariato e penso che sia sacro. Proprio per questo ha bisogno di un recinto però. Volontariato e lavoro sociale non sono sovrapponibili. Donare tempo è una missione evangelica, mentre la professionalità di un lavoro, anche nel sociale, va riconosciuta in quanto tale”. Per questo ha fondato iniziative solidali che vogliono essere imprese che funzionano, non che vivacchiano su contributi pubblici. “Non facciamo questo mestiere perché siamo buoni ma perché siamo giusti. La bontà passa, la giustizia resta”, continua: “Nelle nostre strutture rifiutiamo l’approccio infantilizzante che si ha normalmente con i richiedenti asilo. Dire “poverini” è esercitare una visione capitalistica, perché tende a rinnovare continuamente uno squilibrio di potere, dove loro sono condannati a essere deboli e “poverini”, gli altri bravi benefattori. Questa non è integrazione, è sudditanza. Noi cerchiamo di far sì che gli immigrati possano invece costruirsi la loro strada. Imparare un mestiere, lavorare, andare nel mondo a testa alta. Non devono essere costantemente segnati dalla condizione di partenza, di “poveri immigrati”. Mauro Rolle detto Pablo è comunista, dice, ma ha incontrato Don Luca e scelto di partecipare a questa “missione laica che vuole smontare il pietismo costruendo un nuovo discorso sociale”. Anni di attivismo alle spalle, Pablo ha due lavori, tre figli, una moglie “che minaccia sempre di lasciarmi perché non ci sono mai: ma per me il tempo è una categoria fordista, è fondamentale metterlo a disposizione della comunità”. Ha un’associazione che si chiama “Mille e una Arcella” per dare orgoglio al quartiere dove abita. E una professione da cuoco, che esercita soprattutto a “Strada facendo”, il ristorante di “Percorso vita” dove vengono formati richiedenti asilo. “Guarda: siamo diventati il primo ristorante di Padova su Tripadvisor. Nei commenti alcuni fanno riferimento al valore del progetto, all’inclusione, ma la maggior parte scrive solo del menù, del servizio e del prezzo. Vuol dire che sta funzionando. Quest’anno abbiamo chiuso i bilanci in pari e possiamo continuare a assumere”. A parlare sono Carolina e Stefano Ferro, osti, formatori e volontari del ristorante. Un passato in Banca Generali, un presente da consigliere comunale - “non sono mai stato così a corto di soldi ma va bene così, fra non molto sarò in pensione” - Ferro è convinto “che il volontariato deve essere sprone perché il pubblico eserciti il suo ruolo”. Non è facile: “Sono andato decine di volte al ministero dell’Interno, insistendo perché riconoscano un permesso a chi si integra e trova lavoro. Altrimenti che senso ha l’accoglienza? Avevamo un aiuto cuoco nigeriano, bravissimo. Gli hanno respinto ogni richiesta di protezione. È finito clandestino a Rosarno, nei campi. È riuscito dopo mesi a raggiungere Lisbona. Ora è assunto in un ristorante di successo. La legge ci fa perdere”. L’altra convinzione di Stefano e Carolina è che l’integrazione “passa dal lavoro vero. Non da quella parvenza dei lavori socialmente utili, che servono solo a gratificare gente con la coscienza sporca, dando in pasto agli odiatori un’immagine ammaestrata”. Entrambi sono appena tornati da Lesbo, dove sono stati grazie a una “carovana”, un’iniziativa di solidarietà, organizzata da Angela e Zeno. Angela, precaria, dopo un master in pasticceria è finita a fare tirocini da 16 ore al giorno sotto grandi chef. Ha detto basta dopo due anni di sfruttamento. Adesso produce e vende i suoi dolci ai mercati di “Genuino clandestino”. “Siamo andati a Lesbo a ottobre perché non ci bastava leggere dello stremo e delle condizioni indegne in cui l’Europa lascia lì in balia oltre 25mila persone. Dovevamo fare qualcosa”, racconta: “Siamo tornati e abbiamo lanciato una raccolta fondi per portare kit igienici al campo. Ci sono cose impossibili da trovare sull’isola, come gli assorbenti. Abbiamo raccolto 15mila euro, che sono diventati materiali consegnati a dicembre ai profughi”. Il 22 febbraio da Bolzano partirà un’altra carovana per aiutare i rifugiati bloccati lungo la rotta balcanica. Stesso obiettivo: rispondere a bisogni concreti, trasformando l’azione volontaria in mobilitazione sociale. “Alle nostre assemblee ci sono persone dai 22 ai 70 anni”, raccontano Salvatore e Maria, rappresentanti della “Clac”, uno spazio appena sgomberato dall’ex mattatoio di Padova, dove da anni si riuniscono speleologi, artisti e volontari di “Cucine briganti”, che ogni venerdì raccolgono merce in scadenza ai mercati per offrire pranzi di comunità. Il 12 febbraio incontreranno il sindaco per capire il futuro dello spazio. La giunta di centrosinistra, eletta nel 2017 grazie a una coalizione allargata, che anticipava il modello di collaborazione fra liste civiche e partiti a cui ha fatto appello di recente anche Romano Prodi dopo la vittoria in Emilia-Romagna, promette ascolto. “Ma un ascolto che valorizzi le dinamiche collettive: l’ex sindaco leghista Massimo Bitonci organizzava sedute chiamate “il sindaco ascolta”, ma erano individuali, per pochi minuti. È un modello distorto”, riflette Cristina Piva, assessore locale con delega al volontariato. “Tutto passa invece dalle dinamiche cooperative che riesci a creare”, prosegue Arturo Lorenzoni, vicesindaco, professore di ingegneria ambientale che confessa di aver imparato in campagna elettorale a preferire il titolo di “ingegnere” a quello di professore. È più radicato nella realtà, dice. “Le associazioni sul territorio riescono a intercettare prima e meglio i nuovi bisogni”, continua: “penso al problema della non-autosufficienza, o della solitudine. In questo lavoro di ascolto e risposta il partito è un mediatore distonico. Un gruppo di dottorandi padovani aveva avviato un servizio di sostegno gratuito, a domicilio, per gli anziani. Si riunivano a Casetta Berta, uno spazio sgomberato dall’agenzia regionale per le case popolari poco fa”. La città di cui si era parlato in tutta Italia per il muro di via Anelli, che ghettizzava alcuni palazzi considerati problematici per via dello spaccio, sembra voler cambiare verso. “Ho sempre fatto l’imprenditore. Pensavo di conoscere la città, ma solo diventando sindaco ho scoperto la forza straordinaria delle associazioni”, conclude Sergio Giordani, il sindaco, alzandosi per andare a un altro appuntamento (“odio arrivare in ritardo”): “Quello che ho scoperto è soprattutto l’orgoglio di queste migliaia di volontari”. L’orgoglio, gran motore. Renzo Frisio riparava macchine da scrivere e attrezzature d’ufficio. Oggi è uno dei quattro pensionati volontari che garantiscono l’apertura del battistero del Duomo di Padova, meraviglia dipinta nel Quattrocento da Giusto De Manabuoi: “Il Medioevo è la mia passione. Sapevi che Petrarca cambiò nome per dissociarsi dal padre, Petrocco, indagato per corruzione? Vieni, te lo indico. C’è tutto qui: c’è il bene, il male, la povertà, la disuguaglianza, la ricerca di giustizia”. Renzo continua a spiegare, mentre una restauratrice cinese saluta, tornando sul trabattello con le sue colleghe, e la città fuori prepara i festoni per l’inaugurazione dell’anno del volontariato. Quando le religioni si sostituiscono alla politica di Luigi Vicinanza L’Espresso, 9 febbraio 2020 Nell’era delle grandi insicurezze globali, il pensiero laico e illuminista sembra non riuscire più a fornire una risposta alle coscienze. Il grande disordine ci sovrasta e ci sgomenta. Penetra nelle nostre case attraverso il Web, le tv, i giornali. Alimenta un senso di insicurezza che si dipana lungo linee immaginarie da Nizza a Cleveland, da Istanbul a Tripoli, da Londra a Milano. È la globalizzazione della paura. L’instabilità come motore delle vicende umane. Il Grande Disordine è il titolo di copertina di questa settimana. Una bussola per provare ad orientarsi in un’estate, questa del 2016, segnata da una sequenza di avvenimenti internazionali impressionanti. Apparentemente sconnessi gli uni dagli altri; eppure destinati a tratteggiare la mappa del futuro prossimo. Le forze irrazionali della Storia, avrebbe detto Benedetto Croce, si stanno impadronendo del campo. E non c’è più una nazione guida, un blocco di Stati alleati in grado di costruire un nuovo ordine mondiale. Così come invece accadde dopo la Seconda guerra mondiale con la competizione Usa-Urss e il duraturo equilibrio del terrore, secondo la celebre definizione coniata negli anni della corsa agli armamenti nucleari. Siamo immersi nell’era dall’assenza. Mancano modelli di società in grado di supplire il crollo degli schemi novecenteschi. Il welfare occidentale “dalla culla alla tomba” e il comunismo sovietico affamatore ma con un tozzo di pane per tutti sono stati entrambi sostenuti per decenni, prima ancora che da teorie economiche, da un pensiero forte. Dall’una e dall’altra parte della cortina di ferro. Scrittori, filosofi, artisti, scienziati, registi, cantanti, giornalisti hanno dato corpo a una visione, individuale e collettiva al tempo stesso. Che facessero sognare l’ american way of life o che evocassero il sol dell’avvenire, gli intellettuali sono stati determinanti nel dare una coscienza di massa all’era industriale. Non sembra più così ora. L’ultimo quarto di secolo ha segnato il trionfo della globalizzazione dei mercati e della finanza internazionale, divinità inique di una società ingiusta. Poteri opachi e irresponsabili, molto più potenti dei governi nazionali, fuori da qualsiasi controllo che abbia una parvenza di democrazia. Totem intoccabili e vendicativi davanti ai quali si è prostrato il pensiero debole delle élite sia in Europa che in America. Ce ne siamo già occupati, sottolineando il paradosso delle nostre democrazie: stanno entrando una dopo l’altra in crisi attraverso l’esercizio più democratico che vi possa essere, il voto popolare. È già accaduto con il referendum britannico, può accadere negli Stati Uniti di Trump, è in incubazione nella Francia di Marine Le Pen. Altro che sistemi elettorali e riforme costituzionali, intorno a cui ci arrabattiamo noi italiani. Siamo nel pieno di una crisi epocale. E paradossalmente, nello sbandamento provocato da tumultuosi cambiamenti, quali sono i campioni di un pensiero forte? Non prendetela come una bestemmia, ma le religioni monoteiste del Mediterraneo sono le forze capaci di mobilitare masse enormi di esclusi. Sia pure con obiettivi completamente diversi. C’è papa Francesco, con il suo cristianesimo pauperista ed egalitario, capace tuttavia di trattare da posizione di forza con Castro e Obama, con Erdogan e Putin sulle grandi questioni di geopolitica. Unico vero leader mondiale in grado di emozionare anche chi, al dono della fede, antepone l’esercizio del laico dubbio. C’è poi l’Islam dispotico ed espansionista, elemento identitario per popoli sparsi in almeno tre continenti, Africa, Asia, Europa. È lo spettro che agita le nostre coscienze occidentali, disabituate a confrontarsi con il timore e il tremore che il mistero della religiosità suscita nelle masse. Se l’orrore dell’autoproclamato Stato islamico è il frutto avvelenato di un dio senza pace né misericordia, l’islamismo - per quanto lo si possa definire moderato - assume i caratteri della reazione popolare contro le élite occidentalizzanti. Il moderno sultanato di Erdogan è il distillato di una società con radici profonde. Sovversivo e autoritario per volontà popolare. Né si può dimenticare Israele dove, pur nella laicità delle istituzioni statali, l’identità religiosa è questione consustanziale alla sua esistenza. Insomma, nel nostro smarrimento, le identità religiose ci costringono a ripensare la realtà. Non è un caso se proprio sulla Francia, culla della cultura illuminista e del pensiero libero, si accanisca l’odio del fanatismo islamico. Facciamo fatica a capire e dunque a reagire. Il sonno della ragione ancora una volta genera mostri. L’eredità che Emanuele Severino ha lasciato al mondo di Biagio De Giovanni Il Riformista, 9 febbraio 2020 La scomparsa di Emanuele Severino crea un vuoto di sapienza nel mondo, una sorta di diminuzione della Mente collettiva che forma l’identità complessa di una società. Anche perché il filosofo, che aveva compiuto i novanta anni, continuava instancabilmente a pensare e, la dico così, a vigilare sulle tendenze del mondo, sul senso della Vita, sul significato e sulla trasformazione della civiltà europea. Bisogna, però, sgombrare il campo da un equivoco, o meglio da una vera e propria tesi che ha una storia risalente, ma che ha molto séguito nei nostri tempi: che tutto il pensiero ormai sia affidato ai saperi della scienza, alla loro ricerca ormai senza confini, sul cosmo e sull’uomo, e che la filosofia sia ormai fuori corso, come moneta cattiva scacciata da quella buona. Diffidate, diffidiamo di questa idea. Si dà il caso che l’uomo sia un animale metafisico, che “agli uomini - come scriveva Thomas Mann - è dato l’assoluto questo è un fatto positivo, sia esso una maledizione o una benedizione. L’uomo è impegnato con l’assoluto, la sua essenza è tesa verso l’assoluto”. E la ragione è che l’uomo ha la coscienza, e dunque il dubbio, la scelta, l’incertezza della volontà, ed è l’animale con la coscienza della propria morte che si può trasformare in angoscia o in grandiosa spinta alla volontà di vita, e a pensare la Vita. E ha assaggiato il frutto che ha distinto il Bene dal Male. Dicendo questo non ci allontaniamo da Severino, anzi le cose accennate sono un modo di introdurlo tra noi, di invitarlo al dialogo intorno a un tavolo ideale. Giacché il filosofo era proprio assillato dal tema della finitezza, ed aveva un suo modo originalissimo per rispondere all’unica vera domanda della filosofia di ogni tempo: come si salva il finito, questo finito che noi stessi siamo, dalla contingenza, dalla propria scomparsa? Severino rispondeva con una idea che può apparire misteriosa, qualcuno diceva “paradossale”, cosa che a lui dava un senso di fastidio, e diceva: tutto è eterno, l’essere degli enti è principio eterno e sostanziale di tutto, nulla e nessuno per davvero muore, e aggiungeva una idea che è stata la guida del suo pensiero, legata ai suoi sviluppi che riguardano infine la tendenza del mondo di oggi. Ecco questa idea, qui proposta nella forma più semplice: la follia dell’Occidente, dai Greci in giù, è quella di aver progressivamente distrutto l’idea stessa dell’Eterno, di aver immaginato che tutto diviene, e che questo divenire di tutto, che è divenire del divenire stesso, significa che le cose vengono fuori dal nulla e vanno nel nulla. E questo mutare vorticoso di tutto trascina la stessa civiltà europea verso una stazione dove la Tecnica, la vera potenza trasformatrice, divora tutte le altre potenze della vita, se ne impadronisce, distrugge essenze, valori, tradizioni: intese, queste, non come ceneri da conservare ma come fuochi da continuamente ravvivare. E così la civiltà europea, l’Occidente, sulla base di quella “follia”, diventa civiltà della Tecnica, e le altre potenze della vita ne sono sommerse e la volontà di potenza si scatena oltre ogni limite, fino alla possibile “produzione” dell’umano. Tutto il mondo è ora invaso da questa follia. Oltre Nietzsche, due grandi autori italiani sono stati, per Severino, protagonisti di questa idea del divenire di tutto, che Severino definisce come il sottosuolo della nostra civiltà: Giacomo Leopardi e Giovanni Gentile, il primo ricavando da quella “follia” la vanità di tutto e della vita stessa; l’altro il filosofo, immaginando, all’opposto, che da essa derivi la conquista della libertà e l’invenzione continua della storia. Gentile, con cui Severino dall’origine si misurò, fu giudicato da lui massimo pensatore europeo, unico vero filosofo dell’età della Tecnica proprio in quanto filosofo del divenire di tutto e, lo dicevo prima, dello stesso divenire. Ma che cosa è questo “Eterno”, della cui corazza Severino si mette a difesa? Sta lì, sopra di noi, indecifrabile, incomunicabile, ma incontrovertibile? Siccome ogni grande filosofo crea la sua scolastica anche questo è avvenuto per Severino, letto da alcuni come l’ultimo dei pensatori metafisici, mentre il pensiero che conta corre verso ben altri lidi. Provo a dire perché non sono affatto d’accordo con questa immagine che si dà di lui. La filosofia di Severino è una filosofia tragica, tutt’altro da una ricomposizione metafisica del mondo, garantito dall’Eterno che è in esso. È una filosofia aperta, piena di contrasti, come per me è ogni vero pensiero che, pensando la Vita, ne incontra le contraddizioni e non le risolve in un mondo immaginato. Dunque, perché dico filosofia tragica, e dunque aperta, problematica, sorprendente? Perché l’Eterno, il Destino, la Necessità, La Gioia - parola di Severino - tutto ciò che incontra e si intreccia con il dolore del mondo non sta per conto suo, in attesa di non so che cosa per potersi realizzare, ma è in continua tensione, in continuo intreccio con la nostra finitezza, con la nostra storia alienata; sta in opposizione “con la terra isolata dal destino della necessità”, eppure partecipe di essa. Il dilemma di Severino è dentro ognuno di noi, ci sentiamo partecipi di una verità e, insieme, spaesati nell’età del divenire di tutto, nell’età in cui sembra che la Tecnica da mezzo sia diventata fine. Tesi di Severino che ho avuto occasione di discutere più volte anche con lui, provando perfino a contestare l’esito cui essa conduce. Ma non è questa la sede per approfondire il tema se non per dire che per Severino il sentiero della Gioia non è perduto per l’umanità, il suo linguaggio della vita si mescola a quello del finito e della morte. Oggi guardiamo alla sua eredità, come si fa con i classici. Siccome fino a ieri lui era vivo - l’ultimo convegno dello scorso giugno fu sul nodo Severino-Heidegger - ne avvertiamo la assenza, per me di una persona amica e gentile, ma insieme sappiamo che il suo pensiero resta incardinato nella nostra vita, direi anche nella vita dei quasi tutti che non lo possono incontrare come filosofo, giacché lui ha pensato il destino dell’uomo, e soprattutto il destino di Europa, una civiltà legata alla propria filosofia, che ne ha segnato la pur tragica vicenda. E finisco con una punta di ironia che sfocia anche in una rivalutazione del Mezzogiorno, di solito strapazzato per mille ragioni anche valide. Dunque, Severino era nato a Brescia e aveva vissuto tra Brescia, Venezia, Milano. Si sa bene che fu escluso dall’Università cattolica di Milano, in anni lontanissimi, perché la sua filosofia venne giudicata incompatibile con il pensiero cristiano, come effettivamente era. Ma non è su questo che voglio concludere. Una volta gli chiesi: come mai da una città come Brescia, produttiva di cose che si toccano, di armi, di prodotti metalmeccanici, insomma una città del Nord industriale e produttivo, come mai, da lì, tanta metafisica? Lui mi rispose, forse un po’ sorpreso della domanda: mio padre era siciliano. Allora tutto mi fu chiaro, anche Gentile era di Castelvetrano. il Mezzogiorno ha avuto, per dir così, la risorsa della Metafisica, e qualcuno dice: perciò state nei guai. Io la penso diversamente, questa sua vocazione ha dato qualcosa al mondo che non si tocca, ma che forse proprio per questo è prezioso, e preme, come invisibile, sotto la pelle di ciò che si vede e, appunto, semplicemente si tocca. I silenzi non gridati e le grida silenziate di Aboubakar Soumahoro L’Espresso, 9 febbraio 2020 Una politica alta può nascere solo dalla capacità di mettere in comune i bisogni e di farli camminare in una marcia che cambi gli assetti attuali. Il ruolo dello scrittore “non è separato dai compiti difficili. Per definizione, non può mettersi oggi al servizio di chi fa la storia: è al servizio di chi la subisce. (...) Ogni generazione, senza dubbio, crede di essere destinata a rifare il mondo. La mia, invece, sa che non lo farà più. Ma il suo compito può essere più grande. È per evitare che il mondo si disfi”, sosteneva Albert Camus. La fisionomia della società odierna, sempre più disarticolata fisicamente e sentimentalmente, esprime caratteristiche eterogenee dal punto di vista infrastrutturale che rendono la sovrastruttura complessa. Il riduzionismo intellettuale e politico, che consiste nel distrarre le masse rendendole elettoralmente mercificate, tende a silenziare ogni iniziativa e tentativo finalizzati ad analizzare i processi di questa complessa sovrastruttura. Tuttavia, nelle viscere di questa complessa sovrastruttura, in un rapporto dialettico, si cela una struttura costituita da masse di persone in carne e ossa lasciate in balia ad avidi speculatori politici ed economici, privi di ogni capacità empatica costruttiva, che usano le persone al servizio del potere invece di usare il potere al servizio delle persone. Queste masse di persone, marginalizzate e rese invisibili dall’egemonia di un potere politico ed economico, vengono usate per soddisfare interessi particolari. L’indifferenza della politica dinanzi alla miseria di queste masse di persone invisibili è un modo per massimizzare il disagio sociale che viene irresponsabilmente esasperato per miopi interessi egoistici. Certi intellettuali ed alcuni politici tendono a soffocare le voci di queste masse di persone portatrici di contraddizioni reali quali: la povertà persistente, le disuguaglianze croniche e strutturali, l’emigrazione giovanile, l’immiserimento delle famiglie, la precarietà lavorativa, la perdita di senso della vita da parte dei nostri giovani, l’impossibilità di coniugare lavoro e famiglia, lo sfruttamento del lavoro fisico e cognitivo, il disagio abitativo, il calvario quotidiano dei pendolari e tanto altro. Purtroppo, sono le grida di queste masse di persone ad essere silenziate e non i loro silenzi a essere gridati. Sono le loro condizioni ad essere estreme e non le loro idee ad essere estremiste. Sono le loro posture ad essere radicate e non i loro postulati ad essere radicali. L’emancipazione di queste masse di persone rese invisibili non si realizzerà attraverso piccole concessioni di una politica prigioniera di se stessa e ridotta a una perenne macchina elettorale, ma avverrà per il tramite del loro protagonismo capace di fare convergere i bisogni silenziati all’interno di una struttura organizzativa generata da processi collettivi consapevoli. Questa organizzazione dovrà avere la capacità di mettere la persona al centro, in un rapporto dialettico tra struttura e sovrastruttura, creando una comunità capace di trasformare con umiltà ed entusiasmo, in una dimensione collettiva, le disperazioni in speranze e le rassegnazioni in motivazioni. Tale organizzazione dovrà inoltre essere in grado di scendere negli abissi delle sofferenze delle persone, immergendosi nel contempo nel fango delle loro miserie. Questo soggetto organizzato - incuneandosi nella profondità del tessuto sociale, attraversando trasversalmente il centro e le periferie - dovrà infine creare, attorno ad una chiara visione di comunità, una dialettica tra teoria e prassi, tra pensiero ed azione, tra percezione e realtà, e tra spirito e fisico. Quando questo soggetto organizzato riuscirà a fare convergere realtà diverse attorno a bisogni comuni e a fare camminare questi bisogni silenziati sulle gambe dei bisognosi invisibili, in una marcia capace di rivoluzionare l’attuale assetto politico liquefatto, nascerà il primo germoglio di una politica alta ed altra. Quando questa pentola delle disuguaglianze - che continua a bollire silenziosamente nelle viscere del Paese - sprigionerà la propria energia, muterà l’architettura della sovrastruttura e scongiurerà il disfacimento del nostro mondo odierno, come preconizzava Camus. La Polonia rompe l’ordinamento giuridico europeo di Roberto Castaldi L’Espresso, 9 febbraio 2020 A giudicare dal silenzio assordante sui media italiani (con l’eccezione del Fatto quotidiano) rispetto a quanto avvenuto in Polonia, si potrebbe pensare che Kant avesse torto quando sosteneva che l’interdipendenza tra gli esseri umani portava verso una situazione in cui la violazione del diritto in un luogo sarebbe stata percepita anche nel resto del mondo. Eppure sono successi due fatti gravissimi, che costituiscono una rottura dell’ordinamento giuridico europeo e una sorta di pietra tombale sulla stato di diritto in un Paese membro dell’Unione Europea. La Camera disciplinare della Corte Suprema - creata da una riforma del Governo del PiS, che ne nomina i componenti - ha emesso la sua prima sentenza. Peccato che la Corte di Giustizia dell’UE e la stessa Corte Suprema abbiano già emesso sentenze con cui annullavano la creazione di tale Camera disciplinare in quanto non coerente con il concetto di Corte nel senso prescritto dalle norme UE e dalla Costituzione polacca, e quindi incostituzionale tanto dal punto di vista nazionale quanto da quello europeo. Il governo polacco ha tirato dritto. E ieri un giudice polacco è stato sanzionato, anche con la decurtazione del 40% dello stipendio, per aver tentato di eseguire le sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che sono vincolanti e direttamente applicabili. In sostanza il giudice è stato condannato per aver fatto il suo dovere: aver applicato il diritto dell’Unione, che è prevalente e direttamente applicabile in tutti gli Stati membri. Nello stesso giorno il Presidente polacco Duda ha controfirmato la controversa legge che rafforza i poteri della Camera disciplinare, allarga i divieti espliciti per i giudici polacchi rispetto all’espressione di qualunque critica nei confronti del governo, delle leggi di riforma dell’ordinamento giudiziario, e delle sentenze emesse dai nuovi organismi - dichiarati illegittimi tanto dall’Unione Europea quanto dalla Corte Suprema polacca. E infine vieta ai giudici polacchi di chiedere un parere o un intervento della Corte di Giustizia dell’UE. Ma è un preciso dovere dei giudici degli Stati membri, quando si trovino davanti un caso in cui è implicato il diritto dell’UE o vi sia un possibile contrasto con esso, adire alla Corte di Giustizia dell’UE per un’interpretazione del diritto UE che permetta di formulare una sentenza rispettosa dell’ordinamento giuridico europeo. In sostanza la Polonia ha deliberatamente ed esplicitamente rotto l’ordinamento giuridico europeo. Non era mai successo da quando la Corte dell’allora Comunità Economica Europea aveva sancito l’esistenza di un autonomo ordinamento giuridico europeo e la prevalenza e diretta applicabilità del diritto europeo, princìpi oramai codificati esplicitamente nei Trattati europei, ratificati da tutti gli Stati membri, e aventi sostanzialmente rango costituzionale a livello europeo. Finora solo la Corte di Giustizia dell’UE ha davvero cercato di fermare la deriva autoritaria in Polonia, mentre la Commissione ha proseguito in un dialogo con il Governo polacco, che ha ripetutamente ignorato le raccomandazioni della Commissione e le sentenze della Corte UE. Per non dire dell’ignavia dei governi nazionali riuniti nel Consiglio che non sono mai arrivati a una decisione rispetto all’attivazione delle sanzioni (previste dall’art. 7 dei Trattati) contro Polonia e Ungheria per le loro violazioni dei princìpi fondamentali dell’UE e dello stato di diritto, che sono già state riconosciute dalla Corte di Giustizia dell’UE. E nonostante la mobilitazione dal basso sul tema con l’Iniziativa dei cittadini europei a tutela dello stato di diritto. Non è un caso. La Corte è un organo pienamente federale, con poteri vincolanti, che sente la responsabilità di tutelare i diritti fondamentali e la libertà dei cittadini europei, inclusi quelli polacchi. La Commissione è l’embrione di un governo federale, chiamata a difendere l’interesse generale, ma priva dei necessari poteri, e quindi poco incisiva e incline al compromesso con gli Stati membri. E il Consiglio è l’organo intergovernativo, in cui i governi nazionali si attengono al vecchio adagio “cane non mangia cane”, infischiandosene dello stato di diritto, della separazione dei poteri, e del fatto che la loro pusillanimità ha portato ad una rottura gravissima dell’ordinamento giuridico europeo. L’ennesima dimostrazione che solo le istituzioni federali sono in grado, nei momenti di crisi, di prendere decisioni tempestive e coraggiose - come ha fatto la Banca Centrale Europea nel corso della crisi economica e del debito sovrano, mentre i governi nazionali temporeggiavano, e proclamavano la necessità di completare l’unione economica e monetaria senza però avere la volontà e la forza di farlo davvero. A breve si aprirà la Conferenza sul futuro dell’Europa. Deve servire ad avviare una profonda riforma dell’UE, in modo da realizzare una unione politica di natura federale, con istituzioni democratiche in grado anche di rimarginare lo squarcio aperto ieri nell’ordinamento giuridico europeo. Medio Oriente. L’apartheid sarebbe un “futuro più luminoso”? di Richard Falk* Il Manifesto, 9 febbraio 2020 Trump vuole la versione peggiorata del modello “disimpegno” da Gaza: controllo delle frontiere a Israele, staterello palestinese smilitarizzato, attacchi armati periodici. Sarebbe stato folle attendersi un compromesso politico equilibrato da parte della presidenza Trump. È stato chiaro fin dalla sua elezione, a sorpresa, nel 2016, quando Trump aveva affidato la politica mediorientale e, nello specifico, la questione israelo-palestinese a suo genero Jared Kushner, inesperto ed estremista sionista, assistito da persone ugualmente non qualificate. Trump ha fatto quello che non avevano mai osato fare gli altri inquilini filoisraeliani della Casa bianca: ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e vi ha spostato l’ambasciata statunitense, ha sostenuto la legalità degli insediamenti malgrado la flagrante violazione del diritto umanitario internazionale, ha dato via libera all’annessione israeliana delle alture del Golan senza riguardo per la sovranità della Siria, ha tagliato i fondi per gli aiuti e ha chiuso l’ufficio informazioni della Palestina a Washington. In un simile contesto, non può sorprendere che l’”Accordo del secolo” delinei un piano centrato sulla resa politica della Palestina, corredato da un pacchetto di incentivi (che presumibilmente sarebbero finanziati dai paesi arabi del Golfo) purché i palestinesi facciano i bravi bambini e rinuncino a ogni diritto e rivendicazione, pur fondati sulle norme internazionali. In Sudafrica, nel disperato sforzo di stabilizzare il regime dell’apartheid, erano state create enclave etniche disseminate nel paese, con una parvenza di governo autonomo ma completamente subordinate alle strutture gerarchiche dell’apartheid e al feroce sfruttamento di gran parte della popolazione africana. La cosiddetta “mappa concettuale” del piano di Trump assomiglia molto a quegli accordi di “sviluppo separato” definiti “bantustan”. Non a caso, 25 anni dopo con la fine dell’apartheid, i bantustan svanirono subito. E una volta che le proposte di Trump cadranno nell’oblio, il perverso concetto di autodeterminazione che esse contengano seguirà lo stesso destino. Naturalmente, l’offerta di uno staterello palestinese, costituito soprattutto da comunità urbane della West Bank messe insieme pur non essendo contigue, funge anche da espediente per nascondere o almeno minimizzare un ulteriore land-grabbing da parte israeliana. Invece di ritirarsi dalla West Bank come richiesto all’unanimità dalla risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza, Israele stabilisce il proprio controllo sull’80% della Palestina occupata, dando alla Palestina alcune aree desertiche nell’inabitabile Negev. Nel 2005, come passo per raggiungere la pace con i palestinesi, Israele attuò il cosiddetto “disimpegno da Gaza”. Fu ritirato l’esercito israeliano che all’epoca occupava la Striscia smantellando gli insediamenti dove vivevano 18000 coloni. Israele sostenne che queste decisioni mettevano fine alla responsabilità israeliana come potenza occupante sulla base del diritto internazionale. Ma presto fu chiaro che non di fine dell’occupazione si trattava ma di una nuova modalità di controllo, in tutta evidenza più devastante per la popolazione civile della Striscia di Gaza rispetto alla precedente occupazione. Israele ha continuato a controllare la frontiera fra Gaza e l’Egitto, mantenendo anche il controllo sovrano su spazio aereo e acque territoriali di Gaza. Economia e condizioni di vita nella Striscia sono peggiorate, accentuate dalle misure punitive adottate dopo l’arrivo al potere di Hamas. Sviluppi che hanno stimolato la resistenza di Gaza, e poi incursioni militari israeliane in risposta ai missili lanciati dalla Striscia; insomma, dopo il cosiddetto disimpegno, la popolazione civile di Gaza è stata fatta oggetto di attacchi massicci, causa di grandi sofferenze e violazione di ogni diritto. L’accordo di Trump offre al più una versione peggiorata della Gaza post-disimpegno. Conferisce il controllo delle frontiere esclusivamente a Israele, esige una completa smilitarizzazione dello staterello palestinese, rende le comunità palestinesi completamente vulnerabili all’azione militare israeliana. Un regime così opprimente, qualora ci si arrivasse, provocherebbe certamente una resistenza violenta, e parallelamente una periodica dimostrazione di forza da parte di Israele, con il corredo di punizioni collettive contro i palestinesi. Visto quanto è accaduto a Gaza, l’accettazione palestinese di una situazione analoga per tutta la Palestina sarebbe un atto di estrema autodistruzione. È già terribile essere assoggettati con la forza, ma è inimmaginabile che si decida di ingoiare volontariamente un simile veleno. Se questo è l’Accordo del secolo, sarà un secolo triste per tutti noi. Ma forse, dall’estremismo delle ingiuste proposte messe sul tavolo da parte degli Stati uniti, potrebbero nascere risposte utili: una leadership palestinese unita, la richiesta di un’intermediazione neutrale al posto di quella statunitense, la crescita della solidarietà con la lotta palestinese, l’inizio di uno sforzo internazionale per processare Israele per crimini contro l’umanità. Ma la premessa a ogni sincera iniziativa diplomatica in grado di portare a una vera pace deve essere la dissoluzione dell’attuale regime di apartheid israeliano. Ogni altro approccio porterebbe al massimo a un temporaneo cessate il fuoco. *Inviato dell’Onu per i diritti umani nei Territori occupati e professore emerito di diritto internazionale all’Università di Princeton Egitto.Arrestato ricercatore dell’Università di Bologna: accusato di terrorismo rischia la tortura Il Riformista, 9 febbraio 2020 Patrick George Zaky, attivista e ricercatore egiziano di 27 anni, era partito da Bologna alla volta del Cairo per qualche giorno di vacanza con la sua famiglia. Giovedì, appena arrivato nell’aeroporto egiziano è stato arrestato. Il ricercatore, da alcuni mesi frequentava un master in Studi di genere all’università di Bologna ed era diretto a Mansoura, la città dove è nato. Come ha riferito all’agenzia Dire Amnesty International, una volta atterrato, è stato preso in custodia dalla polizia egiziana. La notizia è stata confermata sui social network anche dall’associazione locale Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr), con cui Patrick George Zaky collaborava. L’arresto - I familiari hanno riferito di aver perso ogni contatto con lui da giovedì notte fino a stamani, quando è stato riaccompagnato a casa. Dopo l’arresto, infatti al ragazzo non sarebbe stata data la possibilità di contattare né i famigliari né un avvocato. Amnesty, in base alle informazioni ricevute da fonti sia nel capoluogo emiliano che al Cairo, riferisce che Zaky è stato arrestato per un ordine di cattura spiccato nel 2019, di cui lui però non era a conoscenza. Lo studente, stando alle stesse fonti, durante l’interrogatorio potrebbe aver subito torture, tra cui l’elettroshock. “Ho la sensazione che si tratti dell’ennesima persecuzione verso un attivista politico: ce lo dice la storia di Zaky e la storia dell’Egitto sotto Al Sisi”. Così il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury. Le accuse - “Pubblicazione e diffusione di false notizie sul proprio profilo Facebook”, riferisce all’agenzia Dire Mina Thabit, responsabile della ong Egyptian commission for rights and freedoms, con cui collabora Zaky. “Patrick”, precisa Thabit, che è anche un amico dello studente, “è stato accusato di diffondere false notizie sui social media, spingere le persone a protestare contro le istituzioni, spingere le persone a sollevarsi contro le istituzioni e usare i social media in modo da danneggiare la sicurezza nazionale”. Tutti reati, prosegue l’attivista, “che il regime impiega per mettere facilmente la gente in carcere. Ma non sono accuse fondate: Patrick è un ragazzo tranquillo, non ha mai fatto niente di male e non ha precedenti. È solo un attivista per i diritti”. “Tutti i capi d’accusa contestai a Zaky- avverte Thabit- conducono all’accusa di terrorismo”. Vale a dire, “appartenenza a un gruppo oppure propaganda terroristica”, date le accuse relative alle fake news e al “cattivo uso” dei social network. Per questo, “è molto probabile che dopo l’interrogatorio, Zaky sarà incarcerato”. Quanto alle notizie che circolano su possibili torture? “Non abbiamo ancora conferme, ma purtroppo- conclude l’attivista- è una pratica frequente”. Rischia la tortura - Amnesty, in base alle informazioni ricevute da fonti sia nel capoluogo emiliano che al Cairo, riferisce che Zaky è stato arrestato per un ordine di cattura spiccato nel 2019, di cui lui però non era a conoscenza. Lo studente, stando alle stesse fonti, durante l’interrogatorio potrebbe aver subito torture, tra cui l’elettroshock. “Condanniamo l’arresto di un attivista per i diritti umani, che ora rischia un periodo di lunga detenzione e torture” dichiara Noury. “C’è un periodo di diverse ore di cui di lui non si è saputo nulla - spiega Noury - Il suo arrivo al Cairo è avvenuto nella notte tra giovedì e venerdì” e questa mattina è giunta la notizia della formalizzazione dell’arresto. Zaky “si occupava di identità di genere che infatti era oggetto del suo master a Bologna”, il Gemma. Per Noury l’“aver fatto questo ‘rumorè“ su Patrick “è una deterrenza per chi pensa che nessuno nel mondo sappia cosa succede e che quindi crede di poterlo trattare come gli pare, come accaduto con Giulio”, torturato e ucciso in Egitto nel 2016. “Noi da parte nostra pretendiamo di sapere cosa c’è scritto sul mandato di cattura. Basandomi su analogie, se il mandato contiene un reato che non è altro che una legittima attività di denuncia, di informazione, di commento pubblico o critica, in questo caso scatta l’imputazione per diffusione di informazioni false, di minaccia per la sicurezza nazionale, di terrorismo poi sarebbe allucinante. Questo darebbe un alibi per legittimare una procedura del tutto illegale. Se nel mandato si leggono capi di imputazione che equivalgono a una attività legittima, va scarcerato subito, devono farlo sapere”. E aggiunge: “Ci aspettiamo un susseguirsi di ordini di detenzione di 15 giorni, rinnovabili più volte, e naturalmente in questa situazione di detenzione prolungata, con la scusa di condurre indagini, il rischio è che le condizioni detentive siano equiparabili a tortura, se non la tortura stessa”. Nel 2018 l’attivista, contattato dall’agenzia Dire, aveva dichiarato: “L’Egitto non è affatto un Paese stabile, né dal punto di vista socio-economico né delle libertà fondamentali. La gente non trova lavoro, il costo della vita continua ad aumentare e il governo fa di tutto per limitare gli spazi del dissenso”. L’associazione con cui il giovane collabora “si batte per i nostri attivisti, ma anche per Giulio Regeni”. “Condanniamo l’arresto di un attivista per i diritti umani, che ora rischia un periodo di lunga detenzione e torture” ha dichiarato alla Dire Riccardo Noury, portavoce di Amnesty. Egitto. Servizi segreti e Procura suprema, così spariscono gli egiziani di Chiara Cruciati Il Manifesto, 9 febbraio 2020 Amnesty: “Arresti triplicati dal 2013”. La Sssp è parte dell’ufficio del procuratore generale, quello che promette ma non dà aiuto sul caso Regeni. Attraverso la legge anti-terrorismo sono perseguiti scioperi, post sui social, proteste. “La Sssp ha trasformato l’Egitto in un enorme gruppo terrorista”. Così un avvocato che difende imputati davanti alla Procura suprema egiziana per la sicurezza dello Stato (Sssp) definisce uno degli strumenti più efficaci della complessa macchina della repressione imbastita dal luglio 2013 dal generale-presidente Abdel Fattah al-Sisi. Parole affidate al dettagliato rapporto stilato da Amnesty International e pubblicato lo scorso novembre, “Stato d’eccezione permanente”, 60 pagine che raccolgono 138 testimonianze e ridanno indietro un quadro preciso: il ruolo della Procura suprema nelle sparizioni forzate prima e le detenzioni politiche poi, fatte di abusi, torture, violazione dei principi di un equo processo. Creata nel 1953, l’anno successivo al colpo di stato degli Ufficiali liberi contro re Faruq, la Sssp è parte integrante della Procura generale egiziana. Per intenderci quella che da anni promette collaborazione alla Procura di Roma che indaga, tra depistaggi e silenzi, sull’omicidio di Giulio Regeni. La Sssp - che ha giurisdizione su Greater Cairo, l’area metropolitana della capitale, quasi 1.800 km quadrati e oltre 20 milioni di persone - ha il potere di investigare e perseguire tutte le attività considerate una minaccia alla sicurezza nazionale: terrorismo sì, ma anche manifestazioni di protesta, scioperi, assemblee. Lavora a stretto contatto con la National Security Agency (Nsa), i servizi segreti egiziani, l’ex Ssis: questi indagano in maniera indipendente o su ordine della Procura suprema, a cui poi passano i fascicoli; la Sssp emette il mandato d’arresto e i servizi lo eseguono. Scatta la detenzione preventiva, per un massimo di 150 giorni ma che può essere rinnovata senza limiti di 45 giorni in 45. Dei vertici della Nsa fanno parte i sette uomini che Piazzale Clodio ha individuato come alcuni dei responsabili del pedinamento, il rapimento, l’uccisione di Giulio e i successivi depistaggi. Come spiega bene Amnesty, “diversi procuratori della Sssp sono ex funzionari dell’Nsa, altri sono parenti del presidente al-Sisi e di alti funzionari del suo governo”. Una macchina della repressione efficiente e ben oliata che ruota intorno al presidente e ne esegue l’agenda, quella di annichilimento totale del popolo egiziano. Basta guardare i numeri, riportati nel rapporto: se nel 2013, anno del golpe contro il presidente Morsi, i casi seguiti dalla Procura suprema erano stati 529, nel 2018 erano triplicati, 1.739. Per il 2019 il dato è disponibile fino al 30 ottobre: 1.470 casi. Ma non individuali, alcuni fascicoli fanno riferimento a più persone: il numero 1338/2019, relativo alle proteste di piazza contro corruzione e clientelismo esplose a sorpresa lo scorso settembre in diverse città, riguarda 3.715 egiziani, arrestati per lo più con raid e perquisizioni notturne nelle loro case. Un giro di vite enorme, pervasivo, in cui finiscono politici, attivisti, giornalisti, ma anche semplici cittadini. Tutto sotto la comoda coperta dell’anti-terrorismo e dello stato di emergenza (ininterrotto dal 2017), grazie alla legge che al-Sisi volle approvare appena salito al potere e che da allora gli permette di perseguire chiunque, senza limiti, con detenzioni preventive che durano mesi, anni, senza che si giunga mai a un processo. “La Procura suprema ha ampliato la definizione di terrorismo fino a comprendere proteste pacifiche, post sui social media e legittime attività politiche - spiega Philip Luther, direttore delle ricerche di Amnesty per Medio Oriente e Nord Africa - La Procura suprema è diventata uno strumento fondamentale della repressione”. L’associazione basa la ricerca su 138 casi di persone arrestate dalla Sssp tra il 2013 e il 2019. Di queste - di cui sono stati analizzati atti giudiziari, verbali, interviste - 53 sono state detenute per proteste o post sui social (32 uomini, 23 donne e un minorenne), 76 per attività politiche passate o presenti (48 uomini, 27 donne e una minorenne) e sei con l’accusa di aver compiuto atti di violenza (tre uomini e tre minorenni). In 112 casi i detenuti sono scomparsi per mesi, fino a 183 giorni, senza che di loro si sapesse nulla. Non sapevano nulla avvocati e familiari, ma lo sapeva la Procura suprema di fronte alla quale gli indagati venivano condotti per udienze a porte chiuse senza la tutela di un legale. Infine la più terribile delle complicità, quella alla tortura: Amnesty ha documentato almeno 46 casi di torture su 138 - la metà compiute su donne - dei detenuti nelle mani dell’Nsa. Elettroshock, pestaggi, sospensione, test di verginità, minacce di stupro. Solo in un caso la Procura suprema ha riportato la denuncia di tortura ai medici. E non ha mai indagato un solo poliziotto. Egitto. Cittadino Usa morto nelle carceri di Al Sisi per torture e mancanze di cure mediche di Omar Abdel Aziz Ali laluce.news, 9 febbraio 2020 Non ce l’ha fatta Mustafa Qasem, il cittadino americano residente a New York, arrestato nel 2013 in Egitto, con l’accusa di voler rovesciare il regime al Sisi. È morto nel carcere Al Aqrab, uno dei più duri del paese. Il suo fermo era avvenuto all’interno di una ampia ondata di arresti che il generale egiziano Al Sisi aveva messo in atto a seguito del colpo di stato militare nel Luglio 2013. A finire nella rete della polizia giornalisti, cittadini egiziani e stranieri come Mustafa accusati di essere degli oppositori. Durante il processo, durato dal 2013 al 2018, Mustafa Qasem si è dichiarato sempre innocente, e ha sostenuto di non appartenere a nessun partito politico. Ha raccontato i dettagli del suo arresto avvenuto in maniera immotivata e violenta: “Ero a centinaia di kilometri di distanza dalle manifestazioni e un poliziotto mi ha fermato chiedendomi i documenti. Una volta mostrato il passaporto americano sono stato picchiato e portato via con la violenza”. Durante la mia permanenza in carcere venivo spesso torturato senza pietà, e non mi venivano date medicine essendo diabetico e malato di cuore. L’appello a Trump per il rilascio - Nelle sue lettere dal carcere come riporta la BBC, Qasem ha chiesto più volte a Trump di intervenire. “Mostra ai poliziotti egiziani che mi hanno picchiato perché avevo il passaporto americano che metterai al primo posto gli americani come me. Non so se uscirò di qua, non so se riuscirò a vedere i miei figli di nuovo a New York”. Purtroppo i suoi appelli non l’hanno salvato. É morto dopo aver indetto lo sciopero della fame nel Dicembre 2019, in protesta per la condanna a suo carico di 15 anni comminata dal tribunale del Cairo per il suo presunto coinvolgimento nelle manifestazioni contro il generale egiziano. Dopo la morte, il Segretario di Stato americano Pompeo si è detto preoccupato per la stretta sui diritti umani in Egitto, mentre le autorità egiziane hanno informato che sarà aperto un fascicolo per capire le responsabilità nella morte di Qasem. Niente di nuovo insomma. Nelle carceri egiziane sarebbero almeno 100mila i detenuti per motivi politici. Camerun. Oggi le elezioni ma nel paese dilaga la violenza di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 febbraio 2020 Rinviate per due volte nel 2018 e nel 2019, domani in Camerun si svolgeranno le elezioni parlamentari. In parte del paese africano, la consultazione elettorale dovrebbe svolgersi senza problemi. Opposta è la situazione nelle regioni anglofone, nell’ovest del paese, precipitate nella violenza dal 2016, dove i gruppi armati separatisti hanno minacciato da tempo di impedirne lo svolgimento e, da ultimo, hanno anche “invitato” gli operatori umanitari a sospendere le loro attività. Gli scontri tra i gruppi armati e l’esercito hanno provocato la fuga di oltre 700.000 persone: 679.000 sono sfollati interni, 52.000 hanno trovato riparo in Nigeria. Le autorità del Camerun minimizzano, parlando di 152.000 sfollati. Nelle ultime settimane la violenza ha conosciuto un nuovo picco. Da un lato, i gruppi armati separatisti hanno proseguito la loro campagna di uccisioni ai posti di blocco e di sequestri a scopo di riscatto. Dall’altro, Amnesty International ha raccolto le prove di un rovinoso attacco dell’esercito che, il 14 gennaio, ha fatto terra bruciata nei villaggi di Babubock e Bengem, con oltre 50 abitazioni date alle fiamme. Il 23 gennaio c’è stato un altro attacco nel villaggio di Ndoh, con 14 morti. Non si sa cosa potrebbe accadere durante e dopo le elezioni. Secondo le organizzazioni per i diritti umani, diventa sempre più urgente che la Commissione africana sui diritti umani e dei popoli istituisca una missione di accertamento dei fatti su tutti i crimini commessi nelle regioni anglofone dal 2016.