Quando la detenzione causa patologie psichiatriche di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 febbraio 2020 Ricerca dell’associazione Antigone con il Segretariato italiano studenti di medicina. “Sindrome da ingresso in carcere”, “disculturazione”, “vertigine da uscita”, sono concetti coniati dalla medicina penitenziaria riguardanti i detenuti che contraggono patologie psichiatriche a causa dell’ambiente carcerario. Un tema sviscerato grazie all’approfondimento dell’associazione Antigone realizzato assieme al Sism, il Segretariato Italiano Stu denti di Medicina. Maddalena Di Lillo di Antigone ha riportato accuratamente questa ricerca, sottolineando che all’interno di un carcere, la salute mentale è più vulnerabile di quanto non accada nella società libera. Sono diversi gli studi che mostrano conte nel sistema penitenziario la percentuale di soggetti affetti da patologie psichiatriche sia più elevata che all’esterno. Emerge che anche il genere è un fattore di rischio importante. “Le donne - scrive Di Lillo - sarebbero più esposte degli uomini a questo tipo di patologie. Dei ricercatori dell’Università La Sapienza di Roma hanno mostrato come tra le donne ristrette vi sia un’elevata incidenza di temperamenti patologici. In particolare sono stati messi in luce comportamenti distimici o ciclotimici, ansiosi o irritabili, atteggiamenti di attaccamento insicuro, condotte di evitamento o impulsività”. La ricercatrice sottolinea che, fermo restando che il carcere ha in sé elementi strutturali che favoriscono l’emergere di patologie psichiatriche, “bisogna considerare che spesso le condizioni psico-fisiche di chi incappa nel sistema penitenziario sono precarie già prima del suo ingresso: tra marginalità sociale e patologie psichiatriche vi è un nesso che in carcere si rafforza ulteriormente”. I momenti più delicati sono proprio quelli relativi all’ingresso in carcere, perché “la persona - scrive Di Lillo - perde il proprio ruolo sociale, è privata dei suoi effetti personali, di uno spazio personale, della capacita’ di decidere autonomamente, del contatto quotidiano con la famiglia e con gli amici. La persona detenuta vive rapporti sociali imposti e diventa dipendente dall’istituzione; sperimenta l’impotenza e la frustrazione, soprattutto delle aspettative”. Disturbi d’ansia generalizzata, irritabilità permanente, tutti sentimenti che vengono somatizzati e sfociare in diverse patologie psicosomatiche come la perdita di appetito, di peso, malessere generalizzato e aspecifico, esasperazione dei problemi medici preesistenti, disturbi visivi, tachicardia. “La rabbia - scrive la ricercatrice di Antigone, laddove non si prosegua un obiettivo tangibile nella vita quotidiana, come spesso accade durante la detenzione, può essere percepita come stato depressivo e, se mal gestita, può condurre a episodi di autolesionismo e suicidio”. E poi ci sono le sindromi penitenziarie, quelle patologie psichiatriche che sopravvengono durante la detenzione. Una di queste è la “Sindrome da ingresso in carcere”, disturbo psichiatrico che compare frequentemente tra coloro che hanno un impatto drammatico, ossia tra chi presenta generalmente un grado di cultura maggiore e avverte un divario importante tra il tenore di vita condotto in libertà e quello carcerario. Oppure la “disculturazione”, che consiste nella perdita di valori e stili di vita posseduti in precedenza, con la conseguenza che la persona detenuta non riesce più ad affrontare le situazioni tipiche della realtà esterna. Così come la “Vertigine da uscita”, una patologia che affiora durante la fase prossima alla scarcerazione. “I suoi pensieri - scrive Maddalena Di Lillo - si focalizzano sulle difficoltà di vita del mondo esterno, sulla possibilità di commettere ancora reati e sul profondo timore di non essere in grado di ritornare sufficientemente autonomi. Il detenuto che sta per lasciare il carcere sperimenta poi la paura dell’estraniamento, l’incapacita’ di adeguarsi ai mutamenti della vita sociale e al nuovo contesto dopo la scarcerazione”. Carcere, quei drammi familiari di cui farsi carico di Alessandra Bialetti romasette.it, 8 febbraio 2020 Dove c’è un detenuto c’è un legame da non spezzare. L’importanza di un ascolto profondo di chi fuori vive una “detenzione” emotiva e affettiva pesante. “Chiudiamoli dentro e buttiamo la chiave”. Frase storica, usata, abusata rispetto a chi vive l’esperienza del carcere. Entrata ormai nel gergo comune, dettata spesso dalla paura, dalla rabbia, dall’esasperazione per un mondo che sembra in caduta libera. Ma c’è altro. Frase dettata dalla non conoscenza, dal sentito dire, da una rapida classificazione del “problema”. Allora entriamo in questa realtà, non con la pretesa di un buonismo che cancelli le colpe e crei ingiustizie, ma con l’intenzione di capire di più, di entrare in un “non luogo”, di visitare, anche se solo virtualmente, una realtà di vita vicina quanto distante. Il carcere di Rebibbia, a Roma, rappresenta una città nella città, luogo che ospita le più svariate esperienze di vita e, oserei dire, di morte. Di quella morte non fisica ma spirituale, interiore, la morte che deriva dalla perdita di ogni dignità a causa di una vita segnata dall’errore e dalla caduta. Nel carcere si incontrano tante storie, visi che portano dentro un vissuto e che rimandano, non solo alla storia personale, ma anche a un tessuto familiare fortemente compromesso. Dietro ogni detenuto c’è un’esistenza complessa, una famiglia, legami coniugali e genitoriali. Compito del percorso riabilitativo non è solo quello di far scontare una pena e reinserire nella società ma di prendersi carico di tutto il tessuto relazionale che il detenuto porta dentro di sé. Tante le ricadute sulla vita familiare. Nel pochissimo tempo destinato alle visite in carcere, si devono tenere in piedi legami esistenti ma lacerati dalla detenzione e dalla lontananza, si deve continuare a rimanere padri, madri, mariti, mogli, in un’assenza che rende difficoltosa la salvaguardia dell’unione. Basti pensare che nell’arco di un anno il tempo riservato agli incontri è di 72 ore, 6 ore al mese da dividere tra tutti i componenti della famiglia che insieme non possono visitare il carcerato. Questo significa che si è compagni di vita o genitori per una manciata di ore al mese, con bambini spesso piccoli da crescere e adolescenti da poter seguire. La sofferenza di chi vive fuori dal carcere è molto profonda e occorre creare una rete che mantenga unite, anche se spesso solo virtualmente, famiglie spezzate. Spesso tocca ai volontari tenere i rapporti con i familiari che rappresentano una reale periferia esistenziale. Fondamentali sono i momenti in cui si dedica spazio all’ascolto di chi, fuori, vive la solitudine morale, spirituale, i dubbi, le paure, i timori di un futuro incerto per sé e per i figli. L’emergenza materiale è ingente: spesso il detenuto era l’unico sostentamento di tutto il nucleo familiare e la sua mancanza, il lungo tempo prima del ritorno, non garantisce la costruzione di una quotidianità degna e dignitosa. La rete di aiuti diventa il tassello necessario per la sopravvivenza di queste famiglie, l’ascolto del loro dolore, la via per non sentirsi abbandonati, dimenticati dagli affetti e da un sistema carcerario che, nelle sue regole, non agevola la continuità affettiva. La perdita di una figura di riferimento importante ricade pesantemente su chi, fuori, deve lottare ogni giorno per la sopravvivenza propria e dei propri figli, su chi deve far da madre e padre a piccole vite in crescita, deve “tamponare” esigenze di ogni tipo soprattutto emotive e affettive. Un’ulteriore criticità è rappresentata dal giudizio che la famiglia di un detenuto vive sulla propria pelle. La discriminazione davanti a storie di vita così pesanti, ma anche la paura che ognuno di noi può sperimentare davanti a una realtà sconosciuta e critica, chiude l’intera famiglia in una solitudine relazionale che spesso pesa ancora di più della detenzione stessa. Il carcere allarga quindi la sua realtà di periferia oltre le sbarre, laddove vive ogni componente di quel nucleo familiare toccato profondamente dal reato. Non si vuole assolvere e mostrare il carcerato come la vittima. Non lo è, e lo sa. Sa di aver sbagliato, di aver buttato la sua e l’altrui vita, sa il male che ha fatto e per il quale paga. Non tutti, bisogna dirlo. Alcuni rimangono ancorati alla presunta giustizia dei loro atti, altri faticano a riconoscere la propria responsabilità. La sfida che da “liberi” possiamo raccogliere è lavorare sul giudizio e pregiudizio che alligna intorno alla vita del detenuto. Guardare alla realtà carceraria in un’ottica più vasta che comprende tutto il suo tessuto familiare, l’impossibilità di una presenza continua, di una mano a crescere figli, a essere guida e punto di riferimento. Dove c’è un detenuto c’è un intero dramma di cui prendersi carico, un legame da non spezzare, un ascolto profondo da donare a chi, fuori dal carcere, vive ogni giorno una detenzione emotiva e affettiva pesante. Vorrei lasciare un esempio realmente sperimentato. Un detenuto, che chiamiamo Stefano, padre biologico di tre figli, che scopre, solo in carcere, di non essere affatto un padre, di non essere stato guida ma peso e zavorra nella crescita dei figli e che oggi spera e desidera ricostruire la sua paternità. Nella speranza di averne ancora il tempo. Quel padre, seppur ha sbagliato, incontrerà i figli nell’area verde del carcere forse una volta al mese. Li vedrà crescere di colloquio in colloquio con accanto una madre che faticherà a ricoprire tutti i ruoli a lei richiesti. Occorre quindi chiedersi come porsi in ascolto di queste famiglie senza aprirsi al giudizio e al pregiudizio. Occorre accompagnare il loro cammino, confortare, tenere i contatti anche solo con una telefonata, poche parole per trasmettere consolazione, vicinanza e coraggio, essere traghettatori di quel periodo di detenzione verso la costruzione di un futuro diverso anche se spesso non vicino. Un compito non facile ma che, ci auguriamo, non spetti solo ai volontari ma sia assunto come impegno esistenziale da ognuno di noi. Perché il dolore abita nella porta accanto, forse vissuto in solitudine, nell’abbandono, nella paura di parlare per non essere giudicati. Perché il riscatto del detenuto e il suo reinserimento in società passa dall’accoglienza della sua famiglia dove poter ritrovarsi e ritrovare nei propri affetti, la volontà, il coraggio e la speranza di potersi ricostruire. *Pedagogista sociale e consulente della coppia e della famiglia Ingiusta detenzione. Petrilli: “finalmente ministro riconosce problema risarcimenti” abruzzoweb.it, 8 febbraio 2020 Ci voleva una polemica per far uscire fuori la verità. In difesa del procuratore generale di Catanzaro, Nicola Gratteri, il ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, fa affermazioni uniche ma reali: finalmente, ha chiarito che in tutte le sedi di corte d’appello le istanze per il risarcimento per ingiusta detenzione rigettate, sono di molto superiori a quelle accolte”. Così in una nota Giulio Petrilli, del comitato per il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione a tutti gli assolti, su un tema di forte attualità. Petrilli da molti anni in prima linea per cambiare le norme ed essere risarcito dopo essere stato sei anni in carcere per il reato di banda armata ed essere stato assolto. “L’ho sempre sostenuto, avendolo vissuto sulla pelle, sei anni di ingiusta detenzione per il reato di banda armata, ma non risarcito per cattive frequentazioni. Un comma che stabilisce il giudizio morale, palesemente anticostituzionale, e per questo le istanze per il risarcimento da ingiusta detenzione vengano rigettate - continua Petrilli - Combatto da sempre, anche insieme ad altri, per l’abolizione di questo comma ma invano. Ora però, per la prima volta un ministro della giustizia riconosce che esiste questo problema, anche se la sua affermazione è per dire che la Corte d’appello di Catanzaro invece è in controtendenza e risarcisce tutti. Unica Corte d’appello che si comporta così in Italia e per questo ha il record dei risarcimenti economici”. Petrilli auspica “che ora tutti aprano gli occhi su questa tematica anche coloro i quali si occupano di errori giudiziari e tematiche similari. Non si può non vedere che il problema è molto serio e invece si parla sempre di risarcimenti che lo Stato emana, non ricordando che due terzi degli assolti non lo percepiscono per una presunta ‘condotta morale non idonea’. Forse neanche nell’inquisizione accadeva questo”. Detenuti anziani e scarcerazione: le parole della Garante di Roma Avvenire, 8 febbraio 2020 Gentile direttore, scrivo per chiedere una rettifica a quanto affermato nella lettera pubblicata il 28 gennaio 2020 a firma degli psicogeriatri Luigi Ferrannini e Gianfranco Nuvoli sotto al titolo “Detenuti anziani, il buio dopo la libertà. Servono nuove forme di accoglienza”. Il passo cui mi riferisco è questo: “E allora il problema non si può risolvere, a nostro avviso, con altre forme, forse più invalidanti nel corpo e nella mente, di “detenzione attenuata”, come l’inserimento nelle cosiddette “Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza” (Rems), ricordate peraltro nell’articolo dal Garante dei detenuti di Roma, dove l’anziano si trova a vivere con persone di ogni età - dai giovanissimi ai meno giovani - che hanno commesso un reato anche grave, ma sono stati giudicati non imputabili per la presenza di un disturbo psichiatrico, e con i quali non può certo ritrovare senso e speranza per la sua vita, ma più frequentemente diventa piuttosto oggetto di stigma e di esclusione dal contesto sociale”. Nell’intervista citata, infatti, io ho parlato di Rsa (Residenze sanitarie per anziani) e non di Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), che sono destinate ad altre situazioni. Gabriella Stramaccioni, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale Gentile Garante, prendo volentieri atto della sua richiesta. Sottolineo semplicemente che la lettera dei professori Ferrannini e Nuvoli aveva fatto seguito all’articolo che su “Popotus”, il nostro inserto bisettimanale per bambini, abbiamo dedicato lo scorso 21 gennaio 2020 al tema degli anziani non autosufficienti e già detenuti che non sanno dove andare una volta giunti al momento della scarcerazione. Sottolineo inoltre che la citazione nella lettera e nell’articolo delle parole e dei concetti che lei ha consegnato al collega Paolo Mele dell’agenzia Ansa lo scorso 15 gennaio, a proposito sia di Rsa sia di Rems, non è stata in alcun modo polemica nei confronti suoi e del suo impegno per ottenere dalle Istituzioni preposte risposte adeguate al problema di diverse persone in condizioni altrettanto diverse alle quali - cito ancora le sue parole - si riesce a dare collocazione solo “in qualche caso” e “con l’aiuto della Chiesa”. Grazie per la sua azione di garanzia. Marco Tarquinio Sulla giustizia la grande battaglia di primavera di Marcello Sorgi La Stampa, 8 febbraio 2020 Non farà cadere il governo, che gode in Parlamento e soprattutto al Senato di un’assicurazione sulla vita rappresentata dal partito senza nome di quelli che non vogliono andare a casa. Ma non sarà neppure una passeggiata il confronto sulla prescrizione, che rischia di trasformarsi nella grande battaglia di primavera. Già solo sulle due iniziative dell’ex ministro Costa e della renziana Annibali, tendenti a sospendere gli effetti della legge sull’abolizione della prescrizione entrata in vigore a gennaio, sono da mettere in conto quattro votazioni, due alla Camera e due al Senato, dove la maggioranza giallo-rossa, senza l’appoggio dei renziani, si presenterà nelle aule con numeri più risicati. Poi c’è l’ipotesi del decreto per trasformare in legge il faticoso compromesso siglato tra 5 stele, Pd e LeU nella notte di giovedì. Il ministro Bonafede, che forse, pur essendo un giurista, si era dimenticato che i decreti per arrivare in Parlamento necessitano della controfirma del Presidente della Repubblica, ha fatto in tempo a rimangiarsi l’annuncio già ieri in mattinata, consapevole che Mattarella non firmerebbe un testo che in partenza non ha la maggioranza, data l’esplicita presa di distanza di uno dei partners della coalizione. Sulla quale peraltro il presidente del consiglio dovrà riferire al Quirinale, non trattandosi di un evento ordinario nella vita di un esecutivo già indebolito dalla mancanza di accordo su molte questioni urgenti, che richiedono una soluzione in tempi rapidi. Resta da capire cosa ha spinto Renzi a impuntarsi, dal momento che è lui stesso a dire che non vuol far cadere il governo (forse anche perché è convinto che non sia così facile). Come sempre, se ne dicono tante, compresa la voce che l’ex premier voglia arrivare alla stagione delle nomine negli enti di Stato, e della possibile defenestrazione di alcuni dei manager insediati all’epoca del suo governo, con un contenzioso aperto, per poi far opera di compensazione. Ma al momento la spiegazione più semplice sembra questa: non potendolo far cadere, Renzi si accontenterebbe di logorare Conte, per far calare i suoi indici di gradimento, che a dispetto delle ultime difficoltà si mantengono alti. Bonafede: “Lunedì a Palazzo Chigi il mio ddl penale” di Simona Musco Il Dubbio, 8 febbraio 2020 I contenuti della riforma: a regime, i tre gradi di giudizi dovranno chiudersi in tre anni, o i giudici saranno passibili di sanzioni. Si potrà anche fare a meno di riascoltare i testi in appello. La data ora c’è: lunedì 10 febbraio. Sarà quello il giorno in cui la riforma del processo penale approderà in Consiglio dei ministri, dove il guardasigilli Alfonso Bonafede arriverà dopo mesi di braccio di ferro con i partiti di maggioranza sul tema della prescrizione. E dopo aver ricucito i rapporti, salvando, di fatto, la tenuta della coalizione, tocca passare alla madre di tutti i problemi: i tempi del processo. Bonafede, a margine dell’apertura dell’anno giudiziario amministrativo a Firenze, lo assicura a microfoni aperti: la riforma del processo penale assicurerà ai cittadini “certezza e brevità dei tempi, con l’eliminazione di ogni tipo di isola di impunità”. L’obiettivo “condiviso nella maggioranza” è quello di velocizzare l’iter e far arrivare la lunghezza massima del processo fino a tre anni. “Ci vorranno due anni per arrivare a regime e saranno inseriti dei meccanismi anche sanzionatori, nei confronti dei giudici, se i termini non verranno rispettati”, si legge nella lettera inviata da Bonafede ai partiti di maggioranza. La nuova riforma, che conta 35 articoli, fissa a un anno la durata del primo grado - ma non per reati quali mafia o terrorismo - due anni per l’appello e uno per la Cassazione. Tempistiche che potranno essere variate soltanto dal Csm, sulla base del carico di lavoro degli uffici giudiziari e dei processi pendenti. Ma non solo: una delle novità è quella delle sanzioni previste per i giudici che “rallenteranno” gli iter processuali, con la possibilità di subire anche qui procedimenti disciplinari. Per presentare appello, gli avvocati dovranno ricevere una specifico mandato da parte dell’imputato dopo la condanna. La scrematura dei tempi dibattimentali passerà anche dall’abolizione dell’obbligo di riascoltare i testimoni sentiti in primo grado. Inoltre nel caso in cui l’appello non venisse convocato entro due anni, la difesa potrà chiedere la fissazione immediata dell’udienza. La norma prevede scadenze più strette per le indagini preliminari, con la possibilità di chiedere una sola proroga alle indagini, per un termine non superiore ai sei mesi. I tempi saranno di “sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale il reato è attribuito è iscritto nel registro delle notizie di reato per i reati puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni sola o congiunta alla pena pecuniaria; un anno e sei mesi dalla stessa data quando si procede per taluno dei delitti indicati nell’articolo 407, comma 2, del codice di procedura penale; un anno dalla stessa data in tutti gli altri casi”. Ma è previsto anche un più ampio ricorso a riti alternativi, con l’aumento del limite di pena per il patteggiamento a otto anni di reclusione e l’esclusione dai riti speciali per reati come strage, omicidio, infanticidio. Per l’accesso all’abbreviato condizionato non si guarderà solo al principio di economia processuale, ma anche ai requisiti di rilevanza e novità dell’integrazione probatoria. La bozza prevede anche una scala di priorità nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi, con precedenza assoluta per i processi relativi ai delitti colposi di comune pericolo. Nella riforma, infine, verrà ridisegnata anche la geografia del Csm, che potrebbe essere composto da 20 togati (oggi sono 16) e 10 laici (oggi 8), per un totale di 30 membri. Salta l’ipotesi di nomina tramite sorteggio: il voto dei membri togati avverrà in 19 collegi che verranno definiti dal ministero della Giustizia. Passa al primo turno chi raccoglierà la maggioranza dei voti, altrimenti è previsto il ballottaggio con i due candidati più votati. “Come ministro della Giustizia ha sottolineato Bonafede - sto portando avanti un ampliamento della pianta organica dei magistrati che non si è mai visto nella storia della Repubblica”. Il riferimento è ai circa 600 posti in più per i magistrati e a un piano di assunzioni di circa 9mila unità per gli uffici giudiziari. La prossima settimana, ha annunciato infine, verrà inoltre istituito un tavolo permanente all’interno del ministero per la valutazione dell’impatto delle leggi sul sistema giustizia. Prescrizione. Governo pronto a chiedere il voto di fiducia di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 8 febbraio 2020 Conte: “non chiedetemi se sono giustizialista o garantista”. Insorgono dem e lv, lui si corregge. Giuseppe Conte cerca il rilancio, perché “il Paese vuole correre”. Ma le lame che volano sul tema giustizia rischiano di segare le gambe ai “tavoli di lavoro per l’Agenda 2023”, che partiranno lunedì a Palazzo Chigi. Sulla prescrizione la maggioranza resta spaccata nonostante il ministro Bonafede, per scongiurare la crisi, abbia ammorbidito la sua posizione e consentito un accordo. Il piccolo partito di Renzi, Italia Viva, resta arroccato sul no al “lodo bis” di Conte e il caso sarà presto un delicato affare di numeri parlamentari. Ragion per cui premier e Guardasigilli, dopo aver vagliato trappole e rischi, stanno maturando l’ idea di evitare un decreto ad hoc e di inserire la “nuova” prescrizione nel Milleproroghe, per farla passare a colpi di fiducia. “Un decreto che recepisse il lodo Conte si schianterebbe in Parlamento”, prevede l’azzurro Enrico Costa. Il punto è che Palazzo Chigi non intende toccare di una virgola l’impianto della mediazione faticosamente raggiunta. “Non possiamo darla sempre vinta a Renzi”, ha concordato il premier con i capi delegazione di M5S, Pd e Leu. Nelle stanze del governo nessuno pensa che Renzi porterà lo strappo fino in fondo, votando con la Lega e con Forza Italia. “Uscirà dall’ Aula”, è la previsione. Eppure la tensione è fortissima. Perché i renziani, sospettati di ogni possibile manovra di palazzo, minacciano anche di non dare il via libera alla riforma del processo penale, con cui il Guardasigilli conta di eliminare “ogni isola di impunità”. Zingaretti è stufo e accusa l’ex premier di “picconare” il governo. In questo clima tempestoso, Conte è scivolato sulla proverbiale buccia di banana. “Non chiedetemi se sono garantista o se sono giustizialista - ha scolpito su Twitter - Queste contrapposizioni manichee vanno bene per i titoli dei giornali”. Italia Viva è insorta, dando a Conte del populista-giustizialista e ribadendo la distanza siderale tra i renziani e i seguaci, per dirla con Davide Faraone, del “nascente partito unico Pd-M5S”. Ma ora, per quanto determinati a sostenerlo, anche i dem lanciano al premier segnali di sofferenza. Orfini: “Chiedetegli solo se pensa di essere furbo, o che siamo fessi noi”. Il capogruppo Marcucci: “Io sono fieramente garantista, a differenza del premier”. E Nannicini, nel giorno in cui Zingaretti rilancia Conte come “leader progressista”, tocca il nervo dolente del Pd: “Il garantismo è la risposta dei progressisti”. Un assalto tale che in serata il premier prova a rassicurare gli alleati: “Non vorrei si fosse creato un malinteso. È chiaro che dobbiamo essere per tutte le garanzie costituzionali”. Purché il garantismo non venga “brandito come una clava”, spiega Conte sottovoce. Ma intanto l’ uscita infelice ha consentito ai renziani - che in questa battaglia hanno l’ appoggio dell’ Unione delle Camere penali - di puntellare il loro no, strizzando l’occhio a Forza Italia e a quella parte di Pd che mal sopporta un certo giustizialismo grillino. Per spazzare via i dubbi della sinistra e gli attacchi della destra, che giudica incostituzionale il decreto e si scaglia, con Mariastella Gelmini, contro “l’ergastolo processuale”, Riccardo Fraccaro parla della contestatissima norma come “una conquista di civiltà”. E Bonafede chiarisce in cosa consista la seconda mediazione di Conte: “Sospensione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio in caso di condanna”. Se poi in appello c’ è l’ assoluzione, la persona che in primo grado era stata condannata “recupera i tempi di prescrizione”. Prescrizione, le contraddizioni cerchiobottiste senza che nessuno si preoccupi dei veri effetti di Francesco Damato Il Dubbio, 8 febbraio 2020 Ha ragione il Pd Zanda: alla ricerca continua del consenso il Parlamento non è più capace di legiferare. La meticolosa descrizione che ha fatto ai lettori del Dubbio Enrico Novi della situazione interna al sindacato delle toghe dimostra come meglio non si poteva come l’Associazione Nazionale dei Magistrati - questo è il suo aulico nome - faccia ormai concorrenza, per come si sono messe le cose in vista delle elezioni sociali di aprile, all’ormai caotico, turbolento e imprevedibile Movimento 5 Stelle. Le cui tensioni condizionano il governo e la maggioranza obbligando l’uno e l’altra a viaggiare a vista, tra vertici interlocutori e rischi continui di deragliamento di un treno pur a bassa velocità, non certamente paragonabile alla Frecciarossa di sfortunata attualità in questi giorni. Per numeri e intrecci dell’una e dell’altro - Associazione dei magistrati e Movimento grillino tornano alla mente, almeno per i più anziani o meno giovani lettori, le vicende interne della Dc, e anche del Psi, dei tempi peggiori, quando ci volevano le carte di navigazione e le macchine utili a decrittare i messaggi per capire, o cercare di capire, come andassero le cose al loro interno, spesso preparando nuove crisi di governo già all’indomani della soluzione dell’ultima. Ora è chiaro, condizionato com’è dai rapporti fra le correnti o aree del sindacato, ma soprattutto dal peso cresciuto dell’urticante Piercamillo Davigo anche all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura, perché il presidente dell’Associazione Nazionale dei Magistrati Luca Poniz quando parla della prescrizione, come ha appena fatto in una intervista al Corriere della Sera, cade in continua contraddizione. “Tutti sappiamo - ha detto, per esempio, Poniz convenendo con la posizione del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede prima che questi aprisse a una soluzione più lunga, di due condanne esecutive necessarie per non conteggiare più i tempi di scadenza dei reati- che non c’è l’apocalisse alle porte perché la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado vale solo per i reati commessi dal 1° gennaio 2020, per cui la nuova disciplina non avrà effetti concreti prima di qualche anno. C’è urgenza di intervenire ma anche tempo a disposizione”. Sarebbero quindi “strepiti” inutili e isolati, come li ha definiti Il Fatto Quotidiano, gli allarmi lanciati da Matteo Renzi e la richiesta di sospendere la nuova disciplina della materia, entrata nel codice con la cosiddetta legge spazzacorrotti approvata dalla precedente maggioranza gialloverde, per contestualizzarla davvero con la riforma del processo penale. Questo della contestualizzazione era, del resto, il progetto concordato fra grillini e leghisti, compromesso dagli stessi leghisti provocando la crisi di governo nella scorsa estate. Eppure nella medesima intervista Poniz si è trovato d’accordo con “la gran parte dei procuratori generali e dei presidenti di Corte intervenuti alle inaugurazioni dell’anno giudiziario, nella parte in cui non contestano la finalità ma temono l’impatto” del blocco della prescrizione con la gestione della macchina della Giustizia, cioè dei processi. Se questa non è contraddizione, non saprei francamente come altro chiamarla. L’impatto non è cosa irrilevante, da mettere tra parentesi. Quanto meno curiosa, infine, è la sostanziale diffida ripetuta al ministro della Giustizia e al Parlamento a introdurre “sanzioni disciplinari per i magistrati se non vengono rispettati i tempi contingentati dei processi” : ipotesi - ha detto testualmente Poniz - che “oltre che illusoria, è per noi irricevibile e offensiva”. E come si potrebbero garantire diversamente i tempi “ragionevoli” del processo scritti nell’articolo 111 della Costituzione, una volta che non c’è più la prescrizione per tutelare non solo gli imputati, che non cessano di essere cittadini, ma una sana, direi decente amministrazione della Giustizia? Non credo che abbia torto, a questo punto, l’ex capogruppo al Senato e ora tesoriere del Pd Luigi Zanda, non lo scissionista Renzi, a dire - come ha fatto alla Stampa parlando anche della riduzione dei seggi parlamentari in via di ratifica referendaria- che “alla ricerca del consenso il Parlamento sta disimparando a legiferare: si fanno le leggi e delle conseguenze ci si lava le mani. Per inseguire i voti ha aggiunto Zanda - siamo caduti prigionieri dell’analfabetismo giuridico- parlamentare”. La prescrizione? Si recupera se sei assolto in appello di Errico Novi Il Dubbio, 8 febbraio 2020 Il lodo Conte last-version: previsti solo lievi benefici. termini di estinzione bloccati per chi viene giudicato colpevole in primo grado, fermi per due anni dopo una prima sentenza di assoluzione. Cosa cambia con il lodo Conte bis? Pochissimo. Verrebbe da prendere per buona una dichiarazione di Enrico Costa, il castigamatti di tutti i compromessi sulla prescrizione: “Il Pd sdogana la norma Bonafede e spera che nessuno se ne accorga”. Al di là della componente emotiva introdotta dal deputato azzurro, la realtà è che, come lui dice, la sostanza è sempre la stessa. Resta l’enorme rischio di diventare imputato a vita per chi è condannato in primo grado. Nel momento in cui un giudice ti dichiara colpevole, si spalanca dinanzi ai tuoi occhi il baratro del processo senza fine. Non c’è alcun meccanismo tassativo, infatti, che garantisca un tempo di celebrazione ragionevole, e soprattutto certo, determinato, alla fase d’appello. Può durare potenzialmente all’infinito. L’effetto concreto del lodo Conte bis è questo. Non c’è alcuna concreta tutela per quei malcapitati che si trovassero un domani da innocenti a incappare in una sentenza sbagliata in primo grado. Si prevederanno risarcimenti più veloci e congrui. La possibilità per le difese di reclamare la fissazione dell’appello passati due anni senza che sia accaduto nulla. Ma poi si faranno i conti col carico sovrabbondante delle pendenze, destinato a moltiplicarsi proprio per il venir meno della prescrizione, come spiegato dal presidente della Cassazione Giovanni Mammone. Di sicuro nessuno potrà restituire, all’innocente condannato per sbaglio, la vita portata via dall’angoscia di un ingiusto permanere in stato d’accusa. Nessuno. Inoltre. Si sottovaluta l’effetto psicologico che un simile meccanismo produce fin da subito. Qui vacilla pesantemente la tesi più volte accreditata dal ministro Bonafede secondo cui gli effetti della sua prescrizione si sarebbero materializzati solo fra 4 o 5 anni. Non è così per motivi tecnici, perché oltre alle condanne nel processo di primo grado ci sono anche i decreti penali di condanna emessi dal giudice direttamente al termine della fase preliminare, quindi potremo avere i primi “blocchi” della prescrizione già tra non molti mesi. Ma a parte questo, l’effetto vero, tanto immateriale quanto reale, per dirla coi filosofi, è sia psicologico sia pratico rispetto all’esercizio della difesa. È chiaro infatti che per chi oggi, domani, tra quindici giorni (o anche per chi lo fosse stato in questi prima 40 giorni dell’anno) si trovasse indagato, si squaderna da subito la prospettiva da incubo di cui sopra. Si squaderna da subito, non da qui a qualche anno quando si sarà celebrato il processo di primo grado. Perché fin da ora l’indagato saprà che nella malaugurata ipotesi di un rinvio a giudizio potrebbe iniziare per lui l’angoscioso cammino verso il tunnel della durata incerta. In caso di condanna in primo grado, magari ingiusta, inizierà una fase d’appello senza limiti. E questo, com’è inevitabile, condizionerà pesantemente la vita delle persone, le loro attività economiche sia libero imprenditoriali sia impegatizie, la loro strategia difensiva, le loro scelte sul procedimento, loro e dei loro difensori. C’è bisogno di aggiungere altro? Il meccanismo esatto del lodo. Eccolo. Lo ha spiegato Bonafede ieri: dopo una condanna in primo grado, il decorso della prescrizione sarà abolito. In caso di assoluzione in appello, riprenderà a decorrere. E anzi, verrà reimmesso nel calcolo tutto il tempo durante il quale il “cronometro” della prescrizione era stato fermato. In tal modo potrebbe anche verificarsi che l’estinzione del reato arrivi subito, magari dopo pochi giorni, e che perciò, in caso di ricorso in Cassazione da parte del pm, la Suprema corte dichiari l’intervenuta prescrizione. In caso di assoluzione in primo grado, basta il ricorso in appello del pm per far sospendere il decorso della prescrizione. Stop ai cronometri per 24 mesi. Se in appello si è assolti, la prescrizione ricomincia a decorrere, e anche qui viene reimmesso nel calcolo il tempo durante il quale il cronometro era stato stoppato. Se invece un assolto in primo grado viene condannato in appello, la prescrizione si blocca di nuovo. La logica è chiara: quello che conta è che il pm possa provarle tutte, pur di arrivare a una condanna. La riforma della prescrizione piace al 59% degli italiani. Ma solo 1 su 5 sa di cosa si tratta di Nando Pagnoncelli Corriere della Sera, 8 febbraio 2020 La riforma della prescrizione approvata dal precedente governo ed entrata in vigore il primo gennaio scorso ha scatenato un duro scontro nella maggioranza, mettendo a rischio la tenuta dell’attuale governo. Nonostante il clamore suscitato, il provvedimento risulta conosciuto da meno di un italiano su due: in particolare, solo il 5% dichiara di conoscerlo nel dettaglio e il 40% nelle sue linee generali. Per converso il 36% ne ha solo sentito parlare e il 19% ignora la questione. In generale le opinioni sulla prescrizione sono piuttosto nette, infatti il 57% ritiene si tratti di un provvedimento che spesso consente ai colpevoli di evitare la condanna e propende per l’eliminazione o l’allungamento affinché si giunga a sentenza, evitando l’estinzione del reato; al contrario solo il 20% considera la prescrizione una garanzia per gli imputati, in assenza della quale rischiano di rimanere sotto processo per un tempo molto lungo e all’incirca uno su quattro (23%) non si esprime in proposito. Siamo di fronte alla consueta contrapposizione tra giustizialisti e garantisti, una delle tante fratture che attraversa il nostro Paese. Tra coloro che conoscono la riforma promossa dal ministro Bonafede, nonostante i primi continuino a prevalere (59%) si registra un significativo aumento dei secondi che salgono al 34%. Con l’eccezione degli elettori di Forza Italia e Fratelli d’Italia, che nell’insieme appaiono divisi a metà (44% garantisti e 43% giustizialisti), tra tutti gli elettorati prevale nettamente l’opinione di chi considera la prescrizione una sorta di scappatoia per i colpevoli, in particolare tra i pentastellati (76%), seguiti dai dem (65%). Non stupisce quindi che prevalga il favore allo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Infatti, il 49% è del parere che il provvedimento restituisca la certezza della pena, dando maggior efficacia al processo, mentre il 25% è di parere opposto, ritenendo che possa determinare l’allungamento dei processi e una perdita di efficienza degli uffici giudiziari. La prima opinione prevale tra tutti gli elettorati, sia pure con accentuazioni diverse, più elevate tra gli elettori del M5S (di cui è espressione il ministro Bonafede, promotore del provvedimento), con il 64% di consenso, più contenute tra i leghisti (50%), che pure facevano parte della maggioranza che varò la riforma. Le opinioni sono dunque molto nette perché è diffusa la preoccupazione che i responsabili di gravi reati possano farla franca, rimanendo impuniti. E tra i gravi reati si annovera la corruzione: non a caso la riforma della prescrizione era contenuta nel disegno di legge denominato “Spazzacorrotti”. Tenuto conto della dura contrapposizione all’interno della maggioranza tra Italia viva e M5S, in questi giorni viene da più parti evocata la possibilità che la vicenda possa sfociare in una crisi di governo. Ipotesi giudicata negativamente dal 32% degli italiani (76% tra i dem e 68% tra i pentastellati) e positivamente dal 26% (60% tra gli elettori dell’opposizione). Il dato più interessante è rappresentato dal 19% che ritiene che tutto sommato sarebbe meglio approdare a una crisi di governo, perché nonostante siano state fatte cose buone ormai le divisioni nella coalizione sono troppe. Insomma, l’indice di gradimento dell’esecutivo si mantiene su discreti livelli, come abbiamo riportato nel sondaggio della scorsa settimana, ma una quota dei sostenitori ritiene che a fronte di crescenti divisioni sia meglio dare un taglio. D’altra parte, il tallone d’Achille di qualsiasi esecutivo è rappresentato dalla scarsa coesione delle forze che compongono la maggioranza: indipendentemente dal merito delle questioni, le divisioni interne condite da toni accesi e da ultimatum più o meno definitivi, sono considerate dai cittadini mere questioni di potere e un freno all’azione del governo. E i sistemi proporzionali, favorendo questa dinamica, rischiano di produrre coalizioni da molti considerate abborracciate. Prescrizione, Renzi: “Non voteremo questo pasticcio. Se lo vogliono fare, ci caccino” di Maria Teresa Meli Corriere della Sera, 8 febbraio 2020 Il leader di Italia Viva: “Non siamo isolati, siamo garantisti. Con noi ci sono i penalisti, i magistrati e secoli di civiltà giuridica italiana. Siete isolati? “Non siamo isolati, siamo garantisti. E anche se il premier sembra non capire la differenza tra giustizialismo e garantismo, per noi si tratta di un valore importante. Da un lato c’è Bonafede e purtroppo insieme con lui c’è quello che resta del riformismo del Pd. Dall’altro ci sono i penalisti, i magistrati, i garantisti insieme a secoli di civiltà giuridica italiana”. Ma perché forzare sulla prescrizione, in questa fase? “Forzare sulla prescrizione è oggettivamente assurdo in un momento nel quale abbiamo il coronavirus, l’incidente del Frecciarossa, il Pil negativo. E tuttavia la forzatura viene dai giustizialisti, non da noi. Noi non stiamo forzando: abbiamo solo chiesto di prenderci tempo con il lodo Annibali. Un anno per riflettere sulle soluzioni migliori e gli altri invece insistono sulla bandierina Bonafede. Capisco i Cinque Stelle che sono in una crisi spaventosa. Mi sfugge invece il motivo per cui il Pd debba ammainare la bandiera garantista dopo aver vinto in Emilia-Romagna grazie a un presidente riformista: ci saranno ragioni che io non conosco, ma è politicamente e logicamente inspiegabile”. Ieri si è sparsa la voce che i vostri ministri si dimetteranno e passerete all’appoggio esterno. Dal Pd dicono che poi avete cambiato idea. “Teresa Bellanova è bravissima alla guida dell’agricoltura italiana. Elena Bonetti è il primo ministro che ha messo soldi veri sulla famiglia. E il sottosegretario Ivan Scalfarotto è il punto di riferimento alla Farnesina per chi conosce le regole dell’export. I nostri tre al governo fanno un grande lavoro. Per noi devono andare avanti. Se invece il Pd ha voglia di occupare anche questi altri tre scranni glieli lasciamo domattina. Per noi i principi valgono più delle poltrone. Noi non vogliamo far dimettere nessuno, vogliamo lavorare. Ma se per fare il ministro dobbiamo rimangiare secoli di civiltà giuridica si sappia che non abbiamo problemi a fare un passo indietro. Decida Conte: se vuole cacciarci, basta dirlo. Se vuole tenerci, lavoriamo. Nell’uno e nell’altro caso noi non votiamo il pasticcio prescrizione: le idee vengono prima delle poltrone”. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte dice “Non chiedetemi se sono giustizialista o garantista”. “A me possono chiederlo. Perché essere giustizialista significa violare la carta costituzionale, è una patologia, una forma di populismo tra le più barbare. Essere garantista invece significa essere una persona civile. Il fatto che il premier, già avvocato, già professore di diritto non colga la differenza getta nello sconforto tutti gli esperti di diritto di questo Paese. Detto questo vorrei chiedere a Conte di occuparsi di cantieri, di tasse, di immigrazione. Se Conte mette sullo stesso piano l’essere giustizialista o garantista significa che la dottrina giuridica non è il suo punto forte, a dispetto del celebre curriculum. Si occupi di altro e gli daremo volentieri una mano”. Senatore Renzi, ma è vero che lei vuole sostituire Giuseppe Conte con Dario Franceschini? “Gossip che vale meno di zero. Peraltro in questa vicenda Franceschini è stato ancora più duro di Conte, nel merito. Forse Dario non aveva letto i testi, stavolta. In ogni caso: a me non interessa cambiare il nome del premier. Mi interessa cambiare il modo di lavorare del premier. C’è la Brexit, la Turchia in Libia, la crisi in Cina. E questi fanno pasticci sulla prescrizione? L’Italia ha bisogno di correre, non di polemiche”. Secondo Nicola Zingaretti le polemiche le fa Italia Viva. Dice che dovevate porre il tema ad agosto. “Lo abbiamo detto quando ancora eravamo nel Pd. Allora addirittura abbiamo detto che la legge Bonafede era incostituzionale e abbiamo posto in aula persino la pregiudiziale di costituzionalità. Poi ai tavoli di maggioranza come Italia viva abbiamo sempre sottolineato il problema della Bonafede. Ma Zingaretti non parli di noi: pensi a sé. Come può il Pd difendere la legge di Bonafede-Salvini e non quella di Orlando-Gentiloni? Un tempo il Pd era garantista, adesso segue la linea di Travaglio e di Davigo. Legittimo, ma è tutta un’altra cosa”. Ma quindi che farete in Consiglio dei ministri se il compromesso dem-5S diventerà un decreto? “Evidentemente hanno fatto due conti e sono sicuri di avere i numeri. Come ha detto il presidente degli Avvocati penalisti Caiazza questo testo provoca comunque “danni devastanti”. Noi non lo voteremo”. E se dovesse arrivare nell’aula del Senato dove i vostri voti sono determinanti? È vero che uscirete dall’aula? “Cercheremo di modificarlo con gli emendamenti. Nel caso in cui non riuscissimo voteremmo contro”. Ma non darete il via libera nemmeno alla riforma del processo penale? “Aspettiamo di vedere il testo finale e decideremo”. Crede ancora possibile arrivare al 2023? “Sì. Penso che sia la soluzione più giusta. Ci sono cantieri da sbloccare, tasse da abbassare, diritti da affermare. E noi ci siamo. Ma non possono pensare che noi veniamo meno ai principi chiave del diritto solo per evitare le elezioni o il cambio di governo. Si arriva al 2023 se ci si rispetta. Io non posso far parte di una cultura manettara. E lo dice uno che ha alzato i termini della prescrizione, che ha lottato per cambiare le leggi di Forza Italia su questi argomenti. Ma no, non sarò mai dalla parte di chi si professa giustizialista. Al 2023 ci arriviamo se smettiamo di inseguire il populismo. Il populismo economico è quello del reddito di cittadinanza, il populismo giuridico si chiama giustizialismo”. I boatos dicono che Conte potrebbe sostituirvi con un gruppo di responsabili provenienti dal centrodestra. “Benissimo! Se questo è l’obiettivo del premier, non solo non ci arrabbiamo ma gli diamo pure una mano. Noi non stiamo al Governo a tutti i costi. Ci stiamo per mantenere alta la bandiera del riformismo e per aiutare l’Italia. Se Conte vuole sostituirci con una pattuglia di deputati e senatori di Forza Italia, noi ci facciamo da parte con eleganza e stile. Possiamo rinunciare alle poltrone ma non possiamo rinunciare ai valori. Noi siamo e saremo garantisti: non diventeremo giustizialisti per una poltroncina. Non noi, almeno”. Albamonte: “Tutto sulle spalle di noi magistrati. Il governo è sleale” di Francesco Grignetti La Stampa, 8 febbraio 2020 L’ex presidente dell’Anm: “Toghe garanti del rispetto dei tempi, è ingiusto. Passeremo il nostro tempo a scrivere relazioni per il servizio ispettivo”. Eugenio Albamonte, ex presidente dell’Anm, oggi alla guida delle toghe progressiste riunite in “Area”, ritiene che il Lodo Conte bis funzionerà nelle aule di tribunale? “Vedremo. Gli aspetti tecnici potranno essere rivisti fino all’ultimo dal legislatore. Mi sembra presto parlare di come questa nuova prescrizione si inserirà nel sistema processuale. Non mi sento di arruolarmi in nessuna tifoseria. È un sistema come tanti altri... Bisognerà piuttosto ragionare sulle compatibilità costituzionali. C’è chi dice che è prerogativa del Parlamento trattare diversamente situazioni diverse quali sono un condannato o un assolto, in primo o in secondo grado. Premessa la regola generale della presunzione di non colpevolezza, se c’è stata una assoluzione in primo grado potrebbe avere un senso un regime mite; viceversa, con una condanna, seppure in primo grado, che è comunque una previsione di responsabilità, ancor maggiore se ribadita in secondo grado, avrebbe senso un trattamento severo. Sappiamo bene, però, che secondo alcuni giuristi questo trattamento differenziato violerebbe il principio di uguaglianza. Io dico che è materia del legislatore e sicuramente sarà la Corte costituzionale a pronunciarsi, perché è scontato che lì si finirà. Ma in questo Lodo Conte bis c’è qualcosa che proprio non va, un atteggiamento inaccettabile nei confronti di noi magistrati”. Ovvero? Che cosa vi ha indispettito? “Già nel meccanismo di questa nuova prescrizione, si prevede che il magistrato debba fissare le udienze secondo tempi prescritti, altrimenti scatta il procedimento disciplinare. Lo stesso accadrebbe per il rispetto delle fasi del processo. Alla fine, tutta l’architettura di questa riforma su cui i tre partiti di maggioranza hanno trovato il loro accordo, finisce sulle nostre spalle. Siamo noi a dover garantire il rispetto dei tempi. E ciò a dispetto di tutte le disfunzioni della giustizia che non sono certo una nostra responsabilità. Non è giusto. E non è neppure leale. È il governo, attraverso il ministro della Giustizia, che deve garantire il funzionamento, attraverso investimenti, personale, logistica, strumentazione. Invece la politica trova la comoda scappatoia di fare apparire noi dei pelandroni, ci lascia con il cerino acceso, e si scarica la coscienza di fronte all’opinione pubblica”. Vi siete arrabbiati sul serio, sembra… “Guardi, se vogliono, perché allora non decidono che dalla settimana prossima i treni per andare da Roma a Milano devono impiegare un’ora e mezzo? E se il macchinista non ci riesce, lo licenziamo. Voglio spiegare in poche parole che cosa accadrà, in concreto: i magistrati, sapendo che è impossibile rispettare tempi decisi a tavolino, dedicheranno buona parte delle loro energie a premunirsi contro i procedimenti disciplinari. Ogni volta che ci sarà uno sforamento, e in un grande tribunale potrebbe accadere cinquanta, sessanta, cento volte a ciascuno di noi, passeremo qualche pomeriggio, finita l’udienza, non a scrivere le sentenze, ma a scrivere le relazioni per il servizio ispettivo. E la dovremo scrivere perbene, ristudiando i fascicoli, per sottolineare date e passaggi. Ci vorranno cinquanta, sessanta, cento pomeriggi, forse il doppio, a scrivere relazioni e non sentenze. State pur certi che i tempi della giustizia si allungheranno, non il contrario”. Giovanni Guzzetta: “Il lodo Conte è incostituzionale, processi ancora senza fine” di Errico Novi Il Dubbio, 8 febbraio 2020 “Serve a poco che un condannato in primo grado possa vedere ricalcolata la prescrizione in caso di condanna in appello perché il giudizio di secondo grado continua a non avere un limite di durata”. Sentite Giovanni Guzzetta. Costituzionalista e avvocato, anche se c’è chi per questo tenderebbe ad escluderlo dal novero degli interlocutori credibili. Certo Guzzetta, professore a Tor Vergata, è tra i docenti di Diritto costituzionale più apprezzati del Paese, ed è conteso fra giurisdizioni di ogni tipo, Consiglio di Stato incluso, quale componente di organi di garanzia e autogoverno, ma ha avuto anche il coraggio di condurre battaglie davvero solitarie, come quelle per i referendum maggioritari. Quindi, tutto si può dire ma non che il professor Guzzetta cerchi di salire su carri più o meno vincenti. “Partiamo da una premessa logica, prima che tecnica: l’argomento che la prescrizione infinita si giustifichi perché si farà una riforma acceleratoria del processo che la disinnescherà è palesemente contraddittorio. Perché delle due l’una: o si ritiene che la riforma del processo sarà così efficace da rendere inutile la riforma della prescrizione, e allora perché farla?”, si chiede più che sensatamente Guzzetta. “Oppure si teme che, quale che sia la possibile accelerazione, nessuno possa garantire che i processi si concludano in tempi sufficienti. Ma allora, scusate, è davvero contraddittorio dire che la giustificazione della prescrizione eterna è nella riforma penale prossima ventura”. Ecco, professore: sul piano della coerenza ci sono molte falle. Eppure l’idea di fondo a cui il governo si ispira sulla giustizia potrebbe in realtà esserci: offrire al pm tutti gli strumenti possibili per veder confermata la propria supposizione accusatoria, a costo di sacrificare tutto il resto... Partiamo dalla prescrizione. Dalla natura dell’istituto. Risponde alla seguente domanda: fino a che punto è giusto lasciare un cittadino sospeso ai tempi della giustizia? Finora si è ritenuto di bilanciare il suo interesse a non essere sotto processo a vita con quello dello Stato a perseguire i reati. Ora il primo valore è annullato. E forse non se ne considerano le conseguenze. A cosa si riferisce? Agli effetti extra penali: restare sotto processo a tempo indeterminato compromette reputazione, attività professionale, serenità familiare. Conte, o Bonafede, le obietterebbero: l’ultimo lodo ha cambiato le cose, non è vero che si rischia il processo infinito perché in caso di assoluzione in appello la prescrizione si ricalcola normalmente... Innanzitutto ci troveremo di fronte a una disparità di condizione tra chi in primo grado è assolto è chi è condannato. Il che pone diversi problemi di legittimità costituzionale. Nonostante le modifiche apportate dal lodo bis? Sì, a mio parere. Innanzitutto perché la prescrizione provvede, per sua natura, a stabilire un termine entro il quale lo Stato può perseguire un crimine a prescindere dall’innocenza o dalla colpevolezza della persona accusata. È così, è la logica dell’istituto. Perciò far rilevare, ai fini della prescrizione, un accertamento provvisorio immette nell’istituto una logica di irragionevolezza. E si viola così il principio di ragionevolezza sancito all’articolo 3 della Costituzione. A questo si aggiunge, com’è evidente, una lesione della presunzione di non colpevolezza. I sostenitori del lodo dicono: una condanna in primo grado attenua quella presunzione... Non è affatto così. La presunzione di non colpevolezza non è un principio graduato. Così come non si può essere mezzi incinti, o si è presunti innocenti o non lo si è. La presunzione a metà non esiste. E siamo al secondo profilo di incostituzionalità, ex articolo 27... Il terzo? Eccolo: se lo schema resterà quello rappresentato nelle ultime ore, con il blocco della prescrizione in caso di condanna, finirà che un colpevole assolto in primo grado godrà di una situazione più favorevole rispetto a un innocente che in primo grado è condannato per errore. Il colpevole assolto infatti può veder maturare la prescrizione, l’innocente condannato non può vederla maturare. Conte e Bonafede le ribatterebbero: sì, ma chi ha subito in primo grado una condanna ingiusta poi tanto recupera tutto il tempo di prescrizione perduto, in caso di assoluzione in appello. Sì, peccato però che non sia previsto un limite di tempo, al giudizio di appello. Ecco... Quindi un condannato in primo grado può stare sotto processo in appello anche dieci anni. E le assicuro che non è un’ipotesi di scuola. Torniamo alla domanda che fa da presupposto all’istituto della prescrizione: quanto tempo è legittimo che un cittadino innocente resti sotto la spada di Damocle della giustizia? Chiarissimo... Vede, siamo allo snodo. E qui che la posizione di chi è garantista si divarica dal giustizialismo. Perché dal primo punto di vista, bisogna innanzitutto tutelare un innocente dal rischio che una norma possa consegnarlo a una condizione di sofferenza eccessiva. Dal punto di vista dei giustizialisti pur di perseguire un colpevole è giusto sacrificare la possibilità di tutelare un innocente. In effetti Bonafede dice: abbiamo eliminato gli spazi di impunità... Dovrebbe dirci un’altra cosa: quanti sono i condannati in primo grado che vengono riconosciuti innocenti in appello, o addirittura in Cassazione? Non ce lo si dice, forse, perché se l’opinione pubblica comprendesse il rischio di vedere condannati degli innocenti ci sarebbero meno persone favorevoli alla prescrizione infinita. Ma se la sente di scommettere su una bocciatura del lodo Conte da parte della Consulta? Non ha senso fare pronostici. Però posso dire, da avvocato, che se un cliente mi chiedesse di difenderlo davanti alla Corte costituzionale con gli argomenti sopra ricordati, riconoscerei che si tratta di argomenti con una notevole dignità. Il presidente del Cnf Mascherin chiede che un tavolo aperto da Bonafede anche all’opposizione disegni una riforma penale capace di sopravvivere ai cambi di governo... Proposta sensatissima, come pure lo è un’altra di Mascherin: testare prima un’eventuale riforma penale per verificare se davvero è necessario intervenire sulla prescrizione. Sono d’accordo, certo, anche sulla necessità di superare un certo carattere della legislazione che, d’altronde, è generalizzato: la iteratività nevrotica, causidica, l’incapacità di sciogliere i nodi in modo sistemico. Con un approccio analitico ci accorgeremmo di quanto pesi l’obbligatorietà dell’azione penale, del rischio che con la nuova prescrizione il giudice sarà condizionato, perché sa che dalla sua sentenza dipende anche la possibilità che il reato si prescriva. Ma evidentemente è più comodo condurre battaglie ideologiche sulla pelle dei cittadini e delle persone offese, per qualche percentuale di consenso in più. Il Fatto Quotidiano e l’ossessione per gli avvocati difensori di Beniamino Migliucci Il Riformista, 8 febbraio 2020 A Il Fatto Quotidiano la battaglia dell’Unione camere penali contro la riforma Bonafede non va proprio giù. E così il giornale, strenuo quanto unico sostenitore di quella scriteriata legge, ha ripescato la parte di una audizione che ho tenuto quando presiedevo l’Unione, nella quale avrei affermato che la prescrizione non incide sulla ragionevole durata del processo. In merito l’estensore dell’articolo rileva che, richiamando la tesi dei professori Giostra e Padovani, avrei dichiarato che “la prescrizione è inidonea a garantire la durata ragionevole del processo”, “diciamo che anzi non c’entra nulla. Diciamo, anzi, che allungare i tempi della prescrizione può portare ad un allungamento dei tempi del processo”. L’intento del giornalista è evidente: dimostrare che l’Unione ha cambiato idea nel tempo, ed è dunque in contrasto con se stessa. Nulla di più infondato e immaginario. E che le cose non stiano così è evidente persino dallo stralcio riportato nell’articolo, dando per ammesso che sia stato correttamente riportato quanto affermato durante l’audizione. Basta leggere, infatti, per rendersi conto che le dichiarazioni attribuitemi sono estrapolate da un contesto più ampio e articolato nel quale l’Unione contrastava la riforma Orlando i cui sostenitori, sbagliando, ritenevano che dilatare i termini della prescrizione avrebbe consentito di rendere più spediti i processi, in ossequio al principio della ragionevole durata degli stessi. Da qui la risposta dell’Unione, che faceva rilevare esattamente il contrario di quanto strumentalmente sostiene il Fatto Quotidiano: si affermava infatti che l’allungamento dei termini di prescrizione non solo non avrebbe inciso sulla ragionevole durata del processo, rendendolo più breve, ma anzi si sarebbe ottenuto l’effetto contrario. Desidero rammentare anche, perché non vi siano altre strampalate e maliziose interpretazioni, che l’Unione si oppose energicamente all’entrata in vigore della riforma Orlando, proclamando circa quaranta giorni di astensione che costrinsero il governo a chiedere un doppio voto di fiducia su materie riguardanti la giustizia penale. Per verificare il corretto punto di vista dell’Unione sono ovviamente a disposizione, anche de Il Fatto Quotidiano, delibere di astensione, documenti e interviste dell’epoca. Il quotidiano potrà così verificare che le idee dell’Unione di ieri sono le stesse di oggi, confortate anche da tutta la migliore accademia. Ieri come oggi si sono segnalati i rischi connessi a un processo senza fine e i profili di incostituzionalità di riforme, come quella oggi in vigore, che rendono imputati e persone offese ostaggi dello Stato per un tempo indeterminato. Presunzione di innocenza, risocializzazione del reo, diritto alla vita inteso come possibilità di poter organizzare la propria esistenza senza essere sottoposti ad un ergastolo processuale, sono principi che vengono mortificati. E di certo entra in gioco anche il principio della ragionevole durata del processo, perché, abolendo la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, i processi saranno senza fine violando quel principio, consacrato anche dall’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, secondo il quale “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole”. Su una cosa ha però ragione l’articolista: per assicurare la ragionevole durata del processo non bisogna modificare la prescrizione, ma reagire all’ipertrofia penale, rafforzare i riti alternativi e sostenere altre riforme, sostanziali e processuali, proposte, ieri come oggi, dall’Unione. Si rassicuri dunque il Fatto Quotidiano, né io né l’Unione soffriamo di una perniciosa crisi di identità o siamo in contrasto con noi stessi. Siamo, invece, coerentemente, propositivamente quanto vibratamente contrari ad una delle più dissennate riforme in materia di giustizia penale, che ha come scopo ultimo quello di cancellare il processo liberale e democratico, per tornare a quello autoritario e inquisitorio tanto caro al Dott. Davigo. Processo telematico, errori quadruplicati di Claudia Morelli Italia Oggi, 8 febbraio 2020 Il dato fornito dal presidente dell’Ordine di Roma al convegno sulla giustizia predittiva. Sono più che quadruplicate le cause per responsabilità civile degli avvocati per errori materiali sul processo civile telematico. Da 70 cause all’anno si è passati a 300-400. Non si tratta di negligenza e tanto meno di imperizia, ma di errori materiali di “distrazione”. Sono più che quadruplicate le cause per responsabilità civile degli avvocati per errori materiali sul processo civile telematico. Da 70 cause all’anno si è passati a 300-400. Le cause? Non si tratta di negligenza e tanto meno di imperizia, ma, appunto, banalmente di errori materiali di “distrazione” da parte dei legali anche solo nella scelta del file da depositare tramite il Pct. Una evenienza non coperta dalle tradizionali polizze assicurative, spesso distratte sui temi di innovazione, dal più banale al più complesso, come per esempio quello della cyber security della banca dati dello studio legale. Il dato è stato riferito ieri dal presidente dell’Ordine degli avvocati di Roma, Antonino Galletti, in occasione del convegno organizzato dai giovani avvocati di Aiga e da Fondazione Tommaso Bucciarelli “Giustizia Predittiva: intelligenza artificiale, processo, dati”. Esso proviene dalla XIII sezione civile del tribunale di Roma, che si occupa di responsabilità civile. “L’avvocatura deve ragionare su questi aspetti. L’innovazione pone anche un problema di formazione, che deve essere affrontato”, ha detto Galletti. D’accordo il presidente Aiga: “Un nuovo ciclo di studi in giurisprudenza e la formazione sono nel programma Aiga del prossimo futuro”, ha evidenziato Antonio De Angelis. Vista in prospettiva digitale e di applicazione di sistemi di intelligenza artificiale alla giustizia e alla attività legale, peraltro, la questione della responsabilità da parte di magistrati e avvocati nel caso di utilizzo di tool e piattaforme assume altri e più delicati aspetti; esattamente come quella “democratica” della conoscibilità, tracciabilità e imputabilità dei processi automatizzati di decisione, come è emerso approfonditamente dall’evento. “Aiga vuole inaugurare un percorso di approfondimento e di formazione su questi temi, anche multidisciplinare”, ha indicato Valentina Billa, componente del comitato direttivo e coordinatrice dei lavori. Il progetto sarà condotto da Aiga e dalla Fondazione Bucciarelli, presieduta da Giovanna Suriano. Il presidente del Cnf, Andrea Mascherin, ha detto di temere la “smaterializzazione del processo. Va salvaguardata la dialettica e la prossimità della giurisdizione”. Mentre Giovanni Malinconico, presidente dell’Organismo congressuale forense, ha focalizzato la sfida: “L’algoritmo processa dati. L’avvocatura dovrà spostare il fulcro di analisi dalla sola norma anche al dato e al processo”. La centralità del dato, ossia del documento giuridico/giudiziario almeno in un primo momento, è stata evidenziata da Claudio Castelli, presidente della Corte d’appello di Brescia, che sta conducendo una istruttoria per una banca dati intelligente: “Tra le altre necessità, è fondamentale che i dati inseriti siano certificati e completi. Io credo in un progetto pubblico, nel quale siano caricare tutte le sentenze emesse anonimizzate, accessibile non solo agli operatori ma anche agli utenti”. Per ora, però, i progetti istituzionali di ministero della giustizia e del Consiglio superiore della magistratura si sono indirizzati in altre direzioni, anche se va detto che a via Arenula è in corso un processo di reingegnerizzazione dei sistemi che ruota (dovrebbe) attorno alla condivisione dei dati. Enzo Maria Le Fevre Cervini ha portato il punto di vista Ocse, raccontando alcune esperienze pubbliche sud americane, paradossalmente (verrebbe da commentare) molto attente alla tutela dei diritti: “Prometeia è un tool che opera nel settore giustizia ma progettato con whitebox, senza storage di dati e senza sostituzione del giudice”. Il tema della sostenibilità digitale è complesso. Alcune aziende lo affrontano anche dal punto di vista educativo. Per esempio la società di data science Energy way. Si può, quindi. Campania. L’obiettivo di rafforzare i lavori di pubblica utilità di Domenico Schiattone* gnewsonline.it, 8 febbraio 2020 Il lavoro per i detenuti rappresenta una delle leve essenziali nel percorso trattamentale e un obiettivo prioritario dell’Amministrazione Penitenziaria. Negli ultimi anni, lo sforzo di potenziare occasioni di lavoro a favore della popolazione ristretta ha visto il coinvolgimento strategico di più attori istituzionali nell’utilizzo, sempre più diffuso, dell’istituto del Lavoro di Pubblica Utilità (LPU), previsto dall’art. 20-ter dell’Ordinamento Penitenziario. Il LPU - è bene ricordarlo - consiste nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, unioni di comuni, aziende sanitarie locali, enti o organizzazioni, anche internazionali, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato, sulla base di apposite convenzioni. Il rafforzamento dei LPU, in linea con le linee programmatiche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), ha determinato il coinvolgimento della Cassa delle Ammende che ha destinato dei fondi per sussidi ai detenuti attivi nei lavori di pubblica utilità. Nel 2019, il Provveditorato penitenziario della Campania, in aderenza alle linee programmatiche del DAP, in merito ai LPU e ai parametri operativi individuati dall’Ufficio del Capo del Dipartimento “Mi riscatto per… “ ha provveduto a individuare un referente presso ogni Istituto del distretto e ha avviato una politica di promozione per l’attivazione di Protocolli per LPU con tutti i soggetti. È stato in questo modo intrapreso in Campania un percorso nuovo e virtuoso che ha portato alla sottoscrizione di 25 protocolli con altrettanti Enti locali. A inizio 2020 ne è stato sottoscritto uno con la Procura Generale di Napoli, che prevede l’impiego di detenuti nel lavoro di trasporto dei fascicoli giudiziari con la supervisione di personale giudiziario. In base a un accordo con il Garante regionale dei detenuti, è stato stabilito che sia proprio l’ufficio del Garante a provvedere a sostenere, nei confronti dei detenuti impiegati, il rimborso delle spese del pasto e del trasporto. In più rientrerà nella discrezione del Garante l’assegnazione di ‘borse lavoro’ pensate per incentivare l’adesione volontaria in tutti gli Istituti della Regione. Inoltre, nell’ambito delle iniziative sostenute dal DAP a livello nazionale per favorire il coinvolgimento e l’affiancamento dei settori produttivi privati in percorsi di riqualificazione sociale e culturale attraverso percorsi LPU, il Provveditorato ha aderito al progetto “Mi riscatto per il futuro…”. L’accordo prevede la collaborazione con il Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale per la provincia di Caserta, attraverso l’istituzione di un “Tavolo tecnico di coordinamento e programmazione” per progettare, promuovere e realizzare in modo permanente progetti e percorsi di reintegrazione sociale e lavorativa in favore dei detenuti. Un ulteriore impulso ai progetti LPU sarà dato dalla possibilità prevista dall’INAIL di estendere la copertura assicurativa prevista dalla legge 208/2015 ai detenuti e agli internati impegnati in lavori di pubblica utilità. *Rereferente per la comunicazione del Prap Campania Marche. Croce Rossa e Garante dei diritti nelle carceri per riabilitare i detenuti di Marco Traini cronachemarche.it, 8 febbraio 2020 Lo scorso gennaio ha preso avvio negli Istituti Penitenziari di tutta la regione il ‘Progetto Carceri’ della Croce Rossa Italiana Comitato regionale Marche in collaborazione con l’Ufficio del Garante dei diritti della persona, che proseguirà con una serie di incontri intramurari sulla legalità fino al mese di giugno 2020. L’idea nasce proprio dalla volontà dei nostri Volontari - impegnati anche come professionisti nel settore della giustizia - di dare concreta attuazione alla finalità rieducativa della pena così come prevista e garantita nella nostra carta costituzionale. Intento, questo, che ha trovato terreno fertile in particolare nell’Obiettivo Strategico 2 Sociale della nostra associazione, inteso alla promozione dello sviluppo dell’individuo anche in termini di prevenzione e risposta ai meccanismi di esclusione quale percorso per costruire comunità più forti e inclusive. Non può non rilevarsi la vicinanza di tale proposito a quanto insito nella nostra Costituzione, anche qui, all’art.2 laddove si riconosce e si garantisce la persona umana e rispettivi diritti sia in quanto singolo sia all’interno delle formazioni sociali all’interno delle quali è inserito e per far ciò è richiesto l’adempimento dei doveri di solidarietà anche sociale a ciascuno spettanti. Fondamentale l’apporto del Garante dei diritti della persona, Avv. Andrea Nobili, che ha creduto nel nostro progetto e ha fatto sì che, tramite questa sinergia di intenti, giungesse a realtà. Come, anche, fondamentale è stato l’apporto di altri professionisti della giustizia che con noi hanno deciso di credere e dare risposta a questo inderogabile dovere di solidarietà. Ad oggi si sono finalmente aperte le porte per un dialogo in divenire fra istituzioni coinvolte per difendere questa prerogativa del nostro Ordinamento di riabilitazione di quanti abbiano deviato dalle regole di convivenza sociale, in un’ottica per lo più di continua responsabilizzazione di tutti rispetto alle cause della condotta deviante ma altresì rispetto al percorso trattamentale del singolo detenuto quale anch’esso persona e del suo futuro reale ed efficace reinserimento positivo e proattivo nella comunità. Un percorso lungo ma improcrastinabile: “la Costituzione italiana - ha sottolineato il Garante Andrea Nobili - stabilisce che la finalità della pena è la risocializzazione ed è per questo che occorre fare in modo che chi entra in carcere ne esca migliore. Iniziative come quella della Croce Rossa forniscono un apporto importante in questa direzione perché affrontano con i detenuti i grandi temi della legalità, offrendo loro nuovi strumenti per un rientro consapevole nella società. Quello del reinserimento resta uno dei problemi fondamentali e ho già avuto modo di evidenziare che attraverso una progettualità diffusa, frutto di condivisione tra diversi soggetti, è possibile attivare percorsi in grado di fornire risposte positive su più versanti, come quelli della recidiva e della devianza, prospettando una società più sicura”. Napoli. La denuncia del giudice: “Al Tribunale di Sorveglianza manca metà del personale” Il Mattino, 8 febbraio 2020 “Una scopertura del 42 per cento a Napoli e ad Avellino, del 37 per cento a Santa Maria Capua Vetere, mentre il carico di lavoro permane notevole (più di 17mila procedure sopravvenute nel 2019 per il Tribunale di Sorveglianza e più di 39mila per il solo ufficio di Napoli”. È il bilancio del presidente del Tribunale di Sorveglianza Adriana Pangia, a proposito delle carenze di personale amministrativo finora registrate. Dopo aver scritto al Ministero, dopo essersi recata in via Arenula, il presidente Pangia ha scandito i numeri dell’emergenza durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, ribadendoli ieri mattina, ospite di una conferenza stampa organizzata dalla giunta della camera penale di Napoli e dalla Onlus “Il carcere possibile”. Ha spiegato il presidente Pangia: “Una gravissima situazione che non consente un accettabile esercizio delle nostre funzioni”. Sono migliaia le istanze indirizzate al Tribunale di Sorveglianza, spesso riguardanti detenuti che potrebbero aspirare a lasciare il carcere per svolgere un ruolo socialmente utile, o - in situazioni ancora più gravi - per essere curati in strutture ospedaliere. Fascicoli che si fa fatica a consultare, in mancanza del personale adeguato, mail che in alcuni casi non vengono scaricate, e istruttorie al buio. Mancano le gambe e le braccia di un ufficio decisivo per assicurare la tutela della dignità dei detenuti, per garantire inserimento e formazione a chi ha subito una condanna. Una denuncia che trova sostegno nel direttivo di piazza Cenni, guidato dal presidente Ermanno Carnevale, dal segretario Gaetano Balice, dagli avvocati Roberto Giovene di Girasole, Sergio Schlitzer, dal consigliere dell’ordine Gabriele Esposito, dalla penalista rappresentante della onlus “Carcere possibile”, dagli esponenti della giunta di piazza Cenni Sabina Coppola, Andrea Abbagnano Tirone, Giuseppe Carandente, Mattia Floccher, Mario Fortunato. Poche settimane fa, si è rivelato vano il confronto tra il presidente Pangia e alcuni dirigenti del Ministero, che si sono limitati a recepire i numeri del caso napoletano. Bari. La denuncia del Pg: “Carcere disumano”. Al via reparto di medicina protetta di Francesca Di Tommaso Gazzetta del Mezzogiorno, 8 febbraio 2020 La popolazione carceraria della Casa circondariale barese è ai limiti del trattamento considerato “disumano” dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo. La dichiarazione, dura e inclemente, arriva dal procuratore generale presso la Corte di Appello, Annamaria Tosto, in visita nella Casa Circondariale. Il primo dei problemi è proprio il sovraffollamento, incompatibile con la finalità rieducativa della pena: il carcere ospita oggi 460 detenuti, a fronte di una capienza di 299 presenze. L’Osservatorio di Antigone, l’associazione onlus che svolge attività di promozione e tutela dei diritti delle persone private della libertà, riferisce che, al 30 settembre 2019, i detenuti presenti nel carcere erano 453, su una capienza di 299 posti. Il tasso di affollamento è dunque del 147,8%. Costretti in spazi angusti, in celle con 3 o 6 posti letto a castello. Malgrado l’impegno della direzione, del personale amministrativo e della polizia penitenziaria, i problemi di un istituto penitenziario complesso come il “Francesco Rucci” sono strutturali. Senza dimenticare che si tratta di una casa circondariale di primo livello, con diversi circuiti penitenziari, nei quali sono ospitati detenuti appartenenti a clan contrapposti, motivo per cui esistono due diverse sezioni per allocarli, sia per l’Alta che per la Media Sicurezza. Al sovraffollamento si aggiunge la necessità di creare un reparto di medicina protetta. Il Rucci, infatti, ospita detenuti provenienti anche da altre carceri perché bisognosi di cure specialistiche. Ora, è inconcepibile che un centro clinico penitenziario con 24 posti letto possa tener testa a 11.000 visite specialistiche effettuate all’interno dell’istituto e altre 1.250 all’esterno (dati del 2018). I detenuti vengono trasferiti volta a volta nei poli sanitari del territorio disponibili; in caso di ricovero, piantonare i detenuti comporta un impegno che grava sulle già esigue risorse di Polizia penitenziaria. Per questo il procuratore ribadisce l’urgenza di creare un reparto di medicina protetta all’ospedale San Paolo, così come disposto da una delibera della giunta regionale che ha trasferito il reparto penitenziario dal policlinico alla Asl. “Da tempo anche l’associazione Antigone lamenta criticità e stato di emergenza in cui versa la casa circondariale di Bari - rincara Maria Pia Scarciglia, presidente Antigone Puglia e responsabile dello sportello interno al carcere - agli spazi inadeguati corrisponde un sovraffollamento disumano, appunto. Al policlinico c’è un “gabbiotto” - spiega - con soli 10 posti letto per i detenuti degenti. E solo due agenti di polizia penitenziaria. Purtroppo l’impegno del direttore del carcere, Valeria Pirè, e del dirigente sanitario, Nicola Buonvino, si scontra contro inadeguatezze organizzative che mi auguro siano affrontate e risolte una volta per tutte”. La risposta della direzione generale Asl allo stato di criticità lamentato prima di tutto dal procuratore non si fa attendere: il progetto preliminare è stato già inviato al Provveditore per l’amministrazione penitenziaria per la condivisione e approvazione. Sono stati individuati i locali destinati ad ospitare il nuovo reparto del San Paolo e in corso le operazioni di ricollocazione, con la priorità al completamento di un nuovo reparto di Psichiatria. Tra gli interventi all’interno della Casa Circondariale, il potenziamento dell’apparecchiatura diagnostica attualmente presente, grazie alla installazione imminente di un telecomandato digitale, un sistema che consente la trasmissione in remoto degli esami, utile per evitare o diminuire i frequenti spostamenti di detenuti. La chiusura dei lavori relativi è prevista tra 60 giorni. La dotazione diagnostica del Carcere sarà infine arricchita da un nuovo Opt (Ortopantomografo) installato anche questo a breve. Tutto questo, oltre a rispondere alle più recenti disposizioni normative in materia di assistenza sanitaria alla popolazione detenuta, consentirebbe una razionalizzazione del servizio, minori costi di gestione, garanzia della salute e della dignità del detenuto nonché delle condizioni lavorative del personale e degli operatori in genere. Roma. La formazione entra in carcere di Maurizio Carucci Avvenire, 8 febbraio 2020 È iniziata la seconda edizione del percorso formativo - con ulteriori dieci incontri settimanali di quattro ore - rivolto agli ospiti della casa di reclusione di Rebibbia. Il lavoro entra in carcere. Anzi la formazione. L’iniziativa è di Unindustria, che ha trovato terreno fertile nella casa di reclusione di Rebibbia a Roma. È iniziata, infatti, la seconda edizione del Corso per la ricerca attiva del lavoro - con ulteriori dieci incontri settimanali di quattro ore - rivolto agli ospiti della casa di reclusione romana, promosso dalla Sezione Consulenza, Attività professionali e Formazione di Unindustria e patrocinato dal garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, con la direzione scientifica di Orienta e finanziato da Form Temp. “Il progetto di formazione per sostenere la reintegrazione delle persone detenute - spiega Roberto Santori, presidente della sezione Consulenza di Unindustria - rappresenta un esempio concreto ed esemplare di impegno e responsabilità sociale, riconosciuto e apprezzato dalle istituzioni e dalla società. La legge italiana prevede bonus contributivi e fiscali per le aziende pubbliche o private e le cooperative sociali che organizzano attività di servizio o produttive all’interno degli istituti penitenziari impiegando lavoratori detenuti. Sono previsti inoltre contributi per aziende che impiegano con contratti di lavoro subordinato di durata di almeno 30 giorni, detenuti ammessi al lavoro all’esterno, in semilibertà ed ex detenuti”. La prima edizione del progetto si è concluso martedì 28 gennaio con l’incontro finale tra i detenuti che hanno partecipato alla formazione - 50 ore di lezione - e le aziende che hanno aderito all’iniziativa, ma il 21 gennaio è già stata avviata una seconda edizione. Sette persone del primo corso hanno potuto sostenere colloqui di lavoro con imprenditori e responsabili del reclutamento di Bridgestone, Orienta, Bat, Abbvie e Fassi per farsi conoscere e per consentire alle aziende di valutare le loro competenze. L’obiettivo è il reinserimento nel mondo del lavoro. In caso di riscontro positivo verrebbero attivati dei canali per permettere ai detenuti di muovere i primi passi in un mondo con cui hanno perso i contatti (o che non hanno mai conosciuto). “Il tutto è nato due anni fa, quando sono stato invitato a parlare in carcere durante una giornata di formazione - racconta Santori -. Sono rimasto molto colpito dal vedere i detenuti così affranti e ho compreso l’importanza di agire”. Da lì, la ricerca dei fondi che hanno permesso l’avvio del corso pilota. Durante la formazione i detenuti hanno appreso come relazionarsi sul posto di lavoro e scrivere un curriculum per valorizzare le proprie competenze. “Si pensa al carcere come luogo di pena e non come luogo in cui può prodursi una nuova volontà di modificarsi e diventare uomini nuovi, ma è sbagliato” - dice Nadia Cersosimo, direttrice della Casa di reclusione di Rebibbia -. C’è la volontà dell’imprenditoria di trovare posto per queste persone all’interno del mondo del lavoro: bisogna cominciare a pensare al detenuto come risorsa positiva. I detenuti non devono lasciarsi sfuggire questa occasione. Il percorso in carcere ha un senso grazie a iniziative come queste, che permettono di reinserirsi nella società”. La missione è creare un ponte tra il penitenziario e le industrie, per far sì che si riduca il rischio della recidiva da parte dei detenuti, e per consentire alle aziende di guardare a queste persone in maniera più razionale, usufruendo anche delle agevolazioni fiscali previste. “Quello di Rebibbia è un esempio virtuoso - sottolinea Santori - e il nostro sogno è portarlo anche a livello nazionale. Lamentarsi non serve, il mondo del lavoro non è facile per nessuno. Tutti hanno dei punti di forza è su questo che bisogna lavorare”. Il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia è stato chiaro: “È una sconfitta se si sta in carcere e non si sa dove andare una volta fuori”. Elena Anfosso, direttore Risorse umane di Bat (British American Tobacco), nel dare le sue indicazione per i colloqui ha posto l’accento sulla “attitudine” con cui ci si presenta: “Bisogna avere l’umiltà di imparare. Le aziende migliori sono quelle in cui i dipendenti remano tutti nella stessa direzione”. Manuela Vacca Maggiolini, direttore Risorse umane di Abbvie, ha ricordato come nei colloqui “bisogna essere bravi a raccontare la propria storia, valorizzando i propri talenti”. Anche Andrea Fassi, amministratore delegato dell’azienda di famiglia, ha parlato della necessità “di trasformare la propria competenza in valore”. Per Silvia Brufani (direttore risorse umane di Bridgestone), “ogni persona può portare valore nel mondo del lavoro”. Infine Pamela Pierangeli, area manager Lazio e Campania di Orienta, ha invitato i detenuti a “documentarsi prima sull’azienda con cui si fanno i colloqui, per avere maggiore consapevolezza di sé”. Insomma un’iniziativa da lodare. Tanto che perfino i detenuti hanno ringraziato con una lettera per l’opportunità che gli è stata offerta della formazione e dei colloqui in vista di un’inclusione lavorativa: “Ci sentiamo come non mai al centro di un’attenzione mai vista prima. I componenti del gruppo esprimono il profondo ringraziamento dell’offerta e del trattamento ricevuto, con la speranza di poter dimostrare con il lavoro la riconoscenza doverosa per la possibilità ricevuta”. Lo stesso ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ha ribadito alla Camera come il ministero abbia “investito la maggior parte delle proprie energie puntando sul lavoro dei detenuti come forma privilegiata di rieducazione. Al 30 giugno dell’anno scorso risultano 16.850 detenuti lavoranti, frutto anche dei circa 70 protocolli con enti per lavori di pubblica utilità”. Tra questi protocolli anche quello firmato di recente con Tim. L’accordo prevede di avviare interventi formativi, rivolti sia ai dipendenti del ministero della Giustizia sia ai detenuti, per favorire l’apprendimento e l’utilizzo delle tecnologie digitali. Tim metterà a disposizione le iniziative di Operazione Risorgimento Digitale, il progetto di educazione digitale itinerante in tutte le 107 province italiane che, con oltre 400 formatori, vedrà coinvolti un milione di cittadini, piccole e medie imprese e dipendenti pubblici. Roma. La moda incontra Rebibbia. L’Accademia Sartori lancia il corso per i detenuti affaritaliani.it, 8 febbraio 2020 Lezioni di taglio e cucito per i 15 allievi più promettenti. Carcere e moda si incontrano per dare una seconda possibilità ai detenuti che stanno scontando la propria pena tra le mura di Rebibbia. L’Accademia Sartori ha lanciato il progetto “Made in Rebibbia”, che prevede l’avvio di un corso triennale dedicato ai 15 detenuti più promettenti in materia di taglio e cucito. Al termine degli studi, i partecipanti saranno pronti ad affrontare il mondo del lavoro con un bagaglio di competenze specialistiche nel settore della moda. L’arte sartoriale diventa quindi strumento di rieducazione. Il corso prenderà il via il 25 settembre grazie alla Scuola dell’Accademia Sartoriale più antica d’Italia della quale fanno parte le grandi firme della sartoria su misura. Oltre a formare figure professionali in grado di rispondere alle richieste del mercato e ad incentivare un ricambio generazionale, l’Accademia si interessa al sociale con progetti di tipo diverso. L’attività didattica sarà curata da due maestri sarti con la supervisione del Presidente dell’Accademia Ilario Piscioneri che, settimanalmente, monitorerà il lavoro svolto dagli studenti. Bmw Roma ha scelto di supportare il progetto finanziando l’acquisto di attrezzature come macchine da cucire, banchi di lavoro, ferri da stiro che sono strumenti essenziali per allestire le aule dove i detenuti inizieranno il loro percorso. Bari. Detenuti e studenti fianco a fianco per le lezioni universitarie di Giuseppe Abbatepaolo* gnewsonline.it, 8 febbraio 2020 “Un’esperienza estremamente positiva e stimolante sotto tutti i punti di vista”. Con queste parole Valeria Pirè, direttrice della Casa Circondariale di Bari, ha definito il ciclo di quattro incontri seminariali organizzati in collaborazione con l’Università degli Studi di Bari e destinati a studenti e detenuti. L’iniziativa, che si è svolta nell’aula multimediale del carcere, rientra in un programma di partnership tra Provveditorato regionale e Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia, Comunicazione dell’Università, e ha coinvolto, in un processo di integrazione, discussione e studio, studenti universitari e detenuti, suscitando apprezzamenton e consensi. Per ciascuna delle quattro lezioni del ciclo, 20 studenti universitari e 30 detenuti hanno condiviso lo stesso spazio fisico e i medesimi insegnamenti. Al termine degli incontri si sono tenuti dei vivaci dibattiti. Nei seminari dei docenti si sono approfonditi i temi della discriminazione, si sono analizzate testimonianze da dentro e fuori il carcere e si è discusso di giustizia riparativa. Una lezione ha riguardato gli aspetti psicologici e psichiatrico-forensi della vendetta. Gli studenti universitari hanno avuto l’occasione di conoscere in prima persona il carcere: un ambiente sociale, prima ancora che lavorativo, spesso ancora troppo percepito come mero strumento di repressione. Un “sistema osmotico” di scambi con il mondo esterno, invece, può sugellare i principi di espiazione e rieducazione, in ossequio ai precetti della Costituzione. Per i detenuti, appartenenti al circuito di media sicurezza, si è trattato di un momento di riflessione sul senso della pena, sugli spazi di libertà concessi all’individuo nella nostra società e in ultima analisi finalizzato a permettere una diversa percezione di sé e degli altri. “Anche per il personale della Polizia penitenziaria - ha aggiunto la direttrice Pirè -, che pur non essendo il destinatario diretto del progetto, ha preso parte con impegno e vivo interesse agli appuntamenti previsti. Il feedback che abbiamo ricevuto è davvero positivo a tal punto che lo spazio lasciato al termine degli incontri per domande e approfondimenti è apparso insufficiente per sviluppare l’ampio confronto generato dagli argomenti trattati”. *Referente per la comunicazione del Prap Puglia e Basilicata Palermo. L’impegno antimafia delle religioni, la quinta conferenza del Centro Pio la Torre blogsicilia.it, 8 febbraio 2020 Al centro Pio La Torre si parla di antimafia delle religioni. “C’è stato per anni questo falso mito del mafioso benigno, a fronte di un delitto considerato come un fatto individuale di fronte al quale si era solo personalmente responsabili, senza alcuna responsabilità sociale. Oggi invece parliamo di peccato strutturale: il nostro è un popolo che si deve liberare dalla schiavitù della mafia”. È l’appello lanciato da Padre Francesco Michele Stabile e che sintetizza l’evoluzione della percezione del fenomeno mafioso alla quinta conferenza del Progetto educativo antimafia e antiviolenza promosso dal Centro studi Pio La Torre. A discutere con lui di Evoluzione dell’impegno antimafia delle religioni nell’Italia repubblicana al cinema Rouge et noir di Palermo sono stati: Peter Ciaccio, pastore della Chiesa Valdese di Palermo e Adham Darawsha, assessore alla Cultura del Comune di Palermo, moderati dal vicedirettore del Giornale di Sicilia, Marco Romano. “A partire da quel cortile deserto al carcere Ucciardone dove la messa della vigilia di Pasqua fu disertata dai detenuti, come risposta all’omelia di Pappalardo. Per questo - ha concluso Padre Stabile - è una memoria di lotta e liberazione quella che portiamo avanti oggi nelle scuole”. Vicario episcopale del cardinale Salvatore Pappalardo, autore della durissima omelia contro la mafia pronunciata ai funerali del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro, ha ricostruito il clima di oppressione di quegli anni. “Nei secoli non sempre le chiese sono state attente: è successo con le dittature, ma anche con la mafia - ha detto Peter Ciaccio - la mancata comprensione del fenomeno ha portato a una sua sottovalutazione. Per fortuna c’è stata una presa di coscienza della stessa Chiesa: come rappresentante di quella Valdese cito il manifesto affisso da Pietro Valdo Panascia a Palermo nel 1963, dopo la strage di Ciaculli, che ricordava il comandamento divino Non uccidere”. “La mafia è prevaricazione e il terrorismo islamico che ha usato la dottrina per giustificare ogni crimine, come l’Isis, per me è mafia. L’errore comune che si fa è l’indifferenza o la sottovalutazione dietro l’alibi non ci riguarda”, ha detto l’assessore Adham Darawsha. Circa 800 i partecipanti alla conferenza, tra studenti siciliani presenti in sala, alunni in videoconferenza di altre regioni, e detenuti dalle carceri di Trieste e Catania che hanno potuto rivolgere anche domande ai relatori. “Abbiamo lanciato un appello trasversale ai rappresentanti di diverse fedi religiose per confrontarci sul contrasto alla mafia - ha detto Vito Lo Monaco, presidente del centro Pio La Torre - per ribadire che ogni Chiesa ha l’autorità morale nella prevenzione della criminalità. Un messaggio che ribadiremo con la riedizione della marcia antimafia da Bagheria a Casteldaccia il prossimo 26 febbraio alla quale parteciperanno credenti e non, e con la prossima conferenza il 6 marzo sulla violenza di genere, perché ogni violenza è un brodo di coltura delle mafie”. Palermo. L’arte della libertà all’Ucciardone di Fabrizio Rostelli Il Manifesto, 8 febbraio 2020 Il progetto di portare la creatività contemporanea all’interno dell’istituto penitenziario di Palermo attivo fin dal 1842. Lo scirocco ha spazzato con violenza le vie di Palermo per tutta la notte. È una mattina di dicembre ma il clima è mite e il sole illumina di giallo ocra le mura borboniche dell’Ucciardone. Il cancello esterno del carcere si apre, entriamo, passiamo i controlli e ci incamminiamo verso la quinta sezione. Attraversiamo il viale interno in silenzio, costeggiando i ficus secolari che rendono l’atmosfera surreale, gli alberi monumentali sembrerebbero gli unici abitanti del luogo. Ci accompagnano Elisa Fulco (Associazione Acrobazie) e Antonio Leone, ideatori e curatori del progetto “L’arte della libertà”. Entriamo nella sezione e raggiungiamo una ampia stanza all’ultimo piano dove, da un anno, 15 detenuti hanno intrapreso un viaggio alla scoperta dell’arte contemporanea. “È un percorso che ha previsto diversi passaggi - mi spiegano i curatori - il primo è stato quello di creare un gruppo di lavoro, composto da circa 30 persone, sufficientemente omogeneo. Abbiamo messo insieme detenuti, operatori penitenziari, inclusa la polizia penitenziaria, e operatori sociosanitari e culturali che provengono dai partner del progetto: Fondazione Sicilia e Fondazione con il Sud, che sostengono il programma, Galleria d’Arte Moderna e Azienda sanitaria provinciale di Palermo. La questione che ci siamo posti è se l’arte e la creatività possono avere un ruolo centrale nei processi di cambiamento. Siamo convinti che proprio attraverso l’arte e la sua orizzontalità si offra l’occasione per sviluppare la creatività in maniera paritaria. Durante gli incontri si crea una sorta di sospensione dei ruoli che ci permette di lavorare sul senso di comunità. Non si tratta di arte terapia ma di porre l’attenzione su ciò che abbiamo in comune e quindi anche gli strumenti tecnici utilizzati devono permettere ad ognuno di sentirsi alla pari. L’obiettivo del progetto è quello di portare l’arte contemporanea all’interno del carcere Ucciardone. Con la guida dell’artista Loredana Longo, che sta seguendo i workshop, arriveremo a fine febbraio con una mostra, dal titolo Quello che rimane, che presenteremo il 28 a Palazzo Branciforte e che sarà il risultato di un lavoro di gruppo”. Dentro e fuori - Siamo in anticipo e la stanza è ancora vuota, la luce filtra dai finestroni in alto proiettando sulla parete opposta i contorni delle sbarre. Sulle mensole sono appoggiati alcuni dipinti realizzati dai detenuti. “In questi mesi si sono sviluppati dei laboratori settimanali - prosegue Fulco - con artisti ed esperti che hanno raccontato la storia dell’arte, ascoltando il contesto e preparando delle lezioni calibrate per il gruppo. La cultura deve essere accessibile anche ai detenuti e per questo sono state organizzate delle visite guidate di gruppo all’esterno, nei musei e nelle istituzioni cittadine. Tutto ciò ha permesso di sviluppare una relazione tra dentro e fuori. Questo è un aspetto fondamentale per cui riteniamo che la rete degli stakeholder vada sempre di più ampliata, mettendo a sistema tutte le potenzialità positive e dimostrando come la formazione artistica abbia un valore di coesione sociale e di riabilitazione. Programmi di questo tipo non vanno mai costruiti pensando che gli unici destinatari siano i detenuti ma è il gruppo nella sua interezza che porta ricchezza e crescita al progetto”. Dal corridoio arrivano le prime voci, accento siciliano. Il clima è informale. Caffè, sigaretta, foglio delle firme, ci si aggiorna su quanto accaduto in settimana. Si uniscono i tavoli, tutti sono seduti intorno e possono guardarsi negli occhi. Arrivano anche gli operatori della polizia penitenziaria, vestiti in borghese; se non fosse per le pesanti chiavi che portano con loro si confonderebbero con il resto del gruppo. Persone che, per le asimmetrie del luogo, tendono a non incontrarsi mai sullo stesso piano, si ritrovano insieme a parlare di arte e di libertà. Il lavoro di creazione artistica, coordinato da Longo, oggi verterà sulla concezione del tempo. Prima di iniziare il laboratorio pratico, si discute a lungo su come il tempo trascorra in carcere, sui modi per tenere, o non tenere, il conto dei giorni e per fare in modo che le ore scorrano più velocemente. C’è un’atmosfera da ultimi giorni di scuola, si scherza ma si respira la malinconica consapevolezza che sarà l’ultimo workshop dell’anno. Su lunghe strisce di stoffa ognuno disegna il proprio modo di scandire lo scorrere del proprio tempo: lunedì, martedì, mercoledì… finita bombola del gas, colloqui, spesa, permessi, croci, linee, disegni… Presa un po’ di confidenza con l’ambiente, i ragazzi reclusi iniziano a raccontarmi del progetto, qualcuno decide anche di farsi intervistare davanti ad una telecamera dopo aver rotto il ghiaccio. Guido mi spiega che: “questo è un progetto diverso ed unico, non avevo mai assistito agli eventi che sono accaduti durante questo corso. Non c’è discriminazione fra il detenuto e gli altri, non l’avevo mai vissuto. Riusciamo poi a stare bene con noi stessi e tra di noi, c’è un’aria di serenità, uno arrivando qui si sente ‘tutta una persona’ (sorride ndr)”. Secondo Filippo: “Il semplice fatto di essere a contatto con gli educatori, con la polizia penitenziaria, con gli assistenti, a volte è capitato anche con qualche magistrato, ti permette di oltrepassare una frontiera; qui c’è un rapporto più umano. Non c’entra niente con quello che c’è fuori, con gli operatori o gli assistenti in divisa, lì trovi un muro. Anche il fatto di mangiare insieme è importante, non ti potresti mai permettere di mangiare con un assistente in una sezione o all’esterno perché c’è sempre quel distacco. Questo muro è stato superato dal coinvolgimento tra tutti noi, si è formato un gruppo, una famiglia, non c’è il detenuto e l’operatore, siamo tutti uguali, almeno qui dentro”. Visione diversa - Alexander inizialmente aveva dei pregiudizi sul progetto ma oggi conferma l’impressione dei suoi compagni: “In questo gruppo non ci sono limiti imposti dai ruoli, ognuno si può esprimere come vuole e questo mi ha dato veramente una bella emozione, una visione diversa e nuovi stimoli per continuare il progetto. Abbiamo un rapporto più sincero fra noi perché ognuno ha cercato di dare il meglio di sé stesso. Abbiamo cercato di farlo capire anche ai nostri compagni che non hanno partecipato e molti vorrebbero avere questa possibilità in futuro”. Sergio Paderi, psichiatra specializzato in problemi di tossicodipendenza e supervisore scientifico del progetto, evidenzia le dinamiche che si sono sviluppate durante questi mesi: “Volevamo costruire un gruppo a più voci, dove le parti e i ruoli venissero messi in crisi, così come le sovra-strutturazioni ed i pregiudizi nei confronti dei detenuti e che i reclusi stessi producono. L’idea era quella di costruire un luogo terzo attraverso l’arte. Si è formata inoltre una rete di relazioni tra soggetti che lavorano stabilmente nel carcere che sta facilitando il nostro lavoro quotidiano. Ho partecipato ad altri laboratori in carcere ma l’innovazione di questo corso è che non siamo noi ad insegnare qualcosa ai detenuti o ad assumere un ruolo diverso dal loro, siamo tutti condotti dall’artista, che ha un ruolo eccentrico rispetto alla vita in carcere e rispetto ai nostri ruoli. L’artista dirige i laboratori e il linguaggio dell’arte, non essendo precostituito, ha costretto ognuno a mettersi alla prova in un processo creativo da dove partiamo tutti alla pari”. Il rapporto con l’arte è uno dei temi più sentiti dai detenuti. Benito con semplicità mi spiega: “Mi sono ritrovato in questo progetto senza sapere niente di niente di arte moderna, nuova, contemporanea, morta e ho imparato tanto”. Le visite guidate all’esterno hanno rappresentato un momento cruciale per il percorso. “Ho avuto l’opportunità di uscire e di visitare i musei della mia città dove magari passavo davanti ogni giorno senza sapere cosa fossero - ci racconta Guido - prima Sciascia lo sentivo solo nominare, ora lo leggo e so di chi sto parlando; prima non avrei mai avuto né il tempo né la voglia di imparare. Chi sapeva ad esempio chi era Frida Kahlo? Ora lo so da quello che abbiamo studiato, so riconoscere una sua opera. Queste cose sono diventate importanti anche perché ora ne parlo con i miei figli e riesco a capirli, non sono loro che devono capire me”. Alexander aveva già un “Bel rapporto con l’arte ma questo progetto mi ha permesso di capire meglio il prossimo e quale emozione voleva esprimere. In questo ambiente non è facile che uno possa esprimersi al meglio facendo uscire le proprie emozioni. Per poter capire la sofferenza dell’altro, bisogna prima capire cosa soffre e poi immedesimarsi”. I ragazzi continuano a disegnare sulla stoffa la loro personale raffigurazione del tempo che, nella stanza riservata al progetto, trascorre come in una bolla. Silvio mi illustra la sua singolare concezione di arte: “Per me l’arte è amicizia pura, condividiamo tutto con tutti. Nell’arte un singolo soggetto fa una cosa ma alla fine del gioco siamo tutti una cosa sola perché uniamo i pezzi, le cose personali le uniamo per fare una cosa grande e se non c’è amicizia questo non si può fare perché non c’è fiducia; per questo per me l’arte è amicizia”. Anche lui mi racconta delle visite ai musei. “La chiave del progetto è confrontarsi con altre persone, cosa che non succede negli altri corsi. Quando c’è un’uscita, mi preparo prima, leggo, mi informo. Durante le visite ci sono delle guide ma noi interveniamo prima di loro, ci sostituiamo quasi agli addetti del museo. È una sensazione bellissima, ora posso spiegare un’opera d’arte anche alle mie figlie. Non ho più paura di dire la mia o di affrontare un discorso su un argomento che non conosco, prima stavo zitto, ora mi butto. Questo gruppo mi ha dato la forza di affrontare qualsiasi cosa”. Longo, come una direttrice d’orchestra, ha condotto i lavori del workshop la cui frase manifesto è “volare per una farfalla non è una scelta”. L’artista e performer catanese mi spiega di aver aderito al progetto accettando una scommessa: “Perché ho sempre pensato che il carcere fosse una città nella città e quindi sono entrata in un luogo sconosciuto con persone sconosciute. Non ho mai avuto un’intenzione voyeuristica perché avevo un’idea ben definita del progetto: realizzare delle opere d’arte insieme ad altri in un processo collettivo. Per la prima volta ho dato il mio lavoro in mano ad altri, in questo caso è come se le opere fossero co-firmate da tante persone, oppure sono io a firmare il lavoro di altri che forse è anche più bello da pensare”. L’esposizione, costruita dall’artista come un diario di bordo, documenterà, con scritte, disegni e oggetti, il processo artistico che ha trasformato l’esperienza del tempo condiviso in installazioni, video e performance, che funzionano come capitoli di una storia, volutamente in bianco e nero, disseminata negli spazi labirintici di Palazzo Branciforte, attraverso cui rileggere le tappe del progetto. Con Leone torniamo a parlare delle dinamiche di gruppo: “Mi ha sorpreso l’empatia che si è creata con il gruppo. Questo è un progetto che non ti lascia indifferente. Si sono sviluppati dei rapporti umani intensi, è cresciuto il dialogo e la voglia di aprirsi, di raccontarsi. Uno dei ragazzi ci ha confessato di essersi sentito per la prima volta un soggetto e non un oggetto dei corsi. Ci ha spiegato che qui ha trovato delle persone interessate ai suoi pensieri e questo lo ha fatto sentire libero di esprimersi senza sentirsi giudicato”. Continuità cittadina - Veniamo interrotti dall’arrivo, in visita non ufficiale, del sindaco Leoluca Orlando che si siede con i detenuti per ascoltare i loro racconti e le impressioni sul corso. Anche in questa occasione il dialogo è alla pari. Senza parlarne in modo esplicito, di fatto, si sta già mettendo in atto un’idea rivoluzionaria di carcere. Ne approfittiamo per domandare al sindaco se gli attuali strumenti legislativi sono sufficienti per promuovere programmi simili. “Gli strumenti ci sono, quello che spesso non c’è è la sensibilità culturale di chi deve applicare le leggi - precisa Orlando - Ho spesso ripetuto che l’Ucciardone è Palermo e Palermo è l’Ucciardone. Per noi è normale sostenere queste iniziative, quest’anno ad esempio il carro e la statua di Santa Rosalia sono stati realizzati da undici detenuti che hanno partecipato ad uno dei momenti più importanti della vita della città”. La visita si conclude con un pranzo informale di gruppo a base di arancine e pane e panelle. Le conversazioni continuano: si parla di aspettative, di futuro, del tempo ancora da trascorrere in carcere, di figli. Ci si può sorprendere anche in carcere, come testimonia Guido quando ci confessa visibilmente emozionato che: “Quello che mi ha sorpreso è l’attesa di venire, io attendo questo momento per incontrare il gruppo… l’entusiasmo e la serenità di stare qua anche stando dentro il carcere. Penso che questa sia una sorpresa grande anche per me stesso”. Alexander è convinto dell’importanza di far uscire i detenuti ma al tempo stesso crede che anche le persone all’esterno dovrebbero entrare nelle carceri per comprendere la vita da recluso. “È vero che abbiamo commesso degli errori ma molti non riescono a sopportare la galera e vanno in depressione. Basterebbe che chi è fuori vivesse un’ora come la viviamo noi e capirebbe sentire la chiave che si apre, dover chiedere l’autorizzazione anche per avere un foglio su cui scrivere… Dopo aver vissuto un’esperienza simile potremmo dialogare insieme e condividere le sensazioni che hanno avuto, le paure”. Arrivano infine delle proposte per la possibile seconda edizione del progetto. “Ancora non l’ho detto pubblicamente - ci spiega Silvio - ma la mia proposta è di proseguire questo percorso e di inserire anche le nostre famiglie. Per il singolo detenuto è importante partecipare ma sarebbe ancora più bello se loro vivessero questa esperienza con noi, far istruire anche i nostri bambini, sarebbe una cosa fantastica che ci rimarrebbe dentro per sempre. Questo è un posto dove la solitudine ti assale e tendi sempre a tirarti un po’ indietro ma puoi anche sconfiggerla, io l’ho fatto grazie a questo progetto. Ringrazio tutti per avermi dato l’opportunità di andare oltre il carcere, perché l’arte ti porta oltre, sei chiuso qui dentro ma con la mente sei fuori”. La luce che filtra è diventata più calda, il tempo è scaduto ed inesorabile arriva il momento della separazione. Si scatta una foto di gruppo. Ci si abbraccia e ci si scambiano gli auguri di fine anno. Il momento dei saluti si replica ogni volta come un trauma collettivo perché al termine della giornata sembrerebbe ci sia spazio solo per due ruoli: chi rimane dentro e chi è libero. Eppure è proprio in quegli istanti che ognuno intimamente può capire se e quanto il lavoro di gruppo abbia avuto i suoi benefici, poiché, se il viaggio è stato condiviso, ci si allontana fisicamente ma non ci si separa. Mattarella a Padova inaugura l’anno europeo del volontariato di Claudio Malfitano Il Mattino di Padova, 8 febbraio 2020 Padova Capitale Europea del Volontariato è per il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella “un prestigioso riconoscimento alla città, alla sua cultura di solidarietà, alla storia di donne e uomini che hanno lasciato tracce preziose e aperto strade su cui altri hanno potuto poi camminare”. “Al tempo stesso - ha aggiunto - è una responsabilità, un impegno che Padova assume affinché questi mesi non si limitino alla pur legittima celebrazione di tante positive esperienze, ma rappresentino un avanzamento per l’intero Paese, una stagione di crescita collettiva”. A due anni dall’ultima visita, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella torna in città. Lo hanno atteso i 5 mila rappresentanti del volontariato da tutta Italia raccolti in fiera per la cerimonia di inaugurazione dell’anno in cui Padova è capitale europea. “Benvenuto Presidente. Il volontariato tutto si assume per primo il compito di ricucitura del Paese. Non siamo gli unici, ma vogliamo contribuire a far sì che le nostre città siano più solidali, più inclusive e più sicure”, è il saluto di Emanuele Alecci, presidente del Csv (Centro Servizi Volontariato) e primo organizzatore dell’iniziativa. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è giunto alla Fiera di Padova per inaugurare la tre giorni di “Padova Capitale Europea del Volontariato 2020”. Ad accogliere il capo dello stato c’erano il presidente del Veneto, Luca Zaia, il sindaco della città euganea, Sergio Giordani, e le cariche civili e militari. Sala gremita da migliaia di persone, in maggioranza giovani e studenti, che hanno accolto il presidente Mattarella con un lungo applauso. Il Capo dello Stato, dopo la cerimonia inaugurale, è andato al Municipio di Padova, successivamente alla Capella degli Scrovegni e infine alla Basilica del Santo, prima di ripartire per Roma. “La passione sconfigge l’indifferenza, che inizia nei confronti delle difficoltà e delle sofferenze degli altri e che, nella storia, è giunta a manifestarsi cinicamente persino in presenza di crudeli persecuzioni. Parlo di Placido Cortese”. Lo ha detto il presidente Sergio Mattarella, parlando del volontariato. “Il volontariato - ha aggiunto - è votato alla fratellanza e alla pace. Per sua natura è portato ad alzare lo sguardo oltre i confini del proprio Paese, per guardare all’umanità” “Il volontariato è una energia irrinunziabile della società. Un patrimonio generato dalla comunità, che si riverbera sulla qualità delle nostre vite, a partire da quanti si trovano in condizioni di bisogno, o faticano a superare ostacoli che si frappongono all’esercizio dei loro diritti”. “L’augurio, in questo anno, è che si proceda nell’attuazione della legge sul Terzo settore, coinvolgendo i protagonisti, assicurando una piena collaborazione tra i diversi livelli istituzionali, favorendo la partecipazione e il sostegno, anche economico, di una più vasta platea di cittadini, i quali non perdono occasione di dimostrare interesse e favore per la solidarietà che si organizza” “Ricuciamo insieme l’Italia, mettiamo il ‘noì al posto dell”iò”. È l’invito che il sindaco Sergio Giordani ha rivolto alla platea aprendo la cerimonia di”Padova Capitale Europea del Volontariato”2020, in corso alla fiera patavina, alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il sindaco ha ricordato alcuni dati che spiegano perché il capoluogo euganeo sia stato scelto come capitale del volontariato: “Sono 6.466 - ha detto - le associazioni di volontariato che operano nella provincia di Padova, qui c’è una lunga tradizione, basta pensare ai Medici con l’Africa Cuamm, progetto pioneristico di assistenza nato 70 anni fa, a nomi come quello di mons. Giovanni Nervi. Quello che si celebra oggi - ha aggiunto - è il frutto dell’impegno e dell’attitudine di una comunità” Zaia: non è un caso che Padova sia la capitale del volontariato - “Non è un caso che questa comunità sia diventata capitale europea del volontariato”. Lo ha affermato il presidente del Veneto, Luca Zaia, portando il proprio saluto alla cerimonia di apertura di Padova Capitale del Volontariato 2020. “In Veneto - ha ricordato Zaia - ci sono 2.500 organizzazioni che fanno volontariato, sono 1.500 le realtà che si occupano di sociale, ma se andassimo a vedere il lavoro silenzioso che tutte queste persone fanno noi sappiamo che abbiamo più di 30 mila realtà associative che coinvolgono un veneto su cinque: 900 mila veneti quotidianamente dedicano il loro tempo libero alla comunità”. Zaia ha inoltre evidenziato che “abbiamo anche dei primati: siamo la prima comunità al mondo per numero di missionari, ne abbiamo quasi 3.500. Siamo anche la comunità che ha dato vita alla prima Ong, Medici con l’Africa-Cuamm, nata da un’intuizione del professor Francesco Canova e magistralmente promossa dalla Diocesi di Padova. Le scuole dell’infanzia: due bambini su cinque in Veneto frequentano la scuola paritaria per l’infanzia, sono circa 1.900 scuole coinvolte e 90 mila bambini, anche questa è una forma di volontariato. La tragedia è che se questi 90 mila bambini non avessero le scuole paritarie non avrebbero una scuola pubblica, e quindi quotidianamente i volontari fanno risparmiare allo Stato 200 milioni di euro. Questa è una prerogativa tutta veneta - ha concluso - che nasce nell’Ottocento”. Il grande abbraccio del mondo del volontariato è avvenuto nel padiglione 8 della Fiera, dove a partire dalle 9 si sono radunati i cinque mila accreditati da tutto il Paese per una mattinata che ripercorrerà il lungo cammino dell’impegno civile in Italia, punto di partenza per le sfide dei prossimi anni. Dopo l’omaggio al volontariato in Fiera, il presidente Mattarella è arrivato a Palazzo Moroni, sede del Comune di Padova, dove è stato accolto dalle autorità cittadine e dal presidente del Senato, Elisabetta Casellati, per visitare Palazzo della Ragione, sito candidato a patrimonio Unesco. Prima di iniziare la visita, Mattarella si è fermato un paio di minuti a stringere le mani della folla assiepata oltre le transenne, che gli ha tributato diversi applausi. Poi ha visitato la Cappella degli Scrovegni e la basilica del Santo. Durante la sua visita alla Basilica di Sant’Antonio, il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha ricevuto in dono un quadro che raffigura Sant’Antonio e padre Placido Cortese, il religioso che fu direttore del Messaggero di Sant’Antonio e morto torturato dai nazisti a Trieste, ricordato dal presidente nel suo discorso. Lo ha riferito ai giornalisti padre Oliviero Svanera, rettore della Basilica. Padre Svanera ha ricordato che Mattarella “ha grande attenzione per padre Placido ed è venuto col desiderio di sostare davanti al suo memoriale, che lo ha commosso. Parlando di solidarietà, giustizia e carità, Sant’Antonio e padre Placido sono dei riferimenti esemplari, e lui li sa cogliere. Il nostro presidente della Repubblica è molto sensibile a questi temi sociali, e forse - ha commentato - sente padre Placido come un sostegno per il suo servizio al Paese”. I saluti istituzionali - Tutta la città si è mobilitata per dare il benvenuto al presidente della Repubblica, con una serie di manifesti affissi in molte strade del centro. “Benvenuto, la città è lieta di accoglierla con il meglio che le può offrire: la generosità, la spontaneità e la passione di migliaia di volontari che fanno di Padova, come del nostro Paese, un luogo unico di condivisione tessitura di reti e impegno civico che rende l’Italia migliore”, è il saluto del sindaco Giordani. “Una città generosa e solidale quale Padova non poteva che vedere in prima fila l’università, parte attiva nella promozione di valori e comportamenti per noi fondamentali - ha aggiunto il rettore del Bo Rosario Rizzuto - Già negli anni ‘90 qui si realizzò il “Manifesto per l’inclusione”. E per questo anno metteremo a disposizione le nostre conoscenze e l’esperienza per valorizzare e promuovere il volontariato in ambito scientifico e culturale”. La Caienna dei migranti si chiama Centro di Permanenza per il rimpatrio di Rosaria Manconi La Nuova Sardegna, 8 febbraio 2020 “Mentre l’eco delle polemiche sulla morte poco chiara del migrante del Centro di Permanenza per il rimpatrio di Gradisca d’Isonzo ancora non si è spenta e da più parti ci si interroga sulla effettiva necessità ed idoneità sostanziale di queste strutture, la città di Macomer ha aperto i cancelli del suo ex carcere ai primi migranti irregolari, espulsi dal territorio dello Stato in attesa di essere identificati e poi estradati nei loro paesi di origine. Sono attualmente otto gli stranieri “momentaneamente” trattenuti nel CPR ma già nei prossimi giorni sono previsti nuovi arrivi, sino a raggiungere un numero di cinquanta e, in futuro, appena un’altra parte della struttura verrà resa fruibile, si potrebbe arrivare a cento. Dunque anche la Sardegna ha il suo luogo di detenzione delle persone migranti, di cui avremo volentieri fatto a meno. Perché, come pure gli altri centri della penisola, si rivelerà strumento totalmente inutile per contrastare il fenomeno della immigrazione clandestina ed, invece, ripropone quel binomio immigrazione/sicurezza, tanto evocato da certa politica. Reso ancora più evidente dai recenti Decreti sui quali, oltre al Presidente della Repubblica, anche la più autorevole magistratura, nel corso della recente inaugurazione dell’anno giudiziario, ha fermato l’attenzione sollecitando interventi correttivi conformi alle norme costituzionali e pattizie. Mettendo in guardia il legislatore ed il governo circa l’effetto criminogeno e di insicurezza che discende dalla mancanza di politiche razionali che consenta l’ingresso legale e l’inserimento di coloro che già si trovano nel territorio. Un sollecito cambiamento di rotta, quindi, in tema di politica migratoria ed una svolta, richiesta da più parti, che preveda la cancellazione di quella che viene definita “l’autentica vergogna dei campi di detenzione”.Tali sono, di fatto, i CPR. Edifici che hanno tutte le caratteristiche di un carcere di massima sicurezza senza paradossalmente neppure le garanzie previste per chi vi si trova ristretto e nei quali gli immigrati, pur non avendo violato un precetto penale, vengono privati delle loro libertà. Luoghi che, sotto il profilo della sicurezza e della gestione, quest’ultima in appalto ad enti privati, hanno mostrato non poche criticità (leggasi opacità). È difficile dire cosa succederà nel CPR di Macomer. Le premesse non consentono di ipotizzare risultati diversi rispetto agli altri Centri di accoglienza. La struttura, in sé, non garantisce il rispetto dei diritti dei “trattenuti”. L’assenza di aree di socialità, il divieto di comunicazione con l’esterno attuata mediante il sequestro dei telefoni personali e la mancanza di strutture destinate alla, seppure momentanea, integrazione (biblioteche e luoghi di lettura, impegno lavorativo, pratica di attività fisiche, per esemplificare) fanno ragionevolmente ritenere che l’ozio, la convivenza forzata e la promiscuità, la condizione di ghettizzazione unita alla mancanza di speranza ed alla prospettiva di una permanenza sine die, possano dare vita a situazioni di tensione difficilmente controllabili. Sono già tanti i problemi presenti: dalla tutela della salute sino alla effettività della difesa legale dei ristretti, dalla garanzia dei servizi essenziali, al rispetto delle libertà e dei diritti fondamentali. In questa situazione è davvero impensabile individuare nel CPR di Macomer una soluzione utile a regolare il flusso migratorio e, ancora meno, come pure taluno vorrebbe, una opportunità di sviluppo per il territorio. ll Centro, lungi dal produrre posti di lavoro e contribuire alla crescita economica della zona rischia invece di alimentare pregiudizi e discriminazione. Perché, piaccia o meno i CPR evocano, e sono, luoghi di sofferenza, emarginazione ed esclusione sociale che non possono non toccare le coscienze. Sono il segno tangibile del fallimento della politica di accoglienza ed integrazione se ancora oggi centinaia di irregolari -un esercito di invisibili in gran parte preda di organizzazioni criminali e di sfruttamento lavorativo- vengono, del tutto casualmente, rastrellati per essere relegati in questi luoghi. Senza che, peraltro, il fenomeno della clandestinità venga minimamente scalfito. In un’ottica umanitaria ed insieme utilitaristica, non già ai CPR i nostri amministratori dovrebbero, quindi, guardare ma ai tanti esempi virtuosi che provengono da quei Comuni che nell’accoglienza hanno individuato potenzialità di crescita e freno allo spopolamento. Facendo rivivere, grazie alla presenza dei migranti e dei rifugiati, le scuole ed i servizi, le case abbandonate dei centri storici, le attività agricole od artigianali dismesse da tempo. Questo potrebbe essere un modo nuovo, fra i tanti, di concepire il fenomeno migratorio. Ovvero non già come un pericolo ma come una possibile ed utile risorsa.” *Avvocato del Foro di Oristano Migranti. “Fuggiamo dalla guerra” ma l’Ungheria li blocca al confine di Alessandra Briganti Il Manifesto, 8 febbraio 2020 Rotta balcanica. Le autorità di Belgrado alla fine hanno trasferito le persone in centri di accoglienza. È abortito sul nascere il tentativo di oltre duecento migranti assiepati al confine serbo-ungherese di raggiungere l’Europa. Intrappolati da mesi lungo la rotta balcanica, i rifugiati avevano organizzato una protesta al valico di frontiera di Kelebija, Serbia settentrionale. Una manifestazione nata su un gruppo Facebook che ha portato al confine centinaia di migranti da tutte le parti del Paese. Erano arrivati a Kelebija giovedì per chiedere di varcare la frontiera e proseguire il loro viaggio in Europa. Siriani, afghani, marocchini, palestinesi. Tra loro anche tanti bambini. “Siamo rifugiati, non criminali”, “fuggiamo dalla guerra, non dalla fame”, “i nostri bambini meritano di meglio”: questo si leggeva sui cartelli branditi dai migranti che avevano preso parte al sit in di protesta. Sfidando le autorità serbe ed ungheresi e il gelido inverno balcanico, i profughi avevano piazzato delle tende al confine, decisi a resistere fino all’apertura delle frontiere. Ma i loro appelli sono rimasti inascoltati. Le autorità ungheresi hanno prima ordinato la chiusura del valico e rafforzato poi i controlli aumentando la presenza di polizia e guardie di frontiera lungo la barriera metallica e di filo spinato fatta costruire nel 2015 dal premier Viktor Orban per arginare i flussi migratori in entrata dalla Serbia. All’alba di ieri l’epilogo. Le autorità serbe hanno provveduto al trasferimento dei migranti ammassati al confine in alcuni centri di accoglienza in Serbia, nella vicina Subotica e poi a Sombor, Bosilegrad, Presevo. Il valico di frontiera è stato riaperto dopo lo sgombero dei migranti. Il tutto si è svolto senza incidenti, come sottolineato dal Commissario serbo per le migrazioni e i profughi Vladimir Cucic. La Serbia, ha dichiarato Cucic, intende difendere i diritti dei migranti ma al tempo stesso garantire la stabilità interna nel Paese. Sul luogo si era recato anche il ministro della difesa serbo Aleksandar Vulin temendo che la situazione potesse andare fuori controllo. Il ministro ha dichiarato che Belgrado “non vuole problemi con i suoi vicini” ed è poi passato ad accusare diverse ong di aver manipolato i migranti e di averli incitati ad attraversare la frontiera. Una dichiarazione quella di Vulin contro le ong che giunge a pochi giorni dalla decisione di espellere dalla Serbia tre volontari dell’associazione umanitaria No Name Kitchen. I tre volontari erano stati aggrediti da alcuni membri dell’organizzazione nazionalista serba Sokoli in una fabbrica abbandonata a Sid, città al confine con la Croazia, dove alcuni migranti avevano trovato riparo. Momenti di tensione al confine serbo-ungherese si erano registrati alla fine del mese scorso quando una sessantina di migranti aveva cercato di forzare le recinzioni a un altro valico di frontiera, quello di Horgos-Reszke. In quell’occasione un poliziotto di frontiera ungherese aveva sparato tre colpi di avvertimento in aria mentre il gruppo tentava di entrare nel Paese. Episodi questi sempre più frequenti negli ultimi mesi, come sottolinea il rapporto della Ong serba Asylum Protection Centre secondo cui circa mille migranti al giorno cercano di oltrepassare il confine serbo per raggiungere l’Europa. Nel solo mese di gennaio l’Ungheria avrebbe registrato un picco di 3.400 tentativi di attraversare la frontiera illegalmente. Eppure il confine ungherese resta pressoché sigillato. Secondo il World Report 2020 di Human Rights Watch “le autorità ungheresi hanno continuato a limitare il numero dei richiedenti asilo a una o due famiglie di rifugiati a settimana”. Nelle due zone di transito, serba ed ungherese, si legge nel report che cita stime dell’Unhcr, sarebbero detenute più di 300 persone, di cui 170 minori. I respingimenti collettivi e indiscriminati da parte delle autorità ungheresi (e croate) rendono di fatto impossibile a migliaia di rifugiati il proseguimento del loro viaggio verso l’Europa. Nonostante l’accordo tra Unione europea e Turchia siglato per contrastare la crisi dei migranti del 2015-2016, la rotta balcanica non è stata mai realmente chiusa. Negli ultimi mesi, anche per via dell’offensiva della Turchia contri i curdi nel Nord della Siria, i flussi hanno conosciuto una ripresa, sebbene ancora lontana nei numeri dalla crisi di cinque anni fa. Secondo gli ultimi dati a disposizione dell’Unhcr nella sola Serbia il numero dei migranti sarebbe quasi raddoppiato: dai 3.400 presenti nell’agosto dello scorso anno ai 6.750 registrati nel gennaio 2020. Serbia. Vietato aiutare i migranti: violenze e fogli di via contro i volontari di Tommaso Meo Il Manifesto, 8 febbraio 2020 In Serbia chi aiuta i migranti non è il benvenuto. Lo hanno constatato a proprie spese tre attivisti dell’Ong No Name Kitchen che opera dal 2017 lungo la rotta balcanica. Il 1 febbraio i tre, tra cui l’italiano Adalberto Parenti, dopo essere stati aggrediti da un gruppo di nazionalisti cetnici, sono stati trattenuti dalla polizia che li ha accusati di disturbo della quiete pubblica, oltre che di non avere i permessi in regola. Parenti, 37enne bolognese, in Serbia da ottobre, e la sua collega Leonie Sofia Neumann sono stati condannati a una multa di quasi 200 euro, mentre un’altra attivista tedesca, Marina Bottke, è stata assolta dalle accuse. A tutti è stato però consegnato un foglio di via dalla polizia serba: entro oggi dovranno lasciare il paese. I membri dell’Ong operavano a Šid, nel sud-ovest della Serbia, vicino al confine con la Croazia. Come racconta Parenti, i volontari stavano rifornendo i migranti che si trovano fuori dai campi d’accoglienza ufficiali e che dormono dentro ad alcune tende nei dintorni della fabbrica abbandonata di Grafosrem, quando è avvenuto l’incidente. “Il sabato precedente (25 gennaio, ndr) erano già arrivate queste persone vestite militarmente, ufficialmente per fare pulizia nella boscaglia. Avevano dato fuoco alle pile di vestiti che trovavano - spiega - e quando abbiamo cercato di salvare il possibile, alcune attiviste sono state spinte”. La polizia, contattata il giorno seguente, aveva rassicurato i volontari invitandoli a informarli se si fossero presentati situazioni analoghe. Lo scorso sabato mattina, lo stesso gruppo, che ha issato sul tetto della fabbrica una bandiera serba e quella cetnica, è tornato. “Erano venuti per continuare la “pulizia”. Un termine anche storicamente adatto”, commenta l’attivista. Uno degli uomini ha dato fuoco a un telo di nylon e a una tenda dentro la quale c’era Bottke, una delle attiviste, riuscita miracolosamente a scappare. I tre, racconta Parenti, si sono allontanati, ma Neumann, l’altra ragazza tedesca che stava riprendendo la scena, è stata colpita con un petardo e il suo telefono distrutto con un manganello. Una volta arrivata, la polizia ha però portato gli attivisti in caserma, da cui sarebbero usciti solo all’una di notte con l’ordine di lasciare il paese. Durante un veloce processo i tre sono stati messi a confronto con altrettanti componenti del gruppo di nazionalisti e le dichiarazioni di questi credute. “Il foglio di via è una decisione chiaramente politica, e oltretutto si basa su falsità”, sostiene Parenti, che continua: “Ora stiamo combattendo per annullarlo. L’avvocato dice che ci vorrà almeno una settimana per una decisione”. Nel frattempo cosa farà? “Starò qui a Šid, aiutando i ragazzi finché mi è legalmente possibile. Poi uscirò dal paese, ma resterò nelle vicinanze, con la speranza di tornarci a breve”. Parenti non è però stupito del comportamento della polizia serba e racconta che loro non sono i primi attivisti di No Name Kitchen ad avere avuto problemi. “Chiunque aiuti i migranti qui prima o poi è ostacolato, per usare un eufemismo”, dice. Secondo l’attivista, come la Croazia, pagata dall’Ue, attua respingimenti illegali di persone verso la Bosnia, anche le autorità serbe devono mostrarsi intransigenti nei confronti dei migranti se vogliono sperare di entrare nell’Unione. Intanto Parenti racconta di aver ricevuto dall’Italia molta solidarietà. “Ho anche avuto rassicurazioni dalle istituzioni italiane e da qualche politico”, racconta l’attivista. “Speriamo qualcosa si muova. Noi seguimos luchando (continuiamo a lottare)”. Macron offre l’atomica francese all’Europa: “Serve maggiore capacità d’azione” di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 8 febbraio 2020 Il presidente mette a disposizione dell’Europa l’atomica francese. “Serve maggiore capacità d’azione”. Il discorso sulla strategia di difesa e la dissuasione nucleare è un appuntamento importante per ogni capo di Stato francese: il predecessore Hollande lo ha pronunciato nel 2015 a Istres, Nicolas Sarkozy a Cherbourg nel 2008, Jacques Chirac nel 2001 e nel 2006, uno per ogni mandato, all’Istituto di studi sulla difesa nazionale. Emmanuel Macron ha scelto la Scuola di guerra di Parigi, ma più che il luogo è importante il momento: dopo molti rinvii negli ultimi mesi, il presidente ha parlato ai cadetti militari ieri, pochi giorni dopo la Brexit che fa della Francia l’unico Paese dell’Unione europea in possesso dell’arma nucleare. Il capo di Stato francese ha esortato gli europei a dotarsi di una “maggiore capacità di azione” di fronte ai nuovi disordini mondiali. “Gli europei oggi devono comprendere che potrebbero presto trovarsi esposti alla ripresa di una corsa agli armamenti sia convenzionali sia nucleari, sul loro suolo. Non possono limitarsi al ruolo di spettatori. Ridiventare il terreno di scontro di potenze nucleari non europee non sarebbe accettabile. In ogni caso, io non lo accetto”. Le parole di Macron sembrano costituire il prolungamento naturale del discorso della Sorbona del 26 settembre 2017, quando il presidente presentò il suo progetto per rifondare l’Europa. Un piano rimasto sulla carta per la scarsa reattività della cancelliera Angela Merkel indebolita in Germania, per l’avanzata dei sovranisti in molti Paesi europei, e forse anche per le successive difficoltà di Macron sul piano interno. Le ragioni di una rifondazione europea, a cominciare dall’ambito della difesa, però rimangono. Il leader della sola potenza nucleare dell’Ue lo ha ricordato ieri, quando dopo avere evocato le zone di tensione in tutto il mondo, dal Medio Oriente alla Libia, ha detto che “dobbiamo scegliere tra il riprendere in mano il nostro destino oppure, rinunciando a qualsiasi strategia propria, allinearci a una qualche altra potenza. Ecco perché un sussulto è necessario e il nostro obiettivo deve essere la rifondazione dell’ordine mondiale al servizio della pace. La Francia e l’Europa hanno un ruolo storico da giocare”. Il presidente francese è chiamato in questa fase a un gioco da equilibrista. Da una parte, già autore della famosa frase sulla Nato “in morte cerebrale”, non può e non vuole rincarare la dose proponendo esplicitamente la Francia come sostituto della Nato e degli Usa nel garantire la sicurezza degli europei; inoltre, la Francia della difesa resta comunque legata alla Gran Bretagna dagli accordi di Lancaster House del 2010; infine, Macron cerca di non urtare la suscettibilità degli alleati europei, che potrebbero non gradire la voce grossa di un presidente che è anche capo delle forze armate con 300 testate nucleari a disposizione. D’altra parte, in un mondo dove i trattati di controllo delle armi atomiche vengono denunciati da Russia e Usa a uno a uno, dove la Cina ha ormi oltre 500 testate atomiche e dove il presidente americano Donald Trump lancia continui segnali di disimpegno rispetto all’Europa, si apre uno spazio pericoloso. Ed è inevitabile che l’Unione europea debba ripensare a propria strategia di difesa, tenendo conto della capacità di dissuasione nucleare che la Francia è disposta ad offrire. “La nostra sicurezza passa per una più grande capacità di azione autonoma degli europei”, ha ribadito Macron, che pensa a una partecipazione Ue ai negoziati sugli arsenali atomici. Di nuovo la Francia chiama l’Europa, sperando in una risposta sulla difesa che contribuisca a creare il nascente equilibrio post-Brexit. Il Premio Nobel Maguire: “Israele e Usa sbagliano, per la pace serve dialogo e non violenza” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 8 febbraio 2020 “Non si costruisce la pace umiliando un popolo. Credo nella potenza dell’ascolto, e la comunità internazionale dovrebbe ascoltare le voci che giungono da Gaza e dalla Cisgiordania: voci di sofferenza, di disperazione, ma anche voci di tanti che non rinunciano a rivendicare il diritto di vivere da donne e uomini liberi in uno Stato indipendente”. Ad affermarlo è Mairead Corrigan Maguire, Premio Nobel per la Pace nel 1976. Nata a Belfast da famiglia cattolica, Maguire, decise di dedicarsi alla pace nel suo Paese dopo che i tre figli della sorella furono investiti e uccisi da un’auto di cui aveva perso il controllo un membro dell’esercito repubblicano irlandese, colpito poco prima a morte da un soldato inglese. A seguito di quella tragedia la sorella si tolse la vita e Mairead fondò con Betty William, con cui ha condiviso il Nobel, il movimento “Donne per la pace”. Maguire è anche presidente della Nobel Women’s Initiative, la fondazione che unisce le donne insignite di questo prestigioso riconoscimento. Dopo la presentazione del “Piano del secolo” di Donald Trump, i Territori tornano a infiammarsi: scontri e morti in Cisgiordania, (tre giovani palestinesi uccisi) un attentato a Gerusalemme (15 soldati israeliani feriti), raid israeliani su Gaza dopo il lancio di razzi palestinesi dalla Striscia. Quello della violenza è l’unico “linguaggio” parlato e praticato in Terrasanta? Sono da sempre fautrice della disobbedienza civile e della resistenza non violenta. Ho vissuto gli anni terribili della guerra in Ulster e la mia famiglia ha pagato un prezzo pesantissimo in quel conflitto. Ho imparato allora la potenza del dialogo, dell’unirsi per chiedere pace, perché l’altro da sé non venisse visto come un nemico ma come qualcuno con cui incontrarsi a metà strada. Ma Israele sta abusando della sua forza, e nel farlo commette un grave errore. Quale? L’errore d’illudersi che la pace e la sicurezza possano essere garantite e preservate dalla forza militare. Non è così. La pace, per essere davvero tale, deve coniugarsi con la giustizia. Senza giustizia non c’è pace. E non c’è pace quando un popolo è sotto occupazione, quando viene derubato della sua terra o segregato in villaggi-prigione. Quello palestinese è un popolo giovane, e intere generazioni sono nate e cresciute sotto occupazione, passando da un conflitto all’altro, senza speranza, con la sola rabbia come compagna. E dove c’è rabbia, dove la quotidianità è sofferenza, è impossibile che cresca la speranza. Lei ha visitato più volte Gaza e altre volte è stata respinta da Israele. Come ci si sente nei panni di “nemica d’Israele”? Quei “panni”, per usare la sua metafora, io non li ho mai indossati. Ho imparato sulla mia pelle cosa significhi discriminazione e odio. Io mi sento amica d’Israele e un amico vero è quello che prova a convincerti che stai sbagliando, che proseguendo su una certa strada finirai male. È questo che provo a dire agli israeliani: riconoscere il diritto dei palestinesi a uno Stato indipendente, al fianco del vostro Stato, porre fine all’embargo a Gaza e alle inumane punizioni collettive, è fare onore a voi stessi, alla vostra storia. È investire su un futuro di pace che non potrà mai essere realizzato con le armi. Lo ripeto: non si può spacciare l’oppressione come difesa. Questo è immorale. La colonizzazione non favorisce la pace, ma alimenta l’ingiustizia. Da tempo nei Territori vige un sistema di apartheid e denunciarlo non significa essere “nemica d’Israele” e tanto meno antisemita. Significa guardare in faccia la realtà. La questione palestinese sembra essere uscita dall’agenda dei leader mondiali. È terribile il solo pensare che per “far notizia” si debba usare l’arma del terrore. È una cosa terribile, contro cui continuerò a battermi in ogni dove. La violenza è un vicolo cieco, un cammino insanguinato. Ma cinque milioni di palestinesi non sono diventati tutto ad un tratto dei “fantasmi”. Non si sono volatilizzati. Continuano a vivere sotto occupazione e sotto un’apparente “tranquillità” cresce la rabbia, la frustrazione, sentimenti sui quali possono far presa gruppi estremisti. Per questo occorre rilanciare il dialogo dal basso, favorire le azioni non violente, la disobbedienza civile, e in questa pratica unire palestinesi e israeliani, musulmani, cristiani, ebrei, come riuscimmo a fare noi in Irlanda del Nord, marciando insieme cattolici e protestanti. E poi c’è la diplomazia, la politica, che è fatta anche di atti simbolici che possono avere in prospettiva un grande peso. Un atto del genere quale potrebbe essere a suo avviso? Il riconoscimento dello Stato di Palestina. Un atto politicamente forte, che faccia rivivere l’idea di una pace fondata sul principio “due popoli, due Stati”. Sarebbe un bel segnale se fosse l’Europa, come Unione e non solo come singoli Paesi membri, a rilanciare questa prospettiva. In nome di una pace nella giustizia. La pace vera. Un mondo senza guerra e violenza è possibile. Lei parla della forza del dialogo. Ma dopo la presentazione del “Piano del secolo”, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmud Abbas, ha deciso di azzerare le relazioni con Stati Uniti e Israele. Non voglio invadere campi che non sono di mia pertinenza né sostituirmi a leader politici. Ma so, per esperienza diretta, che la pace non si può imporre dall’esterno e, soprattutto, non può non tenere conto delle aspettative di ambedue i contraenti. Non mi pare che il Piano presentato dal presidente degli Stati Uniti vada in questa direzione né aiuti il dialogo. Quello palestinese, come lo è un altro popolo che ho imparato a conoscere e ad amare, quello siriano, è un popolo fiero di sé, della propria identità nazionale e che ama la sua terra. E quel “sua” è indicato, nei confini, da due risoluzioni delle Nazioni Unite. Una pace giusta è una pace tra pari. Ma questa visione non la ritrovo nel piano americano. Un piano troppo squilibrato, unilaterale, divisivo. E per questo ingiusto.