Ministero della Giustizia e Tim insieme per il reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro La Repubblica, 7 febbraio 2020 Siglato accordo che aiuterà ad acquisire competenze tecniche utili al reinserimento dei detenuti nella società. Nel carcere di Opera a Milano i detenuti faranno assistenza tecnica sui prodotti di rete fissa Tim. L’iniziativa prevede anche attività di formazione all’utilizzo del digitale per i dipendenti del Ministero e i detenuti, nell’ambito dell’ “Operazione Risorgimento Digitale”. Offrire ai detenuti l’opportunità di svolgere un vero lavoro nel corso del periodo di detenzione, aiutandoli ad acquisire competenze utili al loro reinserimento nella società. È questo l’obiettivo del protocollo d’intesa firmato oggi dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, Francesco Basentini, e dal Chief Public Affair Officer di Tim, Alessandro Picardi. In particolare l’accordo consentirà di sviluppare congiuntamente iniziative che possano fornire alle persone detenute formazione ed esperienze professionali idonee al mercato del lavoro, oltre ad intervenire sui fattori di disagio sociale. Inoltre l’accordo si propone di rafforzare la collaborazione tra soggetti pubblici e privati per promuovere sviluppo e progresso sociale. L’accordo prevede di avviare interventi formativi, rivolti sia ai dipendenti del Ministero della Giustizia sia ai detenuti degli Istituti Penitenziari, per favorire l’apprendimento e l’utilizzo delle tecnologie digitali. Tim metterà a disposizione le iniziative di “Operazione Risorgimento Digitale”, il progetto di educazione digitale itinerante in tutte le 107 province italiane che, con oltre 400 formatori, vedrà coinvolti un milione di cittadini, piccole e medie imprese e dipendenti pubblici. La prima applicazione dell’intesa prevede la partecipazione di detenuti della Casa di Reclusione di Milano Opera allo svolgimento di attività di formazione professionale e assistenza tecnica sui prodotti di rete fissa commercializzati da Tim, grazie a un accordo che Tim ha siglato con la Società Service Trade. È prevista una fase iniziale di selezione dei candidati idonei, scelti tra quelli a bassa pericolosità e con pene ridotte, che saranno avviati a percorsi di formazione professionale e di orientamento alle competenze digitali, in linea con i nuovi trend tecnologici e le richieste del mercato del lavoro. Dopo un periodo di affiancamento “on the job”, finalizzato a rendere i detenuti del tutto indipendenti nello svolgimento dell’attività, avrà inizio il lavoro di assistenza tecnica vera e propria. Grazie a questo accordo che fa leva sull’inclusione, il Ministero della Giustizia e TIM promuovono una grande operazione per coniugare creazione di valore e responsabilità sociale, contribuendo al raggiungimento di una società più sicura, impegnata ad agevolare il pieno reinserimento dei cittadini che durante il periodo di detenzione hanno partecipato attivamente a programmi di recupero sociale. Nota dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro sul lavoro a domicilio negli Istituti di pena ispettorato.gov.it, 7 febbraio 2020 Nel far seguito ad un quesito sottoposto dall’Ispettorato territoriale del lavoro di Padova, cui si è già dato riscontro, si ritiene opportuno condividere alcuni principi concernenti la tematica in oggetto e confermati dall’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Va premesso che nel nostro ordinamento l’occupazione lavorativa dei detenuti costituisce un elemento di carattere obbligatorio del trattamento rieducativo che non può comportare un inasprimento della pena (cfr. artt. 15 e 21 L. n. 354/1975). L’art. 47 del D.P.R. n. 230/2000 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà) stabilisce che il lavoro svolto dai detenuti, sia all’interno che all’esterno dell’Istituto, può essere organizzato e gestito dalle Direzioni degli Istituti stessi oppure “da imprese pubbliche e private, e in particolare, in particolare, da imprese cooperative sociali, in locali concessi in comodato dalle Direzioni”. L’attività lavorativa può quindi svolgersi anche in locali concessi in comodato d’uso dall’Istituto che diventano a pieno titolo locali dell’azienda, fatta salva la possibilità del libero accesso da parte della Direzione per motivi inerenti la sicurezza dell’Istituto. Gli obblighi gravanti su azienda ed Istituto vengono definiti con apposita convenzione. L’azienda, in particolare, assume gli obblighi inerenti la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori nonché la corresponsione della retribuzione, l’adempimento degli oneri previdenziali ed assicurativi sulla base della tipologia contrattuale prescelta. Con riferimento all’ammissibilità del lavoro a domicilio non sembrano sussistere, in termini generali, preclusioni normative atteso che, al contrario, tale tipologia di lavoro risulta espressamente richiamata dall’art. 47, comma 10, e dall’art. 52 del citato D.P.R. n. 230/2000, nonché dall’art. 19, comma 7, L. n. 56/1987, sempreché siano rispettate le modalità di cui all’art. 51 del medesimo Regolamento. È tuttavia necessario che le attività lavorative svolte siano ontologicamente compatibili con le specificità della disciplina del lavoro a domicilio. A tale riguardo, quindi, la verifica dell’organo di vigilanza deve essere effettuata secondo i medesimi criteri di valutazione adottati per le attività lavorative svolte presso il domicilio privato, a prescindere dalla contingente condizione di detenzione. Si rammenta, infine, che nella determinazione del compenso del lavoratore a domicilio, va tenuto conto di quanto previsto dall’art. 22 della L. n. 354/1975, secondo il quale “la remunerazione per ciascuna categoria di detenuti e internati che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria è stabilita, in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato, in misura pari ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi”. Prescrizione, così non va di Annalisa Chirico Il Foglio, 7 febbraio 2020 Edmondo Bruti Liberati, già padre nobile di Md, spiega perché sulla durata del processo va trovato un punto d’equilibrio. Ma il “lodo Conte” è a rischio costituzionalità. E’ priva di logica l’idea che i processi possano avere tempi più rapidi solo perché con un tratto di penna si fissa un limite”, Edmondo Bruti Liberati è tranchant sulla riforma Bonafede che mira a sospendere la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Secondo l’ex procuratore capo di Milano, già padre nobile di Magistratura democratica ed esponente di spicco delle “toghe rosse” nell’epoca aurea del berlusconismo, “la legge Bonafede è passata all’estremo opposto del pendolo”. In che senso? “I rapporti del Greco (Gruppo di stati contro la corruzione, organo del Consiglio d’Europa, ndr) hanno più volte invitato l’Italia ad adottare riforme che evitassero la prescrizione nei processi per corruzione. Questa tormentata vicenda ha inizio con la legge ex Cirielli, così sgangherata da essere stata ripudiata dallo stesso onorevole proponente, forse la più smaccata delle leggi ad personam ma anche la più efficace nel raggiungere lo scopo che si proponeva. Ha costituito un indubbio incentivo a cercare di ottenere la prescrizione in appello con impugnazioni dilatorie”. Ma l’avvocato che tira in lungo va incolpato per questo? “Assolutamente no. Per essere chiari: ove l’obiettivo della prescrizione si presenti come raggiungibile, il difensore ha l’inderogabile dovere professionale di proporre impugnazioni anche al solo scopo dilatorio. Sta al legislatore predisporre contromisure”. La riforma Orlando del 2017, pur con i suoi limiti, aveva previsto una sospensione per un periodo definito dopo la sentenza di primo grado... “Si era compiuto un passo avanti ma poi, senza attendere una sperimentazione, si è passati al blocco totale dopo il primo grado, il che vuol dire che negli uffici giudiziari meno efficienti si può avere un processo oltre ogni limite di ragionevole durata. Questi casi saranno pochi, ma per ciascun imputato quello è il suo caso. La ragionevole durata non può essere certo perseguita con la illusoria fissazione di tempi nei quali le fasi del giudizio dovrebbero concludersi, senza incidere sulle molteplici cause della lentezza”. Il punto è esattamente questo: si possono velocizzare i processi per decreto legge? “Non si può”. Lei è favorevole alla prescrizione processuale che fissi una durata per ogni grado di giudizio. Quali sarebbero le sanzioni per il magistrato che sgarra? “Sanzionare l’ultimo dei cancellieri o il magistrato che rimane con il cerino in mano sarebbe sciocco, prima ancora che inutile e vessatorio. Nella maggioranza dei casi si colpirebbe proprio chi è il meno responsabile del ritardo e ha solo in sorte di aver ricevuto il fascicolo quando i termini stavano per scadere”. Nel marasma che fa ballare la maggioranza, si profila un possibile “lodo Conte” che sospenderebbe la prescrizione solo per i condannati. Ma ciò sarebbe compatibile con il principio della presunzione di innocenza, sancito dall’articolo 27 della Costituzione? “I dubbi di costituzionalità sono fondati. Non credo che questa proposta, come d’altronde quella di un rinvio della efficacia della riforma Bonafede, abbia senso. Occorre andare al nucleo della questione. La politica deve trovare la forza di abbandonare il politichese di ‘chi ci perde la faccia’ e anche quello di chi vuole apporre una bandierina. Non vi è nulla di disonorevole nel rivedere una scelta non sufficientemente meditata, dopo aver preso atto delle argomentate critiche”. Insomma, il ministro Bonafede dovrebbe fare un passo indietro... “Salvando però quanto di positivo vi era nella ispirazione originaria della riforma: evitare che processi già definiti in primo grado si estinguano senza una decisione di merito, evitare ogni incentivo ad impugnazioni meramente dilatorie. Nello stesso tempo va scongiurata anche la sola ipotesi che vi possa essere per qualcuno un processo senza fine. Si può approvare in tempi brevi una riforma organica ed equilibrata, come da anni proposto da molti giuristi: un tempo per le indagini preliminari, un tempo per l’appello, un tempo per la Cassazione. Contestualmente, non vi è un ‘prima’ e un ‘dopo’, si devono rafforzare le dotazioni umane, magistrati e, soprattutto, personale amministrativo: do atto che il ministro Bonafede, proseguendo nella via aperta dal suo predecessore Andrea Orlando, ha fatto molto. Le statistiche indicano che, a parità di risorse, l’efficienza degli uffici giudiziari presenta inaccettabili disparità: molto vi è da fare anche per i magistrati e, in particolare, per i capi degli uffici”. A ben vedere, la sospensione della prescrizione sembra diventata una misura simbolica in assenza di ricette adeguate per risolvere i nodi organizzativi e ordinamentali all’origine delle attuali lungaggini... “Le faccio un esempio: l’attuale sistema di notifiche sconta appesantimenti forieri di introdurre nullità e nello stesso tempo inefficacia nel raggiungere lo scopo di una effettiva informazione all’imputato. L’avvocatura deve accettare un sistema di notifiche in linea con le innovazioni tecnologiche ormai pacifiche. Come emerge dalle illuminanti riflessioni di un grande giurista, Glauco Giostra, nel suo ultimo libro sulla giustizia penale, ed. Laterza 2020), il processo penale deve reggersi su un delicato equilibrio tra garanzie ed efficacia. Un processo che non rispetti le garanzie di difesa e la dignità delle persone è incivile e inefficiente. Un confronto propositivo tra magistrati e avvocati può suggerire incisivi interventi sul processo penale eliminando formalità e nullità che non hanno a che fare con le garanzie di difesa”. Il suo auspicio giunge all’indomani di un durissimo scontro tra il consigliere del Csm Piercamillo Davigo e una parte dell’avvocatura... “Davigo ha una rispettabile storia professionale ed è persona integerrima ma le sue ‘gag cabarettistiche’, come le ha definite Luigi Ferrarella, fanno solo danni. Non è efficace strategia comunicativa ma messaggio semplificatorio e fuorviante. Inaccettabile, per altro verso, la pretesa di togliergli la parola. Se si vuole operare per una giustizia migliore non si può prescindere da un dialogo e un confronto tra magistratura ed avvocatura, capaci di superare la frase standard delle rispettive chiusure corporative. Che ciò sia possibile e doveroso lo ha indicato proprio a Milano, nel giorno della clamorosa protesta degli avvocati delle Camere penali, l’intervento pacato e costruttivo dell’avvocato Vinicio Nardo, presidente del Consiglio dell’Ordine”. Lei condivide l’idea di Davigo che gli avvocati d’ufficio compiano più atti possibile allo scopo di aumentare la parcella? “No, ma il sistema attuale di patrocinio a spese dello stato non raggiunge il suo scopo; distribuisce pochi soldi a pioggia e non assicura un’efficace difesa nei casi più delicati”. Sempre Davigo propone che gli avvocati paghino in solido con gli assistiti in caso di ricorsi respinti in appello o in Cassazione. “Non sono d’accordo, anzi mi sembra una inutile provocazione, lesiva del ruolo e della dignità della difesa”. Il procuratore capo di Napoli Giovanni Melillo, nelle vesti di capo gabinetto dell’ex Guardasigilli Orlando, evidenziò il divario di produttività tra uffici giudiziari, a parità di norme e risorse. Quali le cause? “Vi sono ‘sofferenze’ per motivi contingenti ma anche situazioni che si trascinano. Non vale nemmeno rifugiarsi dietro lo stereotipo nord vs. sud. Le peggiori performance delle Corti d’appello sono Roma e Napoli, ma insieme a Torino e Venezia. La situazione è preoccupante e va affrontata anzitutto con una ricognizione molto dettagliata dei dati ad opera del Csm e dell’attuale ministro della Giustizia. Conoscere è la premessa per intervenire e molto si può fare con una stretta collaborazione tra magistratura e avvocatura. In molte sedi i tempi della giustizia penale, soprattutto fino al giudizio di primo grado, sono divenuti accettabili. Rimane aperto il nodo del giudizio di appello”. Un buon magistrato è per forza un buon dirigente? Negli Usa l’organizzazione del lavoro è affidata a un Court manager, laureato in Business administration, non in Legge… “A un buon dirigente si richiedono tutte le doti di un buon magistrato, ma anche qualcosa in più. Il Csm ha una grande responsabilità nella nomina dei dirigenti degli uffici; le scelte non sempre sono all’altezza, ancor più che per deprecate e deprecabili che qui importa è capire perché. Si deve anche dire che da diversi anni il Csm e la Scuola superiore della magistratura offrono agli aspiranti dirigenti corsi di organizzazione anche con il contributo di esperti di Business administration. Non credo alla figura americana del Court manager: l’organizzazione non è tutto. La qualità della performance di un ufficio si misura sulla efficienza ma anche sulla efficacia nel perseguire lo scopo del sistema di giustizia che è quello di assicurare diritti alle persone e non ‘movimentare’ fascicoli. E poi gli Stati uniti sono una grande democrazia che, nonostante le contingenze, è sempre un punto di riferimento sotto molti profili, tranne la giustizia penale, il ‘three strikes and you are out’, la pena di morte, il perp walk”. Dopo lo scandalo delle nomine, il Csm ha assunto rimedi concreti per ridurre il potere correntizio? “Lo scorso 21 giugno il presidente Sergio Mattarella, intervenendo al Csm per la prima volta dopo il cosiddetto ‘caso Palamara’, si era espresso con nettezza: ‘Oggi si volta pagina nella vita del Csm. La prima di un percorso di cui non ci si può nascondere difficoltà e fatica di impegno. Dimostrando la capacità di reagire con fermezza contro ogni forma di degenerazione’. Diversi magistrati consiglieri del Csm e lo stesso procuratore generale della Cassazione, pur non essendo oggetto di contestazioni di rilievo penale, si sono dimessi, con un apprezzabile gesto di responsabilità a salvaguardia dell’istituzione. Come sottolineato dallo stesso presidente Mattarella, è stata un’azione della magistratura a portare allo scoperto le vicende che hanno così pesantemente e gravemente sconcertato la pubblica opinione e scosso l’ordine giudiziario. Ma il monito di Mattarella a ‘voltare pagina nella vita del Csm’, che imponeva ai magistrati italiani di muoversi lungo un percorso di modifica dei comportamenti e di rigore deontologico, rimane attuale”. Riforma Bonafede, per Italia Viva è irricevibile: “Se M5S vuole crisi è problema loro” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 7 febbraio 2020 Ieri sera il Consiglio dei Ministri e il successivo vertice hanno preso atto delle posizioni distanti. Sulla giustizia la mediazione è fallita. Al tesissimo vertice di ieri sera a palazzo Chigi sulla prescrizione, Italia Viva è rimasta sulle proprie posizioni: la riforma Bonafede è irricevibile. Ma la tenuta dell’esecutivo non è compromessa. “Il governo non cade”, secondo Gennaro Migliore di Italia Viva. “Ma noi andiamo fino in fondo. Se il M5S vuole la crisi, sarà un problema loro”. Al vertice hanno preso parte, oltre al premier Giuseppe Conte e al Guardasigilli Alfonso Bonafede, il sottosegretario Ms5 alla Giustizia Vittorio Ferraresi, gli esponenti di Italia viva Maria Elena Boschi, Lucia Annibali e Giuseppe Cucca, e, per Leu, l’ex presidente del Senato Pietro Grasso. Per il Pd, il ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini, i deputati Walter Verini, Michele Bordo, Alfredo Bazoli e il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis. Le posizioni annunciate non sono cambiate. Il Partito Democratico ha auspicato il “saggio congelamento” della pratica, con il rinvio di un anno o in subordine di sei mesi. “Aspettavamo la decisione di Italia Viva. Francamente è difficile non accettare un compromesso. Si assumono una grande responsabilità…”, si fa notare in ambienti parlamentari dem. Fonti vicine a Matteo Renzi avevano preannunciato la linea della fermezza. “La delegazione di Italia Viva rimane ferma sulla posizione espressa da tutti gli avvocati e dalla maggioranza dei magistrati sulla prescrizione. La proposta avanzata da Lucia Annibali con un emendamento al Milleproroghe è la soluzione più intelligente per approfondire la discussione con spirito costruttivo”. Se il resto della maggioranza vorrà seguire Bonafede nel muro contro muro, dunque, si voterà alla Camera prima il Lodo Annibali, poi la Legge Costa. Nel caso in cui non vi fossero i numeri al Senato, Italia Viva presenterà una proposta di legge di ripristino della Legge Orlando con la firma di tutti i senatori del gruppo incluso Renzi. E chiederà di votarla a Palazzo Madama dove Bonafede non ha i numeri anche col sostegno del Pd. Italia Viva dunque non accelera e non polemizza ma da qui a sei mesi Bonafede dovrà cedere. “Se non lo convincerà la politica, ci penserà la matematica”, dicono a Italia Viva. Prescrizione, pm spaccati di Giulia Merlo Il Dubbio, 7 febbraio 2020 Persino l’Anm lacerata dalla norma che fa vacillare il governo. Davigo sposta gli equilibri dell’Associazione magistrati Vertice di maggioranza, Bonafede e Renzi ancora lontani. Mentre la maggioranza va ancora una volta alla ricerca di un compromesso sulla prescrizione con l’ennesimo vertice, la riforma apre una frattura anche nell’Anm. Suscita perplessità, sia tra i moderati di Magistratura indipendente che nella “sinistra” di Magistratura democratica, la linea scelta al congresso di Genova, che ha promosso la norma Bonafede pur in assenza della riforma penale. La corrente di Area, oggi al “governo” dell’Associazione, sarebbe stata condizionata, secondo gli avversari, dalle tesi di Davigo, con il quale è ora “alleata”. Una, nessuna, centomila. Tante quante sono le soluzioni sul tavolo del governo per uscire dal labirinto della prescrizione. Ieri in serata si è svolto l’ennesimo vertice a palazzo Chigi convocato dallo stesso Conte, in coda al Consiglio dei Ministri delle 19 (e concluso dopo la chiusura di questa edizione del giornale): dovrebbe essere quello chiarificatore, capace di riordinare l’agenda del governo sul nodo della giustizia, che minaccia di diventare un pericoloso casus belli per la tenuta dell’Esecutivo, come profetizzato da Matteo Renzi alla convention di Italia Viva. Ad oggi, le posizioni intorno al tavolo sono ancora distanti. Il Guardasigilli Alfonso Bonafede, su cui ha pesato il pressing del premier Giuseppe Conte, dovrebbe presentarsi con una nuova proposta di mediazione. Nei giorni scorsi si era parlato di uno stop alla prescrizione dopo il processo di appello (e non dopo il primo grado, come prevede l’attuale legge) ma i grillini con il ministro in testa avrebbero detto no, perché “la maggior parte dei reati si prescrive nella fase delle indagini preliminari e poi proprio in appello, mentre quasi nulla si prescrive in Cassazione”. Nella serata di ieri, invece, avrebbe ripreso quota in ambienti 5 Stelle il cosiddetto Lodo Conte bis, l’interruzione definitiva della prescrizione solo nei casi di doppia condanna: se con la sentenza di condanna in primo grado il tempo si ferma, questo viene restituito in caso di sentenza di assoluzione in appello: in tal caso, non solo il tempo riprende a decorrere, ma si conta anche quello trascorso tra la sentenza di primo grado di condanna e la sentenza di secondo grado di assoluzione. I renziani avrebbero chiesto di aggiungere sul piatto anche il rinvio di sei mesi alla legge Bonafede, in modo da approntare la modifica. Per farlo, è già pronto e depositato l’emendamento Annibali al Mille Proroghe che prevede lo slittamento della legge Bonafede al 2021, ma il no del Movimento 5 Stelle al rinvio sarebbe tassativo. “La prescrizione breve è legge dal primo gennaio e tale resterà. Nessun rinvio, nemmeno di sei mesi”. La mediazione sul lodo Conte bis, dunque, sarebbe sul tavolo e tre quarti della maggioranza sarebbe pronta a sottoscriverla. Unica incognita rimane Italia Viva, che non ha ancora dato segnali di muoversi dalla posizione di intransigenza sul rinvio della riforma Bonafede. Alla base del niet renziano, tuttavia, ci sarebbero soprattutto attriti complessivi nella gestione del governo: Iv continua a non sentirsi considerata a sufficienza nella maggioranza (ieri mattina sono state fatte le Commissioni e i renziani erano assenti) e punta a mostrare i muscoli se le proprie condizioni venissero di nuovo disattese del tutto. Dal Pd, nessuno si sbilancia. La proposta di Leu convince, ma “ora aspettiamo Italia Viva. Francamente, sarebbe difficile non accettarla. Si assumerebbero una grande responsabilità...”. Altro interrogativo - se la maggioranza trovasse la quadra intorno allo stop della prescrizione nel grado d’appello - riguarda il percorso parlamentare della nuova norma: la collocazione più logica sarebbe nel pacchetto di riforma del processo penale, che Bonafede ha annunciato sarà pronto “in 10 giorni”. In questo modo, però, la modifica della prescrizione entrerebbe in vigore in tempi medio - lunghi, perché si tratta di una legge delega che quindi poi necessiterebbe dei decreti attuativi. Difficile, dunque, che i renziani accettino questa soluzione, ma altrettanto complesso è anche prevedere un decreto ad hoc da incardinare in Parlamento. Eppure, al netto della tela filata da Conte, la situazione politica rimane tesa. E’ di 48 ore fa la smentita di via Arenula e Palazzo Chigi sulla minaccia di dimissioni di Bonafede e sul dibattito pesa la mancanza di leadership tra i 5 Stelle. Ieri gli input sono arrivati da due pulpiti diversi: il primo, a sorpresa, quello della consigliera regionale del Lazio e a capo dei grillini romani, Roberta Lombardi. In una lettera aperta a Nicola Zingaretti lo ha invitato a “trovare una convergenza che porti a due risultati fondamentali per la credibilità politica ed etica di noi tutti”, ovvero l’abolizione della prescrizione e la revoca delle concessioni autostradali. Il sottinteso: pagate questo dazio per cementare l’alleanza strutturale. Di altro avviso, invece, il vero reggente del partito di Grillo: Vito Crimi, infatti, ha evitato di parlare della prescrizione sostenendo che il tema all’ordine del giorno è velocizzare i processi penali e, alla domanda sui contrasti nella maggioranza, ha risposto in modo secco: “Renzi (che si oppone allo stop alla prescrizione ndr) se ne farà una ragione”. Non proprio parole che aprono al dialogo. Nella guerra di posizione tutta interna alla maggioranza continua a insinuarsi il forzista Enrico Costa, che gongola. “Prescrizione per gli assolti, non per i condannati come vuole Orlando; ma prescrizione per i condannati che siano assolti in appello con recupero dei tempi persi, come vuole Leu; ma pure due anni di sospensione per gli assolti dopo il primo grado, copyright M5S. Oppure, sospensione senza limiti della prescrizione dopo il secondo grado, allungando a dismisura la sospensione temporanea dopo il primo grado, che di temporaneo avrebbe così solo il nome”, insomma: “Un labirinto senza fine”. Sottintesa la strizzata d’occhio ai renziani: meglio continuare a votare la legge Costa e fare un bel rewind allo stato dell’arte pre governo gialloverde. Renzi: “La politica non si può piegare al populismo giustizialista” di Edoardo Sylos Labini Cultura Identità, 7 febbraio 2020 Il voto sulla Prescrizione è un passaggio importante per il futuro della maggioranza... tutto dipende da voi di Italia Viva? Non dipende da Italia Viva, o almeno, non solo: dipende dalla coerenza e dal senso di responsabilità che la politica deve tirare fuori in questo momento, mettendo da parte le ideologie. Noi stiamo facendo quello che è il nostro lavoro: stiamo dando la nostra impronta riformista al governo, cercando di evitare che la deriva giustizialista si mangi il buon senso. La politica non può piegarsi al populismo, deve governare dando risposte. Non si può cedere all’idea che un innocente possa andare in carcere o che un cittadino possa portarsi il peso di un processo sulle spalle tutta la vita. Serve una battaglia culturale in nome del garantismo che si opponga a tutto questo. Noi semplicemente, portiamo avanti questa idea sempre: invece dell’obbrobrio firmato da Bonafede e Salvini chiediamo di tornare alla riforma Orlando. Cosa che dovrebbe fare anche il Pd, se non altro per coerenza. Al contrario di molti suoi ex compagni di partito lei non è mai stato giustizialista, cosa le è scattato dentro quando ha vissuto la gogna mediatica del processo alla sua famiglia? Non lo auguro a nessuno. E sto dalla parte di chi ci è passato, di chi lo vive ancora ogni giorno. Io ho scelto di rispondere colpo su colpo, con gli strumenti della giustizia, perché ci credo davvero ed ecco perché sulla prescrizione non cediamo: ne abbiamo visti troppi di innocenti in carcere e di gogne mediatiche che hanno distrutto la vita delle persone, prima, durante e dopo un processo. Ha visto Hammamet di Amelio? Dov’era il giorno delle monetine dell’Hotel Raphael? La stagione di Craxi mi ha toccato ai limiti dell’adolescenza, quindi ne ho avuto un impatto più ragionato nel tempo: ero un ragazzo ai tempi delle monetine, anche se già molto interessato alla politica. Però ho capito che in Italia i lutti durano troppo a lungo e che dovremmo imparare a fare conti più rapidi con la nostra storia. Di Craxi c’è sicuramente da salvare la lezione riformista, e anche se la sua fine non è stata quella che si dice una bella uscita di scena, credo che vent’anni siano un tempo sufficiente per elaborare un pensiero più razionale. II passato non deve essere sempre una terra straniera. Neanche Berlusconi ha rottamato i comunisti come ha fatto lei in questi anni, non crede che sia arrivato il momento di fare outing dicendo che Italia Viva non si riconosce nella sinistra italiana? Italia Viva si riconosce nel riformismo, nella politica che risolve i problemi e che guarda alla crescita e il futuro. Se la sinistra è quella di Obama, di Blair o di Clinton io sono di sinistra. Se è quella di Corbyn. Sanders o Melenchon allora no, non sono di sinistra. Dica la verità… Verdini che ha fatto il pontiere per il Patto del Nazareno ora continua a farlo tra lei e Salvini? Verdini è stato un protagonista del patto del Nazareno ma non ha alcun ruolo nel rapporto tra me e Salvini. Che peraltro è ben diverso da quello che avevo - sulle riforme - con Berlusconi. Parlando di politica estera, Trump a Davos cita l’Italia solo per parlare della bellezza di Firenze, ma il governo italiano dov’è? Che fa? Qual è la sua posizione nei più importanti scenari internazionali? Che l’Italia debba ritrovare un ruolo centrale in Europa e nel mondo è talmente palese che dirlo è un’ovvietà. Abbiamo affrontato la questione libica come se non volessimo disturbare, come se non ci rendessimo contro dell’importanza che ha per noi il Mediterraneo, consegnando le chiavi della zona più calda del mondo a Erdogan. E ora vedo in Europa la stessa timidezza nei confronti della Brexit. Boris Johnson è uno che ci sa fare, l’ho visto all’opera quando lui era sindaco di Londra e io di Firenze: se l’Europa adesso non alza la voce rischiamo di essere travolti dal dinamismo finanziario inglese. Dopo 4 anni di immobilismo mi aspetto di tutto: shock fiscali, campagne e accordi commerciali, non possiamo stare fermi a guardare. È ora di svegliarsi. Lei che ha fatto politica fin dai tempi del liceo Dante di Firenze, dov’era rappresentante di Istituto, come giudica contenuti e comunicazione delle Sardine? Le Sardine hanno riempito le piazze. Ma la differenza l’ha fatta il buon governo di Bonaccini. In Emilia Romagna ha vinto il riformismo, non il populismo. Ora che Vito Crimi ha sostituito Di Maio nel MSS, e visto che in passato si è battuto per togliere i finanziamenti pubblici ai giornali, come lo mettiamo l’allargamento del Bonus Cultura per l’editoria chiesto giustamente da lei? Noi chiediamo di estendere una misura che ha permesso ai nostri giovani di avere dei soldi da spendere in cultura anche ai contenuti digitali a pagamento. In pratica chiediamo di potenziare qualcosa che ha funzionato ed è stata apprezzata da tutti, seguendo quel principio originario venuto fuori come reazione al Bataclan: un euro in cultura, un euro in sicurezza. Cosa prevede il piano Shock! per l’economia che lancia con il suo partito? Ma più che altro glielo faranno fare gli attuali alleati? Questo governo adesso deve inserire la marcia giusta, quella della crescita e sbloccare i 120 miliardi fermi, aprendo subito i cantieri. In agosto ho fatto la mossa del cavallo, fermando Salvini e in Emilia Romagna questo stop è stato confermato. Abbiamo dato vita a un governo di emergenza, per bloccare l’Iva e le tasse, adesso deve andare in onda il secondo tempo di questo film, altrimenti non so che finale scriveremo da qui al 2023. Matteo padre come racconta in poche parole l’Italia ai suoi figli? Come la grande avventura che hanno davanti e che devono imparare a costruire ogni giorno, ognuno il suo, ciascuno secondo le proprie immense possibilità. Non parlo di sogni, ma di realtà. Di quell’Italia che guarda al futuro come una bella sfida, all’innovazione come un’occasione. Un’Italia che produce, lavora, inventa e cresce. Per la responsabilità civile del magistrato? di Eduardo Savarese Cultura Identità, 7 febbraio 2020 Tra populismo giustizialista e garantismo il tema si fa sempre più spinoso In tempi di populismo giustizialista, e di rinverdimento benemerito del garantismo, il tema della responsabilità dei magistrati è spinoso. Il populista vuole che il colpevole paghi e, se a sbagliare la sentenza è il giudice, paghi il giudice! Il giustizialista, che è perfettamente puro e coerente, adora i magistrati, ma non può esimersi dal volere anche la loro testa, se necessario (vedi alla voce Robespierre). Il garantista vuole che il magistrato (soprattutto il pubblico ministero) che sbaglia indagini e mette iniquamente alla gogna l’innocente, ne risponda, con i propri soldi, e magari con la carriera. Giusto: chi sbaglia, paga. Ma cosa e a chi? Il problema di fondo della responsabilità civile (cioè, per risarcimento del danno) dei magistrati è un po’ la sua natura di illusione infantilmente fumogena. Agevolare questa responsabilità con legge rischia di minare due capisaldi di un’attività giudiziaria degna dello Stato di diritto: l’autonomia e l’indipendenza. Il diritto (e neppure la medicina...) non è una scienza esatta, e il diritto oggi è dannatamente difficile da gestire, sicché il margine di interpretazione aumenta, e con esso il rischio di sbagliare soluzione. Ma se devo decidere con la paura di sbagliare soluzione, la mia attività rischia di non essere liberamente soggetta solo alla legge, ma a calcoli di sottrazione dal risarcimento del danno e dalle sue tante minacce. Una funzione giudiziaria difensiva, come la medicina difensiva, rinnega se stessa (ed è un dramma poiché, quando funziona bene, è presidio di libertà e efficace risoluzione di conflitti per tutti). Assicurarsi una facile responsabilità per danni dei magistrati è allora rischioso. Nel 2015, il Parlamento ha ampliato lo spettro delle ipotesi di responsabilità. Pretendere di più sarebbe dannoso e controproducente. Ma cerchiamo di vedere ora la luna, e non il dito. Il vero tema non è tanto “facciamola pagare ai magistrati che sbagliano!”, quanto cercare di capire cosa davvero vogliamo far pagare, e a chi. Nel mirino c’è l’attività investigativa del pm, da un lato, quando si rivela totalmente sballata; dall’altro, le forme di superficialità e ignoranza nell’applicare le norme da parte del giudice civile e penale. Solo in parte, questi errori sono “catturati” dalla legge sulla responsabilità civile del magistrato. Significa che si sbaglia impunemente? In parte no, perché l’impugnazione dei provvedimenti spesso consente di correggere gli errori; in parte, sì. E questa impunità non è un problema di risarcimento dei danni, ma ha una dimensione molto più vasta, è di sistema, e si chiama meritocrazia. La valutazione del merito, in magistratura, tende a latitare drammaticamente. Di più: ci sono giudici che si massacrano di lavoro, e giudici che lavorano poco, giudici che stanno in territori difficili, e altri che vivono in lande tranquille, taluni in tribunali sovradimensionati e altri in tribunali sottodimensionati. Esiste una parolina magica che potrebbe fotografare quanto e come lavorano i magistrati in questo Paese: “standard di rendimento”. Li introdusse una legge del 2006... ma nessuno li ha ancora definiti. E sono passati quattordici anni. Sta per finire l’orrore delle interdittive? di Sergio D’Elia* Il Riformista, 7 febbraio 2020 Una decisione del Tar di Bari potrebbe essere la svolta. Il regime delle interdittive, che ha massacrato il Sud e ha travolto il principio di libertà di impresa, potrebbe essere dichiarato illegittimo. Casi come quello della famiglia di Bruno Polifroni sono migliaia e costituiscono il banco di prova della libertà di fare impresa, della vita degli imprenditori e dei lavoratori, in definitiva della vita del Diritto nel nostro Paese. La speranza che la situazione cambi giunge da una recente sentenza del Tar di Bari che può costituire un punto di svolta rispetto alla logica dell’emergenza che da trent’anni governa la vita politica, sociale ed economica nel nome di una guerra alla mafia che travolge tutto e tutti mangiandosi i principi basilari dello Stato di Diritto. Per la prima volta infatti, un tribunale, il mese scorso, ha accolto un ricorso, curato dall’avvocato Pasquale Rinaldi, in materia di interdittive antimafia e ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione europea la questione della compatibilità della legge italiana con il principio del contraddittorio cosi come riconosciuto dal diritto dell’Unione. Un principio che certo riguarda il diritto di difesa nel processo ma che vale, secondo il Tar, anche “nei procedimenti amministrativi nei quali i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’Amministrazione intende fondare la sua decisione”. In altre parole non è tutto oro colato quello che dice la Prefettura. Finalmente si scoprono gli altarini della cosiddetta antimafia costruiti a partire dai primi anni Novanta e in virtù dei quali è potuto accadere che lo Stato di Diritto si sia ridotto allo Stato dei Prefetti, dei sospetti e degli interdetti. È potuto accadere che centinaia di Comuni siano stati sciolti per mafia senza contraddittorio e per via di sole relazioni prefettizie. È potuto accadere che a migliaia di imprenditori siano stati sequestrati i beni sulla base di semplici sospetti di infiltrazioni mafiose. È potuto accadere che altrettanti imprenditori siano finiti nella black-list e interdetti dal lavoro con la Pubblica amministrazione, senza contraddittorio in ragione di informazioni prefettizie. È accaduto che il sistema di prevenzione su cui si fonda la lotta alla mafia si è progressivamente sostituito al sistema penale, troppo garantista con diritto al contraddittorio e i suoi gradi di giudizio. Un tempo si sarebbe detto che prevenire è meglio che reprimere ma oggi assistiamo ad una prevenzione che è più cieca e distruttiva della repressione stessa. Nella sentenza del Tar di Bari riecheggia il senso delle proposte di legge di iniziativa popolare del Partito Radicale volte a impedire le infiltrazioni mafiose nel sistema economico senza distruggerlo, a salvaguardare la continuità aziendale e amministrativa, a prevenire il crimine senza massacrare la vita delle persone, a combattere la mafia senza minare i principi dello Stato di Diritto e i diritti umani. Confidiamo anche in questo caso, come avvenuto con l’ergastolo ostativo, che siano le Alte Giurisdizioni, in questo caso la Corte di Giustizia europea, a sciogliere quei nodi che il Parlamento non è in grado di affrontare. *Segretario Nessuno Tocchi Caino Sì dell’Italia alla stretta dell’Ue sulle frodi ma la super giustizia europea è un azzardo di Massimiliano Nespola Il Dubbio, 7 febbraio 2020 La sessione plenaria inaugurale del Parlamento europeo del 2020 si è chiusa, nel mese scorso a Strasburgo, con un focus sulla giustizia interessante ma anche meritevole di un’attenta riflessione. Tra i primi temi posti in agenda è apparsa infatti la questione di una lotta coordinata a livello comunitario alla criminalità, anche in relazione alle competenze della nuova super Procura della Ue. Non da oggi ci si pone in quest’ottica. Anzi, si può dire che questo aspetto sia tra quelli prioritari per portare avanti un’Unione che tuteli la sicurezza dei suoi cittadini. Da questo punto di vista, la parola chiave sembra proprio “coordinamento”. A offrirne conferma è anche una recente decisione del governo italiano, che nel Consiglio dei ministri del 23 gennaio scorso ha approvato il decreto legislativo di attuazione di una direttiva Ue, la 2017/1371, con cui si impone un’ulteriore stretta penale sulle frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. È un ambito che sollecita strategie di contrasto così complesse da aver agito, negli anni scorsi, quale stimolo più efficace proprio per l’istituzione della ricordata super Procura della Ue. Ma per comprendere quanto sia difficile trovare, nell’idea del “coordinamento”, l’equilibrio fra la necessaria autonomia delle giurisdizioni nazionali e le esigenze di integrazione, c’è da fare una distinzione importante tra quello che dicono i numeri e le possibili modalità di azione. Veniamo dunque ai dati. Quelli riportati a metà gennaio, in apertura di discussione al Parlamento di Strasburgo, dal vicepresidente della Commissione europea, Maroš Šefcovic, non sono positivi: si stima infatti che, nel 2017, i gruppi criminali indagati siano stati circa 5.000, con un incremento del 150% rispetto al 2013. Un’informazione del genere, di per sé, non fa che surriscaldare gli animi ed espone inevitabilmente al rischio di cadere nella trappola securitaria, la cui ricetta è nota e spesso riproposta: più poteri alle forze dell’ordine, maggiori controlli, norme più restrittive. Questo significa anche minore libertà? Potrebbe. È dunque il caso di mantenere gli occhi aperti sulla risposta corretta da dare al problema: non è infatti riducendo le libertà della persona che si contrasterà meglio la criminalità organizzata. Ma anche questa considerazione è stata tra gli argomenti della plenaria di Strasburgo, fortunatamente. L’operazione da compiere dovrebbe poter ravvivare la fiducia dei cittadini e disincentivare le persone dal compiere attività illecite. C’è bisogno di un più veloce scambio di informazioni? Certo. È necessario conoscere i vari contesti e fornire risposte adeguate e diversificate? Pure. Il rischio da evitare è però quello di un accentramento verso un approccio solo “europeo” che perda la bussola e che non consideri la specificità dei vari Paesi e dei vari casi trattati. Uno dei metodi più adeguati fa riferimento al principio della proporzionalità dell’azione giudiziaria: a monte, l’Europa può svolgere la funzione di coordinatore, disponendo di maggiori informazioni per porre le basi di un approccio più condiviso. Accanto a questo sforzo, però, non si dovrebbero dimenticare gli aspetti della territorialità e della sensibilità ai contesti. Chi ha competenza a valutare se l’applicazione della pena abbia portato ad un cambiamento effettivo della personalità del detenuto? Probabilmente il magistrato che ha seguito la storia del soggetto potrà nel tempo valutare meglio l’evoluzione del caso; ciò acquista una particolare importanza, per esempio, in relazione alla questione del riconoscimento di permessi premio ai detenuti condannati all’ergastolo. Se in funzione stabilmente su un determinato territorio, il giudice potrà anche verificare se, nel tempo, l’azione dello Stato sia riuscita a reprimere una particolare forma di organizzazione criminale che vi si era insediata. E infine: è noto che esistano forme differenti di criminalità organizzata, con particolarità legate ai luoghi di insediamento. L’Italia, in questo settore, può vantare un patrimonio di conoscenze dettagliate non di poco conto, da condividere con tutti gli Stati membri dell’Ue per poter predisporre un’azione efficace di contrasto. È bene quindi ricordare che accanto alle dichiarazioni d’intenti di un Parlamento che parla da un’unica sede per rappresentare l’intera Europa, ci sono le operazioni concrete messe in atto dalle istituzioni. E se è vero che uno Stato si regge su principi etici, quando questi trovano applicazione, la risposta deve poter essere quella più adeguata al caso specifico. A maggior ragione se si parla di lotta alla criminalità: per poter rieducare, bisogna riformare. E un approccio più europeo, ma solo europeo, non sembra la risposta migliore. Caso Cucchi, la “sagra degli errori” e l’”uso distorto del potere” di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 febbraio 2020 La Corte d’Assise di Roma motiva la sentenza di condanna dei quattro carabinieri. Per i giudici, i verbali mal stilati erano “funzionali alla cancellazione di qualsiasi traccia della vicenda”. La condotta dei militari è “indiscutibilmente illecita e ingiustificabile”. Stefano Cucchi stava bene, prima di essere arrestato la sera del 15 ottobre del 2009. Ed è morto per le conseguenze delle gravi lesioni riportate in seguito al pestaggio subito. La violenza dei due carabinieri Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo è stata un’azione “palesemente dolosa e illecita che ha costituito la causa prima di un’evoluzione patologica alla fine letale”. Non poteva essere più chiara, la Prima corte d’Assise di Roma presieduta da Vincenzo Capozza, nel motivare la sentenza del 14 novembre scorso con la quale sono stati condannati a 12 anni di carcere per omicidio preterintenzionale i due militari che quella sera pestarono il giovane geometra romano fino a spezzargli la schiena. E insieme a loro - poiché i documenti ufficiali stilati in caserma, a cominciare dal verbale di arresto di Stefano Cucchi, appaiono, scrivono i giudici, come “una sagra degli errori” - vennero condannati per falso anche Francesco Tedesco (30 mesi di reclusione), il carabiniere coimputato che nel corso del processo bis è diventato il testimone chiave delle torture, e il maresciallo Roberto Mandolini che allora era comandante della stazione Appia, condannato a 3 anni e 8 mesi e interdetto dai pubblici uffici per 5 anni. Appurata l’”inconsistenza della tesi della morte per Sudep (epilessia improvvisa, ndr), mera ipotesi non suffragata, anzi smentita, da alcuna evidenza clinica”, e confermata la “condizione di sostanziale benessere” di Stefano fino al momento dell’arresto, la corte ritiene evidente come l’”azione lesiva inferta da taluno” abbia generato “molteplici e gravi lesioni, con l’instaurarsi di accertate patologie che hanno portato al suo ricovero e da lì a quel progressivo aggravarsi delle sue condizioni che lo hanno condotto alla morte”. Contrariamente a quanto sostenuto nella linea difensiva scelta dagli avvocati difensori degli imputati, questo schema “corrisponde perfettamente alla previsione normativa in tema di nesso di casualità tra condotta illecita ed evento”. E, “d’altra parte, rende chiara la differenza tra la mera causalità biologica, secondo la quale nessuna delle singole lesioni subite da Cucchi sarebbe stata idonea a cagionare la morte, e la causalità giuridico penale, nel rispetto della quale il nesso di causalità sussiste se quelle lesioni, conseguenza di condotta delittuosa, siano state tali da innescare una serie di eventi terminati con la morte, così come si è verificato nel caso in esame”. Dunque, oltre ad essere state letale, la reazione di D’Alessandro e Di Bernardo è stata “indiscutibilmente” “illecita e assolutamente ingiustificabile” perché conseguenza di un “uso distorto dei poteri di coercizione inerenti il loro servizio”, e una violazione del “dovere di tutelare l’incolumità fisica della persona sottoposta al loro controllo”. Ricorda infatti la Corte composta anche di giudici popolari che “il fatto si è svolto in un locale della caserma ove nessuno estraneo poteva avvedersi di quanto stava accadendo, in piena notte, ai danni di una persona decisamente minuta e di fisico molto meno prestante rispetto a quella dei due militari”. D’altronde la testimonianza di Tedesco è, secondo i giudici, “credibile” e sostanziata da prove. Poco importa che sia stato in silenzio per nove anni perché, come ha spiegato egli stesso in modo “comprensibile e ragionevole”, “aveva avuto la certezza gli si fosse parato dinnanzi” un muro “costituito dalle iniziative dei suoi superiori dirette a non far emergere l’azione perpetrata ai danni di Cucchi, e a non perseguire la volontà di verificare che cosa fosse realmente accaduto”. A riprova di questa narrazione c’è, d’altra parte, addirittura un processo ter che si è aperto da qualche settimana contro otto ufficiali accusati di aver depistato le indagini e insabbiato per anni la verità. Infatti la corte presieduta da Capozza rileva che già il verbale di arresto di Stefano appariva “un concentrato di anomalie, errori ed inesattezze. Il soggetto sottoposto alla misura pre-cautelare viene indicato nell’incipit con luogo e data di nascita a lui non pertinenti”. “Questa sagra degli errori rafforza la sensazione che l’attestazione dell’identificazione di Cucchi sia stata una (macroscopica, madornale) svista. L’omissione dei nomi - si legge nelle motivazioni - di Di Bernardo e D’Alessandro tra gli autori dell’arrestato è stata casuale? La corte ritiene di dovere dare risposta negativa alla domanda. L’assenza dei due è funzionale alla cancellazione di qualsiasi traccia della drammatica vicenda avvenuta all’interno della caserma”. Per la famiglia di Stefano si tratta di “parole semplici per una verità semplice che qualcuno ha voluto complicare e qualcun altro non vedere”. Ilaria è emozionata: “È esattamente tutta la verità così come l’abbiamo sostenuta e urlata invano per tanti anni”. Giulio Regeni, i pm: “Sequestro premeditato, attendiamo risposte alla rogatoria” di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 febbraio 2020 La testimonianza in Commissione parlamentare d’inchiesta e l’appello della procura di Roma alle istituzioni. Fu senza dubbio un sequestro premeditato, quello di Giulio Regeni da parte dei servizi segreti egiziani. E il ritrovamento del corpo del giovane ricercatore, il 3 febbraio 2016 sulla strada da Alessandria al Cairo, fu “un fatto fortuito”, niente affatto sicuramente voluto. Il pm di Roma Sergio Colaiocco che è tornato ieri, insieme al sostituto Michele Prestipino, per la seconda tranche di audizione nella Commissione parlamentare d’inchiesta, continua ad elencare gli interrogativi rimasti senza risposta sul caso che lo stesso presidente della Commissione, Erasmo Palazzotto, definisce “non semplicemente giudiziario ma anche politico e diplomatico”. Proprio per questo i magistrati chiedono una mano alle istituzioni. Da tempo, dicono, “siamo in attesa che l’autorità giudiziaria egiziana ci risponda alla rogatoria con tre richieste”. Palazzotto promette ai pm “tutto il nostro sostegno”. Secondo la procura, prima di essere rapito Giulio fu per due mesi oggetto “né casuale né occasionale” dell’attenzione della National security, alla quale il ricercatore era stato denunciato come spia dal sindacalista degli ambulanti, Mohammed Abdallah, che voleva vendicarsi per non essere riuscito ad estorcere soldi al giovane italiano. Giulio venne “volutamente ucciso”, non morì per conseguenza delle torture, e il suo corpo venne ritrovato solo per caso su una strada “costeggiata da muraglioni alti 3 metri, per chilometri”. Molti passi avanti nella ricostruzione della vicenda sono stati fatti anche senza l’aiuto delle autorità egiziane. Nel dicembre 2018, Colaiocco iscrisse sul registro degli indagati per sequestro di persona cinque ufficiali dei servizi segreti civili e della polizia investigativa egiziani. Ma a pesare sono anche i silenzi del Kenya, che non ha risposto ad una rogatoria inviata da Roma, e “della tutor di Giulio a Cambridge, la prof. Maha Abdel Rahman, che non ha mai collaborato alle indagini”. Per la procura di Roma molto rilevante è la rogatoria del 28 aprile 2019 con le tre richieste. Il primo punto, riferiscono i pm, “riguarda riscontri sul fatto che il maggiore Sharif, uno dei 5 indagati, nell’agosto 2017 fosse a Nairobi dove avrebbe fatto riferimento alle modalità del sequestro di Giulio a una persona durante un pranzo poi ascoltato da una terza; il secondo riguarda l’elezione di domicilio degli indagati; il terzo i tabulati telefonici”. La risposta non c’è, e va sollecitata. Stalking, se la minaccia non è grave la remissione di querela estingue il reato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2020 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 6 febbraio 2020 n. 5092. Anche nello stalking la remissione della querela da parte della ex moglie estingue il reato se la minaccia, benché reiterata, non può essere considerata grave. La Corte di cassazione, con la sentenza 5092, accoglie il ricorso dell’imputato respinto invece dalla Corte d’Appello che aveva considerato ininfluente la marcia indietro della ex moglie a fronte delle condotte reiterate da parte dell’uomo che inviava alla ex moglie messaggi telefonici minacciosi. Senza successo l’imputato aveva fatto presente che non intendeva perseguitare la moglie, che in effetti non aveva cambiato le sue abitudini di vita, ma solo rivendicare le sue esigenze abitative e impedire che la figlia fosse costretta a frequentare il nuovo compagno della sua ex. Che il suo comportamento non fosse percepito come grave era dimostrato, ad avviso della difesa, anche dalla remissione di querela da parte della donna. Argomenti che non avevano convinto i giudici territoriali che avevano confermato sostanzialmente la condanna del primo grado, disapplicando solo la recidiva. Per la Corte d’Appello, infatti, il cambiamento delle abitudini di vita poteva essere un sintomo della condotta illecita ma non un suo requisito essenziale. Allo stesso modo non era utile neppure la remissione di querela. I giudici di seconda istanza, avevano chiarito che a, fronte dei comportamenti ripetuti nel tempo volti a spaventare la vittima, si doveva considerare irrilevante in base alla legge, il carattere della gravità. La Suprema corte non è d’accordo su nulla e accoglie il ricorso. La corte territoriale ha sbagliato a considerare irrilevante il fatto che la ex moglie non avesse cambiato le abitudini di vita, una condizione che è invece posta dall’articolo 162-bis per la configurabilità degli atti persecutori. Lo stesso non è corretta la conclusione sugli effetti della remissione di querela. La Suprema corte precisa che, se è vero che in caso di minaccia grave non trova effetto la modifica del regime di minaccia grava introdotta dal Dlgs 36/2018 che ha sancito il passaggio dalla procedibilità d’ufficio alla querela, in assenza di minacce considerate non gravi, come nel caso esaminato, la rinuncia alla querela ha l’effetto di estinguere il reato. La Cassazione annulla con rinvio invitando la corte di merito ad un nuovo esame. Le nuove attenuanti non violano la irretroattività, ma il giudice deve motivare la scelta di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2020 Corte europea dei diritti dell’Uomo - Sezione I - Ricorso 6 febbraio 2020 n. 44221/14. L’applicazione delle nuove regole sulle circostanze attenuanti a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge non è una violazione del principio di irretroattività della legge penale più sfavorevole. È vero - scrive la Corte europea nella sentenza depositata ieri, nel ricorso n. 44221/14 - che le modifiche legislative introdotte in Italia nel 2008 restringono il perimetro di applicazione delle circostanze attenuanti, ma questo senza renderle inapplicabili, lasciando in ogni caso la valutazione al giudice. Strasburgo ha così ritenuto che l’Italia non ha violato l’articolo 7 della Convenzione europea che fissa il principio “nessuna pena senza la legge”, ritenendo però violato l’articolo 6 sull’equo processo a causa di una non adeguata motivazione della sentenza da parte della Cassazione. A rivolgersi alla Corte europea è stato un cittadino italiano condannato per guida in stato di ebrezza. L’uomo aveva contestato la condanna ritenendo che la mancata concessione in suo favore delle circostanze attenuanti generiche per l’assenza di precedenti era dovuta proprio all’applicazione della legge 125 del 2008 (che ha modificato l’articolo 62bis del codice penale). I giudici interni, inclusa la Cassazione, avevano respinto tutti i ricorsi e così l’uomo si è rivolto a Strasburgo. La Corte europea riconosce che il legislatore italiano ha modificato le norme penali, ma anche prima dell’introduzione della legge n. 125/2008 i giudici nazionali non erano tenuti ad applicare automaticamente le circostanze attenuanti. La modifica legislativa, quindi, ha solo delimitato l’ambito delle attenuanti, ma ha lasciato l’impianto di base con la valutazione da parte del giudice competente, che ha effettuato un bilanciamento tra l’insieme degli elementi pertinenti. Pertanto, la condanna non è stata dovuta all’applicazione di una legge più severa non esistente all’epoca dei fatti, quanto piuttosto a una valutazione da parte del giudice. Di conseguenza, il ricorrente non è stato penalizzato dalla legge adottata successivamente al fatto illecito a lui imputato. Respinto il ricorso per violazione dell’articolo 7, la Corte europea, però, ha dato ragione al ricorrente sotto il profilo della violazione dell’articolo 6 (equo processo), condannando l’Italia. Questo perché, secondo i giudici internazionali, la Corte di Cassazione ha dichiarato irricevibile la domanda ritenendo che i motivi di ricorso riguardassero questioni di fatto e non di diritto. Una posizione non condivisa da Strasburgo: la questione dell’applicazione della nuova legge che limitava l’applicazione delle circostanze attenuanti e che secondo il ricorrente violava il principio della irretroattività della legge penale più sfavorevole e dell’operatività delle circostanze attenuanti esigeva “una risposta specifica ed esplicita” che, invece, per la Corte europea è mancata, impedendo al ricorrente di comprendere le ragioni che hanno condotto all’irricevibilità del ricorso. Di qui la condanna all’Italia per violazione dell’articolo 6, con il Governo tenuto a versare al ricorrente 2.500 euro per i danni non patrimoniali. Armi per corrispondenza, venditore responsabile se non ha verificato i titoli di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2020 Corte di cassazione - Sentenza 6 febbraio 2020 n. 5037. Non può trincerarsi dietro la “buona fede” il titolare di un’armeria - nel caso di San Marino - che abbia venduto, per corrispondenza, 247 “pezzi” a persone residenti in Italia che avevano fornito false generalità e titoli di legittimazione contraffatti. La Cassazione, sentenza 5037/2020, ha così accolto, con rinvio, il ricorso del Procuratore generale della Corte di appello di Bari contro l’assoluzione del venditore, per non aver commesso il fatto, dal reato di associazione a delinquere e altri reati fine in materia di falso e violazione di disciplina delle armi. Secondo la prima sezione penale la motivazione dell’assoluzione era “assertiva” e non faceva i conti con quanto già stabilito dalla condanna in primo grado. Secondo il Tribunale, infatti, l’imputato aveva certamente violato la legge n. 40 del 1991 del “Titano” che impone al venditore di armi di “verificare direttamente la reale identità personale degli acquirenti e destinatari delle armi e l’effettiva titolarità in capo agli stessi di validi titoli di acquisto rilasciati dalle competenti autorità italiane di pubblica sicurezza”. Il primo giudice aveva tratto la prova dell’inosservanza degli obblighi proprio “dalle false generalità (corrispondenti a quelle di persone fisiche inesistenti) spese dagli acquirenti, nonché dall’utilizzo, per eseguire gli ordinativi delle armi, di titoli di legittimazione contraffatti, realizzati modificando la scansione digitale del medesimo - originario - porto di fucile rilasciato (e poi revocato)”. Una serie di falsità dunque di cui l’imputato, “anche in ragione della sua qualità professionale di titolare di un’armeria, si sarebbe agevolmente reso conto se avesse controllato personalmente (come era tenuto a fare, specie a fronte del consistente numero di armi da fuoco nell’ordine di circa 250 unità cedute, ad apparente uso sportivo, sempre tramite i medesimi soggetti) gli originali dei documenti di identità e delle licenze di porto d’armi esibite in occasione degli acquisti”. Col suo comportamento complessivo - prosegue la decisione - ha invece rivelato di “non aver mai conosciuto o incontrato di persona gli acquirenti, e di non aver mai esaminato in originale i loro documenti”. La Corte di Appello di Bari dovrà dunque procedere a un nuovo giudizio relativamente però solo ai delitti fine dal momento che l’assoluzione per il reato associativo non è stata investita dal ricorso del Pg ed è così divenuta definitiva. Padova. Il volontariato in carcere fa la differenza di Sara Barovier, Claudio De Zan rainews.it, 7 febbraio 2020 Il penitenziario “Due Palazzi” è conosciuto per le iniziative della Cooperativa Giotto, una grande associazione di volontari che, in 40 anni di impegno, è riuscita a insegnare un lavoro e a ridare futuro e speranza a centinaia di detenuti. Nel servizio le interviste a Massimo Quadro, Associazione Coristi per caso; Rossella Favero, Cooperativa Altra Città; Ornella Favero, fondatrice “Ristretti Orizzonti”; Maria Cinzia Zanellato Teatro Carcere Due Palazzi; Matteo Marchetto Pasticceria Giotto; Nicola Boscoletto, responsabile Cooperativa Giotto. Il video a questo indirizzo: https://www.rainews.it/tgr/veneto/video/2020/02/ven-Volontariato-Padova-Carcere-cooperativa-giotto-detenuti-1baf0860-483b-4495-b3a0-0a355ca3dfe0.html Viterbo. Abusi in carcere, anche la Lega vota la mozione per sollecitare il ministro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 febbraio 2020 Presentata dal Consigliere regionale del Lazio di +Europa Radicali Alessandro Capriccioli. “Il Consiglio regionale del Lazio ha approvato questa mattina una mozione a mia prima firma che impegna il Presidente a intervenire presso il ministero della Giustizia affinché tenga nella massima considerazione i rilievi emersi nel rapporto del Cpt riguardanti la situazione del carcere di Viterbo, e affinché si attivi, attraverso l’amministrazione penitenziaria, per tutelare i diritti delle persone detenute al Mammagialla e dei tanti agenti di polizia penitenziaria che ci lavorano. L’errore imperdonabile, a questo punto, sarebbe spegnere i riflettori su questa vicenda una volta scomparsa la notizia dalle pagine di cronaca dei quotidiani”. Così in una nota Alessandro Capriccioli, consigliere regionale del Lazio di +Europa Radicali, annuncia la mozione. “La notizia, uscita pochi giorni fa su Il Dubbio, dei 10 rinvii a giudizio per il caso di Giuseppe De Felice, che ha denunciato di aver subito percosse da una “squadretta” di agenti a volto coperto, e la citata relazione del Ctp, che parla di violenze sistematiche e deliberate ai danni dei detenuti, sono elementi che confermano quanto da circa un anno e mezzo, dopo numerose visite e colloqui con gli ospiti del Mammagialla, provo a portare alla luce”, denuncia Capriccioli. “Le criticità in quell’istituto carcerario sono ormai note non solo in Italia, ma in tutta Europa, e non è possibile rimandare ancora i necessari approfondimenti e gli interventi che ne conseguono: il ministro Bonafede ha il dovere di agire per ristabilire un clima vivibile all’interno di un istituto difficile e pieno di zone d’ombra. La mozione approvata oggi in consiglio regionale è un altro passo avanti per i diritti dei detenuti del Mammagialla, ma anche dei tanti agenti di polizia penitenziaria che vi lavorano con dedizione e impegno”, conclude il consigliere di +Europa. Tra i consiglieri della regione Lazio che hanno sottoscritto la mozione compare, a sorpresa, anche Orlando Tripodi della Lega. Fatto non di poco conto visto che il capo politico Matteo Salvini ha da sempre espresso solidarietà nei confronti degli agenti della polizia penitenziaria coinvolti in presunti pestaggi. Il rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti citato da Capriccioli è noto. Fra i maltrattamenti denunciati e raccolti al carcere di Viterbo, c’è quello di una ispettrice di polizia che brucia i piedi a un detenuto soggetto al 41bis per verificare se finge uno stato catatonico. Poi, quello di un detenuto preso a pugni da un gruppo di agenti verosimilmente per fargli dire com’è riuscito a far entrare nel carcere un cellulare trovato nella sua cella. C’è chi viene colpito alla testa con chiavi di metallo, chi preso a calci e pugni, chi buttato giù dalle scale. Tutto, in luoghi non coperti da telecamere a circuito chiuso. Nelle cartelle cliniche dei detenuti che hanno denunciato ci sono descrizioni di lesioni corporali considerate compatibili con le accuse di maltrattamento. Sul caso di De Felice, come riportato in esclusiva da Il Dubbio, ora sarà il Giudice dell’udienza preliminare a valutare la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dei 10 agenti che avrebbero malmenato il detenuto, dichiarando alcuni di loro - sempre secondo la procura di Viterbo - il falso. Sempre il consigliere Capriccioli, da mesi, aveva chiesto un incontro con il ministro Bonafede per poter riferire quanto aveva visto e ascoltato durante le sue visite ispettive. Ora sarà la regione Lazio ad intervenire presso il ministero della giustizia affinché si faccia piena luce, attivandosi anche a far prevalere i diritti in un carcere definito non a caso “punitivo”. Viterbo. Uccise il compagno di cella, collegio di periti per stabilire se è sano di mente di Silvana Cortignani tusciaweb.eu, 7 febbraio 2020 Uccise il compagno di cella a Mammagialla, sarà un collegio peritale a stabilire se è sano di mente Sing Khajan, il 35enne indiano che il 29 marzo dell’anno scorso ha massacrato a colpi di sgabello per un accendino il detenuto viterbese 61enne Giovanni Delfino. Ne faranno parte due psichiatri e una interprete di punjub. Presa visione del caso, il professor Giovanni Battista Traverso, prima di assumere l’incarico, ha chiesto alla corte d’assise presieduta dal giudice Gaetano Mautone di poter essere affiancato dalla figlia Simona, anche lei psichiatra e esperta criminologa, nonché da una interprete di lingua punjab. “Data la delicatezza e complessità del caso, ritengo sia necessario formare un collegio peritale”, ha spiegato e la corte d’assise ha concordato, concedendo ai Traverso 90 giorni di tempo per elaborare la perizia psichiatrica che dovrà stabilire se Sing sia affetto da patologie psichiatriche, se la sua capacità di intendere e di volere sia esclusa oppure ridotta, se sia in grado di stare scientemente a processo e se sia socialmente pericoloso. Sing sarà visitato il 19 febbraio presso il carcere romano di Rebibbia, dove è stato trasferito dopo l’omicidio a Mammagialla. La perizia psichiatrica è stata chiesta nell’udienza dello scorso 23 gennaio sia dal difensore Antonio Maria Carlevaro, sia dall’avvocato Carmelo Antonio Pirrone che assiste i familiari della vittima che si sono costituiti parte civile. “Alla luce delle sue tre precedenti aggressioni in pochi giorni, una delle quali al compagno di cella del carcere di Civitavecchia a fine febbraio, l’imputato doveva stare in cella da solo. Se qualcuno ha sbagliato a metterli nella stessa cella, deve pagare”, disse Pirrone, spiegano che il figlio di Delfino ha sporto denuncia contro i vertici del carcere, mentre il pm Pacifici ha confermato la presenza di una inchiesta in corso. Sempre durante l’udienza del 23 gennaio, nel frattempo, è stata acquisita la relazione affidata dopo l’arresto dalla procura allo psichiatra Alberto Trisolini, primo testimone del processo. Il dirigente del servizio psichiatrico diagnosi e cura della Asl ha parlato in aula di una “miscela esplosiva”, combinata con lo stress del carcere. L’imputato, secondo il professor Trisolini: “E’ affetto da un disturbo di personalità borderline, che ogni tanto sconfina in disturbi deliranti paranoidei. Può stare in giudizio ed è parzialmente capace di intendere e di volere. Ma al momento dell’atto la sua capacità di intendere e di volere era fortemente scemata. Ed è socialmente pericoloso”. Tra gli atti messi a disposizione dei professori Traverso c’è anche una precedente relazione, redatta il 20 febbraio 2019 da una psichiatra del carcere di Viterbo, nella quale per Sing si chiede la “grandissima sorveglianza, in camera di pernottamento da solo, per il grande rischio di auto e etero-lesionismo, con privazione degli oggetti potenzialmente atti a offendere”, come sgabelli, accendini, lamette e similari. Si torna in aula il prossimo 15 giugno per sentire i periti e l’eventuale discussone. Ferrara. Il Comune cerca un nuovo Garante dei diritti dei detenuti estense.com, 7 febbraio 2020 Scade il 5 marzo il termine per la presentazione delle candidature. Avviata la procedura di presentazione delle domande per il rinnovo della figura di garante per i diritti delle persone private della libertà personale. L’Ufficio di Presidenza del Consiglio Comunale di Ferrara ha infatti emanato, secondo quanto previsto dal regolamento approvato con deliberazione del consiglio comunale, l’avviso relativo alla presentazione delle candidature all’elezione del garante per i diritti dei detenuti. “Il Garante - si legge nell’avviso - viene scelto tra cittadini italiani che, per comprovata competenza nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, ovvero delle attività sociali negli Istituti di prevenzione e pena, e nei Centri di servizio sociale e per esperienza acquisita nella tutela dei diritti, offrano la massima garanzia di probità, indipendenza, obiettività, competenze e capacità di esercitare efficacemente le proprie funzioni”. Le candidature devono essere presentate entro giovedì 5 marzo alle 13. L’avviso integrale e il facsimile della domanda sono pubblicati sulle pagine internet del Comune di Ferrara disponibili qui: http://www.comune.fe.it/1947/ufficio-garante-dei-diritti-dei-detenuti Andria (Bat). I taralli prodotti dei detenuti arrivano in Vaticano corrierenazionale.it, 7 febbraio 2020 “Continuo a non crederci. Non mi sembra vero di essere stato a tu per tu col Papa: era vicino a me, gli ho parlato a quattr’occhi. È stata un’emozione fortissima e non trovo altre parole per descrivere quello che ho vissuto”. La voce di Sakho Mamadou, 30enne di nazionalità senegalese, trema quando racconta alla Dire quanto vissuto a Roma, nell’aula Paolo VI dopo l’udienza generale del Santo Padre. Il Pontefice ha incontrato lui e altri nove ragazzi che fanno parte del progetto della diocesi di Andria “Senza sbarre” pensato per rieducare alla legalità chi ha vissuto o vive l’esperienza carceraria. “Non posso dire che sono diventato rosso - ride - ma avevo il cuore che batteva a mille per la gioia, la sua benedizione, l’umiltà e la semplicità con cui si è avvicinato a noi sono state grandiose”. Il gruppo ha donato a Bergoglio pasta, taralli e olio. “Sono il frutto del nostro lavoro, del nostro impegno, delle nostre mani per non sentirci più “scartati” e non avere più il marchio del detenuto. Quei taralli sono il nostro riscatto”, dice il 30enne con un passato fatto di campi di calcio. Ha militato nel Nardò, nel Galatina e nel Sassari, poi sono arrivate le prime delusioni, gli insulti dagli spalti, la depressione e le rapine che gli hanno aperto le porte del carcere. “Lui ha sbagliato e lo sa ma ora sta ricostruendo la sua vita e l’incontro di oggi di sicuro lo aiuterà ancora di più”, commenta don Riccardo Agresti che conosce bene “i ragazzi di masseria San Vittore”, così si chiama il luogo in cui vengono preparati i prodotti da forno e l’olio extravergine di oliva. “A Papa Francesco abbiamo regalato anche due libri, in uno c’è la storia di Mamadou”, sottolinea don Riccardo ed evidenzia: “Il Pontefice è molto vicino alla realtà carceraria e i detenuti saranno protagonisti della Via Crucis del Venerdì santo”. Il gruppo è ora in viaggio, rientra in masseria: “Poter andare a Roma oggi è stata una grande prova di fiducia per questi ragazzi. Alcuni sono in regime di semilibertà, un altro è un ergastolano e gli altri sono affidati al progetto. È andato tutto come doveva”, sospira don Riccardo. “Io volevo che il Papa assaggiasse i taralli, avrei tanto voluto vedere la sua reazione, sapere se gli piacciono ma non è stato possibile”, rivela Mamadou che tutti in comunità chiamano Matteo perché “mi sono convertito al cattolicesimo il 21 settembre, giorno di San Matteo e ho preso il suo nome”. Il sogno più grande ora è un altro: “Rivedere il Papa a Bari quando verrà a febbraio e che magari abbia il tempo e il modo per raggiungerci ad Andria. Sarebbe stupendo”, confida Mamadou. Piacenza. “Il carcere che produce”, convegno sul progetto Ex Novo piacenzasera.it, 7 febbraio 2020 “L’anno scorso abbiamo prodotto 30 quintali di fragole, tutte andate a ruba. Per il 2020 la volontà è triplicare questi numeri”. Lo ha detto Fabrizio Ramacci, presidente della cooperativa sociale L’Orto botanico e responsabile di diverse attività di reinserimento lavorativo presso il Carcere di Piacenza, tra cui l’ultima in ordine di tempo - in partnership con l’Università Cattolica del Sacro Cuore - riguarda la coltivazione di fragole negli spazi esterni della casa circondariale. “Attualmente - ha continuato Ramacci - nelle attività del progetto Ex Novo (così è stato chiamato il marchio dei prodotti del carcere di Piacenza, ndr) - sono regolarmente assunte 6 persone detenute. Una persona nell’attività della coltivazione degli ortaggi, in quella di falegnameria, tre nella coltivazione delle fragole. L’obiettivo per il futuro è allargarsi sempre di più, coinvolgendo un numero maggiore di detenuti e implementando la distribuzione. In tal senso vogliamo aprire un piccolo chiosco fuori dalle mura della casa circondariale”. Un primo passo in questa direzione verrà fatto con il convegno “Il carcere che produce”, in programma l’11 febbraio, a partire dalle 9, presso l’Auditorium di Santa Maria della Pace a Piacenza (via Scalabrini). L’incontro è stato presentato nella mattinata del 6 febbraio dallo stesso Ramacci, insieme ad altri attori coinvolti nel progetto. “Sarà una mattinata intensa - ha evidenziato l’Assessore alle Politiche Sociali Federica Sgorbati - in cui verrà illustrato alla città il progetto Ex Novo, e ci sarà modo di confrontarsi anche con altre realtà e territori che sviluppano iniziative legate al coinvolgimento delle persone detenute”. “Il tempo speso nella detenzione deve essere riempito di senso, portare a riflettere su quanto si è fatto ma invitando anche a guardare anche al futuro - le parole di Brunello Buonocore dell’Asp Città di Piacenza, che presenterà uno degli interventi durante il convegno dell’11 febbraio, del quale ha detto: “Partendo da quanto si sta facendo a Piacenza si parlerà di economia carceraria, andando quindi alla scoperta delle tante esperienze che ci sono in Italia in questo campo: tra queste abbiamo scelto quelle della Cooperativa Sociale Calimero di Bergamo; della Cooperativa Sociale Nazareth Cremona di Cremona; di Store Freedhome di Torino e della Cooperativa Sociale Rio Terà dei Pensieri di Venezia”. “Il convegno - ha aggiunto il direttore della Casa circondariale di Piacenza, Maria Gabriella Lusi - sarà una bella occasione per mostrare la forza e l’efficacia di una rete territoriale che unisce carcere, istituzioni e risorse del territorio. Lavoro significa impegno, a maggior ragione in carcere, dove diventa fondamentale anche per l’acquisizione di competenze, la remunerazione, e per conferire all’esterno l’idea di un luogo che produce: l’obiettivo è quello di restituire alla società persone riabilitate”. Roma. Montecitorio apre le porte a “Gli Ultimi saranno” di Marta D’Auria riforma.it, 7 febbraio 2020 Lunedì prossimo nella Nuova Aula dei gruppi parlamentari sarà presentato il progetto grazie al quale la musica e l’arte incontrano i detenuti. Ne parliamo con l’on. Raffaele Bruno, promotore dell’iniziativa. Lunedì 10 febbraio alle ore 16 nella Nuova Aula dei gruppi parlamentari, si svolgerà il convegno/spettacolo “Gli Ultimi saranno”, progetto in cui musicisti e attori si uniscono ai detenuti e tramite l’arte si condividono storie di vita, difficoltà e speranze. Ne parliamo con Raffaele Bruno, deputato del M5s, di fede evangelica battista, promotore dell’iniziativa. “Gli Ultimi saranno è un progetto che nasce nel dicembre 2018 - in parallelo con l’inizio della mia avventura istituzionale, e in continuità con il lavoro fatto con il collettivo artistico “Delirio creativo” - sull’intuizione che l’arte è un potente strumento di elevazione umana, un modo per permettere a parti lontane della società di trovare un luogo comune in cui incontrarsi. Partendo da questa idea abbiamo organizzato una serie di incontri in carcere, luogo particolarmente simbolico di lacerazioni, difficoltà, e di sofferenza. Così, dal dicembre 2018 insieme ad un gruppo di artisti, abbiamo realizzato 25 incontri in 16 carceri diversi (in alcuni siamo ritornati) e l’evento che si terrà a Montecitorio lunedì prossimo raccoglie le esperienze acquisite fino ad adesso”. Cosa accade durante uno spettacolo de “Gli Ultimi saranno”? “Più che di spettacolo parlerei di “rito di improvvisazione”. Noi andiamo in carcere con un nostro repertorio di testi teatrali e di brani musicali, ma la scaletta è totalmente variabile, infatti, viene contaminata splendidamente dagli interventi dei detenuti. Siccome vogliamo puntare il faro sugli effetti benefici dell’arte, e quindi sui laboratori creativi che avvengono nelle carceri, prima dell’incontro contattiamo i responsabili dei laboratori invitandoli a preparare insieme ai detenuti dei contributi; poi, quando noi arriviamo, mettiamo insieme i loro pezzi con i nostri, e si crea un repertorio completamente nuovo, inedito: tutti insieme portiamo avanti lo stesso discorso. Spesso accade che qualche ospite della struttura chiede in maniera estemporanea di unirsi a noi per recitare o cantare, a quel punto si annulla completamente ogni idea di contrapposizione e tutto diventa condivisione circolare. Ecco, proveremo a riprodurre questo schema anche a Montecitorio”. Chi ci sarà il 10 febbraio a Montecitorio? “Ci saranno gli artisti che di solito sono con me: Maurizio Capone, Luk (Enzo Colursi) e Blindur (Massimo De Vita), e Federica Palo. Ci sarà poi la realtà delle carceri che fino ad ora abbiamo incontrato e a cui abbiamo chiesto due cose: la prima, di far partecipare alcuni detenuti che reciteranno insieme a noi; è una cosa unica o rarissima che dei detenuti abbiano avuto l’opportunità non solo di entrare alla Camera ma anche di parlare; la seconda, di raccontare le buone pratiche messe in atto negli istituti penitenziari. Sono state invitate anche delle personalità del Governo, della cui presenza stiamo aspettando conferma. Ci auguriamo che ci sia uno scambio di buoni esempi, e soprattutto uno scambio umano di emozioni”. Qual è l’obiettivo di questo progetto? “Il primo obiettivo è farlo, è vivere questo momento, che noi troviamo straordinario, unico: Poi, altro scopo è quello di stare insieme a partire dall’idea di essere tutti parte di una comunità che è presente quando c’è qualcuno che soffre e che ha bisogno di un sostegno. Il carcere, come ci ricorda l’art. 27 della Costituzione dove si riconosce la funzione rieducativa del carcere, è luogo di opportunità, di salvezza, di aiuto di persone che, spesso, per un concorso di responsabilità, sono arrivate a fare delle scelte sbagliate. Con Gli Ultimi saranno vogliamo puntare il faro su questo concetto e mettere l’accento su tutte le associazioni e i laboratori teatrali che quotidianamente operano nelle carceri, affinché abbiano maggiori tutele e sostegno. Altro obiettivo del progetto è di segnalare altre iniziative legate a questo progetto, come “Dona un libro”, lanciata anche dal presidente della Camera, Roberto Fico: una campagna di raccolta e distribuzione di libri con dedica destinati alle biblioteche carcerarie. Si tratta di un altro ponte che vogliamo costruire tra il dentro e fuori, un messaggio di vicinanza verso le persone che stanno vivendo un momento buio”. Come si traduce tutto questo impegno sul piano istituzionale? “Sono il primo firmatario di una mozione, che dovrebbe essere discussa in aula a breve, per chiedere al Governo di supportare le amministrazioni penitenziarie nell’organizzazione di progetti con finalità culturali, concentrandosi in particolare sui laboratori teatrali, con la prospettiva di definire un quadro normativo per gli operatori all’interno delle carceri e rendere il teatro parte integrante delle strutture. La mozione chiede anche una mappatura dei diversi progetti per verificare le correlazioni con il tasso di recidiva dei detenuti, nella convinzione che l’arte ha un valore enorme nel ridare speranza a una persona che prima o poi uscirà dal carcere. Concludo, portando un piccolo esempio di come da un incontro umano, in cui si vivono delle emozioni, si possa innescare una catena virtuosa. Durante una visita al carcere di Salerno, un agente penitenziario ci ha segnalato che una grande sofferenza per i detenuti era che i loro figli non avevano la possibilità di giustificare le assenze a scuola quando andavano a fargli visita. Da questa segnalazione si è messa in moto una serie di passaggi che hanno portato alla nascita di una circolare emanata dal Miur lo scorso ottobre proprio sulla deroga per le assenze dei figli di detenuti che possono andare a trovare il genitore senza rischiare di perdere l’anno scolastico”. Cosa ha significato e significa per lei l’impegno nelle carceri? “L’impegno nelle carceri è parte della mia vocazione, un modo in cui riesco a vedere plasticamente il senso del mio essere credente, del mio essere un artigiano dell’arte, e adesso anche del mio ruolo istituzionale. Andare in carcere è trovare un po’ una sintesi tra tutte queste anime, e un luogo in cui portare l’insegnamento cristiano che ho avuto fin da piccolo di che cos’è una comunità e di come si vive in comunità. Anche il carcere è una comunità, quindi andare lì e raccontare l’esempio cristiano di stare insieme è per me un seme. Con la nostra presenza e l’arte proviamo a far sì che il carcere non sia come un terreno roccioso e sabbioso in cui cade invano il benefico seme, ma cerchiamo di costruire insieme una terra fertile in modo che il seme che proviamo a portare possa fiorire”. Alessandria. Sapori (in fuga) dal carcere di Andrea Voltolini ilgolosario.it, 7 febbraio 2020 Una bottega alimentare aperta al pubblico all’interno della Casa Circondariale della città. Ad Alessandria è sorta la prima bottega alimentare in Italia aperta al pubblico all’interno di un carcere. Si chiama SocialWood e si trova all’interno delle mura della Casa Circondariale Alessandria “Cantiello e Gaeta” in piazza Don Soria. Ovviamente non si tratta solamente di una semplice attività commerciale, ma alle spalle c’è un serio e ambizioso progetto di economia carceraria: creare un’impresa sociale nel Carcere di Alessandria valorizzando i principi di economia circolare, e dare un futuro nella società a fine pena ai carcerati. Fiore all’occhiello, la vendita di pane fresco artigianale a lievitazione naturale con lievito madre da farine biologiche macinate a pietra. A prepararlo quotidianamente, 5 mastri panettieri detenuti nella Casa Circondariale di San Michele, a una manciata di chilometri da qui, che utilizzano un forno a legno rotante del diametro di 5 metri (uno dei più grandi del Piemonte!). Due le tipologie proposte, il Pane Libero, anche di segale e di noci, e il Pane Quotidiano, accanto a numerosi altri formati di pane e ai grissini. Ma è volgendo lo sguardo agli scaffali che si può comprendere ancora di più la bontà (non solo al palato) di questo progetto di recupero di una parte della popolazione carceraria. In Italia, infatti, sono 17.614 le persone detenute che lavorano. Ne sono prova le belle confezioni di pasta artigianale prodotta nel carcere Ucciardone di Palermo. Trafilata al bronzo ad essiccazione lunga a bassa temperatura, è realizzata con le varietà Duilio, Iride e Simeto 100% italiana. Ma anche verdure e ortaggi in vasetto (friarielli, pomodorini gialli, peperoni, carciofini arrostiti...) brandizzati “Fuga di Sapori”, la birra solidale Skizzata aromatizzata alla camomilla coltivata nella casa circondariale femminile di Pozzuoli, e la Sbirra, aromatizzata agli agrumi di Sicilia lavorati da Dolci Evasioni nella Casa Circondariale di Siracusa. Da questi ultimi, anche buccia di arancia e di limone essiccati bio, e il pesto alle mandorle e basilico senza glutine. Non mancano le classiche tegole valdostane, i torcetti al burro e i grissini del Carcere di Aosta, o i frollini al cioccolato e arancia, limone e zenzero, del Laboratorio “Cotti in Fragranza” dell’Istituto Penitenziario Minorile Malaspina di Palermo. Da assaggiare anche il “Maresciallo”, un gustosissimo tarallo napoletano alle mandorle. Chiudiamo questo viaggio goloso tra le carceri italiane con i distillati dai nomi originali “Furbetto”, “Bricconcello” e “Malandrino” aromatizzati al finocchietto selvatico, al limone e al mandarino. SocialWood e Fuga di Sapori. Alessandria, piazza Don Soria, tel. 0131 264890. Orari di apertura: dalle 9.30 alle 13.00 e dalle 15.30 alle 19.30. “La luce dentro”: il carcere e i bambini che vivono all’esterno colpe non proprie di Antonella Soccio bonculture.it, 7 febbraio 2020 Un documentario di Luciano Toriello. Nel carcere, “un mondo deprivato della parola”, è arrivata la telecamera discreta e rispettosa di Luciano Toriello con “La luce dentro”, il documentario, diretto e prodotto dal regista lucerino e realizzato in partnership con l’Associazione Lavori in Corso e la Cooperativa Paidos di Lucera in collaborazione con il Garante regionale dei Diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. Il docu-film risponde all’obiettivo del bando Social film Fund Con Il Sud, ossia raccontare per immagini il Sud attraverso i fenomeni sociali che lo caratterizzano. Si tratta di una iniziativa nata dal comune interesse della Fondazione Apulia Film Commission e della Fondazione Con Il Sud, che insieme hanno messo a disposizione complessivamente 400 mila euro per la produzione e la diffusione di 4 cortometraggi e 6 documentari. Con una peculiarità: promuovere l’incontro tra imprese cinematografiche con enti del Terzo Settore meridionale, per favorire percorsi di coesione sociale e contribuire alla diffusione di temi sociali di rilievo nel Sud Italia. L’idea de “La luce dentro” è quella di focalizzare l’attenzione su argomenti diversi rispetto a quelli della quotidianità del carcere. “Non possiamo indossare maschere, si rischia così tanto di recitare un ruolo da non sapere più chi siamo. Liberiamoci, buttiamo via le maschere per avere solo il nostro vero essere”, dice un detenuto nel documentario. Le storie gravitano intorno alla Casa Circondariale di Lucera, dove al fianco delle famiglie e dei detenuti operano quotidianamente due associazioni di volontariato: ogni giorno al lavoro fuori e dentro le mura del carcere, sempre dalla parte dei bambini e dei loro genitori. Mario e Christian, come tanti altri uomini che stanno scontando la loro pena in carcere, si impegnano ogni giorno per far valere il loro diritto alla genitorialità. Da una parte i reati, dall’altra le pene. In mezzo i figli, condannati a pagare per colpe che non hanno. “La luce dentro” ha la rara capacità di raccontare le storie dei protagonisti senza alcun cliché. Chi sta fuori - compresi i figli dei detenuti, arrabbiati, delusi, sconfitti o desiderosi di veder ricostruita la propria famiglia e la propria identità - non capirà mai le emozioni di chi è dentro ed è come se la telecamera di Toriello lo evidenziasse con grandissimo pudore. Noi di “bonculture” abbiamo potuto vedere in anteprima il documentario e abbiamo rivolto qualche domanda a Luciano Toriello. Luciano, hai ridotto all’osso l’uso della musica e di altri effetti emotivi. Non temevi che così facendo il documentario potesse essere poi troppo specifico e legato ad un dato momento storico? Che fosse quindi poco “universale”? La scelta registica di cui parli è una scelta che mi porto dietro in molti dei miei lavori e, nello specifico, questa volta l’idea di trattare in questo modo la colonna sonora è stata condivisa assieme all’autore delle musiche originali Riccardo Giagni, già autore di numerosi film di Bellocchio. Con lui sentivamo che l’eco del carcere o il silenzio assordante che accompagnava le parole dure di Priscilla rappresentassero già un suono di per sé, e a quella verità non abbiamo sentito l’esigenza di aggiungere nient’altro. Di qui, tra le righe, viene fuori il lavoro delle associazioni, nel creare modelli di vita non stereotipati. Ed è proprio dalla volontà di raccontarmi una storia fortemente personale da parte di Priscilla, ragazza cresciuta nell’associazione Paidòs, che vengono fuori tra le lacrime le parole più dure e nette, probabilmente per liberarsene definitivamente nel tentativo di essere d’aiuto ad altre donne che hanno bisogno di non sentirsi sole per poter denunciare. Perché hai scelto un linguaggio filmico così poco “edificante”? Colpisce molto la tua scelta nettamente diversa da molti prodotti che si leggono o vedono in giro sulla detenzione… Esistono “prodotti carcerari” edulcorati o altri che danno troppo valore enfatico alle attività delle associazioni che entrano all’interno, con una narrazione esasperata e psicologistica, spesso anche banalizzante. In La luce dentro è quasi il contrario: è come se le attività fossero “normalizzate”, non sono viste come l’eccezionale mondo di fuori che arriva in cella, dentro. Era questo il senso che volevi dare? La chiusura del cancello alla fine è questa cesura tra il dentro e il fuori? In effetti il mio tentativo non è mai stato quello di santificare il carcerato - d’altronde se si è ristretti un motivo di fondo esiste - né tantomeno di edulcorare il seppur nobile lavoro delle associazioni che operano in carcere. Del resto le due associazioni che hanno lavorato con me, Lavori in Corso per la parte della Casa Circondariale di Lucera e per tutte le riprese a casa dei bambini e Paidòs per la parte delle riprese all’Opera San Giuseppe di Lucera dove c’è la Casa famiglia e il Centro Diurno, lavorano da sempre a riflettori spenti e sin da subito si è manifestato da parte loro il desiderio di non raccontare se stessi se non in funzione del racconto degli altri. Il mio focus è sulle pene che i bambini vivono esternamente, le colpe non proprie che pagano e l’esempio più lampante di questo concetto viene da Christian che da dietro le sbarre si rivede bambino e, attraverso la narrazione delle proprie pene, riesce, in un momento di altissima lucidità, a trovare la forza di osservarsi dall’alto e a vedere il parallelismo tra la sua storia di bambino e quella di sua figlia. Ho filmato personalmente tutte queste storie e in ognuna ho provato delle emozioni fortissime. Il documentario è girato con uno sguardo dalla parte dei bambini e dei ragazzi, che non le mandano a dire, come Priscilla. Cosa hai provato filmandoli? Mentre giravo la scena della bambina, assolutamente improvvisata come del resto quasi tutte le scene del documentario, che urla da fuori al carcere nel disperato tentativo di far sentire la propria voce al padre detenuto avevo il viso pieno di lacrime, ma le lacrime e il nodo alla gola mi sono venute soprattutto con Christian dal quale la mia telecamera non si staccava mai, perché le sue micro espressioni narrano ancora di più delle sue seppur forti parole. Io sono nato e cresciuto in un quartiere della periferia di Lucera e per me il linguaggio di questi luoghi e i suoi problemi non sono certo estranei, la famiglia Battista è praticamente mia vicina di casa e con loro ho passato più tempo che con gli altri. Nel documentario ad un certo punto si dice che una delle molle che può far scattare la volontà di cambiamento sono i figli e infatti questo è proprio l’esempio di Loredana e Mario che hanno mostrato, anche mentre li osservavo da lontano, un forte pentimento nei confronti delle loro azioni passate motivato proprio dal desiderio di poter rimediare per poter dare una prova, un segno tangibile ai loro figli che insieme si può andare avanti. Questa redenzione che passa attraverso l’attaccamento alla famiglia mi è sembrata di per sé una cosa rispettabilissima. Lavorare nel sociale unendo tutti gli sforzi di Don Antonio Mazzi Corriere della Sera, 7 febbraio 2020 Non dobbiamo solo invadere le piazze, ma interpretare la politica in modo nuovo, purificandola da infiltrazioni egoistiche lontane dai concetti democratici. Caro direttore, comincio male, ma ad uno che ha compiuto 90 anni è permesso tutto, tranne quello che io in questo periodo sto pensando. Ho sempre vissuto tra i giovani, belli e brutti, buoni e cattivi, sapienti e somari, sani e disabili. Perciò, appena leggo e ascolto giovani, divento giovane. Strano, ma vero! Mi contagiano. D’altra parte non ho mai avuto casa. Negli ultimi 35 anni, poi, sono vissuto e vivo giorno e notte nella Cascina “Molino Torrette” nel Parco Lambro di Milano con ragazzi troppo avventurosi. Per chi ama vivere realmente per i giovani, non perché è prete o genitore, o professore, o educatore, ma “coltivatore diretto” deve fare con loro famiglia. E senza accorgersi viene divorato dalle urla dentro le sue orecchie, dalle canzoni strapazzate, dalle parolacce, dalle malattie, dalle allegre spintonate, dalle furbate sul filo della legalità, dalle baruffe per una sigaretta e alla fine si trova quasi soffocato da abbracci improvvisi e impensati. E tu, con loro, mangi e bevi la vita non segnando i giorni sul calendario, ma alzando ogni mattina il sipario di una commedia, che non ha niente a che fare con i palchi, ma con una sequenza di giornate, mesi, anni che ti cascano addosso e ti danno l’età che hanno deciso loro di darti. Farsi educare dai giovani è l’unico modo di educarli. Questo teorema non credo sia tanto algebrico e tanto meno psicopedagogico, ma, almeno per me, è stato ed è vitale. Torno alla mia pensata un po’ fuori dalla normalità. Se non avessi 90 anni chiederei a Papa Francesco di lasciarmi entrare nel mondo a 360 gradi. Chi lavora nel sociale e anche nell’educativo, deve avere un occhio alle persone, ai giovani, a coloro che deve educare e salvare dalla povertà fisica e culturale come dalle particolari situazioni della esistenza; ma l’altro occhio lo deve tenere spalancato sui progetti politici, restando però il prete che sono. Non voglio essere laicizzato o usufruire di permessi eccezionali. Vorrei solo, insieme ai giovani che hanno ripreso coscienza di quanto sia urgente e parte integrante del loro cammino verso l’immersione autentica nel sociale, invadere non solo le piazze, ma interpretare il politico in modo nuovo, purificandolo dalle infiltrazioni egoistico-paranoiche lontanissime dai concetti democratici, funzionali allo stare meglio insieme. Urge fare società, comunità, convivenza positiva, alleanza vera. E io voglio essere lì in mezzo. Mi pare che oggi fare il prete sia incarnarsi per incarnare, correndo il rischio di rendere sacro soprattutto ciò che fino a ieri chiamavamo profano. Papa Francesco dice: “Mai come ora c’è bisogno di unire gli sforzi in una ampia alleanza per formare persone mature, capaci di superare frammentazioni e contrapposizioni e ricostruire il tessuto delle relazioni per una umanità più fraterna”. Per arrivare a questi livelli, dobbiamo superare il vecchio concetto di politica, di partito, di clericità, per arrivare, come ci suggerisce Enzo Bianchi, sempre attento nel coniugare Chiesa e mondo, a creare soggetti politici che siano un insieme di voci e di azioni ispirate alla stessa visione di società polietnica e senza frontiere. Cristo non è entrato nel mondo per portare il mondo dentro al Tempio, come segno di potere religioso e politico, ma per testimoniare che i cercatori della liberazione dalla schiavitù creata dal potere, dovevano battere le stesse strade, correre gli stessi rischi, mangiare lo stesso pane e combattere le stesse ingiustizie. Cristo con i dodici ha voluto essere un uomo fino in fondo, per riportare tutto ad unità. Qualcuno, ridendo, si è domandato se i dodici Apostoli erano dodici sindacalisti. Quasi quasi rischio di credere che non sia una battuta. Perché il Vangelo ha reso umano tutto, anche quello che fino a trent’anni prima era “con-templativo” (prendete la parola come interpretazione elementare) ed esclusivamente rinchiuso nel “sancta santorum”.Riporto ancora Enzo Bianchi: “Non possiamo più accontentarci di slegare la fede dalla vita e urge trovare altri contenitori capaci di non avvelenare le azioni quando divengono politiche. Siamo arrivati alla ricerca urgente di movimenti salvagente”. Queste riflessioni, non vorrei che fossero recepite paranoie di un prete di strada. Dentro di me vive una grande sofferenza. Perché il Vangelo, nel 2020, non possiamo giocarcelo tra la strada e il tempio, tra il corpo e l’anima. Dobbiamo essere interi mentre preghiamo, ma anche mentre viviamo. Come fare non lo so. So solo che dobbiamo avere il coraggio di essere “interi” in tutte le situazioni. Se siamo “sale” lo siamo solo se diamo gusto ai menu quotidiani. Un codice politico anti-odio di Andrea Martella La Repubblica, 7 febbraio 2020 La lettera “Nei quasi cinque mesi della mia esperienza di governo, non c’è stato praticamente giorno in cui non sia arrivata la segnalazione di un operatore dell’informazione vittima di un’intimidazione, di una minaccia, come, ancora l’altro giorno, a Bari ai danni della troupe del Tgr Rai della Puglia”. Caro direttore, siamo immersi in un tempo che sembra davvero dominato dall’intolleranza e dall’odio. Quando la ministra Lamorgese parla, come ha fatto ieri su queste pagine, di una vera e propria “emergenza culturale e civile”, non esagera. È un’onda cupa, quella che avanza, che investe le prime sentinelle dei principi di libertà e democrazia sanciti dalla nostra Costituzione: i giornalisti. Se accade che vengano recapitate lettere intimidatorie a uno dei simboli del giornalismo italiano, l’allarme dovrebbe essere ancora più grande rispetto a quello che c’è stato. Tutti dovrebbero rendersi conto che quando si colpisce Eugenio Scalfari, si colpisce la libertà d’informazione. E le minacce inviate a lei, direttore, e al vostro Paolo Berizzi, sono solo i più recenti e gravissimi casi. Nei quasi cinque mesi della mia esperienza di governo, non c’è stato praticamente giorno in cui non sia arrivata la segnalazione di un operatore dell’informazione vittima di un’intimidazione, di una minaccia, come, ancora l’altro giorno, a Bari ai danni della troupe del Tgr Rai della Puglia. Di fronte al ripetersi di casi come questi la solidarietà serve, è importante. Ma non basta, non è più sufficiente. Ecco perché già lo scorso novembre ho chiesto alla ministra dell’Interno di riattivare, come è stato tempestivamente fatto, il Centro di coordinamento dell’attività di analisi e scambio di informazioni sul fenomeno degli atti intimidatori nei confronti dei giornalisti, così da rafforzare la rete di protezione e le tutele per chi fa informazione. Ed ecco anche la decisione, che ho assunto, di ricostituire la Commissione per l’equo compenso, perché, i giornalisti, per essere davvero liberi devono veder riconosciuti i propri diritti ed essere retribuiti come meritano. Servono azioni concrete. E insieme è fondamentale portare avanti una diffusa opera di sensibilizzazione rivolta in particolare ai più giovani, da coinvolgere in una battaglia culturale contro ogni forma di discriminazione e di intolleranza. Contro la violenza verbale online, che è un serbatoio continuamente alimentato e sempre pronto a traboccare. Per questo il Governo, dopo la nomina della coordinatrice nazionale della lotta contro l’antisemitismo, ha istituito anche un gruppo di lavoro di studiosi ed esperti per contrastare l’hate speech, il discorso che fomenta l’odio, particolarmente velenoso quando poggia in maniera perversa sulle fake news. E a questo proposito, non posso fare a meno di dire che la politica per prima dovrebbe imporsi delle regole di comportamento, stabilendo dei confini da non oltrepassare mai. Il libero confronto delle idee, persino lo scontro aperto e trasparente, non può avere nulla a che fare con l’insulto, con la trasformazione dell’avversario in un nemico da annientare. Serve responsabilità. Serve amore per la democrazia, che è un bene delicato e prezioso. Credo davvero che sia arrivato il momento di dar vita ad un “patto” civico e culturale per tutelare chi di fatto rappresenta un pilastro della nostra democrazia, che poggia necessariamente sul pluralismo, sull’indipendenza e sulla libertà dell’informazione. È proprio questa, la buona informazione, l’arma migliore che abbiamo per rispondere all’emergenza dell’odio. Sconfiggerlo, invertire la rotta e far sì che non diventi questa la cultura dominante nel nostro Paese, è il compito che il Governo sente su di sé e per cui spenderà le sue migliori energie. Prestigiacomo: “L’odio è stato sdoganato, d’accordo con Lamorgese. Ora leggi per la rete” di Giovanna Vitale La Repubblica, 7 febbraio 2020 La deputata di Forza Italia: “Si è diffusa una cultura dell’aggressività contro i media che in passato non esisteva”. Non solo governo e maggioranza. Pure fra le fila del centrodestra inizia a montare una certa preoccupazione per il clima pesante che si va diffondendo nel Paese. Testimoniato anche dalle intimidazioni contro il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, e il direttore Carlo Verdelli. La deputata di Fi Stefania Prestigiacomo lo dice chiaro: “Viviamo in un Paese che purtroppo ha sdoganato la violenza. Credo sia arrivato il momento di intervenire”. Onorevole Prestigiacomo, la ministra Lamorgese ha detto a “Repubblica” che l’odio in Italia sta diventando un’emergenza. Lei è d’accordo o pensa che esageri, come sostengono Salvini e Meloni? “Non amo il Conte due, credo sia una sventura per il Paese, ma in questo caso concordo appieno con Lamorgese. La violenza verbale e purtroppo, sovente, anche fisica, è stata sdoganata, derubricata a espressione “normale” di dissenso, di opinione. Non voglio fare sociologia a buon mercato, ma certo la rete ha contribuito ad alimentare un fenomeno che ovviamente non è solo italiano”. Negli ultimi tempi i messaggi che incitano all’odio si sono moltiplicati. Spesso a farne le spese sono i giornali che denunciano questa pericolosa deriva antidemocratica. Lei come se lo spiega? “Negli ultimi anni s’è diffusa una cultura dell’aggressività contro i media che in passato non esisteva. Io sto dentro Forza Italia dal 1994, sono stata ministra dei governi Berlusconi: non sempre con la stampa abbiamo avuto buoni rapporti, ma mai, dico mai, in quegli anni da parte nostra è venuto un incitamento all’odio nei confronti dei giornalisti. Diventati un bersaglio con l’avvento dei grillini, che li vedono come nemici da colpire e come tali li additano ai militanti. Anche se poi si sono presi i Tg pubblici e ci hanno messo a capo gente a loro vicina”. I 5S avranno pure responsabilità, ma neanche il leader della Lega scherza in quanto a toni e metodi aggressivi. Cosa pensa della citofonata al presunto spacciatore? “Mi è parsa una cosa di pessimo gusto. Ma anche molto enfatizzata dai media schierati con Bonaccini alla vigilia delle elezioni”. “L’indifferenza è complice dei misfatti peggiori” avverte Liliana Segre. Ma ormai è come se ci fossimo assuefatti: minacce e insulti sono considerati “normali”. Con quali rischi? “Di perdere un elemento fondamentale delle democrazie: la libertà di espressione, di parola, di pensiero. Vale per tutti, ma specie per la stampa. Continuando così temo possa passare, pian piano e silenziosamente, l’idea che in fondo i giornalisti ‘se la sono cercata’“. Come si combattono gli odiatori? “Con la cultura, l’educazione, l’esempio. Ma anche con una gestione attenta e moderna dei social network, in grado di evitare che diventino strumenti di odio e di violenza. Ripetendo sempre e ovunque - fra i banchi di scuole e università, nei luoghi di lavoro, in tv, sulla rete - che i giornalisti sono “intoccabili” perché sono strumenti fondamentali della democrazia”. Cosa devono fare le istituzioni? “Perseguire e sanzionare chi diffonde messaggi d’odio, ormai veicolati da canali diversi e molto più veloci rispetto al passato. Ma anche, se necessario anche con interventi legislativi, individuare e punire aspramente chi inneggia alla pulizia etnica, al genocidio, ai campi di sterminio. Qui siamo oltre l’odio, siamo alla esaltazione degli omicidi di massa. Una barbarie intollerabile”. Fiano: “I decreti sicurezza non funzionano, è l’ora di intervenire” di Maria Teresa Meli Corriere della Sera, 7 febbraio 2020 L’intervista al deputato del Pd. Emanuele Fiano, sui decreti Salvini vi accusano di non aver fatto niente... “Critica giusta e accettata. Però Zingaretti metterà questo tema sul piatto della verifica, come priorità. Noi avversiamo questi decreti che peraltro non sono serviti nemmeno dal punto di vista della sicurezza del Paese. Quindi c’è una priorità che non è solo politica, ma è dovuta al fatto che con questi provvedimenti sono aumentati i problemi. Sono aumentati perché si è abolito completamente il permesso di soggiorno per motivi umanitari e perché si è sostanzialmente disattivato il sistema di accoglienza diffuso nei Comuni. Insomma, invece di ragionare su come migliorare il sistema dell’integrazione e dell’accoglienza per quelli che ne hanno diritto si è pensato che eliminando una parte dell’accoglienza si risolvesse la questione”. Quindi agirete su questi punti ma non li cancellerete... “Noi riteniamo che vadano cancellati quasi completamente, come abbiamo sempre detto. Ma siamo in un governo di coalizione nato non a inizio legislatura e quindi sappiamo che dobbiamo trovare un punto di incontro con i nostri alleati”. Ci riuscirete? “Noi abbiamo delle ragioni da spiegare ai nostri alleati di governo. Quelle che le ho illustrato prima. E poi altre, che conoscono anche il M5S e il premier Conte, perché sono alla base dei rilievi di Mattarella. Riguardano l’incongruenza tra le sanzioni ai comandanti delle navi che raccolgono dei disperati in mezzo al mare e l’ordinamento internazionale che prevede l’obbligo, per dei trattati che abbiamo firmato, di accoglierli a bordo. Mattarella infatti fece notare che la sanzione prevista era spropositata e facendolo ha ricordato l’accordo di Montego Bay”. Matteo Salvini vi attaccherà… “Bisogna che qualcuno sfati questa leggenda che quando c’è qualcuno della destra al governo si risolvono i problemi della sicurezza e quando c’è qualcuno della sinistra no. È successo il contrario negli ultimi sette-otto anni. Con i governi di centrosinistra sono diminuiti tutti reati e sono aumentati tutti gli investimenti”. Però Salvini ci farà la campagna delle prossime Regionali... “Se noi non la impostiamo ideologicamente no. Quando si affrontano questi argomenti bisogna essere molto pratici e poco ideologici. Porteremo i numeri di ciò che è successo a coloro che hanno perso il permesso di soggiorno per trattamento umanitario, di ciò che non è successo con le promesse di Salvini in campagna elettorale, che avrebbe rimpatriato 500 mila irregolari in pochi mesi e i numeri che spiegano come con la ministra Lamorgese siano aumentati i rimpatri di coloro che non avevano diritto a restare nel nostro Paese. E ancora: noi abbiamo investito sette miliardi nelle forze dell’ordine con i governi Letta, Renzi e Gentiloni. Possiamo anche dimostrare quante assunzioni hanno fatto i governi di centrosinistra e quanti investimenti sul contratto delle forze dell’ordine. Anzi, adesso utilizzo questa intervista per chiedere alla ministra Lamorgese di dire alla sua collega della Pubblica amministrazione che va aperto immediatamente il tavolo per il nuovo contratto perché noi abbiamo stanziato i soldi”. Accoglienza migranti, più fondi ma sui servizi non si cambia. “Solo maquillage” di Eleonora Camilli redattoresociale.it, 7 febbraio 2020 Il Viminale cerca di rimediare al taglio dei 35 euro voluto dall’ex ministro Salvini, ma non interviene sui servizi di integrazione. Associazioni deluse. Miraglia (Arci): “Intervento peggiorativo, ai bandi si può partecipare anche senza esperienza”. Capitani (Oxfam): “Non vediamo un cambio di rotta”. Il Viminale prova a ricucire sul fronte accoglienza: dopo il taglio ai famosi 35 euro pro capite pro die voluto dall’ex ministro Matteo Salvini durante il primo governo Conte. Un intervento che ha causato una vera fuga dai bandi indetti dalle prefetture, da parte degli operatori del Terzo Settore. Tramite una circolare, il ministero ha annunciato ieri un incremento del 10-15 per cento della quota per migrante ospitato. La cifra giornaliera, dunque, aumenterebbe di poco arrivando a circa 23-24 euro, non si tratta di un ritorno alla quota originaria dei 35 euro. Il Viminale ammette che la modifica si è resa necessaria dopo che, con una quota pari a circa 19/21 euro, in diverse province italiane i bandi sono andati letteralmente deserti e ora i posti per l’accoglienza dei migranti scarseggiano. La modifica, però, delude le organizzazioni che non solo non vedono un reale cambio di rotta, ma considerano alcune parti della circolare emessa ieri fortemente peggiorative della situazione attuale. Nessun intervento sui servizi di integrazione. “Innanzitutto non siamo di fronte a una modifica del capitolato ma a una sua interpretazione, che cerca di allargare un po’ il prezzo della base d’asta - sottolinea Filippo Miraglia, di Arci Nazionale. Il problema è che non si parla dei servizi offerti, noi abbiamo rinunciato ai bandi per i centri di accoglienza straordinaria (Cas, ndr) perché ci rifiutiamo, come altre cooperative, di offrire un servizio di mero albergaggio. Questo ha messo in difficoltà il Viminale: si sono trovati nell’impossibilità di fare accoglienza in più della metà delle province italiane perché nessuno partecipa. Siamo stati anche sollecitati direttamente ma abbiamo ribadito che alle condizioni date non saremmo tornati indietro. Ora questa circolare di fatto per noi non cambia niente: non vengono messi fondi sui servizi di integrazione, ma si esplicita che si può alzare di poco la cifra per i servizi già previsti nel capitolato che sono quelli di assistenza sanitaria e di vigilanza”. Nella circolare inviata ai prefetti il ministero spiega che l’aumento può essere previsto anche per adeguare la cifra relativa all’affitto degli immobili. Se gare deserte, anche chi è senza esperienza può fare accoglienza. Gli operatori del settore che lanciano l’allarme anche su alcuni dei rischi conseguenti alla comunicazione diffusa ieri. “Rileviamo in particolare un elemento peggiorativo nel capitolo A2 della circolare: nel caso in cui la gara vada deserta o non evasa completamente, le prefetture possono escludere alcune delle condizioni di accesso alla gare, anche quelle più stringenti, per esempio possono eliminare i 3 anni di esperienza nel settore: da ciò che sappiamo in alcune province alcune prefetture hanno aperto già a operatori senza esperienza, come albergatori e titolari di bed and breakfast - aggiunge Miraglia -. Non solo ma si sta lentamente eliminando anche la condizione minima tra numero dei migranti accolti nei centri e numero di abitanti nei comuni, che dovrebbe essere pari a 2, 5 per mille. Il rischio è che si favoriscano i grandi centri anche nei piccoli comuni. In generale la nostra posizione resta critica, ci rifiutiamo di sposare una logica di accoglienza che non contempli servizi di integrazione ed è, invece, di mero parcheggio”. Operazione di maquillage che non cambia nulla nel concreto. Anche per Giulia Capitani, policy advisor su accoglienza e crisi migratoria di Oxfam Italia il giudizio è negativo. “Da una parte apprezziamo che si sia cercato di mettere mano a uno degli aspetti più negativi degli interventi portati avanti nel primo governo Conte, ma dobbiamo rilevare che nella sostanza non cambia nulla - afferma -. Viene esplicitato nella circolare che i bandi sono andati deserti e solo per questo si è pensato di intervenire. Non si indica nessun cambio di passo culturale. Oltre a questo ci sono delle parti allarmanti: di fatto l’unico aumento reale di cui si parla è relativo all’adeguamento dei costi di locazione, non vengono menzionati i servizi di integrazione, non si parla dei corsi di italiano. In generale - aggiunge Capitani - stiamo parlando di cifre piccole che non consentono di intervenire su chi vuole fare accoglienza diffusa, ma che agevola i grandi centri. Pur di ottenere la massima adesione ai bandi si deroga alla possibilità di avere un servizio di qualità, ammettendo anche chi è senza esperienza nel settore”. Anche Oxfam contesta l’intervento sulla spesa per il servizio sanitario e sulla vigilanza che “serve alle grandi caserme non in un centro di accoglienza”. “Aspettavamo un cambio di passo in questo governo - conclude Capitani - ma per ora non lo vediamo”. Libia. Spazi nuovi per l’Europa, ma i dubbi sono ancora molti di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 7 febbraio 2020 Sarà l’Ue in grado di sfruttare le nuove divergenze tra Russia e Turchia sugli scenari libico-siriani? Sino a poche settimane fa la domanda appariva superata. Sarà l’Europa in grado di sfruttare le nuove divergenze tra Russia e Turchia sugli scenari libico-siriani? Sino a poche settimane fa la domanda appariva superata. Sebbene divisi da storiche contrapposizioni, Putin ed Erdogan negli ultimi mesi avevano raggiunto un grado di coordinamento sorprendente. In Siria in autunno si erano accordati per il controllo delle zone curde e delle milizie ribelli sunnite a nord di Aleppo. Quindi, ai primi di gennaio era apparsa possibile una loro intesa per imporre il cessate il fuoco in Libia, scavalcando totalmente il ruolo europeo. Erdogan avrebbe dovuto tenere a bada le milizie pro Sarraj a Tripoli e Misurata, mentre Putin s’impegnava a frenare il maresciallo Haftar a Bengasi. In quel contesto, la conferenza di Berlino il 19 di gennaio era apparsa quasi inutile, penalizzata dall’immagine della diplomazia europea imbelle contro due potenze disposte ad un impiego spregiudicato della forza militare. Ma la situazione si era complicata già pochi giorni prima del summit tedesco, quando Putin non era riuscito a imporre le briglie ad Haftar. Deciso a proseguire la violenta offensiva lanciata il 4 aprile scorso, questi si era sentito abbastanza garantito dal sostegno militare egiziano e degli Emirati. Erdogan ha quindi ripreso a mandare rinforzi alle milizie libiche, inclusi i controversi “volontari” siriani, che in realtà sono gli stessi guerriglieri da lui utilizzati per elidere i curdi e radicalizzati da nove anni di battaglie contro il regime di Damasco assieme agli alleati russi e sciiti filo-iraniani. Ad aggiungere fuoco al fuoco sono adesso i gravi scontri scoppiati nella regione di Idlib, dove i soldati siriani violano le intese tra Mosca e Ankara, spingendo Erdogan a rispondere a suon di cannonate. Da qui le nuove opportunità per l’Europa in Libia. L’impasse della forza rilancia la carta della diplomazia, che però deve parlare con una voce sola e soprattutto avere un puntello militare in grado di imporre l’embargo totale all’invio di soldati e armi. Regno Unito. Le nuove leggi carcerarie discriminano i musulmani dailymuslim.it, 7 febbraio 2020 Allarme sul piano del governo del Regno Unito di modificare la regola di rilascio anticipato della prigione. Gli esperti affermano che cambiare la legge sulla liberazione anticipata per i condannati di atti terroristici potrebbe danneggiare le libertà civili e creare un sistema giudiziario a due livelli. Lo scrive la giornalista Anealla Safdar in un focus su Al Jazeera. Dopo gli ultimi due attacchi terroristici a Londra a opera di due detenuti scarcerati di recente, il governo ha promesso di modificare le regole di rilascio anticipato della prigione per chi ha commesso reati anche lievi connessi con il terrorismo. Attualmente, un detenuto che sconta una determinata pena viene normalmente rilasciato a metà della pena. Se la pena dura più di un anno, viene rilasciato in libertà vigilata. Ma la legislazione di emergenza, che il governo spera di introdurre in pochi giorni, porterebbe a non tenere i trasgressori del “terrore” in considerazione per il rilascio anticipato, prima di scontare almeno i due terzi di una pena. Sarebbero quindi valutati da uno specifico comitato e se giudicati colpevoli di costituire ancora una minaccia per la società, rimarrebbero in prigione. Gli esperti hanno avvertito che le nuove regole potrebbero creare un sistema carcerario discriminatorio a due velocità in cui i musulmani sono trattati in modo diverso. “La cessazione del rilascio automatico per un gruppo di autori di reato alla luce di un piccolo numero di casi in cui tali autori hanno continuato a reprimere crea un sistema ingiusto e distorto sia per i trasgressori che per le vittime”, lo ha detto ad Al Jazeera Mandeep Dhami, professore alla Middlesex University di Londra, che ha lavorato in due carceri britanniche e ha studiato mediazione in contesti carcerari. Descrivendo la risposta del governo del Regno Unito alla lotta contro l’estremismo come “terribilmente inadeguata”, ha aggiunto: “Ci sono altri gruppi di autori di reato che si ribellano anche dopo il rilascio automatico e le loro vittime dovrebbero chiedere perché il governo non desidera proteggerli dalla criminalità violenta. “Allo stesso modo, la creazione di un sistema che sembra favorire alcuni criminali servirà solo a alienare ulteriormente quelle persone che si sentono private del diritto e che possono essere attratte da ideologie estremiste che indicano pregiudizi sociali sistemici”.