Messa alla prova e lavori di pubblica utilità. La rivoluzione dell’espiazione della pena di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 febbraio 2020 L’associazione nazionale dei Centri di servizio per il volontariato (Csv), rappresentata all’interno del Consiglio nazionale del Terzo settore, mette in risalto la crescita esponenziale delle misure alternative al carcere. Questo grazie ai dati della messa alla prova presentati dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità dove emerge quasi 40mila casi presi in carico nel 2019, oltre 7mila le convenzioni stipulate tra tribunali ed enti pubblici e non profit, tra cui Croce rossa italiana, Lega italiana lotta ai tumori, Legambiente e anche tanti Centri di servizio. Sono i numeri che caratterizzano a livello nazionale la messa alla prova e i lavori di pubblica utilità, due istituti sui quali non tutti inizialmente avevano creduto e che invece registrano un aumento esponenziale che stupisce perfino gli addetti ai lavori. Una crescita esponenziale se si pensa che si è passati da 511 casi nel 2014, anno in cui è entrata in vigore la legge sulla messa alla prova, ai quasi 40 mila (39.350) quelli presi in carico nel 2019. I dati elaborati dal Dipartimento parlano di 18.214 persone in carico per la messa alla prova (al 15 gennaio 2020), con una netta presenza maschile: 15.339 uomini e 2.875 donne. Mentre su un totale di 8.331 persone condannate ai lavori di pubblica utilità, 7.460 sono uomini e 871 donne. Le convenzioni promosse dal Dipartimento sia per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità da parte degli imputati “messi alla prova” che dei condannati ai lavori di pubblica utilità, al 31 dicembre 2019 sono state 7.255 con una ripartizione geografica che vede il nord Italia in testa con il 47% del totale, seguito dal centro (28%) e dal sud (25%). Il nord si caratterizza anche per il numero prevalente di convenzioni sottoscritte con gli enti pubblici (1.890) rispetto a quelle con enti non profit (1.554), che invece vedono un trend diverso nelle altre macro-aree in cui le convenzioni con enti non profit (1.311 al centro e 1.050 al sud) prevalgono su quelle che coinvolgono enti pubblici (717 al centro e 733 nel sud Italia). Venezia, ufficio inter-distrettuale che comprende Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, è in testa alla classifica delle convenzioni sottoscritte dai tribunali del proprio territorio di competenza per entrambi gli istituti con un totale di 1.329, seguita da Milano (Lombardia) 1.221, Torino (Valle d’Aosta, Piemonte e Liguria) 894, Roma (Lazio, Abruzzo e Molise) 763, Bologna (Emilia Romagna e Marche) 682 e Firenze (Toscana e Umbria) 583. Fanalino di coda Catanzaro (Calabria) con 123 convenzioni attivate, preceduto da Napoli (Campania) 213, Palermo (Sicilia) 432, Bari (Puglia e Basilicata) 503 e Cagliari (Sardegna) 512. “Quello che registriamo è un dato non del tutto soddisfacente, perché le potenzialità dei due istituti sono tali che meriterebbero una risposta ben più corposa, però il trend è in soddisfacente aumento - commenta il capo dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, Gemma Tuccillo. I numeri ci dicono che il percorso intrapreso è quello giusto e gli accordi sottoscritti con organismi nazionali ci permettono di rendere ancora più capillare la possibilità di accesso. Ed è questo uno dei nostri maggiori obiettivi. Il bilancio odierno rappresenta uno stimolo per proseguire in questa direzione”. A oggi risultano stipulate convenzioni nazionali con la Croce Rossa Italiana per 634 posti, l’Ente nazionale protezione animali per 300 posti, l’Istituto Don Calabria per 53 posti, il Fondo Ambiente Italiano per 41 posti, la Lega Italiana Lotta ai Tumori per 31 posti, l’Associazione Familiari Vittime della Strada - Basta sangue sulle strade Onlus per 20 posti, l’Unione sportiva Acli per 29, Legambiente per 17 posti. Convenzioni che rendono disponibili complessivamente 1.057 posti per lo svolgimento del lavoro in favore della collettività. “Cifre più che raddoppiate rispetto allo scorso anno - commentano dal Dipartimento - e destinate ad aumentare con il consolidarsi della collaborazione e al virtuoso dispiegarsi delle attività”. Per quanto riguarda, invece, i protocolli d’intesa nazionali, si registrano due importanti accordi sottoscritti rispettivamente con l’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti, che ha favorito la stipula a livello locale di numerose convenzioni per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità sia nell’ambito della sospensione del procedimento con messa alla prova per adulti, sia nell’ambito dell’infrazione al codice della strada, e, nel novembre scorso, con la Caritas Nazionale, con circa 65 convenzioni stipulate dai tribunali a livello locale. A questi si aggiunge un primo protocollo stipulato nel 2016 con l’associazione “Libera” contro le mafie, dal quale sono scaturite a livello locale diverse forme di collaborazione con gli uffici di esecuzione penale esterna per la promozione del lavoro di pubblica utilità e di programmi di giustizia riparativa, specialmente nell’ambito della messa alla prova. Che cosa sono e a chi si rivolgono le due misure alternative al carcere Lavoro di pubblica utilità - È una prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti e organizzazioni di assistenza sociale o volontariato. La prestazione di lavoro, ai sensi del decreto ministeriale 26 marzo 2001, viene svolta a favore di persone affette da Hiv, portatori di handicap, malati, anziani, minori, ex detenuti o extracomunitari; nel settore della protezione civile, nella tutela del patrimonio pubblico e ambientale o in altre attività pertinenti alla specifica professionalità del condannato. È possibile svolgere lavori di pubblica utilità nel caso di guida in stato di ebrezza o in stato di alterazione da sostanze stupefacenti, nei reati previsti dal comma 5 dell’art. 73 (produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti di lieve entità), quando non può essere concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena; viene comminata in alternativa alla pena detentiva e alla pena pecuniaria. I lavori di pubblica utilità possono essere disposti anche quando il giudice concede la sospensione condizionale della pena e ritiene che sia necessaria un’attività riparatoria da svolgere entro un determinato termine. Messa alla prova - Può essere richiesta da persone indagate o imputate per i reati di resistenza o minaccia a un pubblico ufficiale, di rissa, furto, ricettazione e per altri reati puniti fino a quattro anni di carcere. Per ottenere questa sospensione bisogna dare la propria disponibilità a risarcire il danno e a eliminare le conseguenze del reato. In particolare la persona deve essere disposta a svolgere un lavoro di pubblica utilità presso un ente pubblico o un’associazione di volontariato. Se la prova è positiva il reato viene cancellato e non risulterà dal certificato penale. Se durante la prova la persona commette un reato o trasgredisce le prescrizioni imposte dal giudice il processo riprende immediatamente. Appena la persona indagata o imputata ha notizia di un processo penale nei suoi confronti deve, al più presto, fare domanda di sospensione del processo al giudice. Con la domanda di sospensione del processo l’indagato o l’imputato deve però dimostrare di essersi rivolto all’Ufficio Esecuzione Penale Esterna del territorio competente. Carcere ingiusto. “Fisiologico” un piffero, caro dott. Gratteri di Luciano Capone Il Foglio, 6 febbraio 2020 Catanzaro è la capitale italiana delle ingiuste detenzioni, lo dice il ministero. Mentre l’Italia televisiva era incollata al debutto di Sanremo, su La7 Giovanni Floris intervistava un importante magistrato. Non il solito Piercamillo Davigo ma il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, per quanto non si notino sfumature di pensiero tra i due. Durante la trasmissione Gratteri ha ricordato di essere stato a un passo dal diventare ministro della Giustizia nel governo di Matteo Renzi, che gli aveva garantito carta bianca sulla riforma della giustizia. Ma (per fortuna, viste le idee esposte) sul suo nome è caduto il veto del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il resto dell’intervista - con frasi del tipo “in Italia non c’è cultura manettara, ma solo l’idea dell’impunità” e “non vedo giustizialismo, ma l’applicazione della legge” - ha reso onore alla difficile decisione di Napolitano riguardo a un ruolo, quello di ministro della Giustizia, per cui sono necessari equilibrio e attenzione alle garanzie dei cittadini. Ed è proprio su questo aspetto che è interessante la risposta di Gratteri alla domanda del direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, sul problema dell’elevato numero di arresti di innocenti. Il procuratore di Catanzaro non ha negato la questione, come sciaguratamente ha fatto il ministro Bonafede, ma ha detto che: “Non è un problema, è fisiologico”. L’ingiusta detenzione è invece un grave problema, che in una certa misura sarà pure fisiologico. Ma se c’è un posto dove il fenomeno è patologico, è proprio la Catanzaro del dottor Gratteri. Il capoluogo calabrese è la capitale nazionale dell’ingiusta detenzione e non si comprende come il procuratore di Catanzaro Gratteri possa ignorare questo problema o esserne indifferente. Eppure la questione è stata posta al centro della scorsa inaugurazione dell’anno giudiziario, e in particolare dal puntuale (e irrituale) intervento dell’allora procuratore generale Otello Lupacchini - da poco punito dal Csm con il trasferimento a Torino, proprio per lo scontro con Gratteri. “Un dato particolarmente allarmante - disse Lupacchini - è quello degli innocenti finiti senza colpa in custodia cautelare e dei soldi spesi dallo stato in risarcimenti per ingiusta detenzione. Il numero di vittime continua ad aumentare senza sosta, così come il denaro che viene versato nei loro confronti a titolo di indennizzo”. La denuncia del procuratore generale di Catanzaro sembra rispondere in anticipo alle parole di Gratteri: “Eppure questa emergenza sembra quasi non interessare gli addetti ai lavori, quasi che le persone che finiscono in carcere ingiustamente ogni anno costituiscano un ‘dato fisiologico’, una sorta di ‘effetto collateralè inevitabile, di fronte alla mole di processi penali che si celebrano. Con buona pace del danno inestimabile e impossibile da risarcire alle persone interessate, delle vite private e professionali distrutte, delle conseguenze psicologiche gravissime”. La misura dell’imponenza del fenomeno nel capoluogo calabrese è nei dati. “Il distretto con il maggior numero di casi indennizzati è quello della Corte di Appello di Catanzaro - disse Lupacchini - che per il sesto anno consecutivo si è confermata nei primi tre posti, con 158 persone che nel 2017 hanno subito un’ingiusta detenzione. Seguono i distretti di Roma con 137, e di Napoli con 113”, che però sono distretti molto più grandi. A Catanzaro “nel 2017 si è registrata la cifra monstre di 8 milioni e 900 mila euro, ben più del doppio di quanto si è speso per i casi della Capitale, cioè poco più di 3 milioni e 900 mila euro. Eppure i numeri in assoluto di procedimenti e processi celebrati nel distretto di Catanzaro e in quello di Roma sono incommensurabili, sicché è di tutta evidenza come la percentuale giochi a sfavore del nostro distretto”. Il rompiscatole Lupacchini - un magistrato che in carriera si è occupato di importantissimi processi di terrorismo rosso e nero (omicidi D’Antona e Amato) e di criminalità organizzata (banda della Magliana) - è stato allontanato dal Csm dopo aver criticato Gratteri, ma a Catanzaro si continua ad arrestare ingiustamente. I dati più aggiornati del ministero della Giustizia, contenuti nella “Relazione dei provvedimenti di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione”, lo testimoniano. Nel triennio 2016-2018 le domande di riparazione accolte sono state 349, su un totale nazionale di 2.064: vuol dire che più di un’ingiusta detenzione su 6 avviene a Catanzaro. Se si passa ai pagamenti, il dato è scioccante. Nel 2018, su 33,3 milioni di euro di indennizzi versati dallo stato per ingiusta detenzione, 10,3 milioni di euro riguardano il distretto di Catanzaro: circa un terzo del totale, circa 3 volte Roma (3,5 mln), oltre 4 volte Napoli (2,4 mln), quasi 6 volte Palermo (1,8 mln), oltre 17 volte Milano (0,6 mln). Ma c’è un altro dato anomalo: in generale, per tutte le Corti di Appello - grandi o piccole, con sedi di Direzione distrettuale antimafia o meno - il numero di richieste di risarcimento per ingiusta detenzione respinte è superiore a quelle accettate. C’è una sola eccezione: Catanzaro “il cui dato - scrive la relazione predisposta dal ministro Bonafede - è in netta controtendenza con il dato generale. Si registra un numero di provvedimenti di accoglimento delle domande di riparazione di gran lunga superiore a quello dei provvedimenti di rigetto”. Ma per il procuratore di Catanzaro Gratteri è tutto fisiologico. Nel frattempo l’inchiesta “Rinascita Scott” - la maxi-retata anti ‘ndrangheta di Gratteri che il 19 dicembre ha portato all’arresto di 334 persone - a distanza di poco più di un mese ha subìto la 152esima modifica o annullamento delle misure cautelari: 32 da parte del Gip e 120 da parte del Tribunale del riesame. Circa una su due. Cento cinquantadue persone arrestate e incarcerate, che ora sono tornate in libertà. Perché la giustizia è uno scoglio vero di Stefano Folli La Repubblica, 6 febbraio 2020 Se dobbiamo dar credito ai proclami, il destino infausto della maggioranza giallo-rossa si direbbe già segnato. Quando il ministro della Giustizia, Bonafede, annuncia che entro pochi giorni porterà in Consiglio dei ministri la sua riforma, lascia intendere che non ci sono e soprattutto che egli non cerca un compromesso. È l’atteggiamento di chi ostenta sicurezza perché in realtà teme di non arrivare al traguardo da vincitore sul punto chiave della prescrizione. Meglio allora guardare dietro le quinte. Bonafede avrebbe ragione, sotto il profilo del metodo, se fossimo ancora nel 2018, all’indomani del poderoso successo elettorale del M5S. In quel caso la determinazione del ministro sarebbe l’equivalente del “guai ai vinti” gridato da Brenno, conquistatore peraltro effimero dell’antica Roma. Ma come sappiamo in due anni molte cose sono cambiate e oggi i 5S non sono in grado di gettare alcuna spada sulla bilancia della politica. O meglio, possono andare avanti in modo caparbio fino al punto di rottura della coalizione: ma se la sfida viene raccolta da Renzi, dal Pd o da entrambi - e il provvedimento viene bocciato in Consiglio dei ministri o in Parlamento, la crisi dell’esecutivo Conte diventa inevitabile con discrete possibilità di evolvere verso il voto anticipato. S’intende che non tutti credono alla capacità di Renzi di tener fede alle sue promesse fino a rischiare la caduta del governo pur di difendere un principio giuridico e non deludere quei magistrati e quegli avvocati che hanno in varie forme contestato il ministro. Gli scettici vedono un Renzi che rientra nei ranghi dopo aver ottenuto un po’ di visibilità mediatici, nonché un Pd che finisce per assecondare la riforma, pur senza condividerla, appunto per non incrinare il patto di governo. Questa interpretazione accompagna da mesi il piccolo cabotaggio del Conte 2 e poggia sull’idea che nessuno vuole le elezioni, anzi non intende correre nemmeno il minimo rischio. Quindi sì ai compromessi quando sono possibili, altrimenti sì ai cedimenti. Può darsi che finisca così, con la vittoria di un movimento 5S ormai in caduta nel Paese e frantumato, ma forse ancora in grado di farsi valere all’interno di una coalizione debole. Tuttavia se c’è un caso in cui l’equilibrio può saltare, questo è proprio il conflitto sulla prescrizione. Un pezzo importante dell’establishment, cioè il potere giudiziario nelle sue diverse articolazioni, è contrario a Bonafede; al tempo stesso i Cinque Stelle sono smarriti e, sull’altro versante, Renzi è disperatamente bisognoso di un successo. Un’altra sconfitta dopo aver alzato i toni, nonché la prospettiva di un paio d’anni di modesto tran-tran governativo fino all’elezione del capo dello Stato all’inizio del 2022 sono in grado di seppellire le residue ambizioni dell’ex premier insieme al suo partito personale. Può sembrare azzardato, ma quello della prescrizione potrebbe essere l’ultimo treno che passa per un politico spregiudicato quale senza dubbio Renzi è. Ciò significa che lo scontro è aperto. E soprattutto che non stiamo assistendo al solito gioco delle parti destinato comunque a ricomporsi. Semmai colpisce la mancanza finora di un’iniziativa di Palazzo Chigi. Vero è che la materia non si presta a un ricamo in cui ognuno ottiene un pezzo di ragione. L’unica strada sembra il rinvio della riforma. Ma per ora anche su questo nessuno si sbilancia. Riforme serie e toppe a colori sulla Giustizia penale di Alessandro Giovannini L’Opinione, 6 febbraio 2020 Sono decenni che il Paese non ha riforme di sistema, ma solo toppe spacciate per riforme. Toppe dai colori sgargianti, intendiamoci, ma buone soltanto per qualche titolo di giornale o comparsata televisiva dei politici di turno. Niente di organico, che faccia parte di un’architettura progettata con rigore. Ho scritto altre volte che l’assenza di architettura non discende tanto dalla mancanza di risorse finanziarie, quanto e soprattutto dalla pochezza della visione politica. I recenti interventi sulla giustizia penale lo dimostrano in termini inoppugnabili. Da mesi si discute sulla prescrizione dei reati: abolirla, allungarla, spezzettarla o differenziarla. La toppa voluta dal Movimento 5 Stelle, ossia interrompere sine die la prescrizione dopo il primo grado per evitare gli effetti della eccessiva durata dei processi, è un obbrobrio: Leopoldo II di Toscana, che per primo al mondo, nel 1786, abolì la pena di morte, sta implorando il Padre eterno di rimandarlo su questa terra per consentirgli di combattere la legge Bonafede. E lo sta implorando per cimentarsi anche in un altro tentativo: impedire l’approvazione del progetto targato Partito Democratico, in discussione in queste ore. La prescrizione, per i democratici, si dovrebbe sì interrompe dopo il primo grado, come già prevede la legge pentastellata, ma soltanto se vi è condanna. La seconda toppa, quella del Pd, è peggiore della prima e la sua stortura sta in questo: considerare il condannato in primo grado come un “presunto colpevole al quadrato”, anziché, come giustamente vuole la Costituzione, sempre e in ogni caso un presunto innocente, quale che sia l’esito - di assoluzione o di condanna - dei processi “intermedi”, fino alla sentenza di ultimo grado. Le toppe, lo sappiamo, sono una sorta di rammendo, ma non consentono di tessere una nuova trama e un nuovo ordito: il tessuto rimane bucato e il buco è solo la manifestazione della sdrucitura del tessuto. È indiscutibile che il processo penale abbia molti buchi e che uno di questi sia, proprio, l’eccessiva durata. Le toppe, però, non solo possono aggravare il problema, e alcuni procuratori generali, in questi giorni, parlando della riforma Bonafede, lo hanno detto a chiare lettere; ma non sono senz’altro in grado di intrecciare una nuova tela. Proprio quello, invece, che occorre alla giustizia penale. Quali, allora, le misure di una vera riforma? Le direttrici sono tre: strutturale, normativa e organizzativa. La prima ruota intorno alla separazione delle carriere tra accusatori e giudicanti, alla riforma del sistema di reclutamento, con vincoli di specializzazione per materia, e alla revisione della disciplina sulla responsabilità civile, erariale e disciplinare dei magistrati e dei futuri procuratori. La seconda direttrice, quella normativa, passa da una profonda depenalizzazione delle violazioni, sulla falsariga di quella compiuta nel 1981, e da una nuova codificazione, con contestuale riscrittura dei molti reati oggi lasciati alla libera interpretazione di procure e tribunali. E poi, sul piano organizzativo, sono indispensabili la revisione degli organici, compresi quelli dei cancellieri, l’introduzione di manager esterni alla magistratura per massimizzare l’efficienza di procure e tribunali, e la completa digitalizzazione dei procedimenti. Al futuro ministro della Giustizia che semmai volesse intestarsi queste o altre misure di riforma sistematica un grande, grandissimo augurio: “Che Dio ti salvi dalla guazza e dagli assassini”. Parola di Grillo Parlante, parola di Carlo Lorenzini, in arte Collodi. Della stessa terra del Granduca Leopoldo. Prescrizione, allo studio un lodo Conte bis di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2020 Interruzione soltanto dopo la conferma della condanna in appello. Non accenna a scendere la tensione sulla prescrizione. Certo i “pontieri” provano a cercare una soluzione tecnica che sia digeribile per tutte le forze di maggioranza. Dove però la fantasia, abbastanza inesauribile del giurista, si scontra con la logica della convenienza politica. Così nelle ultime ore prende quota una sorta di lodo Conte bis che indichi una linea più avanzata rispetto alla proposta originaria formulata dal premier a inizio gennaio e poi tradotta nell’attuale bozza di riforma del processo penale. E se la proposta di mediazione iniziale di Conte faceva leva sulla distinzione tra condannati e assolti in primo grado, interrompendo i termini solo per i primi e sospendendoli solo per i secondi, ora la prescrizione si fermerebbe unicamente nel caso di una condanna in primo grado poi confermata dall’appello, mentre tornerebbe a decorrere se dopo la condanna di primo grado arrivasse un’assoluzione. Ma gli schemi possono essere i più vari e prevedere un congelamento comunque dopo l’appello e non dopo il primo grado come ora previsto dalla Bonafede. Sullo sfondo, ma neppure troppo, l’ipotesi di un nuovo rinvio puro e semplice di tutta la riforma, che si applica ai reati commessi a partire da quest’anno, ma che nei fatti dispiegherà i suoi effetti solo al maturare dei termini per i più lievi reati contravvenzionali e quindi non prima di 5 anni come ricordato pochi giorni fa dal presidente della Cassazione nella sua relazione di apertura dell’anno giudiziario. E proprio sulla necessità di uno slittamento di un anno (come del resto cristallizzato nell’emendamento Annibali al Mille Proroghe) rimane attestata anche nelle ultime ore Italia Viva, non intenzionata a smuoversi, sostenendo in questo modo di volere dare tempo a una complessiva riforma del Codice di procedura penale. Scenario cui plaude il Pd, con il vicesegretario Andrea Orlando, che precisa come “noi lo avevamo proposto, ma avevamo capito che Bonafede era contrario. Ma se si fa il rinvio siamo i più contenti del mondo perché un rinvio ci darebbe modo di affrontare con più calma la riforma del processo penale”. E proprio Orlando ieri ha incontrato a Palazzo Chigi il premier Conte. Uno slittamento, oltretutto dopo un breve periodo di operatività, verrebbe però accolto come doccia gelata da parte dei 5 Stelle. E in primo luogo dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, da poco anche capo delegazione nell’Esecutivo. Non a caso ancora ieri Bonafede ha negato con forza qualsiasi indiscrezione su trattative in atto con mediazioni già messe a punto. Tanto che le dimissioni potrebbero rappresentare l’esito più scontato di un rinvio non concordato, ma votato magari in Parlamento. Ed è in Parlamento appunto che, in caso di assenza di un accordo nella maggioranza, le cose potrebbero complicarsi. In un intreccio di provvedimenti in discussione in queste ore che potrebbe rivelarsi assai complicato da sciogliere. Al Senato la spaccatura potrebbe emergere con evidenza in un voto che a differenza della Camera, dove il supporto di Italia Viva non è determinante, avrebbe conseguenze gravi, anche se Matteo Renzi si è detto convinto che il Governo non cadrà sulla prescrizione. In ogni caso, tra provvedimenti già in discussione, come il decreto legge sulle intercettazioni, e altri che vi arriveranno come il decreto legge Mille Proroghe, al netto di eventuali voti di fiducia, a Palazzo Madama le tentazioni di blitz parlamentari sono assolutamente plausibili. Alla Camera intanto da martedì prossimo si tornerà ad esaminare il ddl Costa che intende bloccare la Bonafede. Il testo approdato in aula, dopo che in commissione era stato approvato un emendamento soppressivo con il voto decisivo della presidente Francesca Businarolo, potrebbe vedere convergere i deputati di Italia Viva con le opposizioni, in un voto dalle minime conseguenze pratiche ma dall’elevato significato politico. Sulla riforma del processo penale intanto l’intenzione espressa del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è di accelerare anche perché già scritta in larghissima parte, coni capitoli già noti che vanno dalle misure per accelerare i giudizi penali (dai tempi di durata delle indagini preliminari a quelli dei 3 canonici gradi di giudizio) alle restrizioni sui passaggi dai ranghi della magistratura agli incarichi politici, al nuovo sistema elettorale del Csm. Prescrizione, trattativa tra Pd e 5S. Ora Leu prova a convincere Renzi di Carlo Bertini La Stampa, 6 febbraio 2020 Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a palazzo Chigi. Ieri è saltato il vertice sulla prescrizione: non c’era mediazione tra i renziani garantisti e i grillini fermi nella posizione giustizialista. Come in tutte le trattative che si rispettano, il momento della massima drammatizzazione segnala che le parti forse si stanno avvicinando. Ed è proprio quello che succede sulla prescrizione, dove anche se è saltato il vertice con Conte, “mentre gli estremisti litigano, gli altri lavorano ad un accordo”, dice Walter Verini, responsabile giustizia del Pd e gran tessitore con tutte le parti in causa. Gli estremisti sarebbero i renziani con la bandiera di garantisti e i grillini con quella giustizialista, che anche ieri se le son date di santa ragione. Al punto che tornano gli interrogativi su cosa voglia davvero fare Renzi. “Decida se stare in maggioranza”, intima il ministro dei rapporti col Parlamento, Federico D’Incà, vicino a Fico. “Se Renzi smette di stare in maggioranza, lui smette di fare il ministro”, gli ribatte acido Ettore Rosato. Dando corpo ai fantasmi di chi teme una crisi di governo. “Io invece vorrei capire cosa vuole fare davvero Di Maio”, si chiede il renziano Gennaro Migliore. Lodo Conte bis - Ma in mezzo alle voci di dimissioni di Bonafede, stando a Migliore “ormai inevitabili”, o a quelle di forte irritazione del Colle che, insieme al vertice del Csm, ha trasmesso energici inviti a deporre le armi, si muove la politica. Con molteplici contatti tra vertici di Pd, M5S e Leu. I Dem sostengono che dopo le giaculatorie di magistrati e avvocati sulle conseguenze della sua riforma, Bonafede si sarebbe convinto a fare un passo verso il fronte ampio che chiede di modificarla. Come possibile mediazione crescono le quotazioni del cosiddetto “lodo Conte bis”, che prende il nome non dal premier ma dell’esperto di Leu Federico Conte. Una soluzione che bloccherebbe la prescrizione non dopo il primo, ma dopo due gradi di giudizio. Servirebbero due sentenze di condanna, mentre in caso di assoluzione in appello la prescrizione ripartirebbe dal primo grado di giudizio negativo. Renzi non dà ancora la sua benedizione, ma lo considera un primo passo avanti. “Bonafede se la potrebbe vendere bene con i suoi”, sostengono dal Pd. L’idea di un decreto - Ma lo strumento con cui procedere non è secondario. Nel transatlantico di Montecitorio, Lucia Annibali, madrina dell’emendamento sulla sospensione di un anno della legge Bonafede, sostiene che Italia Viva accetterebbe solo un decreto legge per cambiare la riforma Bonafede. Se il Guardasigilli pensa di inserire una norma ad hoc sulla prescrizione nella legge delega che porterà la prossima settimana in Consiglio dei ministri si illude: i renziani diranno che non va bene. Nello stesso proscenio di conversazioni in libertà che è Montecitorio, l’ex Guardasigilli e numero due del Pd Andrea Orlando, si mostra fiducioso dopo aver incontrato il premier a Palazzo Chigi. Confida che si troverà un accordo prima del 24 febbraio per evitare uno showdown in Aula sul voto dell’emendamento Costa di Forza Italia, che abroga la legge sulla prescrizione. “Non rimettiamo in gioco Salvini”, è la preghiera che fa Orlando a Renzi che minaccia di votare la norma Costa con il centrodestra, creando così una pericolosa maggioranza trasversale. “Prima del 24 il premier presenterà una sua proposta”, scommette dunque Orlando. Guadagnare tempo e stemperare la tensione, sono gli input trasmessi dal capo delegazione nel governo Dario Franceschini. Anche se una accelerazione degli eventi è inevitabile. Quando questo fine settimana si voteranno in commissione gli emendamenti al decreto mille proroghe, i Dem si schiereranno con i grillini contro la proposta della Annibali di un rinvio. E i renziani, convinti che il rinvio di un anno sia l’unica via di uscita per poter varare la riforma del processo penale, avranno agio per attaccarli. Ma poi il quadro si ricomporrà. “La soluzione - insiste Verini - deve venire da Bonafede, che si deve far carico del suo ruolo di ministro di tutta la maggioranza e della Repubblica, e non solo di capo delegazione dei 5 Stelle”. Bonafede sfida Italia Viva: “Nessuna trattativa sulla prescrizione” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 6 febbraio 2020 “Trattative in corso sulla prescrizione? Non ne sono a conoscenza”. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, stronca sul nascere qualsiasi retroscena su un possibile passo indietro del Movimento 5 Stelle in tema di giustizia. La riforma della prescrizione è legge, fanno sapere i grillini, ed entro dieci giorni sul tavolo del Consiglio dei ministri arriverà il testo di riforma del processo penale. Sarà in quella sede che ognuno dovrà assumersi le proprie responsabilità, precisano i pentastellati, sempre più ostinati ad andare avanti sulla via dell’irremovibilità a qualunque costo. Ma l’eventuale prezzo da pagare in questa lotta muscolare tra forze della maggioranza sarebbe di quelli salatissimi: la sopravvivenza stessa del governo Conte. Perché a difendere la riforma Bonafede così come entrata in vigore il primo gennaio è rimasto solo il M5S, primo partito in Parlamento, certo, ma anche forza politica in forte crisi di identità e di consensi. Pd, Iv e Leu confidano ancora in un ripensamento grillino, puntando sulla capacità mediatrice del Presidente del Consiglio, che però nelle ultime settimane non si è rivelata particolarmente efficace. Nelle prossime ore dovrà essere convocato un vertice a Palazzo Chigi, ma in assenza di un accordo possibile, nessuno depone le armi. E tra alleati continuano a volare parole grosse. Il fronte più caldo continua a essere quello che vede contrapposti M5S e Italia viva. I renziani sono sicuri di poter costringere il Guardasigilli a un ripensamento sventolando l’ipotesi di una sconfitta clamorosa in Aula il 24 febbraio, quando a Montecitorio approderà la proposta di legga Costa per l’abolizione della prescrizione in salsa grillina. Iv non avrebbe alcun problema a votare con Forza Italia e le opposizioni su un tema così dirimente, mettendo in minoranza i Cinque Stelle. “C’è chi si comporta come se fosse all’opposizione. A volte ho il dubbio che i testi glieli scriva Salvini o Berlusconi”, risponde piccato il ministro della Giustizia. “Lavorare vuol dire sedersi a un tavolo e scrivere le norme, non vuol dire urlare dalla mattina alla sera, abusando della pazienza dei cittadini, sfiorando spesso il tono della minaccia”, aggiunge Bonafede. Le parole del ministro, però, non scalfiscono i renziani, che rispondono proponendo “l’istituzione della giornata nazionale delle vittime degli errori giudiziari, il 17 giugno, giorno dell’arresto di Enzo Tortora”. A scontrarsi non sono semplicemente due partiti ma due concezioni politiche e giuridiche contrapposte, difficilmente riducibili. Matteo Renzi lo sa e bacchetta i suoi ex compagni del Pd di essere “succubi” dei grillini “proprio ora che stanno implodendo”. E se il Movimento accusa Iv di “intelligenza col nemico” in materia di prescrizione, Davide Faraone, presidente dei senatori renziani, si prende la briga di replicare così all’alleato: “Caro Bonafede, non è Salvini che scrive i testi a noi, sei tu che hai scritto la legge sull’abolizione della prescrizione con lui. A noi non piace e la cambieremo”, dice. Poi aggiunge con tono di sfida: “I numeri sono chiari, o lo capisci o ci vediamo in Senato”. La guerra di nervi (e di dichiarazioni) tra partner di governo rischia di sfuggire di mano. In mezzo al guado, per ora, rimane il Pd, l’unico partito che potrebbe imporre una linea di mediazione, forte dei recenti successi elettorali e della sua consistenza parlamentare. I dem però si limitano da giorni a smistare il traffico delle accuse incrociate, invitando i contendenti a moderare la velocità del tweet al vetriolo. “Noi non vogliamo rimettere in gioco Salvini su questo tema e non vogliamo che si costruiscano alleanze trasversali”, dichiara l’ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, rimproverando in qualche modo i renziani. “Con fatica possiamo arrivare a una modifica della norma senza dare vantaggi alle destre e una patente di garantismo a chi non la merita”, aggiunge. E prestando attenzione a non urtare la suscettibilità di nessun contendente spiega: “C’è l’accordo sull’obiettivo perché siamo convinti si debba modificare la norma sulla prescrizione ma c’è disaccordo sul modo”. L’accordo sull’obiettivo a cui fa riferimento il vice segretario del Pd, però, si è arenato sul “Lodo Conte” che distingue tra assolti e condannati in primo grado sul blocco della prescrizione - già spazzato via dai renziani, convinti dell’incostituzionalità della norma. L’unica ancora di salvezza potrebbe essere convincere il M5S a rinviare sospendere gli effetti della riforma Bonafede di un anno, il minimo sindacale richiesto da Italia viva. “Noi lo avevamo proposto ma avevamo capito che Bonafede era contrario ma se si fa il rinvio siamo i più contenti del mondo perché un rinvio ci darebbe modo di affrontare con più calma la riforma del processo penale”, dice ancora Andrea Orlando, alla ricerca di una via d’uscita dall’imbuto in cui sembra essersi cacciato il governo. Ma non sembra che il clima sia destinato a raffreddarsi con semplici appelli alla moderazione. Anzi, gli animi potrebbero surriscaldarsi ulteriormente dopo il ritorno in scena di Luigi Di Maio, che in diretta Facebook riprende i panni del capo politico e convoca una piazza per il 15 febbraio contro la “restaurazione” anti grillina. “Abbiamo tagliato i vitalizi e loro se li vogliono riprendere. Abbiamo fatto la legge sulla prescrizione, che è legge dello Stato, e adesso e la si sta rimettendo in discussione per provare a cancellarla. Abbiamo fatto il reddito di cittadinanza e c’è chi sta lanciando il referendum per prendersi quei soldi e metterli chissà dove”, tuona il ministro degli Esteri, rispolverando i vecchi toni barricaderi, prima di mettere in guardia gli alleati: “Non si può governare un Paese o stare all’opposizione pensando a come abolire le leggi del Movimento”. A buon intenditor... Riforma Bonafede, il Pd si avvicina a Italia Viva e isola i 5 Stelle di Aldo Torchiaro Il Riformista, 6 febbraio 2020 Prescrizione, qualcosa si muove. La giornata ha visto al lavoro le diplomazie dei partiti, di maggioranza e opposizione. E la sensazione è che anche sulla granitica difesa della riforma Bonafede si stia per aprire un varco. Non sposta molto la smentita, arrivata a tarda sera da Via Arenula, da dove il Guardasigilli assicura di tirare dritto. Era stato Luciano Violante ad indicare la strada della ragionevolezza: “Si può cambiare la prescrizione. Ma lo si dovrebbe fare a partire da una seria indagine conoscitiva sulla fenomenologia dell’istituto, che in alcuni uffici giudiziari fa registrare numeri significativi e in altri ricorre in modo irrilevante”. In effetti al danno della riforma Bonafede si aggiunge la beffa della assoluta indisponibilità dei dati di fondo. “Violante ha perfettamente ragione. Ci stiamo accapigliando su un tema di cui non conosciamo i dati. Se li avessimo capiremmo che la prescrizione è un fenomeno che colpisce ormai solo i reati minori. Questo dimostra che stiamo assistendo solo a una pretesa ideologica da parte del ministro Bonafede e a un’affermazione propagandistica staccata dalla realtà”, ha fatto seguire il presidente dell’Unione delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza. La protesta degli avvocati va avanti compatta. E alla politica va il compito di “trovare la sintesi”, come ripete il segretario Dem Nicola Zingaretti. Sul piatto del Mille Proroghe vengono messi agli atti i tentativi di mediazione. Quello di Federico Conte (Leu) prevede l’applicazione della riforma Bonafede solo in caso di doppia sentenza di condanna, quello di Lucia Annibali (Italia Viva) punta a rimandare di un anno l’annosa questione. Per dirla tutta, il lodo Annibali è sdoppiato: c’è un suo emendamento che prevede un rinvio secco all’inizio del prossimo Anno giudiziario. Ed un altro emendamento, subordinato, che richiede la sospensione degli effetti della disciplina attuale (riforma dell’art.159). Ma c’è anche Andrea Orlando, ex ministro della giustizia Pd, che torna in campo per difendere, appunto, la riforma che portava il suo nome. A fargli da apripista è Emanuele Fiano, che va in tv per ricordare al Movimento Cinque Stelle “che fanno parte di un governo di coalizione, in cui ciascuno deve fare un compromesso ed essere disponibile a rinunciare a qualcosa, perché non si può portare a casa tutto”. I democratici si rivolgono al premier Giuseppe Conte con crescente fiducia, che pare ripagata. Non esiste miglior corpo diplomatico, verso il Movimento, dell’inquilino di Palazzo Chigi. Sentita dal Riformista, la firmataria del Lodo Annibali scongiura soluzioni intermedie. “Si eviti di creare confusione. Per Italia Viva non ci sono compromessi accettabili”, tuona la deputata renziana. E se il Lodo Annibali presentato nel Mille Proroghe venisse bocciato, data anche l’ipotesi fiducia che circola a Montecitorio in queste ore “lo ripresenteremmo in Senato e a palazzo Madama i numeri sono diversi”, sottolinea la parlamentare. “Io non capisco quale dovrebbe essere la mediazione di Conte, onestamente. Correggere con una toppa peggiore del buco, con il discrimine tra sentenza di condanna e di assoluzione può aprire a dei profili di incostituzionalità”. Prosegue Annibali: “Non si può accettare che venga rimesso in discussione il principio di non colpevolezza fino a sentenza di terzo grado. Qui c’è chi vuol minare la nostra civiltà giuridica”. Prescrizione, la guerra di nervi sfuggita di mano ai giallo-rossi di Aldo Fabozzi Il Manifesto, 6 febbraio 2020 Lo stallo lascia spazio a uno scontro sempre più acceso. I renziani fanno filtrare la possibilità di una mozione di sfiducia individuale contro Bonafede al senato. Il ministro contrario anche a una sospensione di sei mesi della sua riforma, anche perché i grillini scaldano la piazza. Giura però che entro 10 giorni porterà in Consiglio dei ministri la riforma del codice di procedura penale. Lasciata a se stessa - non ci sono vertici convocati, Conte non ha alcuna proposta di mediazione che abbia qualche chance e in realtà non ci sono neanche votazioni parlamentari decisive a stretto giro - la lite nella maggioranza sulla prescrizione sta crescendo giorno dopo giorno. È ormai una guerra quotidiana; ieri Bonafede ha dato del Salvini (o del Berlusconi) a Renzi, il ministro grillino per le riforme D’Incà ha sfidato Italia viva a lasciare la maggioranza e i renziani gli hanno risposto di cominciare a fare lui le valigie. Per sovrapprezzo, la prossima settimana comincerà con un giudizio della Corte costituzionale sulla legge Spazzacorrotti - altra materia ma stessa legge che rende “orgoglioso” Bonafede e che ha introdotto la riforma della prescrizione made in 5 Stelle - e finirà con una manifestazione di piazza (o piazzetta) dei grillini alla ricerca della purezza delle origini. In questo clima il ministro guardasigilli se l’è sentita di annunciare che “entro dieci giorni” porterà finalmente la riforma del codice di procedura penale in Consiglio dei ministri. Non è nuovo ad annunci del genere: aveva già promesso questa riforma per la fine del 2019, poi per la fine di gennaio. Senza accordo sulla prescrizione andrà così anche questa volta. Tempo per litigare c’è ancora: la prossima settimana le commissioni riunite affari costituzionali e bilancio della camera voteranno gli emendamenti (di Italia Viva ma non solo) sulla prescrizione al Mille Proroghe, che però dovrebbero essere bocciati senza particolari drammi (il Pd ha già detto che voterà contro). Il nuovo passaggio in aula a Montecitorio sul disegno di legge Costa che cancella la riforma Bonafede è potenzialmente divisivo (lo è stato in commissione) ma ancora lontano (24 febbraio). Nella guerra di nervi, con Renzi che tiene caldo il tema alzando un po’ i toni ogni giorno, il Pd ieri ha cercato di far passare la soluzione di un rinvio breve, appena sei mesi per dare il tempo di condurre in porto la famosa riforma del codice di rito. E poi, solo dopo aver introdotto le novità in grado di velocizzare i processi, tornare alla prescrizione che piace a Bonafede, cioè la prescrizione che non esiste più dopo la sentenza di primo grado (di assoluzione o condanna che sia). “Noi lo avevamo proposto ma avevamo capito che Bonafede era contrario, se si fa il rinvio siamo i più contenti del mondo”, ha detto il vicesegretario del Pd Orlando, ex ministro della giustizia (l’ultima riforma della prescrizione, mai sperimentata sul serio, porta la sua firma). Ieri si è incontrato con Conte, ufficialmente non per parlare di prescrizione. Di certo l’attivismo renziano (che fa filtrare l’ipotesi a questo stadio eccessiva di una mozione di sfiducia individuale a Bonafede, al senato dove la maggioranza potrebbe rischiare) ha tolto ai dem la possibilità di negoziare una mediazione onorevole anche se di basso profilo. Il rinvio fino al 30 giugno di cui si parla, oltre che un bel po’ forzato - la legge infatti, sospesa per un anno, è ormai in vigore da 37 giorni e andrebbe sospesa di nuovo - sarebbe in realtà di meno di cinque mesi. Ma disgraziatamente non è quello che intende concedere Bonafede, incalzato da Conte da un lato (il presidente del Consiglio vuole un accordo e ha promesso un vertice risolutivo in settimana, questa settimana) e da Di Maio e dai guardiani della rivoluzione grillina dall’altro. Che certo non lo stanno aiutando esaltandone a getto continuo la capacità di “non mollare”. Se alla fine dovrà farlo si noterà parecchio Prescrizione, come funziona negli altri Stati europei di Giovanni Altoprati Il Riformista, 6 febbraio 2020 Prosegue, senza soluzione di continuità, l’opera di disinformazione portata avanti dal Fatto Quotidiano sul tema della prescrizione. Ieri, per dare ossigeno alla comatosa riforma del ministro Alfonso Bonafede, il giornale diretto da Marco Travaglio si è lanciato in uno “studio comparativo” della prescrizione in alcuni Paesi europei. Operazione quanto mai spregiudicata visto che il confronto sull’applicazione della prescrizione è stato fatto senza tenere minimamente conto dei diversi sistemi processuali dei Paesi in questione. Travaglio, infatti, si è guardato bene dal ricordare che in Italia vige l’obbligatorietà dell’azione penale ed il Pm è un magistrato autonomo ed indipendente da qualsiasi altro potere. Nel Regno Unito, uno dei Paesi portati come esempio da Travaglio per ribadire la bontà della riforma Bonafede, l’azione penale è discrezionale ed il Pm è un avvocato nominato dal governo. Non è una differenza di poco conto. Anzi. Poi ci sono molte altre omissioni nell’inchiesta del Fatto. Per ingiusta imputazione, per esempio, che è cosa diversa dall’ingiusta detenzione, è previsto un risarcimento per le spese legali sostenute. Tralasciando queste amnesie, vediamo cosa realmente accade nei Paesi, secondo il giornale di Travaglio, da prendere a modello per porre fine allo scandalo tutto italiano della prescrizione che impedirebbe a chi ha commesso un reato di marcire in galera. Iniziamo dalla Francia. L’istituto della prescrizione esiste anche lì, dove i termini di prescrizione del reato variano in base alla qualificazione giuridica dell’illecito. Con la legge del 27 febbraio 2017 sono stati modificati i termini di prescrizione, calibrati ora secondo la gravità del reato. Un anno per le contraventions, reati per i quali la pena prevista è una multa. Sei anni per i délits, reati per i quali la pena prevista è inferiore a dieci anni di reclusione. Venti anni per le crimes, reati per i quali la pena prevista è superiore a dieci anni di reclusione. Tali termini sono contenuti nel codice di procedura penale. La legge stabilisce gli atti interruttivi della prescrizione. Il temine di prescrizione, come in Italia, decorre dalla data di commissione del fatto. Maturato il termine massimo previsto dalla legge in assenza di atti interruttivi, si estingue l’azione pubblica. Sono imprescrittibili i reati contro l’umanità e i genocidi. La particolarità: i reati commessi a mezzo stampa si prescrivono addirittura in soli tre mesi. In Spagna la disciplina della prescrizione è simile a quella del codice italiano prima della riforma ex Cirielli del 2005 ed è contenuta nel codice penale. Venti anni, quando la pena massima prevista dalla legge è di quindici o più anni. Quindici anni quando la pena massima prevista dalla legge è la reclusione da dieci a quindici anni. Dieci anni quando la pena prevista dalla legge è la reclusione da cinque a dieci anni. Cinque anni negli altri casi. I delitti di ingiuria e calunnia si prescrivono in un anno. Le contravvenzioni si prescrivono in soli sei mesi. Sono imprescrittibili i delitti contro l’umanità, il genocidio, quelli di matrice terroristica. I termini di prescrizione si computano, come Italia ed in Francia, a partire dal giorno in cui è stato commesso il reato. Anche in Spagna sono previsti atti interruttivi della prescrizione. Nel Regno unito non esiste la prescrizione. E su questo ha ragione Travaglio, ma sono previsti dei precisi limiti temporali entro i quali possono essere perseguiti i reati. Tali limiti rispondono all’esigenza processuale di assicurare, entro un tempo ragionevole, l’acquisizione delle prove e di garantire all’accusato un giusto processo che si svolga in un lasso di tempo circoscritto rispetto ai fatti che l’hanno determinato. I limiti temporali così intesi si articolano diversamente a seconda della categoria di reato dei correlati criteri di competenza processuale. Nel caso dei reati minori, puniti con la pena fino a sei mesi di reclusione, l’azione penale deve essere avviata entro sei mesi dalla consumazione del reato. L’analisi comparativa in questione è stata fatta nel dicembre del 2018 dal Consiglio superiore della magistratura alla vigilia dell’entrata in vigore della Spazza-corrotti, al cui interno era previsto il blocco della prescrizione. Il Csm effettuò un lungo ed articolato studio che mi sono limitato in questa sede a copiare. Caos prescrizione, è la vendetta del 1992 su Bonafede e Davigo di Gianluigi Da Rold ilsussidiario.net, 6 febbraio 2020 La riforma della prescrizione appare il chiodo fisso di Bonafede e di “fine processo mai”, una frangia estremista che ha distrutto la giustizia italiana. Non siamo ancora, probabilmente, al punto di rottura, a quello che inglesi e americani usano chiamare, nel linguaggio bellico e anche politico, come “breaking point”. Ma il governo di “Giuseppi 2”, il cosiddetto “avvocato del popolo” quando è balzato sulla scena politica italiana, sta aprendo la grande falla sul “dossier giustizia”. Sta emergendo in tutta la sua durezza la contrapposizione tra il cosiddetto giustizialismo e il normale, civile garantismo di un Paese democratico. La contrapposizione non attraversa solo l’attuale governo, piuttosto frastornato, ma è trasversale all’interno di diverse forze politiche. Il fatto più sconcertante è che il cosiddetto giustizialismo, spesso negato o ritenuto inesistente, è un neologismo che caratterizza un Paese giuridicamente arretrato, che sembra essersi dimenticato non solo di Cesare Beccaria, che tutti ricordano spesso anche a vanvera, ma che dimentica anche una tradizione di giustizia occidentale che si è consolidata nei tempi, partendo addirittura dalle “verrine” ciceroniane ai tempi della repubblica romana, per passare alla conquista della “certezza del diritto” consolidatasi con l’illuminismo e le rivoluzioni contro lo Stato assolutista. Sottolineiamo “certezza del diritto”, non della populistica e grottesca “certezza della pena”, che alberga nel cuore e sulla bocca dei neofiti della giustizia tribale, forse con una nevrotica nostalgia della religione azteca, che si basava sul “politicamente corretto” ma anche sui sacrifici umani per ingraziarsi l’umore dei demoni-dei, anche alla vigilia dell’arrivo di Hernán Cortés e della Conquista. Sul banco della contesa, al momento, c’è la prescrizione da eliminare, che il guardasigilli “grillino” Alfonso Bonafede predica dalla mattina alla sera, neanche fosse ispirato dalla Pizia di Delfi nei panni di Piercamillo Davigo. Ma l’eliminazione della prescrizione è solo il primo passo per l’instaurazione del definitivo “feudalesimo” giudiziario italiano, con i pm elevati al rango di valvassori, indipendenti da tutto, e l’aggiramento della riforma completa della giustizia italiana secondo il dettato del nuovo articolo 111 della Costituzione, determinato da una risoluzione del Parlamento europeo il 4 luglio 1997, sul rispetto dei diritti umani, che è la continuazione dei principi della Cedu, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo delle libertà fondamentali, che risale addirittura al 1950, ma che l’Italia ha “stranamente sorvolato” per cinquanta anni. Ma la prescrizione è solo la premessa a una valanga di problemi giudiziari: il giusto processo, la reale condizione di parità tra le parti, il giudice terzo, ahimè per il pool di “Mani pulite” anche la separazione delle carriere, l’onere della prova a carico dello Stato e la condanna dell’imputato solo in assenza anche di un ragionevole dubbio. Un’autentica rivoluzione culturale, giuridica, politica e sociale che sta mettendo il “governo della paura del voto” in gravi difficoltà. Il premier, incravattato e “impochettato”, lancia e sospende continuamente un vertice, un giorno sì e un giorno no. Il Guardasigilli va diritto per la sua strada e non accetta “ricatti”, il turbolento e indisciplinato Matteo Renzi, contrario, minaccia di votare contro ma, acrobaticamente, di non togliere la fiducia, il Pd è critico a metà, Leu tace o non si sente. Tutti predicano una mediazione e “Giuseppi 2” è il più adatto a sbizzarrirsi “nella mediazione della mediazione”: è un mediatore al cubo che rischia l’immobilismo cronico. Ma sono in molti a cercare la quadratura del cerchio, che alla fine partorirà un rinvio, tanto per cambiare. La giustificazione di eliminare la prescrizione per eliminare la massa dei processi pendenti, alla prova dei numeri, rischia però di essere un boomerang per il governo La situazione della giustizia italiana, ha scritto di recente Sergio Luciano, è relegata al 132esimo posto su 198 censiti nell’ultima classifica del “The Global Competitiveness Report 2019”, alla faccia di alcuni extraterrestri televisivi che spiegano invece che la giustizia italiana funziona benissimo e viene addirittura studiata da Paesi di common law. Forse sarebbe giusto non “prescrivere mai” questi extraterrestri. Non è proprio esatta l’analisi di Davigo sugli avvocati che la “tirano lunga” per guadagnare dai clienti facoltosi. Fin dal 1992, gli stessi americani (anche se interessati a un ribaltamento politico), rimasero sbigottiti di fronte ai metodi usati dalla magistratura italiana e chiesero al loro giudice della Corte suprema, Antonin Scalia, un giudizio che fu gravemente negativo. È in realtà l’impianto complessivo della giustizia italiana che non funziona, tanto da scatenare una delle più irrituali forme di protesta all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Avvocati che hanno abbandonato l’aula a Milano quando ha preso la parola Piercamillo Davigo in rappresentanza del Csm (l’organismo venuto alla ribalta qualche tempo fa con il “caso Palamara”, ma di cui non si parla più, chissà perché). Altrove ci sono stati avvocati che si sono presentati ammanettati, altri che non hanno platealmente indossato la toga. Infine ci sono stati pure magistrati, procuratori generali, che hanno bollato di incostituzionalità l’eliminazione della prescrizione. Insomma, il Guardasigilli non ha proprio portato concordia nei palazzi di giustizia, forse non ha ben presente quello che sta maturando da anni e non è aggiornato con l’evoluzione della giurisdizione nei Paesi democratici. Dice un grande avvocato milanese: “La protesta non ha onorato certo una liturgia consolidata, ma alla fine me ne sono uscito anch’io. Bisognava evitare, dopo quello che aveva detto, che Davigo venisse a Milano oppure andasse anche in altre sedi”. Ci sono numeri diversi, ma comunque alti in Italia tra persone destinatarie di avvisi di garanzia e anche di rinviati a giudizio che hanno visto violati i loro diritti alla riservatezza, stabiliti sempre dall’articolo 111 della Costituzione, e occorrerà fare finalmente un calcolo preciso, che esiste sicuramente, su chi ha dovuto subire processi che sono durati anni e che poi sono stati assolti. Fatti questi ragionamenti sul dossier giustizia, appare tuttavia poco probabile una crisi di governo sulla prescrizione, ma se si unisce questo ostacolo alla massa intricata di problemi che il governo del terrore elettorale deve risolvere (recessione economica, concessioni autostradali, Alitalia, nessuno slancio programmatico, 150 o più vertenze sindacali aperte) può anche capitare che la prescrizione diventi una nemesi della svolta epocale del 1992 e, dopo tanti anni, si riveli una hybris del Guardasigilli, che nel frattempo è diventato il capo delle delegazione pentastellata nel governo. Di certo, anche se si eviterà una crisi e il partito del “vaffa” continuerà a occupare tante sedie parlamentari, l’hybris, l’antica vendetta immaginata dai greci per i tracotanti, sarà sempre in agguato. “Cambiamo il Codice rosso: subito l’arresto per i persecutori” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 6 febbraio 2020 Il disegno di legge appena depositato in Senato. “Il Codice rosso dev’essere modificato. E la prima, urgente, modifica deve essere l’arresto in flagranza di chi viola le misure di protezione”. È categorica Valeria Valente, senatrice Pd, presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio, di cui proprio ieri è stata votata la proroga. Sei donne uccise in una settimana, il grido contro la violenza lanciato dal palco di Sanremo da Rula Jebreal, ma anche il senso di impotenza di fronte a una scia di lutti e tragedie che nulla, sembra, riesce a fermare. Il Consiglio d’Europa che bacchetta l’Italia per la mancata applicazione della “Convenzione di Istanbul”, i soldi agli orfani di femminicidio per adesso, ancora, mai arrivati alle famiglie e ai figli di quelle stragi. Le leggi ci sono, anzi sono ottime, ma non applicate, come sottolinea il rapporto “Grevio” del Consiglio d’Europa, le vittime di violenza, grazie anche alla legge sul Codice rosso, oggi vengono ascoltate dai magistrati entro tre giorni, le procure, infatti, segnalano un netto aumento di denunce di violenza domestica, pur in assenza di dati nazionali. Allora perché le donne continuano a morire? “Perché, nonostante la presa in carico immediata da parte della giustizia, le donne restano esposte al contatto con i loro persecutori. Per questo il Codice rosso va rivisto e riformato”. E il punto cruciale, per Valeria Valente, prima firmataria di un disegno di legge appena depositato, riguarda l’infrazione delle misure di protezione. “Dobbiamo prevedere l’arresto in flagranza di chi viola gli ammonimenti, i divieti di avvicinamento, uomini che, nonostante le condanne, si presentano sotto casa delle loro vittime e continuano a perseguitarle. E intensificare l’uso del braccialetto elettronico, per fermare stalker e aggressori”. Repressione ancora, dunque, anche se, sottolinea Valente, sappiamo che la vera prevenzione è culturale. “Le donne continuano a non essere credute. Soprattutto in ambito civile, nelle cause di separazione. Accade sempre più spesso: madri che si vedono togliere i figli dopo che hanno denunciato partner violenti. Una violenza che si somma alla violenza”. La Terra dei fuochi si batte per avere giustizia di Adriana Pollice Il Manifesto, 6 febbraio 2020 Mentre si moltiplicano i sequestri delle discariche, un avvocato ricorre contro la prescrizione di un procedimento: “Ci sono dei morti”. Brandelli di asfalto, detriti edili, guaine bituminose, plastica, ferro, legno, vetro, tubi flessibili, pneumatici, fusti industriali, persino coperture contenenti amianto, era tutto in bella vista: 4.500 metri cubi di rifiuti speciali smaltiti senza nessuna precauzione, depositati nel terreno in un’area di 4mila metri quadrati del comune di Capodrise (Caserta). I carabinieri hanno sequestrato la discarica e denunciato il proprietario. Giovedì scorso la Guardia di finanza ha sequestrato nei pressi dell’interporto di Nola (Napoli) oltre 64 tonnellate di rifiuti speciali: guaine catramate, moduli fotovoltaici, tubi in polietilene, imballaggi e vernici. Il 13 gennaio a San Felice a Cancello (Caserta), è stata sequestrata una cava dismessa utilizzata per anni come sversatoio al punto che il percolato aveva formato un lago di immondizia, navigabile in gommone. Il ministro dell’ambiente Sergio Costa ha spiegato: “Vogliamo arrivare a roghi zero: ci vogliono le forze dell’ordine per la sorveglianza e la repressione, i comuni per operazioni straordinarie di pulizia, i comitati per il presidio democratico del territorio”. Il business criminale non si è mai fermato. “La Terra dei fuochi è sinonimo di morte, di camorra, di dolore per chi ha dovuto respirare quei fumi - ha scritto ieri sui social il presidente 5S della Commissione antimafia, Nicola Morra. Il mio ex collega Franco Ortolani ha pagato il suo impegno ambientalista dovendo combattere con neoplasie che l’hanno sconfitto”. Per poi concludere: “I reati sono prescritti”: sono parole che non vogliamo più sentire. Adesso qualcuno ha ancora il coraggio di sostenere la liceità della prescrizione?”. La stoccata è ai colleghi di maggioranza di Pd e Iv. La prescrizione ha bloccato l’accertamento della verità anche nella Terra dei fuochi. L’ultimo caso è venuto fuori lunedì scorso: i magistrati di Napoli hanno chiesto l’archiviazione di una denuncia, pur riconoscendo “gravi omissioni sotto il profilo penale e responsabilità politiche e amministrative”, poiché le condotte sarebbero ormai prescritte. Il caso risale al 2014 quando l’avvocato Sergio Pisani chiese alla procura di indagare sullo smaltimento dei rifiuti nella Terra dei fuochi. La denuncia venne presentata poiché il figlio di cinque anni del legale era nato con malformazioni plurime. Casi che presentano picchi anomali nel triangolo di terra tra Napoli e Caserta. Pisani ha presentato opposizione alla richiesta di archiviazione: “L’ipotesi di reato per la quale ho domandato di indagare - spiega - cioè morte come conseguenza di altro reato non può cadere in prescrizione”. Al gip chiede, tra l’altro, di ascoltare Antonio Giordano, oncologo partenopeo che lavora per l’Istituto Sbarro della Temple University di Philadelphia. Giordano, nella ricerca “Il progetto Veritas”, sostiene la correlazione tra la devastazione ambientale della Terra dei fuochi e il picco di neoplasie registrate. I dati pubblicati sul Journal of cellular physiology, sostiene Pisani, sembrano dare ragione all’oncologo visto che “i ricercatori hanno rilevato concentrazioni fuori norma di metalli pesanti nel sangue dei malati di cancro”. Nel 2014 Pisani chiese alla procura di accertare se Massimo Scalia, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti dal 1997 al 2001, “colui che dispose la secretazione dell’audizione del collaboratore di giustizia Carmine Schiavone”, abbia veramente informato enti locali, stampa, ministri interessati, “tra cui l’allora ministro dell’Interno Giorgio Napolitano e il presidente del Consiglio”, che “andavano fatte le bonifiche”, che i governi avevano “enormi responsabilità” e che, infine, alle audizioni prendevano parte anche gli assessori comunali. “Si poteva intervenire subito - sostiene Pisani - invece sui veleni sono stati costruiti palazzi, strade e scuole”. L’avvocato chiede risposte anche riguardo all’informativa del commissario della Criminalpol Roberto Mancini, che nel 1996 aveva indagato sul traffico di rifiuti. La sua relazione è rimasta 15 anni nei cassetti: “Se fosse stata presa in considerazione avremmo potuto limitare i danni”. Messa alla prova ad ampio raggio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2020 Corte di cassazione - Sentenza 2736/2019. L’imputato può chiedere di essere ammesso sia alla messa alla prova sia al giudizio abbreviato. Il giudice dovrà verificare se la messa alla prova è possibile e, solo in caso contrario, valutare la richiesta di rito abbreviato. Neppure la celebrazione del giudizio di primo grado con il rito abbreviato preclude la possibilità di chiedere la messa alla prova in appello. La Cassazione (sentenza 2736) ammette l’esistenza di due orientamenti opposti sul punto. Il primo esclude la possibilità di contestare in appello il carattere ingiustificato del no alla richiesta di sospensione del processo con messa alla prova, equiparando il rapporto tra giudizio abbreviato e messa alla prova a quello tra giudizio abbreviato e patteggiamento, con conseguente impossibilità di impugnare. Il secondo, a cui aderisce la quinta sezione, ritiene non consentita l’equiparazione. Una considerazione basata sulla funzione della messa alla prova che, come speciale causa di estinzione del reato, è alternativa a ogni giudizio di merito, compreso l’abbreviato: un diritto che sarebbe pregiudicato dalla preclusione affermata da parte della giurisprudenza. Ma c’è anche un’altra ragione per prendere le distanze dall’equiparazione. La richiesta di sospensione del processo, funzionale alla messa alla prova finalizzata all’estinzione del reato è prioritaria e non soggetta neppure alla revoca implicita, per effetto della richiesta di ammissione al rito abbreviato, che va intesa necessariamente come fatta con riserva. Diversamente da quanto avviene per abbreviato e patteggiamento non c’è incompatibilità. L’imputato può chiedere di essere ammesso ad entrambi: spetta poi al giudice decidere. Una scelta diversa produrrebbe un’irragionevole compressione del diritto di avvalersi dei riti alternativi e del diritto di difesa, in contrasto con la ragionevole durata del processo. Collaboratori di giustizia, competente Roma su domiciliari di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2020 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 5 febbraio 2020 n. 4930. È competente solo il tribunale di sorveglianza di Roma a decidere le misure alternative per i collaboratori di giustizia. È automaticamente lo status di “collaboratore” ad attrarre la decisione alla competenza del giudice romano della sorveglianza. Mentre non rileva il momento di presentazione dell’istanza di richiesta del beneficio previsto dall’articolo 47-ter dell’Ordinamento penitenziario. Questo il chiarimento recato dalla sentenza n. 4930 della Cassazione depositata ieri. Competenza funzionale inderogabile - Scatta la competenza funzionale inderogabile della magistratura romana anche quando l’ammissione al programma di protezione dei collaboratori di giustizia sia successiva alla data della domanda presentata davanti al giudice di sorveglianza territorialmente competente in base al regime generale (comma 1 dell’articolo 677 del Codice di procedura penale). Perciò in tale situazione di fatto il giudice non avrebbe dovuto decidere sulla misura, bensì dichiarare la propria incompetenza. I giudici di legittimità hanno precisato che si tratta appunto di un’eccezione, rispetto alla regola generale stabilita dal Codice di procedura: per cui la norma derogatoria prevale sul regime ordinario della competenza territoriale del giudice. Il ricorso accolto - La sentenza di legittimità ha perciò accolto il ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello di Venezia che contestava la violazione della norma speciale contenuta nell’articolo 16-novies del Dl 8/1991, a fronte del convincimento del locale tribunale di sorveglianza di poter decidere sulla richiesta, che aveva tra l’altro accolto. I giudici veneti erano evidentemente stati fuorviati dalla posteriorità dell’ammissione al regime di protezione. Al contrario come affermano ricorrente e Cassazione avrebbe dovuto declinare la propria incompetenza a favore del tribunale di Roma una volta constatato che era intervenuta la deliberazione di ammissione al programma “protetto”. Gioco lecito, peculato per il sub-concessionario che non versa il Preu di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 6 febbraio 2020 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 5 febbraio 2020 n. 4937. Nell’ambito dell’attività del gioco lecito, il concessionario cui è affidata la gestione telematica e la riscossione degli introiti può conferire tali compiti ad altro soggetto privato il quale assume la qualifica di sub-concessionario. Quest’ultimo, nonostante la natura privatistica del contratto stipulato con il concessionario, è da considerarsi un incaricato di pubblico servizio, con la conseguenza che commette il reato di peculato nel caso in cui ometta di versare all’erario il Preu (Prelievo erariale unico), ovvero la tassazione sulle vincite. Ad affermarlo è la Cassazione con la sentenza n.4937, depositata ieri. Il caso - Protagonista della vicenda è il legale rappresentante di una Srl che aveva sottoscritto un contratto con una società concessionaria dell’Aams (Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato) con il quale otteneva il collegamento alla rete telematica per la gestione del “gioco lecito mediante apparecchi da divertimento e intrattenimento”, obbligandosi a versare nei confronti della concessionaria il Preu in misura corrispondente alle vincite risultanti sulle macchine installate in bar, tabacchi e altri esercizi commerciali di sua competenza, in tal modo acquisendo la qualifica di impiegato di pubblico servizio. Accedeva però che questi non versava il prelievo incamerandosi la somma complessiva di circa 270 mila euro, finendo in tal modo a processo per il reato di peculato. Sia in primo che in secondo grado il sub-concessionario veniva considerato colpevole del reato di cui all’articolo 314 del codice penale in quanto, operando in sostituzione del concessionario, assumeva la qualifica di incaricato di pubblico servizio e attraverso il mancato versamento si appropriava ingiustamente di denaro appartenente all’Aams. Si giungeva così in Cassazione, dove il sub-concessionario sosteneva l’assunto che il rapporto contrattuale tra la sua società e quella concessionaria del gioco lecito dovesse leggersi solo in chiave di inadempimento civilistico, con eventualmente la configurazione del meno grave delitto di appropriazione indebita. La decisione - La Suprema corte non accoglie però tali doglianze e conferma in toto il doppio verdetto di condanna. I giudici di legittimità spiegano che il quadro legislativo in materia di gioco lecito prevede che l’attività di installazione e gestione delle slot machine sia affidata in concessione ad imprese specializzate che, a loro volta, possono affidare la gestione telematica e la riscossione degli introiti ad altri soggetti che fanno parte della loro “subfiliera”. Questi ultimi diventano in tal modo sub-concessionari in forza di un contratto di natura privatistica che, però, “non incide sulla veste di incaricato di pubblico servizio del sub-concessionario, in quanto preparatoria e “funzionale” alla riscossione del prelievo erariale unico sulle giocate”, essendo il danaro riscosso sin da subito di spettanza della Pubblica amministrazione. In sostanza, chiosa il Collegio, tutti gli operatori della filiera “sono tenuti a versare immediatamente al concessionario le somme ottenute dai giochi”, con la conseguenza che chi omette il versamento commette il reato di peculato. Bar rumoroso sopra l’appartamento: lamentele legittime ma nessun reato La Stampa, 6 febbraio 2020 Cade l’ipotesi di condanna nei confronti del titolare del locale, che peraltro ha provveduto all’insonorizzazione della pavimentazione. Decisiva per i Giudici la constatazione che il problema è stato segnalato da una sola persona, quella che vive nell’abitazione posta sotto l’esercizio commerciale. Bar troppo rumoroso. Caffetteria sotto processo: nessuna questione di gusto, sia chiaro, poiché il problema è rappresentato dai rumori poco graditi dalla persona che vive nell’appartamento collocato proprio sotto il locale. A lamentarsi però è esclusivamente quella persona, e ciò non basta per ritenere colpevole il titolare dell’esercizio commerciale (Cassazione, sentenza n. 50772/19, sez. III Penale, depositata il 16 dicembre). Disturbo. La battaglia giudiziaria vede prevalere, almeno inizialmente, il privato cittadino, con annessa condanna per il piccolo imprenditore, ritenuto colpevole di “disturbo della quiete pubblica”. Plausibili, secondo i Giudici del Tribunale, le lamentele del privato cittadino, che si era visto “disturbare riposo ed occupazioni” dal “rumore provocato dalla caffetteria”. Decisiva la constatazione che “i rumori avevano superato la normale tollerabilità”. Questo dato, però, osservano i giudici della Cassazione, non è sufficiente per parlare di “disturbo della quiete pubblica”. Piuttosto sarebbe stato necessario “indagare la diffusività dei rumori” e “il potenziale danno arrecato a una serie indeterminata di soggetti”. Insufficiente, invece, la protesta della singola persona, che “aveva riferito di essere stato disturbato dai rumori provenienti dal bar sovrastante la sua abitazione”. Certo, osservano i Giudici, erano intervenuti i tecnici della Agenzia regionale per la protezione ambientale, e allo stesso tempo “il proprietario del locale aveva effettuato lavori di insonorizzazione del pavimento” per porre rimedio alla situazione di disagio creatasi, ma il fatto che il “disturbo” sia stato segnalato da una sola persona rende impossibile parlare di “disturbo della quiete pubblica”, che invece presuppone “l’accertamento della capacità delle emissioni sonore di danneggiare potenzialmente una collettività indistinta di persone”. Sardegna. Il 65% dei detenuti distribuiti in 4 carceri su 10 sardegnalive.net, 6 febbraio 2020 Sdr: “Condizioni oltre i limiti regolamentari”. Il 65,3 per cento dei detenuti è distribuito in 4 istituti sardi su 10. A Cagliari-Uta i detenuti sono 598 ma dovrebbero essere al massimo 561. A Oristano-Massama 285, numero massimo 265, a Sassari-Bancali ci sono 473 detenuti quando dovrebbero essere 454. Mentre ad Alghero il numero massimo è di 156 ma ce ne sono tre in più. “Cresce il disagio dentro le strutture penitenziarie della Sardegna. In quattro istituti su 10 i ristretti sono oltre il limite regolamentare. Nell’isola a fronte di 2.319 persone private della libertà 1515, pari al 65,3% sono detenute nelle due case circondariali di Cagliari e Sassari e nelle case di reclusione di Oristano e Alghero”. A parlare è Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme che ha commentato i dati del ministero della Giustizia relativi allo scorso 31 gennaio 2020. “Una fotografia - sottolinea la presidente - che non lascia alcuna ombra delineando una situazione particolarmente delicata. Si registra un costante inarrestabile aumento che rende sempre più difficile garantire all’esperienza detentiva un’occasione di recupero sociale e mette a rischio la convivenza pacifica dentro le celle progettate per due ristretti”. La Caligaris aggiunge che “Al quadro generale relativo al numero dei detenuti occorre aggiungere la crescita degli stranieri 708 (30,5%) particolarmente numerosi nelle Colonie penali (83% a Is Arenas 77 su 93) e Mamone (79,8% - 135 su 169). Significativa però la loro presenza anche a Uta (157) e a Sassari (184). In quest’ultimo Istituto peraltro è presente una novantina di ristretti in regime di massima sicurezza”. La presidente dell’Sdr sottolinea l’alta percentuale di detenuti con problemi psichici: “Il Ministero non sembra volersi interessare delle carenze di personale a tutti i livelli. Innanzitutto quello dei Direttori rimasti in 4 a gestire 10 Istituti. Degli Agenti della Polizia Penitenziari che lamentano 500 unità in meno rispetto a quelli previsti. Dei funzionari giuridico-pedagogici carenti soprattutto nelle Case Circondariali e degli amministrativi. Mancano ragionieri e assistenti amministrativi. Ancora più silente la classe politica sarda. Rivolgiamo - conclude Caligaris - un appello al Presidente della Regione affinché si faccia interprete di queste difficoltà del sistema penitenziario isolano nella conferenza Stato-Regioni. L’isola non può reggere in solitudine un così gravi problema sociale”.?? Toscana. Diritto all’affettività e alla sessualità dei detenuti, proposta di legge al Parlamento gonews.it, 6 febbraio 2020 L’obbiettivo è dare uno sbocco normativo al dibattito politico e legislativo sul tema del riconoscimento del diritto soggettivo all’affettività e alla sessualità delle persone detenute. La commissione Affari istituzionali, presieduta da Giacomo Bugliani (Pd), ha licenziato con parere favorevole a maggioranza una proposta di legge al Parlamento, primo firmatario Leonardo Marras, capogruppo Pd. I consiglieri di Forza Italia e Lega Nord hanno espresso parere contrario. La proposta interviene sulle norme che regolano l’ordinamento penitenziario (legge 354/1975 e successive modificazioni). All’articolo 28, che regola i rapporti con la famiglia, si aggiunge il “diritto all’affettività” e si aggiunge un comma che recita “Particolare cura è altresì dedicata a coltivare i rapporti affettivi. A tal fine i detenuti e gli internati hanno diritto ad una visita al mese della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore con le persone autorizzate ai colloqui. Le visite si svolgono in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari senza controlli visivi ed auditivi”. In questo modo si lascia spazio alla definizione della natura di quelli che possono essere i rapporti affettivi con un familiare, un convivente, una semplice amicizia. All’articolo 30 sui permessi di necessità si sostituisce il secondo comma - “Analoghi permessi possono essere concessi eccezionalmente per eventi di particolare gravità” - con il seguente: “Analoghi permessi possono essere concessi per eventi familiari di particolare rilevanza”, eliminando il presupposto della eccezionalità e della gravità, da sempre interpretato come legato a lutti o malattie dei familiari. Si interviene inoltre sull’articolo 39 del Regolamento (Dpr n. 230 del 30 giugno 2000) sulla frequenza e durata dei colloqui telefonici, prevedendo che possano essere svolti quotidianamente da tutti i detenuti per una durata massima raddoppiata di venti minuti. Con l’entrata in vigore della legge il diritto di visita dovrà essere garantito in almeno un istituto per Regione. L’Aquila. Carcere superaffollato, caso in Parlamento Il Centro, 6 febbraio 2020 Pezzopane, interrogazione sul raddoppio dei detenuti al 41bis: ho chiesto al ministro di venire all’Aquila. “La situazione può diventare pericolosa. Il ministro deve venire a vedere per rendersi conto e intervenire”. L’onorevole Pd Stefania Pezzopane ha depositato un’interrogazione alla Camera, con risposta urgente, a seguito della denuncia del sindacalista Mauro Nardella, che ha lanciato l’allarme sui detenuti ex 41-bis che nel carcere aquilano Le Costarelle sono raddoppiati dal 2010 a oggi, passando da 80 a 160. “Ho già in precedenza lanciato l’allarme. Ma la situazione sta ulteriormente peggiorando”, sostiene la deputata Pd. “Ha ragione il segretario generale territoriale Uil Pa polizia penitenziaria e componente della Cst Adriatica Gran Sasso, Nardella, a confermare l’emergenza. Infatti nel carcere di massima sicurezza delle Costarelle dell’Aquila i detenuti sono addirittura raddoppiati negli ultimi anni, un carcere sovraffollatissimo, che conta in assoluto il maggior numero di detenuti sottoposti al regime speciale del cosiddetto 41-bis. Questo aumento comporta un carico di lavoro enorme sugli operatori carcerari e problemi per la loro sicurezza”, afferma Pezzopane. “Chiediamo dunque che il governo intervenga e prenda adeguate misure”, dichiara la deputata aquilana. Che aggiunge: “Mi sembra giusta e naturale la richiesta di un aumento adeguato del personale di polizia penitenziaria e comunque la necessità, dettata dalla sicurezza, di riportare il numero di sottoposti al regime speciale ai valori antecedenti il 2010. Gli agenti di polizia penitenziaria e tutto il personale medico e sociosanitario, gli educatori”, conclude la deputata Pd, “fanno il massimo, ma non sono sufficienti, non è giusto questo sovraccarico. La situazione può diventare pericolosa, il ministro venga a vedere e intervenga”. Soddisfazione di Nardella e un “ringraziamento” a Pezzopane per aver portato il caso in Parlamento. Rovigo. Per il “no” al carcere minorile in via Verdi si prova la mozione unitaria rovigooggi.it, 6 febbraio 2020 La maggioranza del consiglio comunale di Rovigo proporrà alla minoranza di scrivere una mozione assieme per essere più autorevoli con Roma. È fissato al 18 febbraio alle 18 il consiglio comunale di Rovigo che andrà a sviscerare il caso dell’ampliamento del tribunale su via Verdi, nell’edificio accanto, ovvero nell’ex carcere. Al momento ci sono due mozioni che saranno sottoposte al voto dell’assemblea: quella della maggioranza e quella del centrodestra in minoranza. Entrambe, pur nelle diverse sfaccettature, propongono in via prioritaria che l’ampliamento del tribunale avvenga sull’ex carcere di via Verdi. Peccato che sia già stato aggiudicata la progettazione esecutiva del carcere minorile in trasferimento da Treviso. “Stiamo vedendo - annuncia Nadia Romeo, presidente del consiglio - se riusciamo a fare qualcosa di unitario sul carcere. Non è questione di bandierina ma di risultato per la città, se potessimo avere una mozione unica da trasmettere al Ministero a Roma sicuramente avrebbe più forza”. “Sostanzialmente - sottolinea Romeo - maggioranza e minoranza la pensano allo stesso modo, per cui la maggioranza è disponibile a vedere se si può confluire in un’unica mozione comune”. Nel 2017 c’era la possibilità inequivocabile di collocare il tribunale nell’ex carcere, “se solo l’amministrazione alla guida del Comune in quel momento avesse chiesto politicamente quella soluzione. Ma non lo ha fatto”. I lavori esecutivi per trasformare l’edificio in carcere minorile non sono ancora cominciati, “dovremmo sottolineare come il carcere minorile in quella collocazione del centro sia inadeguato”. Verona. “Intreccio”, un progetto per i detenuti veronanetwork.it, 6 febbraio 2020 Il laboratorio è aperto a tutti coloro che desiderino condividere tempo e competenze con i partecipanti. Si chiama “Intreccio” il nuovo progetto che si svolge presso la sede dell’associazione Fevoss di Verona, rivolto prevalentemente a carcerati assegnati a lavori esterni o destinatarie di una misura alternativa. Consiste nella creazione di un laboratorio per la produzione di manufatti artigianali in pelle, maglia e uncinetto. I soggetti coinvolti saranno seguiti in un percorso di formazione di alto livello. Il laboratorio è aperto a tutti coloro che desiderino condividere tempo e competenze con i partecipanti, con l’intento di favorire il dialogo tra la comunità locale e le persone ristrette. “L’intreccio” è diretto da Micaela Tosato con la collaborazione di Maria Teresa Ortu, specializzata in giustizia riparativa e mediazione umanistica. L’obiettivo è di costruire un percorso di responsabilizzazione e di riparazione nei confronti della comunità. I prodotti saranno ceduti con offerta libera e il ricavato sarà utilizzato a scopo benefico. Il percorso di responsabilizzazione sarà sostenuto da un processo di inclusione e coesione sociale, destinato a permettere un effettivo reinserimento in società, secondo l’ottica e i valori di una comunità riparativa. Completeranno il percorso una serie di incontri con Fabrizio Maiello (ex detenuto), Antonella Leardi (mamma di Ciro Esposito, ucciso a Roma nel 2014) e Pietro Ioia (Garante dei detenuti a Napoli). Ne seguiranno altri, utili a rafforzare il senso del progetto per i partecipanti e per la comunità. Oristano. Sabato prossimo riunione dei Garanti dei detenuti della Sardegna comune.oristano.it, 6 febbraio 2020 Sabato 8 febbraio, alle 10,30, nella Sala Consiliare del Comune di Oristano, si terrà la riunione dei Garanti delle persone private della libertà personale della Sardegna. Si tratta del primo incontro dei Garanti organizzato in Sardegna dopo l’apertura dei nuovi istituti di detenzione per l’Alta Sicurezza. Insieme al Garante di Oristano Paolo Mocci, saranno presenti Antonello Unida (Garante del Comune di Sassari presso il Carcere AS di Bancali), Edvige Baldino (Garante del Comune di Tempio presso il Carcere AS di Nuchis) e Giovanna Serra (Garante del Comune di Nuoro presso il Carcere AS di Badu e Carros). L’incontro servirà per un confronto sulle criticità registrate durante i loro accessi in istituto ed in occasione dei colloqui con i detenuti ospiti. “La situazione delle Case di reclusione sarde è problematica sotto vari aspetti e sarà l’occasione per poter ascoltare da fonte attendibile l’effettiva situazione delle carceri di alta sicurezza” spiega l’avvocato Paolo Mocci, Garante di Oristano. Alla riunione parteciperà anche Grazia Maria De Matteis, Garante dei diritti dell’infanzia della Regione Sardegna, che presenterà un progetto che con il coinvolgimento dei Garanti sardi e dei direttori dei penitenziari punta a favorire il mantenimento dei rapporti tra genitori detenuti e figli, favorendo l’accesso negli istituti di detenzione dei figli minori dei reclusi secondo i dettami del Protocollo sottoscritto dal Ministero della Giustizia e l’Autorità Garante Nazionale per l’infanzia e l’adolescenza. Catanzaro. Squadra di calcio dei detenuti incontra Ads Amatori Cutro lameziaoggi.it, 6 febbraio 2020 Lo sport è sempre libero, anche in carcere. Si è visto oggi pomeriggio, nel corso della partita di calcio svoltasi tra la squadra Ads Amatori Cutro e una squadra composta dai detenuti della Casa Circondariale di Catanzaro: 5 a 4 l’esito finale, ma l’importante in questo caso è stato davvero partecipare. Perché quei nove goal segnati nel campo di una carcere in 90 minuti dimostrano che quella volontà agonistica, di impegnarsi e di riuscire come e meglio degli altri, attraverso una competizione leale, possono essere parte integrante di un trattamento rieducativo. L’incontro, per il quale è stato designato a titolo gratuito di un arbitro federale, è stato organizzato dalla squadra ospite, e il membro dell’associazione sportiva Francesco Pupa ha ringraziato la direttrice del carcere, Angela Paravati, che ha reso possibile questo momento sportivo in un contesto così particolare. L’incontro è iniziato con uno scambio di doni: il gagliardetto dell’Ads Cutro Amatori per la direzione del carcere ed un piatto realizzato nel laboratorio di ceramica dell’istituto per la squadra ospite, consegnato dall’ispettore Noè Granato. Dopo, una partita che ha tenuto con il fiato sospeso fino alla fine. “Giocare una partita di pallone in carcere non vuol dire solo tornare alla normalità per 90 minuti - ha affermato la direttrice Paravati - ma vuol dire anche rendersi conto dell’importanza di valori come lealtà e spirito di squadra, correttezza nei confronti dei compagni e degli avversari. Valori che possono essere appresi anche su un campo di calcio, ed applicati poi nella quotidianità” Quelle lettere dal mondo di nessuno recensione di Michele Miriade Il Gazzettino, 6 febbraio 2020 “Lettere a Laura dal mondo di nessuno” (Edizioni Società e Cultura, 15 euro). Nella natia Treviso, Laura Ephrikian, conduttrice televisiva prima ed attrice poi, quindi pittrice e scrittrice che si dedica alla solidarietà, ci ritorna ogni tanto dalla capitale, non solo per trovare il fratello Gianni, musicista e direttore d’orchestra che ha seguito le orme di papà Angelo. Infatti Laura è alla Libreria Lovat di Villorba per presentare, domani alle 18.30, il suo “Lettere a Laura dal mondo di nessuno” (Edizioni Società e Cultura, 15 euro). Un libro scritto con Nino Mandalà che affronta, con sensibilità, l’importante questione dei diritti dei detenuti. Confidando in una possibile redenzione. E da trevigiana, davanti ad uno spritz, Laura racconta il suo lavoro. “Si tratta di una storia epistolare, di solidarietà, nata conversando con Nino Mandalà, scrittore siciliano per 7 anni in carcere con l’accusa di essere stato vicino alla mafia. Ho capito che era un uomo desideroso di parlare, di sfogarsi. Ed è iniziato questo dialogo, in cui mi raccontava il suo disagio, la sua disperazione. Ha pagato, si è riabilitato. E queste lettere, non comuni, scritte in maniera straordinaria hanno aiutato anche me. Si parla di anima, di vita, di arte, di poesia e di tanto altro, in modo mai banale ma sempre ispirato e stimolante”. Magari non erano lettere da pubblicare, “ma io ero di altra idea - sostiene l’attrice - ed è nato un libro avvincente, dove due anime si incontrano. Quasi in una corrispondenza intima, un libro piacevole e un invito alle persone che diventano anziane, non vecchie, di dialogare”. Laura tiene molto a questo lavoro, perché svela l’anima di una persona che si salva dalla solitudine, che si riscatta grazie a sentimenti veri, e che quindi vede la speranza. “È un tragitto fatto di emozioni e confessioni che mettono a nudo le anime di due ottantenni - ammette l’autrice - mi piace pensare che quest’incontro sia stato voluto dalle stelle, perché sono convinta che siano le stelle a guidarci verso la conquista di mete altrimenti impensabili”. Quanto all’età, Laura ci ride su: “Non ci si deve sentire vecchi, io non lo sono e alla soglia degli 80 giro tanto e vado in Africa dove da anni sono vicina a persone bisognose”. E sul futuro afferma: “In Kenya, a 70 chilometri da Malindi, è stata costruita una struttura che dovrebbe diventare un ospedale, ma è vuota, quindi il mio obiettivo, cercando sponsor, è riempirla con letti, apparecchiature, sale operatorie, per essere vicini a chi ha bisogno. E sono tanti”. Per il suo impegno nel sociale alla Ephrikian di recente sono stati assegnati i premi Eroi dei diritti umani e, a Capodanno, il Pino Puglisi. Anche Nino Mandalà ringrazia Laura: “Sono stato raggiunto dalla carezza di una signora che non si è fermata sulla soglia della mia indegnità ma l’ha varcata, ha guardato dentro al mio cuore e ha deciso che non meritavo la gogna e mi ha fatto volare al di là delle mura del lager dove sono rimasto segregato per anni”. Del Gaudio, camorrista immaginario e quei giorni nell’inferno del carcere recensione di Irene Cosul Cuffaro La Verità, 6 febbraio 2020 Il disastro professionale e umano dell’ex sindaco di Caserta per un errore giudiziario. Sono le 4 del mattino del 14 luglio 2015 quando la vita di Pio Del Gaudio, incensurato, ex sindaco di Caserta in quota centrodestra, viene sconvolta. In piena notte, è svegliato da cinque carabinieri, tre dei quali a volto coperto, che impugnando i mitra entrano in casa sua. Fuori, intanto, il rumore di un elicottero che sorvola il palazzo. “Signor sindaco, questa è la suo ordinanza di arresto” dicono gli uomini del Ros, consegnando in mano a Del Gaudio 300 pagine. “Nemmeno Michele Zagaria è stato arrestato in questo modo”, commenta ricordando quei momenti, l’ex sindaco, che dopo il plateale blitz viene portato in cella. Lì scopre di essere accusato di corruzione nell’ambito dell’indagine della Dda di Napoli su presunti condizionamenti del clan dei casalesi nella concessione degli appalti nel settore idrico da parte della regione Campania. Un imprenditore, mentre era in auto da solo, presumibilmente sapendo di essere intercettato, parlando in terza persona, aveva detto: “Pio, ti ho dato 20.000 euro nel 2010 per la campagna elettorale per le regionali dell’onorevole Angelo Polverine e, nel 2011; 30.000 euro per la tua campagna elettorale”. Tanto è bastato per sbattere in cella un innocente. Il Tribunale del riesame il 24 luglio 2015, e la Cassazione il 14 dicembre 2016, ribadiscono infatti la sua assoluta estraneità ai fatti contestati dai magistrati della Procura e del tribunale di Napoli, sottolineando l’assoluta assenza di rapporti con l’imprenditore in questione. I giudici ribadiscono inoltre l’assoluta inadeguatezza della “misura di custodia cautelare in carcere”. Pio Del Gaudio, dopo anni dall’errore giudiziario di cui è stato vittima, racconta la sua storia nel libro “Guai a chi ci capita”, nel quale riporta dettagliatamente anche i giorni passati in cella, a cominciare da quel “Avete preso un piccione grosso” detto da un agente della polizia penitenziaria, che l’ha riconosciuto, a un collega che lo stava accompagnando dentro il carcere. Ma la battaglia più dura è iniziata una volta liberato: “L’arresto ha implicato per me un disastro non solo politico e professionale. La mia vita è stata sconvolta, per tutti ero diventato un camorrista. Dopo aver assistito al mio arresto, mio figlio decise di studiare al Nord, a Milano, ma nessuno voleva affittargli una casa. Scrivevano il mio nome su Google e si spaventavano. Perché in Italia, se vieni arrestato, sei comunque sempre colpevole” racconta Del Gaudio, “ma io nella sfortuna sono stato fortunato, la mia vicenda è stata definitivamente archiviata dopo due anni, per altri i tempi sono molto più lunghi. E il ministro Alfonso Bonafede vuole cancellare la prescrizione. Non sa ciò che fa”. Ma oltre al danno, la beffa. Del Gaudio è stato costretto a chiudere lo studio associato con i suoi colleghi commercialisti, aperto 25 anni prima, ha subito un crollo reddituale dell’8o per cento e ha dovuto ricorrere alle cure di uno psicologo. Lo Stato ha quantificato il danno causatogli in 2.500 euro. Solo lo scorso novembre, quattro anni e mezzo dopo il suo rilascio, gli sono state rimosse le cimici dall’auto, come racconta: “Per superare lo stress il dottore mi ha consigliato la corsa. Un giorno, mentre stavo correndo, mi chiamano i carabinieri al telefono dicendomi di andare da loro, in macchina. Dopo anni, mi hanno fatto sapere che ero ancora intercettato, proprio quando stavo iniziando a stemperare l’angoscia”. L’ex sindaco ha più volte raccontato la sua storia, testimoniando quanto la superficialità di qualche pm e gip possa avere conseguenze che non sono immaginabili da chi non finisce dentro la spirale giustizialista. E vuole continuare a farlo: “Io cammino a testa alta. Tutti mi conoscono, e tutti sanno che sono una persona onesta”. La militanza psichiatrica nelle voci dei protagonisti recensione di Nicole Martina Il Manifesto, 6 febbraio 2020 “La realtà non è per tutti. Voci dalla legge Basaglia quarant’anni dopo”, di Antonello D’Elia (Villaggio Maori edizioni). Scritta in una prima persona che ha valore testimoniale, e si alterna a una combattiva oggettività, l’introduzione del libro di Antonello D’Elia, “La realtà non è per tutti. Voci dalla legge Basaglia quarant’anni dopo” (Villaggio Maori edizioni, pp. 189, euro 15,00) è consapevole di piombare in un contesto ostile, a ricordare come un altro mondo sia stato possibile. Il piglio è quello al tempo stesso militante e consapevole dello psichiatra che ha vissuto la stagione migliore mai trascorsa nei servizi preposti alla salute mentale, in un paese, l’Italia, che grazie alla legge 180, preceduta e resa possibile da pratiche di cura assai diffuse, ha funzionato come un faro nel mondo. Solo quella costitutiva istanza alla sopraffazione intrinseca alla natura umana di cui Hobbes ha illuminato il profilo e Freud ha raccolto la malinconica eredità, può giustificare una regressione così violenta come quella praticata nelle istituzioni deputate alla cura e alla accoglienza dei pazienti psichiatrici, a sua volta conseguenza del disinvestimento politico in ogni forma di istruzione, formazione, funzione civilizzatrice. Come si apprende dalla passione di Antonello D’Elia e dalla sua restituzione del clima che vigeva almeno fino agli anni ‘80 inoltrati, non era solo il carisma di Basaglia a contagiare le istituzioni, ma un sapere diffuso che si traduceva in esperienza da trasmettere, un sentire capillare che si era trasformato in senso comune. D’Elia elegge la fiducia a rappresentante ideale di questo clima terapeutico: non la generica benevola propensione verso l’altro che nutre la benevolenza dei profeti disarmati, bensì la attrezzata, rispettosa disposizione verso le manifestazioni più diverse del dolore mentale che mette avanti l’ascolto e fa arretrare il giudizio. La prima delle voci che si susseguono a dare carne e sangue al libro è quella di un possibile alter ego dell’autore, che dal panorama dei ricordi personali, contempla le rovine, non abbandonandosi alla nostalgia, e anzi indagando le responsabilità dei malintesi correnti: “…abbiamo pensato che l’avversario fosse la psichiatria medicalizzata… quella che non ne voleva sapere della centralità delle relazioni… Ci siamo concentrati sull’obiettivo sbagliato… Quella logica non era la causa ma l’effetto: il punto vero era il denaro e la logica aziendale importata nella sanità pubblica”. C’è poi la ragazza, unica femmina di una famiglia siciliana, che si intuisce abbia ecceduto nello sfogare le proprie frustrazioni sentimentali: quattro anni e mezzo in manicomio, altri in giro per diversi ospedali; e la psichiatra un po’ naïve, che racconta le sue prime esperienze non proprio edificanti, con i pazienti, con gli infermieri, con il primario; e, ancora, il tecnico della riabilitazione di un Centro Diurno, l’infermiere professionale dal quale riceviamo il racconto del paziente che un giorno ingoiò un Crocifisso nel tentativo di neutralizzare il proprio diavolo in corpo; l’immigrato che ha avuto la fortuna di imbattersi in bravi operatori; la madre di un bambino autistico, le cui domande sulla natura della patologia tradiscono la razionalizzazione di uno strazio che l’ha resa esperta suo malgrado. E, in fine, un bilancio sullo stato dell’arte: non monocorde, non polemico, solo crudamente realistico, ma non perciò arreso. “Il diritto di opporsi”, un’emozionante battaglia civile contro il razzismo e la povertà recensione di Fabio Ferzetti L’Espresso, 6 febbraio 2020 Il film con Jamie Foxx e Michael B. Jordan racconta in modo lirico una storia vera accaduta in Alabama. In questo emozionante esempio di cinema civile americano ci sono due star dichiarate e una invisibile. Le prime sono gli ottimi Jamie Foxx e Michael B. Jordan, nei panni di un operaio afroamericano che passa sei anni nel braccio della morte per un delitto mai commesso e dell’uomo che riesce a scagionarlo in tribunale. Il vero divo del film però, nero come i suoi clienti, si chiama Bryan Stevenson e fa l’avvocato. A lui, con il suo vero nome, è ispirato il protagonista. Suo è il bestseller da cui è tratto il film (edito in Italia da Fazi). Una storia vera che ha per sfondo l’Alabama, tutt’oggi lo stato più razzista degli Usa malgrado Rosa Parks. Anche se “Just Mercy”, come suona il titolo originale, più che sul razzismo punta il dito contro la sua principale alleata, la povertà. Decisiva, dicono le statistiche, non solo nello sbattere la gente in galera ma nel tenercela. Di qui le novità principali di questo raro e solido esempio di legal thriller “black” (la lotta delle minoranze passa anche da qui, dalla conquista di generi finora occupati dai bianchi). L’avvocato Stevenson infatti riesce a usare la povertà non per dividere ma per unire due vittime collocate dal potere su opposte sponde. Una delle quali, attenzione, è di pelle bianca. Non è un ribaltamento da poco. Di solito l’integrazione va dai neri verso i bianchi, non viceversa. E se l’hawaiano Destin Daniel Cretton ha buon gioco a dettagliare gli abusi e i crimini perpetrati quasi in automatico dal sistema giudiziario Usa (la legge non sanziona gli errori di giudici e poliziotti), le scene più emozionanti del film giocano invariabilmente su due piani. I rapporti allacciati dall’avvocato con la famiglia dell’imputato e con gli altri ospiti del braccio della morte. E la lenta conversione del falso testimone bianco (efficacissimo Tim Blake Nelson). Con qualche imprevista e benvenuta impennata lirica. Su tutte quella lunga e apparentemente immotivata inquadratura iniziale del cielo tra gli alberi che torna e deflagra in tutta la sua potenza molto più tardi. Ospite fisso di Oprah Winfrey, strenuo difensore dei più deboli grazie alla sua organizzazione benefica Equal Justice Initiative, l’ascetico avvocato Stevenson ha aggiunto l’arma del cinema al suo arsenale. Anche se nelle battaglie culturali non basta conquistare generi collaudati. Bisogna crearne di nuovi. Oltre la conciliazione c’è la giustizia sociale di Flaviano Zandonai Vita, 6 febbraio 2020 La lotta alla disuguaglianza è in gran parte monopolizzata da approcci riparativi e risarcitori. Il problema si risolve quindi ripristinando condizioni di uguaglianza che correggono storture strutturali nel sistema economico e sociale attraverso interventi esterni che a tal fine mettono in circolo risorse dedicate. In sintesi, azioni che di solito si basano su trasferimenti monetari e servizi “di ultima istanza” per suturare nell’immediato le ferite nel corpo sociale e sul ritorno in cabina di regia dello Stato, sia nel campo del welfare ma anche dell’economia, al fine di elaborare e gestire nuove politiche mission oriented di medio e lungo periodo. Rimane quindi spazio per strategie che intendono affrontare la stessa sfida agendo però “in corso d’opera”? Ovvero introducendo, più che correttivi, innovazioni sociali nel sistema grazie a soluzioni elaborate secondo modalità sussidiarie? Una domanda non banale soprattutto se posta a organizzazioni di terzo settore e imprese sociali, ma anche a imprese for profit che riconoscono nella coesione non solo un sottoprodotto della responsabilità sociale ma un fattore di competitività. Per questi soggetti, per i primi in particolare, l’azione si concentra soprattutto dove la disuguaglianza si manifesta in forma nuove oppure intervendo sulle cause che la originano, prima ancora che appaia. E la risposta in questo caso consiste soprattutto in nuove soluzioni organizzative e dotazioni di servizi. Due esempi di attualità possono essere utili per comprendere le peculiarità di questo approccio (anche in termini di impatto). Non certo per opporlo a quello dominante, quanto piuttosto per arricchire un quadro di soluzioni capace di adattarsi alla natura mutevole e controversa di una sfida sociale che domina oggi l’agenda della politica, il dibattito tra gli addetti ai lavori e il sentiment dell’opinione pubblica. Il primo è quello delle misure di contrasto alla povertà educativa. Guardando in particolare ai bandi e ai relativi progetti finanziati da Con i Bambini emerge infatti l’intento non tanto di redistribuire risorse per ripristinare le condizioni minime, ma piuttosto di ridisegnare il sistema facendo leva su nuovi attori, ovvero comunità educanti in grado di rispondere al bisogno, ma soprattutto capaci di agire sulle cause economiche e soprattutto culturali che ne sono all’origine. Il secondo esempio riguarda la conciliazione vita lavoro. Recenti dati Istat ed Eurostat hanno il merito sia di restituire la dimensione del fabbisogno - sono 2,8 in Italia e 109 milioni in Europa che lavorano e che hanno in cura minori ma anche anziani e malati - ma anche un quadro di risposte che, tutto sommato, sembra aver colto la sfida anche se non si può parlare di vero e proprio “impatto”. Se è vero infatti che nel corso del tempo si sono progressivamente diffuse pratiche di conciliazione è altrettanto vero che queste si sono risolte soprattutto in innovazioni incrementali, come ad esempio l’adattamento degli orari di lavoro. Così sono rimaste in buona parte irrisolte altre questioni che toccano più da vicino i meccanismi che presidiano l’organizzazione familiare e del lavoro e, ancora più in profondità, il modo in cui si costruiscono progetti di vita a partire da aspirazioni che sono tali nella misura in cui si sanno relazionare con contesti ricchi di stimoli ma anche molto temporanei. Con il progetto Masp l’obiettivo è di incrementare la capacità di innovazione sociale degli attori che quotidianamente fanno, o provano a fare, conciliazione. Da una parte rafforzando e qualificando l’offerta di servizi specialistici e le reti di supporto informali. Ma se si vogliono creare nuove basi culturali superando approcci di natura riparatoria e negoziale che lo stesso termine “conciliazione” tradisce nella sua etimologia, allora occorre introdurre discontinuità ad almeno tre livelli. Il primo, ben esemplificato dalle buone pratiche del progetto Maam e Family Audit, riguarda, di fatto, il modo di fare impresa a livello gestionale ed anche di cultura organizzativa. Il secondo livello riguarda la genitorialità come esercizio di ruolo che spesso richiede, da una parte, un riequilibro dei carichi e, dall’altra, una maggiore capacità di orchestrare interventi esterni che integrano e supportano il nucleo familiare. Un esercizio, quest’ultimo, che richiama in terzo luogo le modalità di progettazione e di esecuzione dei servizi, oggi stretti tra standard produttivi e vincoli di risorse che ne enfatizzano il carattere prestazionale e “sterile” rispetto al contesto ed esigenze di personalizzazione che non sono gestibili “a catalogo” ma attraverso filosofia e metodi di codesign. È un lavoro molto puntuale e complesso quello di migliorare la conciliazione vita lavoro, svolto attraverso il “solito” approccio della social innovation: arricchire e ricombinare i fattori per ottenere soluzioni nuove capaci di generare cambiamenti positivi duraturi. Ma al tempo stesso è indispensabile se si vuole riprogrammare il sistema. Pena il rischio che le soluzioni di ripristino non facciano che staticizzare le cause latenti della disuguaglianza. Che così sarebbero pronte a ripresentarsi non appena la guardia della regolazione e dell’intervento pubblico si dovesse allentare. Lamorgese: “Non si può essere indifferenti. L’odio è un’emergenza” di Carlo Bonini La Repubblica, 6 febbraio 2020 Nel suo ufficio al secondo piano del Viminale, Luciana Lamorgese, ministra dell’Interno, indica cortesemente il divano per gli ospiti che ritiene evidentemente più adatto alla conversazione che ha accettato di affrontare. Sorride. E poi si fa seria. “Le dico la verità, sono piuttosto preoccupata”, esordisce. “E lo sono da ministro dell’Interno e da donna delle Istituzioni, quale sono evidentemente per funzione, ma, soprattutto, quale sento di essere come cittadina e come sono sempre stata. Le lettere al fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari, i messaggi di odio al direttore Carlo Verdelli, sono in sé, e sottolineo in sé, un fatto di estrema gravità. Perché vede, non ha importanza, alla fine, quale tipo di sostanza risulterà essere la polvere che contenevano quei plichi indirizzati a Scalfari. E dunque scoprire che magari si tratta di gesso, o, al contrario, di sostanza stupefacente, o chi sa cos’altro. Né ha importanza sapere quali siano le reali intenzioni di chi manifesta il suo odio contro Verdelli sulla rete o con lettere private. O cosa avesse in testa chi a gennaio ha telefonato alla redazione del vostro giornale annunciando una bomba. Quel che conta è il gesto. Perché il gesto, in sé, indica insieme un’emergenza e un fallimento”. Cominciamo dall’emergenza…. “Prima mi lasci dire una cosa”. Prego… “Voglio che Eugenio Scalfari, Carlo Verdelli, la redazione di Repubblica e tutti coloro che lavorano al giornale sappiano che gli sono vicina. E, mi creda, non è una clausola di stile. È un dovere che sento. Per due ragioni. La prima è perché so cosa si prova a essere oggetto di messaggi d’odio. È successo anche a me dopo aver autorizzato lo sbarco dovuto, perché legittimo e nel pieno rispetto della legge, dei migranti a bordo della Open Arms. Io non ho account social, come tutti sanno, e sono stati i miei figli a raccontarmi il florilegio di epiteti che mi è stato rovesciato addosso dopo quella decisione. “Feccia di donna” credo sia stato il più garbato. Gli altri sono irripetibili. La seconda ragione è che il fondatore di Repubblica, la sua storia e il lavoro di un grande giornale incarnano esattamente i valori che possono far argine a quella che ho definito un’emergenza. Con qualche aggettivo, se vuole”. Quali aggettivi? “Un’emergenza culturale e civile. Che mette in discussione le ragioni stesse del nostro stare insieme. Del patto costituzionale nato dalla Resistenza antifascista e dalla mostruosità della Shoah. La scritta nazista di Mondovì, la violenza verbale riservata a Liliana Segre, lo stillicidio di manifestazioni razziste, xenofobe e direi più in generale il disprezzo per il cosiddetto “diverso”, che si tratti dello stigma inflitto per il colore della pelle, per ragioni di culto religioso o per le inclinazioni sessuali o per la semplice diversità di genere, dimostrano che è stato superato l’argine e dimostrano, per altro, il definitivo divorzio tra significante e significato nell’uso delle parole. Nell’odio in cui siamo immersi c’è spesso assenza totale di pensiero. Assoluta ignoranza della storia. Nonché, il più delle volte, inconsapevolezza di quali ferite si aprano nel ridare corpo a certi fantasmi. È come se nel gesto di odio si riassumesse una nuova “normalità”, una declinazione come un’altra della cultura imperante dell’outing. Ebbene, io a questo fallimento non voglio rassegnarmi e penso non sia giusto rassegnarsi”. Converrà che la Politica porta una qualche responsabilità. Siamo ormai da quasi due anni in una perenne campagna elettorale in cui una parte del campo, e il suo leader, Matteo Salvini, per altro suo predecessore in questo ministero, non si distinguono per sobrietà… “Del senatore Matteo Salvini non parlo. È una regola che mi sono data e a cui non intendo derogare. E non lo dico in tono polemico, davvero. Lo dico perché trasformerebbe quello che mi sta a cuore dire e le ragioni e il senso di questa conversazione in un’altra cosa. Io dico che la Politica, tutta, a prescindere dunque dagli schieramenti, dalle legittime convinzioni di ciascuno, ha urgente bisogno di una igiene delle parole e dei comportamenti. Anche perché la mancanza di igiene e la progressiva assuefazione all’odio ha già prodotto un effetto esiziale”. Quale? “L’indifferenza. Che è qualcosa di persino peggiore del negazionismo o del riduzionismo. O, se si vuole, ne è la conseguenza. A forza di non far caso alle enormità che ascoltiamo o a quello cui assistiamo, a forza di pensare che, appunto, al significante delle parole non corrisponda un significato, e dunque in fondo non ci sia poi da preoccuparsi, questo Paese rischia di ritrovarsi in un tempo che abbiamo sempre pensato non si sarebbe mai potuto ripetere. So che la narrazione riduzionista tende a banalizzare, a smussare, sopire. Ma non è una buona strada. Vede, tempo fa, ascoltando la Segre, quello che mi colpì della sua testimonianza fu il racconto dell’indifferenza che accompagnava le famiglie di ebrei ai vagoni piombati verso i campi di sterminio. “Eravamo invisibili”, diceva la Segre. “Ci vedevano portare via, ma era come se non esistessimo. Come se fossimo trasparenti, perché diversi da loro”. Ecco, l’indifferenza. L’indifferenza è imperdonabile”. E lei come ministro cosa sta facendo contro l’indifferenza? “Ho riattivato il Centro di coordinamento delle attività di analisi e scambio che fa capo alla Presidenza del Consiglio e che vede impegnati anche altri dicasteri, come quello alla Giustizia e all’innovazione tecnologica, oltre alla stessa Presidenza, proprio per contrastare e contenere il contagio dell’odio. È un lavoro complesso che richiede tempo, pazienza ed evidentemente uno sforzo e una collaborazione di tutti gli attori istituzionali. Che, per altro, c’è e che ho riscontrato dal primo giorno della mia esperienza di ministro. Perché investe la sfera della famiglia, dell’educazione, del web, dei social network, non solo della prevenzione di polizia. Detto questo, le dico anche che quando posso, come ministro dell’Interno, vado nelle scuole. È successo la scorsa settimana, qui a Roma, nel quartiere Monteverde. Perché nella trasmissione della memoria, il contatto tra chi parla e chi ascolta è fondamentale. Quello che voglio dire è che la memoria diventa un’altra cosa se passa attraverso la testimonianza. Cito ancora la Segre. Perché ho visto ragazzi piangere mentre raccontava il viaggio verso i campi di sterminio con i buglioli destinati agli escrementi nei vagoni piombati che ad ogni scossone investivano del loro contenuto gli esseri umani accatastati. Ecco vedendo Liliana Segre non risparmiarsi nella sua testimonianza mi sono convinta ancora di più che questo sia il compito non solo di chi è nelle Istituzioni, ma di ciascuno di noi. Testimoniare. Non c’è libro, non c’è giorno della memoria o ricorrenza che tenga, al confronto”. Come ministro dell’Interno ha una competenza specifica su un altro incubatore del linguaggio dell’odio. E mi riferisco agli stadi. Ha intenzione di fare qualcos’altro oltre a quello che già è stato fatto? “Proprio oggi (ieri ndr), incontrerò un rappresentante della Lega Calcio. Perché si può sempre fare qualcosa di più e di meglio e dunque mantenere aperto il dialogo e il confronto. Detto questo, ci tengo a dire che ho molto apprezzato le iniziative assunte recentemente e spontaneamente dalla Roma e dalla Lazio non solo per isolare, ma per stigmatizzare un certo tipo di linguaggio e di comportamenti. Sono questo tipo di iniziative che aiutano a non essere indifferenti. A segnalare che c’è un confine che non può e non deve essere superato”. Quando si parla di cultura e di linguaggio dell’odio, la questione riguarda anche un lavoro non concluso sulle forze dell’ordine, è d’accordo? “Assolutamente. E infatti, con il capo della Polizia, continuiamo a lavorare sulla formazione dei nostri agenti. Che sono esposti e chiamati a intervenire in questo nuovo contesto che ho definito di emergenza culturale e civile. È importante avere e dimostrare una sensibilità spiccata, peculiare. Perché abbiamo a che fare con una nuova dimensione. Quando dico che è necessaria trasmissione di memoria, esempio nei comportamenti, ovviamente mi riferisco a tutti. Nessuno escluso. Perché la posta in gioco è il nostro futuro”. Cioè? “Che Paese vogliamo consegnare ai ragazzi e ai giovani che domani saranno la sua classe dirigente? Intorno a quali regole dello stare insieme vogliamo ritrovarci, riconoscerci? Ecco perché ho voluto cogliere l’occasione di quanto è accaduto e sta accadendo a Repubblica per questa conversazione. Perché il problema non è a chi tocca oggi. A quale testata giornalistica, a quale singolo giornalista, a quale esponente politico, a quale cittadino. Penso che quelle lettere, quelle minacce, parlino a tutta l’informazione italiana. Alla sua indipendenza. Alla funzione che assolve. Ancor più decisiva in un tempo dominato dalle fake news, quelle su cui si costruisce poi un umore, un discorso pubblico fuorviante. E che per questo non si possa e non si debba tacere”. Lei, a dire il vero, non parla molto come ministro… “È vero. Perché penso che lo imponga e lo richieda il ruolo di ministro dell’Interno. E perché cerco di farlo quando ritengo sia utile. E quando il momento lo consente, per evitare, appunto, che le mie parole possano diventare altro. Di una cosa comunque posso assicurarla. Non sono un ministro indifferente. E lavoro ogni giorno per questo seduta a quella scrivania che occupo in questo momento”. Accoglienza migranti, il Viminale autorizza l’aumento dei rimborsi di Cristina Nadotti La Repubblica, 6 febbraio 2020 Le strutture si erano viste tagliare da 35 a 19 euro la quota per assistere ogni persona dall’ex ministro Salvini. Ora i prefetti potranno alzare le quote. Il viceministro Mauri: “Scelta sacrosanta per evitare il collasso del sistema”. Il ministero dell’Interno ha inviato una circolare ai prefetti per aumentare i rimborsi per i migranti accolti. L’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva infatti tagliato da 35 a 19-26 euro il rimborso per ogni migrante ospitato nelle strutture di accoglienza e per effetto del taglio tanti bandi lanciati dalle prefetture sono andati deserti, creando un problema che le prefetture hanno segnalato al Viminale. Le cifre stabilite, che erano state diminuite già dal ministro Minniti e in seguito ulteriormente ridotte da Salvini, erano appena necessarie a garantire vitto e alloggio e non permettevano alcun progetto di reale accoglienza o inserimento. Per questo, la maggior parte delle associazioni, consapevole di non poter assicurare un servizio non hanno partecipato ai bandi delle prefetture. Per ovviare al problema molti prefetti avevano chiesto ai gestori di servizi di accoglienza di continuare a operare in proroga. Adesso, il ministero ha studiato il dossier e - in seguito ad un parere chiesto all’Anac - ha inviato una circolare ai prefetti, per indicare che potranno essere aumentati i rimborsi per ogni migrante accolto. Con il documento si consente che, nel caso di mancate presentazioni di offerte ad una gara, si possa ricorrere alla procedura negoziata senza bando. Le prefetture, così, “possono individuare alcuni operatori economici da consultare, selezionando l’offerta migliore”. E se si verifica che un prezzo d’asta è sottostimato, “si potrebbe procedere a variare” le singole voci che compongono il costo medio. Prevista inoltre la possibilità per il migrante di accedere ad un servizio di assistenza sanitaria complementare da porre a carico dell’appaltatore, che può essere rimborsato a parte rispetto al prezzo pro capite al giorno posti a base di gara. Ed i costi possono crescere anche per la necessità di aumentare il personale di vigilanza nei centri a seguito di danneggiamenti. “La scelta del ministero dell’Interno di rivedere alcuni criteri tecnici per l’attribuzione di risorse al sistema di Prima accoglienza è sacrosanta - dice il viceministro Mauri - Dopo un anno dall’entrata in vigore delle nuove norme volute da Salvini il sistema è completamente bloccato. Il problema che si è verificato è che le nuove gare pubbliche, necessarie per gestione dei centri di accoglienza, sono andate deserte. Era inevitabile che succedesse dopo il taglio drastico. E sono convinto che sia stata una scelta deliberata quella dell’ex Ministro dell’Interno. Per evitare il collasso completo del nostro sistema di accoglienza, e le inevitabili ripercussioni sui cittadini, era necessario perciò un intervento di manutenzione. È quello che si è fatto. Salvini aveva lasciato la macchina senza benzina. Noi in questo modo l’abbiamo rimessa in marcia. Nell’interesse di tutti”. L’Arci, che ha rinunciato alla gestione di 30 progetti e assicurava accoglienza a circa 4mila persone, saluta la decisione del Viminale come “una buona notizia” e osserva: “Dopo la modifica delle regole per la gestione dei centri di accoglienza straordinaria (Cas), il taglio dei servizi per l’integrazione nel capitolato deciso dall’ex ministro Salvini, abbiamo deciso come Arci, insieme a tante altre organizzazioni, di disertare le gare delle prefetture. Per noi i percorsi di integrazione sono irrinunciabili sia per la dignità delle persone accolte, che per l’attenzione al territorio”. “L’assenza di misure di integrazione e una accoglienza che si traduce in albergaggio, - continua l’Arci - produce danni alle persone (quasi tutti hanno subito violenze e torture e necessitano di attenzione e cura e quindi di professionalità) e alimenta il disagio sociale che ricade sui comuni, oltre che alimentare l’immagine negativa degli stranieri (risultato utile a Salvini). Se il governo ha deciso di ripristinare le attività di integrazione è davvero una buona notizia. Speriamo non si tratti di un ritocco ma di una modifica sostanziale. Uscire dalla stagione del razzismo di Stato e affrontare le questioni sociali per quello che sono, ricercando soluzioni giuste ed efficaci, dovrebbe essere una priorità per questo governo”. Cancellata l’integrazione, per gli immigrati regolari e non l’Italia è la terra di nessuno di Sergio Valzania Il Dubbio, 6 febbraio 2020 Padre Camillo Ripamonti è il presidente del Centro Astalli, l’ufficio nazionale italiano dei gesuiti per il servizio ai rifugiati. Mi riceve in una sala conferenze ricavata da un sotterraneo in via del Collegio Romano. “Ci sono quattro temi principali riguardo all’immigrazione di cui tenere conto in questi tempi”, dice. “Si tratta dei cambiamenti occorsi alle modalità di accoglienza, del ridimensionamento, quasi la cancellazione, dei programmi di integrazione, dell’abolizione della protezione umanitaria e, più importante ancora, della trasformazione che ha subito in Italia la percezione diffusa degli immigrati e di chi li aiuta”. Chiedo di iniziare precisando i primi punti. “L’accoglienza riguarda il soddisfacimento dei bisogni primari dei richiedenti asilo. L’integrazione è qualcosa di molto più complesso, consiste nel processo di inserimento delle persone che arrivano nel nuovo paese nel quale adesso si trovano. Si tratta di un percorso bidirezionale. La pura e semplice assimilazione risulta impossibile, in una società dinamica, in trasformazione, nella quale un’identità stabile non esiste. Purtroppo manca l’idea che chi arriva arricchisce la nostra società, non la rende più povera, e non solo con la sua forza lavoro, anche con il bagaglio culturale che possiede”. La situazione sta cambiando? In che direzione? “Era in corso un processo positivo. Il Ministero degli Interni sosteneva un piano di integrazione basato sui centri SPRAR, realtà piccole e diffuse quanto possibile, sviluppate con il coinvolgimento delle amministrazioni locali e comprensivi di strumenti come corsi di italiano, percorsi di inserimento, creazione di servizi integrati, capaci di operare a favore sia dei locali che degli immigrati. Adesso li hanno sostituiti i Siproimi, che sono molto meno collegati al territorio, non prevedono alcuna forma di integrazione, e dai quali sono esclusi i richiedenti asilo”. Domando chiarimenti rispetto a questo cambiamento e alle qualifiche attribuite agli immigrati. Padre Ripamonti fa un sorriso rassegnato e mi consegna un depliant che ha portato con sé. Leggo, nell’apposito Dizionario, che esistono: rifugiati, sfollati interni, migranti forzati, richiedenti asilo, persone che godono della protezione sussidiaria, minori stranieri non accompagnati e infine migranti irregolari. Nella pagina precedente c’è scritto che secondo l’Onu ci sono oggi circa 70 milioni di persone costrette alla fuga dalle loro case e di queste 25 milioni sono rifugiati, più della metà dei quali di età inferiore ai 18 anni. “Nel 2019 in Italia sono arrivate poche persone, meno di 30.000. Il problema riguarda principalmente gli immigrati già presenti. Non i circa 5 milioni di regolari, che lavorano quasi tutti e hanno famiglia, ma i 500/700 mila irregolari, per i quali la situazione si è fatta più complessa negli ultimi mesi, da quando chi non ha diritto all’asilo non può più ottenere la protezione umanitaria”. Cosa succede a chi la aveva? “Rischiano di precipitare nella marginalità. I più inseriti riescono ad avere un rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Chi non si trova nelle condizioni di ottenerlo, per esempio perché non lavora al momento della scadenza, deve accontentarsi di un permesso di soggiorno speciale, a rischio costante di non vederselo rinnovare, e che comunque non può essere trasformato in un permesso per motivi di lavoro. Anche se consente di lavorare. Una situazione complicata, di grande insicurezza, ma non la peggiore”. Chi si trova sul gradino più basso? “Chi ha ricevuto un foglio di via, che gli intima di lasciare il Paese entro un mese”. E se non lo fa? “Se viene fermato dalla polizia rischia di finire in un Cpr, Centro Per il Rimpatrio, dove con le ultime leggi e possibile che venga trattenuto per 180 giorni. Poi, se non si è riusciti a rimpatriarlo, e i rimpatri effettuati sono pochissimi dato il costo elevato e la difficoltà di ottenere l’assenso del paese di rientro, viene rimesso in libertà e rischia di ricevere un nuovo foglio di via, e poi un altro e ancora”. Non è un sistema che funzioni... “No. Assolutamente. Il problema sta nel fatto che la legge italiana sull’immigrazione ha vent’anni, è ancora la Bossi- Fini, anche se modificata. Andrebbe riscritta completamente, tenendo conto che col tempo il fenomeno è cambiato, è divenuto globale. Occorrono politiche di investimenti nei paesi di origine, la creazione di canali attraverso i quali far transitare quote prestabilite di persone, togliendole dalle mani dei trafficanti. L’ultimo decreto che stabiliva cifre di flussi di accoglienza è di quasi dieci anni fa, con Maroni Ministro degli Interni. Insieme ad altre associazioni abbiamo presentato una proposta di legge popolare, si chiama Ero Straniero, che porterebbe alla messa in atto di un modo efficace e responsabile di governare il fenomeno, ma ci sono pochissime speranze di approvazione”. Perché? “Sui migranti si giocano consenso e assetti politici. È diventato difficile affrontare la questione in modo “ragionevole”, senza ideologie né preconcetti, cercando di governarlo nella sua complessità. Nessuno parla più nemmeno dello ius soli, o culturae…”. Padre Ripamonti abbassa gli occhi e scuote la testa. Poi la rialza e mi fissa con sguardo deciso. Sorride perfino. Una mappa interattiva per far luce sui luoghi di detenzione dei migranti di Giovanna Borrelli altreconomia.it, 6 febbraio 2020 Dagli otto centri per il rimpatrio in Italia, come Ponte Galeria o Gradisca d’Isonzo, agli altrettanti poli di detenzione preventiva in Grecia: la piattaforma Landscapes of Border Control raccoglie, aggiornandoli, materiali sui luoghi di detenzione per migranti e racconta gli effetti e le conseguenze delle politiche di controllo dei confini in tutto il mondo. Un progetto ideato da ricercatori del Centro di criminologia dell’Università di Oxford. “Lì dentro ci sono delle gabbie dove succedono delle cose terribili. Non so se riesco a raccontare tutto quello che ho vissuto lì”. Malik, cittadino senegalese in Italia da trent’anni, descrive così il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Bari Palese, in Puglia, dove ha passato tre mesi nel 2018. Si definisce una “vittima” del sistema di detenzione per i migranti. Una misura istituita nel 1998 con la legge Turco-Napolitano, il Testo unico sull’immigrazione, e che prevede il trasferimento in strutture specifiche di migranti senza regolari documenti che non possono essere immediatamente rimpatriati. Quando gli è stato revocato il permesso di soggiorno, Malik lavorava come venditore ambulante nei mercati di diverse città nelle Marche con una regolare licenza. Da un giorno all’altro, racconta, viene trasferito al Cpr di Bari: “Avrei preferito stare sei mesi in carcere invece che una sola settimana dentro al centro”. La sua storia è stata raccolta dal progetto Melting Pot Europa e Borders of Borders e si può trovare oggi, insieme a quella di altri Cpr e altri detenuti, su Landscapes of Border Control, una mappa interattiva in continuo aggiornamento che raccoglie materiali e testimonianze sui luoghi di detenzione per migranti. Si tratta di un progetto collaborativo, ideato da Border Criminologies, una rete di ricercatori e operatori del settore che fa parte del Centro di criminologia dell’Università di Oxford e studia gli effetti e le conseguenze delle politiche di controllo dei confini in tutto il mondo. La piattaforma è stata progettata per offrire a Ong, gruppi di solidarietà, (ex) detenuti uno strumento per comunicare le loro esperienze e diffondere ad un pubblico più ampio e globale le informazioni sulle condizioni all’interno dei centri. Il progetto è nato da un’idea di Andriani Fili, ricercatrice greca, che per molti anni ha fatto ricerche sulla detenzione in Grecia. Nel portare avanti il suo lavoro aveva riscontrato molte difficoltà a trovare informazioni affidabili sul sistema di detenzione nei media tradizionali. La conseguenza principale di questa carenza era la mancanza di un dibattito pubblico informato sul tema. “Crediamo che questo sia un buon momento per promuovere maggiore trasparenza su ciò che accade dentro i centri e per diffondere anche tutte le conoscenze acquisite finora”, spiega ad Altreconomia Francesca Esposito, ricercatrice per il centro di Oxford. I primi materiali raccolti vengono dall’Italia e dalla Grecia, Paesi considerati chiave per la sicurezza delle frontiere europee. “I centri in Grecia sembrano essere più sovraffollati di quelli italiani -continua Esposito- e con condizioni di vita peggiori. Ma anche in Italia sono ampiamente segnalate mancanza di igiene, cibo di scarsa qualità, mancanza di assistenza sanitaria e di assistenza legale”. Tra le prime prove raccolte emergono, per entrambi i paesi, la detenzione di minori non accompagnati e di altri gruppi vulnerabili come donne vittime di violenza sessuale e, in particolare, della tratta di esseri umani. Sono presenti anche persone con gravi problemi di salute mentale, richiedenti asilo che sono stati vittime di tortura nei loro paesi di origine o in quelli di transito. In Grecia i centri sono gestiti dalla polizia: “Questo significa che non c’è quasi nessun supporto psico-sociale per i detenuti. Un problema che aggrava la mancanza di supporto legale e di assistenza medica -spiega la ricercatrice-. Nel complesso, comunque, dalla piattaforma emergono diverse forme di abusi e violazioni dei diritti umani sia in Grecia che in Italia”. La bassa qualità dei servizi italiani si deve spesso alle spese molto basse sostenute dalle organizzazioni del terzo settore che gestiscono i centri. Conseguenza della logica alla base delle gare d’appalto che premiano l’offerta economicamente più vantaggiosa per assegnare la gestione dei centri. La relazione al Parlamento del 2019 del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, presieduto da Mauro Palma, riporta le segnalazioni di diversi osservatori del Terzo settore che sottolineano come “una maggiore concorrenza fra soggetti interessati alla gestione dei Centri e una conseguente corsa all’abbassamento dei costi abbia ridotto notevolmente la qualità dei servizi erogati (dal servizio mensa a quello sanitario fino a quello di assistenza psicologica) e abbia pregiudicato il pieno rispetto dei diritti delle persone”. Sulla mappa si possono trovare tutti i centri presenti sul territorio italiano e greco. Sono otto i Cpr in Italia e otto i centri di detenzione preventiva in Grecia. Ad Atene è segnalata, inoltre, la struttura di detenzione speciale dell’aeroporto, pensata per fornire breve permanenza a chi cerca di entrare senza documenti legali in Grecia, prima di essere trasferito in altri centri. Per ognuno dei punti sulla mappa sono disponibili le informazioni generali sul centro e altri materiali di approfondimento, come relazioni delle organizzazioni per i diritti umani, immagini, video e audio. Le storie raccolte descrivono le condizioni degradanti di vita all’interno delle strutture, raccontano episodi di violenza e di privazione dei diritti. Ma vogliono anche dare voce alle lotte di coloro che vivono all’interno e sono colpiti dalle misure detentive. L’obiettivo è denunciare “l’allarmante aumento dei centri di detenzione in tutto il mondo” come politica di difesa dei confini, soprattutto in Grecia e in Italia. Un problema sottolineato anche nella relazione del 2019 dal Garante Nazionale dei diritti dei detenuti, secondo il quale la detenzione amministrativa italiana non rispetta l’orientamento consolidato del diritto internazionale che limita la sua applicazione a misura d’eccezione. Viene utilizzata invece “quale principale strumento finalizzato all’espulsione degli stranieri irregolarmente presenti sul territorio, al punto che da eccezione tende a trasformarsi in regola”. Inoltre il decreto Salvini, poi convertito in legge 132/2018, ha eliminato la protezione umanitaria potenzialmente aumentando il numero di persone senza permesso e quindi detenibile. A Macomer, in Sardegna, è in fase di apertura un nuovo centro, mentre a dicembre è stato riaperto quello di Gradisca d’Isonzo, in Friuli Venezia Giulia. Qui, il 18 gennaio Vakhtang Enukidze, cittadino georgiano, è morto a causa di un edema polmonare, del quale le indagini devono ancora stabilire la causa. Il secondo decesso del 2020 dopo la morte di un ragazzo tunisino avvenuta a Caltanissetta pochi giorni prima. Risalgono ai primi giorni del 2020 le proteste dei migranti al Cpr di Torino che -secondo quanto riportato in una lettera al prefetto da parte di alcune organizzazioni- hanno reso la struttura inagibile. Per tutto l’ultimo fine settimana di gennaio gli attivisti di numerose associazioni piemontesi hanno portato avanti una protesta contro le condizioni in cui vivono le persone all’interno del centro. “Noi pensiamo che la soluzione definitiva sia chiudere i Cpr - afferma Francesca Esposito. La pratica di trattenere persone per questioni legate all’immigrazione è molto recente, ma non è necessaria. Si tratta piuttosto di una scelta politica, di cui sono sempre più chiari i danni e l’inefficacia, oltre che i costi finanziari”. Sono già molte le Ong che hanno collaborato con Border Criminologies. Tra le organizzazioni italiane ci sono l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), LasciateCIEntrare, Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (Cild), Antigone, Sant’Egidio, A Buon Diritto. Ma il progetto è solo all’inizio, conclude Esposito: “Ci auguriamo che Ong, esponenti del mondo accademico e cittadini di tutto il mondo entrino a far parte del progetto. Vogliamo ampliare la nostra copertura il più presto possibile”. L’Ue e la vergognosa missione in Iran: dimenticati i 1500 morti durante la repressione di Elisabetta Zamparutti* Il Riformista, 6 febbraio 2020 Alla Camera dei Deputati si è svolta una conferenza stampa promossa da Nessuno tocchi Caino-Spes contra spem per dire, come dicono i manifestanti anti-regime in Iran: bisharaf che in persiano vuol dire vergogna. Vergogna del regime iraniano ma vergogna anche di un’Europa che si relaziona ad esso solo in termini di accordo nucleare o di aspetti economici senza minimamente tenere conto della repressione ai danni del popolo. L’evento di oggi è stato una risposta alla visita di questi giorni dell’Alto Rappresentante UE per la politica estera Joseph Borrel in Iran. Una vista che è stata considerata una burocratica legittimazione del regime tanto da parte dell’Amb. ed ex Ministro degli esteri Giulio Maria Terzi, quanto da parte dei parlamentari Roberto Rampi (PD), Renata Polverini (FI), Federico Mollicone (FdI), dall’esponente del Partito Radicale Laura Harth e di Behzad Bahrebab della Resistenza Iraniana che hanno partecipato all’incontro di oggi, Borrell ha infatti detto di “aver avuto mandato dal Consiglio Affari Esteri europeo per andare in Iran a seguito dei tragici eventi avvenuti dall’inizio dell’anno al fine di accrescere la stabilità e la fiducia tra gli attori della regione il che è importante anche per gli europei. Perché la sicurezza e la stabilità nella regione riguarda direttamente anche la nostra sicurezza e stabilità”. Non ha però speso una parola sugli almeno 1.500 morti durante la repressione, sui 12.000 arrestati di cui nessuno sa nulla né sulla natura sanguinaria di questo regime in guerra da quarant’anni con il popolo iraniano prima ancora che con Paesi stranieri. In questo modo per l’Europa, diritti umani e Stato di Diritto, sono fattori non rilevanti per la stabilità e la sicurezza. Per Nessuno tocchi Caino-Spes contra spem questo stato delle cose rende sempre più urgente far conoscere la natura del regime iraniano, chi sono gli uomini ai vertici di istituzioni ormai al collasso e che nulla hanno da invidiare a quelle dei regimi più sanguinari, a partire da quello nazista. Perché non possiamo rassegnarci ad una Europa che dopo avere fatto l’esperienza delle dittature e di tragedie come la shoah o il genocidio nell’ex Yugoslavia non sia in grado di riconoscerle e contrastarle quando se le trova davanti. Da qui l’appello uscito dalla conferenze stampa affinché l’Europa ponga il rispetto dei diritti umani come prioritaria nelle sue relazioni con l’Iran e affinché le Nazioni Unite istituiscano una commissione di inchiesta indipendente sulla carneficina causata dalla repressione seguita alle manifestazioni partite lo scorso mese di novembre, visitino le carceri dove sono detenuti i manifestanti arrestati e identifichino i responsabili di questa repressione. *Tesoriere di Nessuno tocchi caino-Spes contra spem