Misure alternative al carcere: crescita esponenziale grazie al Terzo settore csvnet.it, 5 febbraio 2020 Il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità ha presentato i numeri di messa alla prova e lavori di pubblica utilità: quasi 40mila casi presi in carico nel 2019, oltre 7mila le convenzioni stipulate tra tribunali ed enti pubblici e non profit, tra cui Croce rossa italiana, Lega italiana lotta ai tumori, Legambiente e anche tanti Centri di servizio. Dipingono il volto dell’Italia solidale e socialmente attiva, quella che in prima persona “si mette alla prova” aprendo le porte delle proprie associazioni a chi è alle prese con la giustizia, seppure per reati minori: sono i numeri che caratterizzano a livello nazionale la messa alla prova e i lavori di pubblica utilità, due istituti sui quali non tutti inizialmente avevano creduto e che invece registrano un aumento esponenziale che stupisce perfino gli addetti ai lavori. 511 i casi nel 2014, anno in cui è entrata in vigore la legge sulla messa alla prova, quasi 40 mila (39.350) quelli presi in carico nel 2019: con una linea che emerge in verticale su tutte le altre all’interno del grafico che disegna l’andamento delle misure e della sanzioni di comunità. Poco più di 800 i procedimenti in carico agli uffici di esecuzione penale esterna per i lavori di pubblica utilità nel 2011, 17.511 quelli del 2019. Riservata a chi per la prima volta commette un reato con pene edittali fino a 4 anni, la messa alla prova (Map) è rivolta agli imputati e prevede la sospensione del procedimento, con alleggerimento dei carichi di lavoro per i tribunali ordinari e la possibilità di evitare una condanna per la persona sotto processo. Mentre il lavoro di pubblica utilità (Lpu) coinvolge i condannati (per reati connessi al testo unico sugli stupefacenti o legati alla violazione del codice della strada) e consente di scontare la pena impegnandosi in opere a favore della collettività. Entrambi gli istituti prevedono lo svolgimento di ore di lavoro non retribuito all’interno di strutture convenzionate con il ministero. E tra il tribunale che può applicare l’una o l’altra misura e le associazioni di volontariato o gli enti nazionali che accolgono imputati e condannati, c’è l’attività del Dipartimento per la Giustizia minorile e di Comunità a tessere i contatti affinché la rete pronta ad accogliere un numero di persone perennemente in aumento abbia maglie sempre più fitte in grado di raggiungere anche il più piccolo paesino di provincia. E, nello stesso tempo, di offrire collaborazioni capaci anche di abbattere la recidiva e prevenire i reati. I dati elaborati dal Dipartimento parlano di 18.214 persone in carico per la messa alla prova (al 15 gennaio 2020), con una netta presenza maschile: 15.339 uomini e 2.875 donne. Mentre su un totale di 8.331 persone condannate ai lavori di pubblica utilità, 7.460 sono uomini e 871 donne. Le convenzioni promosse dal Dipartimento sia per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità da parte degli imputati “messi alla prova” che dei condannati agli Lpu, al 31 dicembre 2019 sono state 7.255 con una ripartizione geografica che vede il nord Italia in testa con il 47% del totale, seguito dal centro (28%) e dal sud (25%). Il nord si caratterizza anche per il numero prevalente di convenzioni sottoscritte con gli enti pubblici (1.890) rispetto a quelle con enti non profit (1.554), che invece vedono un trend diverso nelle altre macroaree in cui le convenzioni con enti non profit (1.311 al centro e 1.050 al sud) prevalgono su quelle che coinvolgono enti pubblici (717 al centro e 733 nel sud Italia). Venezia, ufficio interdistrettuale che comprende Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, è in testa alla classifica delle convenzioni sottoscritte dai tribunali del proprio territorio di competenza per entrambi gli istituti con un totale di 1.329, seguita da Milano (Lombardia) 1.221, Torino (Valle d’Aosta, Piemonte e Liguria) 894, Roma (Lazio, Abruzzo e Molise) 763, Bologna (Emilia Romagna e Marche) 682 e Firenze (Toscana e Umbria) 583. Fanalino di coda Catanzaro (Calabria) con 123 convenzioni attivate, preceduto da Napoli (Campania) 213, Palermo (Sicilia) 432, Bari (Puglia e Basilicata) 503 e Cagliari (Sardegna) 512. “Quello che registriamo è un dato non del tutto soddisfacente, perché le potenzialità dei due istituti sono tali che meriterebbero una risposta ben più corposa, però il trend è in soddisfacente aumento - commenta il capo dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, Gemma Tuccillo. I numeri ci dicono che il percorso intrapreso è quello giusto e gli accordi sottoscritti con organismi nazionali ci permettono di rendere ancora più capillare la possibilità di accesso. Ed è questo uno dei nostri maggiori obiettivi. Il bilancio odierno rappresenta uno stimolo per proseguire in questa direzione”. A oggi risultano stipulate convenzioni nazionali con la Croce Rossa Italiana per 634 posti, l’Ente nazionale protezione animali per 300 posti, l’Istituto Don Calabria per 53 posti, il Fondo Ambiente Italiano per 41 posti, la Lega Italiana Lotta ai Tumori per 31 posti, l’Associazione Familiari Vittime della Strada - Basta sangue sulle strade Onlus per 20 posti, l’Unione sportiva Acli per 29, Legambiente per 17 posti. Convenzioni che rendono disponibili complessivamente 1.057 posti per lo svolgimento del lavoro in favore della collettività. “Cifre più che raddoppiate rispetto allo scorso anno - commentano dal Dipartimento - e destinate ad aumentare con il consolidarsi della collaborazione e al virtuoso dispiegarsi delle attività”. Sono tanti anche i Centri di servizio che in tutta Italia in questi anni hanno svolto un ruolo di ponte tra gli Uffici di esecuzione penale esterna e le associazioni locali disponibili ad accogliere persone interessate da queste misure alternative al carcere. Molti infatti sono quelli che hanno siglato specifici accordi con gli Uepe del proprio territorio di riferimento. Per quanto riguarda, invece, i protocolli d’intesa nazionali, si registrano due importanti accordi sottoscritti rispettivamente con l’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti, che ha favorito la stipula a livello locale di numerose convenzioni per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità sia nell’ambito della sospensione del procedimento con messa alla prova per adulti, sia nell’ambito dell’infrazione al codice della strada, e, nel novembre scorso, con la Caritas Nazionale, con circa 65 convenzioni stipulate dai tribunali a livello locale. A questi si aggiunge un primo protocollo stipulato nel 2016 con l’associazione “Libera” contro le mafie, dal quale sono scaturite a livello locale diverse forme di collaborazione con gli uffici di esecuzione penale esterna per la promozione del lavoro di pubblica utilità e di programmi di giustizia riparativa, specialmente nell’ambito della messa alla prova. “Sovraffollamento, i dati del ministro e quelli del ministero non coincidono” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 febbraio 2020 Roberto Giachetti, di Italia Viva, ha presentato un’interrogazione parlamentare. Arriva in Parlamento il rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) sulle condizioni di detenzione in Italia. A farlo con un’interrogazione parlamentare rivolta al ministro della Giustizia è Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva. Il parlamentare mette in evidenza la contraddizione tra quanto riferito dal guardasigilli e quanto affermato dal suo gabinetto in risposta al Cpt. Ma andiamo con ordine. Il rapporto in questione riferisce di abusi, maltrattamenti, condizioni di isolamento inaccettabili soprattutto nel regime speciale del 41bis e nelle sue “aree riservate”. Sul sovraffollamento, Giachetti sottolinea che dal 2016 ad oggi si registrano quasi novemila detenuti in più e ciò è avvenuto dopo il forte calo seguito alla cosiddetta “sentenza Torreggiani” del 2013 e ai provvedimenti “tampone”, varati subito dopo l’esemplare e umiliante condanna dell’Italia per sistematici trattamenti inumani e degradanti nelle nostre carceri. Il parlamentare spiega anche che al 31 dicembre 2019 i detenuti ristretti nelle carceri italiane sono 60.769, a fronte di 50.688 posti regolamentari di cui 3.666 indisponibili per inagibilità e/ o ristrutturazioni. La capacità effettiva risulta di 47.022 posti, quindi il sovraffollamento effettivo è del 129,24 per cento a livello nazionale, con punte che superano il 150 per cento in 46 istituti, in cui 17.418 detenuti sono costretti a vivere in 10.232 posti. Entrando nello specifico, il parlamentare di Italia Viva sviscera i dati del sovraffollamento spiegando che il primato spetta gli istituti penitenziari di Larino con il 214 per cento, Taranto 203 per cento, Como 196 per cento, Monza 192 per cento, Milano San Vittore 186 per cento, Lecce 186 per cento, Latina 184 per cento, Brescia 183 per cento, Varese 183 per cento, Busto Arsizio 182 per cento, Lucca 181 per cento. Inoltre gli istituti che superano la media del sovraffollamento nazionale sono 97, con ben 35.965 detenuti per 23.385 posti. “Questa situazione - si legge sempre nell’interrogazione del parlamentare - si ripercuote drammaticamente nella vita detentiva, causando seri problemi igienico- sanitari e fatiscenza dei luoghi, difficile accesso alle cure sanitarie, scarse attività trattamentali quali studio e lavoro, arduo accesso alle misure alternative per l’eccessivo carico di lavoro dei pochi e sottodimensionati educatori, assistenti sociali, psicologi e magistrati di sorveglianza”. Giachetti critica il ministro spiegando che l’unico riferimento, peraltro indiretto, al sovraffollamento, nella relazione del guardasigilli, è relativo all’edilizia penitenziaria e che nelle comunicazioni al Parlamento si riscontra una contraddittorietà tra quanto riferito il 28 gennaio 2020 dal ministro e quanto affermato dal suo gabinetto in risposta al Comitato europeo per la prevenzione delle torture (Cpt) sulla ripresa del sovraffollamento”. In Parlamento, il ministro ha parlato di uno stanziamento, da oggi ai prossimi 13 anni, di circa 350 milioni di euro per creare nuovi posti, “senza specificare quanti - denuncia il deputato di Italia Viva -, se non i pochi già decisi nelle passate legislature relativi ai padiglioni di Lecce, Parma e Trani, per un totale di 592 nuovi posti e altri 400 dei nuovi padiglioni di Taranto e Sulmona che verranno consegnati quest’anno”. Giachetti fa appunto notare che il gabinetto del ministero della Giustizia, invece, ha riferito al Comitato europeo per la prevenzione delle torture (Cpt) di 5.000 nuovi posti, che saranno costruiti nei prossimi 5 anni, “al fine di raggiungere l’obiettivo di 60.000 posti di detenzione regolari disponibili, dando quindi per scontato che altri 5.000 posti saranno prossimamente fruibili non si sa come”. Si individuano quindi due diversi piani di edilizia penitenziaria: il primo, quello riscontrabile nelle comunicazioni del ministro interrogato che prospetta un piano carceri da qui a 13 anni; il secondo, rintracciabile nella risposta fornita dal gabinetto al Cpt, velocissimo, di 5 anni per 10.000 nuovi posti. “Quali iniziative intenda assumere nell’immediato per fronteggiare il fenomeno del sovraffollamento penitenziario?”, domanda Giachetti, chiedendo inoltre “se esista un piano di edilizia penitenziaria scadenzato nel tempo e se intenda farlo conoscere all’interrogante, con riguardo alla costruzione di nuovi istituti penitenziari, di nuovi padiglioni detentivi, alla ristrutturazione e all’adeguamento del patrimonio esistente, il tutto dettagliato nelle differenti caratteristiche di ogni singolo intervento, nei suoi tempi di realizzazione, nei suoi singoli costi”. Inoltre Giachetti chiede se il ministro intenda disporre la pubblicazione tradotta in italiano sul sito del ministero della giustizia, sia del rapporto del Cpt, sia della successiva risposta del nostro Paese. Spazza-corrotti, la legge la prossima settimana all’esame della Corte costituzionale Il Mattino, 5 febbraio 2020 Nove Tribunali di sorveglianza (Venezia, Lecce, Taranto, Brindisi, Cagliari, Napoli, Caltanissetta, Potenza e Salerno) hanno espresso i loro dubbi sulla legittimità della retroattività della stretta sui benefici penitenziari. È sotto attacco in questi giorni anche all’interno della maggioranza di governo per quella norma che ha abolito la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, contestata dall’avvocatura e, come hanno reso evidente le cerimonie dell’anno giudiziario, anche dai vertici della magistratura. Ma è la prossima settimana che la legge Spazza-corrotti - difesa a spada tratta dai Cinque Stelle e dal ministro Bonafede - dovrà affrontare la sua prova più difficile, il vaglio di costituzionalità da parte della Consulta. Nove tribunali di sorveglianza (di Venezia, Lecce, Taranto, Brindisi, Cagliari, Napoli, Caltanissetta, Potenza e Salerno) hanno espresso i loro dubbi sulla legittimità di un’altra delle norme-chiave della legge, la retroattività della stretta sui benefici penitenziari per i condannati per i reati più gravi contro la pubblica amministrazione. E per l’11 febbraio la Corte costituzionale ha convocato l’udienza pubblica in cui se ne discuterà. Sotto esame è l’articolo 1 della Spazza-corrotti, che - al comma 6 lettera b - stabilisce che si applica anche ai reati più gravi contro la pubblica amministrazione, commessi prima dell’entrata in vigore della legge, l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario: si tratta della norma che esclude una serie di gravi delitti, come quelli di mafia e terrorismo, dalla concessione dei benefici penitenziari, se il condannato non collabora. Una norma che la stessa Corte costituzionale ha già recentemente “picconato”: occupandosi di condannati per mafia, la Consulta ha stabilito che, almeno per i permessi premio, deve essere il magistrato di sorveglianza a valutare caso per caso se questi benefici possano essere concessi o meno a prescindere dalla collaborazione, a condizione però che siano stati recisi i legami con la criminalità organizzata e che il detenuto partecipi al percorso rieducativo. Stavolta in discussione è la retroattività della stretta sui benefici per corrotti e corruttori, condannati per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della Spazza-corrotti, che ora in forza della legge non possono ottenere nemmeno le misure alternative alla detenzione. Il tribunale di sorveglianza di Venezia, capofila degli uffici giudiziari che hanno investito la Consulta, richiama la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha ritenuto applicabile il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole (contenuto anche nel nostro ordinamento) anche agli istituti che implicano variazioni nell’esecuzione della pena, in base all’articolo 7 della Convenzione dei diritti dell’uomo. È per questo che secondo i giudici veneti la norma della Spazza-corrotti sarebbe in contrasto con gli articoli 25 (“nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”) e 117 della Costituzione, che vincola il legislatore a rispettare gli obblighi internazionali. Non solo: sarebbero violati anche gli articoli 3 e 27 della Costituzione per due ragioni. Sia perché si introdurrebbe un’irragionevole disparità di trattamento tra condannati per gli stessi reati, a seconda che la loro istanza di ammissione a una misura alternativa alla detenzione sia stata esaminata anteriormente o successivamente all’entrata in vigore della legge. Sia perché la preclusione per legge dei benefici inciderebbe sul percorso rieducativo del condannato. Usa, 32 anni ingiusti nel braccio della morte. Italia, ora si butta via la chiave di Bruno Micolano Il Dubbio, 5 febbraio 2020 Un caso penale di un condannato a morte pendente di fronte ad un tribunale della Georgia negli Stati Uniti, forse, potrebbe essere utile per farci ragionare su cosa voglia dire un processo infinito e quali siano le conseguenze reali di una tale situazione oggi dai più indicata come forma più alta di giustizia e di giusto processo che, per essere giusto, deve impedire che il colpevole sfugga al giusto castigo. È proprio così? Il caso di cui ci occupiamo, penso che valga più di tanti convegni, prese di posizione e comunicati di varie associazioni politiche e professionali le quali, in tema di prescrizione, non hanno mancato di far sentire la loro voce. La vicenda riguarda Timothy Foster riconosciuto colpevole di un omicidio commesso il giorno 28 agosto 1986. Il fatto reato, certamente odioso, riguardava un’anziana aggredita in casa e strangolata al fine di rapina. Timothy Foster reo confesso è, al contrario della vittima, un americano di colore. Fu catturato, quasi subito dopo i fatti, processato e condannato a morte dal tribunale locale della Georgia. Sentenza confermata dalla Corte Suprema dello Stato. La sentenza è del 1988. Da allora si sono susseguiti i vari ricorsi per habeas corpus e si è giunti al 23 maggio 2016 allorquando, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha annullato la condanna a morte per violazione del diritto antidiscriminatorio. Infatti la difesa di fronte alla Corte di Washington ha esibito un appunto del rappresentante della pubblica accusa che aveva scelto i giurati del processo di primo grado nel lontano 1988 in base al colore della pelle e sui nomi di quelli scartati vi era scritto che erano di colore quindi da eliminare. In data 13 maggio 2019, in sede di rinvio, viene richiesta l’archiviazione del caso di fronte a un nuovo giudice ma la pubblica accusa si oppone e il giudice si riserva di decidere. Decisione a tutt’oggi non conosciuta. Nel primo processo la giuria era di soli bianchi. Che dire? Il condannato a morte è rinchiuso nel braccio della morte da 32 anni. Chi ha una certa età non potrà non ricordare il caso Chessman ucciso nella camera a gas di San Quintino il 2 maggio 1960. Chessman, divenuto nel frattempo un noto scrittore, fu al centro di un caso mediatico, si direbbe oggi, e, buona parte dell’opinione pubblica mondiale, artisti ed intellettuali, chiedevano al governatore della California un provvedimento di clemenza, sostenendo, fra l’altro, che, essendo stato il Chessman arrestato nel gennaio del 1948 era rimasto nel braccio della morte per 12 anni e, tale pena, era di per sé inumana e degradante e quindi meritevole di grazia per solo questo motivo. Mai, quelli che allora scendevano in piazza per il condannato avrebbero pensato che sessant’anni dopo, 32 anni di permanenza nel braccio della morte, sarebbero passati inosservati. Come è cambiato il mondo! Si pensi che l’esecuzione, di cui si è parlato, fu più volte rinviata anche all’ultimo minuto. In un caso, il 19 febbraio 1960, fu rinviata perché allora era in programma un viaggio di Eisenhower Presidente degli Stati Uniti, in Sudamerica e si temevano tumulti popolari. Oggi di Foster nessuno parla. Anzi il popolo, a gran voce, chiede il processo eterno. Angelo Panebianco, in un editoriale sul Corriere della Sera ricorda che, in un certo senso, l’abolizione della prescrizione è quanto di più vicino ci sia alla introduzione della pena di morte: una morte fisica e una morte civile. Come erano belli i tempi in cui si lodava la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo! Nel celebre caso Soering del 2 luglio 1989, la Corte negava l’estradizione di un detenuto verso gli Stati Uniti per il solo fatto che, pur avendo gli Stati Uniti assicurato che la condanna a morte non sarebbe stata eseguita, sarebbe stato, comunque, rinchiuso nel braccio della morte del penitenziario della Virginia in attesa della pronuncia definitiva. Pronuncia che avrebbe potuto tardare anche 6 anni, periodo medio di permanenza del condannato nel braccio della morte. Tale permanenza, considerata lunga, avrebbe esposto l’estradato a un trattamento disumano e degradante in violazione dell’articolo 3 della Convenzione per il solo fatto di risiedere a stretto contatto con gli altri condannati e veder vivere l’angoscia dell’ultimo giorno del condannato prelevato per essere condotto all’esecuzione. Ed oggi? Oggi lo spirito dei tempi invoca il principio di diritto “butta via la chiave”. Il caso segnalato ricorda a tutti quali possano essere gli effetti reali dei processi infiniti. Se negli Stati Uniti, patria della democrazia e dell’efficienza tecnologica, accade che un condannato a morte sia sotto processo da trent’anni, cosa potrà mai capitare in Italia con l’enorme arretrato giudiziario e la difficoltà ad introdurre non l’intelligenza artificiale nel processo che da noi è fantascienza ma anche solo la digitalizzazione della pubblica amministrazione? Infine: è malinconico ricordare il Beccaria? Sì certamente. In tempi come questi, tuttavia, ci sia almeno concesso di essere malinconici: “Quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso, sarà tanto più giusta e tanto più utile. Dico più giusta perché risparmia al reo gli inutili e fieri tormenti dell’incertezza che crescono con il vigore dell’immaginazione e con il sentimento della propria debolezza”. Il populismo giudiziario ha un nuovo nemico: il Procuratore Salvi di Stefano Anastasia Il Riformista, 5 febbraio 2020 La prescrizione, l’abuso del diritto penale, il “governo della paura”, il ruolo del pm. Il Pg della Cassazione e altri vertici della magistratura hanno pronunciato parole di verità. Il Parlamento saprà ascoltarle? Dobbiamo essere grati ai vertici della magistratura, al Primo Presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Mammone, al Procuratore generale Salvi, a molti presidenti e procuratori generali di Corte d’appello, per le parole di verità che hanno pronunciato sulle difficoltà della giustizia italiana, sui rischi di politiche scriteriate, sugli effetti che esse comportano nel delicato sistema dell’esecuzione penale, sovraccarico di misure detentive impossibili da eseguire in condizioni di dignità e sicurezza, per i detenuti e per gli operatori. Una volta tanto il confronto parlamentare sull’inaugurazione dell’anno giudiziario andrebbe fatto dopo: dopo aver ascoltato analisi e riflessioni che dovrebbero far cambiare agenda e prospettive all’azione di governo e ai lavori parlamentari, a partire dalla soluzione della stortura generata dal processo infinito, vero e proprio abuso contro i diritti degli imputati e le norme costituzionali e sovranazionali che li proteggono. Purtroppo, però, il Parlamento è ostaggio di diverse forme di populismo penale, maturate in un trentennio di abusi del diritto e della giustizia e ormai equamente annidate al governo come all’opposizione. Difficile, dunque, che se ne esca in tempi brevi, ma le parole delle supreme magistrature e, in particolare, quelle del Procuratore generale Salvi meritano di essere riprese perché individuano efficacemente gli elementi costitutivi degli usi populisti del diritto e della giustizia penale e i danni che ne possono venire all’esercizio della giurisdizione, alle responsabilità della politica, alle aspettative della società civile. In questo quadro due mi sembrano i passaggi decisivi del discorso del Procuratore generale che meritano di essere estrapolati dalla contingenza e posti a base di una riflessione di più lungo periodo e, speriamo, di qualche prospettiva: quello relativo alla diffusività dell’intervento penale e quello sulla responsabilità dei magistrati del Pubblico ministero nella comunicazione pubblica del proprio lavoro. “Mentre sono ormai condivisi, nella pratica della giurisdizione, i principi costituzionali, non sembra pienamente affermato - dice Salvi - il tratto distintivo di un diritto penale quale delineato dalla Carta, che è - innanzitutto - la sua eccezionalità e sussidiarietà; la sua natura di ultima ratio”. Quando si parla di panpenalismo si intende esattamente questo: una involuzione della politica che non sa immaginare per sé altro ruolo e altra funzione che quella di indicare a una società legittimamente sofferente e timorosa del futuro la prospettiva di una responsabilità penale e del suo capro espiatorio, lo “spostare le politiche pubbliche dal fenomeno e dalla sua complessità ai suoi soli risvolti punitivi”. È questo uno degli elementi costitutivi dell’uso populista del diritto e della giustizia penale da tempo individuati dalla migliore letteratura scientifica internazionale, a partire dagli scritti di quel Jonathan Simon citato da Salvi nella traduzione italiana (il “governo della paura”) della sua opera magistrale su come la “guerra al crimine” ha trasformato la democrazia americana: governing through crime, governare attraverso (oserei dire: per mezzo) della criminalità (e del suo uso politico, ovviamente). I fenomeni devianti non sono affrontati nelle loro cause e nei loro presupposti, ma sono agitati a fini di consenso da una politica impotente o incapace. “La tentazione del “governo della paura” - dice ancora il Procuratore generale - ha riflessi anche sul pubblico ministero. Dal desiderio di assecondare la rassicurazione sociale all’idea di proporsi come inquirente senza macchia e senza paura, che esporta il conflitto sociale e combatte il nemico, il passo non è poi troppo lungo”. E siamo così ai rischi di un populismo giudiziario. Abbiamo detto dei molti usi populisti del diritto e della giustizia penale: tra di essi ce ne sono “di destra” e “di sinistra”, sedicenti “progressisti” o velatamente conservatori, portati avanti da partiti rappresentati nelle istituzioni o da movimenti sociali che confondono legittimi obiettivi politici con la punizione dei propri avversari. Tutti hanno in comune la ricerca di consenso attraverso l’abuso del diritto penale. Ma tra di essi possono esserci anche attori istituzionali, che abusano del loro ruolo per costruire o rafforzare il proprio consenso nella sfera pubblica. Così è stato per l’ex-ministro dell’Interno, così può ben essere da parte di magistrati nell’esercizio delle loro funzioni, come rilevato da tempo da parte di un acuto osservatore come Giovanni Fiandaca. La comunicazione dell’ufficio del pubblico ministero, che deve essere moderata “dalla precarietà dell’accertamento non ancora sottoposto alla piena verifica del contradditorio”, dice ancora Salvi, “deve essere tale da evitare anche solo il sospetto che non la fiducia della pubblica opinione sia ricercata, ma il suo consenso. Questa sarebbe la fine dell’indipendenza del pubblico ministero” che, aggiungo io, sarebbe inevitabilmente attratto nell’orbita dei poteri elettivi, con i relativi oneri e le relative responsabilità. Questa, dunque, la rilevanza del contributo offerto dal Procuratore Salvi a una riflessione non occasionale sul rapporto tra politica e giustizia. Speriamo che se ne faccia tesoro per il futuro. Fiandaca: “Il populismo giudiziario non è diritto e i magistrati non sono tribuni” di Giulia Merlo Il Dubbio, 5 febbraio 2020 “La cosiddetta rivoluzione giudiziaria realizzata dal pool milanese non avrebbe potuto vedere la luce se i pubblici ministeri non si fossero accollati la missione di ripulire la vita pubblica e moralizzare la politica, credendo di assolvere così una sorta di mandato popolare neppure tanto tacito”. “Sentenza populista” è solo l’ultima esternazione - pronunciata da un difensore per definire l’esito di un procedimento penale - che associa il populismo alla giustizia. Un legame complesso, che affonda le radici nella storia del nostro Paese e nell’indissolubile connubio tra politica e diritto. “Una tendenza - quella del populismo penale - che porta, sul versante politico, alla strumentalizzazione del diritto penale, con l’impiego della punizione come medicina per ogni malattia sociale; su quello giudiziario alla pretesa del magistrato di assumere il ruolo di autentico interprete delle aspettative di giustizia del popolo” è la tesi di Giovanni Fiandaca, professore ordinario di diritto penale presso l’Università di Palermo e autore del saggio Populismo politico e populismo giudiziario. Cominciamo dalla locuzione “populismo penale”. Lei lo considera un concetto improprio? Il concetto di populismo si presta, nella sua potenziale estensione, a ricomprendere fenomeni molto diversi e può, perciò, essere piegato anche ad usi impropri. In un mio saggio del 2013 ho provato a mettere insieme alcuni spunti di riflessione sul populismo penale, distinguendone due possibili forme che peraltro non sono necessariamente destinate a manifestarsi in forma congiunta, nel senso che l’una può mantenere una certa autonomia rispetto all’altra: alludo da un lato al populismo penale “politico-legislativo” e, dall’altro, al populismo penale “giudiziario”. Il primo sottintende l’idea di un diritto penale utilizzato come risorsa politico- simbolica per lucrare facile consenso elettorale in chiave di rassicurazione collettiva rispetto a paure e ansie prodotte dal rischio-criminalità, specie quando la fonte di tale rischio viene identificata nel “diverso”, nello straniero, in quell’ immigrato extracomunitario che finisce con l’assumere il ruolo di nuovo nemico della società da controllare, punire e bandire: insomma, inasprire la risposta punitiva nei confronti del presunto nemico significa farsi populisticamente carico del bisogno di sicurezza del popolo sano, a difesa di una sorta di “ideologia del guscio” e di una supposta identità culturale (e perfino razziale!) che rischierebbe di essere inquinata dai nuovi barbari. In questo che lei chiama “farsi carico populisticamente del bisogno di sicurezza” rientra anche la creazione di nuove fattispecie di reato? Sì, in generale può parlarsi di populismo penale in tutti i casi, in cui i politici assecondano la tentazione di creare nuovi reati o inasprire reati preesistenti allo scopo di dimostrare alla gente di volere combattere sul serio e in modo drastico i diversi mali che affiggono la società. Insomma, la risposta punitiva rappresenta uno strumento non solo apparentemente risolutore proprio perché energico, ma anche molto comunicativo perché semplice, facilmente comprensibile da tutti nella sua elementare simbologia; inoltre, essa canalizza pulsioni vendicative e sentimenti di indignazione morale diffusi a livello popolare e, ancora, esime la politica dalla ricerca di strategie di intervento più costose e tecnicamente più appropriate. Questa ricorrente tendenza alla strumentalizzazione politica del diritto penale, e all’impiego della punizione come medicina quasi per ogni malattia sociale è stata, non a caso, esplicitamente criticata anche da Papa Francesco. E veniamo ora alla seconda forma di populismo penale, il populismo giudiziario… Il “populismo giudiziario”, quale specifica forma di manifestazione del populismo penale sul versante della giurisdizione, è un fenomeno che ricorre tutte le volte in cui il magistrato pretende di assumere il ruolo di autentico rappresentante o interprete dei veri interessi e delle aspettative di giustizia del popolo (o della cosiddetta gente), e ciò in una logica di concorrenza- supplenza, e in alcuni casi di aperto conflitto con il potere politico ufficiale. Questa sorta di magistrato-tribuno, che pretende di entrare in rapporto diretto con i cittadini, finisce col far derivare la principale fonte di legittimazione del proprio operato, piuttosto che dal vincolo alle leggi scritte così come prodotte dalla politica, dal consenso e dall’appoggio popolare. Viene automatico chiederle: possiamo fare qualche esempio, più o meno recente? Esemplificazioni concrete d’un tale populismo giudiziario non è difficile rinvenirne, ieri come oggi. È fin troppo facile individuarne un modello prototipico nell’Antonio Di Pietro protagonista di “Mani pulite”. Anzi, direi che proprio Di Pietro ha acceso la miccia di un populismo destinato, successivamente, a proliferare in forme anche più direttamente politiche. Aggiungo, incidentalmente, che sarebbe anche maturato il tempo per effettuare un autentico bilancio critico degli effetti politici ad ampio raggio - alcuni dei quali, a mio giudizio, del tutto negativi - prodotti dalla cosiddetta rivoluzione giudiziaria milanese. Personalmente, temo che una giustizia penale che si auto-investe di missioni palingenetiche, alla fine, causi più danni che vantaggi. “Mani pulite” come modello di populismo giudiziario, dunque. Di quale missione palingenetica si sarebbero investiti i magistrati milanesi? La cosiddetta rivoluzione giudiziaria realizzata dal pool milanese non avrebbe potuto vedere la luce se i pubblici ministeri non si fossero accollati la missione di ripulire la vita pubblica e moralizzare la politica, credendo di assolvere così una sorta di mandato popolare neppure tanto tacito. Altra cosa è che un obiettivo “sistemico” così ambizioso fosse veramente alla portata dell’azione giudiziaria di contrasto della corruzione. A riconsiderare quell’esperienza a venticinque anni di distanza, sembra più che lecito dubitarne. Ecco il punto: è possibile associare il termine populismo alla giustizia, quindi? Si può associare se utilizziamo il termine “giustizia” per indicare i bisogni, le aspettative di tutela e le aspirazioni di giustizia della popolazione secondo la chiave interpretativa che pretendono di fornirne le forze politiche o i magistrati di vocazione populista. Se guardiamo al concetto di giustizia sotto un’angolazione diversa e più generale, invece, tra populismo e giustizia può esservi conflitto. Proviamo ora a ricercare le origini del fenomeno. Secondo lei dove affondano? Il discorso è complesso. Direi una miscela di fattori oggettivi o di contesto, e soggettivi come il protagonismo di una parte della magistratura. Tra i fattori di contesto, annovererei - in sintesi - la crisi della politica ufficiale e la sfiducia verso i politici, l’emergere di tendenze antipolitiche (o, meglio, antipartitiche), la tentazione politica di delegare alla magistratura il compito di affrontare e risolvere grosse questioni sociali, criminali e non. Tra i fattori soggettivi, porrei l’accento sulla vocazione lato sensu politica di una parte della magistratura, sul diffondersi di una cultura giudiziaria di tipo attivistico-combattente e sulla tendenza - appunto - di alcuni magistrati a impersonare il ruolo di giustizieri, angeli del bene o tribuni del popolo. Questi fattori oggettivi e soggettivi interagiscono secondo dinamiche complesse e non univoche. Provando a spostare l’analisi sull’attuale sistema politico, si può dire che il diritto penale è stato strumentalizzato in chiave populista? Questo fenomeno di strumentalizzazione è esistita e continua ad esistere, peraltro sia a destra che a sinistra. Concretamente, possiamo citare qualche caso? Faccio due esempi, entrambi emblematici: la circostanza aggravante della clandestinità introdotta in epoca berlusconiana, e poi bocciata dalla Corte costituzionale; il nuovo reato di omicidio stradale fortemente voluto da Matteo Renzi, in una prospettiva sinergica populista- vittimaria: nel senso che la motivazione politica di fondo sottostante all’omicidio stradale (come reato autonomo) è stata non solo quella di dare un segnale anche simbolico di grande rigore nel contrastare la criminalità stradale con pene draconiane, ma anche di indirizzare un messaggio di attenzione e vicinanza nei confronti dei familiari delle vittime della strada e delle loro associazioni. Al di là di questo discutibilissimo populismo vittimario, quel che rimane da dimostrare con criteri empirici è - beninteso - che l’omicidio stradale serva davvero a prevenire più efficacemente gli incidenti mortali. Secondo lei la politica sta tendendo ad avvicinarsi al lessico tipicamente “accusatorio” della magistratura requirente? Ritengo che vi siano esempi di questo avvicinamento anche in Italia. Alludo, com’ è intuibile, al fenomeno di esponenti politici a vari livelli che pongono al centro della loro azione politica o del loro programma di governo la lotta alla criminalità o la difesa della legalità: una sorta di professionismo politico specificamente anti-criminale o anti-mafioso. Con una tendenziale differenza, peraltro, a seconda che questo tipo di politico militi sul fronte conservatore o progressista: nel primo caso, egli muoverà guerra soprattutto alla criminalità comune e alla criminalità da strada; nel secondo caso, alle mafie e alla criminalità dei “colletti bianchi”. In entrambi i casi, comunque, il politico di turno tenderà a vestire i panni del pubblico ministero più che del giudice: porrà infatti l’accento, con parecchia enfasi, sulla necessità di denunciare, indagare, accertare, impiegare tutti i mezzi di contrasto possibili e immaginabili per sradicare la mala pianta del crimine e fare terra bruciata intorno ad esso, applicare pene draconiane, controllare e neutralizzare gli individui pericolosi o sospettabili tali. Tornando al populismo penale, il termine viene utilizzato in accezione negativa. Eppure lei ha scritto che il diritto penale è, in qualche modo o misura, populistico. È una provocazione? Sì è una provocazione intellettuale, nel senso che tento di chiarire. Tradizionalmente, ogni codice penale è stato considerato una specie di marcatore simbolico dell’identità culturale e valoriale di un determinato popolo: in questo senso, ogni codice nazionale rifletterebbe la storia, i valori, gli usi sociali, i sentimenti collettivi della nazione in questione. Con formula efficace, si è anche detto che un codice penale rispecchia il “minimo etico” della popolazione. Ciò premesso, io avanzerei in realtà riserve rispetto alla tendenza a caricare il dritto penale di valenze fortemente identitarie, a maggior ragione nelle società in cui viviamo caratterizzate da un accentuato pluralismo: incombe, infatti, il rischio di voler autoritariamente attribuire alla punizione il compito illusorio di riaffermare o rinsaldare identità “comunitarie” ormai inesistenti o indebolite contro criminali percepiti come nemici estranei e inquinanti. Un simile atteggiamento sarebbe non solo incostituzionale, ma sostanzialmente fascistico- razzistico. Nel suo saggio sul populismo penale, lei cita il criminologo Jonathan Simon, che attribuisce un ruolo politico decisivo alla paura per la criminalità. Che funzione esercita, secondo lei, la paura nell’affermarsi del populismo? Un ruolo certo non piccolo, non solo in Italia. Come ha appunto messo in evidenza Simon riguardo ad esempio agli Stati uniti, si può verosimilmente diagnosticare uno specifico paradigma di governance politica incentrato sulle strategie di repressione e prevenzione della criminalità quali essenziali elementi costitutivi dell’azione di governo. Ma il fenomeno è da tempo registrabile in molti paesi. Per concludere, le richiamo una citazione di Leonardo Sciascia che lei usa come incipit del suo saggio: “Quando un uomo sceglie la professione di giudicare i propri simili, deve rassegnarsi al paradosso doloroso per quanto sia - che non si può essere giudice tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto”. Lei condivide? Ma come può chi giudica tenere conto dell’opinione pubblica? Condivido il senso profondo del paradosso sciasciano, che lascia trasparire la difficoltà oggettiva ma, al tempo stesso, la necessità di conciliare in qualche misura due esigenze opposte. Cioè il giudice dovrebbe in teoria, per un verso, essere sempre capace di prendere criticamente le distanze dal clima ambientale, dalle pressioni esterne e dalle aspettative di punizione delle stesse vittime del reato e, aggiungerei, anche dai propri pregiudizi e dai sentimenti personali, e di emettere decisioni basate soprattutto sulle norme, sul ragionamento rigoroso e sul senso di equilibrio, in modo da contemperare tutti i valori in campo: il che, passando dalla teoria alla realtà, può peraltro avverarsi soltanto fino a un certo punto. Anche i giudici sono esseri umani! E però rimane il fardello dell’opinione pubblica… Infatti. Per altro verso, chi giudica neppure dovrebbe pronunciare sentenze così difformi dalle aspettative della società esterna e delle vittime da risultare poco comprensibili e, perciò, inaccettabili. Ma la grande difficoltà, il dramma stanno proprio in questo: non di rado, le aspettative popolari di giustizia sono molto emotive, poco filtrate razionalmente e perciò, come tali, irricevibili da una giustizia che aspiri a condannare e punire sulla base di motivazioni razionali e in misura proporzionata alla gravità dei reati e delle colpe accertate. Viene da chiederle, se mai esiste una risposta: è possibile trovare la “misura” nel giudicare? Che cosa sia davvero “proporzionato” in campo penale, è una questione a sua volta intrinsecamente controvertibile: in proposito, non c’è verità scientifica, né si può esigere la precisione del farmacista. Si ripropone, dunque, il paradosso “doloroso” di Sciascia: un paradosso che non consente facili vie di uscita, né tollera risposte capaci di tranquillizzare - appunto - la coscienza di chi ha scelto la professione di giudicare. Prescrizione, Bonafede sotto assedio. Si tratta su modifiche o rinvio di Liana Milella La Repubblica, 5 febbraio 2020 Due le ipotesi in campo: il blocco dell’istituto dopo la sentenza di appello oppure lo slittamento di sei mesi degli effetti della legge, per lavorare sull’accorciamento dei tempi del processo. Giornata di trattative, ma il ministro nega il passo indietro. Stop della prescrizione dopo il processo d’appello, e non dopo quello di primo grado come prevede la legge Bonafede. Regola da applicare per tre anni, salvo tornare alla Bonafede originaria in caso di insuccesso. Oppure, per spegnere le polemiche, rinviare addirittura di sei mesi la prescrizione “corta” entrata in vigore il primo gennaio. Il Guardasigilli Alfonso Bonafede, quando è sera, e dopo una giornata intrecciata di indiscrezioni sulle sue mosse, nega qualsiasi passo. Ma, all’opposto, fonti del governo confermano che per ore, con la consapevolezza dello stesso premier Giuseppe Conte, si è lavorato a un paio di ipotesi - principalmente quella dell’appello - per uscire definitivamente dal guado della giustizia. Ovviamente in attesa che Conte stabilisca la data del tavolo in cui chiudere lo scontro con i renziani. Ma vediamo quali sono le due strade. Che nel primo caso, lo slittamento della prescrizione “corta” in appello, comporta un prezzo politico per Bonafede di medio danno. Mentre nel secondo - il rinvio di sei mesi, mentre i renziani chiedono un anno e il forzista Costa un anno e mezzo - si risolverebbe per lui in una sconfitta alquanto pesante. Partiamo dall’ipotesi della prescrizione bloccata dopo il processo di appello. Quindi subito prima dell’ultimo grado di giudizio, la Cassazione. Quando ormai il dibattimento ha compiuto i due terzi della sua strada. Quando ci possono essere due sentenze concordanti, di condanna oppure di assoluzione, oppure discordanti, una condanna e un’assoluzione e viceversa. La logica sarebbe quella di garantire che non può essere la prescrizione a cancellare un esito processuale, al quale va garantita la sua definitiva completezza. Rispetto a soluzioni contestate dal punto di vista costituzionale, come la distinzione tra condannati e assolti nel caso di prescrizione dopo il primo grado contenuta nel primo lodo Conte (la prescrizione si ferma per gli assolti, continua a correre per i condannati), lo slittamento tout court in appello eviterebbe discrasie. Ma se ne dovrebbe valutare l’effettiva utilità, visto che le statistiche dicono che la maggior parte dei reati si prescrive nella fase delle indagini preliminari e poi proprio in appello. Mentre quasi nulla si prescrive in Cassazione. Ma tant’è, ogni mediazione, e questa di Bonafede lo sarebbe, comporta un prezzo da pagare. Sicuramente questa comporterebbe un immediato e congruo aumento degli organici della Suprema corte che, a quel punto, si troverebbe addosso la responsabilità di riuscire a chiudere comunque un iter processuale. Anche se, finito il paterna della prescrizione, avrebbe tutto il tempo per farlo. A meno che il Guardasigilli non stabilisca anche dei tempi per i processi, un tot di anni per ogni fase, Cassazione compresa. Ben più drastica la soluzione del rinvio della Bonafede. L’ipotesi di una trattativa ha cominciato a serpeggiare alla Camera ieri pomeriggio. Quando nelle due commissioni Affari costituzionali e Bilancio, che stanno esaminando il decreto Mille Proroghe, è stato accantonato l’articolo 8 in cui sono inserite le richieste di rinvio della Bonafede della renziana Lucia Annibali (gennaio 2021) e del forzista Enrico Costa (giugno 2021). Più di una fonte, anche in questo caso governativa, ha accredita la voce che Bonafede stesse pensando a un rinvio di soli sei mesi, per spegnere le polemiche e lavorare sui tempi del processo. Una volta pronto quel dossier sarebbe possibile discutere anche di come cambiare la prescrizione “corta”. Prescrizione, è scontro sul rinvio. Prime critiche nel M5S a Bonafede di Carlo Bertini e Ilario Lombardo La Stampa, 5 febbraio 2020 L’ala dei grillini filo-Pd: “No alle impuntature”. E spunta anche l’ipotesi di un decreto lampo. “Nessun accordo”. Una riga di comunicato informale, lapidario, arriva poco prima delle otto di sera dagli uffici del ministero della Giustizia. Per smentire una voce che circola da ore su un compromesso sulla riforma della prescrizione: sei mesi di rinvio. Non è vero, sostiene lo staff di Alfonso Bonafede: che fa sapere di attendere da Giuseppe Conte la convocazione del vertice, previsto per oggi, ma che il premier potrebbe rinviare di qualche giorno. Peccato che quella voce fosse più di una voce. Nel pomeriggio, sia alla Camera sia al Senato, tra M5S, Pd e Italia Viva di Matteo Renzi si dava quasi per certo un compromesso. I sei mesi di sospensione sarebbero il punto di caduta tra la posizione irremovibile del ministro grillino e il rinvio di un anno della sua riforma che blocca la prescrizione (attiva dal 1 gennaio) chiesto dai renziani con l’emendamento Annibali al decreto Mille Proroghe. Che si voterà venerdì in commissione alla Camera. È il primo passaggio cruciale per testare la tenuta della maggioranza. Visto che anche parte del Pd scalpita per sostenere la proposta di Renzi come arma di pressione. E qualcuno tra i big azzarda pure l’ipotesi di un decreto-lampo per risolvere la grana. L’orizzonte del governo sulla prescrizione si fa sempre più cupo. Prova ne è la preoccupazione del capodelegazione Dem, Dario Franceschini. Ma anche il messaggio consegnato dagli sherpa Pd a Bonafede. In sintesi: si intesti lui una soluzione per uscire dall’impasse. Il Guardasigilli è accerchiato, convinto che sia meglio - come avvenuto per la Tav - lasciar decidere il Parlamento, salvare la faccia al M5S ed evitare di trascinare il governo nella crisi. Ma se cederà o meno molto dipenderà dal suo partito. Nel M5S c’è chi non nasconde il timore per le conseguenze dello stallo, e chi si scaglia contro l’irrigidimento del ministro, considerato pericolosamente inflessibile. Roberto Cataldi, avvocato ascolano, dato qualche settimana fa in uscita dal M5S, è tra i più duri. Un invito alla “ragionevolezza” arriva dal ministro Federico D’Incà. Esplicito anche Giorgio Trizzino, alla testa di una fronda che spinge per l’alleanza con il centrosinistra: “No alle impuntature, bisogna sapere ascoltare con umiltà le ragioni degli alleati politici. Sono certo che Bonafede saprà accogliere il ragionevole e misurato invito del Pd a intervenire in modo organico sulla struttura del processo penale”. Ed è quello che tenterà di fare Conte, cercando di tenere in piedi l’ipotesi rinvio assieme ad un’accelerazione della riforma del processo penale. Per adesso in mano ha le due proposte di mediazione dell’omonimo deputato di Leu Federico Conte. La chiamano “la soluzione scaletta”: blocco della prescrizione solo per i condannati in due gradi di giudizio. E retrodatazione della prescrizione per gli assolti in appello e condannati in primo grado. Conte ha poco tempo. Perché se da un lato, vede che i 5 Stelle stanno tentando di rianimarsi sulle battaglie identitarie come prescrizione e vitalizi (sui quali ci sarà una manifestazione il 15 febbraio), dall’altra deve tenere in considerazione il pressing del Pd, che vuole una sterzata sull’agenda. E Renzi che minaccia di votare il 24 febbraio il ddl di Enrico Costa che annulla la riforma Bonafede. Ed è proprio il deputato di Forza Italia a proporre con un emendamento al Milleproroghe di legare l’entrata in vigore della nuova prescrizione ai decreti attuativi della riforma, in mano al ministro, mirata a garantire una civile durata del processo. Sulla giustizia il premier si gioca tutto. E l’Agenda può diventare un’agendina di Francesco Damato Il Dubbio, 5 febbraio 2020 La sua verifica rischia di tradursi non in quella che lui chiama “Agenda 2023”, con l’obiettivo di durare fino alla fine della legislatura, ma in un’agendina di pochi mesi. Ha giustamente colpito il disagio, direi anche fisico, in cui si è trovato il ministro della Giustizia Adolfo Bonafede nelle cerimonie d’inaugurazione dell’anno giudiziario cui ha assistito sentendo contestare dai procuratori generali la sua cosiddetta riforma della prescrizione in vigore dal 1° gennaio: cosiddetta, perché in realtà si tratta della sua soppressione all’arrivo della prima sentenza, dopo la quale il processo potrà continuare negli altri due gradi di giudizio all’infinito, diventando in qualche modo per l’imputato un surrogato dell’ergastolo. Ad uno dei procuratori generali critici degli effetti di questa pseudo- riforma, in particolare a quello di Milano, Roberto Alfonso, il guardasigilli ha voluto pubblicamente reagire ribadendo la sua linea e cogliendo significativamente l’occasione per dolersi anche dell’etichetta di manettaro che gli viene sempre più di frequente affibbiata nelle polemiche. Probabilmente il ministro pensava anche a quegli avvocati che - non a Milano, in verità, dove si erano limitati a innalzare cartelli e ad allontanarsi quando aveva preso la parola Piercamillo Davigo in rappresentanza del Consiglio Superiore della Magistratura- ma in altre sedi avevano protestato contro la politica giudiziaria del governo giallorosso ammanettandosi, appunto, davanti a fotografi e telecamere. Ma più ancora forse del ministro Bonafede, del suo movimento politico 5 Stelle che, per quanto lacerato per tantissime ragioni, lo sostiene fortemente in questa partita della prescrizione sventolandola come una bandiera: più ancora di Davigo, che nella “sua” Milano ha dovuto sorbirsi, diciamo così, una relazione del procuratore generale anche contro le sue convinzioni su questo tema, dalle inaugurazioni dell’anno giudiziario è uscita malconcia l’Associazione Nazionale dei Magistrati, con tutte le maiuscole, per carità, che le spettano. La sua rappresentatività, dopo il consenso dato alla cosiddetta o presunta riforma della prescrizione, è uscita maluccio dalle opinioni di segno opposto espresse dai procuratori generali. Il più sensibile e toccato, diciamo così, da questo scenario è stato sul Fatto Quotidiano, schieratissimo per l’abolizione della prescrizione, l’infaticabile o incontenibile Marco Travaglio. Che in un editoriale in cui ha storpiato già nel titolo, secondo le sue abitudini, il nome delle Camere penali in Camere penose, perché appunto contrarie alla norma che sopprime la prescrizione con l’esaurimento del primo dei tre gradi giudizio, ha voluto contestare al procuratore generale di Milano la dissonanza dal sindacato, o associazione, di cui fa parte. Questa, in verità, non si era mai vista e sentita, ma c’è sempre una prima volta per le cose alle quali non si è abituati. Non immaginavo che un procuratore generale di Corte d’Appello, la prima autorità, diciamo così, del distretto giudiziario in cui opera, avrebbe dovuto preoccuparsi in primo luogo, facendo il proprio lavoro, esprimendo le proprie valutazioni e avvertendo dei guasti in arrivo per il funzionamento della giustizia con certe norme decise “per sentito dire”, come ha osservato abrasivamente Luciano Violante in una intervista al Dubbio, dovesse farsi carico della posizione del sindacato o associazione di appartenenza. In un clima politico, mediatico, e persino culturale, così arroventato si moltiplicano naturalmente le difficoltà del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, appena sollecitato dal segretario del Pd Nicola Zingaretti a farsi carico del problema della prescrizione mediando fra le parti della maggioranza, specie dopo che Matteo Renzi ha praticamente avvertito di essere pronto ad una crisi, se le cose non cambieranno. Il capo del governo sa che sul tema della prescrizione, per quanto credito si sia guadagnato a Palazzo Chigi riuscendo a trasformare, almeno sino ad ora, in un successo anche la disinvoltura con la quale qualche mese fa ha cambiato alleati e maggioranza, la sua verifica, già mutuata dal poco popolare linguaggio della cosiddetta prima Repubblica, rischia di tradursi non in quella che lui stesso ha chiamato e chiama “agenda 2023”, con l’obiettivo di durare fino alla fine ordinaria della legislatura, ma in un’agendina di pochi mesi. Il paradosso del lodo Conte: sancirebbe che gli imputati sono presunti colpevoli di Giorgio Spangher Il Dubbio, 5 febbraio 2020 Sospendere la prescrizione solo perché il Pm fa appello: così il “sospetto” è innalzato a “verità”. Il cosiddetto “lodo Conte” evidenzia seri deficit culturali e giuridici. Si muove nella logica per la quale la sentenza di primo grado sospende la prescrizione e l’attenzione della politica si è spostata sui tempi delle fasi successive. In altri termini, tra Orlando e Bonafede, le riflessioni sul tempo dell’azione penale, del reato e del processo hanno finito per coinvolgere quest’ultimo aspetto. Era verosimile che dopo le cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario (e gli esiti elettorali) il dibattito sulla prescrizione riprendesse vigore. Ma gli approdi sono difficili da ipotizzare, alla luce delle varie iniziative in corso. Sospensione della riforma o congelamento in attesa di una più ampia modifica della struttura del rito processuale. La politica punterà a compromessi, come è stato - da ultimo - il cosiddetto lodo Conte che, al di là di iniziative tra emendamenti al Mille Proroghe e “recupero” in commissione della proposta Costa, resta a livello di maggioranza probabilmente il punto da cui si partirà per cercare un compromesso “più avanzato” come diceva in altri tempi “la politica”. Ebbene il suddetto lodo Conte evidenzia seri deficit culturali e giuridici. Invero, il lodo si muove nella logica ormai acquisita per la quale la sentenza di primo grado sospende la prescrizione: l’attenzione della politica si è dunque spostata sui tempi delle fasi successive. In altri termini, tra Orlando e Bonafede le altri due. Allo stato la situazione non è suscettibile di modifiche. Il danno si è materializzato, anche perché la riforma Bonafede dal 1° gennaio 2020 manifesta i suoi effetti diretti e sistematici. E proprio considerato che si tratta di una legge vigente, è necessario che le modifiche che si vorranno introdurre siano scolpite nella legge e non consegnate a improbabili disegni di legge o leggi delega. Resta comunque aperta alle incertezze politiche la soluzione del congelamento. Entrando nel merito del lodo, si è già avuto modo di segnalare l’errore concettuale legato all’opposizione al decreto penale di condanna. Invero, come espressamente previsto dall’articolo 464, comma 3, del codice di procedura penale, in caso di opposizione ammissibile “il giudice revoca il decreto di condanna” in ogni caso, quale che siano le richieste di altri riti ovvero di nessun rito. Gli effetti della sospensione non possono essere determinati da un atto che non c’è più nel mondo del processo in quanto revocato. Altrimenti avremmo una sospensione prima (il decreto) ed una nuova sospensione poi (la sentenza dibattimentale o quella dei riti abbreviato o patteggiamento nei quali il giudizio di opposizione si è trasformato). Si consideri che il decreto penale è un atto emesso senza contraddittorio e garanzie, e proprio per questo l’opposizione è consentita all’imputato che non deve neppure presentare motivi, essendo sufficiente la volontà di opporsi. Il dato, preoccupante in sé, per la mancanza dei “fondamentali” del processo penale, è indice della visione che si ha del processo penale, nella misura in cui consegua a una iniziativa unilaterale del pm. Effetti che - secondo questa impostazione - la difesa non sarebbe in grado - nonostante l’espressa previsione del codice - di far venir meno. A questo errore di diritto, si aggiunge “l’orrore” per la ipotizzata disciplina legata agli effetti della prescrizione sulla sentenza di proscioglimento. Non è il caso di riaffrontare il problema della differenza tra sentenza di condanna e sentenza di proscioglimento, ma ci si deve ancora occupare del modo con il quale il lodo lo affronta. Al fondo si percepisce un retrogusto che definire inquisitorio è troppo benevolo. È noto, infatti, anche ai profani di diritto processuale, che la prescrizione opera nei confronti delle condanne e non delle sentenze di proscioglimento. Se può avere - nella logica autoritaria - un significato ritenere che il condannato in primo grado non potrà godere della prescrizione in appello e che, se in appello sarà prosciolto, non avrà bisogno della prescrizione, un discorso di questo genere non ha nessun significato per il prosciolto in primo grado. La sua condizione dopo la sentenza che lo assolve o lo proscioglie è la stessa del giorno prima della decisione, durante il tempo nel quale la prescrizione corre. Perché dopo la decisione favorevole, il lodo propone di sospendere per lui il decorso della prescrizione? Perché cerca di evitare che, ove fosse poi condannato in appello, possa avvalersi della prescrizione. Si consideri che l’atto idoneo a sospendere per due anni il decorso del termine prescrizionale è un atto del pubblico ministero che non costituisce - per dottrina unanime - esercizio dell’azione penale. In altri termini, anche se sei stato assolto, resti un presunto colpevole e quindi ove condannato non potrai avvalerti del decorso del termine di prescrizione. Non regge l’affermazione per la quale la prescrizione del reato dell’assolto potrebbe maturare subito dopo la sentenza favorevole, perché comunque l’imputato avrebbe diritto alla celebrazione del giudizio d’appello, non essendo sufficiente, in sé, un ricorso in appello da parte del pm a trasformare l’assoluzione in condanna, che dovrebbe poi essere accertata prima di dichiarare l’estinzione del reato. E ancora: se è chiaro che la condanna in appello del prosciolto sospende il decorso della prescrizione, non è chiaro se anche il ricorso del pm contro la sentenza di proscioglimento emessa nel giudizio d’appello sospenda la prescrizione (per due anni). Inoltre: non appare corretto affermare che la prescrizione per il condannato in primo grado decorra solo dalla sentenza di proscioglimento in appello; la sentenza favorevole di secondo grado, al contrario, dovrebbe consentire anche il recupero del tempo sospeso, e il dato dovrebbe ovviamente valere anche per il prosciolto la cui decisione sia stata confermata. Queste operazioni frutto di improvvisazione possono portare a conseguenze non preventivabili. Solo per fare esempi: interesse a differire il più possibile la decisione di primo grado, che sospende la prescrizione; interesse contrapposto ad accelerare per evitare il decorso del tempo della prescrizione, con presenza di criteri discrezionali nella gestione delle indagini; rischio che non si considerino le ipotesi di annullamento delle sentenze di primo grado come causa di inefficacia della sospensione della prescrizione sia per il condannato (in assoluto), sia per il prosciolto (del tempo sospeso). La visione culturale di alcuni magistrati ha già permeato di sé la materia del processo penale. Se un atto del pm è in grado di sospendere la prescrizione, perché non dovrebbe - domani - esserlo l’esercizio dell’azione penale, riportando allo stesso livello gli odierni condannati e prosciolti? La mediazione impossibile sul diritto alla difesa di Carlo Nordio Il Messaggero, 5 febbraio 2020 Molti anni fa, durante la discussione parlamentare sui Patti Lateranensi, Benedetto Croce pronunciò alcune parole divenute emblematiche: “Accanto a persone per le quali Parigi val bene una Messa, altre ve ne sono per le quali una Messa conta molto più di Parigi, perché è questione di coscienza”. L’illustre filosofo si riferiva alla frase attribuita ad Enrico di Navarra, che abiurò la fede ugonotta e si convertì al cattolicesimo per ottenere la corona di Francia. Frase che da quel momento contrassegna lo spregiudicato opportunismo politico, al quale Croce opponeva, appunto, l’imperativo della coscienza. Nel dibattito che sta per iniziare alle Camere sulla prescrizione, Parigi sarebbe la stabilità della maggioranza governativa, e la Messa sarebbe quel minimo di residua civiltà giuridica che il ministro Bonafede rischia di sgretolare definitivamente con la pericolosa riforma che rende eterni i processi. Ora non sappiamo se Renzi voglia imitare Benedetto Croce, minacciando una crisi se il provvedimento non viene ritirato o almeno sospeso. Né sappiamo se questa sua iniziativa poggi sul nobile intento di salvaguardare i princìpi minimi del diritto, o quello più machiavellico di minare la stessa maggioranza. Magari per acquistare nella stessa maggioranza un maggior peso contrattuale. Comunque sia, è un’ottima scelta, che ha messo nell’angolo il ministro della Giustizia, che si trova ora in un vicolo cieco. L’alternativa infatti è la seguente: o Bonafede accetta di rinviare la riforma (che peraltro è già entrata in vigore) e allora smentisce mesi interi di solenni affermazioni contrarie, e rimane al suo posto come una “lame duck”, un’anatra zoppa di credibilità affievolita. Oppure la ritira in toto, come chiedono le opposizioni, e allora rischia addirittura di doversi dimettere. In realtà potrebbe cavarsela ricordando a se stesso, e agli altri, che questa riforma fu approvata sul presupposto di una concomitante riedizione di un codice di procedura penale, volta ad abbreviare il corso delle cause. Riedizione ancora da imbastire, ma che Bonafede potrebbe pur sempre accelerare, rinviando la prescrizione a una promulgazione simultanea, come in effetti era nei patti sin dall’origine. Ma poiché il ministro pare voler continuare in una ostinata intransigenza, la via di uscita è sempre più difficile e insidiosa. Per uscirne, è possibile che alla fine intervenga Conte con una formula vagamente compromissoria e vescovile. Ma sarebbe comunque un pasticcio umiliante per il governo e, se ci è consentito, anche per il Paese. Nel frattempo le proteste sono aumentate. Gli avvocati sono in aperta rivolta, e persino alcune toghe di ermellino, alle inaugurazioni dell’anno giudiziario, hanno manifestato perplessità di ordine costituzionale e difficoltà di gestione operativa. Quanto all’Associazione Nazionale Magistrati, ha perso un’occasione. In un primo tempo si era infatti dimostrata blanda e comprensiva, forse perché, come dicono i maligni, aveva contrattato questa neutralità disarmata con il ritiro della proposta di Bonafede di procedere al sorteggio dei membri del Csm. Poi però il Ministro ha creduto bene di indicare nell’azione disciplinare verso i giudici uno dei rimedi per abbreviare i processi. Proposta assurda, perché la loro lentezza dipende da ben altre cause, e i nostri magistrati avranno tanti difetti ma non quello della poltroneria. E questo ha scatenato la reazione delle toghe, che, sordi alla sottrazione dei diritti individuali con la sospensione della prescrizione, sono invece sensibilissimi quando - giustamente o no - vengono aggredite le loro prerogative. Sta di fatto che Bonafede si è trovato tutti contro, e anche il Pd comincia a rivedere la sua strategia che in questi ultimi tempi era pericolosamente scivolata verso un giacobinismo arrendevole. Concludo. In tutto questo, e comunque vada finire, ancora una volta la Giustizia - a cominciare dal pilastro del diritto alla difesa - è stata sacrificata sull’altare dei pregiudizi ingannevoli e delle convenienze contingenti. Ora vedremo l’atteggiamento di Renzi. Una sua resistenza, anche a costo di sacrificare Parigi, ne accrescerebbe la dignità politica. Un cedimento, significherebbe che Parigi è stata ridotta al rango di un villaggio, la Santa Messa a quello di un’omelia mattutina, e che anche la coscienza crociana è solo un accessorio di una precaria visibilità elettorale. Nordio: “Pochi reati, pene basse, ma certe” di Alessandra Ricciardi Il Foglio, 5 febbraio 2020 La ricetta è l’esatto opposto di quanto ha deciso sinora il Parlamento. La riforma pentastellata della prescrizione fa retrocedere il diritto di questo Paese al rango di diritto primitivo. Se poi, come pare, Bonafede vuole anche limitare gli appelli degli imputati e devolverli a un giudice unico, allora siamo proprio alla fine”. E invece, dice Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia, protagonista delle indagini sulle Brigate rosse venete e su Tangentopoli, occorrerebbe ribaltare il tavolo, ripartire dalla riforma della durata dei processi. Iniziando dalla depenalizzazione di molti reati bagattellari. “Quasi tutti i partiti credono che la quantità dei reati e la severità delle pene siano le armi migliori per combattere la delinquenza. Mentre è tutto il contrario”, spiega Nordio, “occorrono pochi reati, e pene anche più basse, ma certe”. La mediazione tentata tra M5s, favorevole alla riforma, e Italia viva, che ne chiede l’abrogazione, dal premier Giuseppe Conte ossia la sospensione sine die della prescrizione solo per i condannati di primo grado? “Sarebbe incostituzionale, per manifesta disparità di trattamento... è molto più ragionevole seguire la proposta Costa, ed eliminare del tutto la mostruosità”. Domanda. Andiamo con ordine. La riforma della prescrizione del ministro Bonafede è in vigore da gennaio. Cosa è cambiato? Risposta. Materialmente nulla, perché la norma non è retroattiva, e produrrà i suoi effetti dopo le sentenze di primo grado per reati commessi dal gennaio 2020, e quindi tra qualche anno. Ma è cambiato un mondo, perché con questa porcheria il Paese retrocede al rango del diritto primitivo, ammesso che possa ancora chiamarsi diritto. D. Per il ministro Bonafede occorre garantire la certezza dei processi. Gli avvocati lamentano invece la violazione del principio di presunzione di innocenza. Come stanno le cose? R. Gli avvocati hanno ragione, ma oltre alla presunzione di innocenza qui viene vulnerato e violato il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Sospendendo la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, l’imputato, e la vittima del reato, devono solo sperare in un evento futuro e incerto, cioè il giudizio definitivo, che senza lo stimolo della prescrizione sarà sempre più lontano. Quanto a Bonafede, la certezza del processo si attua predisponendo le riforme per renderlo più efficiente e rapido, ma di queste non c’è neanche l’ombra. D. Una volta tanto anche i magistrati, se non tutti una ampia maggioranza, evidenziano difetti e rischi. R. L’Associazione Nazionale Magistrati ancora una volta ha fatto una pessima figura. In un primo tempo aveva esitato su questo obbrobrio, e alcuni si erano detti addirittura favorevoli. Quando però Bonafede ha annunciato che uno dei modi per render più rapidi i processi era punire i magistrati che non avessero rispettato i termini, il sindacato ha fatto marcia indietro, e sono riemerse le perplessità e anche i dissensi. Se l’Anm avesse detto subito che questa riforma era di dubbia, e per me palese, incostituzionalità sarebbe stata molto più credibile. D. Quali sarebbero le ricadute per il sistema della giustizia italiana? Di quanti giudici in più avrebbero bisogno i tribunali per reggere? R. Per aver processi in tempi ragionevoli, andrebbero almeno raddoppiati i magistrati a oggi in servizio, e andrebbero triplicate le strutture di supporto amministrative. Ma poiché questo non è possibile, perché mancano i soldi e i concorsi non colmano nemmeno i vuoti, non resta che diminuire il carico: cioè depenalizzare molte fattispecie, semplificare le procedure, ma senza ridurre le garanzie, introdurre la discrezionalità dell’azione penale e il divieto di reformatio in peius. In Italia puoi essere assolto dopo un anno di dibattimento e poi condannato in appello, sulla base degli stessi atti cartacei, senza che il processo venga rinnovato. Un’altra assurdità che non solo allunga i tempi, ma confligge con il principio della condanna al di là di ogni ragionevole dubbio. Come puoi infatti condannare un imputato quando il giudice precedente ha dubitato così tanto da assolverlo?. D. Movimento5stelle e Italia viva sono ai ferri corti. Il premier Conte ha provato una mediazione: sospendere la prescrizione sine die solo per i condannati di primo grado e non per gli assolti. È una mediazione percorribile? R. A suo tempo, proprio dalle pagine di Italia Oggi, dissi che sarebbe stato il minimo. Ma in realtà sarebbe incostituzionale, per manifesta disparità di trattamento. D. La maggioranza al senato rischia, potrebbe passare una riforma opposta alla Bonafede, quella del ddl Costa. Ultima chance un rinvio della prescrizione. Giuridicamente possibile? R. Poiché gli effetti della riforma, come ho detto all’inizio, si sentirebbero tra qualche anno, c’è tutto il tempo o per eliminarla del tutto o per farla slittare, come era stato previsto in origine, fino al momento dell’entrata in vigore della riforma che acceleri i processi. Ma poiché quest’ultima è futura, incerta, e probabilmente fatta male, è molto più ragionevole seguire la proposta Costa, ed eliminare del tutto questa mostruosità D. Il vero problema, tutti concordano, è la durata dei processi. In tal senso torna in campo un intervento a lei caro, quello delle depenalizzazione. R. La Commissione per la riforma del codice penale, che ho avuto l’onore di presiedere quindici anni fa, aveva individuato tutta una serie di reati bagatellari da eliminare, convertendoli in illeciti amministrativi. Nel frattempo, al contrario, la produzione normativa è aumentata. Bisognerebbe riprendere tutto daccapo. D. Un’impresa, certamente dal punto di vista politico. R. Eh sì, sarebbe un’impresa politicamente difficile, perché quasi tutti i partiti credono che la quantità dei reati e la severità delle pene siano le armi migliori per combattere la delinquenza. Mentre è tutto il contrario: occorrono pochi reati, e pene anche più basse, ma certe. D. Mi fa un esempio? R. Oggi la legge prevede fino a trent’anni di galera per chi ruba in una sera in tre case diverse; poi il giudice gli dà diciotto mesi con la condizionale, e il giorno dopo l’arresto il ladro è libero. Un codice buono prevede “solo” dieci anni, un giudice bravo gliene dà quattro, e un sistema serio glieli fa scontare tutti, magari con sanzioni alternative ma afflittive ed efficaci. D. Una politica che mette così le mani nella giustizia (prima si fa la prescrizione, poi si discute della durata del processo, per esempio) che immagine rende del Paese all’estero? R. Dà un’immagine pessima, di scarsa serietà, di incompetenza e di nessuna considerazione per i diritti individuali. Se poi, come pare, Bonafede vuole anche limitare gli appelli degli imputati e devolverli a un giudice unico, allora siamo proprio alla fine. Se i magistrati parlassero meno l’Italia sarebbe più libera di Iuri Maria Prado Il Riformista, 5 febbraio 2020 In italiano aulico si direbbe chiagni e fotti. Qui, in modo corrente, diciamo che lascia almeno perplessi la tesi secondo cui i magistrati sarebbero a rischio di mordacchia. Pure, la tesi che sfila è ormai questa. Giusto l’altro giorno - mentre, come ogni giorno, tutti i quotidiani e le televisioni d’Italia erano impegnati nel riporto di qualsiasi sbuffo togato - un noto collaboratore de Il Fatto Quotidiano, Gian Carlo Caselli, ha scritto che “le gravi difficoltà della stagione che stiamo vivendo non consentono il lusso del silenzio”. E spiega: “Altrimenti, mentre tutti parlano di giustizia, sarebbero solo i magistrati a non poterlo fare”. Il che, per il collaboratore del giornale di Marco Travaglio, sarebbe assurdo: come se si pretendesse il silenzio dei medici quando si discute di sanità o quello dei giornalisti quando si parla di informazione. Che dire? Un paio di cose. La prima: che davanti alla scena di un dibattito pubblico dove la parola della magistratura corporata non è propriamente inibita, queste considerazioni di Gian Carlo Caselli si profilano in modo abbastanza incongruo. Forse assistiamo a uno spettacolo diverso, ma a noi francamente non sembra che nella temperie italiana il diritto di parola del magistrato incontri gravi impedimenti di esercizio. Ma una seconda osservazione bisogna fare a proposito di quel che scrive: e cioè che paragonare i magistrati agli esponenti di altri mestieri non si può, perché il mestiere di magistrato non è un mestiere come un altro. Se si discute pubblicamente di dare questo o quel potere alle forze armate, a me suona un po’ male che un colonnello a capo del suo reggimento partecipi al convegno pretendendo di “dire la sua”. Perché magari lui non lo vuole, ma c’è almeno il sospetto che le cose che dice possano affermarsi grazie al timore incusso dalle armi che la società gli ha dato il potere di maneggiare. Ed è un potere che al militare è stato attribuito per proteggere la società dalla sopraffazione della violenza illegale: non per partecipare alla vicenda civile e politica del Paese. E nel caso dei magistrati è tanto diverso? Non è tanto diverso e anzi è proprio lo stesso. Perché anche il magistrato è un uomo armato: è armato del potere di giudicare e imprigionare le persone, e questo potere non è meno offensivo giusto perché punta contro i cittadini la minaccia del carcere anziché la bocca di un fucile. Probabilmente nemmeno lui, nemmeno il magistrato che, armato del suo potere, pretende di dire la sua al modo del colonnello in parata, vuole davvero che le sue parole, i suoi propositi di riforma, le sue istanze di governo della giustizia, rischino di imporsi in forza della capacità intimidatoria dei pericolosi strumenti di lavoro che la società gli ha messo in mano. Ma io discuto molto mal volentieri se il mio interlocutore ha una pistola, e non è che sono più tranquillo se anziché metterla sul tavolo la tiene nella fondina. Pare che la questione neppure vagamente impensierisca i magistrati che rivendicano il diritto di occupare ogni luogo del dibattito pubblico in tema di giustizia. E visto che non li impensierisce i casi sono due: o non si rendono conto di quanto sia pericoloso che il loro intervento si imponga sulla scena di una società intimorita dal loro potere, e allora si tratta di una improbabile buona fede che sarebbe anche facile perdonare; oppure se ne rendono conto benissimo e cioè sanno perfettamente che il loro eloquio è invigorito dal potere di cui dispongono, vale a dire il potere di rinchiudere in una cella la vita di una persona: e allora quella buona fede è irriconoscibile, ed è imperdonabile la loro pretesa d’aver voce in capitolo. Vorremmo magistrati inchinati davanti al potere di cui dispongono, cioè timorosi e saggi nell’esercitare il potere immenso che gli abbiamo attribuito. Invece spesso vediamo una magistratura impettita, che ci intima di inchinarci davanti alla sua pretesa di dire e fare tutto ciò che vuole. Un’Anm a 5 stelle di Ermes Antonucci Il Foglio, 5 febbraio 2020 Prescrizione ma non solo. Come nasce il patto tra il presidente della Anm e Bonafede (e cosa c’è sotto). Ora che, come abbiamo raccontato ieri, anche i massimi vertici degli uffici giudiziari di tutta Italia (dal primo presidente di Cassazione ai presidenti delle corti d’appello e i procuratori generali) hanno bocciato senza scampo la riforma della prescrizione in vigore dal 1° gennaio, non sono in pochi a chiedersi come mai l’Associazione nazionale magistrati, cioè il sindacato delle toghe, continui imperterrita a sostenere la riforma voluta dal ministro Alfonso Bonafede. Tra il presidente dell’Anm, Luca Poniz, e il Guardasigilli (e più in generale il M5s) scorre certamente un’intesa profonda di stampo giustizialista. Basti pensare al modo con cui, lo scorso agosto, Poniz si espresse a favore della riforma della prescrizione: “La riforma dissuade il ricorso al secondo e terzo grado di giustizia per chi è stato condannato e magari il reato lo ha commesso”, disse il presidente dell’Anm, distorcendo in questo modo il contenuto della norma poi entrata in vigore (che non si applica solo alle persone condannate in primo grado, ma anche a quelle assolte) e aderendo alla vecchia cara “dottrina Davigo”, secondo cui gli italiani sono tutti colpevoli non ancora scoperti. Di recente, Poniz si è anche detto favorevole al “lodo Conte”, il mostro giuridico e anticostituzionale ideato dal premier nel tentativo di condurre i partiti di maggioranza all’intesa sulla prescrizione, e che prevede l’applicazione della riforma Bonafede solo ai condannati in primo grado, destinando questi ultimi a processi potenzialmente eterni. Il presidente dell’Anm ha affermato che la distinzione tra condannati e assolti in primo grado “è saggissima, non capisco perché dovrebbe essere incostituzionale”, aggiungendo che il lodo “sta dentro il principio di uguaglianza”, perché “condannati e assolti sono due cose diverse”. Insomma, ancora una volta il presidente dell’Anm sembra ignorare l’articolo 27 della nostra Costituzione, che stabilisce invece che condannati e assolti in primo grado non vanno considerati diversamente, ma allo stesso modo, vale a dire innocenti fino a sentenza definitiva. Ma l’intesa tra Poniz e Bonafede sembra aver trovato slancio soprattutto a partire dal congresso nazionale tenuto dall’Anm a Genova a fine novembre. In quell’occasione è accaduto qualcosa, diciamo così, di speciale, che vale la pena ricordare. Nella relazione di apertura del congresso, Poniz muove - a sorpresa - alcune critiche nei confronti della riforma della prescrizione: “Svincolata da riforme strutturali, come da noi richieste, rischia di produrre squilibri”, afferma, aggiungendo che la politica deve trovare “un punto di equilibrio tra irrinunciabili riforme organiche di un sistema complesso, sapendo percorrere vie come il significativo potenziamento di riti alternativi”. Il presidente dell’Anm sembra suggerire un rinvio dell’entrata in vigore della riforma, per permettere di velocizzare prima i tempi della giustizia, e infatti le sue parole creano scalpore, tanto da essere rilanciate dall’ex Guardasigilli, e vicesegretario del Pd, Andrea Orlando. Il giorno dopo, il ministro della Giustizia Bonafede si presenta col cappello in mano al congresso dell’Anm e, dopo aver incensato le toghe (“I nostri magistrati sono tra i migliori al mondo, lavorano duramente e senza sosta”), di fronte alla platea di magistrati annuncia di voler abbandonare l’ipotesi di introduzione del sorteggio per l’elezione dei consiglieri togati del Csm, di cui tanto si era parlato in seguito allo scandalo sulle nomine pilotate dalle correnti, e su cui si era scatenata l’ira del sindacato togato. Applausi scroscianti dei presenti. L’Anm incassa il passo indietro di Bonafede sul sorteggio e, poche ore dopo, cambia rotta sulla riforma del Guardasigilli. “La prescrizione così com’è va benissimo e renderà impossibile un uso strumentale delle impugnazioni”, dichiara Poniz, che poi ribadisce: “Non c’è nessuna bomba atomica. Il 1° gennaio non succede niente”. Insomma, tra l’Anm e Bonafede è avvenuto uno scambio di amorosi sensi, ma soprattutto di interessi. Caso Regeni, “il nostro ambasciatore in Egitto non collabora” di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 febbraio 2020 Ascoltati in Commissione parlamentare d’inchiesta i genitori di Giulio: “Zone grigie sia dal governo egiziano che da parte italiana”. La permanenza dell’ambasciatore italiano in Egitto risponde a politiche e logiche distanti da quelle che dovrebbe perseguire un Paese sovrano, e democratico come l’Italia. A quattro anni dall’assassinio di Giulio Regeni, la questione viene riproposta con forza dai suoi genitori durante un’audizione in Commissione parlamentare d’inchiesta: “L’ambasciatore italiano al Cairo, Giampaolo Cantini, da molto tempo non ci risponde, evidentemente persegue altri obiettivi rispetto a verità e giustizia, mentre porta avanti con successo iniziative su affari e scambi commerciali tra i due Paesi”, denuncia Claudio Regeni ascoltato ieri, insieme alla moglie Paola Deffendi e alla loro avvocata Alessandra Ballerini, dalla Commissione bicamerale creata ad hoc per fare luce sulla morte del giovane ricercatore friulano rapito il 25 gennaio 2016 nei pressi della propria abitazione al Cairo e ritrovato cadavere orrendamente torturato il 3 febbraio successivo nei pressi di una prigione dei servizi segreti egiziani. I due coniugi - che hanno appena dato alle stampe per Feltrinelli il loro racconto di questi quattro anni nel libro Giulio fa cose - parlano espressamente di responsabilità congiunte: “Ci sono zone grigie sia dal governo egiziano, che è recalcitrante e non collabora come dovrebbe, ed anche da parte italiana, che non ha ancora ritirato il nostro ambasciatore al Cairo”, come chiedono da tempo. E, sottolinea Paola Deffendi, la scelta compiuta in pieno Ferragosto 2017 dall’allora ministro degli Esteri Angelino Alfano di rinviare il nuovo ambasciatore, dopo che Maurizio Massari era stato richiamato nell’aprile 2016, è stata “una fuffa velenosa”. I Regeni raccontano tutti gli incontri istituzionali avuti: il 7 marzo 2016 l’allora premier Matteo Renzi li volle incontrare “senza legali, cosa che oggi non faremmo più. Quella volta l’emotività e il desiderio di muovere le cose ci fece accettare di andare senza. Fu una cosa strana”. Era la prima volta che si vedevano, ma a luglio poi “ci fu un nuovo incontro in cui Renzi ci fa un discorso come se fossero già in Italia i famosi video della sorveglianza della metro”, quelli che la procura di Roma chiese invano per mesi e ottenne solo due anni dopo, nel maggio 2018. Allora, invece, “ci venne detto come se quei video fossero stati già visti. Noi restammo basiti”. Poi fu la volta del premier Paolo Gentiloni “che il 20 marzo 2017 voleva convincerci che prima o poi sarebbe stato il caso di rimandare l’ambasciatore al Cairo”. E fino ai giorni nostri: il 6 ottobre scorso il ministro Luigi Di Maio disse loro che “se entro il 28 novembre non ci sono novità nella collaborazione alle indagini, ritiriamo l’ambasciatore. Prima della scadenza, con una lettera maleducata il nuovo procuratore egiziano annuncia che ci sarà un incontro quando sarà nominato il procuratore di Roma, bypassando il titolare delle indagini Sergio Colaiocco”. Ai membri dell’organismo presieduto da Erasmo Palazzotto (Leu) che a metà dicembre scorso hanno sentito raccontare della mancata collaborazione egiziana anche dai procuratori di Roma Colaiocco e Prestipino, i signori Regeni riferiscono poi che negli stessi giorni in cui Giulio era nelle mani dei suoi aguzzini, “tra il 25 gennaio e il 4 febbraio 2016, era presente al Cairo il direttore dell’Aise (il servizio segreto per l’estero, ndr), Alberto Manenti”. Una presenza che potrebbe aver messo fuoristrada gli apparati del regime di Al Sisi? “Perché è stato ucciso Giulio? - si chiede l’avvocata Ballerini - La ricerca che stava conducendo non è la risposta. Altri facevano ricerche potenzialmente più pericolose della sua. È stato ucciso perché si trovava in un regime paranoico dove tutto può succedere perché non c’è il minimo rispetto per i diritti umani”. Perciò, afferma la legale, “l’Italia dovrebbe inserire l’Egitto nella lista dei Paesi non sicuri: lì 3-4 persone ogni giorno fanno la fine di Giulio”. D’altronde “è evidente - continua Ballerini - che Giulio è stato preso dagli apparati egiziani, tanto che Massari si attivò parlando con il ministro degli Interni e le stazioni di polizia. Perché, ce lo hanno ribadito altre persone, Giulio non è il primo italiano preso: è il primo che viene torturato e ucciso, ma altri italiani sono stati presi, e in un caso uno è stato molto maltrattato. Per questo motivo - ha sostenuto il legale - Massari ha usato una strategia sotto traccia, una strategia già collaudata nel tempo e funzionante per altri casi di italiani”. Quanto ai nostri connazionali arrestati e poi rilasciati, “sono così terrorizzati che non parlano. Uno ci ha contattato, pentito per non aver parlato perché ci ha detto che magari si sarebbe saputo che l’Egitto non è un Paese sicuro”. E ancora: “Siamo costantemente spiati dagli egiziani, ho presentato un esposto alla procura di Genova”, ha aggiunto Ballerini. “Tempo fa ho comunicato al telefono con i nostri consulenti e loro sono stati subito chiamati a riferire dal commissariato di Doki. Le nostre telefonate vengono ascoltate e ancora adesso ai convegni in Italia c’è qualche egiziano che fotografa i presenti”. Fatti già denunciati più volte pubblicamente dalla famiglia Regeni ma che in questa cornice istituzionale assumono una rilevanza speciale. Palazzotto però, rispondendo ai giornalisti, non entra nel merito delle richieste dei genitori di Giulio: “Non spetta a me discutere dei rapporti diplomatici tra Italia e Egitto. Penso che la famiglia abbia la legittimità di chiedere alle istituzioni atti concreti e forti che restituiscano autorevolezza al nostro Paese nel rivendicare la cooperazione che finora non c’è stata da parte dell’Egitto”. Nel frattempo, alla Camera il presidente Roberto Fico ha incontrato Ahmed Abdallah, consulente della famiglia Regeni al Cairo. L’incontro, ha scritto l’esponente 5 Stelle su Facebook, “è servito per fare un punto sullo stato delle indagini, ma anche sulla situazione e sulle preoccupazioni dell’associazione di cui fa parte Abdallah, l’Ecrf, che in questi anni in un contesto difficile ha fornito un contributo coraggioso nella ricerca della verità”. Piccoli movimenti, per non lasciare Giulio da solo a fare cose. Genitori entrambi detenuti? Il figlio è adottabile di Maria Elena Bagnato altalex.com, 5 febbraio 2020 Cassazione civile, ordinanza n. 319/2020: dal loro stato di detenzione deriva lo stato di abbandono del minore e dunque la sua adottabilità. Se entrambi i genitori sono detenuti, il figlio minore è adottabile, in quanto lo stato di abbandono di quest’ultimo non dipende da cause di forza maggiore transitorie, ma dalla condizione di carcerazione del padre e della madre. Questo è quanto precisato dalla Corte di Cassazione, Sezione Sesta Civile, Sottosezione 1, nell’ordinanza 10 gennaio 2020, n. 319. La pronuncia in esame trae origine dal ricorso presentato da un padre, avverso la sentenza con cui la Corte territoriale aveva confermato la declaratoria dello stato di adottabilità del figlio dell’uomo. La Suprema Corte ha esaminato congiuntamente i motivi del ricorso. In particolare, con riferimento all’accertamento dello stato di abbandono, la Cassazione ha evidenziato che è consolidato il principio secondo cui, l’esigenza del figlio di vivere nell’ambito della propria famiglia di origine può venir meno se sussiste un grave pregiudizio per un suo equilibrato ed armonioso sviluppo, qualora la famiglia di origine non sia in grado di garantirgli la necessaria assistenza e stabilità affettiva. È evidente che le carenze morali e materiali che integrano lo stato di abbandono del minore, non devono dipendere da cause di forza maggiore di natura transitoria, atteso che, l’adozione costituisce una misura di tipo eccezionale cui si ricorre solo se si siano dimostrate impraticabili altre soluzioni, anche di carattere assistenziale, dirette a favorire il ricongiungimento del figlio con i genitori biologici. Nel caso in esame, la condizione di abbandono del minore può essere dimostrata anche in virtù dell’esistenza dello stato di detenzione del genitore, riconducibile alla condotta criminosa dello stesso, non integrante gli estremi della causa di forza maggiore transitoria, prevista dalla L. n. 184 del 1983, art. 8, come motivo di giustificazione della mancata assistenza al figlio. Pertanto, la Cassazione ha rilevato che il giudice di merito ha applicato correttamente i summenzionati principi nella sentenza impugnata, avendo considerato lo stato di detenzione di entrambi i genitori, per reati contro il patrimonio e contro la persona, oltre che reati collegati all’uso di sostanze stupefacenti. Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la valutazione negativa della capacità genitoriale dello stesso è riconducibile al provvedimento di decadenza dalla responsabilità sul figlio, emanato anni prima, che il genitore non ha mai impugnato. Di conseguenza, la sussistenza dello stato di reclusione per i reati sopra indicati, nonché la decadenza dalla potestà genitoriale, giustificano pienamente la decisione negativa della Corte territoriale relativamente alla possibilità di recupero della capacità genitoriale del padre, situazione non rimediabile ricorrendo alle misure di sostegno, che, non potrebbero essere applicate in tempi brevi, sussistendo lo stato di reclusione del ricorrente, e ciò sarebbe in contrasto con l’esigenza di una sollecita definizione delle questioni collegate alla tutela del minore. Per tali motivi, la Suprema Corte ha ritenuto infondati i motivi proposti e rigettato il ricorso. Stupefacenti: coltivazione domestica punita se la quantità non fa presumere l’uso personale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 febbraio 2020 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 4 gennaio 2020 n. 4666. Via libera alla condanna per la coltivazione domestica della canapa, se fatta con tecniche e in quantità tali da far escludere l’uso personale. La Cassazione, con la sentenza 4666 conferma così la condanna a carico del ricorrente per il reato di coltivazione detenzione di sostanza stupefacente. Nell’abitazione erano infatti state trovate piante essiccate e 85 grammi di marijuana, dalla quale potevano essere ricavate 270 dosi. Inutilmente la difesa contesta il reto di coltivazione perché non erano state rinvenute piantine in crescita. Ma oltre alle piante essiccate, ad inchiodare il ricorrente, era stata l’attrezzatura: una serra del fertilizzante e un sistema di ventilazione. Il tutto portava ad escludere una coltivazione per uso personale. La Cassazione sottolinea che la decisione è in linea con la sentenza delle sezioni unite, di cui mancano ancora le motivazioni, del 19 dicembre scorso, secondo la quale il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta del tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente. Per le Sezioni unite devono però considerarsi escluse dall’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni, svolte in forma domestica che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiano destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore. Nello specifico per i giudici non era così. Con il nuovo Codice non cambia la bancarotta di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 febbraio 2020 Con il nuovo Codice della crisi non c’è stata depenalizzazione. Non cambiano cioè i presupposti civilistici del reato di bancarotta. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 4772 della Quinta sezione penale depositata ieri. Bollato quindi con l’inammissibilità il ricorso presentato dalla difesa di un imputato contro la pena, peraltro oggetto di patteggiamento, cui era stato condannato per avere riportato nei bilanci di esercizio di una srl dichiarata fallita fatti non corrispondenti a verità, nascondendo perdite tali da annullare il patrimonio netto, provocando così il dissesto della società. L’unico motivo alla base dell’impugnazione era costituito dal cambiamento della legge extra penale messa a fondamento dei fatti di bancarotta fraudolenta: determinante sarebbe stata l’approvazione del nuovo Codice della crisi, decreto legislativo n. 14 del 2019 di riforma della Legge fallimentare, e, in particolare, degli articoli 389 e 390. La risposta della Cassazione è netta, non c’è stata abolitio criminis. Tra l’altro, le norme civilistiche di riferimento neppure sono entrate in vigore, visto che lo saranno solo dal prossimo 15 agosto. In ogni caso, il nuovo Codice della crisi è in dichiarata continuità con le fattispecie penali antecedenti. E neanche la difesa ha sostenuto l’applicazione della, questa sì nuova, causa di non punibilità per tenuità del fatto oppure della relativa attenuante per coprire la condotta dell’imprenditore che, in un contesto di danni di relativa gravità, si è attivato con l’Ocri e comunque per una soluzione concordata della crisi. Quanto poi alla disciplina civilistica, che di quella penale rappresenta un presupposto, la sentenza della Cassazione sottolinea come le novità siano più terminologiche che di sostanza. A venire sostituito è il termine “fallimento” con “liquidazione” e a venire distribuiti diversamente sono compiti e poteri del giudice delegato, del curatore, dei creditori e del soggetto interessato e le diverse scansioni processuali. Non abbastanza per fare ritenere che sia stato investito da un significativo cambiamento anche il presupposto dell’”insolvenza dell’impresa” sul quale si fondano le norme penali che, infatti, sono rimaste inalterate, tranne nell’aggiornamento del lessico dei nuovi presupposti di applicabilità. Il ricorso è così giudicato inammissibile, tanto più poi che il Codice di procedura penale lo ritiene possibile contro la sentenza di patteggiamento solo per motivi che riguardano l’espressione della volontà dell’imputato, il difetto di collegamento fra la richiesta e la sentenza, l’erronea qualificazione del fatto, e l’illegalità della pena o della misura di sicurezza. È stato firmato un protocollo d’intesa tra il Provveditore regionale della Amministrazione Penitenziaria della Campania diretto dal Dott. Antonio Fullone ed il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania Prof. Samuele Ciambriello. Il Garante si impegna come interlocutore dell’Amministrazione penitenziaria al fine di sollecitare, suggerire, valutare e promuovere attività di sostegno ed integrazione in materia di diritto alla salute; diritto allo studio ed alla formazione, anche di intesa con agenzie istituzionali di settore; diritto al lavoro ed alla formazione professionale; preparazione alla dimissione e sostegno della misura alternativa alla detenzione; ogni altra materia ricollegabile alla competenza regionale. Il Provveditore e il Garante realizzeranno patti annuali finalizzati alla tutela e alla promozione dei diritti dei detenuti, al miglioramento delle condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari, al potenziamento dei percorsi di reinserimento sociale. Per il Garante campano Samuele Ciambriello: “Questo protocollo coniugherà anche efficacia ed efficienza per la promozione di progetti sperimentali di inclusione al fine di migliorare la condizione di vita della popolazione carceraria in Campania impegnando per momenti di formazione e aggiornamento congiunti anche personale dell’Amministrazione penitenziaria. Sono grato al Provveditore regionale per questo metodo sinergico e per la qualità della nostra collaborazione”. In attuazione del presente protocollo le direzioni degli Istituti penitenziari della Campania potranno stipulare specifici accordi con il Garante regionale, al fine di promuovere e sostenere, anche economicamente, i protocolli di intesa per il lavoro di pubblica utilità in favore della popolazione detenuta negli Istituti campani. Il Garante porrà in essere tutte le azioni possibili per creare anche un fondo per attribuire borse di lavoro mirate ad incentivare l’adesione volontaria di un sempre maggior numero di detenuti al processo di reinserimento lavorativo e di giustizia riparativa. Friuli Venezia Giulia. Progetti formativi per i detenuti di Marina Caneva gnewsonline.it, 5 febbraio 2020 È stato pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione Friuli Venezia Giulia l’avviso che consente la presentazione di operazioni di carattere formativo a favore dei residenti presso gli istituti penitenziari regionali. L’avviso si inserisce nell’ambito del Programma 2019 per la formazione della popolazione detenuta nelle cinque case circondariali presenti sul territorio della Regione, attivato grazie alle risorse del Fondo Sociale Europeo nel Programma Operativo Regionale 2014-2020. Con questa comunicazione si dà attuazione ai protocolli sottoscritti tra la Regione e il ministero della Giustizia, assicurando, in continuità con la precedente programmazione, un’offerta formativa adeguata alle esigenze e ai fabbisogni dei detenuti e del territorio, individuati dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto e dalle aree pedagogiche, sulla base delle caratteristiche dell’utenza e della disponibilità di aule e laboratori. Da quest’anno, inoltre, sono subentrati alcuni cambiamenti favorevoli: per rispondere meglio alle particolari esigenze organizzative degli istituti, infatti, è stata prevista la possibilità di finanziare le proposte formative non più tramite bando annuale ma con modalità “a sportello”, con cadenza mensile, consentendo di rispondere in maniera più aderente e tempestiva ai fabbisogni dell’utenza di volta in volta emergenti. L’avviso, inoltre, introduce la possibilità di realizzare non solo corsi professionalizzanti ma anche interventi più brevi, dedicati all’orientamento al lavoro, all’alfabetizzazione informatica e linguistica e al recupero delle competenze socio-relazionali, cognitive, organizzative, che sono presupposto indispensabile per ogni futuro inserimento lavorativo. Il tutto per un finanziamento complessivo di 1,2 milioni di euro. Attenzione specifica è stata posta al tema della sicurezza e della salute sui luoghi di lavoro con l’obbligo di dedicarvi alcune ore. Le competenze trasversali e professionali acquisite anche con modalità didattiche innovative e sperimentali, permetteranno di soddisfare non solo la richiesta di lavoro intramurario, ma saranno fruibili anche all’esterno. Il risultato raggiunto è il frutto di un lavoro operoso degli uffici del PRAP di Padova e della Regione Friuli Venezia Giulia con la sua articolazione regionale che si occupa di formazione professionale, sostenuta da una corrispondente volontà politica che riconosce nel lavoro e nella formazione professionale uno strumento indispensabile per fare “buona sicurezza”. Campania. Firmato protocollo tra Provveditore e Garante dei detenuti ottopagine.it, 5 febbraio 2020 Per favorire attività di integrazione in materia di diritto alla salute, studio e formazione. È stato firmato un protocollo d’intesa tra il Provveditore regionale della Amministrazione Penitenziaria della Campania diretto da Antonio Fullone ed il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania, Samuele Ciambriello. Il Garante si impegna come interlocutore dell’Amministrazione penitenziaria al fine di sollecitare, suggerire, valutare e promuovere attività di sostegno ed integrazione in materia di diritto alla salute; diritto allo studio ed alla formazione, anche di intesa con agenzie istituzionali di settore; diritto al lavoro ed alla formazione professionale; preparazione alla dimissione e sostegno della misura alternativa alla detenzione; ogni altra materia ricollegabile alla competenza regionale. Il Provveditore e il Garante realizzeranno patti annuali finalizzati alla tutela e alla promozione dei diritti dei detenuti, al miglioramento delle condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari, al potenziamento dei percorsi di reinserimento sociale. Per il Garante campano Samuele Ciambriello: “Questo protocollo coniugherà anche efficacia ed efficienza per la promozione di progetti sperimentali di inclusione al fine di migliorare la condizione di vita della popolazione carceraria in Campania impegnando per momenti di formazione e aggiornamento congiunti anche personale dell’Amministrazione penitenziaria. Sono grato al Provveditore regionale per questo metodo sinergico e per la qualità della nostra collaborazione”. In attuazione del presente protocollo le direzioni degli Istituti penitenziari della Campania potranno stipulare specifici accordi con il Garante regionale, al fine di promuovere e sostenere, anche economicamente, i protocolli di intesa per il lavoro di pubblica utilità in favore della popolazione detenuta negli Istituti campani. Il Garante porrà in essere tutte le azioni possibili per creare anche un fondo per attribuire borse di lavoro mirate ad incentivare l’adesione volontaria di un sempre maggior numero di detenuti al processo di reinserimento lavorativo e di giustizia riparativa. Firenze. “Il lavoro in carcere? Poco e formazione scarsa” quinewsfirenze.it, 5 febbraio 2020 La Cgil Firenze ha organizzato un convegno con l’obiettivo di analizzare il fenomeno che vede i detenuti impiegati dentro e fuori dai penitenziari. Negli Istituti di pena fiorentini la possibilità di essere adibiti al lavoro viene offerta mediamente a non più del 30 per cento degli aventi diritto, “per poche ore al giorno e per pochi mesi con turnazioni, ad esempio, di un mese per i lavori generici come le pulizie, tre mesi per quelli specifici o anche di un anno per quelli più specialistici come il bibliotecario o cuoco, per consentire a tutti di lavorare” è quanto sottolineato dalla Cgil Firenze che ha organizzato un incontro sul tema la mattina del 5 febbraio in Borgo dei Greci. La Cgil organizzatrice del convegno ha spiegato “Si tratta nel 90 per cento dei casi di lavori interni e a bassissimo contenuto formativo mentre i lavori assegnati dalle Istituzioni esterne o attraverso le cooperative sono in numero molto ridotto. Inoltre a tali lavori non viene affiancata una opportuna formazione che possa consentire loro di spendere, una volta scontata la pena, alcuni elementi di competenza per la ricerca di nuovi lavori. Tutto questo non solo perché i fondi sono pochi ma anche perché non c’è abbastanza attenzione da parte delle Istituzioni a questo tema che invece può rientrare a pieno diritto anche nell’ambito dell’investimento sulla sicurezza di un territorio e sulla sua condizione di sviluppo e civiltà”. “Il 26 febbraio 2018 è stato firmato un Protocollo da parte del Comune di Firenze con l’Università di Firenze e le Associazioni delle Cooperative di tipo B, che è tutt’ora in vigore e che individua in alcune gare di appalto la possibilità di favorire l’integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate. Con l’iniziativa del 5 febbraio si vuole partire da una verifica su quello che è stato fatto anche a fronte di questo protocollo e sollecitare l’impegno non solo del Comune attraverso ad esempio le società partecipate, ma anche del Governo (sarà presente per questo il Sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis) e di tutte le Istituzioni, del mondo delle cooperative, affinché si migliorino gli strumenti, si rimuovano gli impedimenti e si individuino concretamente nuove possibilità di adibizione al lavoro dei detenuti come avviene anche in altri Istituti Penitenziari in Italia, come ad esempio Padova” conclude la nota diramata dal sindacato per presentare l’evento. Tra i relatori Elena Aiazzi, Segreteria Cgil Firenze, Gianfranco De Gesu, Provv. Amm.ne Penitenziaria Toscana-Umbria, Fabio Prestopino, Direttore Casa Circondariale Sollicciano, Eros Cruccolini, Garante dei detenuti, Antonella Tuoni, Direttrice Casa Circ. Mario Gozzini, Donato Nolè, Polizia Penitenziaria, Gianfranco Politi, Responsabile Area Educativa Sollicciano, Elisabetta Beccai, Responsabile Area Educativa Gozzini, Salvatore Nasca, Direttore Uepe, Giuseppe Caputo, Associazione L’altro diritto, Gianni Autorino, Coop. Ulisse Firenze, Daniele Bertusi, Coop. Cat Firenze, Andrea Vannucci, Assessore Comune di Firenze, Andrea Giorgis, Sottosegretario di Stato al Ministero della Giustizia, Paola Galgani, Segretaria Generale Cgil Firenze e Donato Petrizzo, Fp Cgil Firenze. Alba (Cn). Nulla di fatto per i lavori al carcere Montalto gazzettadalba.it, 5 febbraio 2020 Continua a essere avvolto nel mistero il destino della Casa di reclusione Giuseppe Montalto di Alba, chiusa nel gennaio del 2016 a causa del batterio della legionella e riaperta a giugno del 2017 solo in minima parte, riducendo una macrostruttura da 142 detenuti a uno spazio ristretto a 33 posti regolamentari. E allo stesso tempo condannando all’abbandono, oltre che a un progressivo deperimento, la maggior parte delle celle e la quasi totalità degli spazi comuni, come il teatro e la biblioteca, che vanta migliaia di volumi. Una situazione che si protrae ormai da due anni, nonostante promesse e rinvii da parte dei Governi che si sono succeduti, come spiega il garante comunale per i detenuti Alessandro Prandi: “La situazione pare davvero insostenibile, soprattutto per la chiara indifferenza ormai manifestata dai vari enti decisori nei confronti del carcere di Alba. Secondo le ultime notizie in merito, i lavori di rifacimento dell’impianto idrico della struttura sono stati inseriti nel programma triennale ministeriale delle opere pubbliche 2019-2021, con uno stanziamento di 4 milioni di euro e la previsione del 2019 come anno per l’affidamento dei lavori. Ma fin qui si è registrato un nulla di fatto: di recente ho scritto anche al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, senza avere risposta”. Oggi ad Alba sono 45 i detenuti, di cui 5 stranieri. Trento. Assistenza sanitaria per i detenuti 24 ore su 24 di Marina Caneva gnewsonline.it, 5 febbraio 2020 Dal 20 gennaio scorso le oltre 300 persone detenute nella Casa Circondariale di Trento possono contare su un servizio di assistenza sanitaria che assicura la copertura delle 24 ore. Il risultato è frutto dello sforzo continuo delle due amministrazioni, penitenziaria e sanitaria, di pervenire a effetti concreti sul piano della tutela della salute dei detenuti. Il nuovo assetto organizzativo è stato realizzato dopo aver studiato e comparato il servizio già realizzato presso altre Regioni e assegna il servizio di medicina penitenziaria alle cure primarie della medicina territoriale, avvalendosi sia di medici dipendenti dall’azienda sia di liberi professionisti con specifica esperienza in strutture detentive. Inoltre tiene conto del fatto che il carico assistenziale è direttamente correlato all’elevato turn-over e al numero dei nuovi ingressi, e non solo al numero di presenze. L’equipe medica è ora composta da 6 medici con incarichi e orari diversi, oltre al coordinatore della rete provinciale e a collaborazioni da parte di altri medici, quando necessario. Dopo l’apertura del nuovo istituto penitenziario trentino nel 2011, era stata segnalata più volte alle istituzioni regionali e nazionali la mancanza di assistenza H24 in favore della popolazione detenuta. Il ricorso all’intervento del Servizio 118 nelle situazioni di emergenza non era certamente adeguato a soddisfare la domanda ordinaria: il modello organizzativo adottato nel 2012 prevedeva infatti l’affidamento alla medicina d’urgenza dell’Ospedale Santa Chiara in assenza del servizio medico, presente dalle 8 alle 21 nei giorni feriali e dalle 8 alle 20 in quelli festivi e prefestivi. La copertura medica all’interno del carcere si inquadra in un più ampio progetto di ottimizzazione della sanità penitenziaria che, grazie ai periodici incontri dell’Osservatorio Permanente Sanità Penitenziaria, ha condotto all’approvazione del Piano provinciale di prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti, in attuazione del Piano nazionale, e alla sottoscrizione del Piano locale. Importanti risultati sono stati raggiunti anche grazie al potenziamento del servizio infermieristico e psicologico, al perfezionamento delle procedure di distribuzione dei farmaci e alla presenza, dal 1° agosto 2019, di uno specialista psichiatra con esperienza nel settore penitenziario. Anche l’attenzione e la sensibilità istituzionali dimostrate dal Procuratore della Repubblica e dal Prefetto hanno contribuito a rendere più fluida la collaborazione tra l’Amministrazione Penitenziaria e quella provinciale in materia sanitaria. L’obiettivo è quello di garantire i livelli essenziali di assistenza alle persone detenute, in una gestione sinergica che preveda la somministrazione di interventi multidisciplinari e consenta di assicurare la tutela della salute nel rispetto delle esigenze di sicurezza degli istituti penitenziari. Milano. Calabresi e i fiori sulla targa di Pinelli: “Vile chi l’ha oltraggiata” di Alessandro Fulloni Corriere della sera, 5 febbraio 2020 Il giornalista, figlio del commissario ucciso a Milano da un commando di Lotta Continua, ha postato la foto su Twitter: “Li ha messi mia madre, uno per me e uno per lei”. Il sindaco Sala: “Ne rimetteremo una nuova”. Il vandalismo - sconcertante - è stato scoperto lunedì mattina dall’Anpi. È stato il presidente della sezione di Milano Roberto Cenati a raccontare che “la targa dedicata a Giuseppe Pinelli dal Comune nella ricorrenza del cinquantesimo anniversario di piazza Fontana e della tragica fine di Pinelli, diciottesima vittima, è stata oltraggiata e spaccata. La gravissima provocazione è avvenuta in piazza Segesta”. A pochi passi da dove viveva la stessa famiglia Pinelli, zona San Siro. Martedì - saranno state circa le 13 - il giornalista Mario Calabresi ha twittato: “Danneggiare la lapide di Pino #Pinelli è un gesto vile e infame. Noi ci abbiamo messo un fiore, perché è quello che merita”. Raggiunto telefonicamente dal Corriere il figlio di Luigi - il commissario ucciso a Milano da un commando di Lotta Continua mentre rincasava, alle 9 e 15 del 17 maggio 1972 - racconta che quel fiore “è andato a metterlo mia madre, ne ha messi due, uno per me e uno per lei. Non riusciamo a credere che ci possa essere chi oggi fa un gesto così vigliacco e grave. Pensiamo che lo si debba dire con chiarezza. Io in quella piazza e in quel quartiere ci sono cresciuto. Per noi quella lapide e la quercia rossa che è stata piantata insieme sono simboli belli e importanti da preservare”. Sulla stele sono incise queste parole: “A Giuseppe Pinelli ferroviere anarchico morto tragicamente nei locali della questura di Milano il 15-12-1969”. Quella morte - un volo dalla finestra di una stanza al quarto piano dove era in corso l’interrogatorio di Pinelli, fermato per accertamenti sulla strage che tre giorni prima fece 17 morti - sconvolse l’Italia. L’istruttoria del giudice Gerardo D’Ambrosio assolse poi il commissario, scagionando la polizia e concludendo che la caduta avvenne per “l’improvvisa alterazione del centro di equilibrio”. Una morte “accidentale” in un momento in cui Calabresi non si trovava neppure nella stanza. Gemma Capra, moglie del poliziotto, e Licia Pinelli, vedova di Pino, si sono poi incontrate: l’ultima volta è stato a Milano, il 13 gennaio 2019, cinquantenario della strage. Si sono abbracciate davanti al presidente Mattarella, con loro a Palazzo Marino. Dieci anni prima era stato il suo predecessore Napolitano a far incontrare le due donne e a definire (per la prima volta a livello istituzionale) che Pinelli è la diciottesima vittima innocente di piazza Fontana. Ma la stele? Il sindaco Giuseppe Sala assicura: “Ne rimetteremo una nuova lì dove l’abbiamo posata a testimonianza di una città che conosce, vuole e difende la verità”. Milano. Nasce in carcere il turbante per le donne che lottano col tumore di Vito Salinaro Avvenire, 5 febbraio 2020 A San Vittore la presentazione della speciale collezione di foulard creati da detenuti ed ex detenuti con colori e disegni che esprimono fiducia e speranza. I nuovi turbanti sono stati confezionati con cura grazie a cotoni provenienti dall’India. Ma ogni foulard creato per vestire le donne che lottano contro il cancro, ha colori e disegni per infondere fiducia e speranza. La particolare collezione verrà presentata questo pomeriggio, alle 18.30, in occasione della celebrazione della Giornata mondiale contro il cancro, nella sede del Consorzio Viale dei Mille di Milano, che aiuta le organizzazioni che operano con detenuti o ex detenuti a comunicare l’essenza del lavoro negli istituti di pena, gestendo anche il primo concept store cittadino interamente dedicato al ‘made in carcerè. I turbanti infatti vengono realizzati nella sartoria del carcere milanese di San Vittore grazie all’iniziativa “La vita sotto il turbante - progetto Cristina”, in collaborazione tra l’Associazione “Go5 - per mano con le donne” (organizzazione di volontariato impegnata nel reparto di ginecologia oncologica dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano) e la Cooperativa sociale Alice che cura la Sartoria San Vittore. Nell’incontro sarà anche presentato in anteprima il video “Io sono qui” girato dal regista Fabio Ilacqua per Go5. L’associazione con le sue volontarie, sostiene le donne che stanno affrontando le cure e le loro famiglie e lo fa anche attraverso iniziative come queste, lanciata circa un anno fa. I turbanti, capi morbidi e colorati, sono disegnati da Rosita Onofri e pensati non solo per vestire le donne che lottano contro il cancro ma anche per tutte quelle che vogliono sostenere una alleanza tra donne malate e donne detenute alla ricerca di una seconda possibilità. Venduti dal Consorzio Viale dei Mille, il ricavato viene devoluto a Go5 per finanziare le attività dell’associazione sviluppate per l’Istituto tumori del capoluogo lombardo. Ospite speciale dell’evento, Sabrina Scampini, giornalista e autrice televisiva italiana che qualche anno fa ha combattuto la malattia. A illustrare gli scopi e gli obiettivi del progetti saranno Luisa Della Morte, presidente del Consorzio Viale dei Mille, il presidente di Go5, Francesco Borasi e la vice presidente dell’associazione Daniela Risina. Milano. I detenuti-ciclisti di Bollate e il sogno di un mini velodromo di Gian Luca Pasini Gazzetta dello Sport, 5 febbraio 2020 Il progetto è del Politecnico di Milano. Il c.t. Cassani ha dato la disponibilità ad accompagnare la squadra in un’uscita fino a Parma. Il sogno è un piccolo velodromo all’interno di Bollate. L’ipotesi più realistica e vicina è creare - all’interno del carcere della cintura milanese - un gruppo di detenuti-ciclisti che in un tempo non troppo lontano (la fine di maggio) possano anche fare una “uscita” fino a Parma, assieme al gruppo di guardie carcerarie già presente all’interno della stessa struttura carceraria. Fantasport? No, è un’idea nata all’interno del Politecnico di Milano, uno dei 7 progetti premiati da Polisocial 2019, idee con un soggetto sportivo e con finalità sociali. “Si chiama A.c.t.s. A Chance Through Sport - spiega il professore Andrea Di Franco, uno degli ideatori -. Sono già diversi anni che come Politecnico abbiamo avviato una serie di studi all’interno del carcere, legati agli spazi, ma anche alla qualità della vita dei detenuti e della polizia penitenziaria che condivide i medesimi luoghi. Questo è il primo studio che riguarda lo sport fatto dal Politecnico e abbiamo ottenuto questo riconoscimento. Ora lo vogliamo tradurre in qualcosa di concreto e reale”, aggiunge Di Franco, che lavora in pool con altri studiosi del Politecnico già impegnati nel recupero di aree urbane della città. “Per la popolazione carceraria la cura del fisico è l’ultima barriera, l’ultima difesa. E quella del ciclismo può essere una pratica molto interessante da sviluppare all’interno di un carcere come Bollate che ha spazi adatti su cui lavorare. In questo nostro progetto abbiamo trovato già alcuni compagni di viaggio, ma altri ne vogliamo aggregare. Lo studio di avvocati Bonelli Erede, con sede in Milano, ci è stato subito vicino. Questo studio ha al suo interno un gruppo di fan delle due ruote. E hanno a loro volta costituito un gruppo sportivo che si chiama Amici di Davide Cassani. Grazie a loro il c.t. dell’Italbici è diventato nostro testimonial e ha dato la sua disponibilità ad accompagnarci in questa pedalata, da Milano a Parma appunto, con detenuti e guardie (all’interno di Bollate è stata costituita una Asd da parte dell’ispettore Vincenzo Ormella, ndr). Abbiamo già ottenuto il supporto del Comune di Milano, con l’assessore Roberta Guaineri e anche l’appoggio dell’olimpionico Antonio Rossi. Ma vogliamo andare oltre: perché il senso è lasciare qualcosa che possa essere più duraturo, come una “pista”, non un vero e proprio velodromo, ma qualcosa che possa assomigliarci. Ma già prima a Bollate vorremmo recuperare anche uno spazio per gli allenamenti da “fermi” con cyclette o i rulli proprio perché si possano organizzare nei prossimi mesi allenamenti continuativi (quello che serve anche alla popolazione carceraria per dare loro una prospettiva). Mapei (per anni sponsor nel ciclismo, ndr), ma anche la casa di produzioni Dude, sono già adesso al nostro fianco. Ma stiamo cercando anche altri partner perché questo sogno diventi realtà e si possa ingrandire ancora di più”. Lecce. In carcere, teatro e rigenerazione umana di Laura Casciotti quisalento.it, 5 febbraio 2020 Approda alla casa circondariale di Lecce, l’esperienza teatrale condotta a Matera. Raggiungere le periferie attraverso il teatro, arte e linguaggio che non conosce confini geografici, che oltrepassa le sbarre di una cella e abbatte i muri interiori, perché si nutre di sentimenti e pensieri: le vere libertà delle persone. Il teatro diventa così uno strumento potente di rigenerazione umana, occasione per restituire dignità e fiducia a chi vive ai margini, per connettere le periferie sociali e urbane e aprire un dialogo tra chi è “dentro” e chi sta fuori. Si portano in carcere esperienze, metodologie di lavoro, valori e bellezza con “Jumperiferie - teatro vivo nel sociale”, progetto presentato negli uffici della Casa Circondariale di Lecce dai partner della corposa rete, ciascuno dei quali è chiamato ad arricchire il percorso con le proprie competenze e sensibilità. L’idea è quella di riprendere l’esperienza di Matera 2019 Capitale Europea della Cultura con il progetto “La poetica della vergogna”, sviluppato dalla compagnia teatrale Petra, capofila di Jumperiferie, nelle Case Circondariali di Matera e Potenza. “In carcere il significato della parola vergogna assume un’accezione diversa, si ribalta completamente, perché la vergogna riattiva la parte migliore delle persone”, specifica Antonella Iallorenzi, attrice e pedagoga della compagnia teatrale, “il teatro ha un linguaggio terapeutico, in scena ci si immagina liberi e diversi da quello che si è, meccanismo che innesca il cambiamento. Così, anche nella Casa Circondariale di Lecce si ripeterà l’esperienza lucana, con un laboratorio teatrale stabile per detenuti fino a 35 anni. Inoltre venerdì 21 febbraio alle 19 (prenotazione obbligatoria entro il 10 febbraio), a Borgo San Nicola andrà in scena “Humana vergogna”. Lo spettacolo di Silvia Gribaudi e Matteo Maffesanti, coprodotto da #reteteatro41 e Fondazione Matera-Basilicata 2019, è una rappresentazione del sentimento che muove dalla coscienza e provoca disagio, che unisce teatro e danza, dove il corpo diventa narrazione. Ad aprile invece, il teatro del carcere aprirà le sue porte al pubblico esterno per lo spettacolo “Pupe di Pane”, prodotto dall’Accademia Mediterranea dell’Attore. Inoltre, nei comuni partner, saranno organizzati eventi culturali e laboratori di arte urbana che coinvolgeranno residenti nel quartiere, studenti dell’Istituto comprensivo “Stomeo-Zimbalo” di Lecce e ragazzi migranti beneficiari dei progetti Sprar di Arci. Il progetto è sostenuto da Periferie al centro, intervento di inclusione culturale e sociale della Regione Puglia, promosso dall’assessorato all’Industria turistica e culturale della Regione Puglia e Teatro Pubblico Pugliese, in partnership con Accademia Mediterranea dell’Attore di Lecce, Casa Circondariale di Lecce, Compagnia teatrale Petra, #reteteatro 41, Arci Lecce, Mecenate 90, Officina Creativa, Comune di Lecce, Comune di Lequile, Comune di Melpignano. Como. “Cucinare al fresco”, il ricettario dei detenuti ansa.it, 5 febbraio 2020 Progetto partito da Como si apre a tutti i penitenziari italiani. Si apre a tutte le carceri italiane “Cucinare al fresco”, la raccolta di ricette realizzate dai detenuti di Como, Bollate, Varese, Opera e Bollate. Nelle scorse settimane, il Provveditorato Regionale della Lombardia, il direttore del Carcere di Como e l’ideatrice del progetto, Arianna Augustoni, hanno sottoscritto un protocollo per estendere l’iniziativa nel maggior numero di penitenziari italiani. La redazione del magazine rimarrà a Como, ma attraverso il passaparola, da tutte le carceri sarà possibile inviare il proprio contributo. L’iniziativa, partita due anni fa dal Carcere del Bassone di Como e giunta al terzo numero, è stata presentata oggi a Palazzo Pirelli, sede del Consiglio regionale della Lombardia, alla presenza tra gli altri del garante regionale Carlo Lio. “Cucinare al fresco - ha sottolineato il presidente dell’assemblea lombarda Alessandro Fermi - è anche un incoraggiamento a non perdere mai le speranze, e i piatti e le pietanze contenute in queste pagine, pur cucinate in spazi ristretti e con fornelletti da campeggio, non hanno certo nulla da invidiare a quelli proposti da MasterChef o da Cracco”. Il ricettario, in vendita nella libreria Ubik di Como, sarà prossimamente distribuito nelle edicole e scaricabile gratis dal profilo Facebook Cucinare al fresco. “Ci sono tutti gli ingredienti per poter fare un salto di qualità culturale e sociale. Le persone che si cimentano, dimostrano competenze e sapienze insospettabili e sono in grado di fare una cucina diversa nella sua povertà, ma non nel suo gusto e grado di elaborazione” ha sottolineato il provveditore regionale Pietro Buffa. “Il desiderio - ha aggiunto Buffa - è di dare loro parola affinché propongano all’esterno il risultato del loro ingegno, dimostrando che stare in carcere non significa perdere o aver perso le competenze che ognuno di noi possiede”. Droghe. Il proibizionismo viola il “diritto alla scienza” di Marco Perduca Il Manifesto, 5 febbraio 2020 Il Commento generale sulla scienza dell’Onu ricorda che le leggi e le politiche - nazionali e internazionali - devono tener conto delle più recenti scoperte perché esiste il “diritto a godere dei benefici della scienza”. “Gli Stati dovrebbero armonizzare il rispetto dei propri obblighi ai sensi del regime internazionale di controllo delle droghe con i loro obblighi di rispettare, proteggere e adempiere a tutto il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e in particolare il diritto di partecipare al progresso scientifico e ai suoi benefici, attraverso una revisione permanente delle loro politiche in relazione alle sostanze controllate. La proibizione di ricerca su tali sostanze, o di potervi avere accesso sono, in linea di principio, restrizioni al diritto di beneficiare dello sviluppo scientifico e delle sue applicazioni mentre dovrebbero soddisfare i requisiti dell’articolo 4 del Patto”. Chi scrive è il Comitato dell’Onu sui diritti economici, sociali e culturali che il 2 gennaio scorso ha pubblicato la bozza di un Commento generale sulla scienza - un documento che chiarisce le implicazioni dell’articolo 15 di uno dei due Patti internazionali sui diritti umani che, secondo l’articolo 2 della Costituzione, son da considerarsi al pari della nostra Carta. Questo Commento generale, atteso da oltre un anno e che in primavera dovrebbe essere adottato definitivamente dall’Ufficio delle Nazioni Unite di Ginevra, ha anche un’altra parte relativa alla ricerca sulle sostanze sotto il controllo internazionale. “La ricerca scientifica è impedita per alcune sostanze poiché queste rientrano nelle Convenzioni internazionali sul controllo delle droghe e sono classificate dannose per la salute e senza valore scientifico o medico. Tuttavia ci sono prove che sostengono che ci sono usi medici per molte di queste sostanze o che queste non sono poi così dannose come si pensava quando furono sottoposte a questo regime. Questo è il caso dei derivati da oppio (per la cura del dolore e i programmi di mantenimento nella dipendenza da oppiacei), della cannabis (per l’epilessia resistente ad altre terapie) e dell’Mdma (usata in psicoterapia per i disturbi da stress post-traumatico) nella misura in cui esistono evidenze scientifiche disponibili”. Il Commento ricorda anche come l’Oms abbia raccomandato di declassificare la cannabis dalla Tabella IV della Convenzione del 1961 riconoscendone gli usi e i benefici medicinali. Una proposta avanzata grazie a crescenti evidenze scientifiche. Il documento del Comitato parla chiaramente di “diritto alla scienza”. Basterebbero questi tre passaggi per avviare la definitiva demolizione delle certezze proibizioniste in materia di stupefacenti - e non solo per usi medico-scientifici. Infatti, altrove il Commento generale ricorda che le leggi e le politiche - nazionali e internazionali - devono tener conto delle più recenti scoperte perché esiste il “diritto a godere dei benefici della scienza”. Se un numero crescente di ricerche dovesse dimostrare la non pericolosità di un uso consapevole di piante e derivati o prodotti di sintesi chimiche, come dovrebbe comportarsi il legislatore? Se la scienza ci consegna evidenze consolidate circa la non pericolosità di un consumo di piccole dosi, o i rischi connessi alla non conoscibilità dei principi attivi delle sostanze consumate, non tenere in considerazione questi dati frutto di lavori rivisti da scienziati di tutto il mondo è una violazione dei diritti umani e, in ultima istanza, dell’articolo 2 della nostra Costituzione. Il proibizionismo viola dunque il diritto alla scienza in quanto limita immotivatamente la ricerca, scoraggia la condivisione dei saperi e non consente di godere dei benefici delle scoperte recenti. Il 2020 segna un punto di non ritorno nella valutazione dell’impatto di leggi e politiche pubbliche sulla base delle evidenze scientifiche: politici, giuristi e militanti dei diritti umani ne tengano conto. Svizzera. I Cantoni: ok al suicidio assistito in carcere La Regione, 5 febbraio 2020 A un detenuto dovrebbe essere concessa la possibilità di ricorrere al suicidio assistito, ma solo a determinate condizioni. Quali esse siano resta ancora controverso, ma sul principio la Conferenza dei direttori cantonali di giustizia e polizia (Cdcgp) è d’accordo. Lo ha indicato ieri a Keystone-Ats il segretario generale della Cdcgp Roger Schneeberger, confermando una notizia in tal senso del portale informativo online watson.ch. Le divergenze tra i direttori cantonali riguardano le condizioni che devono essere soddisfatte per un suicidio assistito in prigione. Un delle questioni che si pongono in casi come questo, è se togliersi la vita non sia un modo ‘facilè per evitare di scontare una pena. Oltre a ciò, deve ancora essere fatta chiarezza per quanto riguarda la responsabilità, il luogo del decesso e la procedura. Per rispondere a domande simili, il Centro svizzero di competenze in materia d’esecuzione di sanzioni penali (Cscsp) è stato incaricato di redigere una sintesi dei risultati della consultazione sul tema, nel frattempo conclusa. Su questa base verrà elaborata una raccomandazione ai Cantoni. In autunno l’assemblea plenaria della Cdcgp dovrebbe poi adottare queste raccomandazioni. Secondo Schneeberger, solo allora potrà essere stabilito esattamente entro quali limiti un carcerato potrà ricorrere all’aiuto al suicidio. Nel documento elaborato da esperti del settore e inviato in consultazione lo scorso autunno è stato sostenuto che, in materia di suicidio assistito, i detenuti hanno gli stessi diritti e doveri di qualsiasi altra persona. A un carcerato capace di discernimento che vuole morire deve quindi essere concesso il diritto di rivolgersi a un’organizzazione di aiuto al suicidio. Inoltre, secondo il documento, a un detenuto che vuole togliersi la vita dovrebbero essere applicate le stesse linee guida che vengono adottate per il resto della popolazione: i sintomi della malattia e le limitazioni funzionali devono provocare una sofferenza giudicata insopportabile. La persona che vuole morire deve poi essere capace di discernere fino al momento in cui prende il farmaco letale. D’altra parte l’autorizzazione di ricorrere a una organizzazione di aiuto al suicidio nel sistema carcerario dovrebbe essere accordata solo quale ultima ratio. Brasile. Le carceri senza guardie che danno una nuova vita ai detenuti di Alice Facchini redattoresociale.it, 5 febbraio 2020 Le comunità brasiliane dell’Apac propongono un modello alternativo basato sull’educazione e la responsabilizzazione: il tasso di recidiva è calato dal 70 al 15 per cento, mentre i costi sono più che dimezzati. Grossi: “È la pedagogia della presenza, che dimostra che, se le persone vengono trattate con rispetto e hanno reali alternative, il cambiamento è possibile”. Niente polizia né guardie armate, detenuti che si muovono liberamente e che in alcuni casi hanno addirittura le chiavi della struttura. Sembra quasi un’utopia, invece si tratta delle comunità dell’Apac (Associazione di protezione e assistenza ai condannati), l’organizzazione senza scopo di lucro di stampo cattolico-evangelico che in Brasile propone un modello alternativo di carcere, basato sull’educazione e sulla responsabilizzazione personale. Nel Paese sono 53 i centri di reintegrazione sociale di questo tipo: il primo è stato aperto nel 1972 a São José dos Campos, poi il modello si è diffuso in tutto il Brasile. Oggi sono più di 3.500 i detenuti che sperimentano questo tipo di carcere: nonostante il governo conservatore di Bolsonaro sia stato eletto con l’obiettivo di inasprire le politiche di sicurezza, il sistema dell’Apac per il momento continua a ricevere sovvenzioni. “In tutto il mondo, uno dei grandi problemi nelle carceri è la mancanza di lavoro e di attività educative - spiega Sergio Grossi, dottore in Scienze pedagogiche all’Università di Padova, che ha svolto la sua tesi di dottorato sulle Apac -. In queste comunità invece la prospettiva viene completamente ribaltata: i detenuti vanno a scuola almeno fino alle superiori ed è garantita la formazione professionale con attività pratiche. All’interno delle comunità ci sono orti, allevamento di bestiame, ma anche laboratori manuali come falegnameria, carpenteria, panetteria… Alcuni studiano all’università. Una volta terminati gli studi, i detenuti cominciano poi a lavorare. A volte sono loro stessi ad insegnare un mestiere agli altri, creando così uno scambio di conoscenze che responsabilizza le persone”. Questo sistema abbatte in maniera consistente la recidiva: i dati ufficiali parlano di un tasso del 15 per cento contro la media brasiliana del 70 per cento. E anche i costi sono più che dimezzati, passando da una spesa di 2.700 reais al mese per ogni prigioniero (pari a circa 575 euro) delle carceri tradizionali nella regione del Minas Gerais, a un costo di soli 1.050 reais (220 euro). All’interno di queste strutture esistono tre tipi di regime: il regime chiuso; il regime semiaperto, con i detenuti che escono solo in casi particolari; e il regime aperto, con la possibilità di lavorare all’esterno e tornare la sera. Per entrare nelle Apac non servono requisiti particolari, se non la volontà di cambiare vita, iniziare a studiare o lavorare e coltivare la propria spiritualità. Seguendo il motto “Qui entra l’uomo, il reato resta fuori”, in queste comunità vengono accettati anche detenuti che in carcere avevano una pessima disciplina. “L’idea di base delle Apac è che il carcere sia un ambiente violento, che a sua volta genera violenza - afferma Grossi. Quando arrivano qui, i detenuti sono molto rispettati e sono grati di essere usciti dai penitenziari statali, dove le condizioni sono terribili: le celle sono sovraffollate, c’è poco cibo e scarsa assistenza sanitaria, con frequenti epidemie di tubercolosi, e poi ci sono continui conflitti con la polizia e con gli altri detenuti, denunce di torture, infiltrazioni di organizzazioni criminali e grande utilizzo di droga e psicofarmaci per sopportare le dure condizioni. Non si tratta di un fenomeno circoscritto: sono più di 720 mila le persone incarcerate in tutto il Brasile, attualmente la terza popolazione carceraria mondiale”. Nel mondo, oltre 20 Paesi hanno sperimentato almeno parzialmente il modello di carcere alternativo dell’Apac, dal Sud America all’Asia, fino anche in Europa, e in particolare in Germania, Olanda e Italia. Nella provincia di Rimini, la Cec - Comunità educante con carcerati è stata portata avanti dalla Papa Giovanni XXIII per la rieducazione dei detenuti in strutture dislocate sul territorio. Dalla Romagna le Cec si sono diffuse anche nelle province di Cuneo, Massa Carrara e Lecce. “La differenza tra l’Italia e il Brasile è che, mentre nel nostro Paese possono accedervi solo persone che hanno commesso reati minori, in Brasile invece ci sono anche persone che hanno commesso crimini gravi, come assassini, stupratori seriali o affiliati a organizzazioni criminali. La cosa incredibile è che, pur essendo inseriti in un contesto di bassa sicurezza, dove evadere è facilissimo, comunque non scappano”. Emblematica è la storia di Pedro (il nome è di fantasia), condannato in Brasile per reati gravi e spostato più volte da istituto a istituto perché continuava a delinquere anche all’interno del carcere. Pedro racconta che, quando gli è stato proposto di trasferirsi in una comunità dell’Apac, ha accettato pensando che sarebbe stato facilissimo scappare, visto che era già riuscito a evadere anche da carceri di massima sicurezza. “Arrivato nell’Apac si è sentito accolto, e così ha deciso di aspettare una settimana prima di scappare - racconta Grossi, che ha conosciuto Pedro in uno degli incontri nelle comunità -. Poi ha capito che non stava male, veniva trattato con dignità, e ha posticipato nuovamente la fuga. A forza di aspettare ha finito per rimanere. È quella che viene chiamata la ‘pedagogia della presenza’, che dimostra nei fatti che, se le persone vengono trattate con rispetto e hanno reali possibilità di intraprendere una vita diversa, il cambiamento è possibile”. In Libia, tra i bambini dell’Isis che sono rimasti soli di Francesco Battistini Corriere della Sera, 5 febbraio 2020 Ammar, Hafsa e i figli dei foreign fighters Cresciuti nel Califfato, catturati, orfani. Dormono poco. “Ma non piangono mai” Per sei di loro il rimpatrio e l’affido. Quanto sarà alto il muro della scuola? Ammar e Hafsa ogni tanto lo guardano: dovrebbero mettersi sulle spalle l’una dell’altro, per vedere che cosa c’è oltre (e comunque non arriverebbero a metà). Quanto sono lontani l’Egitto e la Nigeria? Qualche volta i due bambini se lo chiedono: dovrebbero cercare su una mappa, se l’avessero (e comunque non capirebbero dove stanno i nidi dove non sono mai nati). Quanto ci mancano papà e mamma? Questo, se lo sono domandati una volta soltanto: “Un giorno hanno visto arrivare qui al centro degli adulti - racconta Leyla, un’assistente della Mezzaluna rossa - e Ammar ha detto: “Dov’è la mia famiglia?”. Voi avrete dovuto rispondere qualcosa… “Sanno d’essere orfani. Che ormai la loro famiglia siamo noi. Ma in tv passano sempre gli spot coi bambini che hanno i genitori e un mondo che li circonda. Allora spieghiamo che a loro è toccata una vita speciale e che presto andranno in un posto uguale a quello degli altri bimbi”. Si fanno la pipì a letto. Si svegliano per un nonnulla. Si perdono con lo sguardo nel vuoto. Se li fotografi, non sorridono granché. Ma non piangono mai. Non gridano mai. Non disturbano mai. “È da più di tre anni che sono così”, racconta Mohamed Iqbel Ben Rjab, presidente tunisino dell’Associazione per il salvataggio dei bambini bloccati all’estero: “Noi cerchiamo di ridare loro una vita normale. Ma è la vita, là fuori, che fatica a dare loro una normalità”. Certi bambini imparano presto come si sta al mondo, specie se un mondo non ce l’hanno più. Definirli “bloccati all’estero” è zucchero che rende meno amaro quel che sono: orfani dell’Isis. Figli di foreign fighter egiziani, nigeriani, senegalesi, sudanesi, tunisini. Nati, cresciuti, catturati nelle province del Califfato. I più dimenticati dalla comunità internazionale. I più rifiutati dai loro Paesi d’origine. Tutti sanno di quelli salvati in Siria e in Iraq, dell’attenzione che s’è accesa sui pargoletti dei jihadisti uccisi a Mosul o a Raqqa, anche perché molti erano figli di terroristi con passaporto inglese, francese, belga. Ma questi 54 abbandonati in Libia, orfani d’una guerra sporca fatta soprattutto d’africani, ce li eravamo quasi scordati. E i loro governi hanno fatto di tutto, per non ricordarseli. Dal 2016, quando le truppe del feldmaresciallo Khalifa Haftar hanno lanciato l’operazione Casa Solida (al-Bunyan al-Marsus) e cacciato in sette mesi lo Stato islamico installato a Sirte, i senzacasa e senzafamiglia dell’Isis sono finiti in questa vecchia scuola di Misurata che funziona come ufficio della Mezzaluna rossa. A fare che? Ci sono pochi soldi per gli insegnanti, gli assistenti, gli psicologi. Qui si dorme in camerate, si fa un po’ di scuola, si ciondola tutto in cortile, si mangiano i pasti speciali dei profughi, si gioca con qualche carrello del supermercato pieno di vestiti, ci s’aggrappa ai pochi visitatori di passaggio: “Ce l’hai un pallone?...”, chiede Ammar. S’insegna almeno a leggere e a scrivere, racconta Ali Ghweil, direttore del centro: “Abbiamo trovato in quasi tutti gravi problemi d’apprendimento. Alcuni sono traumatizzati: hanno visto morire i genitori. Più li si tiene in posti come questo, peggio è: bisogna portarli lontani dagli orfanotrofi di guerra”. Qualcosa si sblocca. Lentamente: a fine gennaio, sei bimbi sono stati rimpatriati a Tunisi e affidati a famiglie allargate che, in cambio di soldi, hanno accettato di crescerli. Si chiamano Ouways (6 anni), Moez (5), Sohail (12), Musab (3), Ahmed (5), Moujahid (5): il presidente tunisino Kais Saied li ha ricevuti a Palazzo Cartagine, sfidando le manifestazioni sull’avenue Bourghiba e le critiche delle famiglie di vittime del terrorismo (“chi si preoccupa di noi?”, la domanda retorica dell’ex ministra Majdoulin Charmi, sorella d’un agente di sicurezza tunisino ucciso in un attentato). Un’altra decina di ragazzini, maliani e nigerini, sta per essere riportata a zii che se ne occuperanno. Il Sudan s’è ripigliato i tre piccoli sopravvissuti al loro papà Mohamed Abuzaid, uno che aveva assassinato un diplomatico americano e poi s’era dato al Jihad in Somalia, prima d’arruolarsi in Cirenaica e di venire bruciato con un colpo di mortaio. Ma in Libia restano ancora trentasei bambini - 21 a Tripoli, 15 a Misurata - da liberare prima che diventino troppo grandi. Tamim Jaboudi, i genitori ammazzati in un bombardamento a Sabratha, da quando ha due anni sta con un gruppetto d’altri orfani dalle parti dell’aeroporto di Mitiga: finalmente ha ritrovato un nonno che se lo riprendesse. Questi due, invece no: Ammar e Hafsa, 6 e 5 anni, lui egiziano e lei nigeriana, giocano nel cortiletto della scuola di Misurata e non sanno che non li vuole nessuno. Il Dna non ha permesso di capire da chi siano nati. Li hanno trovati nel dicembre del 2016 sotto le macerie d’una casa di Sirte, ed erano troppo piccoli per dire che cosa ci facessero lì. Al Cairo e a Lagos, non intendono prenderseli in carico. Soli sono, soli restano: “Abbiamo provato a contattare conoscenti e capi dei villaggi tramite Skype - spiega Ghweil -, qualcuno ha risposto e siamo riusciti a creare un legame. Per Ammar e Hafsa, niente”. Ci sono state almeno trentamila gravidanze in tutto lo Stato islamico. Al Baghdadi aveva esortato i suoi uomini a figliare, ma in Libia il sogno d’un Isis “verde” è svanito in appena due anni, prima a Derna e poi a Sirte, e alla fine le nascite del Jihad sono state meno che nelle altre wilayah del Califfato. Questi bambini erano programmati per diventare combattenti islamici: pronti a seminare il terrore, dai nove anni in avanti, come legiferato nella sharia. “I loro genitori hanno ucciso anche gente di Misurata”, dice il direttore: “Non è sempre facile considerarli solo bambini”. Eppure accade: “La Mezzaluna non ha tante risorse, abbiamo chiesto aiuto alla popolazione”. Ed è arrivato? “C’è un uomo che ha perso suo figlio, nella battaglia di Sirte contro l’Isis. Ma non gl’importa. Tutte le settimane viene qui, a portare cibo e quel che ha. Da dare a loro”. Strage Thyssenkrupp di Torino: i due manager vanno in carcere in Germania di Simona Lorenzetti Corriere della sera, 5 febbraio 2020 Il Tribunale di Hamm ha rigettato il ricorso. Sono accusati di omicidio colposo e incendio doloso per negligenza. Il Tribunale regionale superiore di Hamm, in Germania, ha respinto il ricorso dei due manager di Thyssenkrupp, già condannati in Italia per la morte di sette operai al lavoro lungo la linea 5 dello stabilimento di corso Regina Margherita: ora dovranno scontare 5 anni di carcere in Germania. Lo rende noto il Tribunale del Nord Reno Westfalia. In precedenza il Tribunale di Essen aveva dichiarato esecutive le pene italiane ma le aveva adeguate al diritto tedesco, che in questi casi prevede una detenzione massima di 5 anni. I manager, accusati di omicidio colposo e incendio doloso per negligenza, avevano fatto ricorso, ma l’istanza oggi, 4 febbraio, è stata respinta. La pronuncia del Tribunale di Hamm arriva a 12 anni dall’incendio a Torino, dove persero la vita 7 persone nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 2007. La Cassazione, in Italia, li aveva condannati a 6 anni e 10 mesi (Gerald Priegnitz) e a 9 anni e 8 mesi (Harald Espenhahn). La sindaca Appendino: “Vicina alle famiglie delle vittime” - La sindaca di Torino Chiara Appendino commenta su Facebook la decisione del tribunale tedesco: “Sono vicina alle famiglie delle vittime, che hanno sempre chiesto giustizia senza mai fermarsi e tacere, con coraggio e determinazione”. La prima cittadina torinese ringrazia poi “il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede e quanti in questi anni si sono sempre battuti per ripristinare verità e giustizia in una ferita mai rimarginata”.