Caro Ministro, gliele do io le cifre sulla giustizia e le carceri di Rita Bernardini* Il Riformista, 4 febbraio 2020 Il Guardasigilli avrebbe dovuto fornire dati e statistiche. Invece non una parola sul carico di procedimenti penali pendenti, né sullo stato delle nostre carceri, bocciate dal Comitato per la prevenzione della tortura. La relazione al Parlamento del ministro della giustizia Alfonso Bonafede, più per il non detto che per quanto esplicitato, nulla di buono può farci sperare sullo stato della giustizia e su quello delle carceri nel nostro Paese. Le “comunicazioni del ministro sull’amministrazione della giustizia” al Parlamento, che per legge precedono le inaugurazioni degli anni giudiziari presso la Corte di Cassazione e le Corti d’Appello, non hanno fornito, come sarebbe stato doveroso, le cifre, i dati, le statistiche e i raffronti riguardanti numerosi importanti settori. Non una parola, per esempio, è stata detta sul contenzioso penale pendente; eppure sarebbe stato fondamentale fornire alle camere il dato dei procedimenti penali pendenti nell’anno dell’entrata in vigore della contestatissima riforma della prescrizione. Il Parlamento deve sapere o no quale sia la capacità dello Stato di smaltire il contenzioso nel momento in cui si toglie, con l’abrogazione della prescrizione, l’unico freno all’irragionevole durata dei processi? Niente. Silenzio. Omissis. Non una parola è stata detta sullo stato delle nostre carceri e sul loro sovraffollamento. E questo avviene a pochi giorni di distanza dall’ufficializzazione da parte del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT) di un rapporto impietoso sulle condizioni di detenzione in Italia ove si riferisce di abusi, di maltrattamenti, di condizioni di isolamento inaccettabili soprattutto nel regime speciale del 41bis e nelle sue “aree riservate”. Un rapporto, quello del CPT, che sul sovraffollamento afferma che “dal 2016, la popolazione carceraria italiana ha continuato ad aumentare in modo progressivo”. E, infatti, dal 2016 ad oggi si registrano quasi novemila detenuti in più e ciò è avvenuto dopo il forte calo seguito alla sentenza Torreggiani del 2013 e ai provvedimenti “tampone” che erano stati varati subito dopo l’esemplare e umiliante condanna dell’Italia per sistematici trattamenti inumani e degradanti nelle nostre carceri. Su questo fronte, il CPT ha invitato le autorità italiane a “garantire che ogni detenuto disponga di almeno 4 metri quadrati di spazio personale vitale nelle celle collettive” e “ad adoperarsi per promuovere maggiormente il ricorso a misure alternative alla detenzione”. Il ministro della Giustizia ha omesso di comunicare al Parlamento che attualmente quasi 61.000 detenuti sono costretti a vivere in 47.000 posti e che ci sono carceri dove il sovraffollamento supera il 200%. E il sovraffollamento dà luogo ad un degrado delle strutture, a minore assistenza sanitaria, a diminuite possibilità di lavorare o studiare, a ridotte possibilità di accoglimento delle istanze rivolte alla magistratura di sorveglianza. Sulle carceri il ministro Bonafede ha però detto tre cose. La prima riguarda il personale. Afferma che arriveranno nuovi agenti per far fronte alle carenze degli organici: vedremo se queste nuove immissioni riusciranno almeno a coprire i pensionamenti che si verificano ogni anno. Quanto, invece, al personale “trattamentale”, le cifre sono nel modo più assoluto deludenti anche perché il ministro non fornisce i dati aggiornati delle attuali carenze di organico, che sappiamo essere spaventose quanto ad educatori, ad assistenti sociali, a personale amministrativo e persino a “direttori”, figura, quest’ultima, oramai in via di estinzione, mai compensata da più di vent’anni con l’indizione di un serio concorso. Su questo fronte, che dovrebbe vedere schierate migliaia di professionalità impegnate a riabilitare e reinserire, il ministro ha detto che ci saranno in più solo “50 tra funzionari giuridico-pedagogici e mediatori culturali, 100 funzionari della professionalità pedagogica e di servizio sociale nonché 18 dirigenti per gli uffici di esecuzione penale esterna”. La seconda riguarda l’edilizia penitenziaria e qui registriamo una singolare contraddittorietà e sfasatura tra quanto riferito dal ministro Bonafede in parlamento e quanto affermato dal suo gabinetto in risposta ai rilievi del CPT sulla ripresa del sovraffollamento. In Parlamento il ministro ha parlato di uno stanziamento, da oggi ai prossimi 13 anni, di circa 350 milioni di euro per creare nuovi posti detentivi (senza specificare quanti) rispetto alla dotazione attuale di poco più di cinquantamila; dall’altra parte, il suo gabinetto riferisce al CPT di 5.000 nuovi posti che saranno costruiti nei prossimi 5 anni, “al fine di raggiungere l’obiettivo di 60.000 posti di detenzione regolari disponibili”, con ciò dando per scontato che altri 5.000 posti saranno prossimamente fruibili non si sa come. Insomma, il ministro prospetta un piano carceri da qui a 13 anni mentre all’Europa il suo gabinetto ne prospetta un altro, velocissimo, di 5 anni per 10.000 posti. Noi, che conosciamo i risultati catastrofici dei precedenti piani, ci sentiamo presi in giro da queste inutili parole che dovrebbero impegnare i prossimi futuri governi... fino al 2033! Non una parola ha detto il ministro sulle pene e misure alternative alla detenzione che sì avrebbero un impatto immediato sul sovraffollamento e che gioverebbero moltissimo all’abbattimento della recidiva. Che senso ha tenere nelle nostre galere le 16.828 persone che devono scontare una pena residua inferiore ai due anni? Non sarebbe più utile fargli scontare una misura che sia meno criminogena dello stare in una squallida cella quasi sempre senza costrutto ai fini di un imminente ritorno nella società? Eppure è proprio questa la richiesta che viene dal CPT e dalle regole penitenziarie europee delle quali però non si vuol far tesoro. Qualcuno forse dirà che il ministro Bonafede ha però comunicato al Parlamento di avere “investito la maggior parte delle proprie energie puntando sul lavoro dei detenuti, come forma privilegiata di rieducazione”. Arriviamo così al terzo punto, il lavoro. Ecco, su questo, possiamo con certezza affermare - perché i dati, anche degli anni passati, li abbiamo presi dal sito del Ministero - che questo sforzo del Governo ha prodotto una diminuzione delle già scarse opportunità di occupazione che ci sono in carcere. Con i governi Conte 1 e Conte 2 abbiamo infatti perso 1.554 posti di lavoro per i detenuti. Un successone. In tutto questo c’è da chiedersi quali responsabilità intenda assumersi il Partito Democratico che, pur facendo parte della compagine governativa, sembra aver appaltato al giustizialismo dei 5 stelle tanto la drammatica condizione della giustizia quanto quella delle nostre inumane carceri. *Partito Radicale “Il carcere ti marchia a vita: cambiamolo” di Maurizio Tortorella Panorama, 4 febbraio 2020 Un avvocato finito a San Vittore racconta quel che ha visto dietro le sbarre: umanità, intelligenza e sensibilità. Ma anche un mare di occasioni perdute L’avvocato pensa al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e alla frase che qualche giorno fa gli è sfuggita in diretta tv: “Non ci sono innocenti in galera”. Seduto in un caffè, l’avvocato pensa al ministro, scuote la testa e sorride mesto. Perché alcuni mesi fa proprio lui, il nostro avvocato, in una galera è stato rinchiuso davvero, sia pure per meno di una settimana, e poi ha scontato un lungo periodo agli arresti domiciliari. Nei suoi confronti la Procura di Milano ipotizza illeciti nella gestione di alcuni affari, accuse cui il legale si dice innocente. Insomma, l’avvocato sarebbe proprio - e molto probabilmente è - uno dei tantissimi “innocenti in galera” la cui esistenza il ministro Guardasigilli fa finta di negare. Ma di fronte alle domande il professionista si schermisce, svicola, chiarisce che non è di sé che vuole parlare. “No”, spiega: “io vorrei parlare proprio del carcere che ho conosciuto”. È un appello generoso, quello che esce dalla bocca del nostro avvocato. È doppiamente generoso, anzi, perché il professionista non intende raccontare o criticare la sua vicenda giudiziaria, né vuole chiedere solidarietà o denunciare soprusi: al contrario, preferisce restare anonimo. Parla soltanto di una vita trascorsa a studiare e a lavorare, di una bella famiglia, di figli che studiano. Ma quel che gli preme davvero è fare emergere ciò che ha scoperto nelle giornate trascorse dietro le sbarre di San Vittore. “La gente non lo sa”, dice, “ma dentro ai muri di una prigione non c’è soltanto la sofferenza: c’è soprattutto un’umanità incredibile e sorprendente. C’è tantissima umanità tra i reclusi, anche in quelli apparentemente più inquietanti, e ce n’è una dose addirittura sovrumana tra gli agenti della polizia carceraria, che pure sono sottoposti a turni massacranti e sono veri reclusi di seconda categoria. Ho trovato ovunque e in tutti rispetto, intelligenza, sensibilità”. L’avvocato parla quasi con affetto degli infermieri che lo rincorrevano nei corridoi per dargli le pillole contro il diabete. Ricorda il diffuso senso di pentimento, la solitudine e la solidarietà. Il suo racconto accarezza, gentile, alcuni volti senza nome che si possono immaginare duri, ispidi, incattiviti: i compagni di cella e quelli delle ore d’aria. Personaggi quasi da film. “Dietro le sbarre ho incontrato l’inventore dei furti ai Bancomat”, sorride l’avvocato, “un vero genio. Aveva scoperto che le macchinette distributrici di contante contengono un certo tipo di gas. Così aveva studiato e scoperto che c’è un altro gas che al contatto esplode. Infilava quella sostanza nella fessura del bancomat, aspettava la piccola detonazione e i soldi uscivano dalla fessura, gli cadevano da soli tra le mani”. Uno dopo l’altro, i ritratti dei reclusi tracciati dalla voce dell’avvocato sembrano quasi comporre una strana antologia di Spoon River. “C’era uno che aveva ucciso la fidanzata, e in cella scriveva lettere d’amore per gli altri detenuti. Anche io lo facevo: la scrittura in conto d’altri è un’attività importantissima, in galera…”. E poi? “Poi c’era quello con il volto coperto d tatuaggi: sognava di uscire da San Vittore e di andare a occupare una casa del Comune per trasformarla in albergo per immigrati”. E poi? “Poi c’era lo spacciatore marocchino. In prigione lavorava e incassava poche centinaia di euro al mese. Per vivere gli bastava davvero nulla, così spediva tutto il resto a casa. Diceva continuamente: da qui io non voglio più uscire, che cosa esco a fare? Tornerei di certo a vendere droga…”. Ma i ritratti sono soltanto un prologo, una premessa, un’introduzione al tema che più sta a cuore al nostro avvocato. Che è la rieducazione inesistente. “Quando entri in carcere”, dice, “sei marchiato a vita. Entri in cella e perdi ogni speranza. Non per l’ambiente che c’è dentro, ma per quello che ti aspetta là fuori”. Non ci sono percorsi di rieducazione, reinserimento. I reclusi, agli occhi dell’amministrazione giudiziaria, sono spesso numeri e niente più. “Se lo scopo delle prigioni è davvero la rieducazione, come prescrive la Costituzione, allora sarebbe meglio chiuderle. Lì dentro o ti rieduchi da solo, con il pentimento, oppure lo fai con i compagni di cella. In realtà, quando esci, scopri di essere marchiato a fuoco. E il sigillo dell’infamia non lo cancelli più”. L’ineluttabilità della recidiva, questo è il vero problema. La recidiva e la crudele inefficienza del sistema. Nelle 190 carceri italiane ci sono 60.552 detenuti ognuno dei quali, incluse le spese per la sicurezza, costa circa 4.000 euro al mese. Complessivamente il sistema penitenziario pesa sui nostri conti pubblici per quasi 3 miliardi di euro l’anno. Eppure in Italia la recidiva, cioè il tasso di quanti tornano a delinquere una volta usciti dalla prigione, è altissima: il 70% circa. In Francia, tanto per fare un confronto, è il 50%. In Svezia è meno del 30%. Perché? Perché in Italia sono pochissimi i detenuti che lavorano. Quelli che hanno un’occupazione regolare sono appena 2.386, meno del 4%. Lavorano in carcere per conto di ditte esterne, oppure (se la pena lo consente) la mattina escono dal carcere e vi rientrano la sera. C’è anche una legge che prevede sgravi fiscali per chi assuma carcerati, e i fondi a disposizione non sono pochissimi, 4 milioni di euro nel 2019, ma a richiederli si sono presentate appena nove società. Un altro 30% di reclusi ha occupazioni che vengono loro fornite, a turno, dall’amministrazione penitenziaria: questi 15mila detenuti “fortunati” lavorano da tre a sei ore al giorno, e ricevono una paga tra 150 e 650 euro mensili. Certo, pochissimi di loro vengono formati. La formazione professionale, in carcere, è un’opportunità rara, quasi un miraggio. L’avvocato sorride: “Non è ancora una battaglia persa”, conclude “In prigione non ci sono quasi mai battaglie perse. Ci sono soltanto persone. E si potrebbe fare tanto di più”. Volontariato carcerario. Seac, Laura Marignetti rieletta presidente agensir.it, 4 febbraio 2020 Laura Marignetti, già assistente volontaria della Sesta Opera San Fedele di Rieti, è stata riconfermata presidente del Seac, coordinamento degli enti e delle associazioni di volontariato penitenziario in Italia di ispirazione cristiana, all’unanimità dal Consiglio nazionale. Assieme a lei sono stati riconfermati il precedente staff di presidenza integrando l’elezione di Stefania Marangoni (Associazione Nova Terra di Vicenza) alla carica di vicepresidente. L’impegno di Laura Marignetti e di tutto il Consiglio nazionale sarà “il proseguimento della linea di rinnovamento del Seac per la promozione del volontariato in ambito penitenziario, potenziando l’impegno già intrapreso con il progetto ‘Volontari per le misure di Comunità’, sostenuto dalla Fondazione con il Sud”, si legge in una nota. Il silenzio degli incoscienti di Claudio Cerasa Il Foglio, 4 febbraio 2020 Gli avvocati contro Davigo, i magistrati contro Bonafede, la politica che prova a cambiare la prescrizione (occhio alla mozione di sfiducia). Il dissenso c’è, ma dove sono finiti i mitici difensori della Costituzione? Appello contro gli altri pieni poteri. La formidabile protesta andata in scena sabato scorso al Palazzo di giustizia di Milano, con i 120 eroici avvocati della Camera penale che hanno manifestato il proprio dissenso contro il metodo Davigo uscendo dall’aula nel momento stesso in cui veniva data la parola al consigliere del Csm, è lì a segnalare una questione cruciale che c’entra ovviamente con il dibattito sulla prescrizione e che ha almeno due dimensioni diverse. La prima riguarda il livello dello scontro sulla legge Bonafede-Salvini, legge approvata un anno fa dal governo gialloverde che ha abolito la prescrizione dal 1° gennaio del 2020, e attorno alla lotta contro il metodo Davigo c’è un tema che ha a che fare non solo con il futuro dello stato di diritto ma anche con il futuro del governo. La seconda dimensione riguarda invece un punto diverso e il gesto di protesta messo in campo a Milano contro l’aggressione allo stato di diritto costituita dalla legge che abolisce la prescrizione è in fondo lì a segnalare un problema che potremmo così sintetizzare: il silenzio degli incoscienti. La prima questione, che è una questione politica, può riguardare il futuro del governo perché in mancanza di una modifica alla legge Bonafede da parte della maggioranza, come chiede Renzi, l’ex segretario del Pd ha fatto sapere ieri pomeriggio ad alcuni interlocutori che non si fermerà lì e che se la prescrizione dovesse rimanere come è oggi il suo partito chiederà al Senato una mozione di sfiducia contro il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (sommando i senatori di Italia viva, Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia si arriva a 156 voti, maggioranza a 161). La seconda questione, che è una questione più culturale che politica, ha a che fare con il fronte schierato accanto a coloro che in queste settimane stanno combattendo per evitare di trasformare ogni imputato in un presunto colpevole a vita e il dato interessante degli ultimi giorni è che a scendere in campo contro il metodo della gogna non sono stati solo gli avvocati ma anche molti magistrati. Magistrati come Giovanni Mammone, primo presidente della Cassazione, convinto che la riforma della prescrizione “prolungherà la durata dei processi” e produrrà una “prevedibile crisi” per il “giudizio di legittimità”. Magistrati come Giovanni Melillo, procuratore capo di Napoli, che pochi giorni fa, nel corso di un convegno con le Camere penali di Napoli, ha criticato la riforma sulla prescrizione affermando che “l’amministrazione della giustizia è segnata quotidianamente da differenze a parità di condizione normativa e se a parità di condizione normativa le cose cambiano è del tutto evidente che non è la leva normativa quella che cambia qualcosa”. Magistrati come il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso, che proprio in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario ha detto che la sospensione del corso della prescrizione “non servirà sicuramente ad accelerare i tempi del processo, semmai li ritarderà senza limiti e presenta rischi di incostituzionalità” aggiungendo poi che rispetto alla norma introdotta “non si può sottacere che essa andrà a incidere sulla garanzia costituzionale della ragionevole durata del processo”. La Costituzione, già. Nel novero di coloro che potrebbero essere iscritti al fronte degli incoscienti non vi sono soltanto i molti magistrati che potrebbero intervenire, e non lo fanno, a fianco degli avvocati contro il metodo Davigo e la spettacolarizzazione della giustizia penale ma vi sono anche tutti coloro che negli ultimi anni hanno mostrato una sensibilità a targhe alterne rispetto al tema della difesa della Costituzione. La gagliarda protesta dei mitici 120 dalla Camera penale di Milano non è avvenuta scommettendo solo sulla forma, ovvero l’uscita dall’aula del Palazzo di Giustizia, ma è avvenuta anche scommettendo sulla sostanza, ovvero sul modo in cui la riforma della prescrizione starebbe aggredendo alcuni princìpi non negoziabili della nostra Costituzione. E i tre articoli stampati a caratteri cubitali sui cartelli esposti di fronte a Davigo dagli avvocati sono lì a segnalare i giusti articoli da tenere in considerazione quando si parla di effetti dell’abolizione della prescrizione. C’è in ballo, per esempio, l’articolo 24, quello secondo il quale “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”, e non c’è molto da discutere sul fatto che un processo che diventa eterno rende più facile la vita dell’accusa e più difficile quella della difesa. C’è in ballo l’articolo 27, quello secondo cui “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, e non c’è dubbio che in un sistema giudiziario all’interno del quale i tempi non contano più gli indagati e gli imputati avranno maggiori probabilità di essere considerati colpevoli fino a sentenza definitiva. C’è in ballo poi l’articolo 111, quello secondo cui “la legge assicura la ragionevole durata dei processi”, e ci sono pochi dubbi sul fatto che una legge che trasforma ogni processo in un processo potenzialmente eterno è una legge che assicura la non ragionevole durata dei processi. E allora viene da chiedersi: dove sono finiti tutti i difensori della Costituzione? Dove sono finiti i cugini di campagna di Libertà e Giustizia? Dove sono finiti i compagni della Zagrebelsky associati? La nostra giustizia non perderà la sua verginità a causa della prescrizione, purtroppo, ma chi oggi ha scelto di restare lì a fischiettare di fronte alla trasformazione dell’Italia in una repubblica fondata più sulle procure che sul lavoro prima o poi dovrà ammettere che non lo sta facendo per esprimere equidistanza: lo sta facendo semplicemente per esprimere complicità. Forse è ora di svegliarsi. Italiani, ancora uno sforzo sulla giustizia di Adriano Sofri Il Foglio, 4 febbraio 2020 L’Italia è il paese in cui l’ordine giudiziario è rappresentato da un magistrato che sostiene la presunzione di colpevolezza, anche se decine di migliaia di persone sono state risarcite per essere state ingiustamente detenute. Lo scorso 29 gennaio si è potuto seguire per radio un incontro promosso dal Partito Radicale con un titolo sconcertante: “Anche gli innocenti vanno in carcere”. Come fa una constatazione così ovvia a diventare un titolo? Naturalmente, a indurre a ripetere quell’ovvietà c’era stato lo sprovveduto messo a capo del governo della giustizia in Italia: “Gli innocenti non finiscono in carcere”, aveva detto. Poi, per rimediare, aveva peggiorato. Il tocco finale era venuto dall’appuntato Travaglio: non è grave che gli innocenti vadano in carcere. Nell’incontro indetto dai Radicali, hanno raccontato di sé persone alla fine scagionate e risarcite, che dopo sentenze che si erano pretese a loro volta definitive avevano trascorso venti o più anni in galera. E c’era, inesorabile, il ricordo di Enzo Tortora. Tra il 1992 e il 2018, 27 mila persone sono state risarcite dallo stato per essere state detenute ingiustamente. L’Italia è il paese in cui l’ordine giudiziario è rappresentato formalmente e anche sostanzialmente, cioè nelle televisioni e in tutto ciò che fa spettacolo, da un magistrato comicamente detto sottile, il quale sostiene la presunzione di colpevolezza universale (fino a prova contraria, e neanche), brilla di una casistica da far impallidire fra Timoteo - per separarsi dalla moglie conviene più ammazzarla che avviare le pratiche di divorzio - e che, con l’autorità che gli viene dalla carica e dall’annosa esperienza, garantisce che in Italia non si va in carcere con condanne inferiori ai quattro anni. Peccato che: “Al 13 gennaio risultano 23.024 detenuti che stanno scontando una pena inferiore ai tre anni. Sono ben 1.572 le persone detenute condannate a una pena inferiore a un anno. Sono 3.206 le persone detenute che hanno una pena da uno a due anni”. (Dati illustrati dal Collegio del Garante nazionale). Nel Rapporto di Antigone, fine gennaio, la cifra è diversa, non la sostanza: i detenuti che stanno scontando una pena residua inferiore ai tre anni sono 19 mila. Davigo è un ripetitore tv: ribadisce tal quali i suoi strafalcioni nel volgere delle epoche, imperterrito e senza contraddittori. Ora gli avvocati penalisti, che fanno di tutto da anni senza riuscire a farsi notare, hanno toccato qualche prima o seconda pagina, ammanettati. Più austeramente, magistrati dei più autorevoli hanno evocato l’insensatezza pratica e l’incostituzionalità giuridica dell’attacco alla prescrizione. Italiani, ancora uno sforzo. Accusa, prescrizione e assoluzione: ma ricordiamoci dell’innocenza di Mario Chiavario Avvenire, 4 febbraio 2020 Battuta infelicissima, e priva di fondamento, quella attribuita al ministro Bonafede sull’inesistenza, in Italia, di innocenti in prigione. Purtroppo, cronache e statistiche sono lì a documentare, anche pesantemente, il contrario: non sono poche le persone pienamente assolte all’esito del processo oppure a seguito di una procedura di revisione, ma soltanto a quel punto tornate in libertà da una detenzione spesso anche di lunga durata. E a cancellare la sofferenza subita, nella libertà, negli affetti, nella reputazione, non basta la “riparazione” (per lo più in denaro) cui quelle persone hanno diritto. Comprensibile, dunque, che la battuta abbia rinfocolato sferzanti polemiche, coinvolte nel turbinare di eccessi verbali e di grossolanità argomentative di cui fanno sfoggio le opposte tifoserie scatenatesi attorno alla riforma della prescrizione. Chissà se a frenare la spirale delle esasperazioni gioverebbe, a monte, un maggiore autocontrollo nell’uso di certe parole. A cominciare proprio da quelle, tanto impegnative, di “innocente” e “innocenza”, aventi radici profonde e un’eco potente nella coscienza etica collettiva? La legge processuale italiana evita di definirne il significato, ma quelle radici e quell’eco non le sono estranee: nonostante la diversa terminologia le si avverte in trasparenza anche in una distinzione recepita dal codice vigente. Di “assoluzione” è infatti la sentenza dibattimentale che, ad esempio, escluda la commissione del fatto di reato da parte dell’imputato; altra è invece la qualifica, sempre ad esempio, per la sentenza che appunto si limiti a constatare l’intervenuta prescrizione del reato per via del tempo trascorso dalla realizzazione: chi ne fruisce è, sì, a sua volta “prosciolto” ma non “assolto”. E peccato che la differenza sia poco o nulla percepibile dall’orecchio dei “non addetti ai lavori”, causa l’assonanza fonetica e la sinonimia, nel linguaggio comune, tra i due vocaboli. Talune garanzie processuali fondamentali fanno poi leva - e qui esplicitamente - proprio sulla nozione di “innocenza” o su quella, antitetica, di “colpevolezza”. Si pensi all’art. 27 della Costituzione e all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: l’uno ammonisce che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”; l’altro, con maggiore incisività benché con minor raggio d’incidenza, proclama che “ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata”. Dalla combinata lettura di tali norme scaturiscono, tra le altre, due conseguenze di assoluto rilievo. La prima è che va assolto non solo chi dimostri positivamente la sua innocenza, ma pure la persona la cui colpevolezza non sia provata “oltre ogni ragionevole dubbio” (ed è vero che così si rischia di mandar liberi dei colpevoli, ma sarebbe ben peggio se, nel dubbio, ad essere condannato fosse un innocente). Inoltre, durante tutto il procedimento penale le condizioni materiali e giuridiche della persona che vi è sottoposta non possono essere le medesime di chi sia stato definitivamente condannato. Si va oltre il segno quando si dice o si scrive che pertanto l’imputato “è” innocente fino a che una sentenza non lo condanni in via definitiva. A dire il vero, neppure una pronuncia assolutoria passata in giudicato ha il magico potere di cambiare la realtà delle cose sul piano materiale e su quello morale ed errori giudiziari sono anche quelli che vanno a beneficio di chi non si sia riusciti a dimostrare colpevole di un reato, ma in effetti lo è stato (né il sottolinearlo significa appropriarsi della falsa e brutta immagine dell’innocente come colui che “l’ha fatta franca”). Tuttavia, il rispetto dell’autorità giudiziaria e la necessità di scongiurare l’incubo di persecuzioni penali senza fine vogliono che si renda incontestabile giuridicamente il giudicato assolutorio, mettendolo anche al riparo - a differenza di quello di condanna - da possibilità di revisione. Quanto all’imputato tuttora sotto processo, è ancor meno vero che le norme costituzionali e internazionali gli cuciano addosso la vesta bianca dell’innocenza, ed esse stesse si inseriscono in contesti che ammettono palesemente l’uso del carcere invia cautelare; impongono tuttavia che la detenzione in pendenza di giudizio rimanga l’extrema ratio, giustificandosi soltanto in presenza di gravi indizi per gravi delitti e allo scopo di scongiurare pericoli di inquinamento di prove, di fuga o di reiterazione criminosa: così, almeno, è scritto nel codice sebbene non manchino deplorevoli aggiramenti nelle prassi. Ma il monito va ben al di là di ciò: se ne ricordano sempre i gestori della comunicazione, quando preme la tentazione dello “sbattere il mostro in prima pagina”? Ergastolo processuale di Ermes Antonucci Il Foglio, 4 febbraio 2020 I vertici degli uffici giudiziari sparsi per l’Italia demoliscono la riforma Bonafede. Con buona pace di Davigo Roma. Anche i magistrati bocciano la riforma della prescrizione, entrata in vigore il 1° gennaio. Nonostante il sostegno espresso dall’Associazione nazionale magistrati alla norma voluta dal Guardasigilli Alfonso Bonafede, che blocca il decorso della prescrizione dopo una sentenza di primo grado, una valanga di critiche è giunta dai massimi vertici degli uffici giudiziari sparsi per il paese, durante le cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario tenutesi lo scorso fine settimana. Il Primo presidente della Corte di cassazione, Giovanni Mammone, ha prospettato un aumento del carico di lavoro per la Suprema Corte di “circa venti- venticinquemila processi”, che “difficilmente potrebbe essere tempestivamente trattato nonostante l’efficienza delle sezioni penali della Corte di cassazione”. In altre parole, una paralisi della giustizia. A Milano, dove i penalisti hanno abbandonato l’aula prima dell’intervento di Piercamillo Davigo, il procuratore generale della Corte d’appello, Roberto Alfonso, è stato ancora più duro: “La sospensione del corso della prescrizione non servirà sicuramente ad accelerare i tempi del processo, semmai li ritarderà ‘senza limiti’”, ha detto Alfonso alla presenza del ministro Bonafede, aggiungendo che la norma entrata in vigore “presenta rischi di incostituzionalità”, in particolare “viola l’articolo 111 della Costituzione” sulla ragionevole durata del processo. Alfonso ha anche sottolineato che per l’imputato “già solo affrontare il processo penale costituisce una ‘pena’”, anche per il “disdoro che purtroppo nella nostra società massmediatica esso provoca”, e di conseguenza “l’inefficienza dell’amministrazione non può ricadere sul cittadino, benché imputato”. A Trieste il procuratore generale Dario Grohmann ha ribadito di “non essere assolutamente favorevole a una sospensione sine die della prescrizione”, aggiungendo che la riforma “va a colpire i principi generali dell’ordinamento portando comunque un vantaggio minimo”. Anche il procuratore generale di Torino, Francesco Enrico Saluzzo, si è detto “assolutamente contrario alla prescrizione sterilizzata per sempre”: “La prescrizione è una garanzia per i cittadini e assicura che non si possa essere imputati a vita e neppure vittime, persone offese, parti civili a vita”. Il presidente della Corte d’appello di Firenze, Margherita Cassano, nel suo intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario ha affermato che “la inevitabile dilatazione dei tempi del processo conseguenti alla sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado mal si concilia con un giusto processo incentrato sul metodo dialettico nella formazione della prova”, ricordando che “la percentuale più alta di prescrizioni matura nella fase delle indagini preliminari”. “Non possono, infine, essere sottaciute le drammatiche conseguenze sociali provocate dalla pendenza per lunghissimi anni di un processo penale che rende l’uomo unicamente un imputato in palese contrasto con la presunzione costituzionale di non colpevolezza”, ha detto ancora Cassano. Alla cerimonia di inaugurazione a Napoli, dove gli avvocati sono entrati in aula con le manette ai polsi, il procuratore generale di Napoli, Luigi Riello, ha affermato che la riforma, “anche se risponde a un principio astrattamente condivisibile” considerata “da sola e calata nella comatosa situazione italiana” si tradurrebbe “in quell’ergastolo processuale o in Quell’inizio pena mai di cui tanti giustamente parlano”. Per il presidente della Corte d’appello di Roma, Luciano Panzani, “sospendere la prescrizione non serve a nulla”, ma “significa soltanto accumulare i processi senza che ci siano le risorse per farli” e “ledere in modo irreparabile diritti fondamentali ad un processo equo e tempestivo”. Da qui la proposta di amnistia: “La battaglia per risolvere il problema della prescrizione può essere vinta”, ha detto Panzani, potenziando “adeguatamente le corti” e ponendo rimedio “all’arretrato che si è accumulato, per i reati minori”, con “un’amnistia mirata”. Ma a offrire la sintesi definitiva delle conseguenze nefaste prodotte dalla riforma della prescrizione è stato probabilmente il procuratore generale facente funzioni di Roma, Federico De Siervo: “Allo stato degli atti e delle condizioni in cui si trova la Corte d’appello di Roma non è irragionevole ritenere che i processi che ora si definiscono con la formula di non doversi procedere per prescrizione si risolvano un domani con la formula di non doversi procedere per morte del reo”. A concludere i processi, cioè, sarà soltanto la morte degli imputati. Cosa è il processo di Vincenzo Vitale L’Opinione, 4 febbraio 2020 Credo non inutile - dopo aver ascoltato da giorni gli interventi, il più delle volte del tutto sgangherati, nell’ambito della inaugurazione dell’anno giudiziario - fermare l’attenzione su un tema centrale: che cosa è il processo penale? In proposito, è stato necessario sorbirsi come una medicina amara le opinioni più strampalate provenire anche da fonti formalmente autorevoli, ma fatalmente ignare della reale consistenza della trama processuale e comunque vittime inconsapevoli della domanda funzional-strumentale (come funziona?) che - lo notava anni or sono Umberto Galimberti - sembra aver definitivamente spodestato quella ontologica: tì estì? (che cosa è?), come si domandavano invece saggiamente i greci, allo scopo di scongiurare corbellerie varie, spacciate come autorevoli affermazioni. Ma nonostante la diversità di opinioni in proposito - varie e soavemente ingiustificate e ingiustificabili, come si trattasse di scegliere, fra decine di gusti, un gelato alla crema o al pistacchio - una sorta di costante di fondo sembra essere sempre presente in molti commentatori, compresi gli addetti ai lavori, cioè magistrati, ministri, esponenti di forze politiche chiamati a votare in Parlamento le riforme al processo penale: e cioè la convinzione che il processo penale serva ad applicare la pena astrattamente prevista dalla legge. Insomma, a prevalere di molto è la strampalata idea che il processo sia una sorta di strumento di cui bisogna servirsi allo scopo di punire il reo. Bisogna invece considerare che il processo, in uno Stato di diritto, è ben altra cosa. E precisamente è una “verifica” - meglio una “prova di resistenza”, per usare un gergo epistemologico - della ipotesi accusatoria: nulla di più o di meno. Per esser più chiari, la cosa funziona all’incirca come segue. Una ipotesi accusatoria, più o meno grave, viene formulata a carico di Tizio. E allora, mentre in uno Stato totalitario - ove il diritto è morto e sepolto - si passa subito alla esecuzione della pena o, in alternativa, si imbastiscono processi-farsa (cioè i cosiddetti processi politici, tanto frequenti nell’Unione Sovietica) allo scopo demagogico di mascherare (malamente) il misfatto di una condanna scritta in partenza, al contrario, in uno Stato di diritto - quale dovrebbe essere il nostro - si organizza il processo in senso giuridico allo scopo di verificare o falsificare la ipotesi accusatoria a carico di Tizio. Ne viene che il processo giuridico è un vero e proprio “diritto” dell’accusato, il quale - se ne fosse privato - rivendicherebbe subito il suo sacrosanto diritto al processo: basta chiederlo ai dissidenti sovietici, spediti nei Gulag della Siberia, sulla base di una generica e fantasiosa accusa, mai sottoposta ad una seria verifica processuale. Il processo penale dunque si fa, anziché non farsi, per difendere l’imputato dalle accuse a lui mosse, e proprio per questo è un suo inalienabile diritto: e senza il processo, quale altro modo avrebbe l’accusato di difendersi? Invito in proposito i sedicenti giuristi di casa nostra a rileggersi - se mai l’avessero già fatto - “Arcipelago Gulag” di Solgenitsin oppure, a piacere, diversi scritti di Sacharov. Non basta. In questa prospettiva, va aggiunto che il processo - comunque vada a finire, con una condanna o con una assoluzione - se regolarmente svolto, è sempre riuscito, ha sempre raggiunto il suo scopo, che è il giudizio sulle accuse: null’altro. Pensare che il processo sia “riuscito” se giunge a condannare l’accusato e invece non lo sia se lo assolve, è l’effetto di un cortocircuito mentale - oggi purtroppo comune a molti sedicenti giuristi - in forza del quale si scambia la causa (l’accusa) con l’effetto (il giudizio) e l’accusato con il colpevole (come se bastasse essere accusati per venir considerati automaticamente colpevoli). Per questo motivo, i vecchi giuristi son soliti dire che il processo è “auto-telico”, che non è una parolaccia, ma vuol soltanto significare che lo scopo (“telos”) del processo non è fuori di esso, ma è dentro di esso, al suo interno: è il giudizio. È allora molto chiaro - per coloro non ancora accecati dal giustizialismo giacobino oggi veicolato dai pentastellati, dai loro epigoni e, ahimè!, da alcuni magistrati - che il processo penale non ha nulla a che vedere con la difesa della società. La difesa della società potrà esser considerata, al più, un effetto del tutto eventuale della condanna dei colpevoli, ma comunque si tratta di un elemento estraneo alla genuina trama processuale. Per questo, sorprende molto che se ne parli a proposito della funzione del processo e delle riforme che vanno inaugurate. Sorprende questa sorta di disagio del pensiero. Sarebbe come se un gruppo di chef si mettesse a dibattere sulla possibile indigestione che “potrebbe” colpire alcuni commensali, invece di occuparsi del menu da servire e della sua bontà: pura follia! Eppure, è questo lo spettacolo al quale tocca oggi assistere. E con malinconia, più che con preoccupazione. Quella malinconia che sorge nel constatare come ancora oggi - dopo oltre trent’anni - sia vero ciò che Leonardo Sciascia lamentava, quando denunciava come in Italia manchi, endemicamente, il “senso del diritto”. Quel “senso del diritto” senza il quale è impossibile vivere in una compagine autenticamente umana, come ben sapeva Antonio Rosmini quando definiva il diritto “la persona sussistente”. E ancor più, se di questo disagio del pensiero si fanno preda anche coloro che - i giudici - dovrebbero combatterlo. In difesa del diritto. Riconoscere l’errore è essenziale. Anche per la Giustizia di Luca D’Auria* Il Fatto quotidiano, 4 febbraio 2020 L’apertura dell’Anno giudiziario ha visto, ancora una volta, contrapporsi i magistrati agli avvocati. Ma anche i magistrati contro la politica. Il tema è quello virulento sulla riforma/abbattimento della prescrizione. Qualcosa ho già detto in un mio post precedente. Altro ritengo che non vada aggiunto. Il Procuratore generale di Milano ha bollato la riforma come inutile (non faciliterebbe la funzione giudiziaria, né la velocizzerebbe) oltre che incostituzionale. Un de profundis per chi “liscia il pelo” ai sacerdoti del diritto. Credo non si debba aggiungere altro. Peraltro ipse dixit: questo affondo viene, infatti, dal rappresentante più alto in carica della magistratura d’accusa del Tribunale di Milano, che è da quasi un quarantennio la sede giudiziaria più autorevole della Repubblica e maggiormente influente nel dettare la linea dell’intera magistratura italiana. Il resto della cerimonia, fuori dalle parole del Procuratore generale, è stata polemica, anche a dispetto di quanto, solo poche ore prima, era stato auspicato (e annunziato) dal (nobilissimo) palco del Conservatorio della musica, dove si è svolta una profonda serata di musica e cultura musicale. Sono bastate poche ore per ammainare il pensiero di Friederich Nietzsche. Il filosofo di Rocken ebbe a dire che “senza musica la vita sarebbe un errore”. Ma non bisogna stupirsi che la giustizia volti le spalle al grande pensatore tedesco: basti pensare che l’accertamento giudiziario è l’unico dei mondi umani in cui non è riconosciuto l’errore come suo elemento possibile. Persino la scienza, da ormai un secolo, è considerata “un cimitero degli errori” (Karl Popper) e anzi ha dimostrato che progredisce proprio da questo assunto relativistico. Ma la giustizia è talmente divina da poter andare oltre la scienza. La giustizia esige di essere assunta pro veritate, alla stregua di un dogma di fede, non concedendo alcuna forma di ripensamento rispetto al suo decidere. Neppure l’istituto giuridico della revisione è un’ammissione d’errore ma, al contrario, una radicalizzazione del dogma. Infatti non vi può essere alcuna revisione fondata sul riconoscimento dell’errore, ma solamente una nuova decisione, basata su elementi diversi e sopraggiunti in seguito al giudicato precedente. Io desidero celebrare l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario con le parole di Leonardo Sciascia (Il Contesto): “Prendiamo, ecco, la messa: il mistero della transustanziazione, il pane e il vino che diventano corpo, sangue e anima di Cristo. Il sacerdote può anch’essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dell’ordine fa sì che ad ogni celebrazione il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi. Prima, il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto ad ogni debolezza e ad ogni errore; ma nel momento in cui celebra non più. E tanto meno dopo. Lo vede lei un prete che dopo aver celebrato messa si dica: chissà se anche questa volta la transustanziazione si è compiuta? Nessun dubbio: si è compiuta. Sicuramente”. Se non si parte da qui è inutile polemizzare, battagliare o persino disquisire di diritto. L’errore è l’essenza della cognizione, perché solo il riconoscimento della sua esistenza (come riconosciuto dalla scienza) consente di accedere, faticosamente, al giusto. Non è la toga (di ermellino per la magistratura o nera per l’avvocatura) a trasformare l’essere umano in un soggetto alieno dall’errore. L’errore vero, non quello da chiacchiera, quello “ingenuo” secondo cui “tutti possono sbagliare”. L’errore esiste se è rimediabile; ed è rimediabile se è riconosciuto dal sistema all’interno del quale può svilupparsi. Il resto è polemica. Perché, senza musica, la vita è un errore. *Avvocato e docente di Diritto Ermini: “Alla giustizia serve una riforma organica. Sbagliati gli ultimatum, i partiti collaborino” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 4 febbraio 2020 Il vicepresidente del Csm: agendo per tasselli si rischia di aggravare la situazione. “Da questo ennesimo scontro politico sulla giustizia emerge ancora una volta la necessità di una riforma organica, di sistema, che riguardi il processo penale ma anche il codice penale, con la revisione dei reati; ma per farlo ci vorrebbe un clima totalmente diverso, più disteso e soprattutto di collaborazione”, sostiene il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini. Lei come pensa che andrebbe sciolto il nodo prescrizione? “La soluzione spetta al Parlamento e al governo. Ma su questioni che incidono direttamente sulla vita e la pelle dei cittadini si dovrebbe trovare la massima condivisione possibile. Anche con l’opposizione, visto che si tratta di attuare i principi costituzionali del giusto processo, della sua ragionevole durata e delle garanzie. Invece ogni nuova coalizione cambia le regole, e non mi pare un buon modo di procedere”. Ma sul caso specifico secondo lei come bisognerebbe intervenire? “Io sto al parere espresso dal Csm, seppure a maggioranza: eliminarla dopo la sentenza di primo grado, senza altri interventi strutturali, non risolve la criticità dell’eccessiva durata dei processi, e anzi rischia di aggravarla. A titolo personale penso sia stato un errore intervenire su questo punto senza conoscere il resto delle riforme, perché come accade nel domino quando si toglie una tessera rischiano di cadere tutte le altre”. Dunque sarebbe utile una sospensione, come chiede Renzi, o accelerare la riforma del processo, come vuole il ministro Bonafede? “Non spetta a me scegliere una strada. Dico solo che in questa situazione gli ultimatum o la fissazione di nuove scadenze perentorie non aiutano a creare il necessario clima di collaborazione”. Pensa sia giusto che i magistrati intervengano nel dibattito sulla prescrizione, come sta avvenendo? “Intanto il Csm, che è l’organo di governo autonoma della magistratura, è stato chiamato formalmente a esprimere un parere, come su tutte le leggi che hanno ricadute sull’organizzazione giudiziaria. Dopodiché vanno ascoltate le opinioni dei magistrati come pure dell’avvocatura e dell’Accademia, cioè tutti coloro che compongono il mondo del diritto e della giurisdizione. Sempre con l’obiettivo di ottenere il massimo consenso”. A proposito di opinioni, che pensa della protesta degli avvocati milanesi contro la presenza del consigliere Davigo all’inaugurazione dell’anno giudiziario? “Il Csm ha subito dichiarato irricevibile la richiesta di non farlo andare, e sinceramente mi meraviglia che una platea di avvocati abbia di fatto invocato la censura di opinioni altrui. Ogni critica è legittima, ma sempre nel rispetto per le persone e le istituzioni che rappresentano”. Lei e altri avete parlato dello scandalo che ha convolto il Csm lo scorso anno. “Non si poteva certo nascondere. È una situazione che va superata e la stiamo superando”. Può affermare che non c’è più il “sistema di potere” emerso dalle indagini? “Posso affermare che c’è stata una presa di coscienza da parte di tutti i consiglieri, come si evince da votazioni e prese di posizione che non rispecchiano gli schieramenti compatti delle correnti e dei partiti che hanno eletto i consiglieri togati e laici”. Però sulle nomine fatte e da fare il Csm continua a dividersi. “L’unanimsimo non è indispensabile; maggioranze e minoranze non sono un male in sé, l’importante è che tutto avvenga in trasparenza. Quello che non va bene sono i patti occulti e gli schieramenti precostituiti: una volta arrivati qui non ci sono più casacche di correnti o di partito, né vincoli di mandato”. Lo dice perché anche lei è stato eletto da un patto tra correnti, le stesse coinvolte nello scandalo? “Lo dico perché lo penso. È vero che mi hanno votato quelle correnti, ma dal primo momento io ho avuto come unici riferimenti la Costituzione e il capo dello Stato, presidente del Csm. Lo dimostrano proprio le intercettazioni in cui alcuni che mi avevano sostenuto si lamentavano dei miei comportamenti”. Violante: “Il codice penale non è la Bibbia, la politica ritrovi la sua autonomia” di Errico Novi Il Dubbio, 4 febbraio 2020 Intervista all’ex presidente della Camera: “La giurisdizione distingue il lecito dall’illecito, non il bene dal male. Ma l’etica dei partiti non può essere definita da un processo”. Ci sono diversi modi per sciogliere il conflitto tra politica e giustizia. Ma uno per Luciano Violante viene prima di tutto ed è il recupero dell’etica pubblica. “Della morale come principio condiviso, non come contenzioso moralistico. E dipende dai partiti”, avverte l’ex presidente della Camera, “devono ritrovarla loro. In modo da evitare che tutto finisca per doversi dirimere con il codice penale”. Violante non fa sfoggio di profezie avverate. Si limita a vantare una cosa soltanto: “Sono cinquant’anni che mi occupo di giustizia”. Lo dice dopo essere stato interpellato sulle possibili colpe della sinistra. Sull’ipotesi che le fibrillazioni odierne siano il precipitato estremo delle troppe polemiche alimentate sulla giustizia nei primi anni Duemila, e soprattutto da parte degli allora Ds nei confronti del Cavaliere. “Le polemiche sulla giustizia non sono certo nate allora. È chiaro che il processo, o meglio la giustizia, è il luogo ultimo dove si definiscono i conflitti, quando la politica non è in grado di risolverli direttamente, si pensi all’Ilva: è inevitabile che la materia sia terreno di contesa”. Presidente, visto che sulla giustizia si realizza al massimo grado la tendenza della politica a legiferare per spot, non è che magari l’ordalia della prescrizione è così esasperata da poter innescare una redenzione, un saggio ritorno a un modo più razionale di discutere tra i partiti? Quando i governi durano poco è difficile aspirare a riforme di sistema. Spesso ci si limita a smontare quanto fatto dal governo precedente. Però, se si volesse agire in modo sistematico su processo penale e prescrizione, una via ci sarebbe. Ecco: quale? Si dovrebbe partire da un’indagine conoscitiva, in Parlamento, sulle cause della così disomogenea fenomenologia della prescrizione. Ci sono sedi in cui i reati si prescrivono in gran numero, altre in cui il dato è irrilevante. Perché? Dipenderà anche dalla capacità organizzativa, da come funziona concretamente un ufficio di Procura o un Tribunale? Ecco, bisognerebbe prima conoscere le cause del più o meno efficace funzionamento dei singoli uffici. L’avvocatura avanza una proposta simile, in particolare lo fa il presidente del Cnf Mascherin: prima la riforma del processo, poi un monitoraggio sui suoi effetti per valutare se davvero sia necessario intervenire sulla prescrizione. Sono d’accordo con questa proposta dell’avvocatura. Ma aggiungo: le due cose non sono alternative fra loro. Potrebbero andare in sequenza: prima la verifica delle cause ufficio per ufficio e poi una riforma da mettere alla prova. L’ex vicepresidente dell’Anm Sangermano propone addirittura di rendere i dati sulla prescrizione decisivi per la carriera dei capi degli uffici. Sì, ma una simile riforma non ha neppure bisogno di legge ordinaria: basta una decisione del Consiglio superiore. Il punto è approfondire: sarebbe utile acquisire le relazioni dei procuratori generali presso le Corti d’appello sulle modalità di esercizio dell’azione penale, inviate, almeno così prevede la legge, al pg di Cassazione. Si dovrebbe evitare di decidere per sentito dire, e farlo sulla base di una conoscenza reale dei problemi. Qualche volta invece prevale il pregiudizio ideologico. Nel caso dei 5 stelle ci si è innamorati dell’idea che la prescrizione sia lo scudo fatale della da loro odiata casta. È chiaro che chi è ben assistito può legittimamente utilizzare al meglio tutti gli strumenti del processo. Ma non penso che la prescrizione sia la madre di tutte le battaglie per una riforma del processo penale. E qual è invece? Decidere dopo aver conosciuto concretamente lo stato delle cose. Solo? No. Io credo che l’accertamento giudiziario e il codice penale non possano essere l’unica tavola sulla quale si regge il sistema economico, politico e sociale. La giurisdizione e il codice penale distinguono il lecito dall’illecito, non il bene dal male. Abbiamo fatto del codice penale la magna charta della politica. Ma l’etica dei partiti è un’altra cosa e non può essere definita da un processo. Non sempre quanto è giuridicamente illecito è anche moralmente e politicamente riprovevole. Lo pensa dell’ex sindaco di Riace, per esempio? Eviterei personalizzazioni. Occorre recuperare l’anima dei partiti. E perché è decisiva questa perdita dell’anima dei partiti? Perché le forze politiche si reggono, in maggioranza, su leadership solitarie e narcisistiche. L’etica pubblica nasce dalle comunità, non dai singoli. In quanto singolo, tanto per intenderci, neppure il Papa potrebbe da solo sostituirsi all’intera Chiesa. Aggiungo: le straordinarie leadership del passato erano tali perché designate dai partiti: Berlinguer, De Gasperi, Moro, Almirante. Adesso la dinamica tra comunità, codice morale e leader non esiste più. La debolezza del sistema viene da lì, e da lì viene il cieco affidarsi al codice penale. D’altronde, qualcosa doveva pur occupare lo spazio lasciato dai partiti e dai loro codici etici. In una simile crisi, una legislazione più ragionevole sulla giustizia può venire dall’alleanza fra magistrati e avvocati Non escluderei un terzo soggetto: l’università. Oltre ai tecnici della prassi, come potremmo considerare magistrati e avvocati, io coinvolgerei anche i tecnici teorici, che possono offrire uno sguardo complessivo. Certo, l’avvocato può senz’altro assicurare un contributo nella formazione delle norme, altra cosa è il suo ruolo costituzionale e sociale di controllore del giudice e antagonista del pm. In effetti l’avvocatura chiede un esplicito riconoscimento costituzionale del proprio ruolo anche per poter garantire, quale controparte tecnica della magistratura, l’indipendenza di quest’ultima. Va detto che l’evolversi della professione forense autorizza oggi a parlare di diverse tipologie di avvocature, talmente connotate sono le sue diverse specializzazioni. Comprendo come si possa comunque coltivare l’aspirazione a essere corpo omogeneo e con una soggettività unitaria. E posso dire di non vedere motivi ostativi nel riconoscere l’avvocato quale soggetto costituzionale. Ma adesso noi siano di fronte a una crisi di sistema relativa ad altro. A una malattia della politica dunque. Ma a proposito: ci sono le condizioni anche di consenso perché Renzi possa condurre la sua battaglia garantista? Dovrebbe rispondere lui. Le forze piccole, qual è oggi il partito di Renzi, hanno spesso, come in questo caso, un peso parlamentare rilevante, decisivo, e scelgono terreni che possano garantire visibilità. D’altra parte, nel perdere di vista la realtà dei problemi, rispetto al processo penale e alla prescrizione, c’è un aspetto della cui rimozione si resta davvero sorpresi. A quale si riferisce? Alle parti offese. Se i processi si trascinano all’infinito, le vittime vedono allontanarsi anche il diritto al risarcimento. Mentre la prescrizione può consentire di determinare l’esistenza del fatto in modo da potersi rivalere civilmente. Senta Presidente, ma non è che l’ordalia sulla giustizia deriva un po’ anche dagli errori del centrosinistra negli anni Duemila? Le fibrillazioni sulla giustizia si sono sempre viste. È nella natura di una società conflittuale e di un sistema istituzionale caratterizzato da un policentrismo anarchico come i nostri. I conflitti sociali e politici devono essere risolti dalla politica, che è il sovrano. Ma se la politica non se ne occupa, lo scettro passa, inconsapevolmente, alla giurisdizione. Vedi, ripeto, il caso dell’Ilva. Ma il sovrano della Prima Repubblica era quella comunità civile disprezzata con l’espressione “sistema dei partiti”? Forze politiche, anche contrapposte, sapevano mantenere i confini della propria responsabilità, senza farle scivolare sulle spalle della giurisdizione. Prescrizione, Conte convoca un vertice ma l’idea è lasciare il nodo al Parlamento di Carlo Bertini e Ilario Lombardo La Stampa, 4 febbraio 2020 Ai 5S contrari verrebbe offerta una ritirata stile-Tav. Il premier: pronta modifica sulle sentenze d’appello. Con l’odore di zolfo della crisi che già aleggia su Palazzo Chigi, è rimasto solo il Parlamento a offrire alla maggioranza una possibile via d’uscita sulla prescrizione. Sembra non ci sia alternativa, a maggior ragione dopo che il presidente della Cassazione e gli avvocati si sono scatenati contro la norma. Alla Camere si affidano le sorti della riforma, come ultimo salvagente per scongiurare lo strapiombo del governo. O si troverà una soluzione, oppure in Aula si andrà verso una convergenza tra i partiti, di maggioranza (renziani in testa) e di opposizione per fermare la legge. La data cerchiata in rosso è i124 febbraio, quando si voterà il ddl del deputato di Forza Italia Enrico Costa. E dove in caso di scrutinio segreto la legge del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede potrebbe essere affondata. Ma già si presagisce un esito in stile Tav: con i 5 Stelle che al grido “noi non ci stiamo” si piegano “al volere del Parlamento sovrano”, ma da irriducibili, mostrando di aver salvato i propri principi e facendo rimanere in piedi il governo. Protagonisti assoluti di questa sfida sono Bonafede, il ministro incatenato alla sua proposta di bloccare la prescrizione, in vigore dal 1 gennaio, e Matteo Renzi, l’ex premier che anche per gonfiare i numeri della sua Italia Viva ha fatto della giustizia la battaglia del secolo, anche contro il suo ex partito. Il botta e risposta con il vicesegretario del Pd ed ex Guardasigilli Andrea Orlando dà la sintesi politica della giornata. Se Iv non avesse “politicizzato” lo scontro, secondo Orlando, Bonafede sarebbe stato costretto a rispondere alle precise obiezioni di avvocati e magistrati. “Non morirò giustizialista” la risposta di Renzi. “Si può cambiare la norma senza votare con Salvini e mettere a rischio il governo” la controreplica del dem. In mezzo a tutto questo, il M5S spaventato dall’escalation, e il premier Giuseppe Conte in cerca di un appiglio per l’ennesima mediazione. Glielo offre il suo omonimo deputato di Leu, Federico Conte, lo stesso che gli aveva fornito il primo “lodo”, quello che bloccava la prescrizione solo per i condannati in primo grado e non per gli assolti, quello che secondo alcuni è incostituzionale e secondo altri è già previsto dal sistema penale (articolo 160) dai tempi del Codice Rocco. Il nuovo “lodo” integra l’altro: in caso di condanna di primo grado e assoluzione in appello, la prescrizione verrebbe retrodatata per farla scattare dalla prima sentenza, in modo da evitare in alcuni casi il giudizio in Cassazione. Viceversa non scatterebbe con una condanna in appello. Quindi, di fatto per eliminare la prescrizione servirebbero due sentenze di condanna. I renziani la considerano un passo avanti ma Maria Elena Boschi fa notare che se l’appello dura anni non si risolve il problema. Obiezione condivisa anche dal Pd che comunque punta a rinforzare questa ipotesi con garanzie di durata certa dei processi. Ma non è l’unica soluzione, perché si sta ragionando anche attorno all’ipotesi di distinguere i reati e bloccare la prescrizione, per esempio, in caso di corruzione. Ieri c’è stato un contatto telefonico tra Bonafede e gli altri capi-delegazione della maggioranza. Per domani, di ritorno da Londra, Conte avrebbe intenzione di convocare un vertice. In ogni caso il Pd intende chiedere un compromesso politico che stia bene a tutti, per evitare scivolate improvvise verso la crisi, ma anche che la bandiera del garantismo resti solo in mano a Renzi. Bisogna fare in fretta. Il calendario è fitto. Iv conferma che non ritirerà, e ripresenterà anche in Senato, l’emendamento di Lucia Annibali che rinvia il blocco della prescrizione di un anno, in attesa di una riforma che velocizzi il processo penale. Il Pd non lo voterà ma annuncia che senza la mediazione di Conte lancerà la sua proposta, magari di tornare alla norma Orlando, che sospende la prescrizione per 12 mesi dopo il primo grado e 24 dopo l’appello. Nessuno comunque vuole arrivare al 24 febbraio impreparato. Perché, nonostante il tutti contro tutti, nessuno è pronto fino in fondo a scommettere che il governo cadrà ora sulla prescrizione, a un mese dalle nomine pubbliche delle grandi aziende. Prescrizione, Bonafede isolato ma la rissa è tra Pd e Iv di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 4 febbraio 2020 Renziani pronti a votare con la destra, ma non sono determinanti. Orlando: non fosse per voi i 5 Stelle avrebbero dovuto già mediare. Dopo le critiche alla riforma dei vertici degli uffici giudiziari, i dem si affidano a Conte. La minaccia di Renzi di votare contro il governo sulla prescrizione è rivolta ai 5 Stelle e al ministro Bonafede, ma fa arrabbiare soprattutto i democratici e Zingaretti. A litigare sulla giustizia sono così i due partiti, Pd e Italia viva, ufficialmente schierati su posizioni simili. I dem accusano l’ex segretario scissionista di cercare visibilità fino al punto da essere disponibile a votare con Salvini, non uno specchiato garantista. I renziani replicano che i timidi distinguo del Pd hanno lasciato campo libero a Bonafede: la sua riforma che abolisce la prescrizione dopo il giudizio di primo grado è in vigore già da un mese, e ancora si discute di se e come porvi rimedio. Il Pd si affida ormai da settimane alla mediazione di Conte, non fosse che quella che il presidente del Consiglio aveva finalmente trovato - distinguere tra condannati e assolti in primo grado - si è rivelata presto insufficiente (anche per la contrarietà di Iv). Renzi d’altra parte minaccia più di quello che può effettivamente mantenere. “Bonafede e tutti gli altri devono sapere che non hanno i numeri, sicuramente non li hanno al senato”. Alla camera invece, anche se Iv sulla prescrizione decidesse di votare con le opposizioni - come ha già fatto in commissione giustizia, peraltro - i giallo-rossi reggerebbero. In questo modo al senato, dove in effetti la maggioranza sarebbe sul filo, la questione potrebbe non arrivare nemmeno. Sia il decreto milleproroghe, infatti, che il disegno di legge Costa che abolisce del tutto la riforma Bonafede, sono all’esame di Montecitorio. Nel milleproroghe Italia viva ha un emendamento a prima firma della responsabile giustizia Annibali che rinvia di un anno (quindi fino al 1 gennaio 2021) la riforma Bonafede, e intanto riporta in vita le regole introdotte dall’ex ministro della giustizia Orlando. Le commissioni prima e quinta che stanno esaminando il decreto potrebbero arrivarci già oggi (è all’articolo 8) ma il tema dovrebbe essere accantonato (come già gli emendamenti renziani sulla sugar tax) a meno che il governo non dia subito parere contrario. In teoria il Pd avrebbe modo di convergere su altri emendamenti sospensivi, senza per questo darla vinta a Renzi. Il radicale di +Europa Magi ha presentato tre emendamenti, oltre alla cancellazione della riforma Bonafede o al suo rinvio per quattro anni propone anche la sospensione di un solo anno. Sospensioni più o meno lunghe chiedono anche Lega e Forza Italia. In pratica la linea dei dem è quella di costringere Conte alla mediazione, non solo sulla prescrizione ma anche su molte altre questioni aperte nel milleproroghe: domani dovrebbe è previsto un vertice di maggioranza. “Abbiamo chiesto al presidente Conte di produrre una sintesi, se non ci sarà andremo avanti con la nostra proposta di legge”, ha detto Zingaretti, riferendosi a una proposta che può essere abbinata al disegno di legge Costa e tornare in aula tra venti giorni. Le pensanti critiche che la riforma della prescrizione ha raccolto nello scorso fine settimana dai magistrati che hanno aperto l’anno giudiziario nei diversi distretti rafforzano le aspettative del Pd in una mediazione. E indeboliscono posizioni oltranziste come quella del reggente 5 Stelle Crimi, secondo il quale la nuova prescrizione è cosa fatta per sempre: “È legge e se qualcuno vuole cambiare le carte in tavola se ne assumerà le responsabilità”. Il vicesegretario del Pd Orlando, impegnato nella mediazione che passerebbe anche per una distinzione tra le fattispecie di reato, scarica su Italia viva la colpa della mancata soluzione: “Se non si fossero alzati i toni, Bonafede sarebbe costretto a rispondere ai vertici degli uffici giudiziari che hanno criticato in modo puntuale le nuove norme sulla prescrizione”. Mentre secondo l’ex ministro della giustizia la soluzione delle criticità proposte dai magistrati, e quindi non più “solo” dagli avvocati penalisti e da molti giuristi, “sarà il presupposto a qualunque accordo, quando si tornerà a discutere nel merito”. Argomenti ai quali Renzi oppone un categorico tweet: “Difendo la riforma Orlando perché a differenza di altri non mi vergogno delle riforme del nostro governo”. E nel suo governo il ministro della giustizia era Orlando (e non Gratteri, come da sua prima proposta al Quirinale). Prescrizione, weekend di schiaffi per il partito dei Pm di Travaglio e Davigo di Piero Sansonetti Il Riformista, 4 febbraio 2020 La vicenda della prescrizione - cioè del blocco della prescrizione - si sta un po’ aggrovigliando. Il partito dei Pm, guidato da Travaglio e Davigo, era sicuro di aver condotto in porto l’operazione e di avere sconfitto, con la forza di fuoco dell’informazione (che largamente controlla) e con la sua rappresentanza parlamentare, le poche resistenze, quasi tutte raccolte attorno alle Camere penali. E invece il fine settimana ha complicato le cose. Si è frapposto Matteo Renzi, che è sempre una presenza fastidiosa, ma soprattutto ci si è messa di mezzo l’inaugurazione dell’anno giudiziario, che doveva essere il momento del trionfo del PPM (partito dei Pm) e invece è stato il tonfo. Il PPM in molte sedi l’ha fatta da padrone. A Palermo è riuscito addirittura a far parlare due dei suoi esponenti più prestigiosi (Scarpinato e Di Matteo). Ma ha preso due schiaffi dolorosi a Roma e a Milano, che sono città importanti, e subito dopo ha visto aprirsi la partita politica con l’impuntatura di Renzi. Di Roma vi abbiamo già riferito sul Riformista di sabato. Gli interventi di Mammone e Salvi sono stati due frustate. Il giornale del PPM (cioè Il Fatto Quotidiano), furioso, non ne ha nemmeno riferito in prima pagina. La redazione è rimasta basita di fronte a qualcosa di così imprevedibile: il Procuratore generale e il Primo Presidente della Corte di Cassazione che fanno a pezzettini piccoli tutte le teorie generali del giustizialismo, dalla non-prescrizione come soluzione dei mali della società, fino al diritto al protagonismo dei Pm, considerato dai travaglisti indispensabile a un buon controllo dell’Ordine e della Legalità. Come può succedere? Può succedere perché l’Italia è un paese tosto: non solo riesce a isolare il coronavirus prima di tanti altri paesi, ma - seppur nel dilagare del giustizialismo - tiene ferma, in alcune menti, anche molto altolocate, l’idea che lo Stato di Diritto è più importante persino di Gratteri e di Travaglio. E tuttavia la sorpresa maggiore è arrivata il giorno dopo da Milano. Doveva essere il Davigo Day. Piercamillo Davigo, cioè il numero 2 del PPM, secondo per importanza solo al generale Travaglio, era riuscito a farsi mandare dal Csm a rappresentare lo Stato all’inaugurazione dell’anno giudiziario di Milano, la città di Mani Pulite, di Borrelli di Bocassini. Ed era riuscito a respingere la controffensiva dei penalisti che avevano chiesto al Csm di rinunciare alla evidente provocazione. Ed ora si preparava a un gran discorso, in toga ghingheri e piattini, nella sede più solenne possibile e immaginabile. E invece cosa succede? Prima di tutto succede che il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso prende la parola e, invece di usare giri di parole per esprimere il suo pensiero, dice chiaro chiaro: l’abolizione della prescrizione viola l’articolo 111 della Costituzione, quello sul giusto processo. E la presidente della Corte d’Appello Marina Tavassi, con più cautele, dice qualcosa di molto simile. Capite che mazzata? E Alfonso pronuncia queste parole davanti al povero Bonafede, cioè al ministro - per capirci - che probabilmente di tutta questa storia sa pochissimo, però ci è finito in mezzo e ora non sa proprio come uscirne. E Davigo? Resta lì a bocca aperta, e quando poi gli danno la parola si accorge che mezza sala si alza in piedi, agita dei cartelli con scritti su alcuni articoli della Costituzione, volta le spalle ed esce dalla sala. Facendo anche rumore. Sono gli avvocati, che lui ha sempre considerato, sostanzialmente, imputati di serie B. E così la giornata che doveva essere del suo trionfo diventa la giornata nera nera della sua crociata. Intanto ci sono anche le novità politiche. Con Renzi che avverte che lui il processo eterno non lo avalla. E la possibilità di non avere la maggioranza in Senato. E ora? L’avanguardia del PPM, e cioè Travaglio in persona, si scatena sul Fatto. Scrive un articolo contro i penalisti e lo intitola, rabbiosissimamente, “le camere penose”. In questo articolo spiega che non c’è niente da fare, perché gli avvocati penalisti sono una lobby, e hanno un potere sterminato, e dominano in Parlamento e impongono le loro leggi. Glil’avrà detto Davigo? Non so. Però se volete vi elenco le nove principali richieste al Parlamento del fronte garantista (minuscolo fronte sostenuto dagli avvocati) e le sei richieste del fronte travaglista e dei magistrati (cioè: del partito dei Pm). Avvocati. 1). Separazione delle carriere tra Pm e giudici. 2) Fine dell’obbligatorietà dell’azione penale. 3) Piena responsabilità civile per i magistrati come per gli altri professionisti. 4) Riduzione della custodia cautelare. 5) Riforma carceraria. 6) Depenalizzazione dei reati minori. 7) Riforma delle intercettazioni. 8) Abolizione o riduzione del 41 bis, cioè del carcere duro, per via della sua evidente incostituzionalità. 9) Fine del doppio binario processuale e delle varie misure di emergenza. Di queste richieste, che giacciono da anni, ne sono state approvate zero. Numero zero. Le richieste fondamentali dei magistrati sono solo sei. 1) Abolizione o riduzione della prescrizione. 2) Sospensione della riforma carceraria varata dal governo Gentiloni. 3) Abolizione della impossibilità di riformare in peggio le sentenze di appello. 4) Legge spazzacorrotti che equipari le tangenti agli omicidi di mafia. 5) Aumento della possibilità di usare i Trojan (cioè il meccanismo di spionaggio a casa tipo Rdt) specialmente per i politici. 6) Legge Severino per tagliare le gambe ai politici anche se condannati solo in primo grado. Di queste sei richieste ne sono state accettate cinque. La riforma del processo di appello, con peggioramento delle garanzie per gli imputati, ancora è ferma. I magistrati sono abbastanza indignati del fatto che se chiedono sei cose ne vengano accettate sul tamburo solo cinque. E ora sono addirittura sbalorditi di fronte alla possibilità che salti o sia rinviato ancora il blocco della prescrizione. Per questo parlano di lobby degli avvocati. Con una ammirabilissima faccia di bronzo. Gaia Tortora: “Mio padre è morto invano. E il Pd non si sveglia” di Pietro Senaldi Libero, 4 febbraio 2020 “Renzi ha provato a cambiare la giustizia, forse anche per questo è preso di mira”. “Finora ho sopportato e sono stata una signora. Ora basta, Travaglio. Mavaffanculo”. Con questa uscita sui suoi social, Gaia Tortora, vicedirettore del tg di La7 nonché figlia di una delle più famose vittime della giustizia italiana, ha fatto irruzione nel dibattito sullo stato del nostro sistema penale una settimana prima dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. A farle perdere le staffe, un articolo di Travaglio nel quale il direttore del Fatto Quotidiano scriveva che “non c’ è nulla di scandaloso se un presunto innocente finisce in carcere”. Poiché il carcere preventivo è ammesso dalla legge e anche il peggior assassino è presunto innocente fino al terzo grado di giudizio, la galera anche per chi poi si rivelerà non colpevole è una spiacevolezza funzionale al sistema, è la tesi del miglior amico di Davigo nel panorama della stampa italiana. “Può pensarla così solo chi non si è mai ritrovato accusato di quel che non aveva mai fatto. Sono argomentazioni da azzeccagarbugli” è la replica che Gaia Tortora affida a Libero in questa intervista. Peggio il Guardasigilli Bonafede che dice che in Italia gli innocenti non finiscono in carcere o Travaglio che accomuna colpevoli e non colpevoli dicendo che in fondo sono tutti presunti innocenti? “Quella di Bonafede è stata una gaffe, alla quale il ministro ha messo una pezza precisando che si riferiva agli assolti e non agli innocenti. Diciamo che è stato un malinteso, perché vorrei vedere che un assolto finisse in carcere Travaglio invece non lo scuso. Anche se legale, resta scandaloso che un innocente sia in carcere, anche solo per una notte. E i dati ci dicono che ogni giorno in Italia vengono arrestati tre innocenti: neppure questo è scandaloso?”. Anche sabato il direttore del Fatto è intervenuto sulla vicenda. Come mai? “Lui usa per sostenere le sue tesi gli stessi argomenti dell’ ex pm Davigo. Sono il suo cavallo di battaglia, e poi vuol far credere di essere l’ unico giornalista in Italia che conosce il diritto; invece non è così, io la giustizia italiana la bazzico dai tempi delle medie, per vicende personali non piacevoli. Ma quello che è ancora più scandaloso rispetto a quel che scrive è che Travaglio per difendere le sue idee insulti i colleghi”. Il primo vaffanculo però è tuo.. “Sai che per la Cassazione non è reato, equivale a smettila di importunarmi. Se avessi detto poveretto invece, l’ avrei offeso”. Quindi è lui che ha commesso reato? “Ormai dipende tutto dall’ interpretazione personale del giudice che ti tocca in sorte”. Il quale nella sua valutazione può essere influenzato anche da chi offende e da chi è offeso, oltre che dal contenuto dell’ offesa? “Se tutto diventa opinione, il diritto sfuma”. Perché hai deciso di rompere il silenzio sulla giustizia proprio dopo l’ articolo di Travaglio? “L’ ho fatto altre volte. Quest’ ultima non so, sono cose che ti vengono da dentro. Certo, quel “non è scandaloso” mi ha indignato. Io ho una storia di ingiustizia nota e quando parlo lo faccio per dare voce a tutti quelli che la pensano come me ma non hanno il mio pulpito. La vicenda però mi ha fatto riflettere molto sulla nostra categoria”. Quali colpe abbiamo sulla giustizia? “Il Paese è già diviso in tifoserie. Se i giornalisti alimentano lo scontro tra manettari e garantisti, tutto diventa più complicato”. Ti abbiamo deluso? “Ho ricevuto della solidarietà, ma ho anche constatato che, quando fai certe battaglie e ti esponi, non sono in tanti quelli che ti dicono coraggio, vai avanti. Io sono stata insultata”. Anche i giornalisti sono succubi della magistratura come i politici? “Quando appartieni a una categoria forse hai più difficoltà ad assumere posizioni di rottura. Ma è triste. Io so che mio padre è morto di malagiustizia ma anche di pessimo giornalismo. In questo senso è morto invano, perché la sua vicenda ha insegnato poco ai colleghi e ancor meno a parte della magistratura”. L’ assoluzione non lo aiutò a lasciarsi alle spalle il carcere? “No, quella storia lo cambiò radicalmente e definitivamente. Sono cose che ti restano dentro a vita. Mio padre non è morto in pace, non si è mai riconciliato con il sistema. Lui poi mi diceva sempre che il carcere ti marchia e agli occhi dell’ opinione pubblica, o almeno di una parte di essa, resti comunque un individuo sospetto. La cosa lo faceva impazzire”. Il carcere preventivo però è una realtà del nostro diritto, come ricorda Travaglio “Questo non significa che non si possa cambiare. Ci sono misure alternative. Le carceri scoppiano, e noi veniamo condannati dall’ Europa per le condizioni di detenzione ma metà dei prigionieri sono in attesa di giudizio. Non c’ è volontà politica di risolvere la situazione”. Ritieni che i giudici debbano pagare per i loro errori? “Sì, specie quando penso che i responsabili dell’ inferno di mio padre hanno fatto tutti ottime carriere. Non penso che si debba arrivare a sanzionarli economicamente, se non c’ è malafede acclarata, ma negli altri lavori quando uno sbaglia subisce dei rallentamenti nella professione. È normale, e giusto”. Perché non avviene? “Perché quella della magistratura è la lobby più potente che c’ è in Italia. Uno dei mali della giustizia è proprio che i giudici pretendono di non essere mai messi in discussione. E la politica va loro dietro, asserendo che le sentenze non si commentano. Ma perché?”. Se la giustizia va male e i magistrati sono i padroni dei tribunali, non è illogico che pretendano di fornire loro le soluzioni ai problemi che creano? “Ma questo avviene per tutte le categorie. Prendi la scuola. Gli insegnanti sono i primi a dire che non funziona, poi però se arriva Renzi e vuole inserire criteri di valutazione del lavoro dei professori per migliorare l’ insegnamento, questi si ribellano. Tutti difendono il loro orticello, anche se si rendono conto che dà frutti marci”. Hai ascoltato i discorsi dei presidenti dei tribunali all’ inaugurazione dell’ anno giudiziario? “Sì. E se l’ allarme sulla giustizia e sull’ abolizione della prescrizione arriva anche dai magistrati, forse il ministro Bonafede dovrebbe iniziare a riflettere sulla bontà della sua riforma”. Tu sei per la reintroduzione della prescrizione? “Sì, ma vorrei una riflessione più ampia sulla giustizia. Il dibattito non può fermarsi solo sulla prescrizione. È il vizio della politica italiana, concentrarsi su un particolare, scatenare un impazzimento generale e non risolvere mai nulla. Si perde tempo continuamente”. Cosa pensi della giustizia in generale? “È il problema numero uno in Italia, e non solo per gli innocenti in carcere, ma perché la burocrazia e la lentezza e incertezza dei processi sono un freno al lavoro delle imprese di casa nostra e allontanano dall’ Italia gli investimenti stranieri. La situazione della giustizia mi preoccupa, sono trent’ anni che ascolto chiacchiere e non succede mai nulla”. Dubito che un governo M5S-Pd pensi di mettere mano davvero alla giustizia “I grillini hanno il giustizialismo nel dna, ci hanno preso i voti, come con il reddito di cittadinanza. Dal Pd però mi aspetterei un ragionamento vero sul tema giustizia. Renzi aveva provato a metterci mano, forse anche per questo ora si ritrova con le inchieste in casa”. L’ Italia oggi è più manettara? “No, lo è meno. Anche dal mio scontro con Travaglio ho potuto notare che il Paese è meno giustizialista di quanto si creda. E anche questo dimostra lo scollamento tra la maggioranza di governo e l’ Italia reale”. Cosa imputa al Pd sulla giustizia? “Non è ben chiaro che idea abbia. Ha sempre approcciato il problema con forte timidezza, non ha mai messo il disastro della giustizia tra le priorità da affrontare. Ora che ha varato la manovra e vinto in Emilia-Romagna, il Pd cosa vuol fare?”. Probabilmente nulla? “Il Paese è fermo per colpa delle divisioni dell’ esecutivo. Il punto è che nella maggioranza a nessuno conviene andare a votare”. Forse il Pd è in imbarazzo sul tema giustizia perché l’ ha cavalcata troppo politicamente “Questo è il vizio d’origine. Dai tempi di Tangentopoli, poi con Berlusconi, Renzi, Salvini Il Pd non ha mai fatto del garantismo una propria battaglia”. Non è che il Pd tiene bordone ai magistrati perché gli fanno comodo? “Io non vedo tutto questo strizzamento d’ occhi. Penso più semplicemente che mettere mano alla giustizia comporti una forma di coraggio che i dem non hanno. Specie in questo momento, dove se si rompe e si va al voto vince il centrodestra. Il Pd è cambiato sulla giustizia. Non è più quello di Renzi e del Guardasigilli Orlando”. Si è arreso? “Scontrarsi con la magistratura è difficile. Le sentenze le fanno i giudici e se li attacchi poi spunta sempre fuori qualcosa”. E poi Travaglio e Davigo sostengono che gli innocenti non devono temere i processi, perché anzi sono un’ occasione attraverso la quale possono dimostrare la loro non colpevolezza “E ti sembra una teoria seria?”. “Io, avvocato, minacciata perché difendo un presunto femminicida” di Valentina Stella Il Dubbio, 4 febbraio 2020 La professionista sotto attacco spiega: “Il nostro dovere è garantire una giusta difesa anche a chi è considerato il peggiore dei mostri”. Non nasconde il suo turbamento l’avvocato Daniela Serughetti che da qualche giorno è oggetto di violenza verbale sui social a causa dell’esercizio della sua professione: “Non mi sarei mai aspettata - racconta al Dubbio - una reazione del genere. È doloroso essere oggetto di insulti e minacce solo per aver svolto il proprio lavoro”. L’odio social si è scatenato dopo la sua decisione di proporre impugnazione innanzi alla Corte d’Assise d’Appello di Brescia per il suo assistito Ezzedine Arjoun, condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio della moglie Marisa Sartori, uccisa a coltellate il 2 febbraio dell’anno scorso a Curno. Per l’avvocato non c’è stata premeditazione, né maltrattamenti e violenza sessuale, ma il merito dei motivi di appello poco importa in questa sede. “In realtà - prosegue Daniela Serughetti - ho presentato l’atto d’appello a dicembre ma la notizia è stata pubblicata pochi giorni prima della ricorrenza della morte della vittima, andando così a stimolare una reazione di pancia in molti cittadini”. Ed infatti, soprattutto su Facebook, a commento di alcuni articoli pubblicati su testate locali si leggono post di questo tenore: “Una donna come avvocato, vergognati - chiuderei i legali in gabbia con lui - non ha dignità, lo fa solo per soldi - fate alla figlia dell’avvocato quello che lui ha fatto a Marisa”. Fra le variabili del populismo giudiziario che confonde la funzione del difensore con la figura dell’imputato, c’è infatti anche quella che stigmatizza le avvocate che difendono uomini indagati o imputati di reati dove le vittime sono altre donne. “Quando decido di accettare un incarico non lo faccio da avvocato-donna, ma semplicemente da avvocato. In merito alle minacce: chiedere la morte per la figlia del legale è davvero sconcertante. Queste persone non conoscono quanto sia stato difficile affrontare questo processo e non mi riferisco solo al punto di vista tecnico. Non sanno delle notti insonni trascorse a comprendere come affrontare al meglio una difesa che avrebbe potuto, anzi, sicuramente avrebbe urtato la sensibilità dei familiari delle vittime. Se solo sapessero quanto è massimo lo sforzo che tutti noi avvocati infondiamo nel garantire a chiunque, anche a chi è etichettato come il peggiore dei “mostri”, il diritto alla difesa e ad un giusto processo, come la Costituzione prevede. Velleità di arricchimento e di notorietà in un procedimento penale - ove il mio assistito è, peraltro, ammesso al patrocinio a spese dello Stato - così sensibilizzato dall’opinione pubblica comprensibilmente avversa a questa tipologia di reati sono prive di logica”. Purtroppo il ruolo dell’avvocato sta subendo molti attacchi, da diverse parti, istituzionali e non. “Noi ricopriamo un importante ruolo sociale nella tutela delle garanzie - continua l’avvocato - ed è per questo che non mi lascio toccare da queste minacce e proseguo nel mio lavoro, spero in futuro senza ulteriori clamori. Le parti di questo processo, tutte, meritano rispetto”. Storie come questa ne raccontiamo molte e “alla base - dice ancora Daniela Serughetti - non c’è tanto un analfabetismo giuridico, non pretendo infatti che le persone conoscano i meccanismi del processo; credo invece che alla base si soffra di un grave analfabetismo culturale, si ignorano i basilari principi costituzionali che non tutelano solo i cosiddetti “mostri”, ma tutti quanti noi”. Solidarietà all’avvocato Serughetti è giunta da colleghi di tutt’Italia, dalle Associazioni Forensi sia locali che nazionali e in particolare dal Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Bergamo: “vicinanza e solidarietà alla Collega, che si è trovata a subire attacchi verbali di inaccettabile e inimmaginabile gravità da parte degli utenti delle reti social. Ciò solo perché ha esercitato ed esercita, con correttezza e piena consapevolezza deontologica il diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione in favore di un proprio assistito, annunciando l’impugnazione di una sentenza che condanna quest’ultimo alla sanzione più grave prevista dal nostro ordinamento” Ingiusta detenzione, l’indennità si apre a molteplici lesioni di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2020 Corte di cassazione - Sentenza 3 febbraio 2020 n. 4422. La Cassazione, sentenza n. 4422 di ieri, allarga le maglie dell’indennizzo per ingiusta detenzione. La somma liquidata non può infatti essere semplicemente il frutto del calcolo aritmetico dei giorni di privazione della libertà ma, se specificamente allegati, deve tener conto dei diversi pregiudizi subiti dalla vittima, sia di natura morale che patrimoniale. La III Sezione penale ha così accolto il ricorso di un uomo che aveva trascorso 16 mesi agli arresti, tra carcere e reclusione domiciliare, perché “gravemente indiziato” di far parte di una associazione criminale di Eboli dedita allo spaccio di hashish tra il 2005 ed il 2009. L’uomo venne poi assolto dal Tribunale di Salerno, con sentenza divenuta definitiva. La Corte di appello di Salerno accolse l’istanza di riparazione liquidandogli la somma di 28.946,90 euro per i 474 giorni di ingiusta detenzione (di cui 17 in carcere e i restanti 457 in regime di arresti domiciliari), applicando sulla cifra scaturente dal calcolo aritmetico (57.893,91 euro, corrispondenti a 235,82 euro per ogni giorno di custodia cautelare e 117,91 euro per ogni giorno di arresti domiciliari), la decurtazione della metà per la “colpa lieve del ricorrente, consistente nel silenzio serbato durante l’interrogatorio di garanzia”. Contro questa decisione la vittima propose ricorso lamentando che non aveva tenuto conto degli ulteriori danni subiti. La IV Sezione penale (sentenza n. 39159/2018) gli diede ragione sostenendo che la Corte territoriale si era limitata ad una mera moltiplicazione “senza fare cenno alle gravi lesioni allegate, concernenti la sfera personale, lavorativa e abitativa”. In sede di rinvio la Corte di appello di Salerno alzò la cifra portandola a 38.946,90 euro. Ma la vittima, e veniamo al ricorso di oggi, ha nuovamente adito con successo la Cassazione. Per i giudici, infatti, non si può sottacere, ad esempio, che a seguito dell’arresto e della successiva detenzione, il ricorrente “fu costretto a lasciare il posto di lavoro (di autista addetto alla logistica di una società operante ne settore “catering per eventi”), per essere riassunto solo il 20 giugno 2014, ovvero dopo un anno e otto mesi dalla fine della detenzione”. Dunque, prosegue la sentenza, “pur dovendosi ribadire la natura indennitaria e non risarcitoria del ristoro e pur potendosi ritenere legittima la conseguente valutazione equitativa, occorre tuttavia evidenziare che in presenza di una pluralità di lesioni della sfera patrimoniale e personale, riconducibili all’ingiusta restrizione, occorre valutare l’effettiva incidenza e gravità dei pregiudizi ulteriori che giustificano l’incremento dell’indennità calcolata in via aritmetica, imponendosi un’adeguata esposizione sia della natura dei danni patiti dal richiedente, sia del loro impatto sulle sue condizioni personali, ciò al fine di ancorare a parametri non astratti la liquidazione del relativo importo”. In definitiva, pur avendo il giudice del rinvio correttamente riconosciuto un aumento dell’importo, “è tuttavia mancato un compiuto riferimento alle singole voci di danno allegate dal ricorrente e ai criteri ritenuti idonei a giustificare riconoscimento della somma ulteriore”. Spetterà dunque di nuovo alla Corte di appello di Salerno, in sede di secondo rinvio, effettuare la liquidazione seguendo i criteri ermeneutici espressi dalla Cassazione. No al ricorso “generico” per cassazione che riproduce l’appello e non argomenta dissenso di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2020 Il ricorso per cassazione deve essere motivato con argomentazioni “critiche” contro l’atto impugnato, altrimenti è inammissibile. E, a maggior ragione, quando l’atto introduttivo del giudizio di legittimità è meramente ripetitivo dell’atto di appello. Caso in cui de plano tale apparato argomentativo risulta inesistente. La Cassazione con la sentenza n. 4410 depositata ieri e segnalata al massimario della Corte ha di fatto ribadito un orientamento univoco. Giurisprudenza che punta sulla necessità che il vizio della sentenza non sia solo affermato dal ricorrente, ma che vi sia l’esposizione di un ragionamento di segno diverso da quello praticato dal giudice di merito con puntuale contestazione del punto impugnato della sentenza di merito. Quindi, scatta senza dubbio l’ostacolo dell’inammissibilità “per genericità dei motivi”, nel caso - come quello risolto dalla sentenza massimata - dove il ricorso per cassazione era costituito dalla pedissequa riproduzione dei motivi di appello apportando giusto le modifiche necessarie per attualizzarlo in Cassazione. In conclusione, se per la trattazione dei motivi di ricorso nel giudizio di legittimità, è necessario esporre un confronto “puntuale” tra ragioni di diritto ed elementi di fatto contenuti nella decisione appellata e quelli che si vogliono far valere col proprio dissenso è ovvio che scatti sempre il filtro dell’inammissibilità per il ricorso redatto col metodo del copia-incolla. Mae. Per la consegna del cittadino europeo non vale il criterio della pericolosità sociale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2020 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 3 febbraio 2020 n. 4534. Dopo la legge di modifica del mandato d’arresto europeo, entrata in vigore il 2 novembre 2019, il giudice non è più obbligato a rifiutare la consegna del cittadino europeo, ma può valutare la possibilità del “rimpatrio”, in base alla consistenza del radicamento in Italia. Mentre non ha peso la pericolosità sociale. La Corte di cassazione, con la sentenza 4534, accoglie il ricorso di un cittadino rumeno, contro la decisione della Corte d’Appello di consegnarlo al suo paese, dopo una sentenza di condanna irrevocabile per una serie di truffe commesse in Romania. La Corte territoriale aveva applicato il nuovo articolo 18-bis, introdotto dalla legge di delegazione europea in vigore dal 2 novembre scorso. Una norma che sostituisce il vecchio articolo 18 della legge 69/05 sul mandato d’arresto europeo, in base al quale il no allo stato richiedente era obbligato quando la domanda riguardava un cittadino europeo dimorante in modo stabile in Italia. Ora il rifiuto alla consegna è solo facoltativo. La Corte d’Appello aveva dato il via libera alla consegna basandosi sulla pericolosità sociale dell’imputato, che aveva commesso numerosi reati contro il patrimonio. Mentre, ad avviso dei giudici territoriali, avrebbe deposto a favore dell’imputato il radicamento in Italia, dimostrato da una casa in comodato gratuito e da un lavoro. Per la Cassazione, che annulla e rinvia, la decisione è sbagliata su tutta la linea. La scelta di consegnare l’uomo allo stato richiedente non poteva essere giustificata dalla sua pericolosità sociale, criterio, non previsto dall’articolo 18-bis, che guarda, in linea con la Consulta, alla finalità rieducativa della pena, che può essere compromessa nel caso in cui la persona sia costretta a subire un detenzione carceraria in luoghi distanti dal proprio contesto sociale, affettivo e familiare. Considerazioni sulle quali incidono anche l’importanza che per il detenuto possono avere gli incontri con persone di famiglia e conoscenti e le maggiori opportunità di recupero e risocializzazione. Detto questo però per affermare lo stabile radicamento non bastano la casa, per di più in comodato e solo per due anni, né il lavoro. Quello che serve è dimostrare l’esistenza di legami familiari sul territorio, o comunque interessi o affetti più radicati in Italia che nello stato di emissione del Mae. La sentenza va rivista perché il risultato può anche essere lo stesso ma i presupposti sono errati. La Corte d’appello dovrà chiarire se il radicamento ha una consistenza tale da giustificare il no ala consegna in deroga agli obblighi di collaborazione cooperazione giudiziaria esistenti nell’ambito dell’Unione. Al gip la competenza sulle spese dei custodia dei beni dopo l’archiviazione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2020 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 3 febbraio 2020 n. 4535. La competenza a provvedere sull’istanza di liquidazione delle spese di custodia dei beni sequestrai, presentata dopo l’archiviazione del procedimento, spetta al giudice per le indagini preliminari in qualità di giudice dell’esecuzione. La Corte di cassazione a sezioni unite, con la sentenza 4535, dirime un contrasto giurisprudenziale sul punto. Una differenza di vedute evidenziata nell’ordinanza di remissione con la quale i giudici erano chiamati a decidere sul ricorso del pubblico ministero. Il Pm aveva fatto ricorso contro l’ordinanza con la quale il Gip si era dichiarato incompetente a provvedere, sulla richiesta avanzata da una società cooperativa per la liquidazione dei compensi relativi alla custodia di un veicolo sequestrato nell’ambito di un procedimento penale iscritto per il reato di furto e definito con un’archiviazione, alla quale era seguita la restituzione del mezzo al proprietario. La dichiarazione di incompetenza era basata sull’articolo 168 del Dpr 115/2002, secondo il quale “la liquidazione delle spettanze agli ausiliari del magistrato e delle indennità di custodia è effettuata, con decreto di pagamento motivato dal magistrato che procede”. Quindi per il Gip doveva provvedere il Pm, come magistrato procedente al momento di presentazione della richiesta, al quale erano stati restituiti gli atti dopo l’archiviazione. Le Sezioni unite ricordano che in alcune pronunce la competenza è stata attribuita al magistrato che dispone materialmente degli atti nel momento in cui è necessario provvedere, e dunque alla richiesta di liquidazione, se la richiesta è presentata quando il gip non dispone materialmente del fascicolo perché il procedimento è stato archiviato con restituzione degli atti al Pm. Con altri verdetti è stato affermato il principio opposto secondo il quale, anche quando l’archiviazione è stata già disposta, la competenza procedere è del Gip come autorità che procede. Per la Cassazione è condivisibile l’orientamento che attribuisce la competenza all’ufficio del Gip. Lombardia. “Cucinare al fresco”: nelle carceri un progetto che dà speranza lombardiaquotidiano.com, 4 febbraio 2020 L’iniziativa sarà presentata domani martedì 4 febbraio alle ore 13 a Palazzo Pirelli. Interverranno il Presidente del Consiglio regionale Alessandro Fermi, il Garante regionale dei detenuti Carlo Lio e il Provveditore penitenziario Pietro Buffa. Dal “Mandato di cottura” di Como, al “Diario dei sapori” di Bollate, per approdare a Varese con “Assapori(amo) la libertà”, fino alle “Mani in pasta” di Opera. Sono i quattro laboratori che condividono un unico e solo progetto: “Cucinare al fresco”, ovvero una raccolta di ricette realizzate rigorosamente dietro alle sbarre. Autori dell’iniziativa quattro gruppi di reclusi che si sono messi in gioco per realizzare una pubblicazione dedicata al food. Una sperimentazione avviata due anni fa all’interno del Carcere del Bassone di Como, entrata poi nelle carceri di Bollate, Varese e Opera e che ora sarà estesa a tutte le carceri italiane. L’iniziativa, sfociata anche in una testata giornalistica coordinata da Arianna Augustoni, sarà presentata domani martedì 4 febbraio a Milano a Palazzo Pirelli alle ore 13 in Sala Stampa, al primo piano sotterraneo adiacente l’Aula consiliare: interverranno, oltre alla stessa Arianna Augustoni, il Presidente del Consiglio regionale della Lombardia Alessandro Fermi, il Difensore regionale e Garante dei detenuti Carlo Lio, il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Pietro Buffa e il Direttore del Carcere del Bassone di Como Fabrizio Rinaldi. Dagli ingredienti del carrello, a quelli della spesa, passando da quanto entra in carcere dall’esterno, il ricettario e il magazine si configurano così anche come un percorso di vita e di speranza. Viterbo. Chiesto il processo per dieci agenti: “Picchiarono un detenuto” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 febbraio 2020 Richiesta di rinvio a giudizio per pestaggio e falsa testimonianza. Come già anticipato in esclusiva da Il Dubbio nella versione on line, la Procura di Viterbo, dopo aver effettuato attente indagini tramite la visione dei filmati registrati dalle telecamere, le intercettazioni telefoniche e le dichiarazioni delle persone informate sui fatti, ha chiesto il rinvio a giudizio per dieci agenti penitenziari che avrebbero massacrato di botte il trentenne Giuseppe De Felice, all’epoca dei fatti recluso al Mammagialla di Viterbo. L’accusa a loro carico è di avere, “in concorso tra loro e con premeditazione, abusando della qualità di ciascuno rivestita di agente del corpo di polizia penitenziaria in servizio presso la casa circondariale di Viterbo, approfittando di circostanze tali da ostacolare la privata difesa (quali lo stato di detenzione delle vittime e l’assenza di videocamere nei luoghi in cui si sono svolti i fatti), percosso De Felice, cagionando allo stesso lesioni personali e segnatamente, tra l’altro, “edema condotto uditivo dx e trauma costale, contusione toracica destra”“. Ma non solo. Tre di loro devono rispondere anche di calunnia e falso per le loro relazioni di servizio, in cui cercano di far ricadere ogni colpa su De Felice, descritto in pratica come ingestibile. “Onde evitare che la situazione degenerasse - aveva testimoniato uno degli agenti - ordinavo al personale di polizia penitenziaria che aveva preso parte alla perquisizione ordinaria, di non allontanarsi dal posto e di prelevare il detenuto De Felice dalla propria stanza di pernottamento per allontanarlo dalla sezione IV B, mantenendo così l’ordine e la sicurezza all’interno della stessa. De Felice, con fare spavaldo e arrogante usciva dalla propria stanza incurante del nutrito numero di agenti di polizia penitenziaria presenti sul posto e subito allungava il passo per recarsi sulla rotonda della sezione”. Per il pubblico ministero Stefano D’Arma la testimonianza è falsa. “L’ho visto con il volto tumefatto, pieno di lividi con il sangue all’occhio sinistro e ha detto che è stato pestato da una decina di agenti penitenziari”, denunciò al Dubbio Teresa, la moglie del detenuto Giuseppe De Felice, 31enne, ristretto all’epoca nel carcere di Viterbo. A dicembre del 2018 era andata a visitarlo ed è rimasta scioccata nel vederlo pieno di lividi. “Ho cominciato ad urlare - racconta la moglie - ma mio marito mi ha detto di smettere, perché ha paura di subire altre ritorsioni”. De Felice era ristretto nel carcere di Viterbo da circa un mese - prima era a Rebibbia -, quando si trovava nel quarto piano D1 e venne picchiato selvaggiamente dagli agenti. “Gli hanno perquisito la cella, messo a soqquadro tutto e hanno calpestato la foto che ritraeva noi due - raccontò Teresa - mio marito ha reagito urlandogli contro, prendendoli a parolacce”. A quel punto, secondo la versione di Giuseppe De Felice, un agente penitenziario lo avrebbe chiamato in disparte, portato sulla rampa delle scale e una decina di agenti penitenziari, senza farsi vedere in volto, lo avrebbero massacrato di botte. Il marito le ha raccontato che gli agenti avrebbero indossato dei guanti neri e una mazza bianca per picchiarlo. “Lo hanno portato in infermeria - prosegue Teresa -, ma senza visitarlo, dopodiché lo hanno messo in isolamento per un’ora”. Preoccupata, Teresa non sapeva chi contattare, fino a quando ha visto su internet un video di Pietro Ioia, ex detenuto che vent’anni fa ha deciso di cambiare vita e si è esposto pubblicamente denunciando anche la famigerata “cella zero” del carcere di Poggioreale. Lo ha chiamato e subito si è attivato, consigliandole di contattare Rita Bernardini del Partito Radicale. L’esponente radicale ha immediatamente inviato la segnalazione urgente agli organismi preposti, dal garante nazionale Mauro Palma a quello regionale Stefano Anastasìa. Ma, soprattutto al Dap e al direttore del carcere di Viterbo, pregandolo di verificare quanto denunciato dalla signora e di “far visitare urgentemente il detenuto in modo da mettere agli atti della sua cartella clinica il relativo referto”. In seguito alle percosse, Giuseppe aveva perso anche l’udito all’orecchio destro. Il caso arrivò in parlamento tramite l’interrogazione parlamentare di Riccardo Magi di + Europa e il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi del m5s rispose che il Dap si attivò e che comunque la magistratura di Viterbo aveva aperto delle indagini. Ora è arrivata la richiesta di rinvio a giudizio per gli agenti penitenziari che avrebbero commesso quelle violenze. Biella. Le condanne per violazione del Codice della strada espiate facendo giardinaggio newsbiella.it, 4 febbraio 2020 Il lavoro di pubblica utilità da estendere a parchi, giardini e cimiteri. Il Comune di Biella pronto a proporre una nuova convenzione al Tribunale. Il Comune di Biella proporrà al Tribunale di Biella una significativa integrazione alla convenzione sul coinvolgimento da parte dell’amministrazione dei lavoratori di pubblica utilità. Si tratta in particolare di quei soggetti condannati alla pena della reclusione per un delitto colposo commesso in violazione alle norme del Codice della Strada chiamati a svolgere un’attività non retribuita in favore della collettività. Attualmente le persone interessate potevano operare al Museo del Territorio, in biblioteca e alla Protezione Civile, con la nuova proposta di convenzione approvata oggi dalla giunta si aggiungeranno i settori “Parchi e giardini” e “Servizio Cimiteriale”. I lavoratori per il settore giardini potranno essere utilizzati per attività di conservazione del patrimonio verde (pulizia di parchi, giardini, aiuole, percorsi pedonali) o di supporto all’attività amministrativa. Mentre per i cimiteri i lavoratori si potranno adoperare per supporto alla manutenzione di aiuole, spazi e percorsi ad accesso pedonale. Lo svolgimento del lavoro è a titolo gratuito, sono in carico all’amministrazione le spese per la copertura assicurativa contro gli infortuni sul lavoro e per le responsabilità civili verso terzi. Spiega l’assessore ai Lavori pubblici Davide Zappalà: “Il Comune di Biella già collabora da tempo con il Tribunale per il coinvolgimento dei lavoratori di pubblica utilità attraverso il settore Cultura. Con la stipula di questa convenzione contiamo di impiegare queste figure anche nei parchi per coadiuvare i dipendenti della Seab che già si occupano delle pulizie”. Milano. Contro il cancro i turbanti di San Vittore ansa.it, 4 febbraio 2020 Per Giornata Mondiale, presentato video Go5-Cooperativa Alice. I nuovi turbanti sono stati confezionati con cotoni provenienti dall’India, ma ogni foulard creato per vestire le donne che lottano contro il cancro, ha colori e disegni per infondere fiducia e speranza. La collezione viene presentata il 4 febbraio, Giornata Mondiale contro il cancro, alle 18,30 nella sede del Consorzio Viale dei Mille, che aiuta le organizzazioni che operano con detenuti o ex detenuti a comunicare l’essenza del lavoro negli istituti di pena. I turbanti infatti vengono realizzati nella sartoria di San Vittore grazie all’iniziativa “La vita sotto il turbante - progetto Cristina”, in collaborazione tra l’Associazione Go5 - per mano con le donne dell’ Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e la Cooperativa Alice del carcere milanese. Nell’incontro viene presentato in anteprima il video ‘Io sono qui’ girato dal regista Fabio Ilacqua per Go5. Monza. La storia di Rosario: “La mia vita oltre il carcere, in pasticceria” di Luca Scarpetta ilcittadinomb.it, 4 febbraio 2020 Detenuto a Monza, lavora in cucina nella Pasticceria Mariani di Muggiò: “Ci avevano chiamati in carcere per un catering - spiega Roberta Mariani. Mi sono ritrovata ad allestirlo con Rosario: si è creata la giusta sintonia, credevo che fosse un cuoco che lavorava nella cucina del carcere”. A volte basta un incontro. Ed ecco che una quotidianità all’apparenza immutabile, può anche cedere al miracolo di un nuovo inizio. È incominciata alla Pasticceria Mariani di Muggiò la seconda vita di Rosario Gioia, 46 anni, catanese, detenuto del carcere di Monza, che da alcuni mesi lavora, tra paste e dolci, nella cucina della storica caffetteria di piazza Matteotti. Proprio a Muggiò Rosario è capitato quasi per caso, per uno di quegli incroci che il destino inizia a tessere durante l’infanzia e che poi sembrano perdersi, fino a quando la vita non decide sorprendentemente di riannodare quei fili lasciati in sospeso così a lungo, regalando una seconda, insperata, possibilità, anche a coloro che magari credono di non meritarla. Così, dopo più di vent’anni trascorsi in bilico, tra Roma e la Sicilia, fino a Milano, l’epilogo era stato amaro: un mandato di cattura, preludio al suo arresto, e quindi la sentenza: quindici anni. È il 2011 e da quel momento, alle spalle di Rosario, scatta la serratura metallica di una cella del carcere di Monza. Eppure quando Roberta Mariani lo incontra, Rosario non è già più lo stesso uomo: “In occasione di un evento, ci avevano chiamati in carcere per un catering, grazie alla muggiorese Antonetta Carrabs che presta servizio come volontaria - ha spiegato Roberta Mariani - Così mi sono ritrovata ad allestirlo insieme a Rosario: si è creata subito la giusta sintonia, tanto che credevo che fosse un cuoco che lavorava nella cucina del carcere”. Già, perché negli anni precedenti, Rosario aveva iniziato un percorso riabilitativo che gli aveva fatto percepire se stesso e la vita sotto un’altra prospettiva: “Ero entrato a far parte di “Oltreconfine”, la redazione del giornale del carcere - ha raccontato Rosario - Ho avuto la possibilità di lavorare come volontario nel nostro reparto psichiatrico, dove ho ricevuto tantissimo perché quei ragazzi mi hanno fatto rivivere la storia della mia vita fino a quel momento, e poi mi sono anche fatto coinvolgere in un evento per Matera, che mi ha dato l’opportunità di lavorare in cucina e poi di partecipare al catering in cui ho conosciuto Roberta e suo padre”. Che nei mesi successivi è andato spesso a trovare Rosario in carcere, fino a quando la direzione ha ritenuto che nel suo percorso, fosse arrivato il momento per un altro, significativo, passo: “Le circostanze - ha continuato Roberta - hanno voluto che proprio in quel periodo stessimo cercando un cuoco…”. Dopo l’iter burocratico, una mattina di fine ottobre, Rosario si è presentato in pasticceria, in bicicletta: “È strano uscire, dopo quattro anni. E qui avete le porte in legno”. Non più il rumore logorante di serratura metallica, solo il profumo dei dolci e il calore di quella che per Rosario “è una seconda famiglia, che mi ricorda ciò che avevo iniziato da ragazzo quando, a 14 anni, avevo lasciato la scuola per fare il pasticcere. Questo ha risvegliato una parte di me, che avevo dimenticato e mi ha fatto ritrovare l’amore per il lavoro”. Una seconda famiglia che gli ha permesso di riabbracciare la sua, la moglie e i figli, seppur per poche ore, con un pranzo natalizio durante l’orario di lavoro, prima di rientrare in carcere: “Pensavo di averli protetti tenendoli all’oscuro di tutto, invece ho tolto loro la presenza di un padre”. Ma la seconda vita di Rosario non sarebbe iniziata, senza tre donne: il direttore Maria Pittariello “attraverso il cui sguardo, vedo la mia strada”, il procuratore aggiunto Manuela Massenz e l’educatore Marika Colella: “La loro attenzione ha fatto sì che emergesse la parte migliore di me”. Proprio come un “figliol prodigo”, perché “nonostante i nostri errori - ha concluso Rosario - noi restiamo figli di questa società”. Aversa (Ce). Il “Carcere possibile” ha incontrato “Impossibile” di Valentina Stella Il Dubbio, 4 febbraio 2020 “La parola come riscatto”, l’evento dell’associazione con Erri De Luca. Lo scrittore ha ribadito: “un detenuto riesce ad evadere dalla sua cella solo quando dorme e quando legge”. L’Associazione napoletana “Il carcere possibile onlus”, nata nel 2003 come “progetto” della Camera Penale di Napoli, ha organizzato ad Aversa un incontro dal titolo: “La parola come riscatto”. Durante l’evento, tenutosi nello studio dell’avvocato Nicola Basile, ospite speciale è stato lo scrittore Erri De Luca che ha dedicato il suo intervento ai temi della associazione. Il tutto è nato da un incontro tra l’avvocato Mara Esposito Gonella, del direttivo dell’Associazione, e Raimondo Di Maio, uno degli ultimi editori e librai napoletani che resistono con ostinazione alla crisi e che è uno storico amico di De Luca. Come ci racconta l’avvocato Esposito Gonella, che ha moderato il dibattito, “Il “carcere possibile” ha incontrato “Impossibile”, il recente romanzo di Erri De Luca, che narra un dialogo tra un magistrato prigioniero delle sue tesi e un detenuto libero nei suoi ideali e nel suo amore”. Con lo scrittore, dicono al Dubbio gli avvocati Esposito Gonella e Basile, “è emersa una chiara convergenza sulla necessità di rivedere le dinamiche e l’organizzazione delle carceri. Si tratta di dare nuova attuazione al principio sancito dall’articolo 27 della Costituzione, che prevede la finalità rieducativa della pena. Una norma che resterà ferma nella sua astrattezza, se non si provvederà alla riorganizzazione degli istituti di pena. Si rende necessario ripensare gli spazi detentivi, sia in termini logistici che gestionali. Bisogna insistere per introdurre il lavoro nelle carceri e incrementarlo dove già c’è. Lo stesso dicasi per lo studio e la lettura, indicati da De Luca come gli unici strumenti che aprono le sbarre e spalancano il soffitto al detenuto disteso sulla branda”. De Luca, infatti, si è soffermato sul ruolo che incarnano le parole, esse sono “lo strumento più forte, addirittura formidabile, di cu disponiamo per affermare chi siamo. Impossibile è solo la definizione di un avvenimento fino al momento prima che accada”. La parola diviene dunque momento di liberazione e di riscatto: “Un detenuto riesce ad evadere dalla sua cella - ha proseguito De Luca, che da tempo tiene corsi di scrittura in carcere - solo quando dorme e quando legge. Una persona in prigione, quando si mette un libro davanti agli occhi, cancella le sbarre e le porte blindate, tutta la cella intorno. La lettura in carcere è uno strumento che riesce a sospendere - per un istante - la pena”. Da qui l’importanza e la necessità di dotare gli istituti di pena di biblioteche fornite. Erri De Luca infine ha ribadito, come già aveva detto in una intervista proprio a questo giornale, il concetto per cui “alla lunga le carceri saranno abbandonate. Diventeranno dei musei”, non una speranza la sua, ma una vera previsione. Lecce. “JumPeriferie”, il teatro contro l’esclusione Corriere del Mezzogiorno, 4 febbraio 2020 Attraverso il teatro, rigenerare luoghi e persone: questo è l’obiettivo del progetto “JumPeriferie”, presentato ieri nella Casa circondariale di Lecce. Mettendo le “Periferie” sociali e urbane al centro, il progetto promosso dalla Regione e dal Teatro Pubblico Pugliese in partnership con Ama - Accademia mediterranea dell’attore, compagnia teatrale Petra, Arci e altre realtà associative impegnate nel sociale, oltre alle amministrazioni comunali di Lecce, Lequile e Melpignano, punta attraverso incontri, un laboratorio teatrale stabile per i detenuti fino ai 35 anni di età e la messa in scena di due spettacoli, a connettere il “dentro” e il “fuori”: la città e il carcere, la provincia e il capoluogo, il centro e le periferie (nel quartiere 167/B di Lecce, oltre che nei Comuni partner, verranno realizzati eventi e laboratori). Nella Casa circondariale di Lecce verranno portati due spettacoli, Humana vergogna, coproduzione realizzata fra #reteteatro41 e Fondazione Matera-Basilicata 2019 (con debutto nel carcere di Matera) nell’ambito del programma culturale di Matera 2019 Capitale Europea della Cultura, e lo spettacolo Pupe di pane, prodotto da Ama - Accademia mediterranea dell’attore. Per l’occasione le porte della Casa circondariale verranno aperte al pubblico esterno di giovani e adulti. Nel quartiere 167/B di Lecce, dove Ama e Arci Lecce hanno già realizzato progetti formativi, partecipativi e di spettacolo, e nei Comuni partner, saranno organizzati eventi culturali e laboratori di arte urbana che coinvolgeranno residenti nel quartiere, studenti dell’Istituto comprensivo Stomeo-Zimbalo e ragazzi migranti beneficiari dei progetti Sprar della cooperativa sociale Arci. Milano. I detenuti di San Vittore: “Grazie Liliana” di Zita Dazzi La Repubblica, 4 febbraio 2020 “Liliana cara, le parole che ci ha detto nella sua recente visita ci hanno segnati profondamente: vorremmo parteciparle tutta la cascata di pensieri che lei ci sta suscitando, in questo carcere capace di essere il cuore di Milano per la sua umanità, capacità che ci sentiamo impegnati a tenere viva e a trasmettere, nello spirito della Costituzione nata fra queste mura, frutto di scelte di vita pagate spesso con la vita; cara Liliana il suo nome ci è caro come quello di Madre Costituente”. Una lettera bellissima quella scritta dai detenuti di San Vittore a Liliana Segre, letta ieri sera al Memoriale della Shoah, durante la cerimonia promossa dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Comunità ebraica, in memoria di quel 30 gennaio 1944, quando la senatrice a vita, allora 13enne, partì con altri 605 ebrei dal Binario 21 alla volta di Auschwitz. C’erano studenti, volontari del carcere, gli ex partigiani dell’Anpi e molte centinaia di cittadini pigiati fino in fondo al memoriale, di fianco a quei carri bestiame sui quali venivano caricati gli ebrei e gli oppositori al fascismo catturati a Milano. In tanti sono arrivati ieri sera alla cerimonia per sentire parlare ancora una volta la senatrice quasi 90enne, accompagnata dal figlio Luciano Belli Paci e dall’ormai inseparabile scorta dei carabinieri. “Quest’anno mi sono sentita più sola perché sono morti i miei fratelli Terracina e Schonheit, altre voci si sono spente e se ne spengono tante, una dopo l’altra ovviamente” - ha esordito Segre che, prima di entrare, aveva detto ai giornalisti che le fanno impressione quelle statistiche che parlano del negazionismo degli italiani sull’Olocausto - “direi che devono studiare la storia: non credere a me può anche essere facile, visto che sono una vecchia testimone, ma come si fa a non credere ai documenti? per me oggi è un dovere essere qui verso quelli che non sono tornati a ricordare”. Ieri sera, accanto alle autorità, tra cui Milena Santerini, coordinatrice nazionale della lotta all’antisemitismo, sono arrivati anche il musicista Vinicìo Capossela, il critico d’arte Philippe Daverio e il gallerista Jean Blancheart. Ma c’erano tanti ragazzi, soprattutto, quelli del movimento Genti di Pace dì Sant’Egidio, fra cui alcuni rom e alcuni migranti, che hanno ricordato come al memoriale negli anni passati siano stati ospitali circa 4.500 profughi arrivati dagli sbarchi dopo la traversata del Mediterraneo. “Ho 17 anni, sono rom - ha detto uno dei giovani testimoni molto applaudito da Segre - quest’estate sono stato ad Auschwitz, dopo esserci stato ho capito che niente può più essere come prima, ricordare oggi è un modo per dire no all’antisemitismo e al razzismo; lo so bene io: oggi essere rom non è facile, noi vogliamo costruire ponti per contrastare l’odio”. La senatrice si è commossa: “Voi, ha concluso, dovete avere fiducia, siete fortissimi, come lo eravamo noi che avevamo perso tutto, quando arrivarono i soldati russi ai cancelli di Auschwitz”. Cagliari. Le detenute del coro del carcere in un docu film del regista Paolo Carboni di Alessandro Congia sardegnalive.net, 4 febbraio 2020 Diventerà un prodotto cinematografico, che documenterà nascita, tappe e vita del “Coro ‘e Uta” (Coreuta) che sta muovendo i primi passi con Elena Ledda e Simonetta Soro nella sezione femminile della Casa Circondariale di Cagliari-Uta. L’iniziativa, promossa dall’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, con la collaborazione della Direzione dell’Istituto “Ettore Scalas” e dell’Area Educativa, ha ottenuto il placet del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Dietro la telecamera ci sarà il documentarista e regista Paolo Carboni, presidente dell’associazione Babel. Le riprese daranno quindi vita a una produzione senza scopo di lucro con una valenza socio-culturale che sarà presentata esclusivamente in circuiti di carattere culturale. “Non si tratta di un film di finzione - ha precisato Carboni - ma di un documentario senza alcuna esplicita sceneggiatura. Regia e riprese richiedono una totale disponibilità a seguire pedissequamente ciò che accade durante il tempo destinato alla creazione di un evento dal primo momento dell’impatto con le musiciste, ai vocalizzi, fino alla esibizione/concerto che presumibilmente completerà la prima fase della costruzione del coro. Il regista insomma avrà il compito di testimoniare la scoperta della coralità tra le donne detenute e tenterà di dimostrare come attraverso la costruzione di un insieme di voci armonizzate sia possibile migliorare le relazioni interpersonali in un ambito in cui la convivenza è particolarmente difficile”. “Siamo particolarmente contente dell’iniziativa - affermano Elena Ledda e Simonetta Soro - perché la pratica della vocalità armonizzata in un ambiente così delicato permette alle persone ristrette di sperimentare un modo alternativo di stare insieme. Documentare l’esperienza emotiva in cui l’espressione personale della voce si fonde con il rispetto di ciascuna può essere una testimonianza utile non solo per le protagoniste ma anche per chi intende promuovere un’analoga proposta”. “Per la prima volta - ha affermato il Direttore della Casa Circondariale Marco Porcu - una telecamera entra nel nostro Istituto per documentare un progetto-evento che valorizza la componente femminile della popolazione detentiva. Si tratta di una occasione di crescita per tutti perché fornirà anche all’Area Educativa e a quella della Sicurezza ulteriori elementi di conoscenza delle detenute e della convivenza improntata sulla collaborazione”. “La nascita del “Coro ‘e Uta” - ha detto Maria Grazia Caligaris, presidente Sdr - è una sfida per le difficoltà oggettive di creare un gruppo vocale le cui componenti cambiano in continuazione trattandosi di persone private della libertà con pene brevi, nella maggioranza dei casi. Il DAP ha colto questo aspetto del progetto e il valore educativo della musica e del canto. Un programma che si avvale della collaborazione fattiva delle Funzionarie giuridico/pedagogiche e delle Agenti penitenziarie il cui supporto è in ogni fase indispensabile”. Le bandierine piantate sulla Costituzione di Massimo Villone Il manifesto, 4 febbraio 2020 C’era una volta l’accordo di governo. Ora abbiamo la minaccia di governo. Tale almeno appare lo scambio sulla prescrizione tra Renzi dall’assemblea di IV, e il ministro Bonafede. Le voci di saggezza e di buon senso anche giuridico sono flebili. A Palazzo Chigi il barometro volge di nuovo al basso. Vengono al pettine anche altre questioni. È stato fissato per il 29 marzo il voto per il referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari. La cosa non ha fatto notizia ed è passata quasi inosservata, perché si anticipa una facile vittoria dei sì. Ma oggettivamente, con il probabile esito positivo del voto popolare, si riapre la via per uno scioglimento anticipato delle camere. Due voci autorevoli evidenziano da destra valutazioni divergenti. Il 29 gennaio su La Verità Tremonti auspica fortemente lo scioglimento delle camere subito dopo il referendum, e comunque prima dell’elezione del capo dello stato nel 2022. Brunetta su Repubblica avanza l’opposta tesi di un cambio di governo a legislatura invariata, aprendo a Renzi e Italia Viva, a partire proprio dalla prescrizione. Due diversi copioni: il primo, voto al più presto per l’egemonia di una destra a trazione leghista; il secondo, no al voto immediato, per difendere uno spazio al centro, e allentare l’abbraccio soffocante dell’amico-nemico leghista. Preliminarmente, va detto che il taglio dei parlamentari - come realizzato - è una riforma inaccettabile, nel merito e nel metodo. Riduce drasticamente la rappresentatività delle camere con la sola giustificazione di un risibile risparmio, e al di fuori di qualsiasi riflessione organica e di sistema. Paragoni con precedenti proposte, anche da sinistra, sono improponibili. Quelle proposte venivano quando vere organizzazioni di partito erano un collettore effettivo della domanda sociale, poi tradotta dai rappresentanti degli stessi partiti nelle istituzioni, espressione del paese grazie a un sistema elettorale pienamente proporzionale. Il numero dei rappresentanti era elemento assai meno critico che nella realtà di oggi, in cui le solide organizzazioni di un tempo sono ridotte - salvo la Lega - a ectoplasmi, e la rappresentatività delle assemblee è condannata come lesiva del sommo bene della governabilità. Oggi, ridurre la rappresentatività delle assemblee elettive reca danni non recuperabili. Ancor più considerando che i rattoppi ipotizzati dalla stessa maggioranza - dal superamento della base regionale per il senato a una legge elettorale proporzionale - sono lontani dal realizzarsi, e forse sono in dubbio più di ieri. In M5S sembra prevalere la linea dimaiana dell’isolamento, confermata dal reggente Crimi e da ultimo praticata con l’anatema nel caso dell’assessore M5S nella giunta di Pesaro. Questo proietta M5S nella posizione di competitor nelle competizioni elettorali, come è già accaduto in Emilia-Romagna e Calabria, accadrà il 23 febbraio nelle suppletive per un seggio senatoriale a Napoli, potrebbe accadere nelle regionali di maggio. Questo accentua la propensione di ciascuna forza politica alla tutela esclusiva del proprio interesse, e certo può incidere negativamente sulle riforme da fare. È inaccettabile che manomissioni della Costituzione anche di grande rilievo - come è il taglio dei parlamentari - siano strumentalizzate come bandierine identitarie, o moneta di scambio per la costruzione di accordi di governo, per di più precari. Si apre così la strada a una perenne instabilità delle regole fondamentali, in ultima analisi legate alle fortune di questa o quella forza politica. La salus rei publicae richiede di costruire gli argini possibili: aggravare l’art. 138 Cost. con innalzamento del quorum e referendum necessario; adottare un sistema elettorale rigorosamente proporzionale con soglia non troppo alta; scrivere una legge sui partiti politici fondata sui diritti degli iscritti e sulla loro giustiziabilità. Tagliare per il solo risparmio di spesa, al di fuori di un quadro organico di interventi sul testo costituzionale e sul sistema elettorale, è stato un errore. Impone nel voto del 29 marzo il chiaro segnale di un NO, quali che siano previsioni e sondaggi. Su iniziativa della Fondazione Einaudi se ne discute martedì 4 febbraio a Roma, nella sala Isma del Senato in piazza Capranica 72, in una assemblea generale dei nascenti comitati per il no. Da dove arrivano le teorie sul razzismo di Dacia Maraini Corriere della Sera, 4 febbraio 2020 Solo col colonialismo sistematico il concetto di razza diventa biologico. La superiorità non si basa più su ricchezza, potenza e cultura, ma sulla purezza del sangue. Pensavo che il razzismo, con tutti gli orrori che ha provocato, fosse stato cancellato, o per lo meno rimosso dalla coscienza pubblica. E invece, come una malattia da cui crediamo di essere guariti e vaccinati, ecco che con ripugnanza la vediamo ritornare. Nei pressi di casa mia hanno divelto alcune pietre di inciampo. Quando ho visto i buchi sull’asfalto sono rimasta basita. Mi piaceva, quando ci passavo, fare qualche passo di lato per non calpestarle e spesso mi fermavo per leggere i nomi e immaginare l’orrore dell’arrivo di due SS coi loro urlacci e i loro fucili. Entravano sbattendo gli stivali sul suolo, percuotevano la porta dei ricercati col calcio del fucile. E come trascinavano fuori un uomo, un bambino, una donna, quasi fossero dei criminali. E invece erano solo degli ebrei, nati in Italia, con passaporto italiano, parlanti lingua italiana, persone che mai e poi mai avrebbero creduto che potessero, da un giorno all’altro diventare i peggiori nemici del proprio paese. Vorrei ricordare che il concetto di razza come differenza basata sulla biologia nasce solo nell’800, col colonialismo. L’ostilità contro gli stranieri e i diversi c’è sempre stata, ma era chiamata xenofobia, dal greco xenos, ovvero straniero. Un popolo si dichiarava superiore a un altro per potenza militare, per religione, per cultura, non per sangue. Solo col colonialismo sistematico il concetto di razza diventa biologico. La superiorità non si basa più su ricchezza, potenza e cultura, ma sulla purezza del sangue. Ed è una idea perversa perché mentre potenza e ricchezza si possono acquisire e quindi cambiare il proprio stato, la biologia non si può modificare. È un destino a cui si deve sottostare. Il primo a teorizzare le superiorità della razza caucasica bianca è stato Gobineau in “Essais sur l’inégalité des races humaines”, del 1853. Il titolo già dice tutto. Otto Weininger con “Sesso e carattere” teorizza l’inferiorità della “razza femminile” considerata passiva, improduttiva, inconsapevole, illogica e amorale, mentre la razza maschile sarebbe consapevole, cosciente, logica e morale. Di conseguenza tutti i paesi deboli sono da considerarsi femminili, e quindi da dominare. Altri teorici del razzismo biologico sono pensatori illustri come Rosenberg, Chamberlain, Spengler Evola. Stiamo tornando a quelle perversioni? Oggi, in tempi di mercato e memoria corta, il perverso razzismo biologico torna a farsi vivo e ci mettiamo le mani nei capelli. In Europa non c’è nessuna invasione di migranti di Giansandro Merli Il Manifesto, 4 febbraio 2020 Il rapporto della Fondazione Moressa smonta i principali stereotipi sui flussi migratori. Gli stranieri in Europa sono 40 milioni, il 7,8% del totale della popolazione. Con una simile percentuale viene da pensare che l’unica “invasione” in corso sia quella di allarmi e fake news, soprattutto considerando che il dato include anche i cittadini comunitari residenti in altri paesi Ue. Come dire, i migranti siamo noi. I numeri vengono dal rapporto Gli stranieri ci invadono? Analisi e considerazioni su dinamiche demografiche in corso in Italia e in Europa, pubblicato ieri dalla Fondazione Leone Moressa. L’istituto di studi e ricerche di Mestre è specializzato nei fenomeni e nelle problematiche relative alla presenza straniera sul territorio e promuove la ricerca scientifica attraverso la raccolta e l’elaborazione di dati e informazioni sul fenomeno migratorio. La sua ultima pubblicazione ha lo scopo esplicito di smontare pregiudizi e stereotipi che riguardano una delle questioni più calde degli ultimi anni, intorno alla quale alcune forze politiche continuano ad agitare allarmi strumentali a capitalizzare il livello di insicurezza delle società contemporanee. Sono nate così teorie complottiste sulla “sostituzione etnica”, come il cosiddetto “piano Kalergi”, e hanno assunto un ruolo importane nella percezione del fenomeno emotività ed esposizione mediatica. Per questo per la Fondazione Moressa “è quanto mai opportuno riportare l’attenzione sui dati”. “Lo stereotipo ha quasi sempre una base di verità, dato che generalmente nasce dall’osservazione empirica di un elemento realmente esistente - sostiene il rapporto - La distorsione sta però nella generalizzazione di quel dato”. Sono diversi gli stereotipi che lo studio dimostra essere errati. Il primo è che i migranti siano diretti soltanto (o prevalentemente) verso l’Europa. Al contrario, le migrazioni sono un fenomeno strutturale a livello globale, che coinvolge tutti e cinque i continenti ed è in aumento grazie alle crescenti interconnessioni tra aree del pianeta. Secondo le Nazioni Unite le persone attualmente residenti fuori dal paese di nascita sono 272 milioni, il 3,5% della popolazione mondiale. I cinque Stati che ospitano più migranti sono: Usa (51 milioni), Arabia Saudita e Germania (13 milioni), Russia (12 milioni), Regno Unito (10 milioni). I paesi da cui si sono trasferite all’estero il maggior numero di persone, invece, sono: India (17,5 milioni), Messico (11,8 milioni), Cina (10,7 milioni), Russia (10,5 milioni), Siria (8,5 milioni). A parte il caso eccezionale e significativo della Siria distrutta dalla guerra, gli altri sono banalmente paesi molto popolosi. Nessuno appartiene al continente africano. Il secondo stereotipo è che le rotte migratorie seguano necessariamente la direttrice da sud a nord. Spesso questa argomentazione viene associata alle tendenze demografiche globali, per sostenere che la crescita della popolazione africana e la diminuzione di quella europea produrranno necessariamente un esodo da quell’area a questa. Una sorta di versione sociale del principio fisico dei vasi comunicanti. Invece, mostra il rapporto, i flussi migratori sono fenomeni molto più complessi, determinati da una molteplicità di fattori e non seguono un’unica direttrice. Questo vale soprattutto nel caso delle migrazioni “forzate”. Secondo il rapporto Unhcr 2018, menzionato dalla Fondazione Moressa, su 70,8 milioni di migranti forzati 41,3 rimangono nel proprio paese. Il 58% delle persone costrette a lasciare la loro casa, quindi, sono sfollati interni. Gli altri, rifugiati (37%) e richiedenti asilo (5%), finiscono spesso in Stati vicini, nella stessa area geografica. Infatti i paesi che ospitano più profughi sono: Turchia (3,7 milioni), Pakistan (1,4 milioni), Uganda (1,2 milioni), Sudan e Germania (entrambi con 1,1 milioni). Solo quest’ultima fa eccezione a quanto detto in precedenza. Anche rispetto all’Italia, l’invasione è soprattutto nella testa, a livello percettivo. Secondo gli intervistati nell’indagine Eurobarometro 2018 la presenza straniera nel nostro paese era del 24,6%, il triplo del dato effettivo (8,5%). In numeri assoluti si tratta di 5 milioni e 225 mila di persone. Secondo lo stereotipo sono principalmente africani, maschi e musulmani. Ma tra i primi 20 paesi di provenienza solo Nigeria e Senegal si trovano in Africa (sette sono europei). Su genere e religione, poi, i numeri parlano chiaro: i migranti in Italia sono soprattutto cristiani (52,2%) e donne (51%) Antiterrorismo di massa: siamo più sorvegliati di Bin Laden di Daniele Raineri Il Foglio, 4 febbraio 2020 Negli ultimi cinque anni è successo un cambiamento che riguarda campi che un tempo erano separati: lo spionaggio, l’antiterrorismo e noi. Alcuni strumenti di guerra non convenzionale prima erano usati in modo micidiale per scovare, fermare e colpire i cattivi. Per esempio i terroristi che progettano un attentato oppure che vogliono passare attraverso una città senza farsi individuare oppure ancora i laboratori dove si lavora a un programma atomico clandestino. Oggi gli stessi strumenti sono diventati di uso comune. Dove prima erano applicati in modo selettivo, ora sono utilizzati sulla massa. Se prima ci voleva una ragione molto seria per usarli, adesso che sono finiti nelle mani di molte più persone non c’è più bisogno di una ragione seria - basta che ci sia la voglia. Di solito gli articoli che trattano queste cose parlano di “lento scivolamento” verso qualcosa, ma come vedremo in questi casi non c’è nulla di lento. Mentre scrivo alla televisione passa lo spot di un nuovo telefono Apple che avverte: “In questo momento, ci sono più informazioni private sul telefono che a casa… La tua posizione, i tuoi messaggi, la tua frequenza cardiaca dopo una corsa… Pensaci”. Si tende spesso a mettere in guardia da qualche imprecisato rischio che si correrà in futuro, ma di nuovo: il futuro non c’entra molto qui, queste cose sono già successe - oppure stanno succedendo in questo momento. Prendiamo Clearview, una piccolissima azienda che ha scritto un software di riconoscimento facciale molto migliore di altri in circolazione. In teoria abbiamo già visto tutti almeno un film in cui una squadra antiterrorismo cerca un sospetto e lo becca all’aeroporto perché un computer confronta la sua foto con le immagini delle telecamere di sicurezza e lo riconosce con un beep di trionfo. Bene, evviva, chi potrebbe mai dire di no a questa cosa? In pratica il riconoscimento facciale può creare un sacco di guai. Molta gente è scocciata dal fatto che la polizia municipale potrebbe associare il suo nome e cognome a ogni passo che ha fatto minuto per minuto sotto le migliaia di telecamere di sicurezza che ci sono nelle strade. Per questo motivo molte città americane hanno discusso la questione e hanno promesso che diventeranno “zone free dal riconoscimento facciale” e che non lo useranno (quindi non collegheranno questi software al sistema di telecamere di sicurezza che c’è in ogni città). Intanto però arriva Clearview, che ha fatto due cose per polverizzare i suoi concorrenti. Ha scritto un algoritmo che è molto bravo a riconoscere le facce e ci riesce anche se indossi un cappello o se parte del tuo volto è coperta oppure se l’immagine è presa da una telecamera di sorveglianza messa troppo in alto - che è la maledizione dei programmi di riconoscimento facciale, aspettiamoci che le abbassino tutte molto presto. Seconda cosa, ha raccolto tutte le immagini che abbiamo messo sui social media come Facebook, Instagram e Twitter - anche se i social media hanno vietato esplicitamente questo tipo di pratica, raccogliere immagini altrui senza chiedere il permesso. Poi i tecnici di Clearview con le immagini che hanno preso dai social media e anche da migliaia di altri siti (YouTube incluso) hanno creato un archivio immenso che rimane sempre a disposizione del loro super algoritmo. Quando sottoponi un’immagine all’algoritmo, quello va a ripescare la stessa faccia nel database e ti dice chi è la persona nella foto. La giornalista del New York Times che dopo mesi di tentativi è riuscita a intervistare quelli di Clearview ha scoperto foto di se stessa che nemmeno sapeva esistessero, perché l’algoritmo le aveva trovate in giro e le aveva associate al suo nome. (Siete stati a un concerto? Siete passati dietro a un turista coreano che si faceva un selfie? Siete stati in un locale mentre qualcuno scattava un foto o faceva un video? L’algoritmo macina in silenzio miliardi di immagini, cataloga i volti e mette tutto nella sua pancia, in attesa che gli serva come materiale di paragone per riconoscimenti facciali futuri. Pare che l’archivio di Clearview sia il più grande fra quelli di cui conosciamo l’esistenza). Dopo avere fatto tutto questo, Clearview ha cominciato a vendere i suoi servizi alle agenzie di sicurezza americane, dall’Fbi alle polizie locali di molte città. Sono già seicento e di sicuro altre agenzie stanno acquistando il pacchetto in questo momento. Per ora i poliziotti lo usano per risolvere casi difficili, ma non si vede perché non dovrebbero usarlo in situazioni più ordinarie. Una manifestazione. Una telecamera piazzata all’angolo di una via. Già questo è un passaggio che mette ansia, non si parla più di caccia al terrorista, si parla della nostra vita di tutti i giorni. Il numero di persone che hanno accesso all’algoritmo e all’archivio cresce come è ovvio che succeda ai clienti di un buon prodotto. Ma non è ancora nulla, e qui si arriva al punto. Clearview ha creato una versione del suo programma che funziona in realtà aumentata, con un paio di occhiali - quindi va bene anche su un telefonino. In pratica punti gli occhiali oppure la telecamera del tuo telefonino sui passanti e l’algoritmo ti dice in tempo reale le identità delle persone che stai inquadrando. Puoi salire sul treno e sapere chi sono tutti i passeggeri nel tuo vagone. Ora, Clearview ha deciso di fermare questo tipo di evoluzione e gli occhiali che identificano tutte le persone nel tuo campo visivo per ora resteranno soltanto un prototipo. Ma quanta tecnologia è stata inventata per poi rimanere in un cassetto? Nessuna. E quanto tempo ci metteranno queste cose per finire in mano ai privati? Se non lo faranno quelli di Clearview, ci penseranno altri. Se un produttore cinese di telefonini vendesse questa tecnologia come optional di un nuovo modello, è plausibile dire che riscuoterebbe un certo successo di mercato. Dal telefono di oggi che si sblocca perché riconosce la tua faccia al telefono che ti dice come si chiama la persona al tavolo accanto. Se ancora non sapete come questa cosa potrebbe diventare pericolosa, c’è di sicuro qualcuno che lo sa già adesso e non vede l’ora di avere l’accesso a questo nuovo potere. Se mi iscrivo a un corso di arrampicata (utile in questi tempi di epidemia, per scappare in eremitaggio più velocemente), ascolterò senza problemi tutti i consigli dell’istruttore. Se mi dice che devo spostare il peso, girare la testa, mangiare di meno o rafforzare i muscoli delle falangi, accetterò ogni suggerimento senza storie. Lui ne sa di più e io devo imparare a scalare. Se invece scrivo un libro, appena qualche revisore o editor mi dirà che le frasi sono involute, che uso troppi aggettivi o che dovrei allenare la mia capacità di sintesi, mi sentirò mortificato, quando non furibondo. Chi si crede di essere lui? Cos’ho io che non va? Io non voglio imparare a scrivere, voglio che il mondo conosca le mie storie! Questa suscettibilità degli aspiranti scrittori, combinata al fatto recente che con le nuove tecnologie è possibile autopubblicarsi un libro a prezzi stracciati, dovrebbe convincere chiunque a chiudere la sua casa editrice e ad aprire una palestra. Il lavoro delle case editrici è sempre stato più o meno questo: intercettare, aggiustare, stampare e distribuire libri buoni e vendibili. I lettori, fino a poco tempo fa, potevano leggere i libri solo se qualcuno li pubblicava e la credibilità di un libro si sovrapponeva in buona parte a quella della casa editrice. Il servizio Kindle direct publishing che propone Amazon, invece, permette di fare tutto quello che fa una casa editrice ma annullando i tempi di attesa, la mediazione e le fastidiose revisioni: scrivo il mio libro, aggiungo una copertina, lo metto in vendita su Amazon e cerco di venderlo. Se funziona, lo saprò direttamente dai miei lettori. Detta così sembra la soluzione perfetta: Amazon non ti giudica! Amazon realizza i tuoi sogni! Ma, soprattutto, Amazon non rischia niente. Delle due l’una, o lo strazio della revisione o l’illusione del direct publishing. Sembra che non ci sia una terza via. E invece forse c’è. Si chiama Bookabook ed è una casa editrice che usa il crowdfunding per combinare il meglio dell’editoria analogica con l’immediatezza del mondo digitale. Funziona così: gli aspiranti scrittori sottopongono le loro opere di prosa (per ora niente poesia), gli editor di Bookabook si impegnano a leggerle tutte, fanno una prima selezione e, per ogni opera considerata all’altezza, aprono una campagna di crowdfunding. A questo punto, la decisione passa nelle mani dei lettori, che potranno leggere un’anteprima dell’opera, interagire con l’autore e infine valutare se preordinarne una copia. Soltanto le opere che raggiungono l’obiettivo prefissato di copie vendute durante la campagna di crowdfunding vengono pubblicate in versione cartacea e distribuite nelle librerie. L’intuizione di Bookabook sembra quella di sfruttare la tecnologia per quello che sa fare meglio (connettere migliaia di persone) così da potersi concentrare su tutto il resto: selezione e rischio d’impresa. Se Amazon la fa tanto facile ma poi non rischia niente, Bookabook propone all’autore un patto più solido. La campagna di crowdfunding, infatti, non copre tutte le spese di produzione e distribuzione del libro, ma si ferma, a seconda del genere e dell’edizione, tra il 30 e il 60 per cento del costo totale. Perciò, la vera prova del successo del libro rimane il lancio sul mercato. Bookabook chiede, sì, ai suoi autori di superare la prova del crowdfunding, ma poi li sostiene caricandosi il rischio che il libro vada invenduto. Bookabook ti giudica! Ma lo fa per il tuo bene! Da notare che l’ultimo libro lanciato, “L’influenza del blu”, è il romanzo d’esordio di Gulio Ravizza, oggi responsabile marketing di Facebook, in passato di Amazon, nonché colui che ha lanciato Kindle in Italia. Ha scelto Bookabook con evidente cognizione di causa e ha accettato il rischio di non passare la doppia selezione degli editor e del crowdfunding. È andata bene e ora è sul mercato. Da quando è nata, nel 2014, Bookabook ha raccolto 85.500 lettori, pubblicando 250 libri e vendendo più di 50mila copie nel solo 2019. E Tomaso Greco, cofondatore assieme a Emanuela Furiosi, ci tiene a sottolineare che alcuni degli autori di Bookabook sono poi approdati a case editrici di riconosciuto prestigio. Il che non suona tanto come reverenza, ma più come sano spirito di competizione. Questo è uno dei modi in cui la tecnologia di sicurezza che in teoria era ottima contro i terroristi si espande tipo blob e tocca anche chi si illudeva di restarne fuori. C’è anche un altro percorso e passa dal Messico e dalle ricche nazioni arabe del Golfo, che hanno grosse responsabilità. Prendiamo il Gruppo Nso, che è una società israeliana specializzata nella sorveglianza dei telefonini. “La nostra tecnologia ha contribuito a fermare crimini orrendi e attacchi terroristici in tutto il mondo - dice una sua dichiarazione ufficiale che dovrebbe rassicurare gli scettici - non tolleriamo un uso sbagliato dei nostri prodotti e rivediamo i nostri contratti a intervalli regolari per assicurarci che non siano usati per altro che non sia la prevenzione e le indagini che riguardano il terrorismo e i criminali”. Il Gruppo è nato dall’idea di due amici di scuola israeliani, Shalev Hulio e Omri Lavrie, che nel 2008 decisero di creare un’applicazione civile della tecnologia sviluppata dall’Unità 8200 (è il reparto dell’intelligence israeliana che si occupa di intercettazioni e comunicazioni, l’equivalente della National Security Agency americana). A loro il New York Times ha dedicato un articolo nel 2019 che è stato scritto da una squadra dei migliori giornalisti specializzati in questioni di intelligence e fa rizzare i capelli. In pratica i due hanno un’idea molto legittima e tranquilla: perché non dare ai proprietari di telefonini un modo per mettersi in contatto con il servizio assistenza in caso di problemi e lasciare che siano i tecnici a risolvere a distanza il problema? I tecnici si collegano al telefonino come se l’avessero in mano, prendono il comando della situazione e fanno quello che devono fare. Il fatto è che negli stessi anni le agenzie di intelligence stanno fronteggiando il problema delle comunicazioni criptate fra telefonini. È quel messaggio che vedete all’inizio di una conversazione su WhatsApp (tanto per fare un esempio, ma vale lo stesso con Telegram e gli altri) che dice che lo scambio dei messaggi avviene attraverso pacchetti di dati criptati che sono illeggibili per chi li volesse intercettare. Di colpo, tutti hanno a disposizione comunicazioni blindate contro i tentativi esterni di violarle. È una meraviglia per chiunque voglia scambiarsi messaggi senza farsi più intercettare dalle forze di sicurezza. A quel punto la soluzione dei servizi di intelligence è semplice: che ci importa di intercettare i dati che un telefonino si scambia con un altro (tanto non possiamo leggerli) se invece possiamo prendere il controllo di un telefonino senza che il suo proprietario lo sappia? In fin dei conti, tra aggiustarlo a distanza e spiarlo a distanza non c’è molta differenza, bisogna soltanto cambiare il modo per attivare il software. Il Gruppo Nso ha scritto così un programma che si chiama Pegasus, che oggi ha probabilmente molte imitazioni e ancora più efficienti. “Quando queste società ti invadono il telefonino, ne diventano i padroni. Tu lo porti soltanto in giro”, dice Avi Rosen, un consulente israeliano specializzato nella sicurezza elettronica. Pegasus dovrebbe essere un nome molto più celebre considerato quello che riesce a fare, ma resta confinato agli addetti ai lavori. Il primo cliente è il Messico, che paga 77 milioni di dollari per usarlo contro i cartelli della droga. Il risultato, ma non è una storia ufficiale, è l’arresto e l’estradizione negli Stati Uniti di Joaquín Guzmán Loera “El Chapo” - che come tutti sanno era il narcotrafficante più potente del mondo. Il problema è che il governo messicano usa Pegasus anche contro altri bersagli che non sono i narcos, come decine di giornalisti e di critici e anche contro gli investigatori internazionali che stanno indagando sulla sparizione di 43 studenti - secondo Citizen Lab, un laboratorio di ricerca che studia queste cose affiliato all’Università di Toronto. Alcuni bersagli messicani non sono terroristi o criminali, ma sono finiti pure loro sotto controllo. Del resto se hai il potere di sapere cosa succede sui telefonini della gente che ti infastidisce di più, che cosa ti trattiene - a parte la legge e l’etica? Inoltre il Messico non è un paese a tenuta stagna, non c’erano garanzie che Pegasus non avrebbe cominciato a circolare fuori dalle stanze segrete dove si fa la guerra ai narcos. Il Gruppo Nso dice di avere un comitato etico che decide con chi fare affari e con chi no e che si basa sull’indice globale di trasparenza e di rispetto dei diritti umani dei paesi stilato, fra gli altri, dalla Banca mondiale. Non abbiamo venduto Pegasus alla Turchia, spiegano, perché mette in carcere giornalisti e dissidenti. E però, nota il team di giornalisti del New York Times, Messico e Arabia Saudita sono più in basso rispetto alla Turchia su quell’indice compilato dalla Banca mondiale ed entrambi sono clienti del gruppo. Citizen Lab dice che molti amici e conoscenti di Jamal Khashoggi, l’editorialista saudita attirato con l’inganno dentro il consolato saudita di Istanbul e fatto a pezzi con una sega nell’ottobre 2018, erano tenuti sotto sorveglianza con i software di hacking del Gruppo Nso e sospettano che anche Khashoggi lo fosse - ma è indimostrabile perché il suo telefonino è sparito. Si sa che Saud al Qahtani, l’uomo che per conto del principe erede al trono saudita Mohammed bin Salman sorvegliava Khashoggi, si era rivolto agli israeliani di Nso per acquistare i loro servizi - un segnale di disgelo fra arabi e israeliani molto interessante se non fosse stato fatto con così tanta discrezione. Nel 2013 gli israeliani di Nso hanno fatto un contratto con gli Emirati Arabi Uniti e nel giro di un anno il software è stato usato negli Emirati per spiare il telefono di Ahmed Mansoor, un attivista per i diritti umani. Quando la cosa è stata scoperta, la Apple ha dovuto scrivere un aggiornamento d’urgenza del sistema operativo per tappare la falla da cui gli hacker erano entrati nel telefono del dissidente - che oggi è in carcere con una condanna a dieci anni. “Da tre anni molti esperti di politica si vantano con me di avere il numero personale di Mohammed bin Salman e di scambiarsi messaggini con lui via WhatsApp fin dal 2017. Mi hanno fatto pure vedere i video di deserti e montagne saudite che lui gli mandava in chat. Conclusione: tutti sono stupidi”. Bin Salman è il principe saudita che secondo le accuse uscite la scorsa settimana è riuscito a entrare nel telefonino di Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, con un software spia tipo Pegasus che era nascosto dentro un video innocente. Glielo aveva mandato via WhatsApp. Bin Salman, o meglio la squadra di hacker dietro di lui, ha poi succhiato via il contenuto del telefonino di Bezos comprese le foto dell’amante e le chat con lei. A scrivere la cosa di prima - degli esperti che si vantavano di chattare con Bin Salman e di ricevere bei video - è un’analista del medio oriente che ha pensato quello che hanno pensato un po’ tutti. Quante volte e con chi Bin Salman ha fatto lo stesso trucchetto? Si dice persino che Bin Salman avesse un gruppo WhatsApp con Jared Kushner, il genero di Trump incaricato di seguire le faccende mediorientali, con un politico israeliano e con l’emiro Bin Zayed degli Emirati Arabi Uniti e che si chiamasse “il quartetto”. Avrà tentato di fare la stessa cosa anche con loro? Forse si sarà trattenuto, perché gli israeliani in pratica hanno inventato questo tipo di operazioni. Il Gruppo si è insospettito, ha assoldato alcuni detective che hanno seguito i tecnici transfughi e hanno scoperto che si erano spostati a Cipro, a lavorare per una società rivale, l’emiratina Dark Matters (ironia della sorte, sono stati beccati con un lavoro di sorveglianza vecchio stile). La Dark Matters è privata, ma è anche un braccio dei servizi degli Emirati Arabi Uniti (la sede centrale è nello stessa torre dell’agenzia di sicurezza emiratina sull’autostrada tra Dubai e Abu Dhabi). Le due società in questi anni si sono fatte una competizione spietata per assoldare gli esperti migliori e a volte se li sono rubati a vicenda con stipendi enormi. L’idea che il business che muove questa gara sia fondato soltanto sulla prevenzione del crimine o del terrorismo è ingenua. L’idea che tutto questo lavoro per azzerare la privacy di persone normali resti contenuto in certe stanze governative e non sia un problema comune già in questo momento è ancora più ingenua.