Prescrizione, scontro Renzi-Bonafede: “Fermati”. La replica: “No ai ricatti” di Lorenzo Salvia Corriere della Sera, 3 febbraio 2020 Tensione nella maggioranza sulla prescrizione. Il leader di Italia Viva punge gli alleati: senza di noi non avete i numeri al Senato. La replica di Lezzi: Renzi pagliaccio, pronti al voto. È la giustizia il primo scoglio che deve schivare il governo Conte due, dopo la prova del voto in Emilia-Romagna. A partire all’attacco è il leader di Italia Viva Matteo Renzi, che si rivolge direttamente al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, Movimento 5 Stelle: “Fermati finché sei in tempo, perché in Parlamento votiamo contro la follia che avete fatto sulla prescrizione”. E ancora: “Fra le poltrone e la civiltà giuridica scegliamo la civiltà giuridica, e senza di noi non avete i numeri in Senato”. Nel pomeriggio, via Facebook, arriva la replica dello stesso Bonafede, che prima si difende: “Non accetto ricatti e minacce da nessuno. E vado avanti”. Poi contrattacca: “Io non penso che dovremmo tutti pensarla allo stesso modo. Qualcuno dovrebbe semplicemente rendersi conto di non essere più al governo con Alfano e Verdini, che come noto hanno una concezione della giustizia lontana anni luce dalla mia”. Il botta e risposta va avanti tutto il giorno, con il capogruppo al Senato dei renziani Davide Faraone che rincara la dose: “Nessuno ricatta o minaccia Bonafede, lo invitiamo soltanto a fare i conti in Parlamento: al Senato senza di noi Bonafede va sotto”. Dal Pd l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando prova inutilmente a ricucire: “È una polemica assurda, confrontiamoci”. Mentre dall’opposizione Matteo Salvini sembra godersi lo spettacolo e ne approfitta per sottolineare la spaccatura nella maggioranza: “Pazzesco questo continuo litigio sulla giustizia, con il governo che rimanda ogni decisione: siamo pronti a sostenere qualunque proposta per ridurre i tempi dei processi ed assicurare certezza della pena”. Al di là dello scontro (non nuovo) tra i due partiti più distanti tra loro nella maggioranza, la questione di merito non è proprio irrilevante. Il partito di Renzi ha presentato un emendamento al decreto Milleproroghe, il cosiddetto “lodo Annibali”, che propone di sospendere per un anno la riforma della prescrizione, già entrata in vigore dal primo gennaio di quest’anno. La riforma della prescrizione, voluta dal Movimento 5 stelle con la cosiddetta legge Spazza-corrotti, sospende il corso della prescrizione dalla sentenza di primo grado, sia in caso si condanna che di assoluzione. Oltre al “lodo Annibali”, sul tavolo ci sono anche altre ipotesi di modifica, come quella del Pd che prevede una sospensione parziale delle prescrizione e quella del premier Giuseppe Conte, che ferma la prescrizione dopo il primo grado solo in caso di condanna. Ma c’è anche una proposta più radicale, che cancella del tutto riforma. E che, presentata da Forza Italia, arriva in Aula alla Camera a fine mese: “Votiamola insieme per affossare una riforma incostituzionale” dice ai renziani il deputato di Forza Italia Enrico Costa. Sarebbe un segnale politico. E non riguarderebbe solo la giustizia. Battaglia sulla prescrizione. Renzi avvisa Bonafede: “Fermati finché sei in tempo” di Giacomo Losi Il Dubbio, 3 febbraio 2020 Bonafede non ci sta: “Non accetto minaccia, è una riforma epocale e vado avanti”. È braccio di ferro sulla riforma della prescrizione all’interno della maggioranza. Mentre c’è chi chiede un cambio di passo anche rispetto ai decreti sicurezza e mentre il mondo della politica si unisce per fare squadra sull’emergenza coronavirus, le norme volute dal Guardasigilli, Alfonso Bonafede, sull’estinzione dei processi trovano forti resistenze nel partito di Matteo Renzi La minaccia di Renzi - “Il 27 parte la campagna sulla giustizia giusta e lanceremo questa battaglia con un impegno molto chiaro che assumo - avverte, dall’assemblea nazionale, il leader di Italia viva”. E poi: “Se qualcuno pensa che, in nome del mantenimento dello status quo del governo, noi domani mattina veniamo meno ai principi di civiltà giuridica si sbaglia clamorosamente. A Bonafede dico fermati finché sei in tempo perché in Parlamento votiamo contro la follia sulla prescrizione, patti chiari amicizia lunga, non dite che non ve lo avevamo detto e senza di noi non avete i numeri al Senato e forse neanche alla Camera, rifletteteci bene. Io voto la civiltà non la barbarie sulla prescrizione”. Forti le critiche da parte della ex ministra Maria Elena Boschi che dice tout court: “La riforma Bonafede è incostituzionale”. Bonafede: non accetto ricatti. vado avanti - Pronta la replica del ministro della Giustizia: “Non accetto ricatti e minacce da nessuno. E vado avanti. Ho dato disponibilità - ha sottolineato - a fare tutti i vertici necessari per dialogare, senza pregiudizi, e per apportare miglioramenti alle varie norme sulla giustizia. Infatti, sono state vagliate e sono ancora al vaglio diverse proposte per garantire certezza e celerità dei tempi. Continuerò a farlo perché è giusto che sia così. Questo è l’unico metodo possibile in un governo con diverse forze politiche. Ed è un metodo che dovrebbero rivendicare e difendere tutte le forze di maggioranza. Ma sia chiaro: non accetto ricatti e minacce da nessuno. E vado avanti”. Da ministro della Repubblica “ho sempre ritenuto fosse fondamentale lavorare e tenere i toni bassi, soprattutto nel rispetto dei cittadini a cui non interessano gli schiamazzi politici che tentano di colmare il vuoto dei fatti con le parole. Continuo a pensarla così - aggiunge - ma ci sono anche momenti in cui, senza rispondere nel merito alle provocazioni che hanno soltanto lo scopo di ricordare agli altri la propria “esistenza politica”, vanno almeno precisate alcune minime regole per non abusare della pazienza dei cittadini”. 5Stelle al fianco del ministro - Sulla stessa lunghezza d’onda la ex ministra Barbara Lezzi, che scrive: “Se necessario, subito elezioni. Tutto il M5s deve procedere dritto secondo le sue convinzioni”. E aggiunge: “Un Paese civile pretende sempre giustizia e non si lascia confondere da un pagliaccio come Renzi che mette impunità e ingiusta detenzione sullo stesso piano. Il M5s ha la maggioranza relativa in Parlamento. Se non ci permettono di migliorare il Paese, andiamocene a casa. Non permettiamo a questo ballista di minacciare il M5s. Lui va a braccetto con Verdini e Berlusconi. Noi no”. Il Pd media - In mezzo ai due litiganti si colloca il Pd. Dice il responsabile giustizia, Valter Verini: “È ora di smetterla con opposte rigidità ed esibizioni muscolari sul tema della prescrizione, esibizioni che il Pd ha sempre rifiutato. Anche alla luce delle cose emerse nelle inaugurazioni dell’Anno Giudiziario diventa urgente che il presidente del Consiglio chiuda positivamente il confronto su questo tema con una soluzione condivisa sull’inaccettabile riforma della prescrizione, osteggiata da gran parte della maggioranza, dal mondo dell’avvocatura e di gran parte della magistratura”. Aggiunge il vice segretario, Andrea Orlando: “Tra Italia Viva e il ministro Bonafede si sta sviluppando un’assurda polemica a distanza che rischia di coprire le critiche ragionevoli venute dai vertici della magistratura durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Occupiamoci di queste e riprendiamo il confronto”. Fi strizza l’occhio a Renzi - A Renzi strizza, invece, l’occhio Forza Italia, con Enrico Costa: “Ad Italia Viva - che oggi ha ribadito di condividere la battaglia sulla prescrizione - diamo appuntamento il 24 febbraio, quando la nostra proposta di cancellare la riforma Bonafede tornerà in Aula”, scrive il responsabile del dipartimento giustizia del movimento azzurro. “Se la voteranno, potremo, insieme, affossare una legge incostituzionale e dannosa, respingendo mediazioni pasticciate o soluzioni che rimandino nuovamente la palla in tribuna. Dopo il voto in commissione in cui abbiamo dato un segnale comune di civiltà giuridica, avremmo potuto chiudere la partita in aula, e solo grazie al dilatorio rinvio in commissione Bonafede ha preso fiato. Il 24 febbraio sarà la volta buona”, conclude. Il “buon governo ha alla base la civiltà. Il lodo Annibali deve essere approvato”. Prescrizione, l’ira di Bonafede (che rischia il “liberi tutti” in Aula) di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 3 febbraio 2020 Riflettori su Conte per l’ultima mediazione, che ha proposto la sospensione sine die della prescrizione solo per i condannati in primo grado, e non anche per gli assolti. Dice di non accettare ricatti né minacce, Alfonso Bonafede, che parla come ministro della Giustizia, ma anche - per la prima volta in termini così decisi - in veste di neo-capodelegazione dei Cinque stelle nell’esecutivo. Tuttavia a leggere le sue dichiarazioni con gli occhiali degli altri partiti della coalizione, rischia di diventare lui quello che ricatta e minaccia. Perché con la sua irremovibilità sulla riforma della prescrizione potrebbe facilmente essere accusato di mettere a repentaglio la tenuta della maggioranza. Puntando direttamente i renziani, ma mettendo in difficoltà il principale partner di governo, cioè il Partito democratico. Che sul tema della prescrizione è certamente più vicino a Italia viva che ai grillini, sebbene anche al Nazareno certe frequentazioni additate dal Guardasigilli (leggi Denis Verdini) non piacciano granché. Al di là di più ampie considerazioni politiche, il pomo della discordia resta comunque il blocco definitivo della decorrenza della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, divenuto legge il 1° gennaio scorso. Una novità che tutti chiamano “riforma Bonafede”, mentre in realtà fu introdotta dalla precedente maggioranza con un emendamento dell’ultima ora alla legge “Spazza-corrotti” presentato dalla deputata del M5S Francesca Businarolo, oggi presidente della commissione Giustizia. Un escamotage per evitare il veto leghista in consiglio dei ministri; dopodiché in aula il partito di Salvini disse sì in cambio dell’appoggio grillino alla riforma della legittima difesa, ottenendo l’entrata in vigore posticipata di un anno per avere il tempo di approvare interventi utili ad accelerare i processi e disinnescare la “bomba atomica” paventata dall’allora ministro del governo Conte 1 Giulia Bongiorno. Pd (con Renzi ancora dentro) e Leu votarono contro. Poi Salvini decretò la fine di quella maggioranza, e la riforma del processo penale targata Bonafede è rimasta lettera morta. Ora il Guardasigilli l’ha riproposta ai nuovi alleati di governo, con ulteriori modifiche per sveltire i tempi della giustizia: è il “cantiere aperto” evocato ancora ieri dal ministro, al quale Pd, Iv e Leu stanno collaborando. La prescrizione rimane però un problema a parte, sebbene Bonafede lo consideri automaticamente risolto una volta garantiti procedimenti più snelli e veloci. Peccato che gli alleati non la pensino così. Anche perché il Pd aveva fatto approvare nella scorsa legislatura una norma che concedeva altro tempo per la celebrazione dei processi d’apppello e in Cassazione, interrompendo per tre anni il decorso della prescrizione, ma quella riforma fu soppiantata dall’emendamento Businarolo prima di mostrare i suoi effetti. Ora la mediazione di cui il premier Giuseppe Conte s’è fatto direttamente garante è arrivata al “lodo” che prevede la sospensione sine die della prescrizione solo per i condannati in primo grado, e non anche per gli assolti; per Bonafede sembra il massimo delle concessioni possibili, gli altri chiedono ulteriori aggiustamenti. C’è chi sostiene che questa soluzione sia incostituzionale, ma non è detto che sia effettivamente così. Il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, ad esempio, ha chiaramente invitato a lavorare nella direzione già imboccata, evidentemente considerandola non contraria ai principi della Costituzione. Gran parte dei magistrati che hanno appena inaugurato il nuovo anno giudiziario hanno ribadito perplessità o esplicita contrarietà al “fine processo mai”. Oltre agli avvocati, che hanno già fatto tre scioperi e annunciano nuove battaglie. È soprattutto il Pd, stretto fra gli “opposti estremismi” di Bonafede e di Renzi, a chiedere che alle dichiarazioni di disponibilità al dialogo il ministro faccia seguire un atteggiamento meno intransigente. E arrivati al punto in cui le divisioni degenerano in scontro aperto, non può che essere il presidente del Consiglio a spingere il Guardasigilli verso un ulteriore passo verso le richieste degli alleati. Altrimenti si annuncia il “liberi tutti” in Parlamento, dove giacciono almeno tre proposte (Forza Italia, Pd e Iv) per cancellare la riforma Businarolo-Bonafede. E dove ognuno potrà rivendicare scelte autonome visto che nel programma del Conte 2, al capitolo giustizia, non è scritto che la nuova prescrizione non possa essere toccata. Incostituzionalità e rischio collasso: ecco perché la riforma non funziona di Valentina Errante Il Messaggero, 3 febbraio 2020 Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale spiega perché la riforma della prescrizione, voluta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, non sia la ricetta per superare le disfunzioni del sistema Giustizia ma, al contrario, appesantisca ancora di più una macchina mal funzionante. Non solo: i profili di incostituzionalità, già paventati, sono più d’uno. La riforma, spiega Mirabelli, violerebbe il principio della Carta che prevede la giusta durata del processo, in quanto gli imputati rischiano di rimanere tali a vita. E non rispetterebbe il dettato dell’articolo 27, secondo il quale le pene devono tendere alla rieducazione e non alla punizione. Un rinvio sine die dell’esecuzione della pena, al contrario, potrebbe vedere in prigione una persona mutata rispetto a quella che ha commesso il delitto anche venti anni prima, circostanza che conferirebbe alla condanna un mero intento punitivo. Con l’abolizione della prescrizione, inoltre, lo Stato prenderebbe atto della propria incapacità di celebrare i processi in tempi brevi, gravando i cittadini di un problema che non riesce a risolvere riformando se stesso. Una misura migliore, per sgravare, gli uffici giudiziari, oltre a una migliore organizzazione, potrebbe essere quella di prevedere un’amnistia mirata per i reati minori. Ecco, una per una le risposte di Mirabelli ai quesiti-chiave. La legge viola la Costituzione? La norma che ha abolito la prescrizione potrebbe violare più di un articolo della Costituzione. In primo luogo il principio della ragionevole durata del processo, perché, se dopo il primo grado non decorrono più i termini, è chiaro che un processo può avere una durata indefinita. Inoltre lo stop della prescrizione rischia di allontanare nel tempo l’esecuzione della pena. E dunque potrebbe arrivare in un tempo molto lontano rispetto al delitto; questo contrasta con il principio costituzionale secondo il quale il carcere debba rieducare e non punire. In vent’anni una persona può cambiare e non essere più quella che ha commesso il crimine. Gli uffici reggerebbero? L’ingolfamento degli uffici giudiziari è un rischio concreto. Il primo presidente della Cassazione l’ha detto chiaramente in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario: la prescrizione ha anche una finalità deflattiva. Se dovessero giungere in Cassazione tutti i processi, che finora si sono estinti con la prescrizione, l’ufficio non sarebbe in grado di reggere quest’onda d’urto. Il problema, ovviamente, riguarda anche le Corti d’Appello. Sono numeri enormi, le previsioni sono di almeno 25mila fascicoli, se non di più. L’ingolfamento sarebbe assicurato. Anche questo aspetto non dovrebbe essere sottovalutato. Amnistia. Potrebbe essere necessaria? L’amnistia mirata, per i reati minori, potrebbe essere uno strumento straordinario per superare il problema della prescrizione, perché consentirebbe di smaltire l’arretrato che grava sulle delle Corti d’appello. Ma ce ne sono anche altri: una migliore organizzazione dei processi e una più efficiente funzionalità degli uffici. E difficile immaginare che possa essere posta a carico dell’imputato l’inefficienza della giustizia. L’eliminazione della prescrizione comporta di fatto che chi è imputato resti giudicabile in maniera indefinita. Teoricamente anche per tutta la vita. I tempi. È possibile un rallentamento? Eliminare del tutto la prescrizione rallenterà ancora di più i tempi della Giustizia, per l’enorme mole di processi che si continueranno ad accumulare senza un limite. Inoltre, non essendoci più scadenze e il rischio dell’estinzione, non ci sarà neppure la necessità di giungere a una rapida conclusione. La stessa esistenza della prescrizione detta in qualche modo i tempi. Abolendo questo istituto si saneranno i ritardi. Lo sforzo dovrebbe invece essere diretto a consentire la celebrazione sollecita dei processi. Questa norma è la presa d’atto di un’inefficienza da parte dello Stato, che ammette di non essere in grado. Io, senatrice, ho deciso di lasciare i 5 Stelle anche per lo strappo sulla prescrizione di Silvana Vono* Il Dubbio, 3 febbraio 2020 Sono sconcertata da come la riforma della prescrizione, meglio conosciuta come riforma Bonafede, malgrado la richiesta supportata da pareri giuridici autorevoli da parte di operatori del diritto, professori universitari e costituzionalisti di un approfondimento più puntuale per rivederne i passaggi, possa comunque essere entrata in vigore dal 1 gennaio 2020, senza che il ministro facesse un minimo di riflessione su quanto stava accadendo nel mondo dei professionisti e dell’ambiente forense. Stabilendo che il corso della prescrizione è bloccato dopo la sentenza di primo grado o il decreto penale di condanna ( e “fino alla data di esecutività della sentenza”) viene invece istituita una sorta di “fine pena mai”. Interrompere la prescrizione dopo il primo grado di giudizio senza intervenire sulla gestione del processo e sulla certezza dei suoi tempi significa allungarne a dismisura la durata, con l’ evidente lesione del sacrosanto principio, sancito chiaramente nella nostra Costituzione, della ragionevole durata del processo. Una concezione giustizialista che non tiene conto del necessario equilibrio che sempre deve esistere tra la pretesa punitiva dello Stato e le garanzie dei cittadini, disposta a sacrificare i diritti di tutti ribaltando anche l’altro principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza. Non si è considerato che la prescrizione assicura la ragionevolezza e la proporzionalità nell’esercizio della potestà punitiva, il cosiddetto ius puniendi, che contiene in sé la pretesa punitiva dello Stato in limiti di tempo determinati. L’estinzione del reato non è una scappatoia tout court come si vorrebbe fare credere ma è, piuttosto, legittimata proprio dal decorso del tempo in base al quale l’applicazione della sanzione diviene inutile o anche semplicemente inopportuna, indebolendosi le stesse esigenze che guidano la repressione dei reati e dileguandosi anche la funzione della pena, che non è essenzialmente repressiva ma anche di rieducazione, proprio tenendo conto del terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione. Ecco perché la necessità di intervenire con una riforma che influisca innanzi tutto sulla certezza dei tempi del processo ma che deve partire da una generale riorganizzazione del sistema giudiziario, nell’ottica più ampia che una riforma degna di questo nome necessariamente richiede. Personalmente credo che questi interventi legislativi siano solo propagandistici di una cultura che non esprime alcuna prospettiva di politica seria e nulla di valido dal punto di vista giuridico e anzi, per molti aspetti, va a ledere anche il decoro della nostra professione, spingendo l’opinione pubblica a credere che la prescrizione sia un rimedio per furbetti e che gli avvocati utilizzino questo istituto di garanzia come escamotage per evitare sentenze negative. Mi duole fare queste affermazioni da senatore e quindi legislatore, ma sono convinta che questi interventi non facciano altro che indebolire il nostro stato di diritto, ridimensionando il valore dell’attività legislativa, la qualità e la professionalità dei giuristi. Anche sul cosiddetto lodo Conte, tentativo di riparare i possibili ed eventuali danni della riforma, mi sento di esprimere delle riserve nonché dubbi di costituzionalità, dal momento che si inseriscono dettami che, ipotizzando una accelerazione dei tempi processuali, intervengono in modo superficiale dal punto di vista del diritto con una distinzione, riguardo la prescrizione, tra condannati e assolti. Mi pare un modo un po’ semplicistico di cercare di rivedere dei provvedimenti legislativi iniqui e improvvisati sulla falsariga di un eccesso di onnipotenza, da dentro al sistema fingendo di esserne fuori, che in realtà non avrebbero dovuto nemmeno essere pensati. Purtroppo molto spesso non si riflette sulle conseguenze che alcuni provvedimenti normativi possono avere a livello di involuzione sociale prima che della nostra stessa cultura giuridica. A mio personale giudizio, in questo caso non si è approfondito in modo proprio, o quantomeno non si è compresa la ratio dell’istituto della prescrizione nell’ ambito del panorama processuale. Questa è una delle motivazioni per cui, proprio per rispettare in primis la mia dignità personale e professionale e il mandato elettorale di rappresentanza democratica di tutti i cittadini, nonché il codice deontologico professionale e non le farneticanti idee di un’oligarchia, che ho preferito uscire dal M5s e aderire a una forza politica democratica e concretamente riformista. *Avvocata, senatrice di Italia viva Giovanni Maria Flick: “I cartelli e le manette? Condotta indecorosa” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 3 febbraio 2020 “No alla prescrizione di Bonafede, è tempo di una riforma organica della giustizia”. L’ex Guardasigilli: “Condivido il pensiero del primo presidente della Cassazione Mammone e del pg Salvi. Legali e magistrati siano più sobri nella comunicazione. Non è più tempo del pm che cerca consenso”. “Se in principio c’è stata perplessità per il metodo in cui è stato dato il via libera alla riforma della prescrizione di Bonafede e, subito dopo, c’è stato sconcerto per il compromesso che il governo pretendeva di raggiungere distinguendo condannati e assolti in primo grado, oggi posso dire che da parte mia c’è amarezza”. E l’amarezza di cui parla Giovanni Maria Flick riguarda la “profonda crisi”, per usare parole sue, della giustizia. All’indomani dell’inaugurazione dell’anno giudiziario e delle cerimonie fatte in corte di Cassazione prima e nelle corti d’Appello poi, resta l’allarme lanciato dal primo Presidente della Suprema corte sul “carico insostenibile” che nei prossimi anni potrebbe gravare sulle sezioni penali della Cassazione se alla riforma entrata in vigore il primo gennaio non dovesse aggiungersi un intervento più organico in materia. E restano due immagini: la prima arriva da Milano, la seconda da Napoli. Nel capoluogo lombardo gli avvocati, in polemica con la presenza di Piercamillo Davigo, chiamato a rappresentare il Csm, sono usciti dall’aula portando dei cartelli in mano. Sui fogli i richiami a tre articoli della Costituzione. A Napoli, invece, i legali hanno sfilato con la toga sulle spalle e le manette ai polsi, in polemica con la ‘nuovà prescrizione voluta dai 5 stelle. Sono immagini che per il professor Flick, già Guardasigilli, presidente emerito della Corte costituzionale, restituiscono l’idea di un “battibecco un po’ indecoroso”. Lo scontro tra magistrati e avvocati per Flick è che la conseguenza dell’attitudine a “non affrontare i temi della giustizia in maniera globale, limitandosi a interventi singoli o, addirittura, a lavorare sulle questioni partendo non dalla testa ma dalla coda”. Professore, il primo presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Mammone, ha lanciato un allarme: senza correttivi, la riforma della prescrizione metterà in crisi la Suprema Corte, perché la graverà di carichi di lavoro insostenibili. Cosa ne pensa? Il presidente ha espresso una serie di critiche di merito molto articolate sulla nuova legge. E, soprattutto, ha ribadito un concetto mai abbastanza sottolineato: è dalla fine degli anni ‘90 che non sono state fatte riforme di carattere organico della giustizia. Ci sono stati solo interventi settoriali, frammentari, che lasciano permanere le criticità. Il presidente ha lanciato un segnale estremamente serio. Non è più la solita lamentela che eravamo abituati a sentire in passato. Non si dice più soltanto “dateci più soldi, dateci più magistrati” ma “dateci più riforme, fate interventi legislativi che affrontino tutte le criticità della materia”. Io condivido il suo ragionamento perché, come ho detto in altre occasioni, il metodo di partire dalla coda è sbagliato. C’è poi un altro aspetto rilevante nel discorso del presidente, riguarda la scopertura dell’organico: quella dei magistrati è del 9,83% e quella del personale amministrativo è del 22,82%. Un fattore tutt’altro che irrilevante, che richiederebbe quantomeno una valutazione approfondita. C’è, però, un altro messaggio importante che è stato lanciato nell’Aula magna della Cassazione. L’ho ascoltato nel discorso del procuratore generale, Giovanni Salvi. Quale? La richiesta della sobrietà nella comunicazione. Esattamente il contrario (mi sembra) di quanto avvenuto ieri, 1 febbraio. Mi riferisco al comportamento avuto da alcuni avvocati nell’inaugurazione dell’anno giudiziario in alcune corti d’Appello. E di quello avuto, in precedenza, da alcuni magistrati, che è stato la premessa di quanto accaduto ieri. Il pubblico ministero non deve cercare consenso nell’opinione pubblica, deve semmai cercare di dare e di riscuotere fiducia. Una comunicazione enfatizzata rischia di sovrapporre i valori che il pm ritiene di dover far valere, e che sono proposti dall’opinione pubblica, ai valori fondamentali della Costituzione. Ecco, tutto ciò provoca quel ‘battibecco indecoroso’ a cui stiamo assistendo da qualche tempo. Si riferisce ai cartelli contro Davigo a Milano e alle manette che gli avvocati hanno messo a Napoli, in dissenso con la riforma Bonafede. Gesti forti ma un po’ eccentrici, non trova? Uno stile che non condivido, che ho contestato anche in passato. Non mi piacque quando, nel 2002, i magistrati sfilarono, a Milano, il giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, alzando la Costituzione contro ‘le leggi di Berlusconi’. E, a maggior ragione, non mi piace quello che è successo ieri. Io credo che, soprattutto in un momento come questo, sia necessario un minimo di rispetto delle istituzioni. Capisco la risposta alle reciproche provocazioni, ma non mi pare il caso di tenere comportamenti del genere che mi sembrano lontani dalla professionalità, come ha detto il procuratore generale in Cassazione. Penso che lo scontro cui abbiamo assistito sia la conseguenza di un metodo sbagliato e dell’assenza di un intervento legislativo organico. È come dire che alla signora la quale chiede se è incinta, il medico risponda “un poco”. In principio, da parte mia, c’è stata perplessità per il modo cui è stato dato il via libera alla riforma di Bonafede. Dopo c’è stato sconcerto per il compromesso che il governo Conte bis proponeva di raggiungere al suo interno distinguendo condannati e assolti in primo grado. Oggi posso dire che c’è amarezza. Amarezza per cosa? Per la situazione che si è nuovamente creata tra magistratura e avvocatura. Sembrava si fosse aperto un dialogo tra le due categorie. I recenti fatti, invece, dimostrano come ci la contrapposizione si stia via via inasprendo. E tutto ciò fa male alla giustizia. Una giustizia che, peraltro, già esce con le ossa un po’ rotte dallo scandalo che ha investito il Csm nella primavera scorsa. Lei prima faceva riferimento ai pm che “cercano il consenso nell’opinione pubblica”. Ci spiega meglio? Non è più tempo del pubblico ministero che propone la sua posizione come quella del ‘cavaliere senza macchia e senza paura, portatore di valori suoi’, come mi sembra abbia indicato il procuratore generale in Cassazione. Sono i valori della Costituzione che contano; e uno dei primi tra quei valori è il dialogo, il confronto continuo. Non il proposito di ‘rivoltare l’Italia come un calzino’. Anche se naturalmente chiunque ha la libertà di manifestazione del pensiero. A proposito di questo, gli avvocati che hanno sfilato a Milano contestavano a Davigo le sue opinioni sulla prescrizione e alcune sue esternazioni sul ruolo della difesa. La colpisce il fatto che si arrivi a definire sgradita la presenza di un rappresentante del Csm per un pensiero che ha espresso? Io mi auguro preliminarmente che le opinioni dei magistrati, come quelle degli avvocati, abbiano una certa sobrietà. E mi sembra che questa non ci sia né da una né dall’altra parte. Certamente ognuno ha diritto ad avere la propria opinione, ma non si può negare che si sia creato un corto circuito dannoso; ferma restando la perplessità di fronte a chi contesta e rifiuta la presenza di una persona che rappresenta il Csm. Chi ha a cuore le sorti della giustizia non può che essere rammaricato. La nuova mafia che corrompe di Attilio Bolzoni La Repubblica, 3 febbraio 2020 Sarà perché non c’è più la mafia di una volta, sarà perché la nomemklatura siciliana è diventata sempre più ingorda e pericolosa, ma fa una certa impressione scoprire una Palermo dove ci sono più denunce contro i boss che contro i funzionari pubblici corrotti. Detta così, sembra che sulla capitale dell’isola si sia abbattuta una meteorite che ha spazzato via “famiglie” e “mandamenti” che controllavano - e non metro per metro ma centimetro per centimetro - i loro territori da un paio di secoli abbondanti. Ma, a quanto pare, le statistiche ci costringono a ragionare su quello che a prima vista può apparire come un paradosso: Palermo sempre meno mafiosa e sempre più corrotta. La notizia ce l’ha offerta, e con un contorno di parole inequivocabili (“C’è troppa gente che ruba e ruba risorse pubbliche”) il procuratore capo Franco Lo Voi alla cerimonia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Il procuratore ha completato il suo discorso fornendo tutti gli elementi necessari per comprendere meglio la situazione: “Corrotti e corruttori traggono dalla mafia preziosi insegnamenti, adottano cautele negli incontri per evitare intercettazioni, usano comunicazioni criptiche quando parlano tra loro, hanno incontri riservati avendo cura di lasciare i telefoni, riciclano come i mafiosi e autoriciclano”. Insomma, quello che prima facevano i don Sasà e i don Totò delle borgate adesso lo fanno serenamente anche un bel po’ di amministratori, alti burocrati e pure le mezzemaniche. Agiscono quasi indisturbati, perché tutti protetti da un’omertà che un tempo sembrava privilegio solo dei “galantuomini”. Evidentemente, oggi, fanno paura anche loro. Per dirla tutta non è solo una questione di paura, il silenzio si può conquistare altrimenti, si compra anche con qualcos’altro. C’è il dare e c’è l’avere, nel perverso intreccio fra corrotto e corruttore l’interesse è sempre reciproco. Nulla di nuovo sotto il sole. Raccontava qualche anno fa il pentito Gaspare Mutolo, a proposito di racket del pizzo: “Le estorsioni sono una cosa che vanno benissimo a Palermo perché le persone sono molto educate nel pagare. Hanno quella mentalità per stare tranquilli. Quando sento dire di qualche imprenditore o di qualche commerciante che non paga, io mi stranizzo... Perché a volte hanno anche dei vantaggi. Primo, perché nasce un rapporto di amicizia fra quello che va a prendere la mesata e loro… e poi perché i commercianti pagando sono garantiti a vita”. Che il “comportamento mafioso” abbia fatto scuola fuori dalla mafia non è che sia una novità in assoluto ma, a Palermo, significa qualcosa di più che altrove. D’altronde fa testo il dato denunciato dal procuratore, riferendo proprio sulle indagini in corso e su quelle appena concluse: per quante poche siano ancora le denunce contro i rappresentanti di Cosa Nostra sono comunque più delle altre. Che sta succedendo allora? Sta succedendo che la mafia è profondamente cambiata nonostante la rappresentazione folcloristica che a volte noi giornalisti ne facciamo, come struttura militare è l’ombra di se stessa rispetto a vent’anni fa, il suo potere intimidatorio resiste ma non è paragonabile a quello che aveva, è una mafia che si mischia con quei colletti bianchi (noi preferiremmo definirli neri) citati dal procuratore Lo Voi, che si confonde e confonde. C’è un grande rimescolamento, più mazzette e assenza di fatti di sangue, per mettere fuori gioco un avversario in una gara d’appalto è più vantaggioso pagare che far saltare in aria qualcosa, tangenti al posto di pallottole. Anche a Palermo hanno capito che è più conveniente così. Conte: “Rendere più duro il Codice rosso” Il Tempo, 3 febbraio 2020 Il presidente del Consiglio interviene al termine di una settimana segnata da sei femminicidi. Una sanguinosa strage “a puntate”, che si dipana nel corso di una tragica settimana tristemente da ricordare per il record di 6 femminicidi, quasi uno al giorno. Il premier Giuseppe Conte passa in rassegna gli ultimi terribili episodi, che colpiscono Alto Adige e il Bresciano, la Sardegna e la Sicilia. “Siamo costretti a registrare un bilancio orribile - scrive Conte sui social - madri e figlie hanno perso la vita per mano di compagni o ex compagni”. Anche se, complessivamente, il numero di omicidi sta calando, quello dei femminicidi non accenna a diminuire. Le donne, spiega il capo dell’esecutivo, purtroppo continuano a essere vittime non solo di violenze fisiche e sopraffazioni, ma anche di vecchi retaggi culturali, diffusi un po’ ovunque e spesso giustificati dal troppo amore. “Ma l’amore non uccide, non mortifica, non fa mai male”, sottolinea il premier. Questa terribile galleria di femminicidi fa suonare l’allarme anche al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, così come a molti politici, da Nicola Zingaretti del Pd a Mara Carfagna di Forza Italia. La ministra alle Pari opportunità Elena Bonetti, ricorda le misure già prese: la Cabina di regia per l’attuazione del Piano Strategico Nazionale, lo sblocco di fondi per gli orfani di femminicidio, l’erogazione di altro denaro fondi per la rete antiviolenza (30 milioni di euro), la creazione di un nuovo strumento di sostegno per le donne, tramite il microcredito. E il premier si dice aperto a rivedere il cosiddetto “Codice rosso” cioè il pacchetto di norme, approvato dal passato esecutivo. Si era decisa l’abolizione del rito abbreviato, che prevedeva sconti di pena per i reati gravi contro le donne. Ed era stata aperta una corsia preferenziale per le donne che, se presentano denuncia, devono essere ascoltate dai magistrati con urgenza, nel giro di tre giorni. L’obiettivo è scongiurare il peggio: il femminicidio viene spesso descritto come una tragedia annunciata, prevedibile. E quindi, forse, anche evitabile. Confisca del denaro se c’è la prova che questo proviene dall’attività di spaccio di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2020 Cassazione -Sezione VI penale - Sentenza 8 novembre 2019 n. 45535. Nell’ipotesi di cui all’articolo 73, comma 5, del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, è possibile procedere alla confisca del denaro trovato in possesso dell’imputato solo in presenza dei presupposti di cui all’articolo 240, comma 1, del Cp, e non ai sensi dell’articolo 240-bis del Cp (già articolo 12-sexies del decreto legge 8 giugno 1992 n. 306, convertito dalla legge 7 agosto 1992 n. 356). Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza 45535/2019. Inoltre, secondo la sezione VI penale di Piazza Cavour, ai fini della confisca del denaro quale profitto del reato, ai sensi dell’articolo 240, comma 1, del Cp, è però necessaria la sussistenza del vincolo di pertinenzialità tra somma e reato (ciò che, nella specie, relativa a patteggiamento, la Corte ha escluso fosse stato adeguatamente motivato attraverso la generica affermazione circa il quantitativo di dosi rinvenute e l’assenza di mezzi leciti di sostentamento, non essendo stati del resto oggetto di contestazione specifici episodi di cessione che avrebbero consentito di configurare in modo tranquillante il nesso di pertinenzialità). In termini, tra le tante, sezione IV, 18 luglio 2017, Kourkoura, laddove si è appunto affermato che, nell’ipotesi di cui all’articolo 73, comma 5, del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, è possibile procedere alla confisca del denaro trovato in possesso dell’imputato solo in presenza dei presupposti di cui all’articolo 240, comma 1, del codice penale, laddove si prevede la confisca delle cose che costituiscono profitto del reato (cioè il lucro o vantaggio economico che si ricava, direttamente o indirettamente, dalla commissione di esso), e non ai sensi dell’articolo 12-sexies del decreto legge 8 giugno 1992 n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992 n. 356 (ora, articolo 240-bis del codice penale). In questa prospettiva, è certamente ammessa la confisca del denaro che costituisca profitto del reato di vendita di sostanze stupefacenti, purché però il giudice, anche nel caso del patteggiamento, espliciti le ragioni per cui ritiene sussistenti i presupposti per adottarla, dovendosi escludere la confiscabilità delle somme rinvenute nella disponibilità del soggetto chiamato a rispondere del reato di detenzione a fine di vendita di sostanze stupefacenti, perché tali somme, anche ad ammettere che siano il provento di pregresso spaccio di sostanze stupefacenti, non costituiscono il profitto del reato di detenzione illecita, ma, appunto, di altre, precedenti condotte illecite di droga, estranee alla contestazione. In definitiva: nel caso di condanna per il reato di cui all’articolo 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309, può costituire oggetto di confisca solo la somma di denaro che il giudice accerti essere stata ricavata dalla cessione della sostanza stupefacente: trattasi di confisca facoltativa perché il denaro medesimo rappresenta il profitto e non già il prezzo del reato. La confisca è consentita anche in caso di “patteggiamento”, giacché, come è noto, l’attuale disciplina di tale istituto (cfr. articolo 445, comma 1, del Cpp,nel testo risultante dalle modifiche apportate con la legge 12 giugno 2003 n. 134) prevede l’applicabilità della misura di sicurezza della confisca in tutte le ipotesi previste dall’articolo 240 del Cp, ivi compresa la confisca facoltativa. Per potere però disporre la confisca del denaro, occorre dimostrare che questo provenga dall’attività di spaccio. Il problema probatorio da affrontare per poter disporre la misura ablativa concerne, quindi, la dimostrazione: 1) del “collegamento diretto” della cosa con il reato e 2) del giudizio di pericolosità insito nel mantenimento di questa nella disponibilità del reo. Il collegamento diretto assume, in tutta evidenza, il significato di “provenienza diretta” della cosa (il denaro) dal reato. Occorre cioè dimostrare con certezza che il denaro costituisce effettivamente il profitto del reato: ergo, che trattasi, proprio del denaro (“quel denaro”) che è stato, per esempio, consegnato dal tossicodipendente allo spacciatore per l’acquisto della droga ovvero del denaro (“quel denaro”) che è stato consegnato al “corriere” in pagamento della partita di droga importata, ecc. Dimostrazione che non è sempre facile, vertendosi in ipotesi di un bene tipicamente fungibile. Una volta soddisfatto tale onere motivazionale è molto più semplice la dimostrazione del presupposto della “pericolosità sociale” insito nel mantenimento del denaro nella disponibilità del reo, cioè del rischio di recidiva che ne conseguirebbe. Tale rischio è sostanzialmente in re ipsa, laddove si consideri la fortemente probabile destinazione illecita di tale denaro, in quanto volto a essere “ripulito” e/o comunque a essere reinvestito in altre attività, magari illecite. Per completezza, è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni e delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica. È una regola cui quindi potrebbe legittimamente farsi ricorso quando risulti impraticabile soddisfare, proprio per la rilevata fungibilità del denaro, la prova di quel “collegamento diretto” della somma sequestrata all’imputato e l’attività criminosa, che è conditio sine qua non del provvedimento ablativo di confisca facoltativa: peraltro, come evidenziato qui anche dalla Cassazione, non potrebbe farsi ricorso alla disciplina dell’articolo 240-bis del codice penale nel caso in cui la condanna o l’applicazione di pena riguardi il reato di cui al comma 5 dell’articolo 73 del Dpr n. 309 del 1990, espressamente eccettuato dall’ambito di applicazione della disposizione. Per accertare la natura stupefacente di una sostanza basta la semplice confessione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2020 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 8 gennaio 2020 n. 265. Per accertare la natura di stupefacente di una sostanza non è necessaria la perizia o un accertamento tecnico da svolgersi secondo le disposizioni di cui all’articolo 360 del Cpp, essendo all’uopo sufficiente il materiale probatorio costituito da dichiarazioni dell’imputato, indagine con narcotest et similia. Così la sezione IV della Cassazione con la sentenza 8 gennaio 2020 n. 265. Principio pacifico, applicabile in tutti i casi di cosiddetta “droga parlata”. In termini, di recente, sezione VI, 6 novembre 2018, Russo, per la quale, appunto, in termini generali, la perizia o comunque l’accertamento tecnico non costituiscono lo strumento esclusivo al fine di accertare la natura drogante della sostanza oggetto del processo; sezione VI, 6 ottobre 2016, Di Pietro e altri, secondo la quale, nel caso di reati in materia di stupefacenti non è determinante, a fini di prova, il sequestro o il rinvenimento delle sostanze, potendosi fare riferimento a prove di altro genere, a cominciare dalle intercettazioni telefoniche o ambientali; nonché, proprio con riguardo all’accertamento tecnico, sezione IV, 29 gennaio 2014, Feola e altri, per la quale, in tema di stupefacenti, il giudice non ha alcun dovere di procedere a perizia o ad accertamento tecnico per stabilire la qualità e la quantità del principio attivo di una sostanza drogante, in quanto egli può attingere tale conoscenza anche da altre fonti di prova acquisite agli atti. Nella specie, la sentenza ha così ritenuto corretta la decisione del giudice di merito che aveva condannato gli imputati per una pluralità di episodi di cessione di droga fondandosi, tra l’altro, sulla confessione di alcuni di essi. Assegno ai familiari in stato di bisogno: quando scatta il reato per chi non paga di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2020 Chi non versa l’assegno stabilito ai figli minori o all’ex partner che abbia bisogno di sostegno non è passibile di sanzione solo sul piano civilistico: si rischia anche di commettere il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare. Lo prevede l’articolo 570 del Codice penaleche punisce, con la reclusione fino a un anno o con la multa da 103 a 1.032 euro, chi “abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori, alla tutela legale o alla qualità di coniuge”, facendo mancare, si legge nel comma due, “i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa”. La norma è chiara, sì, ma le variabili sono molte e non è detto che la trascurata corresponsione dell’assegno abbia valenza penale. A chiarire quando e come scatta la condanna sono le pronunce dei giudici. I presupposti del reato - Perché si configuri il reato a danno dei figli minori non occorre dimostrare il loro stato di bisogno, che è presunto per età (Corte d’appello di Napoli, 4249/2019; Corte d’appello di Palermo, 3149/2019). Per le stesse ragioni, non serve affannarsi a provare che al bambino stiano provvedendo l’altro genitore o parenti prossimi, perché la condizione di bisogno non può dirsi cessata per il fatto che altri se ne occupino (Corte d’appello di Palermo, 3285/2019): l’obbligo contributivo grava su entrambi i genitori (Tribunale di Vicenza, 710/2019). Pertanto, non verranno indagate le capacità proporzionali di ogni coniuge di concorrere a soddisfare i bisogni dei figli (Tribunale di Genova, 2402/2019). D’altro canto, la trasgressione dei doveri di mantenimento fissati dal giudice civile non integra sempre e automaticamente il reato. Il motivo è intuibile: la somma calcolata in sede di separazione o al momento della definizione dei singoli doveri di contribuzione copre più di quanto occorre per la sussistenza del minore, mentre il Codice penale sanziona l’aver fatto mancare ai figli o al coniuge il denaro strettamente necessario per la loro esistenza (Tribunale di Lecce, 1967/2019). La giurisprudenza, tuttavia, ha nel tempo ampliato la nozione di mezzi di sussistenza finendo per includere non solo il vitto, l’alloggio, il vestiario e le cure mediche ma anche tutti quei mezzi che consentono alla prole di soddisfare le esigenze quotidiane: come i canoni per le utenze, le spese per i libri d’istruzione, i medicinali, i costi per il trasporto e la comunicazione; tutto ciò a prescindere dalle condizioni sociali o dal pregresso tenore di vita (Cassazione, 48910/2019). I motivi per l’assoluzione - A rispondere del reato è solo chi ha fatto mancare i mezzi di sussistenza ai familiari pur avendone la capacità economica (Tribunale di Trieste, 1145/2019). Per liberarsi dalle accuse occorre quindi produrre documenti che attestano la concreta impossibilità di onorare gli impegni. Al genitore rimasto senza lavoro, ad esempio, non basta certificare la condizione di disoccupazione se non produce altri carteggi da cui si evince l’oggettiva incapacità di adempiere (Tribunale di Trento, 511/2019). Si sfugge, in sintesi, a responsabilità penale solo se si accerta l’assoluta, persistente e non colpevole indisponibilità di introiti (Tribunale di Trieste, 633/2019), che è esclusa se, ad esempio, emergono incassi in nero (Cassazione 49979/2019). Mentre evita la condanna chi è affetto da patologie che gli impediscono di esercitare la libera professione e, di conseguenza, non può assolvere ai suoi obblighi (Tribunale di Lodi, 11 marzo 2019). Nessun reato, poi, se gli ex coniugi si sono attenuti ad accordi transattivi conclusi in via stragiudiziale anche se non trasfusi nella sentenza di divorzio che non ha stabilito nulla sul punto (Cassazione, 36392/2019). Autonoma valutazione del compendio indiziario nell’ordinanza sulla misura cautelare Il Sole 24 Ore, 3 febbraio 2020 Misure cautelari personali - Ordinanza del giudice - Requisiti - Motivazione - Carenza di autonoma valutazione - Causa di nullità. In tema di motivazione delle ordinanze cautelari personali, il giudice per le indagini preliminari che non si sia limitato a una apodittica e immotivata adesione alle richieste del Pm ovvero alle risultanze delle indagini, ma abbia sottoposto a vaglio critico il materiale probatorio della pubblica accusa, enucleando, come nel caso di specie, gli elementi indiziari ritenuti rilevanti, ottempera alla prescrizione dell’autonoma valutazione delle specifiche esigenze cautelari e degli indizi prevista a pena di nullità dall’art. 292, comma 2, lett. c), c.p.p. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 20 gennaio 2020 n. 1990. Misure cautelari personali - Ordinanza del giudice - Requisiti - Motivazione - Legge n. 47 del 2015 - Modifiche in tema di motivazione delle ordinanze cautelari - Autonoma valutazione - Requisiti - Motivazione per relationem - Ammissibilità - Condizioni. In tema di motivazione delle ordinanze cautelari personali, la previsione di “autonoma valutazione” delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza, introdotta all’articolo 292 c.p.p., comma 1, lettera c), dalla L. 16 aprile 2015, n. 47, impone al giudice di esplicitare, indipendentemente dal richiamo in tutto o in parte di atti del procedimento, i criteri adottati a fondamento della decisione e non implica, invece, la necessità di una riscrittura “originale” degli elementi o circostanze rilevanti ai fini della disposizione della misura. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 26 febbraio 2019 n. 8480. Misure cautelari personali - Ordinanza - Requisiti - Motivazione - Legge n. 47 del 2015 - Modifiche in tema di motivazione delle ordinanze cautelari - Mancanza di autonoma valutazione da parte del giudice - Vizio di violazione di legge - Sussistenza - Ricorso per saltum in cassazione - Ammissibilità. Anche a seguito della novella del 2015, l’ordinanza cautelare può essere legittimamente motivata per relationem rispetto ad altro atto del procedimento e, in particolare, alla richiesta del pubblico ministero. In tale caso, tuttavia, l’onere di cognizione e di autonoma valutazione può ritenersi legittimamente assolto a condizione che il giudice procedente non si limiti a motivare sulla base della mera autoevidenza dell’atto richiamato con l’aggiunta di clausole di stile o frasi apodittiche, ma, adempiendo in modo effettivo al ruolo di controllo che gli compete, evidenzi, con considerazioni proprie, le ragioni per le quali il contenuto dell’atto richiamato sia corretto e condivisibile. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 29 maggio 2018 n. 24183. Misure cautelari - Personali - Provvedimenti - Ordinanza del giudice - Requisiti - Motivazione - Modifiche in tema di motivazione delle ordinanze cautelari apportate dalla legge n. 47 del 2015 - Mancanza di autonoma valutazione da parte del giudice - Violazione di legge processuale - Sussistenza - Conseguenze. In tema di motivazione delle ordinanze cautelari personali, la violazione della prescrizione della necessaria autonoma valutazione, da parte del giudice, delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza, determina una violazione di legge processuale del provvedimento, che legittima la Corte di cassazione a un accesso diretto allo stesso, divenendo essa, in tali casi, giudice del fatto. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 30 novembre 2018 n. 53940. Misure cautelari - Personali - Provvedimenti - Ordinanza del giudice - Requisiti - Motivazione - Legge n. 47 del 2015 - Modifiche in tema di motivazione delle ordinanze cautelari - Requisiti - Motivazione redatta con la tecnica del c.d. copia - Incolla della richiesta del pubblico ministero - Accertamento dell’autonomia della valutazione - Accoglimento parziale di una richiesta cautelare cumulativa - Sufficienza - Ragioni. In tema di motivazione delle ordinanze cautelari personali, la necessità di un’autonoma valutazione da parte del giudice delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza, contenuta nell’art. 292, 1, lett. c), cod. proc. pen., così come modificato dalla l. 16 aprile 2015, n. 47, deve ritenersi assolta quando l’ordinanza, benché redatta con la tecnica del c.d. copia-incolla, accolga la richiesta del P.M. solo per talune imputazioni cautelari ovvero solo per alcuni indagati, in quanto il parziale diniego opposto dal giudice costituisce di per sé indice di una valutazione critica, e non meramente adesiva, della richiesta cautelare, nell’intero complesso delle sue articolazioni interne. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 6 dicembre 2016 n. 51936. Misure cautelari - Personali - Provvedimenti - Ordinanza del giudice - Requisiti - Legge n. 47 del 2015 - Modifiche in tema di motivazione delle ordinanze cautelari - Autonoma valutazione - Requisiti - Utilizzazione delle argomentazioni del pubblico ministero - Ammissibilità - Condizioni - Fattispecie. In tema di motivazione delle ordinanze cautelari personali, la prescrizione della necessaria autonoma valutazione delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza, è osservata anche quando il giudice ripercorra gli elementi oggettivi emersi nel corso delle indagini e segnalati dalla richiesta del pubblico ministero, potendo egli condividere integralmente le argomentazioni del pubblico ministero stesso, purché dia conto, in motivazione, del proprio esame critico dei predetti elementi, e delle ragioni per cui egli li ritenga idonei a supportare l’applicazione della misura. (In motivazione, la S.C. ha tra l’altro escluso che un problema di autonoma valutazione possa porsi rispetto ad altra ordinanza cautelare emessa dallo stesso giudice e divenuta inefficace). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 10 febbraio 2016 n. 5497. Misure cautelari - Personali - Provvedimenti - Ordinanza del giudice - Requisiti - Motivazione - Legge n. 47 del 2015 - Modifiche in tema di motivazione delle ordinanze cautelari - Autonoma valutazione - Requisiti - Motivazione per “relationem” - Ammissibilità - Condizioni. In tema di motivazione delle ordinanze cautelari personali, la prescrizione della necessaria autonoma valutazione delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza, contenuta nell’art. 292, comma primo, lett. c), cod. proc. pen., come modificato dalla legge 16 aprile 2015, n. 47, è osservata anche quando il giudice riporti nella propria ordinanza le acquisizioni e le considerazioni svolte dagli investigatori e dal pubblico ministero, pure mediante il rinvio per “relationem” al provvedimento di richiesta, purché, per ciascuna contestazione e posizione, svolga un effettivo vaglio degli elementi di fatto ritenuti decisivi, senza il ricorso a formule stereotipate, spiegandone la rilevanza ai fini dell’affermazione dei gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari nel caso concreto. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 12 gennaio 2016 n. 840. Piemonte. Cantieri per “over 58” disoccupati e detenuti: al via i progetti ilpiccolo.net, 3 febbraio 2020 L’assessore regionale Chiorino: “Con queste misure la Regione dà anche una grossa mano ai Comuni che hanno sempre più bisogno di personale, oltre che venire incontro alle esigenze di determinate categorie di persone”. Sostenere le persone over 58 alle quali, magari, mancano pochi mesi di contributi per maturare il diritto a percepire la pensione e, nello stesso tempo, favorire concretamente i Comuni che hanno un sempre più bisogno di personale, offrendo anche la possibilità, a chi ha sbagliato e sta pagando la propria pena, di lavorare in modo da acquisire competenze utili per quando tornerà in libertà. Sono 761 le persone disoccupate residenti in Piemonte, con un’età superiore a 58 anni, che presto saranno inserite in cantieri di lavoro della durata di un anno, nel proprio Comune di residenza, grazie a progetti degli Enti locali approvati dalla Regione. Lo stanziamento complessivo da parte della Regione ammonta a 6,138 milioni di euro da spendere in due anni di attività. Possono partecipare a questa misura di politica attiva le persone “over 58”, residenti in Piemonte in modo continuativo da almeno 12 mesi, non occupate e non ancora pensionate, non inserite in un cantiere di lavoro e che non percepiscono alcun ammortizzatore sociale. I progetti approvati sono in totale 206, suddivisi nei quattro ambiti territoriali: per Alessandria-Asti ne sono previsti 41 che occuperanno 130 cantieristi. Le persone inserite nel cantiere percepiranno un’indennità lorda giornaliera di 29,70 euro, per un massimo di 30 ore di lavoro a settimana. L’assegno sarà erogato dall’Inps al lavoratore. I Comuni dovranno coprire le spese per la sicurezza nel luogo di lavoro e le coperture assicurative, e dovranno sostenere i costi degli oneri previdenziali, che saranno poi rimborsati dalla Regione. Il Comune di Alessandria è in graduatoria con i progetti “Mi curo di te - in simbiosi con l’ambiente!” che occuperà 6 persone e “I depositi librari della biblioteca civica Francesca Calvo - Interventi di conservazione preventiva” per il quale sono richiesti 3 cantieristi. Clicca qui per tutti i progetti per over 58. Ammontano invece a 448 mila euro i fondi destinati a 26 progetti presentati da Comuni e Unioni di comuni piemontesi, per realizzare cantieri di lavoro rivolti a persone sottoposte a regime di restrizione della libertà. I progetti prevedono di inserire 72 persone. Gli enti locali titolari di progetto devono mettersi in contatto con l’autorità giudiziaria, che selezionerà i candidati da ammettere al cantiere, siano essi detenuti siano persone che stanno scontando la loro pena all’esterno del carcere. Sono quattro i cantieri che saranno attivati nell’ambito 2, con le province di Alessandria e Asti (Villadeati, Asti, Casale Monferrato, Unione Terre del Tartufo). Clicca qui per i progetti per i detenuti. Ma come possono essere utilizzati i “cantieristi” dai Comuni? I cantieri di lavoro possono essere svolti interventi nell’ambito ambientale (valorizzazione del patrimonio ambientale attraverso attività forestali e vivaistiche, di rimboschimento, di sistemazione montana, di tutela degli assetti idrogeologici; valorizzazione del patrimonio pubblico urbano, extraurbano e rurale, compresa la manutenzione straordinaria), per la salvaguardia dei beni culturali e artistici (attività di salvaguardia, promozione, riordino o recupero di beni librari, archivistici, artistici di interesse storico e culturale), nel settore del turismo (attività presso uffici o sportelli di promozione e informazione turistica di comuni o di altri enti locali, attività di allestimento e custodia di mostre relative a prodotti del territorio organizzate da enti locali) e infine per I servizi di utilità pubblica o sociale, come accudimento delle persone anziane e servizi a favore delle persone con disabilità. Voghera (Pv). La storia di Salvatore, in carcere con un tumore e mai portato in ospedale tp24.it, 3 febbraio 2020 “Mio marito stava male, sempre peggio, eppure non è stato mai portato in ospedale. Dicevano che aveva il fegato ingrossato e lo curavano solo con una dieta specifica, leggera e senza fritture e con della tachipirina, quando c’era. Il medico diceva che le sue non erano condizioni da ricovero in ospedale. Purtroppo mio marito è morto il 2 gennaio 2020, dopo qualche giorno di ricovero all’ospedale di Voghera, dove, mi è stato detto invece che aveva un tumore ed era pieno di metastasi”. Chi parla del calvario del marito e del suo tragico epilogo di appena un mese fa, è la moglie di Salvatore Giordano, 54 anni, palermitano, padre di due figli e nonno di tre nipotini. L’uomo si trovava in carcere da due anni e sei mesi, era stato arrestato a Palermo il 19 luglio del 2017 con l’operazione “Mare Dolce 1”. È stato per quattro mesi rinchiuso in carcere nel capoluogo, poi trasferito a Trani per un mese e poi a Voghera. La moglie era andata a trovarlo l’ultima volta il 13 novembre, poi la condizione fisica è drammaticamente peggiorata a dicembre. “L’ho sentito il 22 dicembre al telefono per la chiamata settimanale - ci racconta la donna. Mio marito dalla voce era molto strano e si percepiva che stava male. Impauriti, io e mio figlio partiamo all’indomani. Arrivati alle porte del carcere di Voghera chiediamo notizie ma non ci danno informazioni, solo dopo vari solleciti e vedendo che non cedevamo ci hanno detto di fare il colloquio l’indomani. Nonostante le mie proteste non c’è stato niente da fare, vado via a dormire a casa di mia sorella e solo allora, in serata, veniamo a sapere che lo hanno portato in ospedale”. La vigilia di Natale i familiari hanno trovato Salvatore Giordano in condizioni devastanti. Non riconosceva nessuno, diceva qualche parole senza senso, magrissimo, pieno di macchie cutanee rosse, con le unghia lunghissime e munito di un pannolino: ha il tumore al fegato di grosse dimensioni con tanto di metastasi. Parlando con un medico dell’ospedale, i familiari hanno appreso che la situazione era già compromessa da diverso tempo e l’aggravamento non era di certo avvenuto nelle poche ore di degenza in ospedale. A quel punto la moglie e il figlio hanno sporto denuncia a carico dell’amministrazione penitenziaria del carcere di Voghera, per eventuali negligenze nella cura. “Abbiamo saputo che mio marito all’interno del carcere veniva aiutato da altri detenuti - continua nel suo racconto la donna - e che questi hanno fatto anche delle proteste, affinché venisse portato in ospedale, ma le richieste dei compagni di carcere non sono mai state ascoltate. Dopo che hanno fatto una tac ci hanno dato conferma del tumore al fegato, abbiamo anche presentato istanza di scarcerazione in quanto non era più idoneo al carcere e ci hanno risposto che doveva vederlo un dottore inviato da Palermo per certificare il tutto, ma che poteva venire a Voghera da giorno 8 gennaio in poi. Purtroppo mio marito è morto il 2 gennaio senza poter essere scarcerato”. La storia di Salvatore Giordano neanche dopo la morte è semplice. Una funzionaria dell’amministrazione penitenziaria dice alla moglie che devono eseguire l’autopsia su corpo del marito. Dopo appena un’ora dalla morte si portano via la salma. “Sembrava una retata - ci dice la moglie - e lo trasferiscono a Pavia”. Il corpo è stato poi consegnato alla famiglia il 13 gennaio, che a proprie spese lo ha poi portato da Pavia fino a Palermo. Ad oggi, nonostante le richieste fatte dall’avvocato della famiglia Giordano, non è ancora avvenuta la consegna della cartella clinica né tantomeno l’esito dell’autopsia. La moglie di Giordano chiede giustizia per suo marito, per i suoi figli e i nipoti per cui Giordano stravedeva. Denuncia anche il fatto che il marito nel periodo detentivo era stato trovato con due ematomi interni, due lividi ai fianchi e alcune strisce nere alle gambe. La vicenda di Giordano è stata denunciata e resa pubblica anche dall’associazione Yairaiha Onlus. “Purtroppo - afferma Sara Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha - la storia di Salvatore Giordano non importerà a nessuno. Non ai responsabili, non alla stragrande maggioranza della società. Era un detenuto, qualcuno che ‘qualcosa aveva fatto per essere lì’, un uomo che per lo Stato non aveva più diritto di essere curato. Importerà alla sua famiglia, a noi e pochi altri. E non ci arrenderemo mai di fronte a questa barbarie; continueremo a lottare anche per lui”. Qualsiasi reato o crimine commesso, non giustifica quello che è accaduto. La vita di ogni uomo deve essere rispettata e tutelata sempre, fuori e dentro ad un carcere. Se così non avviene, se così non è avvenuto nel caso di Salvatore Giordano, qualcosa sicuramente non ha funzionato nelle fondamenta della vita democratica e civile del nostro Paese. Quello alla salute e all’assistenza sanitaria è un diritto fondamentale di tutti gli uomini. Udine. Nasce la “casa” per detenuti con malattie psichiatriche di Giulia Sacchi Messaggero Veneto, 3 febbraio 2020 Partito il cantiere per la costruzione della Rems. Un milione di investimento La struttura prenderà il posto del Centro di salute mentale di via Colle. È partito il cantiere per la costruzione della Rems di via Colle a Maniago, ossia della Casa di cura e custodia per ospitare i detenuti degli ex ospedali psichiatrici giudiziari: sul piatto un milione di euro. Il termine previsto per le opere è il 31 maggio 2021: il Centro di salute mentale sarà demolito e al suo posto troverà spazio la Rems. L’area ubicata nelle vicinanze dell’ospedale è stata transennata e hanno preso il via i primi interventi. Del progetto si parla da almeno cinque anni: il piano ha acceso il dibattito sia politico sia tra i cittadini. Questi ultimi hanno persino indetto una petizione e raccolto 250 firme per dire “no” alla struttura. I timori riguardano la sicurezza del personale che opera all’interno, dei pazienti e dei residenti nella città del coltello. Le Rems sono strutture residenziali con funzioni terapeutico-riabilitative e socio-riabilitative, con permanenza transitoria ed eccezionale: l’internamento, comunque, è applicabile soltanto nei casi in cui siano acquisiti elementi dai quali risulti che è la sola misura idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla pericolosità sociale dell’infermo o seminfermo di mente. Dall’opposizione che sedeva in consiglio durante il precedente mandato di Andrea Carli, della quale oggi è rimasta in assemblea civica solamente Ilia Franzin, era stata avanzata anche la richiesta all’esecutivo di contemplare la possibilità di trovare un’altra ubicazione per la Rems: come nuova location era stata proposta l’area del nuovo carcere di San Vito al Tagliamento. Ma la maggioranza aveva respinto la richiesta di trasferimento. Avallata, invece, l’istanza della minoranza di potenziare la sicurezza, con un incremento delle forze dell’ordine. Questo visti gli episodi registratisi nell’edificio che ospita detenuti degli ex ospedali psichiatrici giudiziari (il primo paziente aveva accusato una crisi e rotto alcuni oggetti). La richiesta di rafforzare la sicurezza era stata formulata dal gruppo Maniago civica (Francesco Busetto, Laura Di Bernardo e Massimiliano Tramontina) e sostenuta da tutta l’opposizione attraverso una mozione discussa in una seduta di consiglio. La minoranza aveva messo in luce che quello della Rems a Maniago è un piano fallimentare, in quanto struttura e ubicazione non sono giusti. Si era parlato di una scelta calata dall’alto, cui l’esecutivo Carli non si è opposto. Al di là delle singole posizioni, l’iter è proseguito e ora si è arrivati al cantiere: le tempistiche, nel 2015, erano parse più strette di quelle che si sono concretizzate, come spesso accade quando si tratta di lavori. In un primo tempo, era stato ipotizzato che le opere sarebbero partite nel 2017. Il nuovo cantiere sarà oggetto di discussione durante gli incontri pubblici che la giunta organizza con la popolazione e che quest’anno arrivano in ritardo rispetto al passato: se ne parla per la primavera Potenza. Giustizia e giustizialismo tra etica e moralismo di Michele Finizio basilicata24.it, 3 febbraio 2020 Riflessioni in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario a Potenza. Possiamo ipotizzare che il giustizialismo sia un prodotto del moralismo. E che per tale ragione la moralità pubblica finisce per avere come riferimento esclusivo il codice penale. Questa condizione, non so quanto sia ipotetica oggi in Italia, determina l’esclusione dell’etica dal discorso pubblico. L’etica in quanto riflessione sui principi morali e studio sulla morale, in quanto speculazione finalizzata a spiegare razionalmente valori e norme, è ormai appannaggio esclusivo di filosofi e sociologi. Eppure - l’etica - dovrebbe essere scaraventata nel discorso pubblico al pari e prima della vulgata sulla morale. A parte ciò, il fatto che la moralità pubblica da un certo punto in poi - forse da tangentopoli - sia stata pantografata sulle norme del codice penale, avrebbe determinato tendenze moralistiche e giustizialiste nella società. Senza dubbio la politica e il potere in quegli anni avevano creato le condizioni affinché queste tendenze si affermassero. A parte le cause, oggi siamo una società che, escludendo l’etica, non ragiona più sulla morale, piuttosto si accomoda sulle norme e sui valori già dati per sempre dal codice penale. In sostanza, una società siffatta non è libera, né democratica, né laica. In questo quadro sociale, certa politica ha, come si dice, inzuppato il pane. La reputazione della magistratura deve la sua ascesa anche a queste condizioni sociali. Tuttavia, di recente gli scandali che hanno colpito settori importanti dell’amministrazione della giustizia, avrebbero scalfito la percezione “mitica” del potere giudiziario. In parte è vero, ma la cronaca è come il vento, dura un giorno e poi finisce nel dimenticatoio. La reazione pubblica a quegli scandali è stata all’istante “giustizialista”, il che vuol dire che anche i giudici sono vittime delle stesse tendenze popolari. Detto questo, stabiliamo che in Italia esiste un senso comune, in alcuni settori della società, che confonde la morale pubblica con il codice penale. Potere e funzione - In verità, non si dovrebbe parlare di “potere giudiziario” ma di “funzione giudiziaria”. Il potere è nelle mani di chi può decidere norme vincolanti per la società (Parlamento) o di chi può esercitare la forza fisica sulle persone (forze dell’ordine e forze militari). I magistrati dovrebbero limitarsi a interpretare e applicare la legge, valutare se ci siano violazioni (reati) e determinare, eventualmente, le sanzioni previste dall’ordinamento. Tuttavia, le cose non stanno proprio così. In quella funzione giudiziaria di interpretazione e applicazione della legge si aprono - a volte o spesso - crepacci di ingiustizia e anche di illegalità legalizzata dalla funzione stessa del magistrato. La funzione diventa potere. Senza fare di tutta l’erba un fascio, questi crepacci sono conseguenza della scarsa qualità professionale di alcuni e raramente sono determinati da una precisa volontà. Quando c’è ignoranza della legge da parte di un magistrato possiamo parlare di esercizio improprio di una funzione che diventa potere - magari inconsapevole - “di vita o di morte” sui cittadini. Quando c’è la volontà di colpire qualcuno, attraverso interpretazioni e applicazioni di norme “a soggetto”, possiamo parlare di esercizio di potere - consapevole - coperto, il più delle volte, dalla macchinosità, dalla lentezza della giustizia, dalla complicità “corporativa” tra magistrati, dalla compiacenza degli avvocati. In alcuni casi, il povero cittadino, è costretto a soccombere perché solo o perché non può affrontare i costi di un procedimento. Nel campo delle aste giudiziarie - di cui ci siamo spesso occupati in questo giornale - certa magistratura non solo esercita un potere arrogante, consapevole, ma lo esercita anche a scopi di arricchimento personale. E gli avvocati seri, cioè coloro che non si piegano davanti alla cattiva applicazione della legge e all’arroganza del giudice, sono costretti a sopravvivere nella via crucis dei procedimenti e a subire gravi ingiustizie. Dunque, nell’amministrazione della giustizia, al pari del comparto sanitario, la qualità del personale è questione di vita o di morte. Qualunque leggerezza nelle procedure di selezione di magistrati e medici è un crimine. L’ipocrisia che copre i problemi - E dunque, sopra ogni ipotesi di riforma del sistema giudiziario, c’è la questione della professionalità, della qualità, dell’onestà professionale e umana, del personale reclutato. E non si tratta solo di competenze tecniche, si tratta di competenze emotive, di etica del lavoro, di responsabilità. La responsabilità è alla base della pretesa di autonomia, non si può essere autonomi se non si è capaci di esercitare la responsabilità. La terzietà e l’imparzialità del giudice non sono dati da un precetto divino, non sono un dogma - come pare alcuni lo interpretino - poiché i giudici sono uomini. Specularmente la questione della qualità attiene anche al personale politico. Una politica mediocre, esercitata da persone che ignorano la complessità dei problemi o che strumentalmente spingono l’approvazione di leggi ad personam, non favorisce una seria riforma della giustizia. Se il confronto tra i “poteri” dello Stato scade in uno scontro tra corporazioni, la strada sarà sempre più in salita. Certo, i problemi della giustizia italiana sono molteplici, complessi, variabilmente gravi: dalla carenza di personale, alla vetustà di mezzi e tecnologie, dalla carenza di risorse all’organizzazione degli uffici, dalle leggi e così via. Ma la qualità, l’onestà, l’etica del lavoro, sono i pilastri di ogni tentativo di riforma. L’inaugurazione dell’anno giudiziario a Potenza - All’inaugurazione dell’anno giudiziario, il 1° febbraio scorso, Patrizia Sinisi, presidente della Corte di Appello di Potenza, ha parlato di giurisdizione “alta” riferendosi al disegno federiciano di giustizia: “una giustizia laica sottratta ai chierici e ai baroni per affidarla a magistrati regi, i maestri giustizieri, ai quali era interdetto l’esercizio del proprio ufficio, peraltro temporaneo, nella provincia d’origine”. Ebbene, parole apprezzabili che aprono un fronte di riflessione molto importante. Bisogna riconoscere che proprio nel tribunale potentino, esercitano - da molti anni - magistrati nati e cresciuti o vissuti nella stessa città che, essendo uomini e donne, non dei dell’Olimpo, corrono il rischio di subire sollecitazioni ambientali e di precarizzare i criteri di imparzialità, terzietà. Questo è un tema che riguarda la qualità delle condizioni di esercizio della funzione. E bene ha fatto l’avvocata Stefania Fiore, intervenendo nell’aula dell’inaugurazione, a sollevare la questione della qualità. A scoprire il velo dell’ipocrisia sull’etica del lavoro sia dei magistrati sia degli avvocati. Bene ha fatto a criticare gli eccessi di alcuni esponenti della magistratura, Piercamillo Davigo compreso, e di alcuni esponenti della politica e del Governo, Bonafede compreso. Bene ha fatto a richiamare gli avvocati che spesso soccombono agli atteggiamenti impropri di alcuni magistrati. Bene ha fatto a respingere le motivazioni di chi vorrebbe addossare all’avvocatura tutta la responsabilità del mal funzionamento della giustizia. Non sono un giurista, né un avvocato, né un esperto di questioni giudiziarie, ma da giornalista e cittadino possono confermare le criticità sollevate da Stefania Fiore. Un magistrato che fissa un’udienza alle 9 e si presenta alle 13 dovrebbe chiedere scusa. Un magistrato che non legge le carte del processo o che non riceve gli avvocati dovrebbe fare un altro mestiere. Un magistrato che copre l’altro senza fondato motivo o che usa le procedure a sua immagine e somiglianza, dovrebbe essere allontanato. Un giudice che manda in galera un innocente, deve pagare il prezzo dell’errore. E gli avvocati che si piegano ad ogni “abuso” o leggerezza del magistrato per paura di conseguenze sulla propria causa, dovrebbero assumere un briciolo di coraggio. Gli avvocati che si vendono le cause ingannando chi gli ha dato la fiducia, andrebbero radiati. Perché se è così che funziona non c’è riforma che tenga. Se è così che funziona, i cittadini sono ogni giorno in pericolo. Per fortuna non funziona sempre così. Certo la magistratura non va attaccata, né deve mettersi nelle condizioni di essere attaccata. Tuttavia può essere criticata, anzi deve essere ragionevolmente criticata. Politica, magistratura, avvocatura, sono sfere che devono confrontarsi e dialogare per rappresentare degnamente le istituzioni democratiche e garantirne il funzionamento, tutelare lo stato di diritto e preservare i fondamenti della nostra civiltà giuridica. Guai a trasformare tutto in un conflitto tra corporazioni. Nuoro. Dal carcere un assegno per Federica di Mauro Tedde La Nuova Sardegna, 3 febbraio 2020 Detenuto dona la sua borsa di studio all’alunna autistica rimasta senza sostegno a scuola. La commozione della madre: “Servirà per acquistare materiale didattico”. Hanno tifato per lei, Federica, la ragazza autistica che lo scorso ottobre la madre aveva ritirato dalla scuola perché non aveva insegnante di sostegno. Dal carcere di Nuoro i detenuti hanno seguito la sua storia e i suoi sviluppi. Ma uno di loro ha voluto fare qualcosa di più per la studentessa sassarese e per i ragazzi come lei che frequentano le scuole spesso affrontando disagi e sacrifici: ha donato a Federica l’assegno della borsa di studio che ha ottenuto nel penitenziario perché la somma possa essere impiegata nell’acquisto di materiale didattico, che nelle scuole non è mai sufficiente. Un gesto che va al di là della cifra, contenuta, ma pur sempre grande, che il detenuto ha messo a disposizione. Perché significa vicinanza verso chi ha bisogno di aiuto. Lui, chiuso tra le sbarre, ha voluto dare un piccolo contributo perché una malattia può diventare una prigione se ai ragazzi “speciali” mancano piccole cose. Una dimostrazione di buon cuore che ha commosso Rita Masia, la battagliera madre di Federica, che ha pensato di renderlo noto per ringraziare pubblicamente il generoso detenuto. “Non mi sarei mai aspettata tanta solidarietà verso i problemi di mia figlia - racconta Rita Masia - e sono grata per l’attenzione. So che la battaglia che abbiamo condotto perché potesse frequentare regolarmente le lezioni dall’inizio dell’anno scolastico, come i suoi compagni di classe, ha coinvolto emotivamente molti ospiti del carcere di Nuoro. E che il detenuto sta sensibilizzando i suoi compagni per avviare una raccolta da destinare ad altri ragazzi che si trovano in condizioni simili a quelle di Federica”. “La somma ricevuta - continua la mamma di Federica - la utilizzerò per acquistare, d’accordo con le insegnanti e il Liceo artistico Figari, materiale che possa servire nei laboratori frequentati dagli alunni. Da pennarelli a tessuti, di cui si fa uso per l’attività didattica e che non bastano mai”. Intanto Federica, che nei giorni scorsi ha compiuto vent’anni, sta frequentando con interesse ed entusiasmo la scuola, coltivando la sua passione per la moda. “Da poco ha realizzato una gonna per me nel laboratorio che ora, grazie alla nomina degli insegnanti di sostegno, può frequentare anche al pomeriggio”, sorride con orgoglio la madre. Roma. Visita della Segreteria di Stato vaticana ai detenuti del Regina Coeli vaticannews.va, 3 febbraio 2020 Al carcere Regina Coeli di Roma, celebrazione eucaristica coi detenuti. Consegnati la solidarietà raccolta dal personale dell’istituzione vaticana in occasione del Natale, destinata ai più indigenti, e dei rosari benedetti dal Papa. Ieri mattina un gruppo della Segreteria di Stato si è recato al carcere Regina Coeli in Roma, per condividere l’Eucarestia domenicale con i detenuti e consegnare il frutto della solidarietà raccolta dal personale dell’istituzione vaticana nel tempo di Avvento e di Natale a favore dei più indigenti. Lo comunica il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni. Promozione umana - Al termine della celebrazione, caratterizzata dalla preghiera dei fedeli in diverse lingue, proclamata dagli Officiali delle sezioni linguistiche, dopo un breve saluto ai detenuti, i visitatori si sono recati anche presso la sede della Vo.Re.Co, l’Associazione di volontariato gestita dai Frati Minori Conventuali, che opera nel territorio per la promozione umana e cristiana a favore di detenuti, ex detenuti ed emarginati della società. Rosari benedetti dal Papa - Prima di rientrare in Vaticano, sono stati consegnati al cappellano del carcere, padre Vittorio Trani, dei rosari benedetti da Papa Francesco, ricevuti durante il viaggio Apostolico in Tailandia e destinati ai più bisognosi. Nella mente del criminologo. “Il diavolo mi accarezza i capelli”, di Adolfo Ceretti di Gad Lerner repubblica.it, 3 febbraio 2020 Adolfo Ceretti raccoglie in un libro il “male” che ha studiato tutta la vita. Dai delitti italiani da prima pagina agli esperimenti di giustizia riparativa. “Ceretti, avevi ragione, non era una cazzata quella che mi avevi proposto. Ne valeva la pena”. Se dopo quarantasette anni trascorsi dietro le sbarre il celebre bandito Renato Vallanzasca si rivolge così al criminologo che l’ha convinto a incontrarsi con una delle sue vittime, vuol dire che davvero la giustizia riparativa, che aspira alla ricomposizione dei punti di vista senza pretesa né di perdono né di penitenza, può aprire uno squarcio di consapevolezza. Tant’è che Vallanzasca - non chiamatelo “il bel René” se no davvero s’incazza - accomiatandosi da Adolfo Ceretti dismette la sua corazza di seduttore e confida: “Ho deciso di stare al mondo perché voglio uscire di qui prima di morire”. Potrei continuare a raccontarvi quali siano le regole impulsive a cui s’è ispirata tutta la vita del bandito della Comasina, cominciando dalla pessima idea di quei tre giovani milanesi che con la loro utilitaria gli soffiarono il posto in cui stava parcheggiando l’auto sportiva (rubata) per andare al cinema con la ragazza. Ma questo è solo un capitolo fra i tanti delle memorie di un criminologo che non cerca effetti speciali, non si esibisce nei talk, ma aspira a “trovare un posto al disordine”. Confrontandosi con il male che è dentro di lui, per entrare in sintonia col male che ha spinto altri a diventare violenti. Vastissimo è l’orizzonte delle esperienze sentimentali e scientifiche che rendono questo libro un unicum affascinante. Ci sono i casi più noti della cronaca nera italiana - da Erika e Omar ai satanisti di Lecco fino al killer della Uno Bianca, Alberto Savi - ma anche i protagonisti della mediazione fra vittime e carnefici del dopo apartheid in Sudafrica; ci sono i mafiosi, e i brigatisti rossi che accettano il confronto con i congiunti degli innocenti presi a bersaglio, per poi addentrarci nelle favelas brasiliane e nella bolgia infernale delle carceri boliviane. Senza falsa modestia, Ceretti si descrive tra i criminologi che “non solo in Italia, più si occupano di cose concrete, del cuore, dell’anima delle persone, pur senza aver mai perso il mio interesse verso la costruzione di ipotesi teoriche”. Chi lo conosce sa quanto sia timido e schivo, ma la sua autorevolezza di ricercatore nei territori inesplorati della giustizia riparativa spazia ormai su almeno tre continenti. Cosa sarà mai questa giustizia riparativa? Per spiegarlo non trovo di meglio che descrivere la mattinata che pochi anni or sono ho avuto modo di vivere, grazie a un suo invito, nella palestra del carcere Due Palazzi di Padova, dove si erano radunati centinaia di detenuti condannati definitivi per reati gravi, spesso in regime di massima sicurezza, con i loro parenti. Difficile trattenere le lacrime mentre, uno dopo l’altro, gli ergastolani salivano a rilasciare la loro testimonianza accanto ai figli che per anni il vetro antiproiettile gli aveva proibito anche solo di tenere per mano. E riconoscevano come fossero stati proprio quei ragazzi a farli desistere dal codice ottuso e violento della criminalità, per tentare di recuperare l’umanità e l’affettività perdute. Dietro c’è un lavoro improbo, soggetto a fallimenti ma prezioso, per arrivare a dirsi - “in uno spazio di parola protetto dai mediatori” - “il lampo e il temporale causati dall’offesa altrui” che li aveva inferociti. Possibile “punto di svolta per ritrovare un’immagine di sé meno opaca e negativa”. Il titolo del libro, “Il diavolo mi accarezza i capelli”, scaturisce proprio da un drammatico confronto fra due detenuti in lite, giunti a promettersi la morte: “Professo’, ogni sera, prima che io mi addormenti, il diavolo viene e mi accarezza i capelli”. Per esplorare i meandri interiori del male che genera violenza, Ceretti compie la scelta più audace: guarda dentro di sé. Perché anche a lui, anche a noi, nella vita succede che il diavolo accarezzi i capelli. Ecco dunque la ferita di un padre che cade in depressione e smette di parlare quando Adolfo è ancora adolescente. La madre con cui fatica a comunicare e che legge di nascosto il biglietto infilato da Adolfo nella tasca di papà prima che ne venga chiusa la bara. E ancora l’identificazione nella fragilità di una nipote, il buco nero dei malesseri che lo assalgono sotto forma di una sindrome chiamata post viral fatigue. L’umiltà con cui affronta questa fatica introspettiva gli consente un approccio alla dimensione criminale davvero inedito. Ne trae alimento anche la ricerca teorica che lo fa entrare in relazione con i colleghi impegnati a livello internazionale in questa nuova branca del diritto. Dove la letteratura, il cinema, la poesia e le arti figurative - che arricchiscono il racconto immaginifico di questo libro - lo aiutano a oltrepassare i limiti angusti della criminologia clinica ereditata da Cesare Lombroso. Lo avevano intuito i Maestri cui Ceretti rende omaggio con la maiuscola e con ritratti affettuosi. Il primo è Giandomenico Pisapia, estensore del nostro Codice di procedura penale, che, scegliendolo come assistente, lo definiva “l’ultimo puledrino della mia scuderia”. Il secondo è stato il magistrato Guido Galli, ucciso con tre colpi di pistola davanti a un’aula dell’Università Statale di Milano nel 1980 da un commando di Prima Linea. Farà molta fatica, Adolfo Ceretti, a accettare una relazione personale con l’autore di quell’omicidio: Sergio Segio. Solo dopo diversi incontri col “nemico” troverà il modo di dirgli, durante una cena, quale ferita ha inferto pure a lui. Ma riunendo con pazienza, per anni, un gruppo di lavoro basato nel Centro San Fedele di Milano, si realizzerà lo straordinario “Libro dell’incontro”, opera collettiva, insieme, di vittime e responsabili della lotta armata. Quanto sia stato difficile, può intuirlo chi si è appassionato nella lettura del romanzo Patria di Fernando Aramburu. Ma questo non è un romanzo. E le incomprensioni non sono mancate, ad esempio nel febbraio 2016, quando la Scuola superiore della magistratura ha rifiutato di ospitare un loro intervento. La giustizia riparativa, che cerca di soddisfare il bisogno di comprensione senza offrire in cambio premi o sanzioni, è solo ai suoi primi passi. Deve fare i conti con la propagazione della paura che diventa passione collettiva e orienta le mentalità. Al centro dell’esperienza di vita di Adolfo Ceretti resta sempre la fisicità e la vulnerabilità dei corpi, che lo spinge all’interpretazione e nei modi più diversi lo turba. Era ancora giovanissimo quando giunto a Londra, ospite di un amico prezioso come Claudio Abbado, s’imbucò in una festa della rockstar Boy George; per darsi alla fuga quando i partecipanti, in uno sballo collettivo, cominciarono a denudarsi. Quale estrema diversità dai corpi tatuati degli adolescenti “in conflitto con la legge” ammucchiati l’uno sull’altro a migliaia dentro la prigione di Palmasola a Santa Cruz di Bolivia. Eppure è in quella dimensione feroce e selvaggia che il criminologo in cerca di riparazione deve saper immergersi. Si muore di pacchia in Italia, il Paese indifferente agli “invisibili” recensione di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 3 febbraio 2020 “La pacchia. Vita di Soumaila Sacko, nato in Mali, ucciso in Italia”, di Bianca Stancanelli, Zolfo Editore. L’inchiesta della giornalista Bianca Stancanelli su Soumaila Sacko l’immigrato ucciso nel 2018 in Calabria. Niente luce né acqua, solo baracche, tende sfondate e una barriera di immondizia per recinzione. Dopo la fuga dal Mali e la paura, il mare e ancora altra paura, una vita randagia a raccogliere arance per un euro e venti a cassa, eccola, è questa l’ultima “pacchia” di Soumaila Sacko prima di venire ammazzato come selvaggina, con una fucilata alla testa. Poche espressioni, nella nostra recente storia politica, si sono rivelate più inappropriate e, col senno di poi, più intollerabili di questa usata da Matteo Salvini in un comizio a Vicenza contro gli immigrati. È il 2 giugno 2018, festa della Repubblica, e il neoministro degli Interni proclama ai suoi che per i “clandestini la pacchia è finita”. Ottocento chilometri più a Sud, proprio in quei momenti, Soumaila si sta giocando la vita nell’azzardo (imperdonabile, per i suoi assassini) di raccattare qualche lamiera d’una fabbrica abbandonata per costruire una baracca un po’ più resistente agli incendi che spesso divampano nel campo dei migranti a San Ferdinando, piana di Gioia Tauro, Calabria. In verità non è un clandestino (un anno prima ha ottenuto la protezione umanitaria, la tutela che poi Salvini cancellerà): però sopravvive come se lo fosse, fantasma fra i tanti che, per pigrizia, chiamiamo “invisibili”, ma incrociamo sotto i nostri occhi ogni giorno, in quella doppia realtà dei “luoghi di transito” e di “incampamento” che assai bene ha descritto Michel Agier. Senza forzature, mettendo uno accanto all’altro fatti e dichiarazioni come si usa nei grandi reportage, Bianca Stancanelli costruisce così il suo La pacchia (Zolfo Editore) con il passo dell’inviata di inchiesta (acquisito in palestre di indagine giornalistica come “L’Ora” di Palermo e “Panorama”) e con l’indignazione di un j’accuse: non solo e non tanto contro l’inventore politico dell’assai infelice formula ma, a guardar bene, contro molti di noi, forse noi tutti, che assistiamo indifferenti (nell’accezione gramsciana della parola, dunque peggiore) alla quotidiana violazione dei diritti, alla continua dissipazione di risorse e di speranze che la nostra pessima accoglienza condita dalla nostra cattiva coscienza apparecchia senza sosta sul palcoscenico dell’immigrazione. Questo scempio, che troppo spesso nei nostri giornali riduciamo a statistiche sugli sbarchi, è sotto i nostri occhi. Eppure, il mistero di Soumaila Sacko resta in parte intatto perché poco, della vita di un migrante, ci viene restituito dal percorso dell’accoglienza: lacerti di informazione, registri smozzicati, memoria perduta, identità cancellate. Stancanelli, tuttavia, anche usando questi vuoti, ci rende la pienezza di un’ingiustizia: in due anni precisi, dallo sbarco del giugno 2014 a Taranto dopo il salvataggio sulla nave “Etna”, all’ingresso nella baraccopoli di San Ferdinando nel giugno 2016, Soumaila passa da una condizione di soggetto da proteggere a quell’area grigia di lavoro irregolare e di sfruttamento tollerato che rende tutti un po’ “clandestini” e dunque titolari di quella pacchia evocata dal capo della Lega. Una pacchia fatta di fatica sottopagata senza la quale la nostra filiera agricola, devastata nei prezzi dalla grande distribuzione, sarebbe già da un pezzo spazzata via: anche questo è sotto i nostri occhi, anche questo viene derubricato in una dimensione di ineluttabile folclore storico-politico (i migranti, si sa, riempiono al tempo della raccolta le campagne nelle quali gente come Peppino Di Vittorio si batté per la dignità e il valore di un lavoro che, si sa, ha di nuovo perso dignità e valore…). Insomma, Soumaila in questo libro diventa la dolente chiave d’accesso nei molti mondi storti che un migrante deve attraversare in Italia dal giorno del suo arrivo. Lo aveva capito benissimo Jerry Masslo, il primo di cui infine ci accorgemmo, scappato dall’apartheid del regime di Pretoria per finire ammazzato a Villa Literno nel 1989. “Nessun sudafricano dimentica il razzismo e io l’ho visto qui in Italia, coi miei occhi ho visto qui cose che non dovrebbero accadere”, disse profeticamente ai microfoni di Non Solo Nero, Raidue, poco prima di venire ucciso. Eppure, quella che a Jerry apparve già un’Italia ingiusta, era un Paese che sapeva ancora indignarsi, non sprovvisto di anticorpi: in 200 mila marciarono a Roma in sua memoria, l’allora vicepresidente del Consiglio, Claudio Martelli, fu in prima fila alle esequie solenni tenute in una Villa Literno che rifiutava la patente di razzista perché la parola “razzista” era ancora vissuta come un insulto. Bianca Stancanelli ci racconta oggi un’Italia feroce che rivendica la propria ferocia, distante da quella molti anni luce. E dunque strappare la vita di Soumaila alla sua invisibilità e impedire che l’oblio ne avvolga la morte è, prima che un corretto lavoro giornalistico, una piccola opera di civiltà. Quella vergogna libica. Il patto sui migranti rinnovato senza modifiche di Luigi Manconi La Repubblica, 3 febbraio 2020 Il più recente grido di allarme è quello lanciato dal Commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, giusto tre giorni fa: “L’Italia deve sospendere la cooperazione con la guardia costiera libica almeno fino a quando quest’ultima non possa assicurare il rispetto dei diritti umani”. Non so dire, di conseguenza, se suoni più beffarda o più sinistra la coincidenza di questo così drammatico monito con il rinnovo automatico del Memorandum tra Italia e Libia, scattato esattamente ieri a tre anni dalla sua stipula. Entro il 2 novembre scorso il governo italiano avrebbe dovuto decidere se rinnovare l’intesa, come previsto dall’articolo 8 dello stesso testo. E così ha scelto di fare, senza una significativa discussione pubblica e una ratifica parlamentare. Certo, in base all’articolo 7 del Memorandum l’Italia si riserva di apportare alcune modifiche durante il periodo di validità: e, tuttavia, le premesse sono decisamente negative. Proprio a partire da un bilancio nudo e crudo degli effetti che l’accordo Italia-Libia ha prodotto finora. Da quel febbraio del 2017 a oggi, secondo i dati dell’Ispi, circa 40.000 persone sono state intercettate in mare e riportate indietro dalla guardia costiera libica, finanziata dall’Italia e addestrata dai nostri corpi militari. Sappiamo inoltre che in questi tre anni una nave della marina italiana, ormeggiata nel porto di Tripoli, ha svolto in pratica funzioni di coordinamento per gli interventi nelle acque territoriali di competenza libica. Ciò a causa dell’evidente incapacità del governo nazionale di Serraj di assicurare in proprio alcun tipo di controllo e monitoraggio e, tantomeno, di intervento di soccorso in caso di imbarcazioni in pericolo. Altro dato: in quel tratto di Mediterraneo, secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, Unhcr, vengono stimate in circa 5.000 le vittime in quello stesso periodo. Ma questo bilancio non si ferma alla dolente contabilità dei morti in mare. Ormai centinaia sono le testimonianze, le immagini e le parole riportate da inchieste giornalistiche, da rapporti di organizzazioni come lo stesso Unhcr e l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) e di altri organismi indipendenti. Documenti che raccontano l’orrore dei campi di detenzione, istituzionali e non, dove vengono rinchiusi i migranti intercettati nel Mediterraneo. Uomini, donne e bambini sottoposti a violenze sistematiche, all’interno di strutture gestite da corpi militari e milizie, in combutta con le gang che organizzano la tratta di esseri umani. Grazie a un intelligente giornalista di Avvenire, Nello Scavo, abbiamo appreso che Bija, un importante organizzatore di quel traffico, è stato “ospite” del governo italiano per un periodo di formazione nel nostro Paese al fine di apprendere la capacità di gestire i centri di detenzione “nel rispetto dei diritti umani”. In questi anni abbiamo ascoltato i successivi governi italiani promettere “il massimo impegno” per migliorare le condizioni di vita in quei campi e per garantire la tutela dei diritti fondamentali dei reclusi attraverso la collaborazione con le organizzazioni umanitarie internazionali presenti in Libia. Si è omesso di ricordare, tuttavia, le enormi difficoltà denunciate da Unhcr e Oim a proposito dell’agibilità di quel contesto, ormai fuori controllo e teatro di una guerra civile che non sembra destinata a concludersi. Al contrario. Oggi sono rarissimi i luoghi accessibili al personale umanitario, minima la possibilità di intervento, poche migliaia le persone bisognose di protezione trasferite in Paesi sicuri: fino alla decisione dell’Unhcr di sospendere le attività del centro di transito di Tripoli, annunciata pochi giorni fa. È questo il quadro in cui il nostro governo, con una imperturbabilità che offende il buon senso e i valori consacrati dalla Carta costituzionale e dalle Convenzioni internazionali, asseconda l’automatismo di un rinnovo del Memorandum Italia-Libia, che non sembra nemmeno in grado di ottenere il minimo effetto pratico: quello della riduzione delle partenze e degli sbarchi nel nostro Paese. E che sembra realizzato, all’opposto, per affidare ai diversi attori che pretendono di rappresentare la Libia un formidabile strumento di pressione e, diciamolo, di ricatto nei confronti dell’Italia e dell’Europa. C’è da chiedersi: dov’è quella “discontinuità” che avrebbe dovuto segnare la vita del nuovo governo? Amnesty: “L’Italia si conferma complice nella tortura dei migranti e dei rifugiati” La Repubblica, 3 febbraio 2020 L’accordo “blocca-immigrati”: il testo del “Memorandum” con il Paese africano rimane così com’è, nonostante gli impegni per cambiarlo. “Il governo italiano ignora le violenze inflitte a migliaia di persone. Ieri, 2 febbraio, tre anni dopo la firma, il Memorandum d’intesa sulla migrazione tra Italia e Libia è stato rinnovato per altri tre anni senza modifiche. L’accordo prevede che l’Italia aiuti le autorità marittime della Libia a fermare imbarcazioni in mare e a riportare le persone a bordo nei centri di detenzione libici, dove queste sono trattenute illegalmente e subiscono gravi violenze, tra cui stupri e torture. “Nei primi tre anni dalla firma dell’accordo - ha detto Marie Struthers, direttrice di Amnesty International per l’Europa. - almeno 40.000 persone, tra cui migliaia di minori, sono state intercettate in mare, riportate in Libia e sottoposte a sofferenze inimmaginabili. Solo questo mese, sono state intercettate 947 persone”. Una scelta che va oltre possibile comprensione. “Va oltre ogni comprensione - ha ggiunto Marie Struthers - il fatto che, nonostante le prove delle sofferenze causate da questo orribile accordo e a dispetto dell’escalation del conflitto in Libia, l’Italia sia pronta a rinnovare il memorandum. Invece, l’Italia dovrebbe pretendere dalla Libia il rilascio di tutti i migranti e i rifugiati che si trovano nei centri di detenzione e la chiusura di questi centri una volta per tutte”. I migranti e i richiedenti asilo trattenuti nei centri libici sono soggetti a terribili condizioni di detenzione, in sovraffollamento, e rischiano gravi violenze, tra cui stupri e torture. Per di più, le loro vite sono messe in pericolo dall’aumento dell’intensità del conflitto. L’Unhcr sospende ogni attività. Il 30 gennaio l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, Filippo Grandi, ha annunciato la sospensione delle attività del suo centro di transito di Tripoli, aperto appena un anno fa, a causa dei timori per la sicurezza e la protezione delle persone ospitate nella struttura, del suo staff e dei suoi partner. Il Memorandum d’intesa è stato sottoscritto il 2 febbraio 2017 per impedire ai migranti e ai rifugiati di raggiungere le coste italiane, trattenendoli in Libia. L’Italia ha accettato di addestrare ed equipaggiare la guardia costiera e altre autorità libiche, collaborando con esse a raggiungere l’obiettivo di intercettare persone in mare e riportarle in Libia. Il testo dell’accordo resterà così com’è. Nel novembre 2019 il governo italiano ha deciso di rinnovare l’accordo. Inizialmente, le autorità italiane si erano impegnate a negoziare dei cambiamenti al testo nell’ottica di una maggiore attenzione ai diritti umani dei migranti e dei rifugiati trattenuti in Libia, ma al momento del rinnovo il negoziato è ancora in corso e pertanto il memorandum verrà prorogato nella sua formulazione originaria. “Decine di migliaia di rifugiati e migranti sono intrappolati in una zona di guerra. Coloro che cercano di fuggire via mare rischiano di essere intercettati e riportati nei centri di detenzione. Collaborando a fermare le persone in mare e a trattenerle in Libia, l’Italia si è resa responsabile di questa situazione”, ha commentato Struthers. Morte di Enukidze, Sardine Fvg: “No al Cpr, né qui né altrove. Abolire decreto sicurezza” triesteallnews.it, 3 febbraio 2020 “La morte di Vakhtang Enukidze, un uomo georgiano di 38 anni, detenuto amministrativo nel Centro per il rimpatrio di Gradisca di Isonzo, non è un caso isolato: a Caltanissetta un altro cittadino straniero di 34 anni è morto all’interno del CPR, mentre a Potenza è stata aperta un’indagine per la somministrazione abusiva di farmaci agli ospiti del centro”. Fanno così sentire la loro voce le Sardine del Friuli Venezia Giulia, che affidano le loro parole alla stampa attraverso un comunicato. “Queste strutture vanno chiuse e vanno chiuse subito e contestualmente va chiesta a gran voce ‘verità e giustizià per Vakhtang e per tutte le persone all’interno di queste strutture che, di fatto, sono dei ‘non luoghi’, sono istituzioni di esclusione e di violenza, che altro non sono che istituzioni totali, in cui i ‘detenuti amministrativi’ vengono privati anche dei loro diritti da detenuti”. “Le strutture”, proseguono le Sardine in merito ai CPR, “risultano essere completamente impermeabili dall’esterno, la cui impermeabilità premette a tutti gli effetti una piena violazione dei diritti umani, come se oltre quel muro esistesse uno Stato nello Stato, un luogo in cui i diritti umani possano essere sospesi e le convenzioni internazionali, ratificate dal nostro paese, perdano il loro valore assoluto. Le persone credono che nei Cpr vi siano dei delinquenti, in realtà, in queste strutture finisce chiunque veda revocato il proprio permesso di soggiorno come badanti e lavoratori che non hanno più trovato occupazione o chiunque veda respinta la propria richiesta di protezione, sempre più difficile da ottenere da quando i decreti sicurezza hanno eliminato la protezione umanitaria. Le sardine del Friuli Venezia Giulia, intendono mantenere viva l’attenzione su questo tema e chiedono: che il Governo disponga la chiusura immediata di queste ‘Istituzioni totali’, e contestualmente si attivi per l’abrogazione dei Decreti sicurezza; che nel frattempo venga istituita una Commissione Parlamentare di vigilanza sia per il caso di Vakhtang, sia per tutti gli altri casi menzionati, attribuendo alla stessa anche il dovere di vigilare sulle condizioni di vita all’interno delle strutture. Inoltre, che i Cpr vengano resi permeabili, consentendo alle associazioni che si muovono in tutela dei Diritti Umani di entrare nei diversi centri italiani per vigilare sulle condizioni di vita e di salute delle persone all’interno. E che l’amministrazione regionale blocchi l’apertura, già prevista, degli altri 4 centri regionali. Contestualmente le sardine del Fvg intendono promuovere e affiancare campagne nazionali per chiedere con forza e fermezza la chiusura definitiva di queste strutture dello Stato, non degne di un Paese democratico”. Le droghe da adolescenti. “Con l’eroina si inizia a 15 anni” di Gianni Santucci Corriere della Sera, 3 febbraio 2020 “Il percorso della dipendenza oggi è brevissimo”. “Il percorso, fino a qualche anno fa, nella maggioranza dei casi, era più graduale, dilatato, distribuito su un periodo più lungo, di qualche anno, almeno quattro o cinque. Ora s’è appiattito. Ha tempi strettissimi”. E non è quasi neppure più un percorso, spesso è un solo passaggio, un salto: canne, cocaina; canne, eroina. Come la ragazzina (nella storia in questa pagina) che ha fumato cannabis alle scuole medie e in prima superiore, su proposta di una compagna, un giorno ha iniziato con l’eroina. A 15 anni era già una “tossica”. A San Patrignano la casa verniciata di color mattone, con le tegole sulle tettoie, sta adagiata tra gli alberi di ulivo. Ora gli operai stanno lavorando. Sarà divisa, ingrandita. È la casa dei ragazzi giovani. I minorenni. Oggi sono in dodici. Entro l’estate raddoppieranno i posti: questa è l’esigenza, e se accade nella comunità di recupero più grande d’Europa vuol dire che là fuori, nelle strade, qualcosa sta cambiando. Cosa? “Un uso precocissimo delle sostanze più “pesanti”“, riflette Antonio Boschini, responsabile terapeutico della comunità. Dalle 1.596 overdose mortali del 1996, i morti per droga in Italia erano scesi di anno in anno, un calo costante, fino ai 268 del 2016. Poi hanno ripreso a salire: 294 nel 2017, 334 nel 2018 (i dati sul 2019 saranno disponibili tra qualche settimana). L’aumento è collegato alla ripresa del consumo di eroina. La più recente ricerca dell’Istituto di fisiologia clinica del Cnr stima che 28 mila studenti abbiano consumato eroina almeno una volta nel 2018. Ma le statistiche raccontano solo una parte di un disastro sociale in incubazione. Per capire dove siamo oggi, bisogna guardare al passato. Antonio Boschini la storia la conosce fin dall’inizio: “Da metà anni Settanta e per tutti gli Ottanta c’era una sorta di “Rogoredo diffusa” in ogni parte d’Italia; una generazione è stata decimata dalle overdose e dalle malattie collegate all’uso di eroina. L’effetto della droga si vedeva nella trasformazione fisica dei ragazzi in strada; esistevano il bianco e il nero, il drogato e il normale, mille morti all’anno d’eroina per quasi un decennio, negli anni Novanta”. In quell’epoca, a San Patrignano, entravano solo ragazzi con dipendenza da eroina. Poi lentamente il consumo di droga è cambiato e quasi per una ventina d’anni i percorsi si sono in qualche modo stabilizzati, storie sempre uguali nella loro scansione, anche se si dividevano “a metà tra dipendenze da eroina e cocaina”, riflette Boschini. “Grosso modo tutti i ragazzi entrati a San Patrignano in quel periodo avevano usato cannabis fin quasi ai 15 anni, poi facevano qualche anno con le droghe sintetiche, nei rave o nelle discoteche, a seconda delle tendenze sociali, e l’approccio con le droghe più pesanti avveniva intorno ai 18-19 anni: in media arrivavano da noi a 27-28 anni, con dipendenze da eroina e cocaina strutturate su un percorso piuttosto dilatato”. Solo se si tiene presente questo quadro si riesce a comprendere il “passaggio successivo, molto recente: abbiamo ingressi di ragazzi molto giovani, per decreto di un giudice più che per una loro decisione; raccontano, e vediamo, che quel percorso graduale è scomparso, si è appiattito, il passaggio cannabis-eroina avviene molto rapidamente, prima dei 15 anni; anche chi entra ora a San Patrignano per scelta, dopo i vent’anni, riferisce esperienze analoghe. Sembra di essere tornati un po’ indietro, ragazzini giovanissimi che non hanno anticorpi e non hanno paure, non vedono il pericolo Hiv, si catapultano subito in una condizione ad alto rischio di dipendenza gravissima, prostituzione, overdose”. Una forte vulnerabilità al dolore psicologico, allo stress emotivo, “nel momento critico dei 12-14 anni”. Anche le ragazze minorenni ospitate a San Patrignano oggi sono in dodici. Prima o poi serviranno più spazi anche per le giovani donne. Siria. La guerra dimenticata infuria ancora di Michele Farina Corriere della Sera, 3 febbraio 2020 Quando il mondo guarda altrove i conflitti accelerano. E accelerano tanto più quanto i vincitori sentono l’odore della vittoria finale. Duecento bombardamenti in tre giorni, 700 mila rifugiati che si ritrovano di nuovo in fuga, cento morti in due settimane, undici vittime nell’attacco che gli aerei governativi appoggiati dai russi hanno scatenato su due costruzioni vicine e potete immaginare quanto strategiche: un pronto soccorso e una panetteria, come dire i vivi e i feriti, chi sfama e chi cura. Dopo nove anni di guerra, il campionario degli orrori siriani ci strappa ancora un lamento di stupore e costringe civili stremati all’ennesimo esodo senza meta. Il cerchio del vincitore Bashar al-Assad si stringe sulla regione di Idlib, ultima roccaforte dell’opposizione, dove il tentativo di cessate il fuoco datato 12 gennaio non è mai stato rispettato. Le milizie di Hayat Tahrir al-Sham (Hts), locali detentori del marchio Al Qaeda, guidano la lotta contro l’esercito, e questo basta a Damasco e Mosca per giustificare l’offensiva che vede 3 milioni di civili in prima linea. A 33 chilometri dal centro di Idlib è caduta Marat al-Numan, nodo importante sull’autostrada tra la capitale e Aleppo. Chi può, scappa. Chi ce l’ha, vende anche l’armadio per pagarsi un passaggio verso nord. È l’inviato speciale americano per la Siria James Jeffrey a denunciare i duecento attacchi in tre giorni. Il presidente turco Erdogan minaccia un intervento diretto contro i soldati di Assad “per salvare la popolazione”. Sia Washington che Ankara sono tra gli attori della tragedia siriana, che fin dall’inizio ha devastato i civili, causando mezzo milioni di morti. Accade spesso: quando il mondo guarda altrove (per esempio mentre impazza la febbre da coronavirus), i conflitti accelerano. E accelerano tanto più quanto i vincitori sentono l’odore della vittoria finale. Sono i momenti peggiori (e più dimenticati) di una guerra. Per ospedali e panetterie, i feriti e gli scampati, chi cura e chi scappa. Venezuela. Il “febbraio ribelle” per la dignità dei popoli di Geraldina Colotti lantidiplomatico.it, 3 febbraio 2020 Nell’aula magna del Tribunal Supremo de Justicia ci sono tutte le massime autorità dello stato bolivariano, riunite in sessione solenne per l’apertura dell’anno giudiziario. Sono presenti le alte cariche dei cinque poteri di cui dispone la repubblica - legislativo, esecutivo, giudiziario, morale (o cittadino) e elettorale -, più i rappresentanti del massimo organo plenipotenziario, l’Assemblea Nazionale Costituente, votata da oltre 8 milioni di cittadini il 30 luglio del 2017: il presidente, Diosdado Cabello, e le due vicepresidenti, Tania Diaz e Gladys Requena. Gli interventi del presidente del Tsj, Maikel Moreno, e di Yván Darío Bastardo Flores, presidente della Sala di Cassazione Civile, sono lezioni di diritto e di sovranità. Risaltano il ruolo fondamentale del popolo nella difesa delle istituzioni dai molteplici attacchi dispiegati dall’imperialismo nel corso del 2019. Ribadiscono la natura pacifica della democrazia “partecipata e protagonista” del socialismo bolivariano e aprono la strada all’intervento del presidente della Repubblica, Nicolas Maduro. “Una democrazia senza il popolo, è una farsa, è la democrazia delle élite, la democrazia borghese”, dice Maduro, risaltando l’importanza della dialettica fra poteri contemplata nella costituzione bolivariana, e respingendo il grottesco teatrino dell’”autoproclamato” dagli Usa, Juan Guaidó. Quindi, pur lodando il forte slancio intrapreso dal proceso bolivariano per uscire dall’angolo, per reagire alla guerra economica con uno sforzo rinnovato nella produzione nazionale, il presidente aggiunge una denuncia e un’autocritica: “Sono andato al quartiere del 23 enero, c’erano più buche che a Bagdad - dice -. Dobbiamo ammettere che certi problemi non sono dovuti al blocco di Trump, ma a noi stessi”. Lotta, dunque, all’incuria, all’abbandono e, soprattutto, alla corruzione. L’ottimo lavoro del Procuratore generale della Repubblica, Tareck William Saab - dice ancora Maduro - non basta. Occorre “una rivoluzione nel campo giuridico”. Perciò, chiede all’Anc di assumere il tema in tutta la sua importanza, nominando una “commissione del più alto livello”, presieduta dalla vicepresidenta esecutiva, Delcy Rodriguez. Una decisione importante, perché le denunce sui ritardi e la compravendita dei processi sono un problema molto sentito dalla popolazione, dentro e fuori le carceri. Quello in corso - assicura Maduro - sarà l’anno della ripresa in tutti i campi. Un anno in cui si svolgeranno le elezioni parlamentari, a cui le forze in campo si preparano secondo i reciproci interessi e interlocutori. La destra, divisa e rancorosa, teme per la propria rendita di posizione. Lo stato di “ribellione”, che ha messo il parlamento a maggioranza di opposizione fuori dalla legalità costituzionale, si è trasformato in un lucroso affare per la banda di Guaidó e compari, che ne ha approfittato per incamerare in modo truffaldino i beni del Venezuela all’estero e per intascare, a fini propri o destabilizzanti, i fiumi di dollari erogati dagli Usa per gli “aiuti umanitari”. Uno scandalo eclatante, ammesso dagli stessi Stati Uniti e denunciato anche da quella parte dell’opposizione che ha accettato il dialogo proposto infinite volte da Maduro. Nell’ultima seduta parlamentare, la nuova giunta direttiva, diretta dal deputato di opposizione Luis Parra, ha votato una risoluzione proposta dal blocco chavista per aprire un’inchiesta sulla gigantesca sottrazione di fondi effettuata dall’”autoproclamato”. Una risoluzione approvata all’unanimità. Intanto, il Partito Socialista Unito del Venezuela (il più grande dell’America Latina, con oltre 6 milioni di militanti), ogni fine settimana sta portando avanti una massiccia campagna di tesseramenti che sta già dando risultati eccezionali, e che si propone di raggiungere entro aprile oltre 9 milioni di iscritti. Un processo altamente meccanizzato e rapido, che registra ogni giorno l’altissima presenza di giovani sotto i trent’anni e di donne, asse portante di questa rivoluzione socialista e femminista, che compie ventuno anni. Per il Venezuela bolivariano, il mese in corso è definito il “febbraio ribelle”, durante il quale si ricordano date importanti che hanno preceduto e segnato il cammino di questo laboratorio del secolo 21, che si pone in continuità ideale e prospettica con la storia del movimento operaio e contadino: la rivolta popolare del Caracazo, “il primo grido contro il neoliberismo”, del 27 febbraio 1989; la ribellione di Hugo Chavez, il 4 febbraio del 1992, avvio dell’unione civico-militare, spina dorsale del socialismo bolivariano. Nell’ultima seduta dell’Anc, Diosdado Cabello, che in quella ribellione ha avuto parte attiva, ha presentato un’importante proposta che segnerà il prossimo corso della Repubblica, illustrata da Euclides Aponte e da Francisco Ameliach : quella di una nuova dottrina militare per includere la milizia nella Forza Armata Nazionale Bolivariana e rafforzare così il concetto di difesa integrale della nazione, basata sul principio di corresponsabilità tra popolo e forza armata, e contemplato nella costituzione. Visto da qui, il giro internazionale compiuto dall’autoproclamato “presidente a interim” del Venezuela Juan Guaidó e celebrato dai media europei, appare come una gigantesca pantomima virtuale, una grande operazione di “distrazione di massa” a uso e consumo dei poteri forti, e a spese dei contribuenti. Coprendosi nuovamente di ridicolo, il presidente colombiano, Ivan Duque, si era spinto fino a chiedere a Guaidó - che, ovviamente non possiede alcuna legittimità costituzionale - l’estradizione della ex senatrice colombiana Aida Merlano, ricercata per traffico di voti. Nel discorso pronunciato davanti al Tsj, Maduro ne aveva annunciato la cattura e aveva invitato “tutte le istituzioni colombiane che lo desiderano a venire a raccogliere le sue dichiarazioni”, aggiungendo che “saranno benvenuti anche tutti i giornalisti che vorranno intervistarla”, e ai quali verranno offerte tutte le garanzie: a differenza della Colombia, che ogni giorno registra l’assassinio di una o un dirigente popolare, il Venezuela rispetta i diritti umani, a partire da quelli basici. Per questo, una campagna internazionale sulle reti sociali ha denunciato la pretesa della destra di inviare in Venezuela una “commissione per i diritti umani” patrocinata dall’OSA di Almagro, che il governo bolivariano ha rispedito al mittente. Per tutta la giornata del 2 febbraio, il Conaicop ha respinto la manovra con l’etichetta #OeaTraidoraDeSuramerica. “Noi - ha affermato Diosdado Cabello - possediamo un’arma potente e invincibile, l’arma della dignità”.